Santa Maria Capua Vetere: l’indignazione non basta di Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Ristretti Orizzonti, 3 luglio 2021 I pestaggi, le violenze inaccettabili ai danni delle persone detenute presso l’Istituto di Santa Maria Capua Vetere che - ora - tutti abbiamo potuto vedere nella loro brutalità e crudezza ci devono indurre alla riflessione e ci dovremmo tutti interrogare - come cittadini - su quelle che sono le reali condizioni del mondo della realtà delle carceri senza pregiudizi e senza la presunzione di conoscere una realtà che fa comodo relegare dietro a mura che tutto anestetizzano. Fa quasi sorridere, ma è un riso amaro, vedere ora l’indignazione di certe persone e Istituzioni, quando segnali evidenti di una stortura del sistema erano già leggibili, ma le immagini non lasciano scampo. Ingiusto attribuire al Corpo della Polizia Penitenziaria nel suo complesso una vergogna che non può essere ad esso interamente attribuita; lo sappiamo bene come volontari penitenziari che con il nostro ingresso in carcere, con la realizzazione di molti percorsi di ricostruzioni di vite ai margini, ci troviamo a condividere esperienze e difficoltà anche con gli agenti della polizia penitenziari. Agenti di polizia penitenziaria, persone, che spesso si trovano ad affrontare la sofferenza di chi vive recluso, l’indifferenza delle Istituzioni che si riflette anche in una indecorosa carenza di organico e di risorse economiche rispetto al delicatissimo fine cui l’esecuzione della pena è destinato. La presenza della società civile in carcere oggi più che mai è necessaria, anche per vigilare là dove i diritti sono calpestati. La pandemia forzatamente ha separato due mondi, ci ha isolati, ha interrotto prassi e collaborazioni. È fondamentale riprendere a lavorare, progettare insieme, unire gli sforzi di identità diverse per lo scopo unico di riavvicinare carcere e società. La cultura del separare, punire, allontanare, non funzionerà mai; immaginiamo quindi una cultura diversa e coraggiosa, che non tema di giudicare il carcere spesso inutile, obsoleto, lesivo. Non serve arrivare alle aberrazioni a cui abbiamo assistito, che sono il risvolto malato e violento della cultura dell’isolamento, per pensare di prevenire e agire nell’ascolto e nel dialogo, includendo le persone detenute nei modelli di ri-accoglienza di cui tutti sentiamo forte il bisogno, oggi più di ieri. Direzione Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Appello. “Indignarsi non basta, serve una riforma dell’Ordinamento penitenziario” Il Domani, 3 luglio 2021 Bisogna riformare il sistema nel solco tracciato dai lavori della Commissione Giostra e dai più recenti approdi della giurisprudenza costituzionale. Al contempo urge un’azione perentoria tesa ad estirpare quella subcultura autoritaria che si annida in una parte del paese e delle sue Istituzioni democratiche. Umanità della pena. Rieducazione del reo. Dignità della persona come diritto primario di chiunque; perciò, anche dei rei. Questo l’art. 27 della Costituzione. Un mantra nella sua granitica sintesi lessicale. Comprensibile a tutti. Un principio culturale prim’ancora che giuridico. Un patrimonio di inestimabile valore per le coscienze civili del nostro Paese. A presidio di ciascuno di noi. Ma soprattutto un monito a quei poteri iniqui ed incivili che in modo bulimico si nutrono di cannibali prevaricazioni per una propria autoconservazione. Un monito a che non si possano “in nome dello Stato”, della “Ragion di Stato”, peggio ancora “in nome del popolo italiano” (quindi in nome di ciascuno di noi), consumare nefandezze da parte di chi quelle Istituzioni rappresenta. Oggi - ancora una volta - l’evidenza della sua cinica, miserrima, negazione. In un video, di 6 minuti ed 11 secondi, reso pubblico da Domani. Un documento brutale, non equivoco. Un video che nel mostrare lo scempio di una delle fondamenta costituzionali del nostro ordinamento, annichilisce quello in cui ancora crediamo. Un video che ha fatto evadere, oltre le mura di quella prigione, la realtà di quanto accaduto, consentendo a chi altrimenti mai avrebbe potuto anche solo immaginarli di essere informato. Gli addetti ai lavori lo sanno bene. La presunzione di non colpevolezza in questo caso può unicamente valere con riferimento alla certa identificazione degli autori di questo scempio. Ma quel che soprattutto conta - che tracima nella sua essenza ripugnante “oltre” le singole responsabilità penali - è molto altro. Basta guardarlo quel video, per intero, cercando di allontanare quell’istintivo quanto reattivo nauseabondo voltastomaco. Scostando per 6 minuti e 11 secondi quel senso di comune vergogna nell’esser quelle immagini, ormai dentro la nostra memoria sociale e individuale, prova di quello che è accaduto in una delle nostre prigioni italiane. A Santa Maria Capua Vetere. Quel carcere su cui l’allora Guardasigilli Bonafede, all’epoca di questi fatti, aveva calato, con l’indecente imperio di un dolo omissivo, la scure della censura informativa per evitare che trapelasse quanto realmente accaduto. Quanto oggi realmente dimostrato anche e soprattutto in quel video. Quel che rimane e che va riconosciuto, senza alibi o reticenti ipocrisie, è il numero di rappresentanti dello Stato che pestano, umiliano, sottomettono, calpestano la dignità dei detenuti. In una sorta di rituale tribale. Un numero di picchiatori in divisa (ne si contano decine attivamente impegnati) che si smascherano - e ciò è nelle cose - identificati dal comune denominatore di una subcultura repressiva e autoritaria che vede il carcere non come un luogo di rieducazione ma come un luogo di violenta (ritorsiva e perciò retributiva) afflizione punitiva. Una subcultura della pena di matrice reazionaria, medievale, diffusa molto più di quel che si vuole ammettere e che, in questo caso (ma non è l’unico), si è slatentizzata con insopportabile e ripugnante violenza. Ancor più immondo - nel suo sprezzante senso di impunità - ove si constati come tutti i picchiatori in divisa, pur sapendo di essere videoregistrati, non abbiano avuto alcuna remora nel partecipare - da protagonisti - all’indegno spettacolo. Nessuna remora. Né giuridica, né deontologica, né etica, anche solo compassionevole. Serve una riforma del carcere - Indignarsi non è più sufficiente. Nessuno spazio residua per millantare negazionismi. Quella subcultura va smascherata, va riconosciuta. Perché esiste e continua a riprodursi anche nelle nostre Istituzioni repubblicane. In ogni settore. Questa subcultura va contrastata. Non solo nelle aule penali ma soprattutto - per impedire altri ennesimi scempi - in via preventiva sul terreno delle coscienze individuali e quindi collettive. Così, vanno individuati quei falsi profeti che con dolo commissivo, molto spesso in modo strumentale per finalità anche ulteriori, di questa subcultura fanno manifesto propalando un’ideologia del nemico (un’ideologia del reietto) che ha già intossicato la società stessa. La realtà delle nostre carceri è molto lontana da quel che la Carta Costituzionale impone. Ancora troppo spesso le nostre prigioni rimangono una forra invisibile di umanità dolente in cui “si resta passando”, in cui prevaricazioni e oblio altro non sono che lancette di un orologio che scandisce un tempo “fermo”, denso di privazione. Nonostante l’impegno di tutti coloro che, realtà autenticamente sana del Paese, impegnano risorse ed energie quotidiane per contrastare questa condizione incivile. Ma quel che lascia addosso questa ennesima vicenda va oltre. Ed è su questo che si impone una riflessione urgente, impietosa, non più procrastinabile, scevra da contaminazioni politiche perché i diritti fondamentali della persona nessun colore politico hanno. Né sono negoziabili come merce di scambio per la ricerca del consenso. L’appello è rivolto a coloro che si ritrovano nella comune cultura costituzionale della pena. È necessario intervenire in modo coordinato, serio, efficace. Urge una riforma organica dell’Ordinamento penitenziario, quantomeno nel solco tracciato dai lavori della Commissione Giostra e dai più recenti approdi della Giurisprudenza costituzionale. Al contempo, nelle more, urge un’azione perentoria tesa ad estirpare quella subcultura autoritaria che si annida in una parte del Paese e delle sue Istituzioni democratiche. In primo luogo, azzerando la censura di Stato che ancora oggi impera rispetto a quel che realmente accade dentro le mura delle nostre prigioni. Un’azione in grado di ridare dignità ai detenuti ed alla Costituzione stessa, ripristinando con fermezza la legalità in tutte quelle strutture penitenziarie in cui i sintomi acuti di quella subcultura si sono già palesati. Imponendo ai detenuti dolore, sofferenza. (De)generando, con esiziale diretta causalità, presupposti recidivanti. L’appello - Governo, Parlamento, Avvocati, Magistrati, Garante dei detenuti, corpi intermedi, società civile. Tutti siamo chiamati a questo impegno immediato. Un imperativo categorico rispetto al quale nessuno è escluso. E per chi ancora (in modo cieco e miope) avesse dubbi, il suggerimento non è solo quello di riguardare attentamente quel video. Per guardare la sofferenza di quelle persone pestate e umiliate. Per osservare l’azione indegna dei picchiatori di Stato. Il suggerimento è quello di immaginarsi l’audio. Altrimenti assente; perché il video nel suo orrore è muto. Il suggerimento è quello di “sentire” quei 6 minuti e 11 secondi (sapendo che l’azione complessiva è durata molto di più), uscendo da quell’assordante silenzio, dando voce alle urla di sofferenza, alle richieste di pietà soverchiate e prevaricate dalle grida in divisa di incitamento ed eccitazione a proseguire nell’indegno pestaggio punitivo. Sottoscrivono: Andrea de Bertolini, Michele Passione, Maria Brucale, Alessandro De Federicis, Stefania Amato, Giuliana Falaguerra, Antonella Calcaterra, Annamaria Alborghetti, Alessandro Ricci, Daniele Caprara, Aurora Matteucci, Gigi Bezzi, Monica Moschioni, Gianpaolo Ronsisvalle, Andrea Niccolai I Garanti dei detenuti: “Nelle carceri si torni presto alla normalità” redattoresociale.it, 3 luglio 2021 La ripartenza dei colloqui annunciata dalla ministra Cartabia e i fatti di Santa Maria Capua Vetere al centro del dibattito in seno alla Conferenza dei Garanti territoriali, assieme ai temi delle Rems e delle Case famiglia protette. Chiesto un incontro con il Dap e con la Conferenza delle Regioni. La Conferenza dei Garanti territoriali si è riunita oggi in modalità telematica per fare il punto sul ritorno alla normalità nelle carceri italiane, alla luce delle importanti dichiarazioni della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che ha recentemente preannunciato la ripresa dei colloqui in presenza, a seguito del parere favorevole del Comitato tecnico scientifico (Cts) per l’emergenza epidemiologica. “Nel dibattito si è imposto lo sviluppo della vicenda di Santa Maria Capua Vetere - afferma una nota della Conferenza -, oggetto di un documento, diffuso nei giorni scorsi, con il quale la Conferenza dei Garanti territoriali ha espresso profondo turbamento e grande preoccupazione, per i gravi episodi di violenza ai danni delle persone detenute che hanno portato a 52 misure cautelari nei confronti di agenti della Polizia penitenziaria e di qualche dirigente individuati dalla Procura come possibili responsabili”. Particolare apprezzamento è stato espresso per le parole nette da parte della ministra Cartabia la quale, secondo il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali, Stefano Anastasìa, “ha trovato il tono giusto e ha dato la risposta che la società civile e migliaia di operatori e poliziotti penitenziari aspettavano: quello che si è consumato nel carcere casertano è stato un tradimento della Costituzione e dell’alta funzione assegnata alla Polizia penitenziaria”. La Conferenza dei Garanti territoriali chiederà un incontro con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e con la Conferenza delle Regioni. Su tutto i nodi relativi alla ripartenza delle attività, dei colloqui in presenza, degli accessi degli esterni, in vista del completamento della campagna vaccinale. Ulteriori temi d’interesse per la Conferenza sono le questioni poste dalla Corte costituzionale in materia di Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) e il finanziamento ministeriale per le case famiglia protette, per fare uscire dal carcere i bambini con le loro madri. Punire o salvare: il dilemma della giustizia di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 3 luglio 2021 Sono due concezioni diverse che, tuttavia, non si escludono. La prima guarda al passato delittuoso e ha a che fare con il diritto, la seconda guarda a un futuro virtuoso e ha a che fare con la morale. In che consiste la giustizia? Siamo in un tempo in cui, anche alla stregua di qualche esperienza e cultura che vengono da altri Paesi e da altre situazioni, si riflette su quella che viene vista talora come un’alternativa: punizione o riconciliazione? Grande domanda. Sono due concezioni diverse che, tuttavia, non si escludono. La prima guarda al passato delittuoso e ha a che fare con il diritto; la seconda guarda a un futuro virtuoso e ha a che fare con la morale. Diritto e morale non sono indipendenti ma hanno distinte motivazioni e stanno su piani diversi. Nelle discussioni odierne, sembra invece che pena e riconciliazione stiano su una stessa linea di sviluppo e che la seconda sia superiore alla prima: la punizione evoca l’idea della ritorsione, della crudeltà, se non anche della vendetta; la riconciliazione, invece, fa pensare a sentimenti elevati, come la solidarietà, la fraternità, la benevolenza, la compassione. In breve, è vero che il progresso civile debba muoversi verso la sostituzione della pena con la riconciliazione? È davvero sempre così? Andiamoci cauti. La riconciliazione, infatti, può essere una nobile aspirazione, ma anche una melliflua e, alla fine, disgustosa tentazione. Anche le squisitezze possono contenere veleno. Consideriamo un caso-limite: Al Reichsführer-SS Heinrich Himmler (suicidatosi al momento della cattura) e al capo del Deutsche Arbeitsfront Robert Ley (suicidatosi a Norimberga), due sinistri figuri della Shoah, sarebbe piaciuto che si creasse un “comitato di riconciliazione” costituito da nazisti responsabili dei massacri e da ebrei sopravvissuti. Adolf Eichmann aveva a sua volta condiviso questa idea insolente e repulsiva. Probabilmente coloro ai quali essa era venuta in mente si compiacevano con se stessi per la propria delicatezza, per la propria “grandezza d’animo”. Noi rimaniamo sbalorditi. Ci sembra un’oscenità. Altro che giustizia. Se ci chiediamo il perché di questa ripugnanza, forse saremmo d’accordo nel riconoscere che la riconciliazione deve essere cosa impegnativa, molto difficile e non senza limiti e condizioni. Soprattutto, non deve degenerare in perdonismo senza dignità. Una società in cui non si tenesse fermo il confine tra il diritto ch’essa stessa ha sancito con le sue leggi e il crimine di chi si è posto fuori o contro, una società in cui si sia disposti a riconciliarsi con superficialità con tutto e con tutti, perderebbe definitivamente il suo onore e la rispettabilità verso se stessa. Una tale società non sarebbe un luogo di delizie, ma una cloaca. Questo è chiaro. A sua volta, un criminale che pretendesse la riconciliazione semplicemente ammettendo i propri sbagli e se ne scusasse senza trarne le conseguenze, quand’anche fosse in perfetta buona fede e le vittime gli concedessero il perdono (qualunque cosa ciò possa significare) perderebbe anch’esso il suo onore con un pentimento che non costa nulla. In altre parole, la riconciliazione non è solo questione di buoni sentimenti. Si può andare oltre: i criminali che aspirano alla riconciliazione hanno l’onere di sottoporsi alla pena che hanno meritato secondo la legge. La devono richiedere. Si devono “costituire”. Solo poi si parlerà di riconciliazione. Può sembrare assurdo che si parli della pena come d’una pretesa del criminale. Invece assurdo non è affatto se si tratta di riallacciare rapporti spezzati, quando volontariamente e coscientemente se ne si è distaccati con il delitto. Il criminale che è sottoposto o si sottopone alla pena, in un certo senso lo si “onora” perché lo si considera quale essere capace di responsabilità per le proprie azioni e quindi come essere capace, sì, di delinquere, ma anche di ripudiare il delitto e di ristabilire i rapporti spezzati. Questo giungono a dire, seguendo percorsi diversi, Georg W. F. Hegel, Immanuel Kant e Simone Weil. Su questo punto convergono tre figure di “riconciliati” offerte dalla grande letteratura: fra’ Cristoforo, nel IV capitolo di I Promessi sposi, lo starec Zosima e “il visitatore misterioso”, nel Libro VI della II Parte di I fratelli Karamazov. Si dirà: ma come si può parlare della pena come di pretesa del criminale? Non è forse generale esperienza che chi coscientemente e volontariamente viola la legge spera di farla franca, e, se non gli riesce, cercherà di sottrarsi all’esecuzione della pena con i mezzi di cui dispone? Questo è vero, ma solo per coloro che, della riconciliazione, non sanno che farsene. Chi, invece, questo esito ha davvero a cuore comprende facilmente ch’esso non può esistere gratuitamente, cioè senza l’essersi caricati del peso del delitto commesso. Come potrebbero essere credibili coloro che invocano riconciliazione ma invocano impunità e fuggono dalle loro responsabilità o ne prendono le distanze degradando ambiguamente i propri delitti a semplici “errori” che tali non sarebbero stati in altre circostanze storiche, come accade in molti casi di terroristi “confessi” e “pentiti”? Confessioni e pentimenti appartengono alla morale e bene possono manifestarsi, crescere e intrecciarsi in un dialogo orizzontale tra criminali ravveduti e vittime generose, nello spirito di mutua comprensione, per quanto difficile esso sia. Bene può lo Stato promuoverli e sostenerli, nella prospettiva della pena che, secondo la Costituzione, “deve tendere alla rieducazione”. “Rieducazione”, però, è mala parola che fa pensare ai regimi totalitari che conoscono i trattamenti fisici e psicologici per piegare la personalità dei dissidenti e omologarla a un’etica di Stato. Sarebbe buona cosa sostituirla con “riconciliazione”: la pena deve esistere ma non è chiusa allo sviluppo della socialità. Ma la pena ha le sue ragioni anche quando si vogliano innescare processi riconciliativi. Chi legge queste parole non può fare a meno di pensare agli abusi che si verificano nelle nostre carceri e in altri luoghi deputati a gestire tal “monopolio della violenza” che costituisce l’essenza dello Stato moderno e che lo Stato di diritto non è riuscito a sconfiggere del tutto. Violenza e riconciliazione sono agli antipodi. Al disgusto, si accompagni anche la riflessione sulle condizioni e sul modo di auto-rappresentarsi di coloro che vivono e operano in quei luoghi. Senza di che, parlare della funzione riconciliativa della pena è da filistei. Davvero la questione carceraria urget nos al pari di tante altre di cui si parla di più. Manconi: “Santa Maria C.V.? L’orrenda normalità delle carceri italiane” di Lorenzo Maria Alvaro Vita, 3 luglio 2021 “Nel febbraio scorso il tribunale di Firenze ha condannato, in primo grado, 10 poliziotti penitenziari per atti di tortura nei confronti di detenuti”, sottolinea il professore, fondatore e presidente di “A Buon Diritto”, “Tra luglio 2019 e quel 6 aprile a Santa Maria C.V. si sono registrate 9 indagini della magistratura su altrettante vicende di violenze e maltrattamenti avvenuti in carcere. In nove mesi nove indagini. È sostanziale che si superi l’idea che l’unica forma di pena attuabile e immaginabile sia la cella chiusa”. Il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, si sono verificate violenze condotte dagli agenti di polizia penitenziaria della struttura ed esterni contro 300 persone detenute. Il movente sarebbe punitivo: all’inizio di aprile del 2020, in alcune sezioni del penitenziario infatti ci furono proteste e manifestazioni da parte dei carcerati, che chiedevano la possibilità di avere mascherine e igienizzanti per le mani per ridurre il rischio di diffusione del coronavirus nella struttura e contestavano la sospensione delle visite. Proteste che si sono intensificate fino al 5 aprile. I pestaggi sono stati ripresi dalle telecamere interne del Carcere e la diffusione dei video ha scatenato una enorme polemica perché hanno mostrato in modo inequivocabile che si è trattato di violenza condotta su persone che non avevano modo e possibilità di difendersi. I pestaggi sono stati ripresi dalle telecamere interne del Carcere e la diffusione dei video ha scatenato una enorme polemica perché hanno mostrato in modo inequivocabile che si è trattato di violenza condotta su persone che non avevano modo e possibilità di difendersi. