L’estate in carcere di Giuseppe Rizzo Internazionale, 31 luglio 2021 Nel 2000 il regolamento penitenziario italiano stabiliva che entro il 2005 tutte le celle dovessero avere una doccia: regolamento allo stesso tempo ritardatario e ottimista. Ventuno anni dopo l’associazione Antigone è entrata in 67 carceri e ha potuto verificare che fine abbia fatto quella norma: in una galera su tre di quelle visitate non ci sono docce nelle celle. E del resto, anche se le docce ci sono, può capitare che manchi l’acqua. “Nella casa circondariale di Frosinone”, scrivono i ricercatori dell’associazione in un nuovo rapporto, “sono stati segnalati frequenti episodi di mancanza di acqua corrente”. Nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove il 6 aprile 2020 la polizia penitenziaria ha picchiato brutalmente i detenuti che avevano protestato per chiedere più protezione contro il coronavirus, non c’è alcun allaccio idrico, per cui tutto ciò che esce dai rubinetti non è potabile. In compenso è “particolarmente ferroso e di colore torbido”. Nell’istituto di Borgo San Nicola, a Lecce, per due giorni insieme all’acqua è andata via anche la luce. Era la fine di giugno e le temperature nella zona sfioravano i 40 gradi. Oggi il caldo non è meno impietoso, eppure “a causa della pandemia, nel 24 per cento degli istituti ci sono sezioni in cui si si è passati dal regime a celle aperte a quello a celle chiuse”. In questi forni incandescenti di ferro e cemento capita di stare in tre, quattro, cinque e perfino in sei. A Taranto il tasso di sovraffollamento è del 181 per cento, a Latina del 167 per cento, a Como del 152 per cento. Per tantissimi detenuti e detenute significa non avere a disposizione neanche quei tre metri quadrati di superficie calpestabile al di sotto dei quali la Corte di Strasburgo parla di “trattamenti inumani e degradanti”. Tra loro quasi 20mila devono scontare meno di tre anni, per cui potrebbero accedere alle misure alternative: ma molti hanno commesso dei reati ostativi (cioè gravi come l’omicidio ma anche furti in casa e rapine), molti non hanno una casa dove scontare i domiciliari o una comunità che li accolga, e alcuni sono privi di qualsiasi aiuto legale per richiederle, per cui restano dietro le sbarre. Senza colpe, anche 29 bambini con meno di tre anni restano in carcere con le loro madri. L’acqua non è l’unica cosa che manca: “Nel 42 per cento degli istituti oggetto del monitoraggio”, dice Alessio Scandurra di Antigone, “sono state trovate celle con schermature alle finestre che impediscono passaggio di aria e luce naturale”. Nelle galere l’aria che tira, quando tira, è questa. E questa è l’estate che vivono le persone che ci sono rinchiuse. Carceri, il rapporto di Antigone porta proposte concrete per riformare il regolamento di Susanna Marietti Il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2021 Antigone ha presentato nelle scorse ore il consueto rapporto di metà anno sulle carceri italiane, frutto delle visite agli istituti di pena e dell’osservazione diretta di un centinaio di volontari dell’associazione. Si conferma, oltre al solito problema del sovraffollamento penitenziario, una serie di criticità e di arretratezze del sistema carcerario italiano. Antigone ha voluto portare proposte concrete per indirizzare la vita interna verso quel dettato costituzionale che la vuole tesa alla reintegrazione del condannato nella società. E lo ha fatto presentando un complesso documento di riforma del regolamento penitenziario oggi in vigore, il quale risale all’inizio del millennio e necessita di un adeguamento al mondo esterno ormai mutato e agli insegnamenti appresi durante gli ultimi due decenni. Il documento è pubblicamente accessibile sul sito di Antigone ed è troppo articolato perché possa essere riassunto nella sua globalità. Tocca molti e diversi ambiti della vita in carcere. Ne cito qui due, che mi sembrano restituire bene il senso delle riforme necessarie. Il primo è quello della tecnologia e dell’utilizzo di strumenti di comunicazione al passo con i tempi. Il primo regolamento penitenziario, risalente al 1976, fissava in 6 minuti settimanali il limite massimo per comunicare telefonicamente dal carcere con i propri cari. Erano tempi nei quali le telefonate erano qualcosa di ben più raro e costoso di adesso. Nel 2000 il limite fu portato a dieci minuti. Ma oggi anche questo non ha più alcun senso. Così come non ne ha la differenziazione tra numeri fissi e numeri mobili o la tariffa al consumo quando tutto il mondo usa tariffe forfettarie. Non sto parlando di fantascienza: in altri paesi europei gli apparecchi telefonici sono a disposizione nelle stanze di pernottamento e la persona detenuta può accedervi attraverso una scheda personale con numeri autorizzati. Ciò, tra l’altro, taglierebbe alla radice ogni problema legato al traffico illecito dei cellulari in carcere. Non si creda che tale traffico sia destinato precipuamente a percorsi criminali e a impartire ordini illeciti: quasi sempre assistiamo al paradosso di un comportamento non lecito teso a parlare con il proprio figlio o a salutare un genitore anziano. Se davvero miriamo a un’esecuzione penale non vendicativa e tesa al recupero sociale, non c’è alcun motivo per proibire videochiamate, posta elettronica, uso di personal computer per lo studio e l’informazione, tutto naturalmente con i dovuti controlli. Il secondo ambito del quale scelgo qui di parlare è quello, purtroppo estremamente attuale, della violenza. Il regolamento carcerario deve prevedere norme specifiche di prevenzione e repressione dell’uso della violenza nei confronti delle persone in custodia. Deve prevedere l’introduzione di strumenti di identificazione del personale, la videoregistrazione degli ambienti (che gli eventi di Santa Maria Capua Vetere ci hanno dimostrato essere essenziale), la predisposizione di meccanismi di denuncia che mettano il detenuto - che oggi ha come quasi unica alternativa quella di rivolgersi allo stesso personale penitenziario - al sicuro da ogni possibile ritorsione. Queste e molte altre le proposte elaborate da Antigone per un nuovo regolamento penitenziario, tutte supportate da indicazioni giurisprudenziali o di organismi sovranazionali. Ci auguriamo che si possa aprire presto su questo un dialogo costruttivo con le forze politiche. *Coordinatrice associazione Antigone Rapporto di Antigone: celle strapiene, sono da svuotare al più presto di Claudio Paterniti Martello Il Riformista, 31 luglio 2021 Il rapporto di metà anno di Antigone fotografa un sistema penitenziario affollato, segnato da un lockdown più lungo di quello che ha riguardato la società libera e che ancora presenta vari strascichi: i colloqui riprendono a fatica e con barriere di plexiglass in mezzo, e le attività in genere non decollano. Ai problemi portati dalla pandemia si sommano quelli più antichi, strutturali: come l’affollamento, che nonostante le 7.500 presenze in meno rispetto al periodo prepandemico (cioè febbraio 2019) resta a livelli inaccettabili. Al 30 giugno 2021 erano detenute 53.637 persone, in un sistema che ne può ospitare al massimo 47.445. Il tasso di affollamento reale (cioè quello che tiene conto solo dei posti reali, e non delle sezioni inagibili) è del 113,1%. L’affollamento non è distribuito in maniera omogenea: i cinque istituti più affollati sono quelli di Brescia (con 378 detenuti e un tasso del 200%), Grosseto (27 detenuti, 180%), Brindisi (194 detenuti, 170,2%), Crotone (148 detenuti, 168,2%) e Bergamo (529 detenuti 168%). Questi numeri dicono della necessità e dell’urgenza di decongestionare le carceri. Cosa che andrebbe fatta partendo dalla modifica della legge sulle droghe, responsabile di circa un terzo delle detenzioni. I dati mostrano anche quanto sia alto il numero di detenuti tossicodipendenti, in forte crescita negli ultimi 15 anni: nel 2005 le persone entrate in carcere affette da tossicodipendenza erano il 28,4%, nel 2020 erano diventate il 38,6%. Sono diminuiti invece gli stranieri, un calo che va avanti da fine 2018 (quando erano quasi il 34%, a fronte del 32,4% di oggi). Un dato che diventa ancora più rilevante se si considera che l’ultimo decennio era iniziato con valori che sfioravano il 36%. Sono ancora troppi i detenuti in attesa di giudizio: il 15,5% della popolazione detenuta è recluso in attesa di primo giudizio, il 14,5% è condannato ma non ancora in via definitiva e il 69,4% sconta condanna definitiva. Per ridurre i numeri delle persone detenute bisognerebbe tra le altre cose puntare di più sulle misure alternative. Sono 19.271, il 36% del totale, coloro a cui restano da scontare meno di tre anni. Se si eccettuano quelli che hanno commesso reati ostativi (che impediscono l’accesso ai benefici penitenziari), sono tutte persone che possono accedere alle misure alternative. Il che consentirebbe un netto risparmio economico, se si considera che il carcere infatti costa allo Stato 3 miliardi di euro all’anno (il 35% di quello spende per la giustizia), mentre le misure alternative costano meno di 280 milioni. Il 68% di ciò che lo Stato spende per il carcere va alla polizia penitenziaria, la figura professionale numericamente più presente in carcere. Negli ultimi 12 mesi, fra mille difficoltà, l’Osservatorio di Antigone ha vi-sitato 67 istituti distribuiti in 14 regioni diverse: nel 35,1% di questi non c’era un direttore incaricato solo in quell’istituto, e c’era un agente ogni 1,6 detenuti