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha chiesto “un rapporto completo su ogni passaggio di informazione e sull’intera catena di responsabilità” e ha definito l’accaduto “un tradimento della Costituzione”. Dal punto di vista giudiziario saranno tutti sospesi i 52 agenti della Polizia Penitenziaria coinvolti nell’”orribile mattanza”, come l’ha definita il gip, la cui posizione si aggrava perché le immagini documentano le violenze inflitte ad un 27enne detenuto algerino affetto da schizofrenia trovato morto in cella il 4 maggio 2020. Nel commentare la vicenda Luigi Manconi, fondatore e presidente di “A Buon Diritto” ha detto che “il carcere è un sistema fondato sulla violenza”. Lo abbiamo intervistato. L’iniziativa dei 300 tra agenti di polizia penitenziaria del carcere ed esterni è stata definita “perquisizioni personali arbitrarie e abusi di autorità”. Il tutto è stato condotto con caschi e il volto coperto per non farsi riconoscere. A cosa siamo di fronte? A quella che è una vera e propria spedizione punitiva che è stata prevista con l’intento dichiarato di voler riportare l’ordine dopo un’azione di protesta. In realtà la cosa è molto semplice: all’interno del carcere vige un potere che l’azione dei detenuti aveva in qualche modo messo in discussione. Dunque andava ripristinato quel potere e ciò, nella modalità di chi ha voluto e condotto quell’azione, poteva avvenire solo attraverso la repressione violenta di quei corpi che si erano ribellati. I fatti risalgono a quando era ministro della giustizia Alfonso Bonafede (M5S), che in Parlamento commentò quelle proteste, che accomunavano molte altre carceri oltre a quella di Santa Maria C.V., dicendo: “Le rivolte in carcere sono atti criminali di minoranza, lo Stato non indietreggia”. Circa Santa Maria C.V. il sottosegretario 5 Stelle, Vittorio Ferraresi, dirà che “quella di Santa Maria è stata una doverosa operazione di ripristino della legalità”... Questo è uno degli aspetti più inquietanti sui quali va indagato. Perché il ministro della Giustizia è stato indotto a mentire davanti al Parlamento. Ha cioè, attraverso il suo sottosegretario, letto un testo palesemente scritto da responsabili del Dap che hanno mentito sapendo di mentire, dal momento che siamo nell’ottobre del 2020, i fatti risalivano ai primi di aprile e già a giugno c’erano stati i primi atti dell’autorità giudiziaria. Parlo delle perquisizioni ai poliziotti, l’acquisizione delle chat e l’apertura formale dell’indagine. Quindi quell’atto parlamentare, l’interrogazione di Riccardo Magi e la risposta del ministero, è il fatto più grave dell’intera vicenda e va puntualmente ricostruito. Serve capire chi ha scritto il testo che è stato letto in aula. Lo stesso ex Ministro spostò poi ad altri penitenziari della Campania 70 dei detenuti vittime di pestaggi. Ad oggi non ha rilasciato alcuna dichiarazione... Non c’è dubbio. Uno dei fatti più gravi che si possano attribuire a un ministro è mentire in aula. Bonafede ha mentito. È di una gravità inaudita. Le rivolte dovute alle misure anti Covid hanno coinvolto 21 carceri italiane e hanno causato 13 vittime e più di 200 feriti. Ministero e Dap a suo avviso che responsabilità hanno? Devo correggerla. Ci sono quelle 13 morti che sono avvenute nel carcere di Modena ma a cui vanno aggiunte un decesso a Bologna e tre o quattro a Rieti. Stiamo parlando di detenuti che sono andati in overdose dopo aver ingerito fiale di metadone e sono rimasti ore e ore senza ricevere adeguati soccorsi. Su queste morti ci sono stati atti giudiziari e una prima archiviazione per circa 8 casi. Ma se anche fosse vero che la morte di queste persone derivi interamente dalla loro responsabilità per aver ingerito sostanze, bisogna ricordare che a queste persone non doveva essere consentito di approvvigionarsi autonomamente dalla infermeria di sostanze pericolose e che quando questo dovesse avvenire non è pensabile che non vengano prontamente e adeguatamente curati. Il ministro titolare della Giustizia oggi è Marta Cartabia, che sta lavorando anche con l’apertura di alcune commissioni di esperti, alla riforma della giustizia. C’è discontinuità rispetto ai governi precedenti? Indubbiamente. Già solo le parole della ministra di ieri sono state un fatto di inequivocabile discontinuità. Non si è limitata a dire le solite frasi di rito come “la magistratura deve perseguire eventuali reati” o “promuoverò un’inchiesta interna”. Ha definito quelle azioni come devono essere definite. Questo rappresenta già una discontinuità netta con la gestione precedente. Io ho una grande fiducia nella ministra Cartabia, e non è una fiducia astratta, perché ha sempre detto e fatto cose sagge. So che anche in questo caso procederà come richiesto da una situazione che è drammatica. Adriano Sofri commentando i fatti ha scritto su Il Foglio, riferendosi agli agenti di polizia penitenziaria accusati delle violenze, “è grottesco additarli come mele marce: non si è trovata una mela sana fra loro. È ridicolo, e vile, immaginarli cattivi. Vuol dire non aver capito niente della storia, delle brave persone, degli uomini ordinari che diventano a gara fra loro carnefici obbedienti e volenterosi”. Ha ragione? Certamente. Per due motivi. Innanzitutto questa immagine delle mele marce è una sciocchezza assoluta dal punto di vista ortofrutticolo. Se lei ha delle mele marce e le lascia con quelle sane in uno stesso cesto, inevitabilmente marciranno tutte. Quindi questa immagine che viene usata tutte le volte è di una insensatezza totale. La seconda questione che pone Sofri è che è ovvio che la responsabilità penale è personale. Ma è altrettanto evidente che il carcere è un sistema fondato sulla violenza. Un sistema dove l’educazione, l’esperienza, la professione, tutto ruota intorno a quella che è la prima mansione del poliziotto penitenziario, che è quella di custodire. Custodire comporta l’esercizio di una forma di violenza per privare della libertà altri essere umani. È in questo rapporto di coercizione che caratterizza la relazione tra custode e custodito che si sviluppa la tensione che in determinate circostanze diventa violenza. In effetti a guardare le immagini si nota come si tratti di agenti “normali”, uomini di mezza età e pesanti di corporatura. È questa oggi la normalità del carcere? Ma sono persone normali. Più che del carcere questa è la normalità della violenza che non è esclusiva facoltà di una parte degli esseri umani. La violenza è connaturata all’essere umano. Quando vi sono determinate circostanze l’aggressività latente esplode. Il carcere è un contesto che favorisce questa esplosione. Un’altra notizia di queste ore che sta passando inosservata è la condanna per i Carabinieri del gruppo della stazione Levante, caserma di Piacenza, che venne chiusa dopo che emersero spaccio di droga e tortura. Un altro luogo dello Stato e simbolo di legalità profanato da condotte inaccettabili. Cosa sta succedendo? Nulla di particolare. Queste sono sedi di istituzioni dello Stato particolari, quelle titolari del monopolio legittimo della forza. Il monopolio legittimo della forza è un potere immenso e delicatissimo. Se non ci sono adeguati controlli, un processo di formazione intelligente e un processo di democratizzazione l’uso legittimo della forza tende a diventare abuso. Il problema è tutto qui. Tutte le istituzioni di questa natura possono degenerare. Spetta alla politica impedire che questo accada con un controllo assiduo. In questi giorni lei ha sottolineato come nel febbraio scorso il tribunale di Firenze ha condannato, in primo grado, 10 poliziotti penitenziari per atti di tortura nei confronti di detenuti. E ricordo un dato impressionante: tra luglio 2019 e quel 6 aprile del 2020 a Santa Maria C.V. si sono registrate 9 indagini della magistratura su altrettante vicende di violenze e maltrattamenti. Come se ne esce? Bisogna avere due forme di coraggio e di fantasia. Bisogna ribaltare l’idea di carcere. Cioè non può ancora dominare la concezione che l’unica forma di pena attuabile e immaginabile sia la cella chiusa. La cella chiusa come pena per tutti i reati, le trasgressioni e le condotte devianti. Il carcere deve essere extrema ratio usata esclusivamente per le persone socialmente pericolose, che secondo la stessa amministrazione penitenziaria sono il 10% della popolazione carceraria. Ridurre il ricorso al carcere al minimo e far sì che il carcere sia attraversato dagli sguardi dei cittadini, dal controllo della politica, dalla presenza di coloro che non sono detenuti né lavoratori penitenziali ma che debbano considerare il carcere come parte della nostra società. Dove non ci sono persone diverse da noi ma persone uguali a noi che a differenza di noi non hanno resistito alla tentazione di delinquere. Ma che quella tentazione noi stessi la conosciamo e il fatto che non vi abbiamo ceduto non fa di noi i buoni ma i precariamente buoni. Si può fare con una riforma? Certo. Bisogna riformare il carcere da cima a fondo. Nelle carceri il 30% delle persone recluse è in attesa di condanna definitiva, e questo è incivile. Il numero dei tossicodipendenti è elevatissimo, e questo è incivile. La riforma del carcere deve essere radicale. È un problema che non si risolve con piccoli provvedimenti. Ci sono decine di migliaia di detenuti che potrebbero scontare la pena in modo diverso, aspettare il processo fuori dal carcere; e una volta condannati potrebbero espiare con modalità alternative. Come dicevo è incivile che la cella sia l’unica forma di pena non solo applicata ma addirittura pensata. In Italia c’è una mentalità regressiva, arretrata. Adesso nelle proposte di riforma del ministro Cartabia c’è un più ampio ricorso alla pena pecuniaria, questo è giusto. Qualunque sanzione diversa dalla cella chiusa va sperimentata. Quei pestaggi che colpiscono solo gli ultimi delle carceri di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 3 luglio 2021 Premesso che chi è garantista lo è con tutti quindi anche con gli agenti della polizia penitenziaria che si sarebbero macchiati di reati gravissimi oltre che di codardia e viltà. Sarà il processo a stabilire le responsabilità che, comunque, non possono che essere individuali e che non devono lambire i moltissimi agenti di custodia che svolgono il loro lavoro con correttezza. Ciò detto, sarei curioso di sapere quanti sono i capi della ‘ndrangheta o della mafia picchiati nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere o nelle altre carceri italiane dopo le “rivolte” della primavera dello scorso anno. Tra i morti non ce ne sono. Da quanto letto sui giornali mi sembra che neanche tra i feriti o tra coloro che hanno fatto querela. Quindi si può concludere che tra quanti sono stati selvaggiamente picchiati non ci sono capi mafia. Non è una novità. Nella Locride anche le pietre sanno che per decenni le autorità preposte hanno affidato “l’ordine” in carcere al “boss dei boss” Ntoni Macrì. Del resto non credo - e giustamente che nessuno agente, neanche mascherato, si sia azzardato ad alzare le mani su Riina o Provenzano durante la lunga detenzione. Ma neanche contro i capi cosca dei De Stefano, dei Tegano, dei Piromalli o Santapaola. Insomma i “picchiatori” in divisa evitano con cura le sezioni di alta sicurezza mentre ricorrono frequentemente ai pestaggi ed alle torture nei bracci in cui si trovano i “comuni” per cui, e per quanto assurdo possa sembrare, il carcere è molto più duro per coloro che vi entrano per reati di poco conto o per i tanti che vi entrano da innocenti piuttosto che per gli uomini delle mafie. Se questa è la realtà bisogna pur trarre alcune conclusioni: Il “potere” tanto più si allontana dalla Costituzione quanto più degenera e diventa arbitrario e violento, fino a trasformare un luogo come il carcere che dovrebbe essere il “sacrario” della giustizia e della legalità in un generatore di potere mafioso. Ed il fatto che i capi mafia deleghino le rivolte ai “comuni” è sintomo inequivocabile che per loro il carcere va bene così com’è perché è la loro “scuola quadri” anzi le “Frattocchie” in cui le mafie selezionano le nuove leve. Le mafie certamente attingono tra le pieghe e le piaghe delle classi subalterne ed emarginate ma sono un fenomeno legato alla degenerazione delle classi dirigenti. Pertanto sarebbe sbagliato chiudere la drammatica vicenda emersa a Santa Maria Capua Vetere come una devianza criminale di poche persone. Se fosse questa sarebbe poca cosa. Purtroppo il fatto che tante persone in divisa si siano comportati come kapò è una dimostrazione che lo Stato, nella sua forma attuale, tende a degenerare ed a degradare verso una gestione del potere arbitraria e violenta. Ed in casi come quello che abbiamo appena esaminato, finge di combattere la mafia ma, in realtà, ne mutua i metodi e i fini. In molte carceri la parola “ordine” non corrisponde alla parola “legge” quantomeno alle leggi che trovano fondamento e coronamento nella Costituzione Italiana. Ed ogni “retata” che come un’onda impazzita porta in carcere un centinaio di innocenti è linfa vitale per le mafie. C’è qualche magistrato che ha scritto milioni di pagine per spiegarci la ‘ ndrangheta facendola risalire ad “osso, mastrosso e carcagnosso” ai Santini di San Michele Arcangelo ed altre simili amenità, dimenticandosi di esaminare il rapporto tra la il potere violento e degenerato dello “Stato” e delle “leggi” e la crescita esponenziale delle mafie, soprattutto nei territori meridionali. Non s’è trattato d’una dimenticanza ma d’una lucida strategia. È chiaro infatti che se le mafie fossero riconducibili semplicemente a uomini che si attardano a bruciare immaginette o a giurare sui “cavalieri spagnoli” sarebbe un problema di poco conto delegabile agli uomini in divisa. Non così se ci trovassimo dinanzi ad una evidente degenerazione dello Stato e delle sue classi dirigenti (Bonafede era il ministro della Giustizia) come i fatti di Santa Maria Capua Vetere dimostrano aldilà di ogni dubbio. In tal caso occorrerebbe) una battaglia ‘ Politica’ di popolo e col popolo per l’attuazione concreta della Costituzione. A partire dalle carceri! “Fermarono i colloqui per non far vedere i segni dei pestaggi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 luglio 2021 Dopo il via libera dell’autorità giudiziaria è arrivata anche la firma all’ l’ispezione nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che partirà nei prossimi giorni. A capo della commissione ispettiva, è stato indicato il direttore generale detenuti e trattamento, Gianfranco De Gesù. Un fatto eccezionale perché solitamente la commissione ispettiva è composta da personale territoriale e un segnale della volontà del Dap di seguire in via diretta a livello centrale le attività ispettive. Il direttore generale riferisce infatti solo ai vertici del Dap. E intanto emergono nuovi particolari raccapriccianti sui pestaggi ai detenuti: “Dobbiamo ancora temporeggiare qualche giorno così non avranno più segni”, è una delle frasi estrapolata da una chat tra agenti, riportata nell’ordinanza del gip nell’ambito dell’inchiesta sulle presunte violenze. Per l’accusa, ai detenuti sarebbe stata negata la possibilità di usufruire di visite e cure mediche dopo la perquisizione straordinaria del 6 aprile 2020. “Si volevano far refertare”, “Non far scendere i detenuti in infermeria è stata una mia decisione”, “Ho dovuto bloccare i colleghi”, “Non abbiamo fatto refertare nessuno”, “Ma è ovvio che non devono farsi refertare”, sono alcune delle dichiarazioni che gli inquirenti avrebbero estrapolato dalle chat intercorse fra gli indagati. Picchiati tutti i detenuti, ma non i camorristi di Roberto Saviano Corriere della Sera, 3 luglio 2021 Solo chi è legato ai clan è stato graziato e il risultato sarà che ora ogni prigioniero, per proteggersi, cercherà di affiliarsi. Chi è che non è stato picchiato tra i detenuti di Santa Maria Capua Vetere? Chi è che non è stato scelto tra i detenuti da punire? La risposta è semplice per chi conosce la vita delle carceri e i suoi rapporti interni di potere, a non essere pestati sono stati i detenuti camorristi e i colletti bianchi della camorra e della politica. Loro non sono stati sfiorati, non sono stati puniti, non sono stati pestati. Ricordate durante la pandemia le prime rivolte in carcere? Erano rivolte che nascevano dalla sospensione delle visite dei familiari e dal crescente timore del contagio in carcere eppure in quelle ore spesso l’opinione imprudente di molti (anche magistrati-opinionisti nei talk) raccontavano fossero rivolte volute dalle organizzazioni criminali per poi negoziarne la pacificazione con le dirigenze, e dalla pacificazione ottenere vantaggi. Non è avvenuto questo. Quali detenuti sono stati picchiati - Le violenze gravissime ci riguardano e il commento facile è un commento cialtrone, è un commento becero, quello secondo cui chi è in carcere non può pretendere di fare la bella vita, che chi è in carcere qualche schiaffo lo deve mettere in conto perché ha fatto di peggio. Il risultato di una lente distorta che spesso si usa per osservare il carcere è che lo Stato ha picchiato i detenuti, i detenuti senza protezione. Piccoli borseggiatori, piccoli spacciatori, immigrati. Basso livello criminale. Rancore e ritorsioni che potevano sfogarsi sull’unica carne che puoi picchiare senza temere ritorsioni. L’unico detenuto pestato con un po’ più di spessore criminale sarebbe Marco Ranieri, di Latina, con una laterale partecipazione alla banda della Magliana. Durante il pestaggio urlavano, secondo quando riportano gli inquirenti: “Ma tu saresti il boss del Lazio? Qui adesso comandiamo noi”, “Tu saresti un capo? Sai quanta gente come te ho vattuto?”. A portata di mano, magari, la possibilità di poter picchiare qualcuno che non sa chi sei, che non sa dove abiti, che puoi pestare senza ritorsione. Eppure la domanda è chiara: perché hanno usato tanta violenza? Paura? “Necessità” di riportare le cose “all’ordine”? Massiccia presenza dei Casalesi - La rivolta dei detenuti, riuniti tutti dentro il parlatorio, preso simbolicamente come luogo di rivolta contro le condizioni che vivevano, mostrava il disagio della direzione e della catena di comando interna al carcere, sostanzialmente mostrava che la direzione non aveva fatto un buon lavoro perché non era riuscita a controllare il carcere. La seconda ragione è che certamente rischiava di mostrare la condizione in cui versano i detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere che è, come nella maggior parte delle carceri italiane, una condizione infernale, inumana, intollerabile in uno stato di diritto, nonostante la politica non se ne faccia carico mai. Ma il carcere di Santa Maria Capua Vetere sconta anche altro. Essendo stato per anni un carcere con una massiccia presenza del clan dei Casalesi, le associazioni a tutela dei diritti dei carcerati, come ad esempio Antigone, venivano tenute lontane dai detenuti perché erano i clan a voler gestire tutto. Progressivamente il quadro è cambiato, e Santa Maria Capua Vetere si è riempito di carcerati non solo mafiosi ma di detenuti comuni. Carcere costruito dalla camorra - E qui vale la pena ricordare un’altra verità sul carcere di Santa Maria Capua Vetere, una verità che pochi ricordano, anche se è una verità ormai assodata da decenni: il carcere di Santa Maria Capua Vetere è stato costruito dalla camorra. Fu costruito dai clan dei Casalesi che fornirono cemento, mezzi e manodopera. Fu proprio il capostipite del gruppo casalese Antonio Bardellino, come ha raccontato il pentito Carmine Schiavone negli anni Novanta, ad aver imposto il cemento del clan e ad aver controllato tutta la filiera. Il carcere venne costruito perché la casa circondariale di Poggioreale, a Napoli, era diventata ingestibile, il sovraffollamento era insopportabile e la situazione resa incandescente dalla guerra tra Nuova Famiglia e Nuova Camorra Organizzata che si scannavano considerando il carcere cosa loro. Così aprirono Santa Maria Capua Vetere nella provincia casertana, e lì il sovraffollamento ci mise poco a raggiungere i livelli di guardia. Il carcere fu dedicato a Francesco Uccella, un generale di brigata della polizia penitenziaria che aveva diretto il carcere di Santa Maria Capua Vetere quando ancora aveva la sua sede nell’ex convento, perché spesso nel Sud gli ex conventi hanno avuto funzione di case circondariali. La situazione delle carceri italiane - Le carceri violente diventano carceri mafiose, la solidarietà data ai poliziotti coinvolti nei video da alcuni politici pronti a qualsiasi atto di propaganda è rischiosa perché danneggia il comportamento corretto delle guardie carcerarie rigorose che pagano un prezzo altissimo per la situazione disastrosa delle carceri italiane, perché sono in pochi a gestire situazioni di degrado e sovraffollamento insostenibili. Non è un caso se in carcere non si suicidano solo detenuti, ma anche molti agenti della polizia penitenziaria. Questo inferno, di cui la politica non si occupa se non per una effimera propaganda, è un inferno per tutte le persone che vi sono coinvolte. Le conseguenze del pestaggio - Ma chiediamoci quale sia il risultato di quel pestaggio. Questo: ogni detenuto sa che deve essere protetto, ogni detenuto da domani cercherà di affiliarsi, si metterà in fila per entrare in un’organizzazione criminale. Da domani borseggiatori diventeranno killer, piccoli spacciatori soldati al servizio dei cartelli, da domani (ma sta accadendo da molto prima della diffusione di queste immagini), chi entra in carcere sa che non lo difenderà il diritto, che non ci sarà possibilità di migliorare o di correggersi, ma che dovrà sperare solo nel potere e nella longa manus delle mafie, le uniche che potranno rendere meno infernale l’inferno. Santa Maria Capua Vetere luogo simbolico - E tutto questo avviene in un luogo simbolico della storia del nostro paese. Santa Maria Capua Vetere è la vecchia Capua, la Capua Antica, quella che Cicerone chiamava “Altera Roma” l’altra Roma, perché era seconda solo alla più grande città del mondo antico. Stiamo parlando di uno dei territori più densi di storia del pianeta. Terra di rivolta, da sempre. Proprio da questo luogo, dall’anfiteatro di Santa Maria Capua Vetere - chi mi legge corra a visitarlo! - è iniziata la rivolta dei gladiatori capeggiata da Spartaco. E proprio in questa terra è accaduta una delle più grandi violazioni dei diritti sanciti dalla Costituzione della storia della Repubblica; in questa terra densa di rancore che non ha una sola statua dedicata a Spartaco, che non ha dedicato nulla, se non una minuscola piazzetta a Enrico Malatesta, tra i più grandi pensatori anarchici che proprio qui nacque. Ha invece in bella mostra la statua di Roberto Bellarmino, che fu inquisitore e vescovo di Capua e tra i responsabili del processo a Giordano Bruno. Bellarmino prese parte al processo nel 1597 (era iniziato nel 1593) e fu tra coloro i quali condannarono al rogo il filosofo dopo aver invano provato a farlo abiurare. “Organi e funzione sono termini inseparabili. Levate ad un organo la sua funzione o l’organo muore o la funzione si ricostituisce [...] Una polizia dove non ci siano delitti da scoprire e delinquenti da arrestare inventerà i delitti e delinquenti o cesserà di esistere”. Un carcere violento moltiplica i crimini - Questo dice Malatesta. Permettere che esista un carcere violento avrà il solo scopo di moltiplicare i crimini, spaccare la schiena ai detenuti in carceri fatiscenti peggiorerà la sicurezza e la vita della comunità. Il carcere oggi è questo: moltiplicatore di crimine. E sapete qual è la notizia peggiore? Che l’indignazione di oggi farà il paio con l’indifferenza di domani. Fino a quando non sarà chiaro che chi commette un reato, che chi viene processato, giudicato e condannato deve avere, nel suo percorso, obbligatoriamente il reinserimento nella società, fino a che questa, che sembra una ovvietà, non diventerà una acquisizione condivisa da tutti, il maggior garante dell’esistenza e della prosperità delle mafie sarà lo Stato e noi saremo i suoi complici. Violenze in cella, lo scandalo si allarga negati i soccorsi ai detenuti picchiati di Antonio E. Piedimonte La Stampa, 3 luglio 2021 Non solo Santa Maria Capua Vetere. Da Modena a Opera, l’appello dei carcerati: “Non archiviate”. “La Campania è solo la punta dell’iceberg”, aveva detto a mezza voce un avvocato appena saputo dell’emissione dei 52 ordini di custodia cautelare nei confronti di agenti e dirigenti della polizia penitenziaria per la “mattanza” di Santa Maria Capua Vetere. E a quasi una settimana dagli arresti, oltre a sconvolgere l’opinione pubblica, l’inchiesta “tsunami” continua a riservare sorprese e sembra aver acceso i riflettori su altri scenari inquietanti. La clamorosa vicenda casertana - per la quale ieri è stata sollecitata la creazione di una Commissione parlamentare d’inchiesta - ha fatto emergere l’esistenza di vecchie indagini apparentemente “dimenticate” e, come riferisce il garante nazionale dei detenuti, sta alimentando nuove denunce in tutta Italia. Il carcere di Santa Maria Capua Vetere nei prossimi giorni sarà oggetto di un’ispezione guidata dal dirigente Gianfranco De Gesu, dallo scorso novembre a capo della “Direzione generale dei detenuti”. Obiettivo: cercare di capire come ha fatto la situazione a degenerare sino a diventare uno scandalo senza precedenti. La rivolta - su cui circola un video che mostra alcuni detenuti brandire oggetti contundenti - seguita dai “malumori” espressi dagli agenti per la linea “morbida” adottata dal comandante Gaetano Manganelli, parole fissate nelle chat e poi finite nei fascicoli della Procura insieme a telefonate, testimonianze e alle immagini delle telecamere. Ma non solo. “Ho dovuto bloccare i colleghi (...) li stavano facendo scendere dal medico. Dobbiamo temporeggiare qualche giorno così, non avranno più segni...”, si legge in una trascrizione finita nell’ordinanza del gip Sergio Enea. Dunque, niente assistenza sanitaria ai detenuti feriti. E mentre il ministro della Giustizia Marta Cartabia annuncia un incontro (mercoledì) con le rappresentanze dell’amministrazione penitenziaria, si alza la voce del deputato di Più Europa radicali Riccardo Magi: “A ottobre feci un’interpellanza al ministro della Giustizia Bonafede ottenendo una risposta abbastanza sconcertante da parte del sottosegretario Vittorio Ferraresi. Si parlava di una “doverosa azione di ripristino della legalità e agibilità”. Sull’altro fronte i sindacati di categoria danno voce agli agenti coinvolti: “C’è amarezza e sensazione di smarrimento. Tutti garantiscono la corretta esecuzione delle misure detentive”, dice Giuseppe Moretti, presidente dell’Uspp, sollecitando una profonda riforma. Niente gogna, è parola d’ordine, ma l’invito a non generalizzare arriva proprio a ridosso della diffusione di ulteriori notizie spiacevoli: sono stati rinviati a giudizio tre agenti e un ispettore accusati di atti di violenza nei confronti di un detenuto nel carcere di Monza nell’agosto del 2019. Ancora più grave il caso del 36enne tunisino Chouchane Hafedh, uno dei 9 detenuti morti nella rivolta del carcere di Modena, per il quale l’avvocato Luca Sebastiani ha annunciato ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo (contro l’archiviazione): “Alla luce dei fatti di Santa Maria Capua Vetere non comprendiamo perché non siano state disposte nuove indagini sui decessi”. E in effetti è ancora da chiarire sino in fondo cosa accadde nel marzo del 2020, quando in una settantina di carceri da Nord a Sud esplose la violenta dei detenuti, innescata dal divieto di colloquio coi familiari (per evitare il contagio da Covid). Il tragico bilancio fu di 13 morti, quattro dei quali registrati durante il trasporto in altri istituti. Quasi tutti giovani e tossicodipendenti che avrebbero ingerito metadone e psicofarmaci saccheggiati dalle infermerie, una spiegazione che non ha mai convinto i familiari e nemmeno quelle Procure che stanno indagando sull’ipotesi di “omicidio colposo” e “morte in conseguenza di altro reato”. A Milano un detenuto si è già opposto all’archiviazione di un fascicolo su un presunto pestaggio subito. Si tratta di un 32enne italiano. A seguito di “un diverbio con un agente”, sarebbe stato “immobilizzato” da lui e altri, “cinque o sei” in tutto, e colpito con “calci e pugni”. La Procura milanese, però, ha deciso di chiedere l’archiviazione del fascicolo. Il difensore fa notare che gli inquirenti “avrebbero dovuto cercare altri riscontri” sentendo il compagno di cella e gli altri detenuti. Per il 30 settembre è fissata udienza davanti al gip che dovrà decidere se archiviare o, come chiede l’avvocato, disporre nuove indagini con le audizioni di testi. Prove false o manomesse, le manovre per fermare i pm. Poi la resa: pagheremo tutti di Conchita Sannino La Repubblica, 3 luglio 2021 Santa Maria Capua Vetere, agli atti il tentativo dei vertici di bloccare l’acquisizione dei video. Il Gip: “Ecco perché tutti sapevano tutto”. E il provveditore Fullone spera: “Noi teniamoci fuori”. “Pagheremo tutti. Chiuderanno Santa Maria”. Quattro parole. Frammenti che sembrano resa e confessione. Espressioni su cui punterà molto l’accusa. Ma un fatto è certo: il gruppo di dirigenti e comandanti aveva messo in campo “ogni sforzo” per ostacolare le indagini sui pestaggi di Santa Maria Capua Vetere. Foto di “strumenti” di minaccia realizzate ad arte nelle celle dei detenuti, per addebitargli intenti aggressivi e giustificare così le violenze di massa. Video manomessi e retrodatati. Relazioni fasulle. Invenzioni di regie criminali perduranti tra esterno e interno del penitenziario. Gli inquirenti sospettano anche che fosse stato progettato un reset dell’intero impianto di sorveglianza: ritardato, per loro sfortuna, da un tecnico esterno forse pigro, e dai tempi lenti delle normative anti-Covid. Una strategia che riguarda soprattutto i vertici, tra uffici del Provveditorato e divise della penitenziaria, all’indomani di quella “spedizione punitiva” avvenuta il 6 aprile del 2020 nel Reparto Nilo della Casa circondariale “Francesco Uccella” che il Gip definisce “orrenda mattanza”. E c’è perfino chi invoca “un intervento politico”. Sono infatti loro, per i pm, i più alti in grado - il provveditore campano all’amministrazione penitenziaria Antonio Fullone, la commissaria del nucleo regionale Francesca Acerra, il comandante del gruppo speciale di Supporto Pasquale Colucci, l’ispettore Michele Sanges, il commissario capo Anna Rita Costanzo, l’ispettore Salvatore Mezzarano - ad aver cercato di ostacolare le indagini e l’accertamento dei maltrattamenti. Ma è con lucida metafora cinematografica che uno degli agenti indagati racconterà agli altri che ormai il disastro è annunciato. “Nonostante lo sforzo, il film va in onda in forma completa”, scrive il 14 aprile 2020, in chat, Angelo Bruno, uno dei poliziotti oggi in carcere. Il messaggio significa: ormai hanno preso tutti i video, siamo incastrati. Poco prima, una delle funzionarie appare avvilita e digita il nome del procuratore aggiunto (di cui è nota la fermezza) che guida: “Prox Milita molto tosto”. L’accusa: “Tutti sapevano” - È il 10 aprile quando al carcere arrivano i carabinieri con le richieste dei pm. “Hanno chiesto di acquisire hard-disk, la vedo nera. Ora bisogna pensare alle conseguenze, il personale già sta fuori di testa, sarà una carneficina …”, scrive il comandante Colucci in chat, mentre si reca al carcere di Santa Maria, “senza alcuna motivazione d’ufficio”. Scrive il Gip: “La preoccupazione di Colucci è comune a tutti i partecipi della chat”, tra i quali spicca il ruolo apicale del provveditore Fullone. “È assolutamente chiaro che tutti quei componenti sapessero delle violenze. Espressioni utilizzate in chat risultano assimilabili a una confessione e in assenza di sorpresa da parte degli altri, era chiaro che tutti, il provveditore Fullone, l’ispettore Sanges, il dirigente aggiunto Acerra sapessero perfettamente. E tutti, essendo pubblici ufficiali o ufficiali di pg, avrebbero dovuto denunciare”. “Pagheremo tutti” - È il 12 aprile, lunedì in Albis, ma per tutti loro è stata Pasqua d’angoscia. Colucci e “soci” commentano il fatto che “i carabinieri hanno sequestrato tutto l’impianto di videosorveglianza e Santa Maria è allo sbando”. Se la prendono con il comandante Manganelli, oggi agli arresti, “perché ha mollato”. Colucci arriva a scrivere: “Il Provveditore dovrebbe fare un intervento di carattere politico”. Poi il dirigente Diglio chiede cosa si veda dai filmati e il comandante scrive, riferendosi al collega Manganelli: “È partito senza accertarsi”, ovvero - traducono gli inquirenti - “senza essersi accertato preliminarmente che le telecamere non funzionassero”. Colucci è perentorio: “Pagheremo tutti, 300 agenti, una decina di funzionari”. E poi va giù senza mezzi termini: “Tutti i funzionari di Santa Maria, io, Perillo, Di Donato. Eravamo tutti presenti, troppe persone coinvolte. Decapiteranno mezza regione (evidentemente: come amministrazione penitenziaria, ndr). Oltre a chiudere Santa Maria Capua Vetere”. Una “sintesi profetica delle responsabilità” che emergeranno, chiosa il giudice. Fullone: Noi teniamoci fuori - È da questa débâcle che il provveditore spera di salvarsi? Sembrerebbe di sì. Quando ormai, dopo aver confezionato false attestazioni secondo cui la videosorveglianza non funzionava, è arrivata la ferale notizia che gli inquirenti non l’hanno bevuta e hanno portato via tutti gli hard disk, il comandante Colucci scrive la famosa frase: “E mo so’ c…i. Mo succede il terremoto”. Fullone replica così: “Tra loro. Noi teniamoci fuori …per quanto possibile”. Basentini: “Dissi sì alla perquisizione. Mai avallate le violenze” di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 3 luglio 2021 L’ex capo del Dap: “È pura follia dire che sapessi quello che era avvenuto a Santa Maria Capua Vetere. Sono stato io a consegnare le chat con il provveditore Fullone ai magistrati”. “Sono stato io a consegnare ai magistrati copia delle mie conversazioni in chat con il provveditore della Campania Antonio Fullone. Dire che sapessi quello che era avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è pura follia”. Quando i detenuti furono sottoposti a pestaggio, Francesco Basentini era il direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Tutto quello che accadeva era sotto la sua responsabilità. In quelle conversazioni il provveditore Fullone la informa che si procederà a perquisizione straordinaria... “Lo so bene. Però bisogna prima di tutto ricordare che cosa accadeva in quei giorni”. I reclusi protestavano perché non avevano mascherine nonostante alcuni di loro fossero positivi al Covid. È così? “Il primo caso di detenuto contagiato venne accertato il 4 aprile e iniziarono le proteste”. In realtà in tutta Italia le rivolte erano iniziate a marzo, quando erano stati bloccati i colloqui con i familiari... “Prendemmo la decisione proprio per evitare contatti dei reclusi con l’esterno che avrebbero potuto creare focolai. Ci furono proteste, ma poi tornò la calma. Pensavamo di avere la situazione sotto controllo, invece ad aprile ci furono nuove rivolte”. E si scelse la linea dura? “Si scelse di seguire le regole per riportare la calma. Eravamo tutti d’accordo. Il provveditore Fullone mi teneva costantemente aggiornato sulle situazioni di maggior rischio, come appunto Santa Maria Capua Vetere. Mi informò che il 5 aprile un gruppo di 50 detenuti si era barricato all’interno di un reparto”. Le spiegò anche che cosa stava organizzando? “Mi disse che aveva avviato un dialogo ed effettivamente riuscì a tenere la situazione sotto controllo. Il giorno successivo mi inviò il messaggio per informarmi che avevano proceduto a una perquisizione straordinaria”. È quello allegato agli atti dell’inchiesta in cui lei risponde “fai benissimo”? “Sì”. Ma se la situazione era sotto controllo, che bisogno c’era di entrare nelle celle? “La conversazione è ormai pubblica e la risposta è nel messaggio che mi aveva inviato. Lui lo riteneva indispensabile per riportare la calma e dare un segnale al personale. Fullone era ritenuto uno dei provveditori più bravi e competenti, io mi fidavo”. Non fu neanche sfiorato dal sospetto che la perquisizione “per dare un segnale al personale” potesse trasformarsi in una spedizione punitiva? “Sinceramente no. Nei messaggi non vi è alcun riferimento alle azioni violente fatte dagli agenti intervenuti”. In quei giorni c’era una tensione altissima. Prima di dare il via libera non sarebbe stato opportuno saperne di più? “Come ho già detto si trattava di un funzionario di grande livello che conosceva perfettamente la situazione. E proprio perché c’era uno stato di massima allerta approvai la scelta di fare la perquisizione. Ma davvero si può credere che io avrei potuto avallare una cosa del genere?”. Il provveditore le chiese anche il trasferimento di una parte dei detenuti. Lei si informò dell’esito della perquisizione? “Certo, il contatto era continuo. Poco più di una settimana dopo Fullone mi fece l’elenco, sempre tramite messaggio, di quello che era stato trovato nella disponibilità dei detenuti. Mi inviò anche le fotografie”. Ma perché vi parlavate tramite messaggi? “Appena nominato direttore del Dap avevo attivato linee di contatto diretto con provveditori e comandanti proprio per gestire le situazioni più delicate. Quella lo era. Il momento era complicatissimo, alcune scelte andavano condivise in tempo reale. Poi venivano richieste le relazioni”. Ne discusse con il ministro della Giustizia Bonafede? “In quel periodo noi eravamo in contatto costante con via Arenula, facevamo riunioni continue anche con i sottosegretari. Non abbiamo mai sottovalutato nulla”. Qualche giorno dopo però cominciarono ad arrivare gli esposti dei familiari dei reclusi. Possibile che non li abbia collegati a quella perquisizione che le era stata preannunciata dal provveditore? “La relazione mandata al Dap è del 26 aprile, prima non era mai stato informato di quanto avvenuto nelle sezioni. Si scoprì con l’esposto dell’associazione Antigone”. E cosa fece? “Come ricorderà bene il 2 maggio io mi sono dimesso da capo del Dap per le polemiche create ad arte sulle scarcerazioni di chi era accusato di reati di tipo mafioso”. Quando ha saputo che c’erano i video dei pestaggi? “In questi giorni dai giornali. A settembre sono stato interrogato dai magistrati come persona informata dei fatti e ho ricostruito esattamente quello che sto dicendo ora. Anche a loro ho detto che se avessi avuto informazioni su quello che era successo non avrei esitato a disporre provvedimenti cautelari a carico dei responsabili, come avevo fatto su episodi analoghi avvenuti nel carcere di San Gimignano qualche mese prima”. Tutte le omissioni di Bonafede sulle violenze di Santa Maria Capua Vetere di Davide Maria De Luca Il Domani, 3 luglio 2021 L’ex ministro sostiene di aver agito in modo “immediato” sui pestaggi in carcere: in realtà ha atteso mesi prima di richiedere informazioni su quello che era accaduto. Non ha fatto svolgere indagini approfondite e al Parlamento ha dato la versione dei fatti degli stessi funzionari accusati di aver depistato le indagini. La sua difesa è debole: dice che non era possibile fare più di così, ma in realtà non ci sono regole a impedire indagini e sospensioni di agenti sospettati di gravi comportamenti. Il ministero della Giustizia ha ignorato per mesi le violenze commesse il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e quando ha informato il parlamento su quello che era accaduto durante il pestaggio, ha fornito una versione dei fatti parziale e lacunosa. L’allora ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, sostiene che all’epoca ha agito “immediatamente” e i suoi difensori sostengono che non era possibile intervenire in maniera più incisiva a causa di limiti legali all’azione del ministero. In realtà il ministero della Giustizia ha atteso mesi prima di inviare e poi reiterare le richieste di informazioni che avrebbero permesso di aprire procedure disciplinari interne e consentite dalla legge, come hanno confermato a Domani diverse fonti. Bonafede si è invece trincerato dietro il rispetto formale della prassi e delle consuetudini per evitare di agire in modo più diretto. Il 6 aprile - Le violenze e i pestaggi al centro della vicenda avvengono durante una perquisizione in uno dei settori del carcere Francesco Uccella. Si tratta di un’operazione massiccia che viene decisa come misura punitiva in seguito ad una protesta del giorno precedente da parte di alcuni detenuti, inferociti a causa della sospensione delle visite familiari per il Covid e spaventati per il ricovero di un detenuto contagiato dal virus. Quel giorno, per circa quattro ore, 300 agenti provenienti in buona parte da altre strutture perquisiscono le celle, picchiano con pugni e manganelli i detenuti e li sottopongono ad umiliazioni e torture. Il Gip che segue le indagini definisce l’episodio “un’orribile mattanza”. Le indagini iniziano in fretta. Già nei giorni successivi, carcerati, familiari e garanti dei detenuti denunciano l’accaduto alla magistratura e tra l’11 e 12 aprile i giudici di Santa Maria Capua Vetere sequestrano i filmati di sorveglianza del carcere. Insomma, a meno di una settimana dai fatti era già chiaro che era accaduto qualcosa di sufficientemente grave da spingere la magistratura a indagare. Il ministero, però, ufficialmente non intraprende alcuna azione. Un’azione “immediata” - Trascorre oltre un mese e il 12 giugno la procura consegna gli avvisi di garanzia a 57 agenti di polizia penitenziaria e dirigenti del carcere. La consegna avviene fuori dall’ingresso del carcere, di fronte ai passanti e ad alcuni parenti di detenuti. Gli agenti protestano e accusano la procura di averli umiliati. Alcuni salgono sul tetto della caserma per protesta e ci vuole l’intervento di un magistrato della procura per calmarli e farli scendere. Nonostante il caos che sembra pronto a esplodere in città, ufficialmente il ministero non si è ancora interessato agli avvenimenti. Soltanto il 3 luglio, il provveditore alle carceri della Campania invia formalmente al ministero l’elenco degli indagati tra gli agenti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Trascorrono cinque giorni e finalmente il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap) intraprende la sua prima azione sul caso di cui abbiamo conoscenza. L’8 luglio invia una richiesta alla direzione del carcere di acquisire dalla procura una copia degli avvisi di garanzia ricevuti dagli agenti. Da allora, il ministero sembra dimenticarsi della vicenda, almeno in via ufficiale, fino a che la stampa non farà esplodere il caso. Sei mesi di attese - Nel sistema carcerario italiano è prassi chiedere un nulla osta alla magistratura per iniziare inchieste interne per casi su cui sono in corso indagini penali. Secondo l’allora sottosegretario alla Giustizia, Vittorio Ferraresi, la richiesta dell’8 luglio era anche una richiesta di questo tipo. Per questo, Bonafede sostiene di aver agito “immediatamente” (anche se in realtà la richiesta arriva tre mesi dopo le violenze). La richiesta però non riceve risposta, e il ministero rimane in attesa senza sollecitarla e senza avviare formalmente indagini interne per altri tre mesi. Poi, il 28 settembre, Domani pubblica il primo articolo in cui viene raccontato il pestaggio dei detenuti. Lo stesso giorno, il Dap decide finalmente di inviare una seconda richiesta, questa volta direttamente alla procura di Santa Maria Capua Vetere e senza passare dal direttore del carcere. In quei giorni, Domani e altri giornali interpellano più volte il ministero per ottenere chiarimenti, ma non ricevono nessuna risposta ufficiale. Anche una prima interrogazione parlamentare rimane senza risposta. “Ripristinare la legalità” - Soltanto il 16 ottobre, in seguito a un’interpellanza urgente che ha come primo firmatario Riccardo Magi, Ferraresi riferisce al parlamento una prima versione dei fatti, che costituisce ancora oggi la più dettagliata, e sostanzialmente unica, ricostruzione della perquisizione e del suo contesto da parte del ministero. Quello di Ferraresi è un intervento controverso. Nonostante il ministero sostenga di non aver svolto indagini sull’accaduto a causa del mancato nulla osta della procura, il sottosegretario fornisce un resoconto piuttosto dettagliato dell’accaduto, ottenuto, ha detto a Domani, non tramite indagine interna, ma attraverso una semplice raccolta di informazioni presso il Dap. Nell’intervento, la protesta del 5 aprile viene descritta con precisione e con un tono molto critico nei confronti dei detenuti. Il resoconto, però, omette un fatto importante. Quel giorno, il carcere viene visitato dal magistrato di sorveglianza, che trova una situazione tesa, ma non di aperta rivolta. Riesce a calmare i detenuti e la protesta rientra. Il sottosegretario descrive poi la decisione di avviare la perquisizione degenerata in violenza come “una doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto”, senza però specificare la necessità di un’azione di questo tipo dopo che la protesta era ormai rientrata. Ferraresi aggiunge: “Nelle operazioni taluni detenuti hanno opposto resistenza”, una frase che oggi appare involontariamente (e tragicamente) ironica alla luce dei filmati della perquisizione pubblicati da Domani. Quella riferita in parlamento, in sostanza, è la versione dei fatti di dirigenti e agenti del carcere. Una versione messa seriamente in dubbio dalle indagini della magistratura, dalle testimonianze dei detenuti e dai video delle violenze. La difesa - Dopo la pubblicazione dei filmati, che mostrano gruppi di agenti accanirsi contro detenuti che non rappresentano un pericolo, picchiare un disabile in sedia a rotelle, colpire con calci e manganelli persone già cadute a terra, il ministero della Giustizia, oggi guidato da Marta Cartabia, ha sospeso gli agenti coinvolti, dopo aver nuovamente richiesto e ottenuto un nulla osta dalla procura di Santa Maria Capua Vetere. Il rapido evolversi degli eventi ha costretto l’ex ministro Bonafede ad esprimersi per la prima volta in via ufficiale sui fatti di Santa Maria Capua Vetere. In una nota diffusa ieri mattina dalle agenzie, Bonafede accusa i quotidiani di aver pubblicato “titoli e ricostruzioni totalmente falsi” e afferma che “il ministero si è mosso immediatamente nel pieno rispetto delle prerogative e dell’indipendenza dell’autorità giudiziaria che ha portato avanti le indagini per accertare i fatti”. Una rapidità di azione che sarebbe “già evidente e provata”. In realtà il ministero ha agito lentamente, non ha svolto indagini approfondite, ha riferito una versione dei fatti parziale e non ha emesso provvedimenti disciplinari, che pure la legge gli consentiva di comminare, finché non è intervenuta la magistratura e finché i filmati delle violenze non sono stati pubblicati. Domani ha provato a contattare il ministro Bonafede per chiedergli quali fossero i titoli di giornale “falsi” e “fuorvianti” e per domandargli conto delle sue altre affermazioni. Per il momento non abbiamo ottenuto risposta. Gli identificativi per la polizia in Italia sono ancora un tabù di Giulia Merlo Il Domani, 3 luglio 2021 Nei video pubblicati da Domani sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere si vedono gli agenti della polizia penitenziaria che picchiano i detenuti. Sono bardati con divise e caschi: non sono identificabili. Tanto che, ora che sono in corso le indagini, alcuni di coloro che erano presenti risultano ancora sconosciuti. Gli altri invece sono stati identificati perché il viso era stato inquadrato dalle telecamere di sorveglianza, oppure grazie al riconoscimento degli stessi detenuti. La soluzione sarebbe quella adottata in buona parte dei paesi europei e occidentali: un codice identificativo univoco su divise e caschi delle forze dell’ordine, che però è ancora un tabù per l’ordinamento italiano. Secondo la normativa, i membri delle forze dell’ordine in servizio non hanno l’obbligo di identificarsi: la divisa parla per loro e le generalità dei singoli non possono essere chieste dal cittadino. L’unica eccezione è quando operano in borghese: in quel caso devono avere il tesserino di riconoscimento e sono tenuti a identificarsi, nel caso di richiesta espressa da parte di chi fermano. Tuttavia, questa ampia zona grigia dell’inidentificabilità degli agenti è stato un tema centrale nel dibattito pubblico, in concomitanza con eventi tragici di scontri che hanno visto coinvolte le forze dell’ordine. Vent’anni fa il tema riguardò le violenze durante il G8 di Genova, sia durante le manifestazioni che alla scuola Diaz: tutt’oggi, molti degli autori di quei pestaggi non sono stati identificati. Nel 2005 il tifoso del Brescia Paolo Scaroni è stato vittima di una violenta aggressione da parte della polizia, è rimasto in coma per due mesi ed è rimasto invalido: gli aggressori non sono mai stati identificati. Situazione analoga ha riguardato anche gli sgomberi degli attivisti No Tav a Venaus, in Piemonte, avvenuti nel 2005, 2010 e 2011. Anche in questi casi, i video che hanno documentato quanto accaduto ha permesso l’apertura di numerose inchieste da parte della procura di Torino con riguardo al comportamento degli agenti, ma tutte a carico di ignoti. Oggi lo stesso continua ad accadere a Santa Maria Capua Vetere. I tentativi a vuoto - In Europa, solo Austria, Cipro, Italia, Lussemburgo e Olanda non prevedono l’identificabilità delle forze dell’ordine. Eppure, la raccomandazione europea che prevede l’obbligatorietà del numero identificativo per gli agenti risale al 2001 e nel 2012 la risoluzione 2011/2069 del Parlamento europeo esortava gli stati a “garantire che il personale di polizia porti un numero identificativo”. Nel 2016, il Consiglio sui diritti umani delle Nazioni unite si è espresso a proposito della gestione delle manifestazioni pubbliche da parte degli stati, raccomandando che “i funzionari delle forze di polizia siano chiaramente e individualmente identificabili, ad esempio esponendo una targhetta col nome o con un numero”. Eppure, nonostante l’esempio della maggior parte dei paesi europei e le sollecitazioni internazionali, tutti i tentativi di approvare gli identificativi sono fallite. Nel 2001, in seguito alle violenze di Genova, ci aveva provato la deputata di Rifondazione comunista Elettra Deiana, nel 2002 al Senato il verde Francesco Martone, nel 2008 invece il radicale Maurizio Turco. Nel 2014 sono state depositate in Senato tre proposte di legge, una di Marco Scibona del Movimento 5 stelle, una di Luigi Manconi del Pd e una di Peppe De Cristofaro di Sel, adottate come testo base per la discussione in commissione Affari costituzionali. La proposta prevedeva che casco e divise dovessero avere un numero riconoscibile fino a 15 metri di distanza. La discussione si era avviata, ma tutto si è arenato dopo qualche mese in commissione. Nel 2019 c’è stato un altro tentativo con due diverse proposte di legge che prevedevano il codice identificativo, presentate alla Camera dalla dem Giuditta Pini (che chiedeva anche l’introduzione della body-cam addosso agli agenti) e dal radicale Riccardo Magi. Entrambe sono rimaste bloccate e giacciono nei cassetti della Camera. L’ultimo tentativo in ordine di tempo è quello del 2020 ed era contenuto in un emendamento a un decreto in materia di immigrazione: la proposta, firmata da Nicola Fratoianni, Matteo Orfini, Erasmo Palazzotto, Fuasto Raciti, Giuditta Pini, Luca Rizzo Nervo e Chiara Gribaudo prevedeva che il personale delle forze di polizia indossasse su uniforme e casco una sigla univoca identificativa. L’emendamento è stato ritenuto inammissibile ma ha sollevato dibattito e polemiche. Gli oppositori - Contro ogni tentativo di introdurre l’identificazione delle forze dell’ordine si sono sempre espressi i sindacati. Dopo la proposta del 2020, infatti, il segretario generale Fsp Polizia di stato Valter Mazzetti ha dichiarato che “viene da chiedersi come si possa calpestare in maniera così brutale e arrogante il senso del dovere e di responsabilità che ancora porta migliaia di operatori per strada” e che “prima di parlare di codici alfanumerici per gli agenti, si pensi agli identificativi per i delinquenti”. Anche nel centrodestra le posizioni sono sempre state contrarie. Nel 2019 i deputati di Forza Italia Maurizio Gasparri e Elio Vito hanno partecipato alla manifestazione dei sindacati Sap, Sappe e Conapo davanti a Montecitorio e hanno dichiarato che “ci sono questioni importanti come i