ma solo 1 educatore ogni 91,8 persone detenute. Se si vuole un carcere riformato, non mosso unicamente da logiche custodiali, è necessario da un lato assumere più educatori, più direttori, più mediatori e più medici, e dall’altro dare loro più peso di quanto ne abbiano oggi. Sono molti i problemi strutturali legati alla materialità detentiva. Nel 42% degli istituti visitati da Antigone c’erano celle con schermature alle finestre che impedivano il pieno passaggio di aria e luce naturale. Nel 36% c’erano celle senza doccia. Nel 25% c’erano celle in cui lo spazio minimo calpestabile per ogni detenuto era meno di 3 metri quadri, il limite fissato dalla Corte di Strasburgo sotto il quale esiste una forte presunzione della violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti. Nel 31% non c’era acqua calda in cella. Si tratta di problemi vecchi, su cui però la pandemia ha proiettato una nuova luce. Tuttavia il Covid, ci sembra, offre al sistema penitenziario anche qualche opportunità. Nel 76% degli istituti da noi visitati, oltre tre quarti dei detenuti effettuavano regolarmente videochiamate. Era una cosa impensabile, nel mondo di prima, che speriamo esca dall’informalità della prassi per essere formalizzata dalla legge. Anche alla luce dei fatti di Santa Maria Capua Vetere, serve infatti una riforma legislativa che porti in tempi rapidi da un lato a togliere centralità al carcere e, dall’altro, a fornire un nuovo modello di detenzione. L’elaborazione è già stata fatta negli anni passati. Adesso serve l’azione politica. Il rapporto di Antigone. Da Torino a Melfi: ecco la triste mappa dei pestaggi in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 31 luglio 2021 L’associazione Antigone è attualmente coinvolta in 18 procedimenti penali che hanno per oggetto violenze, torture, abusi, maltrattamenti o decessi avvenuti negli ultimi anni in varie carceri italiane. Alcuni di essi si riferiscono alle presunte reazioni violente alle rivolte scoppiate in alcune carceri tra il marzo e l’aprile 2020 per la paura generata dalla pandemia e per la chiusura dei colloqui con i parenti. Come ha evidenziato l’avvocata Simona Filippi durante la presentazione del rapporto di Antigone, c’è il caso del carcere di Melfi (Il Dubbio se ne è occupato) che avrebbe avuto lo stesso modus operandi dei fatti di Santa Maria Capua Vetere. “È ancora più marcata la distanza temporale tra le rivolte dei detenuti, avvenute il 9 marzo - ha spiegato l’avvocata -, e l’intervento degli agenti nella notte tra il 16 e il 17 marzo con il trasferimento dei reclusi ad altri carceri”. Proprio quella notte, ricostruisce Filippi, ci sarebbe stata una sorta di rappresaglia, sullo stile del carcere campano, almeno stando ai racconti “dettagliati e analoghi” raccolti dall’associazione che si è opposta all’archiviazione del caso. Antigone è attualmente impegnata in 18 provvedimenti, la maggior parte in corso di verifiche. Il rapporto di metà anno, riporta alcuni di questi procedimenti. Si parte dal carcere di Monza. Il 6 agosto 2019, Antigone riceve una telefonata da parte di una persona che racconta di una violenta aggressione fisica che sarebbe stata subita dal fratello da parte di alcuni poliziotti penitenziari. Il 25 settembre 2019 Antigone deposita un esposto denunciando i fatti. Antigone si costituisce parte civile. Nell’udienza del 2 luglio 2021 il Gup dispone il rinvio a giudizio per 5 poliziotti penitenziari per lesioni aggravate e/ o per altri reati. La prima udienza dibattimentale è fissata al 16 novembre 2021. Il 28 agosto 2019, invece, viene emessa ordinanza di misura cautelare per 15 agenti del carcere di San Gimignano per un brutale pestaggio avvenuto l’11 ottobre 2018 ai danni di un signore di 31 anni. Nel dicembre 2019 Antigone presenta un esposto e si costituisce parte civile. Il 26 novembre 2020, 5 agenti che non hanno optato per il rito abbreviato vengono rinviati a giudizio per tortura. La prossima udienza del dibattimento è fissata al 28 settembre 2021. I 10 agenti che hanno scelto il rito abbreviato sono stati condannati per tortura e lesioni aggravate, con pene che vanno dai 2 anni e 3 mesi a 2 anni e 8 mesi. Un medico è stato condannato a 4 mesi di reclusione per rifiuto di atti d’ufficio. C’è il caso del carcere di Torino. Nel luglio 2021 è stato richiesto il rinvio a giudizio per 25 tra agenti e operatori (tra cui il direttore del carcere) per violenze avvenute nell’istituto tra il 2017 e il 2018. Tra i reati contestati c’è anche quello di tortura. Nei confronti di 13 persone era stata emessa un’ordinanza di misura cautelare. Il 25 novembre 2019 Antigone aveva presentato un esposto. Ancora in corso l’accertamento dei pestaggi del carcere di Opera. Nel marzo 2020 Antigone viene contattata da molti familiari di persone detenute che denunciano violenze subite il 9 marzo dai propri familiari a rivolta ormai finita. Vi avrebbero preso parte anche rappresentanti della Polizia di Stato e dei Carabinieri. Il 18 marzo Antigone deposita un esposto contro gli agenti di polizia penitenziaria per le ipotesi di abusi, violenze e torture. Non può mancare il caso inquietante del carcere di Modena. A seguito della rivolta scoppiata l’ 8 marzo 2020 e della morte di nove persone detenute, il 18 marzo Antigone deposita un esposto contro gli agenti polizia penitenziaria ed il personale sanitario per omissioni e colpe per la morte dei detenuti. Il 7 gennaio 2021 l’associazione deposita una integrazione al primo esposto a seguito della denuncia presentata da cinque persone detenute per le violenze, in particolare durante il trasferimento presso la Casa circondariale di Ascoli Piceno. Nell’atto vengono anche denunciate gravi omissioni che sarebbero state commesse e che avrebbero determinato il decesso di Salvatore Piscitelli presso la Casa circondariale di Ascoli Piceno. Il 26 febbraio 2021 la Procura della Repubblica ha avanzato richiesta di archiviazione, ritenendo escluso qualsiasi profilo di responsabilità in merito al decesso dei detenuti. Il 19 marzo Antigone ha presentato opposizione alla richiesta di archiviazione. Il 16 giugno il giudice ha emesso ordinanza con cui dichiara inammissibile l’opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata da Antigone e dal Garante nazionale. Ovviamente, nel rapporto di metà anno, c’è il caso del carcere di Melfi, questione affrontata sulle pagine de Il Dubbio. Nel marzo del 2020 Antigone viene contattata dai familiari di diverse persone detenute che denunciano gravi violenze subite nella notte tra il 16 ed il 17 marzo 2020 come punizione per la protesta scoppiata il 9 marzo. Secondo la ricostruzione di Antigone i detenuti sarebbero stati denudati, picchiati (anche con manganelli), insultati, messi in isolamento. Molti di essi sono stati trasferiti in condizioni degradanti. Ai detenuti sarebbero state fatte firmare dichiarazioni in cui avrebbero riferito di essere accidentalmente caduti, a spiegazione delle ferite riportate. Il 7 aprile 2020 Antigone deposita un esposto contro agenti di polizia penitenziaria e medici anche per il reato tortura. Il 3 maggio 2021, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Potenza ha avanzato richiesta di archiviazione. Il 3 giugno Antigone ha presentato opposizione all’archiviazione. Indagini in corso per il caso del carcere di Pavia. A marzo 2020 Antigone viene contattata da alcuni familiari di persone detenute. Questi denunciano violenze e abusi, nonché trasferimenti arbitrari posti in essere nei giorni successivi alla protesta dell’8 marzo 2020. La polizia avrebbe usato violenza e umiliato diverse persone detenute, colpendole, insultandole, privandole di indumenti e lasciandole senza cibo. Il 20 aprile 2020 Antigone deposita un esposto contro la polizia penitenziaria per violenze, abusi e tortura. Per concludere, non può mancare la mattanza del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ad aprile del 2020 Antigone viene contattata da familiari di persone detenute che denunciano torture subite il 6 aprile dai loro cari nel reparto Nilo, dove circa 300 agenti di polizia penitenziaria sarebbero entrati in tenuta antisommossa, con i volti coperti dai caschi, cosa che in seguito impedirà il riconoscimento. Le immagini delle videocamere interne, in seguito diffuse dai media, hanno documentato le brutali violenze. I medici non avrebbero refertato le lesioni. Il 20 aprile Antigone deposita un esposto contro la polizia penitenziaria, per ipotesi di tortura e percosse, e contro i medici, per ipotesi di omissione di referto, falso e favoreggiamento. Precedentemente informa il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. A fine giugno 2021 il Gip, su richiesta della Procura, ha emesso un’ordinanza con la quale ha disposto misure cautelari nei confronti di 52 persone. Sulle violenze in carcere va fatta chiarezza per restituire l’onore a chi ci lavora con onestà di Enrico Sbriglia* Secolo d’Italia, 31 luglio 2021 Ho lavorato per quasi 40 anni nelle carceri, sono stato prima educatore e poi direttore penitenziario e dirigente generale, ho gestito i direttori penitenziari e gli uffici di intere regioni e gruppi di regioni. Innanzi ai miei occhi, senza filtri, sono passate migliaia di persone detenute, di tutte le etnie e nazionalità, di tutte le religioni, di tutte le idee politiche, di tutte le criminalità. Ho avuto alle mie dipendenze, quali importanti collaboratori, e talvolta contemporaneamente, ben quattro generali di brigata del Corpo degli Agenti di Custodia. Ma mai, neanche una volta, ho tollerato qualunque violenza che fosse diretta su qualsiasi persona: che fosse un operatore penitenziario oppure un detenuto non faceva differenza. Certo, ho dovuto talvolta disporre che si vincessero delle resistenze aggressive rivolte al personale da parte di persone detenute, oppure che si intervenisse per dividere tra loro i ristretti coinvolti in risse furibonde, che rischiavano di tradursi in vere e proprie battaglie con morti e feriti. Nella mia vita professionale ho organizzato e pianificato tantissime perquisizioni, ordinarie e straordinarie, anche di carceri grandi come interi e popolosi quartieri, eppure mai, ripeto mai, qualcuno si è fatto male o si è ferito, sia che si trattasse di poliziotti penitenziari oppure di persone detenute, mai ho ricevuto contestazioni di sorta, dalle stesse persone detenute, dai familiari, dai loro avvocati. Ogni qualvolta, sia io che il personale operante alle mie dipendenze, venivamo, anche informalmente, a conoscenza, da parte dei ristretti, familiari, oppure altri operatori, anche volontari, di eventuali asserite violenze, subite da chicchessia, disponevo tempestivamente ogni necessario accertamento e approfondimento, informando prontamente le Autorità Giudiziarie, sia requirenti che della magistratura di sorveglianza, sempre assicurato che la polizia penitenziaria, nella sua funzione anche di polizia giudiziaria, avrebbe raccolto in modo ordinato e veloce ogni possibile indizio o elemento di prova disponibile. Superfluo dire che chiedevo l’immediato intervento delle autorità sanitarie, sempre e ripetuto nei giorni, perché i segni di alcune lesioni, conseguenti ad aggressioni e/o liti, possono comparire talvolta non nell’immediatezza della violenza subita ma dopo alcune ore o qualche tempo. I detenuti che asserivano di essere stati aggrediti fisicamente venivano immediatamente fotografati, sul viso e sull’intero corpo, e da più angolazioni. In tempi ancora lontani, da direttore penitenziario, allorquando le carceri non erano così fittamente video-sorvegliate e non esistevano le attuali moderne sale-regia, presidiate h. 24.00, come oggi le conosciamo, avevo fatto acquistare una telecamera digitale con la quale ordinavo che ogni operazione che potesse, anche lontanamente, rischiare di tradursi in un possibile scontro fisico, fosse perfettamente video-registrata e che fossero salvate e conservate le immagini, da mettere a disposizione delle competenti autorità, nonché per poter avviare le procedure disciplinari, al fine di poter contestare, nel rispetto delle norme penitenziarie e senza fraintendimenti, le eventuali infrazioni compiute dalle persone detenute che si fossero rese responsabili delle violenze. I miei erano banali e seriali metodi di lavoro. Ogni pianificazione però era necessaria e chiara e tracciabile doveva essere la linea di comando. Mai, ripeto mai, ho avuto problemi di sorta. Le persone detenute non sono stupide, né tantomeno le loro famiglie, i loro legali, le associazioni non governative che si occupano di carcere. Comprenderete, perciò, la sofferenza e l’umiliazione che ho provato allorquando ho visto le immagini di quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, che fu la mia prima sede di servizio nel lontano 1982, allorquando era ospitata in un antico convento, quello di San Francesco, oggi divenuta, guarda un po’, sede universitaria di lettere e filosofia. Tutti gli operatori penitenziari degni di questo nome sono stati colpiti nel proprio onore. Pertanto, seppure in quiescenza, da cittadino e da chi ha giurato solennemente sulla Costituzione Italiana (atto, in verità, che non credo sia soggetto a scadenze morali), esigo, pretendo, che si faccia chiarezza e che ogni responsabilità, a qualunque livello, sia perseguita nel rispetto delle leggi. Quanto è accaduto mi richiama alla mente un libro di qualche anno fa, di Alessandro Portelli, intitolato “L’Ordine è già stato eseguito”, edizioni Feltrinelli, sulla decimazione operata dai tedeschi nei confronti di innocenti, durante l’occupazione di Roma. Il Comando tedesco, nel suo dispaccio del 24 marzo del 1944, delle ore 22.55, informava che nel pomeriggio del giorno precedente “…elementi criminali hanno eseguito un attentato con lancio di bomba contro una colonna tedesca di polizia in transito per via Rasella. In seguito a questa imboscata, 32 uomini della Polizia Tedesca sono stati uccisi e parecchi feriti”. Come reazione, il Comando tedesco “ordinò” che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti-badogliani fossero fucilati. Questo ordine fu puntualmente eseguito. Per il vero, si superò perfino il numero di 320 “ingiustiziati”, perché furono 335, e tra questi c’erano persone di ogni credo religioso, idea politica, sesso ed età, perfino nazionalità. Ovviamente non gli autori dell’attentato ai quali neanche fu, in verità, chiesto di presentarsi spontaneamente, ove evitare l’inaudita violenta rappresaglia da parte di uomini in uniforme. Scrive Portelli che si istituì “… quella paurosa simmetria di azione e reazione, attentato e rappresaglia, delitto e castigo (con la sua geometrica relazione di uno a dieci)… eseguito l’ordine, non se ne parli più - mettiamoci una pietra sopra, o meglio, come fecero i nazisti, un cumulo di pozzolana nelle gallerie crollate, e uno strato di immondizia per coprire l’odore”. Ecco, io l’odore di quello che si sente pervenire da Santa Maria C.V. lo percepisco ed è nauseabondo, forse sarà perché lì accanto c’è pure un centro di smaltimento dei rifiuti, a dimostrazione della sensibilità degli amministratori pubblici di volta in volta intervenuti nella scelta del sedime, ove aleggia un deus loci che assomiglia ad un demone. Confido però nella Ministra Cartabia e nell’azione che, con il Presidente Draghi, vorrà porre in essere per restituire onore e prestigio a quanti, ogni giorno, rischiano anche la loro vita, come operatori penitenziari, all’interno delle carceri italiane, che non sono più un luogo sicuro dello Stato. *Componente dell’Osservatorio Regionale Antimafia del Friuli Venezia Giulia, Presidente Onorario del CESP (Centro Europeo di Studi Penitenziari) Cartabia: “Va garantita la sicurezza, ma la pena non può essere disumana” di Dario del Porto La Repubblica, 31 luglio 2021 La ministra sulla scarcerazione dell’assassino di don Diana. “Questa è la grande sfida di sempre della giustizia: garantire la sicurezza, soprattutto dove ci sono detenuti ancora pericolosi. Fare in modo che la popolazione abbia la possibilità di stare tranquilla e rispettare sempre allo stesso tempo le garanzie. La pena non può essere disumana”, sottolinea la Guardasigilli Marta Cartabia che ieri, nel corso del forum organizzato a Repubblica, ha risposto così alla domanda sulla scarcerazione di Nunzio De Falco, condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio di don Peppino Diana che ha ottenuto la detenzione domiciliare per motivi di salute. La ministra interviene all’indomani dell’accordo raggiunto sulla riforma della giustizia penale. Il testo non convince ancora i magistrati napoletani. La presidente della giunta distrettuale dell’Anm, Livia De Gennaro, parla di “notevoli perplessità, a partire dall’introduzione della causa di improcedibilità correlata al decorso dei termini di durata del processo che, per quanto riguarda il distretto della Corte di Appello di Napoli, avrà un impatto devastante”. La ministra Cartabia però è soddisfatta del lavoro svolto e fiduciosa per il futuro: “Questa è una riforma importante a vari livelli e si muove nella direzione della piena attuazione del principio costituzionale, la ragionevole durata del processo”, rimarca. La Guardasigilli ribadisce di vedere, in tanti magistrati italiani, “una grande operosità” e cita come esempio il tribunale di Aversa Napoli Nord dove, dice, “lavorano in conduzioni incredibili, davvero non so come facciano”. In questi giorni il mondo delle toghe è in fibrillazione. Ieri si sono chiusi i termini per la presentazione delle domande per la guida della Procura di Milano, l’ufficio oggi alle prese con la bufera scatenata da caso Amara- Eni, dove il procuratore Francesco Greco è in procinto di andare in pensione. Fra gli aspiranti non ci sarà il procuratore di Napoli, Giovanni Melillo. Il profilo e il curriculum del capo dei pm del Centro direzionale ne avrebbero fatto uno dei più seri candidati, se non il principale favorito, per questo delicato e strategico incarico. Ciò nonostante, Melillo ha scelto di proseguire nel lavoro avviato in questi quattro anni nella Procura dove era stato già sostituto anticamorra e successivamente procuratore aggiunto. Fa ancora discutere intanto il caso aperto a Nola dopo l’esposto dei sostituti contro la procuratrice Laura Triassi. Mercoledì scorso, il plenum del Csm ha sospeso la pratica di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale proposta con 4 voti a favore e due astenuti dalla prima commissione allo scopo di evitare sovrapposizioni con il procedimento disciplinare avviato dal procuratore generale Luigi Riello. La decisione (passata a maggioranza, con 11 favorevoli, 9 contrari e 3 astenuti) accoglie l’istanza della procuratrice, a Nola da dodici mesi esatti dopo essere stata giudice di punta della Tangentopoli napoletana e due anni reggente della Procura di Potenza, ma viene ritenuta “del tutto sbagliata sul piano tecnico e gravida