codici identificativi e il reato di tortura, voluti dalle sinistre e contro i quali ci siamo battuti perché sarebbero stati un pericoloso strumento in mano ai teppisti di piazza”. Sulla stessa linea è anche Matteo Salvini, che nel 2018 dichiarava che “Il mio obiettivo è non mettere il numero sui caschi dei poliziotti, che sono già abbastanza facilmente bersagli dei delinquenti anche senza il numero in testa”. Pestato a sangue e senza farmaci: così hanno fatto morire Hakimi di Federico Marconi e Nello Trocchia Il Domani, 3 luglio 2021 I video dei pestaggi commessi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere documentano solo una parte delle violenze da parte degli agenti. Tutto il resto viene ricostruito da testimonianze corroborate dalle foto sui corpi martoriati dei detenuti. Quei corpi che parlano hanno spinto il giudice per le indagini preliminari Sergio Enea a parlare di “orribile mattanza”. Il 6 aprile 2020 i detenuti del reparto Nilo vengono pestati, alcuni vengono trascinati fuori dalle celle e condotti in isolamento. Finiscono in un altro reparto, il Danubio. Sono 15. “Nelle operazioni in questione taluni detenuti hanno opposto resistenza. Dodici, in particolare, venivano individuati e rapportati disciplinarmente. Tutti risultano essere stati sanzionati, ai sensi dell’articolo 39 dell’ordinamento penitenziario, con 15 giorni di esclusione dalle attività in comune”, diceva il governo Conte 2 in aula il 16 ottobre rispondendo a un’interrogazione parlamentare del deputato Riccardo Magi. Pochi giorni prima Domani aveva scritto che un detenuto, affetto da patologie, invece, era stato picchiato, messo in isolamento e, dopo un mese, era morto. Di quella morte non c’era traccia nella risposta del governo. Quel detenuto si chiamava Lamine Hakimi e, scorrendo le migliaia di pagine dell’inchiesta, si può ricostruire il mese che lo ha portato alla morte. Hakimi, secondo la procura di Santa Maria Capua Vetere, non doveva andare in isolamento e soprattutto, in quei giorni, non ha ricevuto i farmaci per curare la malattia da cui era affetto. Sempre secondo la pubblica accusa, per mandare i detenuti in isolamento è stata redatta una falsa informativa. Falsi atti pubblici che dovevano giustificare le violenze commesse il 6 aprile. Per questo vengono contestati i reati di falso e calunnia a vari agenti. “Condotte violente, degradanti e inumane, contrarie alla dignità e al pudore delle persone recluse”, scrive il giudice. I falsi servivano anche, dopo la morte di Hakimi, a occultare le responsabilità in ordine al provvedimento disciplinare adottato illegalmente nei confronti dei 15 detenuti. Mancavano tutti i presupposti per mandarli in isolamento sia il provvedimento motivato che la certificazione prevista dall’ordinamento penitenziario. Per la procura, tesi non condivisa dal giudice, l’isolamento ingiusto, l’illegittimo provvedimento di esclusione dalle attività comuni, portava alla morte del detenuto. Morte determinata dalle condizioni di abbandono, “senza adeguato e minimo controllo medico e controllo sulla assunzione delle prescritte terapie, in un soggetto psichicamente sofferente e fortemente stressato a causa delle violenze subite e dalla conseguente assunzioni di dose tossica (un mix di oppiacei, ndr)”. Quel pomeriggio del 6 aprile Hakimi, affetto da schizofrenia, viene prelevato dalla sua cella. Nel reparto ci sono detenuti con problemi mentali e di tossicodipendenza. I magistrati non possono ascoltare la sua testimonianza, durante l’inchiesta, perché muore prima, il 4 maggio, ma è possibile ricostruire il pestaggio che ha subito grazie alle parole dei suoi compagni di carcere e al referto di una visita medica. “Sono stato malmenato da numerosi agenti con manganelli, pugni e calci”, dice Hakimi al medico che lo visita, il 15 aprile. Il medico scatta le foto dei lividi sul volto, sulla schiena e sul torace del detenuto: a dieci giorni dal pestaggio sono ancora evidenti. “Tali lesioni risultano compatibili con quanto riportato agli atti e con le dichiarazioni anamnestiche del sig. Hakimi”, scrive il medico nel referto. “Gli davano calci, cazzotti e manganelli. E l’altro poliziotto mi lasciò a me e andò dietro a dire: “no, no, no, a calci no (...) non lo uccidete perché se no lo paghiamo”“. È il racconto ai magistrati di uno degli altri detenuti portati al Danubio. Hakimi prova a reagire, ma viene assalito da un drappello di agenti. Dal corridoio viene portato in uno spazio aperto: “Stava spezzato! Si vedevano segni neri come, i tubi, i tubi proprio”, dice il testimone. Non è finita perché viene pestato anche durante il tragitto verso l’isolamento. “Ho visto che era tutto sanguinante e che tre o quattro agenti lo hanno trascinato (...) durante il percorso lo picchiavano con dei bastoni”, racconta un altro detenuto. Hakimi è l’unico dei 15 reclusi che viene picchiato anche dopo essere stato condotto in isolamento. “Aveva una testa così, non me la dimentico più quella testa, vomitava sangue, nel frattempo che sono stato io andava sempre in bagno a vomitare sangue”, racconta un altro detenuto. Nei giorni successivi al 6 aprile, Hakimi non ha ricevuto cure e non era neanche piantonato per evitare gesti di autolesionismo, come invece sarebbe stato necessario. “Diceva: “appuntato le mie medicine! Chiamate in infermeria, infermiere, infermiere!” (...) Comunque un’ora, due ore non ci davano le medicine e lui faceva più casino, perché stava male, male”. La risposta degli agenti? Venivano e dicevano: ““non fare casino” e lo minacciavano”, dice un testimone. La sera del 3 maggio la situazione peggiora. “Gli dicevo (al poliziotto penitenziario, ndr) di aprire la cella perché, considerate le sue patologie, non poteva stare chiuso... mi affacciavo per parlare con Hakimi e lui mi diceva, per cinque volte, “salutami mia madre”. Ho avuto la sensazione che Hakimi fosse disperato”. Muore così, il 4 maggio, in isolamento e abbandonato da tutti. Detenuti picchiati, don Grimaldi: “Violenze gratuite intollerabili” di Antonio Maria Mira Avvenire, 3 luglio 2021 L’ispettore dei cappellani, sottolinea la necessità di trasformare il sistema penitenziario: “Bisogna investire di più sulla formazione dei carcerati e su nuove figure professionali che li aiutino”. Sarà il direttore generale detenuti e trattamento del Dap, Gianfranco De Gesu, a guidare da martedì la commissione ispettiva nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Un fatto eccezionale, perché di solito ispezioni del genere sono affidate a personale locale. Non calano del resto le polemiche sulle violenze subìte dai detenuti soprattutto dopo le rivolte “da lockdown” della primavera 2020, e non soltanto in Campania. Ieri a Monza sono stati rinviati a giudizio 4 agenti di Polizia penitenziaria, accusati di lesioni aggravate e violenza privata, oltre a falso, calunnia, abuso d’ufficio e omessa denuncia. Intanto emergono altri particolari sulla “orribile mattanza” (così il gip) del 6 aprile 2020 a Santa Maria Capua Vetere; in una chat interna gli agenti si sono consultati per decidere di rimandare le visite mediche dei detenuti pestati: “Dobbiamo ancora temporeggiare qualche giorno, così non avranno più i segni” dei colpi di bastone o manganello. Infatti nei verbali di polizia carceraria figurano diversi mancati trasferimenti nelle infermerie per “motivi di sicurezza”. Ieri sono salite a 77 (erano 52) le sospensioni decise dal Dap nei confronti dei poliziotti destinatari di misure cautelari; sospesi dal servizio anche i due vicedirettori e un vicecomandante dell’istituto casertano. Interessante la dichiarazione spontanea resa da un ispettore carcerario presente ai fatti, secondo il quale “sono stati i colleghi venuti da Secondigliano a prendere in mano la situazione, noi non potevamo fare nulla. Ho cercato più volte di difendere dei detenuti dai pestaggi prendendo qualche manganellata, mi sono anche buttato su un detenuto per difenderlo. Quelli di Secondigliano dicevano a più riprese che “se la vedevano loro”“. “Intollerabili violenze gratuite”. Così definisce la “mattanza” nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, don Raffaele Grimaldi, Ispettore dei cappellani delle carceri. Che però avverte: “La stessa società che oggi condanna la violenza che si è consumato dietro le sbarre, dovrebbe essere propensa ad accogliere chi esce dal carcere. Quando stanno in carcere va tutto bene, ma quando escono? Chi tende una mano? Tante volte i detenuti si trovano soli e rischiano di delinquere ancora e di tornare in carcere. Anche la non accoglienza è una violenza verso il diritto alla speranza”. Don Raffaele, cosa ha provato vedendo le immagini dei pestaggi? Sono rimasto scosso perché era inimmaginabile una violenza così gratuita. Ho provato anche una grande sofferenza perché sapevo che ne risentiva tutto il Corpo della Polizia penitenziaria anche se ad essere coinvolta è una piccolissima parte. In tanti anni di servizio nelle carceri ho incontrato tante persone motivate, che aiutano i detenuti, che dialogano con loro, per aiutarli a vincere la solitudine. Ha detto bene la ministra che con queste violenze gratuite si è tradita la Costituzione, aggiungendo che hanno oltraggiato la dignità personale dei detenuti, macchiando anche la divisa di tanti uomini e donne che lavorano con grande professionalità all’interno delle carceri. L’impressione è che non si sia trattato di una reazione a caldo ma di una violenza organizzata... In quel periodo si stavano vivendo nelle carceri grandi criticità. Ma anche in un contesto critico non sono ammesse queste violenze gratuite. I detenuti stanno scontando una pena, soffrono a causa della loro detenzione e c’è bisogno del massimo rispetto per queste persone. Chiaramente in quei momenti di criticità, la sicurezza non è facile. Si cammina su un filo, non è molto facile gestire questi momenti. Le tensioni di un anno fa erano provocate anche da una situazione carceraria sempre in difficoltà... Nelle carceri continuano ad esserci i soliti problemi. C’è la difficoltà di vivere una serenità di fondo. In questo periodo di lockdown il carcere ha vissuto momenti terribili, di isolamento totale, nel quale cappellani, volontari, attività, tutto era sospeso. In questo sguardo di sofferenza possiamo capire il perché di tante reazioni. Adesso che stiamo uscendo fuori da questa triste realtà bisogna guardare avanti, in positivo. E come? Bisogna soprattutto investire nell’area trattamentale. Gli operatori, gli educatori sono sempre meno e quindi i detenuti sono abbandonati a se stessi. Invece c’è bisogno di investire sulla formazione, sulle figure professionali che aiutano i detenuti a vivere la loro carcerazione non come repressione ma come momento di riscatto, per riprendere in mano la loro vita e soprattutto per affrontare la nuova libertà. La presenza di queste figure allenta anche la pressione sugli agenti penitenziari... Certamente. La Polizia penitenziaria e le direzioni fanno fatica a gestire questo malumore che serpeggia all’interno delle carceri. Anche gli agenti che vivono un lavoro immane sono carcerati tra i carcerati. E quindi hanno bisogno di un’attenzione particolare, di essere seguiti, di una formazione permanente. Soprattutto i più giovani. Come sono le condizioni del carcere di Santa Maria Capua Vetere? Quali sono le maggiori criticità? Oltre al sovraffollamento, la mancanza di personale. È risaputo da tempo. E non solo lì. Molti vanno in pensione e c’è poco ricambio. E quando non c’è personale tutte le altre attività rallentano perché hanno bisogno della presenza del personale per garantire la sicurezza. C’è chi ha detto che gli agenti hanno fatto bene, perché i detenuti sono tutti delinquenti... Chi dice certe cose non sa cosa è la cultura dell’accoglienza, della misericordia. È l’atteggiamento di chi dice “hanno fatto del male, devono stare chiusi dentro, e anche la violenza può essere un metodo per imparare a non essere violenti quando escono fuori”. Mentre la piena applicazione della Costituzione che parla della funzione rieducativa del carcere è la migliore risposta alla violenza. È questo il lavoro che devono fare gli agenti penitenziari ma anche gli educatori, noi cappellani, il mondo del volontariato. Siamo chiamati a questo altrimenti il carcere parte già fallito. Ma c’è bisogno di maggiore linfa, di incoraggiamento, per sostenere quelli che operano nelle carceri. È un lavoro nascosto, non si conoscono i sacrifici e le tensioni che si vivono e che non escono sui giornali. Proprio per questo ho appena scritto un libro intitolato “La voce di Dio dietro le sbarre”, un accompagnamento pastorale e spirituale per chi vive il suo servizio nelle carceri. Giustizia, la sfida è in piazza. Al via le firme per i referendum Il Giorno, 3 luglio 2021 Aperti i banchetti di Lega e Radicali. Sei quesiti: i più importanti carriere separate e responsabilità civile. Entra nel vivo la raccolta firme per i sei referendum sulla giustizia lanciati dai Radicali e la Lega di Matteo Salvini. Da Nord a Sud il Carroccio ha organizzato quasi 200 gazebo nella sola giornata di ieri mentre ne sono previsti oltre 1.500 nelle giornate di oggi e domani. Accolte con “entusiasmo” le sei proposte di riforma: code per firmare al gazebo organizzato al mercato di Cinisello Balsamo, 6mila firme raccolte in poche ore in 27 gazebo in Lombardia, 2mila sottoscrizioni nel Lazio in soli 14 punti di raccolta. Partecipazione significativa anche in Campania con 1.900 firme in poche ore. Sono segnali, ha spiegato la Lega, “di grande partecipazione” in una giornata lavorativa, con alte temperature ovunque, e che precedono una due giorni di grande mobilitazione. Oltre che nei gazebo, i cittadini potranno trovare i moduli anche in tutti i Comuni italiani. Il ministro al Turismo Massimo Garavaglia ha già firmato ieri al banchetto di largo Argentina a Roma mentre quello allo Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, firmerà oggi alle 12 a Varese in Piazza Monte Grappa. Erika Stefani, ministro per le Disabilità, è attesa oggi per la firma al Gazebo di Portogruaro (Venezia). Il leader della Lega Matteo Salvini firmerà invece a Milano. I quesiti sono sei e riguardano in particolare le elezioni del Csm, la responsabilità diretta dei magistrati, l’equa valutazione degli stessi, la separazione delle carriere, i limiti agli abusi della custodia cautelare e l’abolizione della cosiddetta legge Severino. Quest’ultima prevede che in caso di condanna per alcune specifiche ipotesi di reato sia applicata automaticamente la sanzione accessoria dell’incandidabilità alla carica di parlamentare, consigliere e governatore regionale, sindaco e amministratore locale. “Il Parlamento è da trent’anni che litiga e non approva la riforma della giustizia. Noi chiediamo un aiuto ai cittadini”, ha dichiarato il segretario della Lega Matteo Salvini, intervenendo al gazebo a Sorrento. “La gente - ha proseguito il capo del Carroccio - vuole processi veloci, certezza della pena e responsabilità per chi sbaglia. Se raccogliamo un milione di firme, la prossima primavera questa riforma della giustizia fondata sulla certezza della pena e sul principio che chi sbaglia paga, la voteranno gli italiani”. Giustizia alla prova dei referendum: ecco i sei quesiti di Gianni Santamaria Avvenire, 3 luglio 2021 Dal carcere preventivo alla separazione delle carriere tra pm e giudici: partita la caccia alle 500mila firme necessarie per presentare i sei quesiti. Sei domande ai cittadini per arrivare a una “giustizia giusta”. Sono i quesiti referendari promossi dal Partito radicale e dalla Lega, per i quali è partita ieri la raccolta delle firme. L’iniziativa, messa in campo dal partito pannelliano che dei referendum è stato da sempre alfiere, ha visto convergere il Carroccio. Che ora porta in dotazione la sua potenza di fuoco sul territorio per arrivare all’obiettivo delle 500mila sottoscrizioni. In questo week end saranno 1.200 le piazze coinvolte in tutta Italia (oggi anche a Monaco di Baviera), 500 delle quali nella sola Lombardia. I referendum “provano a fare tramite iniziativa popolare, ciò che non è riuscito a fare il parlamento in 30 anni”, ha detto ieri Matteo Salvini. Sullo sfondo ci sono le vicende che hanno agitato il mondo delle toghe, primo fra tutti il “caso Palamara”. E soprattutto è in corso il tentativo, promosso dal ministro della Giustizia Marta Cartabia, di arrivare a una riforma complessiva del settore, sia del penale che del civile, passando per la riforma dell’organo di governo autonomo della magistratura. In discontinuità con la riforma promossa dall’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, del M5s. Con il capitolo più divisivo, quello della prescrizione, su cui i referendum però non entrano. Il rischio di fibrillazioni nella maggioranza è perciò concreto. In particolare a dividerla profondamente sono alcuni dei temi oggetto del referendum: la riforma del Csm, la responsabilità civile diretta delle toghe e la separazione delle carriere, la legge Severino. E dal punto di vista politico la questione è intricata. Salvini, scettico sul poter arrivare a una riforma insieme a Grillo e soci, ha dunque imboccato il sentiero referendario. Nel quale ha portato con sé Forza Italia e i centristi del centrodestra. Non ha invece convinto del tutto Fratelli d’Italia, che appoggerà sì i referendum, ma non ne condivide due: quello sui limiti alla custodia cautelare e quello sull’abolizione di parte della legge Severino. “I referendum saranno un aiuto al ministro Cartabia e al Governo per chiedere di accelerare”, ha assicurato ieri Salvini. C’è poi il capitolo dell’informazione in vista di una decisione consapevole, altro tema caro ai radicali. Per questo ieri una delegazione guidata dal segretario Maurizio Turco si è recata dal Garante per le Comunicazioni Giacomo Lasorella, per esprimergli le proprie ragioni sull’applicazione dei princìpi in materia. Le firme andranno depositate entro il 30 settembre presso l’ufficio competente della Cassazione, che le vaglierà. Dato l’ok, la Corte Costituzionale esaminerà la legittimità dei quesiti. Ottenuto il quale partirà l’iter per convocare le urne, di solito in una domenica tra 15 aprile e 15 giugno. QUESITO 1 Candidature al Csm, via il vincolo delle firme - Attualmente un magistrato che voglia candidarsi al Consiglio superiore della magistratura deve raccogliere dalle 25 alle 50 firme. “Ciò significa - lamentano i promotori - che per poter presentare la propria candidatura deve ottenere l’appoggio di una delle correnti interne”. Il quesito referendario mira, dunque, ad abrogare il vincolo delle firme, contenuto nella legge 195 del 1958, (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), e permettere così a tutti i magistrati di candidarsi, senza dover sottostare al condizionamento delle correnti. Sul meccanismo elettorale vigente (collegio unico nazionale e voti di preferenza), che non viene toccato dal referendum, sono all’esame del Parlamento diverse proposte di modifica. La Commissione Luciani nominata dal governo ha proposto, ad esempio, il voto singolo trasferibile. QUESITO 2 Responsabilità civile, rivalsa diretta sulle toghe - Il quesito punta ad abrogare parti della legge 117 del 13 aprile 1988 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati) e successive modifiche. Normativa che venne introdotta subito dopo la vittoria, con l’80% dei voti, del referendum radicale del 1987. L’obiettivo, spiegano i promotori, è di “ridurre la specialità della disciplina della responsabilità dei magistrati, permettendo al cittadino leso nei propri diritti dalla condotta del magistrato di poterlo chiamare in giudizio direttamente”. Mentre oggi ci si può rivalere contro lo Stato che successivamente può fare lo stesso verso la toga. Fatto che non avviene quasi mai. La tesi di partenza è che al “grande potere di cui gode la magistratura in Italia non corrisponde un adeguato obbligo per i propri membri di rendere conto delle eventuali decisioni sbagliate assunte”. QUESITO 3 nella valutazione professionale dei magistrati dare più spazio alla componente non togata - Questo quesito interviene sul decreto legislativo numero 25 del 2006, che istituisce - secondo la legge 150 del 2005 - il Consiglio direttivo della Corte di Cassazione e rinnova la disciplina dei Consigli giudiziari. Sono gli organi dove si valuta anche la professionalità dei magistrati. L’obiettivo è di superare l’attuale situazione che, secondo i proponenti, quando si tratta di discutere o valutare lo status dei magistrati, vede “esclusa dalle discussioni e dalle votazioni su questi temi la componente minoritaria “non togata” (avvocati e professori universitari). L’abrogazione consentirebbe, dunque, anche a tale componente di esprimersi sulla qualità del lavoro dei magistrati, “superando il principio della giustizia solo interna alla magistratura”. Il quesito si sovrappone a varie iniziative di riforma, compresa quella del governo. QUESITO 4 Separazione delle carriere tra pm e giudici per promuovere “sano antagonismo tra poteri” - Il quesito sulla separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente è il più lungo e articolato. La richiesta di abrogazione di parti di testi legislativi sulla materia rileva come presupposto che nel corso della loro carriera i magistrati “passano più volte dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa”. Questa “contiguità tra il pubblico ministero e il giudice rischia di creare uno spirito corporativo” e di “compromettere un sano e fisiologico antagonismo tra poteri, vero presidio di efficienza e di equilibrio del sistema democratico”. Il quesito punta a “stabilire che il magistrato, una volta scelta la funzione giudicante o requirente all’inizio della carriera, non possa più passare all’altra”. L’Associazione magistrati ha sempre difeso, invece, l’unità delle carriere come garanzia di indipendenza della giurisdizione. QUESITO 5 Carcere preventivo, limiti alla possibilità di usarlo - La custodia cautelare, vale a dire la detenzione in carcere prima della sentenza di condanna, secondo Lega e radicali, si è trasformato negli anni “da misura con funzione prettamente cautelare a vera e propria forma anticipatoria della pena, con evidente violazione del principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza”. Il quesito, dunque, tende a “limitare la possibilità di ricorrere alla carcerazione preventiva prima dell’emanazione di una sentenza definitiva di condanna”. E lo fa chiedendo l’abrogazione di un articolo del testo del decreto del presidente della Repubblica numero 447 del 1988, (Approvazione del Codice di procedura penale), come risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate. Delle tre circostanze per cui si ricorre alla custodia cautelare (inquinamento delle prove, pericolo di fuga e reiterazione del reato) il quesito interviene solo sulla terza. QUESITO 6 Condannati incandidabili, si vuole abrogare la norma - Il decreto legislativo 235 del 2012 (la cosiddetta legge Severino) prevede che in caso di condanna per alcune specifiche ipotesi di reato sia applicata automaticamente la sanzione accessoria dell’incandidabilità alla carica di parlamentare, consigliere e governatore regionale, sindaco e amministratore locale. Il quesito referendario che ne chiede l’abrogazione intende “abolire l’automatismo per quanto riguarda i termini di incandidabilità, ineleggibilità e decadenza, lasciando al giudice la decisione, caso per caso, se comminare, oltre alla sanzione penale, anche la sanzione accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici e per quanto tempo”. Secondo alcuni cosituzionalisti potrebbero esserci dei problemi di legittimità in quanto la norma recepisce disposizioni anticorruzione di livello sovranazionale. Perché lo status quo della giustizia è il vero ostacolo per le riforme di Giacinto della Cananea Il Foglio, 3 luglio 2021 Negli ultimi venticinque anni, l’Italia ha avuto, in base agli indicatori economici, una crescita modesta in termini assoluti e relativi, sia rispetto agli anni precedenti, sia nei confronti degli altri principali paesi europei. Nel medesimo periodo, nel nostro paese il contesto giuridico e amministrativo si è rivelato sempre meno favorevole sia alle libertà economiche, sia al godimento dei diritti sociali. È sufficiente ricordare il peso dei ritardi della giustizia sui cittadini e sulle imprese: sette anni e tre mesi - mediamente - per una causa civile, rispetto ai tre anni e quattro mesi necessari in Francia e in Spagna. La