di conseguenze per l’ufficio giudiziario” dai cinque consiglieri togati di Area Elisabetta Chinaglia, Alessandra Dal Moro, Giuseppe Cascini, Mario Suriano e Ciccio Zaccaro. Oltre ai sostituti, hanno chiesto l’intervento del Csm anche 23 amministrativi e alcuni appartenenti alla polizia giudiziaria, segnalando una situazione di “malessere e tensione”. Nel suo intervento in plenum, la procuratrice ha depositato una memoria corredata da documenti, affermando di poter dimostrare l’infondatezza dei fatti così come ricostruiti nella segnalazione del pg. “La scelta di sospendere il procedimento, a nostro avviso, si è tradotta, per il Csm, nella decisione di non decidere, lasciando quell’ufficio in una drammatica e insanabile situazione di conflitto - affermano i cinque consiglieri - si poteva, come noi abbiamo proposto, procedere con il trasferimento o, al massimo, si poteva integrare la procedura con una eventuale istruttoria, ascoltando, come chiesto da alcuni i colleghi dell’ufficio. Ma non si doveva voltare la testa dall’altra parte, utilizzando un inconsistente cavillo procedurale”. Sulla giustizia vincono tutti tranne Draghi, riforma monca di Paolo Delgado Il Dubbio, 31 luglio 2021 Come spesso capita nella politica italiana, la mediazione portata a livello patologico produce risultati contraddittori o inefficaci. Chi ha vinto, chi ha perso: è una di quelle domande che in politica non si dovrebbero fare perché, si sa, “conta solo l’interesse del Paese”, e che in realtà si fanno tutti, specialmente nel Palazzo. Non si tratta neppure di una domanda futile, perché spesso è dall’esito di uno scontro come quello che si è consumato sulla giustizia nell’ultima settimana che dipendono gli indirizzi e gli equilibri successivi, a maggior ragione in una maggioranza anomala e politicamente conflittuale come questa. Solo che stavolta la risposta è evasiva. Non ha vinto nessuno, o se si preferisce hanno vinto un po’ tutti che è più o meno lo stesso. Il M5S dovrebbe essere il grande sconfitto, essendo costretto a seppellire con il proprio stesso voto a favore la riforma che considerava il fiore all’occhiello, quella firmata dall’ex guardasigilli Alfonso Bonafede. Nel merito probabilmente è così. Dal punto di vista dei 5S, come da quello del potere togato, le modifiche che hanno permesso di raggiungere in extremis l’accordo sono solo una “limitazione del danno”. Ma la politica non è aritmetica. Avendo portato a casa l’esclusione dei reati di mafia dall’improcedibilità e un irrigidimento secco delle regole per reati estremamente discutibili, aleatori e impalpabili, come il concorso esterno o l’aggravante per mafia, Conte esce in realtà da una partita difficilissima a testa alta. È allo stesso tempo il più sconfitto e il più vincitore di tutti. La Lega, sin quasi all’ultimo, si trovava nella situazione opposta. La riforma era una sua vittoria nel merito ma politicamente la necessità per Draghi inevitabile di apportare modifiche significative prometteva di suonare come sconfitta secca per chi, letteralmente sino al penultimo giorno di trattativa si era trincerato dietro l’impossibile richiesta di lasciare intatto il primo testo Cartabia. In extremis, con una delle poche vere “mosse del cavallo” della politica italiana, Salvini se l’è cavata rovesciando il gioco: non solo ha appoggiato la richiesta di eliminare l’improcedibilità per i reati di mafia, ma ha rilanciato chiedendo di estendere l’esenzione anche alla violenza sessuale e al traffico di droga. La piroetta permette alla Lega di dichiararsi vittoriosa, se non fosse che la posizione assunta fino all’ultimo è stata invece travolta. Non esce bene dal tritacarne neppure Marta Cartabia. Tra le mediazioni dei mesi scorsi, che hanno falcidiato le proposte sui riti alternativi, e quelle degli ultimi giorni, la sua riforma ha perso omogeneità e consequenzialità. Come spesso capita nella politica italiana, la mediazione portata a livello patologico, riesce sì a mettere d’accordo le forze politiche ma al prezzo di varare riforme monche, contraddittorie o inefficaci. Lo stesso prezzo salato paga Mario Draghi. Voleva una “riforma condivisa”, accettata da tutti senza troppe proteste, senza malumori e promesse di vendetta. La voleva in tempo per onorare il calendario con l’Europa. Ha raggiunto l’obiettivo ma pagando un prezzo alto: quello di una trattativa estenuante, col bilancino, dosando le concessioni ai diversi soggetti, indebolendo la riforma su diversi fronti, introducendo contraddizioni che senza modifiche si sarebbero potute comprendere ma, una volta messo mano al testo, diventano incomprensibili. Spiegare perché i termini della improcedibilità si dilatano anche per piccoli reati se accompagnati dall’ “aggravante mafiosa” mentre i responsabili dei disastri ambientali possono usufruire dell’improcedibilità in tempi brevi non è difficile: è impossibile. Allo stesso modo la facoltà concessa al giudice di prorogare all’infinito il processo senza scatti l’improcedibilità ma con facoltà per gli avvocati della difesa di impugnare la proroga di fronte alla Cassazione è una di quelle mediazioni che rischiano di rivelarsi alla prova dei fatti un rimedio peggiore del male. Nei prossimi mesi, al coperto del semestre bianco, con le elezioni amministrative e quelle politiche incombenti, la situazione peggiorerà. La strada imboccata con la mediazione sulla giustizia verrà battuta di nuovo con esiti esiziali. È probabile che Draghi, nella situazione data, non potesse fare altro e senza dubbio il risultato è per molti versi dal suo punto di vista amaro. Ma si tratta di una vittoria a metà. Riforma della giustizia, la verità dietro la propaganda di Francesco Bei La Repubblica, 31 luglio 2021 Il giorno dopo l’approvazione della riforma Draghi-Cartabia sulla giustizia, è partita la rincorsa ad attribuirsi meriti, spesso a vanvera. I Cinque Stelle rivendicano di aver sventato una manovra che avrebbe disarmato lo Stato di fronte alle mafie, parlando della “schiforma” come di una legge che avrebbe di fatto garantito “impunità” ai boss. Dimenticando che quelle stesse norme erano state votate anche dai loro ministri l’8 luglio, d’intesa con Beppe Grillo. Tutti amici dei mafiosi Di Maio, D’Incà, Patuanelli e Dadone? Improbabile. La verità è che il presunto favoritismo alle cosche era una forzatura propagandistica, il grimaldello perfetto trovato dai nemici di Marta Cartabia per far saltare il suo progetto e, insieme a lei, dare una bella spallata al governo. Una manovra sventata all’ultimo, ma il disegno era quello e il merito c’entrava ben poco. Tanto più che in Italia i processi per mafia corrono sull’alta velocità, hanno la priorità, mentre quelli per i reati ordinari restano indietro. Quindi il calcolo sulle centinaia di migliaia di procedimenti contro i boss che sarebbero finiti al macero era, come diceva Mark Twain, grossolanamente esagerato. Del pari fuori misura è il trionfalismo di Matteo Salvini, che si vanta di aver schiantato a terra la legge Bonafede. Non è così. Anzi tra allungamenti della prescrizione, differimento al 2025 dell’entrata in vigore delle nuove norme e possibili proroghe decise dai giudici per i casi più complessi, i processi dureranno (purtroppo) ancora tantissimo. Anche un giorno di troppo, per chi finisce innocente davanti a un magistrato, sia pure accusato di un grave reato, dovrebbe suonare come una bestemmia nella patria del diritto. E i casi non sono pochi. Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, due giornalisti che alimentano una banca dati sugli errori giudiziari, hanno calcolato che tra ingiusta detenzione ed errori in senso stretto - ovvero coloro che sono riconosciuti innocenti dopo i tre gradi di giudizio - si arriva dal 1991 al 31 dicembre 2020 a quasi trentamila vittime di malagiustizia: in media, poco più di 988 l’anno. Senza calcolare le spese per gli indennizzi, è una cifra enorme. La benemerita riforma Draghi-Cartabia interviene sul “fine processo mai”, ma certo è ancora possibile restare per un decennio appesi a un giudizio. E alla fine uscirne da innocenti. La conclusione è che i partiti della maggioranza stanno facendo a gara per agitare davanti ai follower lo scalpo dell’avversario, ma la narrazione dei fatti e la lettura delle norme dicono altro. Come ha confidato il premier a un ministro al termine della riunione più lunga e sofferta del suo governo, “quella che è stata approvata è una formulazione che consente a ognuno di voi di rivendicare un successo”. Si capisce l’interesse di Draghi di spegnere il prima possibile ogni scintilla che possa far ripartire l’incendio appena domato. La verità tuttavia è che nessuno può cantare vittoria tranne, appunto, il premier. Mr Fix-it, il signor aggiusta-tutto come l’ha ribattezzato il New York Times, è riuscito a imporsi anche sul terreno dove i partiti si sono combattuti più aspramente in questi trent’anni, quello della giustizia penale. Per citare un altro giornale internazionale che ha dedicato spazio alla vicenda, il Financial Times, per l’ex banchiere si trattava della “toughest nut to crack”, della noce più dura da rompere. Mettere insieme e far votare lo stesso testo dai giustizialisti alla Bonafede, uno che teorizzava da ministro che “gli innocenti non finiscono in carcere”, così come dai più garantisti, è stato in effetti un mezzo miracolo politico. Riuscito solo perché alla fine Draghi è andato a vedere il bluff dei Cinque Stelle, forzando sull’approvazione. A quel punto a Giuseppe Conte sarebbe rimasta un’unica scelta, far astenere i suoi ministri oppure farli uscire dal governo. Una scelta identitaria che avrebbe schiacciato il suo movimento su una posizione massimalista, molto lontana da quel profilo moderato e persino “liberale” che l’ex premier vorrebbe per la sua nuova creatura. Oltretutto anche il Pd ha fatto arrivare a Conte un messaggio preciso: su quella deriva i Cinque Stelle sarebbero rimasti da soli. E questo avrebbe significato la fine di ogni prospettiva di alleanza di centrosinistra alle prossime elezioni. Di fronte a questo panorama di macerie, che avrebbe fatto felice solo l’ala più oltranzista del M5S e qualche fiancheggiatore della stampa amica, Conte si è fermato e ha accettato il compromesso. Bene così e bene anche per l’Italia. Che deve mantenere di fronte all’Europa l’impegno di abbattere del 25 per cento i tempi dei giudizi penali entro il 2025. Lo si potrà fare grazie ai massicci investimenti del Recovery sulla giustizia, garantiti dall’approvazione della riforma Cartabia, non certo inseguendo il feticcio dell’abolizione della prescrizione. Cos’è una giustizia eguale, con rispetto per Cartabia di Giuliano Ferrara Il Foglio, 31 luglio 2021 Vedo la legge Cartabia, le opache e querule opposizioni di facciata che ha suscitato, la sua necessità per addolcire la pillola della infinita durata dei processi, cioè del diniego di razionalità e di elementari garanzie di equità, vedo bene i compromessi opportuni, ma non vedo alcuna riforma della giustizia. Tutte le chiacchierate deroghe su mafia, terrorismo, stupro, sempre accompagnate dal canto lacrimoso intonato in nome delle vittime e del loro risarcimento, che infallibilmente irrora le guance degli ipocriti, sono prive di senso giuridico. “Portare a termine” certi processi per reati gravi e di particolare allarme sociale, forzando la procedura penale e comprando il tempo della giustizia eguale per tutti, insomma la pretesa salvifica di Conte e dei suoi sopravvissuti della legge Bonafede, equivale ad aggiustare i processi, è una modalità paramafiosa di annullare il criterio di una giustizia giusta in nome della propaganda. In tutta questa chiacchiera, come sempre provocata dal “popolo dell’onestà-tà-tà” e dai suoi rappresentanti nella maggioranza di emergenza nazionale guidata da Draghi, ci stiamo dimenticando il principio cardine che fingiamo di difendere con toni stentorei e tenorili: il diritto eguale. Un magistrato, ovviamente uno di quelli dalla prefazione facile, di quelli che si occupano di megainchieste e di megacorrenti, ha avuto l’impudicizia di dire che senza emendare quelle norme originarie “non potremo più fare maxiprocessi”, come se un atto di guerra emergenziale, sacrosanto, contro la cupola di Cosa Nostra fosse erigibile a modello extra e antigiuridico della nuova procedura in nome della retorica chiodata dell’antimafia. Viviamo, con magistrati presunti corrotti che primeggiano da mesi nelle classifiche della calunnia libraria, con intere procure attraversate dal vento tempestoso degli appelli ad hominem, nello scatenamento vendicativo delle peggiori pulsioni politicanti con la toga addosso, in una situazione di massima iniuria travestita da ricerca di giustizia. E ci dobbiamo accontentare, ché c’è anche qualcosa di virtuoso, di dettagli come le videoregistrazioni, le assunzioni massicce di personale ausiliare, i famosi clerk, e altri mezzi strumentali che non hanno a che vedere con il problema principale. Problema noto a tutti, ratificato in canoniche e celebri campagne referendarie, oggi degradate a parossismo trasversalista, e in storia politica del paese che disattende il meglio di sé. Bisogna abolire la carcerazione preventiva come strumento e metodo di ottenimento delle “confessioni”. Bisogna notoriamente separare le carriere di chi giudica e di chi accusa e indaga, l’incompatibilità fondativa su cui è costruito il castello incantato del paese che affetta di detestare i conflitti di interessi e di funzioni, e il traffico di influenze, o così si dice. Bisogna impedire l’abuso delle intercettazioni telefoniche e ambientali, e il loro connesso mercato mediatico, due tra i mezzi prediletti dell’avvilimento della giustizia e della sua cultura. Bisogna normare l’esternazione dei funzionari in toga, impedendo la loro costituzione ogni giorno in partito politico o in sindacato di corporazione attivistica. Bisogna accelerare i giusti processi per tutti, e tendenzialmente senza deroghe di aggiustamento, collegando l’insieme a una legislazione di decarcerazione che i fatti di Santa Maria Capua Vetere mostrano necessaria e urgente. Bisogna introdurre la responsabilità disciplinare per negligenza e dolo come se non sia mai esistita, perché in effetti con questa organizzazione della corporazione dell’ordine giudiziario non esiste o quasi. Bisogna mettere il ministero della Giustizia nelle mani degli eletti e sottrarlo a quelle dei magistrati. Con tutto il rispetto per la legge Cartabia, benintenzionata, e per la buona mediazione del famoso “primo passo” riformista, la questione di una giustizia eguale per tutti e per tutti efficace è questa, non la si rinviene nell’ultimo scontro tra becerume vendicativo e palliativi vari. Riforma Cartabia in Aula, 48 ore per il via libera. C’è la norma anti-stalker di Francesco Grignetti La Stampa, 31 luglio 2021 L’obiettivo del governo è approvare il testo entro lunedì alla Camera. Sì all’emendamento Annibali (Iv): arresto per i molestatori sotto casa. La riforma della giustizia finalmente corre. Dopo la giornata di giovedì, con il governo e la maggioranza sulle montagne russe, ora hanno tutti una gran fretta di chiudere. L’obiettivo della maggioranza è votare e approvarla alla Camera tra domenica e lunedì. La ministra Marta Cartabia non teme più impedimenti. E spiega, all’intervistatore del Tg3 che le chiede se davvero i tempi dei processi saranno più veloci: “È l’obiettivo di questa riforma che vuole rimediare a un problema della giustizia italiana dove i processi spesso hanno una eccessiva durata. Dopo un reato è fondamentale accertare tutti i fatti e le tutte le responsabilità e farlo in tempi certi. Questo nell’interesse delle vittime, degli imputati, di tutti i cittadini”. In extremis, però, c’è il tempo per alcune piccole aggiunte. Il deputato Enrico Costa, Azione, convince tutti sulla necessità di garantire l’oblio dai motori di ricerca per le persone assolte. E Lucia Annibali, Italia viva, ottiene il consenso di tutti su una norma anti-stalker: si dispone “l’arresto obbligatorio in flagranza” per mariti o ex mariti violenti che violano i provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa. Lei sa bene, purtroppo, per averlo vissuto sulla sua pelle, che cosa significhi la violenza di un ex. Attualmente l’arresto in flagranza è previsto per i maltrattamenti contro i familiari e i conviventi, ed anche per il reato di stalking, ma per chi violava il divieto di avvicinamento non era previsto che scattassero le manette e la detenzione arrivava solo al termine di un eventuale processo. “Sono situazioni - ha commentato Annibali - che purtroppo si sono verificate di frequente negli episodi di violenza verso le donne da parte di ex mariti o ex compagni”. L’arresto in flagranza dovrebbe evitare quindi che dalla minaccia un ex passi ai fatti con esiti tragici, come accade sempre più spesso. In base ai dati forniti dal Viminale relativamente al periodo compreso tra il primo gennaio e il 25 luglio 2021 sono stati registrati 157 omicidi, con 64 vittime donne di cui 56 uccise in ambito familiare/affettivo. Di queste, 39 hanno trovato la morte per mano del partner o di un ex. Piccoli significativi aggiustamenti in una riforma che però segna davvero uno scarto di marcia. Si passa da una previsione, secondo la legge Bonafede, per cui i reati non scadevano mai, a un’altra in cui i processi sono sottoposti a tempi assolutamente stringenti. Ecco perché la ministra può dire che si mette rimedio al problema italiano dell’eccessiva durata dei procedimenti. E su questo aspetto ci siamo impegnati con l’Europa, che ha condizionato i miliardi del Recovery Plan a una riforma della giustizia che riduca del 25% i tempi del processo penale e addirittura del 40% quelli del processo civile. Ovviamente, se ci si riuscirà, i primi a beneficiarne saranno gli italiani. E poi l’economia. “Sappiamo bene che tanti investimenti stranieri stentano ad arrivare in Italia, tra gli altri motivi, anche per le incertezze dei tempi della giustizia civile”, dice ancora la ministra Guardasigilli al Tg3. Come annunciato, ci sarà un doppio binario che mette al sicuro i processi di mafia, terrorismo, stupro e traffico di stupefacenti. Non i reati di corruzione e concussione. E di ciò si vanta Forza Italia: “Non possiamo non sottolineare che dal testo approvato è stato, infine, espunto l’irragionevole ed incostituzionale doppio binario inizialmente previsto per i reati contro la pubblica amministrazione. Il nostro gruppo da sempre si batte per una più equa disciplina delle responsabilità di sindaci e pubblici amministratori”. E mentre i partiti di maggioranza cantano tutti vittoria, ciascuno dal suo punto di vista, le opposizioni demoliscono la riforma. “Una invereconda mediazione al ribasso per tenere unita una maggioranza dilaniata. Mancano clamorosamente tempi rapidi del processo, sicurezza della pena e giusto processo”, denuncia Andrea