situazione della giustizia tributaria non è migliore: i due gradi di giudizio di merito si esauriscono in meno di tre anni, ma ne occorrono - sempre in media - altri quattro per la Corte di Cassazione, sulla quale grava un arretrato di più di 55.000 ricorsi giacenti, un vero fardello. Sul versante dei diritti sociali, la pandemia ha rivelato diversità inaccettabili dal punto di vista dell’eguaglianza. Il divario si manifesta anche in altri ambiti, come l’erogazione degli assegni volti a rendere effettivo il diritto allo studio. Per porre rimedio a queste antiche tare e alle diseguaglianze che si sono accresciute, il governo Draghi ha ripreso alcune iniziative avviate dai governi precedenti e ha elaborato molte altre misure, collocandole tutte nella cornice del Recovery fund. Esso mette a disposizione dell’Italia un’ingente dotazione finanziaria. L’importanza del piano predisposto per accedere a quelle risorse - il Pnrr - va ben al di là delle singole misure che ne fanno parte. Ci ricorda che l’aver fatto di meno, anche assai meno, di quanto era possibile negli anni precedenti non significa affatto che non si possa invertire la tendenza. Il destino è nelle nostre mani ed è necessario agire, non solo con l’occhio al benessere dei nostri nipoti. Tuttavia, nulla garantisce che questa preziosa, forse irripetibile, opportunità verrà colta. Non è facile invertire la tendenza. Vi è d’impedimento l’intrico di competenze creato dal titolo V della Costituzione e prima ancora dalle complicazioni organizzative che hanno reso inefficaci non poche semplificazioni procedurali. Vi è d’impedimento l’invocazione delle disposizioni costituzionali per impedire riforme moderate, come è successo nella discussione sui concorsi per il reclutamento dei giudici tributari, quando si è detto - irragionevolmente - che quei concorsi possono essere migliorati, ma solo fino a un certo punto. Vi è d’impedimento la forza degli interessi particolari e settoriali: per esempio, Marta Cartabia, nel sottolineare l’importanza fondamentale della riforma della giustizia, ha chiesto alle organizzazioni portatrici dei vari interessi - avvocati e magistrati - di agire in una maniera “costruttiva, non sterile”, senza arroccarsi nella difesa dello status quo. I termini del problema cui i riformatori sono di norma esposti sono stati illustrati, con il consueto acume da Machiavelli. Nel “Principe”, il grande fiorentino ha segnalato che chiunque si accinga a introdurre “nuovi ordini” va incontro alla strenua opposizione di quanti traggono vantaggio dalla situazione esistente, senza avere il sostegno di quanti - invece - beneficerebbero delle riforme, perché questi ultimi non ne colgono fino in fondo l’utilità. Per superare questo paradosso, per realizzare le riforme di cui l’Italia ha bisogno da un quarto di secolo (una generazione…), è necessario far comprendere ai cittadini e a tutti i loro rappresentanti che il governo è riuscito a convincere i partner europei perché le sue proposte sono degne di fiducia. A fronte di quelle proposte non vale agitare temi irrilevanti ai fini del miglioramento delle istituzioni amministrative e giurisdizionali. Ma bisogna fare di più per dimostrare che determinate resistenze sono immotivate, stridono con la razionalità più elementare. Se la qualità delle proposte è essenziale, la loro percezione non è di secondaria importanza, può essere determinante per il successo delle riforme. “Anm contro i referendum, ma per fortuna c’è la Costituzione” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 3 luglio 2021 Sono giornate febbrili in via di Torre Argentina. Il Partito Radicale è il centralone del comitato per i sei quesiti in cui si articola il referendum per la Giustizia giusta e sui quali inizia oggi la raccolta firme. Nel salone istoriato con le gigantografie di Marco Pannella risuonano i telefoni. Su cinque tavoli - ma soprattutto a terra - cataste di moduli, quelli da compilare, firmare e autenticare. Siamo nel cuore pulsante del comitato referendario dove Maurizio Turco e Irene Testa animano e coordinano decine di volontari. È qui che l’Anm sognerebbe una immaginifca irruzione, forse. Ma non può, finché la Costituzione garantisce l’istituto del referendum. E il via vai cui assistiamo ci dice che qualcosa nell’aria sta cambiando. Ce ne parla la Tesoriera del Partito Radicale Irene Testa, la pasionaria di questa campagna referendaria. Come è nato questo referendum per la riforma della giustizia? Con il Segretario Maurizio Turco ne discutiamo da oltre un anno. Avevamo intuito che i nodi stavano venendo al pettine e che l’unico modo per aiutare il Paese e la stessa magistratura fosse la via referendaria. Oggi tocchiamo con mano quello che Pannella andava dicendo da decenni: la giustizia rappresenta la più grande ed importante questione sociale del nostro Paese. La leva di tutte le leve. Una grande questione sociale, perché con Salvini? Avevamo bisogno da subito di compagni di strada con cui costruire la campagna referendaria: ho semplicemente scritto un messaggio a Matteo Salvini, chiedendogli un incontro e il pomeriggio stavamo già nel suo ufficio in Senato a discuterne. Sulla scia di Pannella. Quella sulla giustizia giusta era una sua pietra miliare... Certamente sì. La madre di tutte le battaglie. Pensare che la prima manifestazione per la giustizia giusta fu nel 1967. Da allora il Partito Radicale ha promosso a più riprese diversi referendum. Solo un dato: quello sulla responsabilità civile fu votato da più dell’80% degli elettori ma venne successivamente stravolto in Parlamento. Ora però la situazione, se possibile, è addirittura peggiore perché sta montando nel Paese una sfiducia nella magistratura mai vista prima e questo rappresenta il dato più preoccupante. Preoccupa anche loro. Sorpresi dalla reazione dell’Anm? A memoria mia non credo sia mai accaduto che un Presidente dell’Anm si rivolga ai magistrati chiedendo di “reagire” contro il metodo e lo strumento referendario che, è bene ricordarlo, è previsto dalla Costituzione. Questo ci dà una indicazione chiara della condizione in cui versa la magistratura ora. I cittadini hanno solo due “armi” in mano. La scheda elettorale per eleggere i propri rappresentanti e quella referendaria. C’è chi sta lavorando da tempo per sfilare loro la seconda. Chi sta aderendo al comitato promotore? Il Comitato promotore è composto dal Partito Radicale e dalla Lega di Matteo Salvini. Stiamo incontrando poi diversi esponenti politici, come il Psi, il Partito Liberale Europeo; se ne stanno aggiungendo anche altri: chiunque si metterà in piazza con i tavoli e autenticatori per raccogliere le firme sarà il benvenuto. Salvini e pezzi di sinistra insieme? Questo inedito ticket tra due forze politiche storicamente diverse come Lega e Partito Radicale dimostra come sia possibile, anzi doveroso, lavorare cercando un terreno comune su temi concreti e specifici, in modo da realizzare quella piattaforma riformatrice che permetta di dare una stabilità al Paese nel medio e lungo periodo. Si devono impegnare a fare i banchetti, adesso. Quante firme vanno raccolte, e da quando? Abbiamo tre mesi per vincere questa sfida, anche se la raccolta firme si svolgerà in piena estate, con la campagna vaccinale in corso e con poca informazione. L’obiettivo che vorremmo raggiungere è di un milione di firme per ciascun quesito. Un obiettivo realistico? Assolutamente sì. Noi ne siamo convinti. Crisi della magistratura, crisi dell’autogoverno di Mariarosaria Guglielmi* Il Domani, 3 luglio 2021 Magistratura democratica si accinge a celebrare il suo XXIII congresso, nel periodo forse più difficile per la magistratura e la giurisdizione. Pubblichiamo un estratto della relazione introduttiva della segretaria. La crisi innescata dallo scandalo delle nomine e dalle gravissime cadute etiche svelate dall’inchiesta di Perugia ha mostrato in questi mesi pericolosi segnali di avvitamento intorno ad un intreccio, sempre più inestricabile, fra cause irrisolte delle degenerazioni e delle cadute; analisi incompiute e letture strumentali; proposte di cure sbagliate, tentativi di rinnovamento di facciata e progetti concretissimi, capaci di travolgere l’assetto costituzionale voluto a tutela di una giurisdizione indipendente. Dopo l’iniziale rivolta, e la richiesta di una forte reazione allo scandalo appena esploso venuta dalle assemblee autoconvocate, la magistratura appare immobile, percorsa da divisioni e contrapposizioni al suo interno, incapace di dare segnali riconoscibili di una svolta unitaria verso il necessario cambiamento. Fra tentativi di letture consolatorie, distinguo di breve respiro, e spinte antisistema, nel dibattito interno è mancata un’analisi condivisa e un’assunzione di responsabilità collettiva rispetto alla necessità di affrontare i tanti nodi venuti al pettine. E da questo obiettivo ci allontanano anche le letture in apparenza più radicali, che accomunano indiscriminatamente nella riprovazione singoli, gruppi, protagonisti delle diverse stagioni dell’autogoverno e dell’associazionismo. Nel nostro dibattito e nella sua rappresentazione esterna, abbiamo visto prendere sempre più corpo un modello di magistratura fatta di singoli, indipendenti perché estranei alle esperienze collettive: una nuova dimensione di individualismo difensivo, e di protagonismo di quanti si propongono come la parte sana di un corpo malato, in grado di riscattarne l’immagine perché, da sempre, soli, estranei ad ogni esperienza di aggregazione e alle inevitabili contaminazioni che da queste derivano. La magistratura di questa stagione di crisi sembra aver smarrito la sua identità di soggetto collettivo e non riesce a ritrovarla nei luoghi dove in origine si è costruita: nell’esperienza associativa e nell’autogoverno, luoghi dove si è espresso l’impegno comune e l’assunzione di responsabilità per una magistratura all’altezza del suo ruolo; luoghi di confronto, dove il pluralismo delle idee ha operato da controspinta alla chiusura corporativa. La spinta per ripartire - In questi luoghi avremmo dovuto ritrovare la spinta a far ripartire una riflessione sui cambiamenti culturali subiti per effetto di nuove forme di carrierismo e di corporativismo, e sulle ragioni ed effetti della crisi che ha investito il nostro sistema di rappresentanza. E in questa lunga, difficile stagione si è aperto un fronte ancora più preoccupante: la frequenza di indagini per fatti gravi e gravissimi, che coinvolgono giudici e pubblici ministeri, esige risposte immediate agli inquietanti interrogativi sull’attualità, gravità ed ampiezza della nuova questione morale. Risposte che non si esauriscono nelle sanzioni penali e disciplinari: non possiamo più rinviare una riflessione sugli scenari che si intravedono dietro inchieste, arresti, contesti ambientali nei quali fatti e condotte si collocano, e sulla necessità di fare luce su tutte le zone d’ombra dove si annidano i fattori di degenerazione. Abbiamo scelto come tema centrale di riflessione del congresso il rapporto fra magistratura e democrazia: in questo rapporto pensiamo che si possa trovare una chiave di lettura di tanti aspetti della crisi, dei suoi effetti e dei suoi risvolti sulla legittimazione democratica della magistratura. Salvatore Mannuzzu parlava dell’accordo fondamentale del giudice con la Repubblica, qualcosa che è ben di più della lealtà e della fedeltà al giuramento prestato, basato non sul consenso ma sulla fiducia, e di una consonanza che nasce dal riconoscimento del ruolo della giurisdizione nella tutela dei diritti e le libertà, come limite posto dalla Costituzione ad ogni potere e come difesa da ogni arbitrio. Fu una presa di coscienza collettiva che consentì alla magistratura la svolta radicale del congresso di Gardone: lì la magistratura prese consapevolezza delle sue responsabilità nell’attuazione della Costituzione e gettò le basi per la sua legittimazione democratica. E oggi è solo una nuova presa di coscienza collettiva, del nostro ruolo e dei cambiamenti necessari per essere all’altezza della nostra funzione, che può aiutarci a ricostruirla. Il tempo stringe. La vera posta in gioco di una crisi che, fra immobilismo interno e attacchi dall’esterno, oggi non trova una via d’uscita, è diventata la giurisdizione. Le analisi più tranchant sulle dimensioni e l’irreversibilità della crisi hanno sempre più guadagnato spazio nel dibattito interno, e oggi dominano quello pubblico e mediatico, con sorprendente seguito anche fra autorevoli osservatori ed opinionisti. In queste analisi non serve capire e discernere vicende e cause. E non c’è memoria storica dell’esperienza dell’autogoverno e dell’associazionismo e del ruolo che hanno avuto. La cura proposta è radicale: la torsione dell’attuale assetto costituzionale, che ha garantito l’indipendenza della magistratura per tutelare una giurisdizione indipendente. La giurisdizione è l’obiettivo, dichiarato, di chi teorizza l’esistenza di un sistema e in questa chiave riscrive anche la storia di indagini e processi: la degenerazione avrebbe colpito la magistratura anche nell’esercizio delle sue funzioni; oggi, come in passato, le motivazioni di indagini e sentenze andrebbero ricercate nelle finalità politiche della parte più ideologizzata dei giudici e dei pubblici ministeri. La crisi partita dalle cadute nell’autogoverno e nell’attività di amministrazione della giurisdizione, dopo aver investito in pieno i gruppi e tutto il sistema di rappresentanza, sta pericolosamente lambendo valori essenziali per la tenuta della democrazia: l’imparzialità della giurisdizione, e la fiducia della collettività nell’imparzialità del giudizio e delle decisioni. È uno scenario che deve fortemente preoccuparci. E che, senza chiedere sconti né indulgenze, vorremmo che preoccupasse ogni cittadino di questo paese. Niente capri espiatori - Noi non ci attendiamo analisi e cure pietose. Non confidiamo nella nottata che prima o poi passerà. E non vogliamo capri espiatori. L’assunzione di responsabilità da parte della magistratura deve essere piena. E ci riguarda in via diretta, come magistrati che rivendicano il valore dell’associazionismo, della rappresentanza, dell’autogoverno. All’esplosione dello scandalo immediata e ferma è stata la reazione dell’ANM, con la richiesta di dimissioni per tutti coloro che erano stati interessati dalle vicende dello scandalo e sulla stessa linea di fermezza si è mosso al suo interno il gruppo di Unicost. Ma colpe e condotte dei singoli non spiegano il grumo di problemi svelato dalla crisi. E se oggi ci aspettiamo che le buone riforme facciano la loro parte, intervenendo dove quelle cattive e pessime hanno contribuito a portare distorsioni (mi riferisco in particolare all’attuale legge elettorale per il CSM), pensiamo che il rinnovamento etico e culturale, più profondo e duraturo, non possa che partire dalla magistratura e dai gruppi. Il necessario percorso di riflessione richiede un’analisi di ciò che ha contribuito a svilire il senso dell’impegno associativo, e che ha fatto recedere le ragioni ideali, quale spinta ad aggregarsi, rispetto ad interessi e obiettivi individuali. È il processo che Nello Rossi ha descritto come perdita di democraticità interna ai gruppi e al sistema di rappresentanza: dinamiche che hanno in vario modo contribuito ad allontanare i luoghi della decisione da quelli del confronto, indebolito il substrato ideale e culturale alla base di ogni aggregazione e favorito percorsi individuali, con riflessi diretti e condizionamenti anche sull’autogoverno. Ogni gruppo oggi deve fare i conti con il suo passato e rileggere in questa chiave la sua storia, interrogandosi sulle degenerazioni subite con la nascita di potentati; le dinamiche interne e le condotte nell’autogoverno comunque condizionate dall’obiettivo di acquisizione del consenso e di rafforzamento di presenza nei territori e negli uffici; il consolidamento di posizioni di potere individuale di singoli, sino ad arrivare alle zone d’ombra e di incontro con i poteri esterni. Pluralismo - Incapace di ritrovare nel dibattito associativo una nuova visione e una progettualità comune, la magistratura deve intraprendere e portare avanti questo difficile e faticoso percorso facendo appello a tutte le risorse disponibili nei luoghi che ancora esprimono il senso autentico del pluralismo, apertura, capacità di riflessione critica. Luoghi istituzionali, come quelli della formazione. La Scuola deve diventare sempre più la casa comune dove far crescere una nuova cultura dell’etica professionale e deontologica. E dove anche la magistratura del futuro può ritrovare una memoria condivisa della nostra esperienza unica di autogoverno e di associazionismo, e del loro valore autentico, e della nostra storia di istituzione appartenente alla democrazia di questo paese, parte dell’argine che l’ha sostenuta nei momenti in cui è stata più duramente colpita. E un ruolo importante potrà essere svolto dalla rete delle riviste, sempre più articolata e vitale, che restituisce l’immagine di una magistratura impegnata nella riflessione e nell’elaborazione culturale, non ripiegata su se stessa ma aperta al confronto con il punto di vista esterno. Questa rete - come ha scritto Enrico Scoditti in una riflessione su Questione Giustizia - offre spazi di democrazia, platee di discussione e di confronto, luoghi di proposte e di controllo rispetto a quelle decidenti e può in questo momento sostenere e stimolare il percorso di rigenerazione culturale di cui abbiamo fortemente bisogno. *Segretaria di Magistratura Democratica Di rinvio in rinvio, i magistrati onorari sono ancora nel limbo di Giulia Bentley Il Domani, 3 luglio 2021 Si sta avvicinando il termine dell’entrata a regime della Riforma Orlando che provocherebbe un vero e proprio cataclisma negli uffici delle procure e dei tribunali italiani, già in affanno a causa dell’arretrato accumulatosi per l’emergenza pandemica. Con l’istituzione della commissione ministeriale che ha iniziato a maggio scorso i lavori volti ad addivenire ad una soluzione di modifica della normativa in vigore (cd Legge Orlando) i magistrati onorari in servizio, destinatari illo tempore di un regime transitorio caratterizzato dal mantenimento dello status quo fino alla data del 16.08.2021, hanno affidato alla Ministra Cartabia la fondata e legittima aspettativa di vedere finalmente riconosciuti i loro diritti. Mutata radicalmente la prospettiva giurisprudenziale (sentenza della CGUE del luglio 2020 e ripetute pronunce di giudici nazionali) e avendo sentito la Ministra esprimersi sulla necessità, improcrastinabile, di dare una soluzione che riconoscesse le “ineludibili” tutele a che serve lo Stato da oltre due decenni e avendola sentita ribadire che i magistrati onorari oggi in servizio non sono professionalità da adibire all’Ufficio del processo (caratterizzato da funzioni ancillari e di supporto), siamo certi che il lavoro della Commissione non potrà che rispettare quelle che per noi sono prerogative acquisite e riconosciute: permanenza nelle funzioni, tutele previdenziali ed assistenziali a carico dello Stato e una retribuzione che superi il modello del cottimo e che sia proporzionata alla nostra professionalità e al nostro ruolo. In data 19.05.2021, rispondendo all’onorevole Jacopo Morrone (Lega) in una interrogazione parlamentare a risposta immediata nel corso del question time, la ministra Cartabia ha, infatti, dichiarato che “occorrerà muoversi con urgenza per agire sul regime transitorio e che la Commissione ha il compito, anche, di analizzare le esigenze di tutela economica, previdenziale ed assistenziale dei magistrati onorari di lungo corso”. La commissione - La commissione ministeriale avrebbe dovuto terminare i lavori in data 25.06.2021 producendo un testo da sottoporre al legislatore per l’approvazione, parallelamente al lavoro della commissione Giustizia del Senato dove ancora si recepiscono proposte emendative ai testi in esame (ormai desueti e non più sostenibili da alcuno). Con comunicazione del 18.06.2021, la ministra ha prorogato il termine per il completamento dei lavori della commissione al 21.07.2021 e il presidente della stessa, il dottor Castelli, ne ha esplicitato le ragioni; occorre ancora acquisire il parere dell’INPS e occorre il vaglio del Ministero dell’Economia e Finanze e, nelle more, raccogliere e valutare i pareri delle Associazioni di categoria sull’impianto della nuova normativa. Noi crediamo e chiediamo che tale termine non venga utilizzato in toto e che i lavori possano concludersi quanto più velocemente possibile proprio in ragione dell’appropinquarsi dell’entrata a regime della Riforma Orlando che provocherebbe, come detto da ogni voce, un vero e proprio cataclisma negli uffici delle procure e dei tribunali italiani, già in affanno a causa dell’arretrato accumulatosi per l’emergenza pandemica. Insieme a ciò pare opportuno sottolineare che la scelta di intervenire normativamente per prorogare il termine sopradetto, in modo da impedire il verificarsi dell’implosione degli Uffici, equivarrebbe a continuare ad eludere quelle tutele a noi già riconosciute, lasciandoci in uno status illegittimo. Ancora proroghe - Ci chiediamo a questo punto: ma il Legislatore, che ha avuto quattro anni di tempo per rivedere una normativa palesatasi sin da subito inefficace e impraticabile per il sistema giustizia e che ha voluto approvare nonostante 110 procuratori della repubblica e presidenti di tribunale avessero chiesto di salvaguardare le nostre professionalità, come può prospettare la necessità di una proroga, che è l’esatto contrario di una soluzione! Noi riteniamo di avere pieno diritto a che si metta la parola fine all’ingiustizia in cui prestiamo servizio e lo si faccia ora. Eppure in commissione Giustizia è proprio il Pd, per bocca del senatore Mirabelli, ad introdurre tale argomento; fu proprio il Pd dell’allora Ministro Orlando che non lesinò, nel 2017, auto acclamazioni per aver salvato i magistrati onorari dalla precarietà e dal balletto delle proroghe. I lavori della commissione bene possono e devono essere recepiti in un decreto legge, sussistono pienamente i requisiti di necessità ed urgenza proprio in ragione della data del 16.08.2021, tralasciando l’incombente procedura di infrazione e le centinaia di ricorsi già pendenti dinanzi all’Autorità giudiziaria italiana per il riconoscimento di quanto nel tempo pervicacemente negatoci. Nessuna tutela - Stiamo continuando a lavorare sempre privi di ogni tutela, ma non siamo supereroi e gli accidenti della vita sono sempre dietro l’angolo; le affermazioni lusinghiere sul nostro fondamentale contributo più che ventennale al funzionamento della macchina della Giustizia non sono più sufficienti. Confidiamo che la ministra, che ben conosce la nostra vicenda e non avrà certo mancato di rilevare quanto il nostro status sia in contrasto con molteplici diritti costituzionalmente riconosciuti ad ogni cittadino italiano, non vorrà permettere che il Parlamento deliberi una proroga per l’entrata in vigore della Riforma Orlando nella parte relativa al cosiddetto “regime transitorio”. Ci limitiamo a rassegnare che una proroga sic et simpliciter in tal senso, dopo quattro anni di interlocuzioni e tavoli tecnici all’uopo costituiti, equivarrebbe ad una sconfitta del Legislatore stesso, sconfessando formalmente la bontà di quanto normato nel 2017 e definito “Riforma organica della Magistratura Onoraria”. Siamo stati esclusi dalla possibilità di attingere fondi dal Recovery Plan, che invece prevede un investimento notevole per l’assunzione di 16.500 unità di addetti all’Ufficio del Processo (con contratti triennali, già dichiarati come modificabili in rapporti di lavoro a tempo indeterminato); va sottolineato, però, che una delle condizioni per l’accesso ai fondi europei, in materia di Giustizia, è lo smaltimento dell’arretrato e la riduzione dei tempi di definizione dei procedimenti giudiziari, nel quale, è evidente, un ruolo decisivo può e deve essere svolto dalla Magistratura onoraria, risultato non ottenibile certo con l’impianto normativo della Legge Orlando. Il Governo dunque dovrà attivarsi per il reperimento dei fondi necessari perché il mantenimento del dogma dell’invarianza finanziaria non può, nel nostro caso, che condurre ad una prosecuzione coerente e determinata delle nostre rivendicazioni, in tutte le formule declinabili. La Consulta: “Illegittimo togliere gli aiuti sociali ai condannati per mafia e terrorismo” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 