Delmastro, responsabile Giustizia di Fratelli d’Italia. A protestare contro la riforma sono anche gli ambientalisti, che avrebbero voluto maggiori garanzie per gli ecoreati. Cartabia: “Adesso tutti rispettino i patti. Ai pm prometto: nessun impunito” di Liana Milella e Lavinia Rivara La Repubblica, 31 luglio 2021 La ministra della Giustizia risponde alle domande della redazione di Repubblica. E dice: “La nostra legge non produce nessuna zona di impunità. La prima forma di impunità sono i processi che non finiscono mai”. Racconta la Guardasigilli: “Ho temuto che saltasse tutto quando ho visto la politica ignorare il merito per restare prigioniera delle bandiere”. Dopo l’accordo sul filo della crisi della riforma del processo Penale, la ministra della Giustizia Marta Cartabia, ospite di un forum nella nostra redazione, racconta le ore in cui tutto è stato a un passo dal saltare, difende le ragioni e lo spirito della sua legge ribaltando sugli avversari l’accusa di impunità, confessa lo smarrimento di fronte a una politica prigioniera delle sue bandiere e non del merito delle nuove norme, rivendica una giustizia e un diritto penale miti, dove i tempi del giusto processo sono certi, dove le sanzioni alternative e la giustizia riparativa si allargano perché “nella Costituzione c’è scritto pena, non carcere”. Lo fa rispondendo per oltre un’ora alle domande che le vengono rivolte con determinazione ed eleganza. Confessando che nelle ore più difficili di questo passaggio si è rifugiata nella lettura di un saggio su Leopardi, scoprendo che il campione del Pessimismo cosmico, in realtà si nutriva di illusione, della convinzione che il corso delle cose possa essere diverso da quello che si immagina. Ministra Cartabia benvenuta a Repubblica. Perché questa riforma è importante per i cittadini, per le famiglie, per le imprese? “È una riforma importante a vari livelli. Innanzitutto, perché si muove nella direzione di attuare principi costituzionali come la ragionevole durata del processo. L’eccessiva durata dei processi è un problema del nostro Paese che dobbiamo risolvere. Lo esige la Costituzione e lo esigono principi europei. Ma soprattutto lo dobbiamo ai nostri cittadini, che patiscono i danni di una giustizia lenta. L’obiettivo di questa riforma è arrivare a sentenze definitive in tempi rapidi. Dopo un reato, è fondamentale garantire l’accertamento pieno dei fatti e delle responsabilità. E questo deve avvenire nei tempi giusti. C’è poi anche una ragione contingente: questa riforma è un impegno preso con l’Europa come condizione per ricevere i finanziamenti del Recovery fund”. Giovedì c’è stato un momento in cui lei ha temuto che saltasse tutto, anche il governo? Oppure è stato un gioco delle parti? “Non è stato un gioco delle parti. È stata una giornata molto complessa dal punto di vista politico, e il timore che si arrivasse in fondo senza l’accordo di tutti c’è stato in vari momenti. E questo non solo ieri, ma anche nelle settimane precedenti. Quella di ieri è stata la punta dell’iceberg di mesi di incontri, confronti, dialoghi, aggiustamenti e di un lungo, tenace e paziente lavoro di mediazione. Sicuramente la tensione era altissima, su un tema su cui - lo sappiamo - tutte le forze politiche hanno convinzioni radicate e punti da difendere molto forti. La posta in gioco era molta alta, e questo si avvertiva in ogni richiesta di modifica, anche di una virgola: la partita politica si preoccupava delle proprie bandiere, ignorando i contenuti della legge”. Nell’ultima fase della trattativa c’è stato un protagonismo di M5S su un tema delicato come quello dei reati di mafia. La loro richiesta era strumentale o rispecchiava un’esigenza di giustizia? “Come ho detto poco fa, l’obiettivo della riforma è far arrivare a conclusione nel merito ogni - e ribadisco ogni - processo. Quanto ai reati per mafia, già nella prima bozza approvata l’8 luglio, c’era un’attenzione particolare. Questo perché nel nostro ordinamento ci sono regole dedicate per i reati gravi. Non a caso si parla di “doppio binario”. Quindi è stato del tutto naturale prevedere da subito regole diverse. L’improcedibilità, ad esempio, era già esclusa per i reati puniti con l’ergastolo. I processi di mafia sono trattati con priorità anche per la presenza di imputati detenuti. Se poi si considerano i dati di durata media dei processi nelle Corti d’Appello possiamo dire che il pericolo di mandare in fumo, come si suol dire, i processi di mafia non c’è mai stato. In ogni caso, a fronte di preoccupazioni manifestate da più parti, abbiamo previsto una norma transitoria, per l’entrata in vigore con tempi più lunghi e abbiamo introdotto un nuovo sistema: proroghe rinnovabili, ma sempre motivate e sempre impugnabili in Cassazione. Stiamo attenti, non si tratta di processi senza limite, ma proroghe rinnovabili solo con un’ordinanza motivata. Il giudice cioè si assume la responsabilità di dire che ha bisogno di più tempo”. Una parte della magistratura ha criticato la sua riforma. Ma non ci sono stati prima degli incontri, in cui erano emersi i punti critici? “Io ho anzitutto incontrato le forze politiche, perché è noto che la nostra riforma va a innestarsi sul ddl Bonafede ereditato dal governo precedente. In seguito, c’è stato il lavoro della commissione di esperti presieduta da Giorgio Lattanzi, grandissimo magistrato penalista, presidente della Corte Costituzionale; con lui c’era anche Ernesto Lupo, già presidente della Corte di Cassazione. Inoltre, la Commissione era composta da magistrati, avvocati, professori. Hanno ascoltato tutti i principali attori, a cominciare dalla magistratura. Sulla base delle loro conclusioni e delle mie convinzioni, mi sono confrontata ancora con le parti politiche. Certo il confronto c’è stato prima ed è continuato. Non solo abbiamo ascoltato da subito i magistrati, ma abbiamo continuato a farlo anche dopo, e io non ho avuto alcuna difficoltà ad accogliere i loro suggerimenti, tant’è che ora il presidente dell’Anm dice che parte delle loro preoccupazioni si sono un po’ allentate. Si è giunti qui per via del contesto politico che conosciamo. Io stessa ho dovuto accettare questa formula mista di prescrizione, per cercare una strada praticabile nel contesto dato. Mi sono convinta però che questa scelta possa funzionare bene nel concreto”. Miti (e dati) sulla prescrizione. Ecco i processi che svaniranno di Giulia Merlo Il Domani, 31 luglio 2021 La riforma della giustizia cambia il codice penale rivoluzionando i tempi dei processi con l’istituto dell’improcedibilità. Lo scontro politico ha riguardato la prescrizione. Le statistiche evidenziano dove i procedimenti sono davvero a rischio. A sorpresa molte corti del sud hanno buone percentuali. E in Sicilia i tempi dell’appello per i reati di mafia sono virtuosi. Lo scontro sulla riforma della giustizia penale, che si è chiuso giovedì con un accordo tra i partiti della maggioranza, si è giocato quasi per intero sulla prescrizione e, come si legge nel nuovo testo voluto dal guardasigilli Marta Cartabia, su quello dell’improcedibilità. Istituti che prevedono l’estinzione del reato a fronte del passaggio del tempo che esaurisce la pretesa punitiva dello stato. La prescrizione è attualmente prevista solo per il processo di primo grado. La riforma Bonafede del 2019, infatti, prevede che il decorso della prescrizione sostanziale si interrompa quando il tribunale emette la sentenza. Dopo questo momento, si presume che la volontà dello stato di procedere per il reato sia chiara e dunque il processo debba arrivare a sentenza definitiva, senza alcun limite di tempo per farlo. La riforma Cartabia inserisce un nuovo meccanismo: in primo grado rimane la prescrizione sostanziale prevista da Bonafede e calcolata sulla base della pena, e che dunque ha durata diversa a seconda della tipologia di reato. In appello e in Cassazione, invece, viene introdotta la prescrizione cosiddetta processuale: in questo caso a estinguersi non è il reato ma il processo. La prescrizione processuale, infatti, prevede una durata fissa per ogni fase: due anni in appello e uno in cassazione. Questa durata secondo i tecnici di Via Arenula non è stata individuata in modo arbitrario, ma risponde ai tempi stabiliti come “non irragionevoli” per i giudizi di impugnazione dalla legge Pinto del 2001, che ha recepito le previsioni della Convenzione europea sulla giusta durata dei processi e sancisce il diritto all’equa riparazione nel caso di danno da irragionevole durata. Questa formula ibrida, che somma due diversi tipi di prescrizione - una che ha effetti sul reato e una sul processo - è stata fortemente criticata dai magistrati, che hanno lanciato due specifici allarmi. Il primo, che la prescrizione processuale faccia “morire” moltissimi processi in appello: addirittura il 50 per cento, secondo il procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri. Il secondo, che così si indebolisca il contrasto a fenomeni mafiosi: “La improcedibilità non corrisponde alle esigenze di giustizia anche perché riguarda tutti i processi compresi quelli per reati gravissimi, come mafia, terrorismo e corruzione, con conseguenze molto gravi nel contrasto alle mafie, al terrorismo e alle altre illegalità”, ha detto il procuratore antimafia, Federico Cafiero de Raho. Il fuoco di fila dei pm antimafia è stato unanime, e Cartabia - anche per l’imposizione del M5s - ha deciso nell’ultima bozza della riforma di modificare il testo. Che ora è stato accettato da tutti i partiti della maggioranza. La rivoluzione scatterà dal primo gennaio 2015, quando per tutti i reati ordinari sarà previsto il termine dei due anni in appello e uno in cassazione, prorogabili su decisione motivata del giudice di un anno in appello e sei mesi in cassazione. Prima della fatidica ora X, è stata prevista una norma transitoria che vale fino a fine 2024, e che riguarda i termini di tutti i processi: tre anni in appello e 18 mesi in Cassazione. Per quanto riguarda i reati più gravi, nulla cambia per quelli puniti con l’ergastolo: non ci sono termini di durata previsti. Per mafia, terrorismo, violenza sessuale e associazione finalizzata al traffico di droga saranno possibili proroghe (sempre motivate) senza limiti di tempo. Infine sul tema dei reati “aggravati dal metodo mafioso” la mediazione tra partiti ha prodotto un allungamento rispetto a quelli senza aggravante: dal 2025 si prescriveranno in 5 anni durante l’appello e 2 e mezzo in Cassazione. Ancora ieri molti magistrati si dicevano preoccupati dall’effetto della riforma sulla cancellazione di decine di migliaia di processi. Per valutare la fondatezza degli allarmi lanciati, è necessario partire dai dati a disposizione. Numeri che in parte smentiscono alcuni luoghi comuni sulle patologie del processo in Italia. Secondo i dati ministeriali del 2019 - ultimo anno non influenzato dalla pandemia e quindi verosimile in una proiezione futura - i procedimenti che si sono conclusi con la prescrizione del reato rappresentano il 9 per cento di quelli avviati a livello nazionale. Interessante però è constatare in quale fase i procedimenti si prescrivono: circa il 38 per cento durante le indagini e dunque prima ancora che il processo sia cominciato; il 32 per cento nel giudizio di primo grado e il 26 per cento nel giudizio d’appello, mentre è insignificante nel giudizio cassazione, con meno dell’1 per cento. La maggior parte dei reati, quindi, non si prescrive per cause legate al processo e dunque a eventuali lungaggini procedurali, ma nella fase ancora precedente in cui gli inquirenti indagano. Tuttavia, le critiche della magistratura alla nuova prescrizione processuale si concentrano sul fatto che due anni siano troppo pochi per concludere il giudizio di appello. Analizzando la durata di questa fase processuale, emerge che la durata media dei processi in appello in Italia è di 835 giorni, dunque più alta dei 730 previsti dalla nuova riforma, qualora rimanesse la previsione più restrittiva. Approfondendo il dato, tuttavia, risulta che le corti d’appello a superare il limite dei due anni sono otto: Firenze con 745 giorni, Bari con 813, Bologna con 823; Venezia con 996; Roma con 1142; Catania con 1247; Reggio Calabria con 1645 e Napoli con 2031. Tutte le altre corti d’appello, invece, sono già al di sotto dei due anni per durata media dei procedimenti: compresa quella di Catanzaro oggi guidata da Gratteri, dove un processo d’appello dura in media 567 giorni. Ovviamente, nelle corti con un processo più breve in appello, l’incidenza della prescrizione è molto inferiore. Un esempio su tutti fatto con due corti comparabili a livello di volume di contenzioso: nel 2019 il distretto di Napoli ha avuto una percentuale di prescrizioni del 32,8 per cento; in quello di Milano, dove il tempo di conclusione dell’appello è sei volte inferiore a quello di Napoli (2031 giorni contro 335) la prescrizione del reato in appello è avvenuta solo nel 4,5 per cento dei procedimenti. Tradotto: nel caso in cui la riforma entrasse in vigore così com’è, gli interventi più drastici di rafforzamento delle corti d’appello per ridurre la durata dei processi dovrebbero essere localizzati ai soli distretti che già non rimangono sotto il limite del 730 giorni. I dati mostrano anche un altro elemento: la durata dei processi è totalmente indipendente dall’elemento geografico, smentendo la facile equazione che i distretti del meridione, quelli anche più interessati alla lotta a fenomeni mafiosi, siano quelli più lenti dove i processi si prescrivono con maggiore frequenza. A dimostrarlo è il dato sulla prescrizione pre-riforma Bonafede: nel 2020, la media nazionale di incidenza delle prescrizioni in grado d’appello sul totale dei procedimenti definitivi è stata del 26 per cento. I distretti con le maggiori difficoltà sono Roma (49 per cento), Reggio Calabria (48) e Venezia (45). Proprio questo dato è significativo perché si tratta di tre corti diversissime: Roma è la più grande d’Italia con oltre 10 mila procedimenti definiti l’anno; Reggio Calabria invece, con poco più di 1100 procedimenti, è omologabile a Caltanissetta che ha invece solo il 3 per cento di prescrizioni; infine Venezia, che conta circa 4000 procedimenti. Sopra la media nazionale ci sono poi Napoli (39 per cento, su 9 mila procedimenti), Catania e Bologna (33, rispettivamente su 3 mila e 6500) e Catanzaro (29 per cento su 2900). Efficienti, invece, sono le corti d’appello medio-grandi come Milano e Palermo (6 per cento di prescrizioni su, rispettivamente, 5700 e 5000 procedimenti) e buoni risultati si hanno in tutte le procure siciliane, dove spicca il dato negativo di Catania, mentre le altre tre oscillano tra il 3 e il 6 per cento di prescrizione. Proprio il fatto che la durata dei processi e la prescrizione dei reati non sia legata a un fatto territoriale permette di trarre altre conclusioni sul tema del contrasto alle mafie. Le corti siciliane sono decisamente rapide in grado d’appello: Messina è la più veloce d’Italia, con appena 228 giorni per concluderlo; Caltanissetta la segue con 293 giorni, Palermo con 445. In Campania, la maglia nera è quella di Napoli, mentre Salerno è tra le corti più rapide, con appena 340 giorni. Identica la situazione in Calabria, dove Reggio Calabria fissa il record negativo dietro Napoli, mentre Catanzaro è sotto la media nazionale. La durata media dei giorni di durata dei processi in appello, tuttavia, non permette di apprezzare dati qualitativi sui singoli reati. La domanda quindi è: i processi per mafia, vista la loro potenziale difficoltà, si prescrivono più degli altri? In realtà, questo tendenzialmente non accade. La ragione è prettamente legata a cause processuali, che favoriscono la velocità in appello di questi reati. I processi per mafia sono quelli in cui si contesta il reato associativo, il cosiddetto 416 bis - ovvero l’associazione per delinquere di stampo mafioso - e i reati cosiddetti “fine”, che descrivono l’attività criminale della cosca (i più diffusi sono il traffico di stupefacenti, l’usura, l’estorsione, il riciclaggio e oggi sempre più spesso anche reati finanziari). Come scrive il presidente dell’Unione camere penali italiane, Giandomenico Caiazza, si tratta di processi che “sono in larghissima percentuale a carico di imputati in stato di custodia cautelare”. A livello pratico, questo si traduce nella conseguenza che, a dettare i tempi della trattazione di questi processi, sono i termini di custodia. In altre parole, questi processi hanno una sorta di binario privilegiato per cui vengono celebrati con precedenza rispetto ad altri, perché il giudizio va celebrato prima della conclusione del termine di custodia cautelare previsto in quella fase (almeno per le imputazioni principali che hanno un termine che prorogabile fino a circa 2 anni). In questo modo, si evita che l’imputato torni a piede libero. “Nessuna Corte di Appello versa nelle condizioni di non riuscire a celebrare questi giudizi prima dello spirare del termine custodiale di fase. Possiamo anzi dire che è proprio la trattazione prioritaria di questa categoria di processi a determinare i gravi ritardi di trattazione dei tanti altri che per comodità vogliamo definire ordinari”, conclude Caiazza. In ogni caso, la mediazione trovata dal governo esclude l’improcedibilità per prescrizione processuale per tutti i reati di mafia. L’appello nella maggior parte dei casi si conclude in una sola udienza o con un numero molto ridotto di udienze. Questo perché in appello la fase istruttoria non avviene, ma si esamina solo la parte appellata della sentenza di primo grado e la rinnovazione delle prove non è frequente, ma avviene solo se il giudice la consente su richiesta del ricorrente. Nonostante questo, il processo d’appello rimane il collo di bottiglia del sistema giudiziario italiano. A produrre questo effetto è stata la riforma del 1998 che, per un numero importante di reati, ha sostituito nel primo grado il giudice monocratico al collegio. Tradotto: in primo grado nella maggior parte dei casi è un unico giudice a decidere e non più un collegio composto da tre. Questo ha decongestionato il primo grado ma ha progressivamente ingolfato l’appello: a fronte di un aumento di flusso di ricorsi, i giudizi d’appello sono sempre collegiali e l’organico nelle corti non è stato rafforzato. Per fare un esempio, infatti, a Roma il tempo solo per il passaggio di un fascicolo dal tribunale alla corte d’appello è di un anno, che si perde non per svolgere udienze ma per sole ragioni di organizzazione carente. Per risolvere il problema, la scommessa della riforma Cartabia è proprio quella di incidere sulle corti che hanno maggiori problemi e percentuali disastrose, partendo dall’assunto che la prescrizione come patologia di sistema è un fenomeno “localizzabile”, la cui soluzione - che si traduce in una riduzione dei tempi del contenzioso - deve partire