luglio 2021 Lo ha stabilito la Corte costituzionale per i condannati che hanno i benefici della detenzione domiciliare. “Sebbene queste persone abbiano gravemente violato il patto di solidarietà sociale che è alla base della convivenza civile, attiene a questa stessa convivenza civile che ad essi siano comunque assicurati i mezzi necessari per vivere”. Sono le parole scolpite dalla Corte Costituzionale per dichiarare illegittima la revoca dei trattamenti assistenziali ai condannati per mafia e terrorismo. È stato il tribunale ordinario di Fermo, sezione lavoro, a sollevare questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 61, della legge del 2012, relativa alle “Disposizioni in materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita”. La disposizione censurata prevede che: “entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, il ministro della Giustizia, d’intesa con il ministro del Lavoro e delle Politiche sociali, trasmette agli enti titolari dei relativi rapporti l’elenco dei soggetti già condannati con sentenza passata in giudicato per i reati di cui al comma 58, ai fini della revoca, con effetto non retroattivo, delle prestazioni di cui al medesimo comma 58, primo periodo”. La questione sollevata trae origine dai provvedimenti di sospensione, prima, e di revoca, poi, delle prestazioni assistenziali concesse, adottati dall’Inps nei confronti di G. T. Parliamo di un ex collaboratore di giustizia, condannato per reati commessi dal 1995 al 2003 e attualmente in regime di detenzione domiciliare, nonché portatore di handicap e invalido totale e permanente, con conseguente inabilità lavorativa. In virtù delle condizioni di assoluta indigenza economica, inoltre, allo stesso è stato riconosciuto il diritto a percepire la pensione d’invalidità civile. Ma a decorrere da maggio 2017 è stata revocata detta prestazione, con la richiesta di restituzione delle mensilità versate dal 1° marzo 2017. Per la Consulta, con la sentenza numero 137, relatore Giuliano Amato, è “irragionevole che lo Stato valuti un soggetto meritevole di accedere a tale modalità di detenzione e lo privi dei mezzi per vivere, quando questi sono ottenibili solo dalle prestazioni assistenziali”, perché “sebbene queste persone abbiano gravemente violato il patto di solidarietà sociale che è alla base della convivenza civile, attiene a questa stessa convivenza civile che ad essi siano comunque assicurati i mezzi necessari per vivere”. Per questo la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzione del comma 61, e, in via consequenziale, del comma 58 dell’articolo 2 della legge n. 92 del 2012. Il comma 58 prevede che con la sentenza di condanna per i reati più gravi, il giudice dispone la sanzione accessoria della revoca delle prestazioni dell’Inps. Mentre il comma 61 stabilisce che tale revoca, con effetto non retroattivo, è disposta dall’ente erogatore nei confronti dei soggetti già condannati con sentenza passata in giudicato all’entrata in vigore della legge del 2012. Tutto ciò è incostituzionale. Legittima interdittiva antimafia basata su precedenti penali e dichiarazioni dei collaboratori di Simona Gatti Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2021 Il parere del Consiglio di Stato su un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto contro un’interdittiva antimafia e contestuale diniego di iscrizione nella white list provinciale di un’impresa individuale. Legittima l’interdittiva antimafia che si basa su precedenti penali del titolare della società interdetta e dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Il Consiglio di Stato il 18 giugno ha espresso questo parere come richiesto dal ministero dell’Interno in merito a un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto, con istanza sospensiva, contro il provvedimento della Prefettura di Reggio Calabria con cui era stata disposta l’applicazione della misura interdittiva antimafia (ex art 91 d.lgs. 159/11) con contestuale diniego di iscrizione nella white list provinciale di un’impresa individuale. Ricorda Palazzo Spada che “la legislazione antimafia persegue l’obiettivo di prevenire le infiltrazioni mafiose nell’economia legale pubblica e privata, ovvero nei rapporti dei privati con le pubbliche amministrazioni e nei rapporti tra i privati, con la finalità di tutelare la sicurezza pubblica e contrastare la criminalità organizzata di stampo mafioso. In altri termini, in una prospettiva anticipatoria della difesa della legalità, l’autorità amministrativa ha come obiettivo l’eliminazione dal circuito dell’economia legale dei soggetti economici infiltrati dalle associazioni mafiose che, in quanto tali, esercitano la libertà di iniziativa economica privata assicurata dall’articolo 41 Cost. in contrasto con l’utilità sociale, in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana” Il sistema della documentazione antimafia si fonda sulla distinzione tra le fondamentali misure di prevenzione amministrative: le comunicazioni antimafia, richieste per l’esercizio di qualsiasi attività dei privati soggetta ad autorizzazione, concessione, abilitazione, iscrizione ad albi, segnalazione certificata di inizio attività (Scia) e cosiddetto silenzio assenso; e le informazioni antimafia che operano nei rapporti dei privati con le pubbliche amministrazioni (come contratti pubblici, concessioni e finanziamenti). Su queste ultime pesa la valutazione discrezionale da parte del Prefetto sul rischio di permeabilità mafiosa capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa. Così l’autorità prefettizia esprime un motivato giudizio, in chiave preventiva, circa il pericolo di infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa, interdicendole l’inizio o la prosecuzione di qualsivoglia rapporto con l’Amministrazione o l’ottenimento di qualsiasi sussidio, beneficio economico o sovvenzione. Il pericolo d’infiltrazione mafiosa, infatti, fa venir meno l’affidabilità dell’imprenditore sulla sua capacità di essere impermeabile ai tentativi della criminalità mafiosa di inserirsi nel tessuto economico e commerciale attraverso la sua impresa, di non cooperare né di prestarsi in alcun modo a disegni criminali. E quindi per la giurisprudenza amministrativa, l’interdittiva costituisce una misura preventiva con una funzione di massima anticipazione che punta a colpire l’azione della criminalità organizzata impedendole di avere rapporti con la Pa. Per quanto riguarda poi le motivazioni del provvedimento, il Consiglio di Stato ricorda che “occorre indicare gli elementi di fatto posti alla base della valutazione - elementi che possono essere desunti da provvedimenti giudiziari, atti di indagine o accertamenti svolti dalle Forze di Polizia in sede istruttoria - e che vanno esplicitate le ragioni in base alle quali, secondo la logica causale del “più probabile che non”, sia ragionevole dedurre il rischio di infiltrazione mafiosa nell’impresa sulla base di elementi indiziari gravi, precisi e, se plurimi, anche concordanti”. La motivazione può essere eventualmente fatta per relationem, richiamando i provvedimenti giudiziari o gli atti delle stesse Forze di Polizia, se essi contengono con chiarezza il percorso logico seguito dall’Amministrazione per formulare un giudizio di pericolosità. Infine sulla forma linguistica viene precisato che non si richiede all’informativa antimafia formalismi né formule sacramentali, basta una spiegazione asciutta, scarna e poco elaborata, dal quale, però emergano chiaramente le ragioni sostanziali che hanno giustificato tale misura. Nel caso specifico oltre ai precedenti di Polizia e ai procedimenti penali, nell’interdittiva antimafia è sinteticamente esposto il contenuto delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, collaboratori che inseriscono il titolare dell’impresa tra gli organici a una cosca mafiosa. Quindi se è vero - conclude il parere - che nel processo penale tali dichiarazioni non possono essere poste alla base del giudizio di colpevolezza se non si acquisiscono i riscontri esterni, in questo caso (anche per la diversità tra la logica del “più probabile che non “ e quella dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”) tali informazioni possono essere giustamente considerate, “ad colorandum, unitamente a tutti gli altri elementi indiziari, di per sé già sufficienti, per il giudizio in ordine al tentativo di infiltrazione mafiosa”. Appropriazione indebita e bancarotta per distrazione tutelano il medesimo bene di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2021 Sì della Cassazione alla sospensione del procedimento per reato appropriativo in attesa della dichiarazione di fallimento. La bancarotta per distrazione non si differenzia in nulla dall’appropriazione indebita se l’oggetto è il medesimo. Quindi una volta che sia intervenuta la dichiarazione di fallimento non è possibile l’imputazione per bancarotta se vi è stato già giudizio per appropriazione indebita anche se conclusosi con l’assoluzione. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 25350/2021, precisa il rapporto tra i due reati in caso in cui il presupposto delle due diverse imputazioni sia legato al medesimo evento “naturalistico” per condotta, nesso causale e conseguenza. È possibile un nuovo giudizio solo se il fatto che si intende punire è diverso. E non rileva ai fini del superamento del divieto del ne bis in idem la circostanza che con la medesima condotta siano in ipotesi stati violati più precetti penali. Dunque l’intervenuta dichiarazione di fallimento non costituisce in sé un fatto nuovo, ma soprattutto diverso. E non è di sicuro un fatto nuovo commesso dall’agente in quanto è un presupposto del reato di bancarotta che interviene in via del tutto indipendente dalla sua volontà. Ma nel caso risolto la Cassazione respinge le lamentele del ricorrente per la disposta sospensione del giudizio conseguente alla citazione per appropriazione indebita. Il giudice in tal caso in applicazione delle disposizioni dell’articolo 479 del Codice penale aveva, infatti, disposto la sospensione del procedimento appena iniziato per appropriazione indebita ai fini di attendere la risoluzione della questione civile sulla dichiarazione di fallimento da cui poteva conseguire una diversa qualificazione del fatto da punire. Un tale atto al momento iniziale del processo non è abnorme e non viola il divieto dell’articolo 649 del Codice di procedura penale che impedisce di sottoporre a nuovo giudizio il medesimo evento naturalistico già giudicato. Modena. La Corte Europea si pronuncerà sui morti nella rivolta nel carcere di Manuela D’Alessandro agi.it, 3 luglio 2021 I legali delle famiglie e l’associazione Antigone non si arrendono dopo che la magistratura ha archiviato l’inchiesta sugli otto deceduti nelle proteste in piena pandemia. Tutti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo contro l’archiviazione dell’inchiesta decisa dal gip di Modena sulla morte di otto detenuti nella rivolta dell’8 marzo del 2020 al penitenziario ‘Sant’Anna’ per protestare anche contro le restrizioni dovute al Covid. Una scelta, quella di andare fino in fondo, annunciata nei giorni in cui il mondo del carcere è scosso dall’indagine sulle violenze di Santa Maria Capua Vetere. “Una rivolta non è una situazione eccezionale” - “È una possibilità che stiamo prendendo in considerazione perché la decisione del gip, che ha sposato la tesi della Procura, non ci convince. L’eccezionalità della situazione non ‘coprè, come sostengono i magistrati, le responsabilità del personale medico e degli agenti della polizia penitenziaria” spiega all’AGI Alessia Filippi, avvocato dell’associazione Antigone, una delle più attive nel monitoraggio della situazione carceraria. “Questo perché, argomenta Filippi, “anzitutto una rivolta in carcere non è una situazione eccezionale, non è un terremoto. La gestione della sicurezza in carcere è disciplinata da protocolli e circolari che devono essere seguiti. La situazione che si era creata, e su questo non abbiamo da obbiettare alle conclusioni del gip, imponeva di trasferire i detenuti dal momento che l’istituto era ingestibile perché era stato distrutto tutto”. Ma, questo è il punto centrale per Antigone che aveva presentato opposizione alla richiesta dell’archiviazione assieme al Garante dei detenuti, le persone in overdose per l’abuso dei farmaci provenienti dagli armadietti saccheggiati “dovevano essere portate al pronto soccorso ed è su questo che si deve fare un processo per accertare eventuali responsabilità”. L’archiviazione dell’inchiesta per i reati di ‘omicidio colposo plurimo’ e ‘morte come conseguenza di altro reato’ risale al 17 giugno. Secondo il gip, la vicenda “ha trovato compiuta ricostruzione, nella sua genesi e nel conseguente sviluppo in termini spaziali e temporali, nelle relazioni depositate dalla Polizia penitenziaria e dalla Squadra Mobile della Questura modenese”. Resta aperta l’inchiesta sui pestaggi raccontati dai reclusi - Chiuso, salvo appendici europee, questo capitolo d’indagine, resta aperto quello sui presunti pestaggi ai detenuti nato da due lettere inviate all’AGI da due detenuti che denunciano di avere subito “abusi”. Entrambe le persone che riferiscono di essere state vittime di violenze gratuite hanno viaggiato da Modena ad Ascoli assieme a Salvatore ‘Sasà’ Piscitelli, il quarantenne per il quale i suoi compagni di teatro di Bollate, dove era recluso prima di Modena, avevano fatto un appello per sapere la “verità” sulla sua scomparsa. “Ammazzavano la gente” - “A me dispiace molto per quello che è successo - è scritto nella prima delle due missive - Io non c’entravo niente. Ho avuto paura…Ci hanno messo in una saletta dove non c’erano le telecamere. Ammazzavano la gente con botte, manganelli, calci e pugni. A me e a un’altra persona ci hanno spogliati del tutto. Ci hanno colpito alle costole. Un rappresentante delle forze dell’ordine, quando ci siamo consegnati, ha dato la sua parola che non picchiava nessuno. Poi non l’ha mantenuta”. In questi mesi sono stati rintracciati e sentiti gli autori delle lettere acquisite dalla Procura. “Ci aspettiamo che questi esposti vengano valutati con massima attenzione ancora di più dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere - afferma l’avvocato Luca Sebastiani, legale di Hafedh Chouchane, morto a 36 anni a pochi giorni dal fine pena -. Anche alla luce di queste denunce non comprendiamo perché non siano state disposte nuove indagine sugli otto decessi. A ogni modo, siamo al lavoro per la redazione del ricorso alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo in collaborazione con alcuni dei migliori professori accademici che hanno offerto la loro disponibilità per questa causa. Confidiamo che in quella sede potremo evidenziare le nostre perplessità e ricevere la dovuta attenzione, in particolare riguardo al tema del sovraffollamento che ha avuto un ruolo determinante sia sul potenziale contenimento che sui ritardi nei soccorsi”. Modena. Ci sono ancora cose che non sappiamo sulla rivolta in carcere di Luca Sofri ilpost.it, 3 luglio 2021 Le indagini sulle morti di 9 detenuti nel marzo 2020 sono state archiviate, ma per gli avvocati delle famiglie mancano dei pezzi. Il pestaggio dei detenuti da parte della polizia penitenziaria nel carcere campano di Santa Maria Capua Vetere dell’aprile del 2020, al centro di un caso politico in questi giorni per via delle decine di arresti nelle forze dell’ordine e della diffusione di un video che le documenta, avvenne circa un mese dopo che in diverse altre prigioni italiane ci furono violente rivolte tra i detenuti e dure repressioni, nei primi giorni dell’epidemia da coronavirus. Tra il 7 e il 10 marzo ci furono 13 morti: tre a Rieti, uno a Bologna e nove nella Casa Circondariale Sant’Anna di Modena, direttamente nell’istituto penitenziario o mentre i detenuti, in condizioni d’emergenza senza che però nessuno li ritenesse in pericolo di vita, venivano trasportati verso altri istituti. Su ciò che accadde in quelle circa 60 ore sono state svolte indagini contro ignoti, con le ipotesi di reato di omicidio colposo e morte come conseguenza di altro delitto. Il gip Andrea Romito, il 17 giugno, ha deciso l’archiviazione del caso su richiesta degli stessi pubblici ministeri. Secondo il gip la causa “unica ed esclusiva” del decesso dei carcerati fu “l’asportazione violenta e l’assunzione di estesi quantitativi di medicinali correttamente custoditi all’interno del locale a ciò preposto”. In pratica, riassumendo: i detenuti hanno fatto tutto da soli. Ma gli avvocati delle famiglie dei detenuti morti, e altri esperti che hanno seguito la vicenda, ritengono che le cose che ancora non sappiamo di quanto successe in quei giorni siano molte, e che servirebbero altre indagini per chiarire come siano morte almeno alcune di quelle persone. In tre giorni, da venerdì 7 a lunedì 9 marzo 2020, l’Italia entrò nell’emergenza coronavirus. Nella notte tra il 7 e l’8 il presidente del Consiglio Giuseppe Conte firmò il primo dei tanti DPCM presentandolo, in diretta televisiva, con queste parole: “Sto per firmare un provvedimento che possiamo riassumere con l’espressione “Io resto a casa”. L’Italia sarà interamente zona protetta”. Queste parole vennero ascoltate in ogni casa italiana, e in ogni carcere: dove non si può “restare a casa”, e dove non esistono “zone protette”. Secondo i dati del ministero della Giustizia, in Italia i detenuti sono circa 62.000 mentre la capienza regolare delle carceri non dovrebbe superare il numero di 50.931. Per fare due esempi: nel carcere romano di Regina Coeli sono ospitate normalmente 1070 persone mentre la capienza è di poco superiore a 600. A Brescia i detenuti sono il doppio della capienza: 360 per 189 posti. È in questa situazione di sovraffollamento che dalle televisioni presenti nelle celle arrivarono le notizie di un virus mortale, altamente contagioso. L’invito, difficile da accogliere in un carcere, era a “non assembrarsi”. Nel frattempo venivano sospese le visite dei familiari e l’ingresso dei volontari. È solo con il passare delle settimane che molti istituti di pena, spesso su sollecitazione degli stessi direttori, si attrezzarono per garantire colloqui con videochiamate. Ma era comunque troppo tardi. Nei primi giorni dell’emergenza da coronavirus nessuno, a livello istituzionale, si attivò per prevenire l’emergenza che stava prendendo forma nelle carceri. La rivolta scoppiò in 70 istituti penitenziari. Dal carcere di Foggia riuscirono a fuggire in 60. A Milano tutto partì dal reparto La Nave, dove risiedono i detenuti tossicodipendenti. Molti salirono sul tetto, altri aprirono a forza le porte dell’infermeria portando via metadone e psicofarmaci. Le stesse scene si ripeterono ovunque; solo nelle carceri della Calabria e della Sicilia, dove il controllo ferreo è esercitato da ‘ndrangheta e mafia, la situazione rimase relativamente tranquilla. A morire, o a rischiare la morte, furono soprattutto quelli che nel linguaggio carcerario sono i detenuti di terzo letto. Quelli che nei letti a castello stanno all’ultimo piano appunto, quello in alto: al primo ci sono i capi, in mezzo le seconde file e nel terzo letto la manovalanza, spesso con problemi di tossicodipendenza. La rivolta a Modena iniziò l’8 marzo e fu particolarmente violenta. Venne appiccato il fuoco ai materassi, in un’ala del carcere l’incendio si sviluppò forte e veloce. I detenuti poi assaltarono la farmacia. Furono rubate ingenti quantità di metadone e moltissime sostanze psicotrope. In un primo tempo venne detto che i detenuti avevano aperto la cassaforte dove erano custodite le scorte dei farmaci grazie a un flessibile. In realtà durante l’inchiesta vennero avanzate due altre ipotesi: che l’armadio blindato non fosse stato chiuso dagli infermieri di turno o che fu aperto con una chiave recuperata in una cassetta di sicurezza che era stata aperta dai rivoltosi. Tra l’8 e il 10 marzo morirono Hafedh Chouchane, Erial Ahmadi, Slim Agrebi, Ali Bakili, Lofti Ben Mesmia, Ghazi Hadidi, Artur Iuzu e Abdellha Rouan. Alcuni all’interno del carcere Sant’Anna, altri durante il trasporto oppure quando già erano arrivati in altri istituti, ad Alessandria, Parma, Verona. Un altro detenuto, Salvatore Piscitelli, morì ad Ascoli dopo il trasferimento, il 10 marzo. La sua vicenda, anche giudiziaria, è un caso a parte rispetto a quella degli altri detenuti morti. “Avevamo evidenziato che negli atti di indagine emergevano tre versioni differenti in relazione ai soccorsi ad Hafedh” dice al Post Luca Sebastiani, avvocato della famiglia di Hafedh Chouchane, il primo detenuto di cui fu riscontrato il decesso. “Sia con riguardo al posto dove lo stesso veniva consegnato agli agenti della Penitenziaria, sia all’orario in cui ciò è avvenuto. E stiamo parlando di differenze macroscopiche, che non sono state chiarite”. Hafedh Chouchane è morto per overdose da metadone. Ma è su come e sui tempi con i quali furono prestati i soccorsi, su cosa accadde tra il termine della rivolta e la decisione dell’amministrazione penitenziaria di trasferire in altre carceri 417 detenuti su 546, che ci sono ancora molte cose da chiarire, secondo i legali. “Ci sono molte perplessità anche prendendo in considerazione la ricostruzione avallata dalla Procura” continua Sebastiani, “ovvero che Hafedh sia stato consegnato alla Penitenziaria alle 19.30 nei pressi del passo carraio interno del carcere, ed è poi arrivato all’attenzione del medico alle 20.20 quando non aveva segni di vita. Parliamo di 50 minuti per effettuare poche decine di metri, nei quali, se soccorso tempestivamente, poteva essere salvato. Questo aspetto, di notevole importanza per la nostra posizione, doveva essere adeguatamente chiarito. Vi sono giganteschi buchi orari. In quel tempo per salvarlo qualcosa si sarebbe potuto fare, si sarebbe dovuto fare”. Secondo l’Osservatorio Diritti, un giornale online che si occupa di diritti umani, al Sant’Anna terminata la rivolta c’erano decine di detenuti da visitare: la situazione venne definita da “campo di guerra”. Una dottoressa testimoniò, sempre secondo Osservatorio Diritti, di aver visitato 40 detenuti in circa due ore: tre minuti a testa. Secondo i legali, Sebastiani, Gianpaolo Ronsisvalle del Garante nazionale dei detenuti e Simona Filippi dell’associazione Antigone, si susseguirono errori su errori. I detenuti furono riportati in cella senza che nessuno decidesse di controllare se avevano con loro le sostanze rubate nell’infermeria. Su questo punto, i pubblici ministeri risposero così: “È evidente come l’esecuzione di perquisizioni personali a carico dei detenuti, al momento del loro ingresso in cella, non sia finalizzata a tutelare colui che fa ingresso in carcere e ad evitare che porti con sé beni che possano nuocere alla sua salute, nel caso specifico metadone. Ma al contrario è giustificata da motivi di sicurezza, ossia dalla necessità di evitare situazioni di pericolo capaci di mettere a repentaglio l’ordine e la sicurezza dell’istituto”. Secondo i pm che hanno chiesto l’archiviazione, insomma, la scelta di non perquisire i detenuti fu giustificata dal fatto che con i farmaci avrebbero potuto magari mettere a rischio se stessi, ma non la sicurezza del carcere. Molti detenuti furono poi trasferiti. “Alcuni barcollavano, non stavano in piedi, la situazione era visibile da tutti” dice Simona Filippi, avvocata dell’Associazione Antigone. “Secondo noi non si poteva procedere a quei trasferimenti che invece avvennero”. Alcuni detenuti arrivarono a destinazione già deceduti, altri morirono una volta giunti nella nuova cella. È il caso di Salvatore Piscitelli sulla cui morte è stata aperta un’inchiesta dopo la denuncia di alcuni suoi compagni trasferiti anch’essi dal Sant’Anna. Secondo questi detenuti, Piscitelli era stato picchiato e stava malissimo a causa delle sostanze assunte. A più riprese, sempre secondo la loro testimonianza, fu richiesto l’intervento delle guardie carcerarie e quindi del medico senza che avvenisse nulla. Fino a che non venne, semplicemente, constatato il decesso. Su alcuni detenuti morti a Modena, dice ancora al Post l’avvocata Filippi, “sono stati riscontrati segni di violenza. Le autopsie hanno accertato che tutte le morti sono avvenute per overdose. Solo un’autopsia pare non sia stata effettuata e noi chiediamo da tempo che venga chiarita la vicenda”. Dice l’avvocato Sebastiani: “La consulenza del medico legale nominato dalla Procura ha escluso che ci siano state violenze su Hafedh. Purtroppo, non avendo partecipato con il nostro medico all’autopsia, dato che i familiari non sono stati avvisati, non abbiamo elementi per poter mettere in discussione questo aspetto e non l’abbiamo fatto”. Ma perché il gip ha deciso l’archiviazione nonostante le zone d’ombra fossero molte? “In pratica il Giudice per le indagini preliminari ha detto che certo ci furono errori in quelle ore al Sant’Anna di Modena”, spiega l’avvocata Filippi, “ma che data l’eccezionalità del caso, la straordinarietà di ciò che stava accadendo, quegli errori sono in pratica legittimati. Noi pensiamo invece che una rivolta in un carcere non può essere considerata un fatto non prevedibile. Quegli errori non dovevano essere fatti. A Modena sono morti otto detenuti. Nove, se consideriamo la vicenda di Piscitelli. In altre carceri dove sono avvenute rivolte non ci sono stati decessi. È la prova che al Sant’Anna molto non ha funzionato”. L’avvocato Sebastiani sta preparando il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo mentre l’Associazione Antigone, i cui atti non sono stati ammessi perché sia l’associazione sia il Garante dei detenuti non sono state considerate “persone offese”, ha presentato ricorso. A Modena e in altre carceri tra il 7 e il 10 marzo la situazione sfuggì completamente al controllo. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, parlando il 10 marzo alla Camera, disse che le violenze erano “ascrivibili a una ristretta parte dei detenuti in quanto la maggior parte ha manifestato difficoltà e paura”. Le proteste dei detenuti continuarono anche nelle settimane successive fino ad arrivare al caso dei pestaggi di Santa Maria Capua Vetere, un mese dopo, a cui seguì la violenta ritorsione delle guardie penitenziarie con schiaffi, pugni, calci e manganelli. Rieti. Morti e sommossa in carcere, indaga la Procura Corriere di Rieti, 3 luglio 2021 La lettera dei detenuti: “Ci hanno massacrato per vendetta”. Detenuti fatti spogliare, chi più chi meno, tirati fuori con forza dalle rispettive celle, divisi in varie stanze, e lì presi a calci, schiaffi e manganellate. E poi insulti, a raffica, per un’intera settimana, quella immediatamente successiva alle proteste scoppiate in diversi istituti di pena di tutta Italia dall’8 all’11 marzo del 2020, durante la prima pandemia di Covid. Sono le presunte violenze subite dagli stessi detenuti, denunciate in una lettera scritta dai detenuti del carcere Nuovo Complesso di Rieti, e che secondo quanto riportato ieri dalle pagine nazionali del quotidiano La Repubblica è al centro di un’inchiesta condotta dalla Procura della Repubblica di Rieti, che si appresterebbe a chiudere le indagini sulle morti dei tre detenuti Marco Boattini (40 anni), Ante Culic (41 anni), e Carlos Samir Perez Alvarez (28 anni), deceduti nella struttura detentiva a seguito della protesta che, in quei giorni, infiammava numerosi penitenziari in tutta Italia. Secondo la ricostruzione dei giornalisti Fabio Tonacci e Giuliano Foschini, nel carcere di Rieti, così come in quello di Modena, in Emilia Romagna, si sarebbero verificati atti di violenza da parte delle guardie carcerarie, a mo’ di rappresaglia per la protesta scatenata dai detenuti. E sarebbe proprio nelle parole dei compagni di cella dei carcerati morti che, secondo la lettera riportata testualmente da La Repubblica, vengono messe nero su bianco le violenze e le persecuzioni: “Per noi che eravamo lì, nei giorni a seguire non è stato facile - si legge negli stralci della missiva pubblicati dal portale online del quotidiano - sono entrati cella per cella, ci hanno spogliato chi più chi meno e ci hanno fatto uscire con la forza, messi divisi in delle stanze e uno alla volta passavamo per un corridoio di sbirri che ci prendevano a calci, schiaffi e manganellate; per i più sfortunati tutto ciò è durato quasi una settimana tra perquisizioni, botte, parolacce. ci dicevano ‘merde, testa bassa!’, ‘vermi’ e quando l’alzavi per dispetto venivi colpito ancora più forte”. Dettagli altrettanto inquietanti vengono poi rivelati anche sulla morte dei tre detenuti rinchiusi a Rieti, fatti sui quali stanno indagando i magistrati della procura reatina. Il Garante regionale per i detenuti del Lazio, Stefano Anastasia, apprende la notizia dal Corriere di Rieti, rivelando però come “segnalazioni situazioni avvenute nel carcere di Rieti ne abbiamo avute, da parte di parenti e familiari dei detenuti, e anche di associazioni - spiega il Garante - ma di certo non così specifiche e circostanziate come quelle rivelate oggi (ieri, ndr). Siamo a conoscenza di un’indagine in corso da parte della Procura della Repubblica di Rieti, in merito alla quale però, al momento, non abbiamo alcun dettaglio”. Si dice all’oscuro di ogni evento Massimo Costantini, segretario regionale del Lazio di Cisl-Sicurezza: “A noi non risulta nessun atto di violenza o intimidazioni, quand’anche aggressioni vere e proprie, avvenute nel carcere di Rieti né in quei giorni né in quelli seguenti - dice al Corriere di Rieti - ad ogni modo, se ci fosse un’indagine della magistratura in corso, sarà quella la sede deputata a fare chiarezza in merito”. Nei giorni scorsi, sulla scia degli avvenimenti che hanno investito la struttura penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta (da cui è partita la ricostruzione de La Repubblica), era intervenuto anche il segretario generale della federazione nazionale della sicurezza Cisl, Massimo Vespia, ribadendo come “non si può fare di tutta erba un fascio. Siamo certi che la magistratura porterà avanti l’accertamento delle responsabilità dei singoli, ma se da una parte si condannano i responsabili di quanto avvenuto, dall’altra si esprime sostegno e solidarietà del sindacato al corpo sano di un organismo che da sempre è al servizio dello Stato e della collettività”. Monza. Violenze in carcere contro un detenuto: 5 agenti rinviati a giudizio di Luca De Vito La Repubblica, 3 luglio 2021 Sono accusati di vari reati tra cui lesioni, abuso d’ufficio e violenza privata. Il processo si aprirà a novembre. Calci e pugni nel corridoio della casa circondariale di Monza. Cinque tra agenti e ispettori della polizia penitenziaria brianzola sono stati rinviati a giudizio ieri per i reati di lesioni aggravate, falso, calunnia, violenza privata, abuso d’ufficio e omessa denuncia: reati contestati per l’aggressione ai danni di un detenuto che risale all’agosto del 2019. A tenere il filo di questa storia e a ricostruire i fatti confluiti in una denuncia, sono stati gli avvocati dell’associazione Antigone che si occupa di diritti dei detenuti. Tutto è cominciato con la telefonata all’associazione da parte del fratello della vittima che ha raccontato la violenta aggressione fisica presso la Casa circondariale di Monza. La colpa del detenuto, U. M., sarebbe stata quella di aver portato avanti una protesta, lo sciopero della fame, per chiedere di essere trasferito in un altro carcere. L’uomo è stato colpito proprio quando, in barella, un’infermiera lo stava riportando in cella. Agli atti dell’inchiesta c’è anche un video che mostrerebbe l’aggressione, ma che viene contestato dagli avvocati difensori degli imputati. Calci e pugni erano addirittura costati al signor U.M, un provvedimento disciplinare che lo aveva posto in isolamento (provvedimento che poi è stato impugnato). L’associazione nel settembre del 2019 ha fatto un esposto alla procura di Monza che un anno dopo ha portato avanti il procedimento, la quale ha però anche chiesto (e ottenuto) l’archiviazione per il reato di tortura. Ieri mattina il rinvio a giudizio per i cinque uomini della Penitenziaria, di cui un commissario che non avrebbe partecipato fisicamente al pestaggio. “Nei giorni in cui è esploso il caso delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, quello che arriva da Monza è un altro segnale importante di come non ci debba essere spazio per l’impunità davanti ad episodi di questo tipo - ha dichiarato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone che si è costituita parte civile nel procedimento - Ora attendiamo l’inizio del processo penale che, anche in questo caso, dovrà stabilire cosa accadde nell’istituto di Monza. Come sempre, ci auguriamo che anche in questo caso il governo si costituisca parte civile per dare un segnale forte a tutti gli operatori penitenziari, soprattutto a coloro che ogni giorno svolgono il proprio lavoro nel rispetto della Costituzione e quindi della dignità dei detenuti. Segnale arrivato dall’Amministrazione Penitenziaria che, nel caso specifico, ha collaborato affinché si accertassero i fatti”. Taranto. La direttrice: noi salviamo i detenuti, lo Stato ci dimentica di Paolo Vites ilsussidiario.net, 3 luglio 2021 La violenza nelle carceri è frutto di una situazione di abbandono completo dell’istituzione penitenziaria da parte dello Stato che dura da troppo tempo. “In carcere produciamo da soli 20mila mascherine al mese perché la Asl non ci ha mai fornito dispositivi di sicurezza. I direttori penitenziari non furono presi in considerazione nello stanziamento fondi del primo ddl come tutte le altre autorità preposte al contenimento dell’emergenza Covid. Lo Stato italiano da sempre ha abbandonato gli istituti penitenziari, siamo gli ultimi tra gli ultimi”. È un torrente in piena Stefania Baldassari, direttore della Casa circondariale/reclusione di Taranto e segretario generale dell’Associazione Nazionale Dirigenti Penitenziari, da noi intervistata a proposito delle violenze avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere che stanno scioccando l’opinione pubblica. “Gli assistenti sociali e gli educatori pedagogici non mettono piede nel carcere da quando è cominciata l’emergenza Covid, il nostro dirigente sanitario, adesso che si è verificato un nuovo focolaio, ha pensato bene di restare a casa, e questo perché lo Stato ha ceduto la sanità penitenziaria a imprese locali. Io sto qui sul posto più tempo che con la mia famiglia e così i poliziotti penitenziari”. Non c’è da stupirsi che accadano rivolte: “Condanno fermamente quanto abbiamo visto tutti, ma vorrei tanto che i media una volta sola si occupassero dei 46mila poliziotti penitenziari che ci sono in Italia e che salvano le vite dei detenuti, e non solo di questi 52 violenti”. I filmati delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere risalgono al marzo 2020, in quel periodo si contarono diverse manifestazioni dei detenuti per mancanza di dispositivi sanitari. È vero che in quel periodo tutta l’Italia era nel caos, ma si può dire che le carceri furono trascurate del tutto? Ho vissuto in primissima linea tutta l’emergenza Covid. Già il 23 febbraio 2020 la nostra amministrazione penitenziaria pose in essere i primi correttivi, quelli relativi al blocco dei trasferimenti nel territorio nazionale. Da allora siamo sempre in emergenza, è appena scoppiato in questi giorni un nuovo focolaio dentro la struttura. Ci può spiegare nei dettagli quello che avete vissuto e state vivendo? L’amministrazione penitenziaria nella sua complessità, a tutti i livelli, non ha avuto e ancora non ha la necessaria attenzione da parte dello Stato italiano rispetto alla gestione del Covid all’interno delle strutture penitenziarie. Ci può citare degli esempi? Le parlo del nostro caso. Ci siamo inventati in assoluta solitudine i protocolli sanitari per il contenimento della diffusione, ci siamo inventati le modalità di difesa rispetto a questo fenomeno che era nella sua massima recrudescenza. È stato implementato in tutta Italia lo smart working, ma non da noi. Ci siamo trovati per 15 giorni consecutivi senza figure fondamentali come gli educatori, che si sono messi in malattia, non avevo più funzionari giuridici pedagogici in istituto, sa cosa vuol dire? Ce lo dica... Gestire una emergenza in un carcere senza educatori, senza gli assistenti sociali che non entrano nel penitenziario per assolvere al loro mandato istituzionale da marzo 2020, ecco cosa stiamo vivendo. I contatti previsti dall’ordinamento penitenziario tra detenuto e complesso esterno sociale, che per mandato costituzionale è in capo all’ufficio per l’esecuzione penale esterna, non avvengono più, è una cosa gravissima. Come avete fatto fronte all’emergenza? Eravamo senza mascherine, la Asl ancora oggi non ce le fornisce. Avevamo avuto una piccola donazione di macchine per cucire industriali con cui volevamo implementare il nostro reparto sartoria, ma nessuno le sapeva usare. Un giorno, in preda alla disperazione, ho chiesto a un detenuto che è ingegnere se poteva mettere mano a quelle macchine. Gli ho dato il libretto di istruzioni scritto in inglese, per tutta la notte se l’è studiato ed è riuscito a far partire le macchine e così possiamo produrci da noi 20mila mascherine al mese. Tutto questo è assenza dello Stato. Una cosa gravissima di cui nessuno parla. Perché? Vorrei che si capisse che la figura del direttore penitenziario è una figura essenziale di equilibrio. Sono dovuta intervenire personalmente con il sottosegretario alla Giustizia, Giorgi, perché i direttori degli istituti penitenziari non erano stati inseriti nel quadro degli stanziamenti dei fondi nel primo ddl per fronteggiare l’emergenza. Noi direttori, incarcerati con i detenuti, non facevamo parte delle autorità preposte a gestire l’emergenza. Giorgi con grande sensibilità è intervenuto tempestivamente. Non si può affidare il carcere a un’autogestione rimessa alla discrezionalità di chi ha voglia di farlo e soprattutto con una Asl che non sa fare e non vuole fare il suo lavoro. I tracciamenti dei percorsi li ho fatti io con il comandante delle guardie senza che la Asl intervenisse. Come è la situazione attuale nel suo carcere? Abbiamo 60 detenuti positivi e 457 quarantenati. Ma come si giustifica la Asl davanti a tutto questo? Non si giustifica, è uno stipendificio dove l’unico problema che hanno è di esimersi dalle competenze. Un altro aspetto che denuncia la mancanza dello Stato è quello che riguarda i detenuti con problemi psichiatrici. Hanno chiuso gli Opg, ma non hanno creato strutture apposite per loro, ce li abbiamo noi ed è un grande problema. Questo è un aspetto tipico della malattia mentale: se non ci fossero strutture private che accolgono queste persone sarebbero tutte in mezzo alla strada… Vivo una vicenda kafkiana. Lo scorso aprile un detenuto doveva essere scarcerato per fine pena, quest’uomo era un soggetto libero e io come direttore ho solo un obbligo, porlo fuori dalla struttura. Ma era positivo. Quindi era pericoloso per la comunità? Certo. Chiamo la Asl e dico: devo scarcerare un detenuto che deve andare a Cerignola ma è positivo, datemi indicazioni su cosa devo fare. Mi chiama il direttore generale e mi mette in contatto con l’ufficio di prevenzione. Cosa le hanno detto? Che non posso scarceralo perché è positivo. Io rispondo che non posso trattenerlo perché è un sequestro di persona e chiedo un’ambulanza per accompagnarlo al suo domicilio in isolamento sanitario. La Asl mi risponde: e chi la paga l’ambulanza? Ho dovuto minacciarli di sequestro di persona per ottenere un’ambulanza. Torniamo ai filmati delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Venere. La domanda che tutti si fanno è: nelle carceri vige ancora il metodo repressivo più che quello educativo? Le immagini hanno creato sgomento, sconcerto e smarrimento, ma le assicuro che il corpo di polizia penitenziaria, con il quale tutti i giorni passo più tempo che con la mia famiglia, vive una condizione davvero esasperante ed esasperata. Non giustifico quello che si è visto, ma racconta una immagine della polizia davvero non corrispondente. E vorrei dire che anche la stampa ha delle colpe. In che senso? Esiste un luogo comune da parte della stampa che va a consolidare l’opinione pubblica. Si parla di polizia penitenziaria solo rispetto a questi eventi, che io condanno, ma qualche volta la stampa si è mai occupata e preoccupata di quanti detenuti i poliziotti salvano? Di quanti detenuti aiutano? Il contatto diretto fra detenuti e poliziotti dura 24 ore su 24, gli educatori finiscono l’orario, timbrano e se ne vanno, gli assistenti sociali è da un anno e mezzo che non si fanno vedere, i volontari svolgono una funzione eccezionale, ma vengono quando possono. Chi sta nell’assoluta solitudine di una emergenza è il poliziotto penitenziario che non è un eroe che ha deciso di sacrificarsi e vivere l’abbandono dei detenuti. La violenza è una reazione ingiustificata, deplorevole, senza alcuna giustificazione, però il poliziotto penitenziario fronteggia in assoluta solitudine una emergenza mondiale, dove ci sentiamo gli ultimi degli ultimi. Cosa andrebbe fatto? Vanno ripristinati degli equilibri e lo Stato deve comprendere i suoi errori. La rieducazione, l’articolo 32, sono concetti dimenticati. Lo Stato ha ritenuto di delegare in via esclusiva ai penitenziari tutta la gestione, continuerà a essere un fallimento nella misura in cui non si capirà che per il reinserimento e la rieducazione si concorre insieme. Non si può vedere che un detenuto positivo al Covid venga abbandonato in mezzo alla strada. Lei spera che nella sua riforma della giustizia il ministro Cartabia si ricordi di voi? Ho grande fiducia nel ministro, nelle sue parole ha raccontato con equilibrio e straordinaria lucidità di valutazione quello che è accaduto. Sono certo che l’amministrazione riuscirà a isolare quelle minoranze violente, iniziando un percorso di narrazione che sia anche altro da quello del poliziotto violento e basta. Milano. Particolari inquietanti per la morte di Francesco Di Dio nel carcere di Opera di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 luglio 2021 Sarebbe stato soffocato? Francesco Di Dio, ufficialmente è morto di infarto, il detenuto ergastolano, però, presentava ematomi in diverse parti del corpo. Ma quello che colpisce di più, è un segno circolare intorno al collo. Secondo la medicina legale il decesso è sopraggiunto per mancanza naturale di ossigenazione. Ma secondo il medico legale di parte la causa della mancata ossigenazione sarebbe stata causata da una pressione. Era molto malato e aveva subito l’amputazione di un piede - Francesco Di Dio aveva molte patologie, tanto da aver subito anche l’amputazione di un piede, ma lo hanno fatto rimanere in carcere, a Opera di Milano, senza concedergli alcuna detenzione domiciliare per motivi di salute. Nulla. Alla fine è morto a 48 anni il 3 giugno del 2020. Era il periodo delle indignazioni sulle “scarcerazioni”, cavalcate da taluni giornali e trasmissioni televisive. Tutto ciò ha irrigidito la concessione di benefici per motivi umanitari, una violenza mass mediatica che ha portato anche alle morti di diversi detenuti incompatibili con il carcere. Depositata denuncia alla procura di Milano - Ma la vicenda di Francesco Di Dio è ancora più inquietante, non essendo emersa alcuna responsabilità. Per questo, l’altro giorno, l’avvocato Daniel Monni, ha depositato presso la procura di Milano la denuncia di Maria Rosa Cecilia Di Dio, zia di Francesco. Aveva poco più di 18 anni quando era stato condannato all’ergastolo a vita. Quando si dice che i mafiosi possono morire pure in carcere, perché tanto sono dei mostri incurabili, bisogna ricordare che ci sono storie individuali che bisogna conoscere. Arrestato a 18 anni era stato condannato all’ergastolo ostativo - Francesco Di Dio, originario di Gela, era ancora adolescente con problemi di tossicodipendenza quando divenne strumento della criminalità organizzata. Ha partecipato a un regolamento di conti tra appartenenti alla Stidda e a Cosa Nostra, che aveva causato diversi morti nel 1990. Tratto in arresto appena 18enne, è stato condannato all’ergastolo. Quello ostativo. Era iscritto all’associazione “Nessuno Tocchi Caino” - La sua scelta era stata quella di non collaborare con la giustizia, ma intraprese un percorso che lo ha portato a redimersi, rendendosi conto che da ragazzino si era fatto traviare dai boss della Stidda, tanto da iscriversi all’associazione del Partito Radicale “Nessuno Tocchi Caino”. Ma per la dura legge emergenziale, poi diventata ordinaria in un Paese che ha la peculiarità di essere uno “Stato di eccezione”, Francesco non può aver scampo. O fa i nomi di qualcuno relativi a fatti di 30 anni fa, oppure può uscire dal carcere solo in una bara. Così purtroppo è accaduto. Era affetto da gravissime patologie. Sembrava un bollettino di guerra il suo corpo: arteriopatia agli arti inferiori in fase avanzata che provocò l’amputazione del piede sinistro nel 2012, epatopatia HBV correlata, iperpara-tiroidismo secondario, simpatectomia lombare sinistra, formazione cistica pluriconcamerata di 3 centimetri in sede sottotiroidea paratracheale, epatomegalia in steatosi epatica. Ma non sarebbero quelle le cause della sua morte, anche se la sofferenza era palpabile e meritava diversa allocazione. Dalla denuncia emergerebbero particolari inquietanti - Dalla denuncia depositata presso la procura di Milano, si legge che dalle immagini catturate nel corso dell’autopsia si evidenziano elementi che sino ad ora erano stati del tutto trascurati. Il cadavere presentava diverse macchie ipostatiche: le più significative si palesavano nel collo, nella schiena, nelle natiche e nella parte posteriore degli arti inferiori. Evidenziava, inoltre, un anomalo e acceso eritema al volto, al collo ed alla parte anteriore del torace. Ai margini della bocca era presente un liquido rossastro e ai bordi del collo era presente un anello ipostatico. La sua morte potrebbe essere stata causata da soffocamento - Cosa sta a significare secondo il parere del medico legale di parte? Un qualcosa di indicibile. Secondo la denuncia depositata nella Procura di Milano, il decesso di Francesco Di Dio, in estrema conclusione, scaturisce “in un meccanismo naturale di acuta insufficienza di circolo in soggetto cardiomegalico ed affetto da arteriopatia obliterante degli arti inferiori” ma, casomai - si legge nella denuncia - “deve essere ascritta ad un’improvvisa ed innaturale insufficienza di apporto di ossigeno che ha comportato un tentativo di compensazione di circolo da parte del cuore con fortissima elevazione della pressione”. In poche parole: la sua morte potrebbe essere stata causata per soffocamento. Per dipanare ogni dubbio, sarebbe bastato vedere le immagini della videosorveglianza. I famigliari di Francesco Di Dio, hanno chiesto l’acquisizione dei filmati di videosorveglianza delle sue ultime 48 ore di vita. Ma come ha reso pubblico la signora Maria Di Dio, sua zia, non vi sono stati ancora forniti. Ma oramai è troppo tardi, le ultime vicende sui pestaggi in carcere insegnano che vanno acquisite subito, altrimenti si perdono. Intanto la denuncia è stata depositata, ora sarà la Procura a vagliare. Piacenza. Il sottosegretario leghista: “Agli agenti ora serve dare il taser” di Giovanni Stinco Il Manifesto, 3 luglio 2021 Il giorno dopo le condanne in primo grado di cinque dei sei carabinieri di Piacenza accusati di spaccio e tortura per la vicenda della caserma Levante (il sesto ha scelto il rito ordinario), il sottosegretario al Ministero dell’Interno della Lega Nicola Molteni arriva in città. “Chi sbaglia paga”, dice Molteni. Poi però aggiunge dell’altro: “Detto ciò esprimo vicinanza e solidarietà all’Arma perché è un corpo sano. Dobbiamo tutelare anche l’incolumità delle forze dell’ordine per questo credo che a breve sarà consentito l’utilizzo del taser”. Viene da chiedersi che cosa avrebbero potuto fare quei carabinieri col taser in mano. L’intera caserma, e un fatto del genere non era mai successo in Italia, fu messa sotto sequestro nell’estate 2020 dopo di indagini e pedinamenti che hanno raccontato di militari che si credevano boss di quartiere. È passato un anno, la caserma è ormai tornata operativa, e il sottosegretario Molteni a una manciata di ore dalle condanne sceglie di annunciare i taser per tutti. “Benissimo dire che ‘chi sbaglia paga’ - commenta il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury - Però a quelle tre parole il sottosegretario ne ha aggiunte altre 200, compreso l’annuncio dei taser, cosa che ci preoccupa molto”. “Le condanne di Piacenza - conclude Noury - sono un segnale importante perché riconoscono che è successo qualcosa di molto grave”. A prendere posizione in maniera netta di fronte alla sentenza di primo grado è l’Arma dei Carabinieri. “Con responsabilità accertata, non ci saranno sconti per nessuno - si legge in una nota - Chi sbaglia pagherà oltre che sul piano penale anche su quello civile (anche con risarcimento dei danni economici) e disciplinare”. L’Arma si è costituita parte civile e annuncia la creazione di “una struttura con compiti di audit, per rafforzare la costante attività di verifica sul funzionamento dei reparti sino a livello di stazione e adottate iniziative per la formazione del personale”. A chiedere trasparenza e controllo è anche la Cgil. La ricetta del sindacato è però diversa da quella dell’Arma, perché la Cgil chiede di separare “le funzioni del controllore da quelle del controllato”. Come si fa? “Con interventi profondi capaci di conquistare trasparenza e vivere democratico e di rendere pienamente esigibile, con i limiti che la Costituzione indica, l’agire sindacale”, scrive il responsabile nazionale Legalità e Sicurezza della Cgil, Luciano Silvestri, che nel ragionamento mette in fila proprio le condanne di Piacenza, il raid punitivo degli agenti carcerari di Santa Maria Capua Vetere, e anche la morte di Stefano Cucchi. “Se ci fosse stato un esercizio sindacale minimamente democratico queste cose non sarebbero accadute”, spiega Silvestri, che racconta di un processo di sindacalizzazione nell’Arma ancora agli albori, iniziato dopo una sentenza della Corte costituzionale del 2018 e per ora solo sulla carta, tant’è che le varie sigle non hanno rappresentanza sui territori e non vengono nemmeno convocate. Un sindacato che funziona, è invece il ragionamento, può garantire standard di controllo e trasparenza sul posto di lavoro, anche in una caserma dei carabinieri dove la gerarchia è ferrea e gli ordini non si discutono. Al momento però “resta ancora tutto da fare”, in attesa di una riforma parlamentare complessiva della materia “che però speriamo non peggiori la situazione visti i testi in discussione tra Camera e Senato”. Soddisfatti dalle condanne di primo grado i neonati sindacati di categoria, che nel processo appena concluso hanno trovato - attraverso un tribunale e la sua sentenza - uno dei loro primissimi riconoscimenti essendo stati accettati come parti civili. “Viene confermato il ruolo del sindacato quale presidio dei valori democratici ed il suo compito a tutela della legalità e soprattutto del rispetto dei diritti e della dignità dei lavoratori, anche nel contesto del lavoro militare”, dice Corrado Bortoli, segretario generale del Silca, il sindacato lavoratori carabinieri. Milano. Un protocollo per progetti di volontariato con i detenuti osservatoremeneghino.info, 3 luglio 2021 Coinvolgere i detenuti che ne facciano richiesta in attività di tutela e valorizzazione del patrimonio pubblico, verde in particolare, come occasione di reinserimento sociale, opportunità di formazione e recupero rieducativo, anche in una prospettiva di avvicinamento al mondo del lavoro. Queste le finalità del Protocollo d’intesa che verrà stipulato01 a breve tra il Comune di Milano e il Ministero della giustizia - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - e di cui l’Amministrazione ha approvato le linee guida. Un percorso in linea con le finalità rieducative della pena sancite dalla Costituzione, volto anche a ridurre il rischio di recidiva per le persone detenute consentendo, in sinergia con la magistratura e con gli enti territoriali, l’individuazione di progetti di più ampia riabilitazione e reinserimento sociale. Si partirà con il coinvolgimento diretto di 20 detenuti all’anno (il Protocollo avrà durata triennale) nelle attività di associazioni di volontariato e del Terzo settore che già operano nelle zone individuate per potenziare interventi di gestione ordinaria e straordinaria di aree pubbliche verdi, a partire dal parco di Porto di mare, nel quartiere di Rogoredo e Santa Giulia. Prima di iniziare il lavoro, i volontari verranno inseriti in un percorso formativo e di orientamento volto a sviluppare le competenze necessarie per poter svolgere la mansione di operatore del verde, attraverso una parte di formazione teorica e una successiva di tirocinio. Il coinvolgimento di soggetti volontari per la tutela del parco di Porto di mare fino a questo momento ha fatto conseguire risultati apprezzabili nel recupero di ampie aree, oggi pienamente fruibili dai cittadini in modo sicuro. Nel tempo, si è consolidato un rapporto di collaborazione molto virtuoso tra il Comune e diverse associazioni particolarmente attive nella cura del verde e in contesti di rigenerazione urbana (come il CFU - Centro di riforestazione urbana di Italia nostra e Associazione Giacche verdi), che contribuiscono in modo efficace a organizzare e promuovere attività di coesione sociale, volontariato e di educazione civica. Bergamo. Carcere, sette borse di studio destinate ai detenuti di Lucia Cappelluzzo bergamonews.it, 3 luglio 2021 “In ricordo di don Fausto Resmini”. Sette borse di studio ognuna dal valore di 500 € che hanno premiato gli studenti di tutti gli ordini della scuola del carcere bergamasco. Una cerimonia molto toccante ed emozionante: carica di parole, ricordi, rimpianti e sogni. Quella che si è svolta nel pomeriggio di giovedì 1 luglio nella casa circondariale di Bergamo. Nel teatro del carcere bergamasco si sono riuniti alcuni dei detenuti, le autorità delle istituzioni più vicine alla realtà carceraria cittadina, la direttrice del carcere Teresa Mazzotta e alcune delle docenti della scuola che ogni giorno si svolge dentro quelle pesanti mura. Qui, forse, l’istruzione assume il suo più alto significato. Fonte di libertà, evasione, apprendimento e futuro: salde radici su cui costruire una nuova vita. Si tratta della missione che appartiene non solo all’istituzione scolastica, ma anche all’associazione bergamasca Carcere e Territorio che ha come suo obiettivo quello di aiutare i detenuti e le detenute al reinserimento sociale. Ed è per questo che, insieme all’Opera Pia Caleppio, l’associazione ha deciso di elargire sette borse di studio a sei studenti e una studentessa detenuti nel carcere bergamasco. “Con Don Fausto Resmini ci dicevamo sempre che dovevamo fare due cose: sistemare la palestra e far partire le prime borse di studio. E finalmente ci siamo riusciti e il mio pensiero oggi va a lui”, ha dichiarato Pierguido Piazzini dell’Opera Pia Caleppio. Sette borse di studio ognuna dal valore di 500€ che hanno premiato gli studenti di tutti gli ordini della scuola in carcere: uno studente del corso alfabetizzazione, tre dell’indirizzo d’istruzione di primo grado gestito dal Cpia dell’Istituto Pesenti di Bergamo e tre della scuola superiore dell’istituto alberghiero Sonzogni di Nembro che, quest’anno, hanno svolto gli esami di maturità con ottimi risultati. “Ci tenevamo a dare queste borse di studio per premiare chi, pur nella difficoltà del contesto e dalla vita in carcere, ha portato avanti con impegno, intelligenza e sensibilità la scuola”, ha commentato Gino Gelmi, vicepresidente di Carcere e Territorio, insieme al presidente Fausto Gritti. Commossa la direttrice del carcere Mazzotta che con il cuore ha voluto ringraziare gli studenti premiati che hanno dimostrato con i fatti quanto il carcere possa produrre cultura e formazione scolastica. La consegna delle borse di studio si è svolta nel corso anche della premiazione del 23° concorso letterario della casa circondariale generosamente sostenuta dall’associazione Homo: “Risultato del duro lavoro delle docenti che hanno sempre lavorato e mantenuto sempre la scuola aperta, nonostante tutto”, ha commentato l’insegnante del CPIA Nicla Pilla. Settanta prose e trenta poesie: questo è il prezioso materiale interamente scritto dai detenuti e dalle detenute del carcere bergamasco. Tutto raccolto in un libro fatto di abbandono, morte, perdita, viaggi, paura, lunghe traversate per mare, famiglia, sogni, la pandemia da Covid e libertà. Quattro le poesie premiate e tre, invece, le prose. Un premio anche uno speciale manufatto: un veliero di legno costruito da un artista detenuto. I testi sono stati letti e cantati dal duo di Seriate Francesco Solari e Giovanni Stucchi: mezz’ora in cui era impossibile trattenere le lacrime e la commozione. Sognando la bellezza, i baci, il mare, la sabbia, l’aria aperta e la notte stellata così magistralmente raccontata negli scritti. Bologna. L’appello dei detenuti: “Salvate il nostro Coro Papageno” Corriere di Bologna, 3 luglio 2021 Noi detenuti del carcere di Bologna appartenenti al coro Papageno siamo venuti a conoscenza, solo attraverso i giornali, che le attività del coro all’interno del carcere sono state definitivamente sospese per problemi di natura economica. Cosa che, dopo un’attesa di oltre un anno in cui, per via dle Covid, tutto era stato sospeso, proprio adesso che aspettavamo di poter riprendere si ha lasciati del tutto sorpresi e, a dir poco, allibiti. Nessun’altra esperienza carceraria, per quanto importante, bella e significativa, è mai stata invitata nell’Aula del Senato della Repubblica a rappresentare sì il coro Papageno, ma anche con orgoglio tutti i detenuti, i volontari, le associazioni che seguono esperienze socializzanti in tutte le carceri d’Italia. Come dimenticare la toccante esperienza di cantare in San Pietro in Vaticano davanti al Papa, nell’anno del Giubileo? Siamo sicuri che la stessa città di Bologna non dimenticherà mai l’uscita di oltre trenta detenuti per partecipare a un concerto al teatro Manzoni per cantare insieme al famosissimo jazzista americano Uri Caine. Come dimenticare l’entrata in carcere del famoso cantante pop Mika per registrare uno show televisivo con il coro Papageno? L’avere registrato un Dvd (Shalom) che è stato fatto girare in alcuni cinema e nelle sale di quasi tutte le carceri d’Italia? Che senso ha cancellare un’esperienza così positiva? Collettivamente e individualmente a ognuno di noi il coro Papageno ha dato la cosa più importante alla quale un detenuto possa aspirare, la consapevolezza che anche il carcere con tutte i suoi problemi può offrire possibilità reali di riscatto. Vorremmo che nessuno dimenticasse che durante la recente rivolta del carcere della Dozza, la maggior parte dei detenuti, donne e uomini, iscritti al coro si sono astenuti dal parteciparvi e non pe un caso, ma perché consapevoli che il recupero oltre che dall’impegno personale passa attraverso questo tipo di attività socializzanti e determinanti per avvicinarci a una futura libertà. Facciamo appello a tutte le parsone sensibili che vorranno aiutarci, a partire dal Presidente della Repubblica, dal direttore generale degli istituti penitenziari, dal presidente del tribunale di sorveglianza, dalla direzione del carcere all’associazione Mozart stessa e dal tessuto sociale che ancora che anche ai detenuti debba sempre essere data la maggior possibilità possibile di riscattarsi dal proprio passato, impegnandosi in qualcosa di estremamente positivo, come il “nostro” coro Papageno. Libia. Tentata strage in mare, Agrigento apre inchiesta sui guardacoste di Nello Scavo Avvenire, 3 luglio 2021 Nel fascicolo della procura anche l’esposto dei legali di Sea Watch. Saranno ascoltati i sopravvissuti all’aggressione, sbarcati a Lampedusa. Colpi di mitraglia dalla motovedetta libica verso il barcone con una quarantina di migranti a bordo, poi i tentativi di speronamento col rischio che le persone finiscano in acqua in alto mare. Sono le drammatiche immagini che si vedono nel video diffuso da Sea Watch che ieri aveva dato la notizia degli spari contro i migranti in area Sar maltese, 1 luglio 2021. Hanno sparato e tentato di speronare in acque internazionali, ma l’arrivo a Lampedusa dei migranti scampati all’aggressione della motovedetta libica ha fatto aprire un’inchiesta sulla mancata strage in mare aperto. La procura di Agrigento, che da subito aveva monitorato l’episodio, dopo avere ricevuto un esposto da Sea Watch dovrà ora accertare la dinamica della fallita cattura dei migranti. Un’inchiesta che si preannuncia tutta in salita, quella coordinata dal procuratore Luigi Patronaggio. Tra Italia e Libia, infatti, non vi sono patti di cooperazione giudiziaria e difficilmente Tripoli consegnerà i nomi degli ufficiali a bordo della motovedetta fornita dall’Italia né le testimonianze dei guardacoste a presenti a bordo. Fino ad ora le autorità del Paese nordafricano non hanno mai cooperato nelle inchieste per le violazioni dei diritti umani, offrendo così un riparo a trafficanti di uomini e torturatori. Lo scorso anno proprio un’inchiesta di Agrigento aveva permesso di identificare e far condannare a 20 anni di carcere ciascuno tre torturatori del campo di prigionia ufficiale di Zawyah, diretto dal clan al-Nasr. Uno dei principali esponenti della cosca è il comandante Abdurahman al Milad, quel Bija rilasciato senza processo dopo una detenzione farsa di sei mesi e promosso al grado di maggiore della Marina militare. Nel fascicolo di Agrigento si trovano la denuncia redatta dal legale di Sea Watch, Leonardo Marino, con i filmati integrali girati a bordo di Seabird, il pattugliatore aereo dell’Ong tedesca, la ricostruzione di Avvenire e i tracciati aerei e navali elaborati dal giornalista di Radio Radicale, Sergio Scandura. E per la prima volta anche la Guardia Costiera libica ha aperto un’indagine interna dopo che la sua motovedetta ha sparato alcuni colpi verso un barcone con circa 50 migranti e rischiato più volte lo speronamento. In una insolita nota la Marina libica afferma di aver deciso di investigare dopo aver esaminato le immagini in cui si vede la motovedetta che insegue i migranti “mettendo in pericolo le loro vite, così come quelle dei membri dell’equipaggio della motovedetta stessa, in quanto non sono state seguite le misure di sicurezza e sono stati utilizzati anche dei colpi di avvertimento”. In soccorso di Tripoli arriva Malta che parla di operazione “adeguata alle circostanze”. Alla stampa locale la Marina de La Valletta ha spiegato che “in questi casi sono permessi i colpi di avvertimento”. Versione contraddetta però dalla nota delle autorità di Tripoli che parlano di “mancanza di un giusto comportamento”. I guardacoste libici si sono allontanati per oltre 110 miglia dal porto di Tripoli e sono arrivati a sole 45 miglia da Lampedusa, a poca distanza dall’area di ricerca e soccorso italiana. Non era mai successo che una motovedetta tripolina si spingesse così a Nord per inseguire dei migranti, lasciando però che altri barconi raggiungessero indisturbati Lampedusa. Una decisione costata almeno 8 ore di navigazione. “Abbiamo visto il video e stiamo verificando le circostanze ad esso legate. Sicuramente chiederemo spiegazioni ai nostri partner libici”, ha detto Peter Stano, portavoce della Commissione europea. La notizia dell’indagine di Agrigento e di quella di Tripoli arriva a pochi giorni dal voto italiano per il rifinanziamento delle missioni in Libia, che prevede il sostegno diretto ai guardacoste con la permanenza a Tripoli di una nave officina della Marina militare italiana incaricata di svolgere, a spese dell’Italia, la manutenzione delle motovedette libiche donate dal nostro Paese. La Libia non ha mai sottoscritto la Convenzione di Ginevra per i Diritti dell’Uomo e, come ha ricordato di nuovo ieri l’Onu, il Paese non è riconosciuto come “luogo sicuro di sbarco” e perciò riportare a terra i migranti, destinati ai campi di prigionia, costituisce una violazione che però in Libia non è perseguibile. Gli Usa di Biden archiviano la pena di morte federale di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 3 luglio 2021 Il procuratore generale Merrick Garland ha annunciato la moratoria sulle esecuzioni. Durante l’amministrazione Trump il record di giustiziati in 200 anni Le Ong abolizioniste: “Bene, ora si riformi tutto il sistema giudiziario”. “Se uniamo la misericordia con la forza e la forza con il diritto, allora l’amore diventa la nostra eredità e cambia il diritto di nascita dei nostri figli”. In occasione della cerimonia d’insediamento del presidente Joe Biden a Washington, nel gennaio scorso, la giovane poetessa afroamericana Amanda Gorman pronunciò queste parole. Un discorso potente ma che poteva anche cadere nel vuoto della retorica in un momento di massima enfasi. Forse però qualcosa di così ispirato è rimasto nella testa dell’inquilino della Casa Bianca. La notizia è infatti che mentre si discute di una possibile revisione della pena di morte negli Usa, tutte le esecuzioni a livello federale sono state sospese. Lo ha annunciato con una nota ufficiale il procuratore generale degli Stati Uniti Merrick Garland spiegando che il Dipartimento di Giustizia sta prendendo concretamente in esame i termini per la fine o quantomeno una modifica della pena capitale. Secondo Garland “il Dipartimento di Giustizia deve garantire che a tutti nel sistema di giustizia penale federale non solo vengano concessi i diritti garantiti dalla Costituzione e dalle leggi degli Stati Uniti, ma siano anche trattati in modo equo e umano” e - ha aggiunto significativamente - “Questo obbligo ha una forza speciale nei casi capitali”. Il predecessore di Garland, William Barr, aveva dato un forte impulso alla ripresa delle esecuzioni federali ferme da 17 anni, durante gli ultimi mesi dell’amministrazione Trump, il Bureau of Prisons (BOP) aveva eseguito 13 messe a morte, nonostante la pandemia di Covid-19 infuriasse in tutto il sistema carcerario federale facendo ammalare alcuni dei prigionieri nel braccio della morte e persino alcuni dei loro avvocati. Le condanne eseguite a partire da luglio 2020 fino a pochi giorni prima che Trump lasciasse l’incarico, il 20 gennaio 2021, hanno superato quelle intraprese da qualsiasi altro presidente degli Stati Uniti dal 19° secolo. Una catena di morti della quale l’ultimo anello è stato Dustin Higgs, giustiziato nel complesso della prigione federale di Terre Haute, Indiana, a meno di una settimana dal termine dell’incarico di Trump. Questo creò spaccature nella stessa Corte Suprema, la giudice Sonia Sotomayor condannò l’amministrazione repubblicana definendo il suo operato “una corsa per uccidere i detenuti”. In realtà la pena di morte fu usata come una vera e propria clava politica, da ciò la sua accelerazione dell’epoca con la segretezza che circondava gli aspetti delle esecuzioni, il rigorosissimo anonimato dei carnefici. Ma soprattutto a restare avvolte nell’oblio sono le notizie riportate da diversi avvocati circa le modalità “dolorose” delle esecuzioni. Il riferimento è al pentobarbital, il farmaco usato per dare la morte e i cui effetti sono apparsi pesantemente lesivi. La sensazione di annegamento, per il rapido danneggiamento dei capillari polmonari, è stata acclarata dalle autopsie dei condannati. Garland ha incaricato la vice procuratore generale, Lisa Monaco, di condurre una revisione che valuterà, tra le altre cose, il protocollo sui farmaci del Dipartimento di Giustizia a partire dal 2019. Il Federal Bureau of Prisons ha fino ad ora rifiutato di spiegare come ha ottenuto il pentobarbital sebbene i farmaci usati siano diventati sempre più difficili da reperire. Le aziende farmaceutiche negli anni duemila hanno iniziato a vietare l’uso dei loro prodotti per le esecuzioni, affermando che erano destinati a salvare vite umane. Ruth Friedman, direttrice del Federal Capital Habeas Project saluta la decisione ma invita Biden a riformare tutto il sistema giudiziario: “È un passo nella giusta direzione, ma non è sufficiente. Sappiamo che il sistema federale della pena di morte è guastato da pregiudizi razziali, arbitrarietà, esagerazioni e gravi errori degli avvocati della difesa e dei pubblici ministeri che lo rendono irreparabile”. Abu Dhabi. Andrea Costantino, 105 giorni in cella senza sapere perché di Francesco Battistini Corriere della Sera, 3 luglio 2021 La moglie: “Disperato, ha perso 18 chili”. Trader milanese del petrolio, 49 anni, è stato arrestato il 21 marzo: non gli hanno contestato un reato e non l’hanno interrogato. L’inchiesta riguarderebbe questioni finanziarie. “L’ultima telefonata di 4 minuti, poi è caduta la linea”. Quattro minuti di telefonata, mercoledì mattina: “Erano le 8 e stavo portando la bambina all’asilo. M’ha potuto parlare solo quattro minuti, poi è caduta la linea”. Per dirle cosa? “Andrea è una persona forte, ma è disperato. L’ultima volta che l’hanno visto, era dimagrito 18 chili: io non gli ho chiesto niente, lui non m’ha detto niente. E so che lo fa per non spaventarmi, anche se lo sono già abbastanza”. Dura, eh?… “Le prime settimane, sono tornata da Dubai e mi sono isolata da tutto. Ero scioccata: sei là con la famiglia e arrivano otto poliziotti, arrestano il papà di tua figlia e lo fanno sparire nel nulla, senza spiegarti nulla”. E adesso? “Vivo appesa al telefono. Per sapere qualcosa. L’hanno portato via il 21 marzo e Andrea, visto come s’erano messe le cose, poteva anche esser morto. La prima volta che il console italiano l’ha potuto visitare, era un mese dopo. La prima volta che l’ho potuto sentire io, era il 27 maggio: più di due mesi dopo”. Ma come lo trattano? “Non me l’ha detto. Quattro minuti. Non sono riuscita a raccontargli neanche come sta la bambina”. Sono 105 giorni che Stefania Giudice, 41 anni e una figlia di tre, sta aspettando un perché. “Andrea è uno che paga subito le multe”, dice. E invece Andrea Giuseppe Costantino, 49 anni, trader milanese nel petrolio, da tre mesi e mezzo è chiuso in una cella ad Abu Dhabi. Unico occidentale fra siriani, libici, yemeniti nel carcere di al Wathba: famoso da sempre per le rudi condizioni dei detenuti, noto nell’ultimo anno per i numerosi casi di Covid. Non gli hanno contestato un reato. Non l’hanno interrogato. Non gli hanno consegnato un atto giudiziario. Non gli hanno ancora permesso di parlare con un difensore. E alla Farnesina, che ha chiesto spiegazioni, hanno risposto solo: “Stiamo indagando”. È la linea degli Emirati arabi, mai teneri. Ma nel caso Costantino si sta andando un (bel) po’ oltre: “L’ambasciata italiana non è mai stata informata ufficialmente dell’arresto - spiega l’avvocato Cinzia Fuggetti - e se quella mattina non ci fosse stata Stefania, nessuno avrebbe saputo niente”. Quella mattina, Stefania è su una spiaggia di Dubai con la bimba e sta aspettando che Andrea sbrighi qualche faccenda. Sei giorni prima sono decollati tutt’e tre da Malpensa e arrivati a Dubai, come tante volte. Lui ha una società, l’Eidon Global, e con la doppia residenza compravende da una decina d’anni i carichi di petrolio: gli Emirati gli hanno appena rinnovato il permesso e bisogna ripartire, finita la pandemia. L’incubo si presenta con una chiamata dall’hotel: signora, venga qui, suo marito… “C’erano agenti in borghese e in divisa. Senza mandato. La camera era stata messa a soqquadro, un pc e due telefonini già sequestrati. Due poliziotti han preso la bambina, per allontanarla. Andrea ha avuto solo il tempo di dire: mi stanno portando in prigione ad Abu Dhabi…”. Da allora, il buio. L’inchiesta è nelle mani della polizia federale, una specie d’Fbi emiratino, e riguarderebbe questioni finanziarie: prima di pronunciarsi sulle contestazioni, l’autorità investigativa starebbe aspettando un “rapporto della Banca centrale”. Ma su che? Un breve passato in politica da vicesindaco di Arese, una quasi ventennale conoscenza del mondo arabo, Costantino non ha mai pensato d’essere nel mirino. “Altrimenti non ci avrebbe portato là”, dice la compagna. La sua Eidon, costituita nel 2012, gode di buone relazioni: negli Emirati, al trader milanese è capitato d’incrociare la famiglia reale e in passato nella sua società ebbe un ruolo anche Alessandro Nasi, il manager diventato da poco presidente della Juventus, imparentato con gli Agnelli e gli Elkann. “Non hanno preso uno qualunque”, dice l’avvocato Fuggetti: dopo l’embargo sulle armi agli Emirati deciso in gennaio da Luigi Di Maio - e dopo le ripicche dell’emiro, che ha sfrattato i militari italiani dalla base d’al Minhad, vietando qualche giorno fa lo scalo anche all’aereo che andava in Afghanistan per la cerimonia di ritiro delle truppe - “il timore è che la vicenda di Costantino s’inserisca nel recente clima di tensione diplomatica con Roma”. Qualche sospetto c’è: fra le perdite subite con le partecipazioni in Alitalia e Piaggio, fra gli affari sfumati con Leonardo, tra le forniture bloccate perfino alla loro pattuglia acrobatica, gli emiratini hanno qualche sassolino da togliersi. Dalla Farnesina l’escludono, ovviamente. Dall’ambasciata araba a Roma, solo silenzi. Ma ogni giorno che passa nella sua cella, più che un detenuto, Costantino si sente un ostaggio.