proprio dagli uffici. La ministra della Giustizia ripete da giorni che la riforma del penale va letta per intero e non solo nella parte che riguarda la prescrizione: il testo prevede una serie di interventi che riguardano ogni fase processuale in modo da ridurne i tempi. Inoltre è prevista una massiccia campagna di assunzioni di funzionari e magistrati e la creazione dell’ufficio del processo, che dovrebbe essere un gruppo di lavoro formato da tirocinanti, magistrati onorari e cancellieri che coadiuvano il giudice in modo da velocizzarne il lavoro, in ottica soprattutto di smaltimento dell’arretrato. Rafforzare gli organici e una migliore organizzazione degli uffici dovrebbe permettere a Roma di raggiungere gli stessi livelli di efficienza di Palermo e Milano. D’altronde anche la riforma Bonafede che andrà salvo sorprese in soffitta prevedeva un potenziamento degli organici importante. Inoltre, la riforma Cartabia prevede una nuova disciplina delle notificazioni, nuove norme che escludono la punibilità per tenuità del fatto e che sospendono il procedimento con messa alla prova. Infine, sono previsti dei meccanismi di allargamento del patteggiamento. Tutti strumenti che puntano a ridurre il contenzioso, soprattutto quello in appello. In questo modo, è la speranza del ministero, la prescrizione diventerà un fenomeno patologico a cui si arriverà per un numero ridottissimo di casi, in modo da raggiungere l’obiettivo fissato dall’Unione europea di ridurre del 25 per cento la durata dei giudizi penali. Un taglio, ricordiamolo, fondamentale anche per ottenere i soldi del Recovery fund. Se dal punto di vista della velocizzazione dei tempi la riforma Cartabia ha messo in campo una serie di soluzioni che dovrebbero snellire i processi, la nuova prescrizione prima sostanziale e poi processuale solleva però altri problemi di natura più prettamente procedurale, che l’accademia si è incaricata di far emergere. Si tratta, in particolare, di questioni che potrebbero finire davanti alla Corte costituzionale per ragioni legate alla disparità di trattamento degli imputati. Giuristi come Giorgio Spangher, professore emerito di procedura penale alla Sapienza di Roma, inoltre, hanno paventato l’ipotesi di una parziale bocciatura europea: la Corte di giustizia, infatti, potrebbe autorizzare i giudici di merito a disapplicare l’improcedibilità ogni volta che vengano pregiudicati “gli interessi europei”, creando incertezza sui casi di applicabilità della norma. Sul fronte europeo, eventuali problematiche potrebbero anche venir sollevate davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, perché l’improcedibilità rischia di ledere gli interessi della vittima del reato, oltre a vanificare il diritto alla conclusione del processo con una sentenza di merito, sia a favore che a carico. Infine - e questo è il pericolo forse maggiore - la natura processuale della prescrizione in appello e Cassazione fa venire meno il principio di irretroattività delle norme penali sostanziali previsto dall’articolo 25 della Costituzione. La corte costituzionale, allora, si troverebbe a dover decidere su possibili ricorsi in cui questa natura ibrida della prescrizione rende incerta l’applicazione della norma anche a casi precedenti. Altro problema riguarda l’obbligatorietà dell’azione penale prevista dalla Costituzione all’articolo 112: la prescrizione processuale estingue il processo e non il reato, che però non potrebbe più venire perseguito per sole ragioni processuali, mettendo in discussione proprio il principio dell’obbligatorietà a perseguire i reati. Infine, emerge un evidente problema pratico di possibili disparità di trattamento che risulta facilmente comprensibile con un esempio: il reato di estorsione si prescrive in 10 anni e, applicando l’attuale riforma della prescrizione si possono verificare due casi estremi. In primo grado il processo dura 10 anni meno un giorno, dunque rimane nel termine della prescrizione sostanziale e non muore. Poi il processo potrà durare altri due anni in appello e uno in cassazione per un totale di 13 anni per arrivare concretamente alla prescrizione. All’opposto, in un tribunale molto veloce il primo grado potrebbe durare 3 anni: sommando i 2 anni più 1 delle altre due fasi, lo stesso reato estorsivo si prescriverebbe in 6 anni. Questi problemi si sono verificati perché la scelta del governo è stata quella di fare una crasi tra le due ipotesi di riforma della prescrizione previste dalla commissione di esperti presieduti dall’ex giudice e presidente della corte costituzionale Giorgio Lattanzi, che aveva il compito di proporre le modifiche al testo base del ddl penale. La commissione aveva prodotto due ipotesi di riforma: la prima prevedeva di reintrodurre la prescrizione sostanziale anche in appello e Cassazione, ma con una sospensione di due anni in appello e uno per la cassazione. Se nel tempo di sospensione non si giungeva a sentenza, la prescrizione sostanziale riprendeva a decorrere. La seconda proposta invece prevedeva l’introduzione per tutti i gradi di giudizio della prescrizione processuale: la prescrizione sostanziale si interrompeva con l’esercizio dell’azione penale, poi la previsione di termini di fase di 4 anni per il primo grado, 3 per l’appello e 2 per la cassazione oltre i quali scattava l’improcedibilità. Per ragioni di compromesso politico con il Movimento 5 stelle, che non voleva rinunciare allo stop alla prescrizione sostanziale dopo il primo grado, alla ministra non è rimasto che provare una sintesi tra le due proposte. Il risultato, tuttavia, è che la doppia natura sostanziale e processuale della prescrizione produce un istituto spurio, che interviene prima sul reato e poi sul processo, generando potenziali effetti aberranti. Tra le quali, anche e forse soprattutto una penalizzazione dell’innocente che - nelle corti più ingolfate - rischia di non poter ottenere una assoluzione piena ma solo la “morte” del processo per decorrenza dei termini, a meno che non accetti di rinunciare alla prescrizione. E se ora anche il premier e la guardasigilli puntassero su quei sei referendum? di Francesco Damato Il Dubbio, 31 luglio 2021 Con la solita franchezza consentitami da un giornale le cui insegne culturali e civili sono il dubbio e il conseguente garantismo debbo dirvi che più leggo l’elenco dei reati esclusi formalmente o di fatto, con presunti “aggiustamenti tecnici”, dalla “improcedibilità” preferita alla prescrizione dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, nei passaggi in appello e in Cassazione, meno mi convinco dell’” addio” volenterosamente o ottimisticamente annunciato al “fine processo mai”. O alla figura barbarica dell’imputato a vita. E più mi verrebbe voglia di dare ragione, una volta tanto, al Fatto Quotidiano con quel titolo di prima pagina su “Cartabia & C.” che “cedono” a Conte, riuscito quanto meno a “limitare i danni”, dal suo punto di vista, derivanti dalla riforma del processo penale all’esame della Camera. Potrei, sempre una volta tanto, condividere anche il fotomontaggio del giornale diretto da Marco Travaglio in cui il pugno destro dell’ex presidente del Consiglio è infilato in un guantone rosso da pugile e Draghi e Cartabia hanno l’occhio destro livido e occultato con una lente nera. Dirò ancora di più. Sempre una volta tanto, immedesimandomi in un elettore di quelli ai quali si rivolge con l’aria del consigliere e del protettore il direttore del Fatto Quotidiano, potrei condividere la sua lettura delle decisioni prese dal Consiglio dei ministri dopo le convulse trattative sulle modifiche alle modifiche del governo alla riforma del processo penale. In particolare, Travaglio ha scritto che “i pericoli peggiori (anche se non tutti) della schiforma Cartabia sembrano sventati: basta confrontare il testo originario con quello stravolto dall’accordo di ieri. I 5 Stelle, dopo mille cedimenti e sbandate, ridanno agli elettori un motivo per votarli”. Che cosa dovrebbe fare allora uno come me, che non ha mai votato e tanto meno condiviso le aspirazioni di un movimento come quello delle 5 stelle, neppure le istanze all’onestà perché contraddette spesso dalla pratica dei loro portavoce e dall’arbitraria applicazione della disonestà a comportamenti legittimi? Dovrebbe aggiungere il presidente del Consiglio e la ministra della Giustizia in carica, con tutto il loro prestigio, e la loro storia professionale alle spalle, al lungo elenco degli opportunisti o dei pavidi che hanno fatto mettere la politica, il Parlamento, la democrazia e chissà cos’altro sotto i piedi di una certa magistratura stravolgendo la Repubblica, sino a renderla più giudiziaria che parlamentare? E, di conseguenza, avendo presuntivamente tutti fallito nell’azione di contrasto a questo andazzo cominciato tanti anni fa, forse ancor prima della famosa Tangentopoli esplosa nel 1992 con l’arresto di Mario Chiesa a Milano, aderire al vero partito di maggioranza che è diventato quello delle astensioni? Beh, non ci penso neppure. A costo di apparire ingenuo, superato lo sgomento iniziale, sono invece tentato dalla volontà di giustificare in qualche modo sia Draghi sia Cartabia con le ragioni superiori della lotta alla pandemia e delle altre emergenze per fronteggiare le quali è stato formato l’attuale governo. Penso allo scrupolo, forse anche incoraggiato dietro le quinte dal presidente della Repubblica ormai in semestre cosiddetto bianco, senza possibilità di sciogliere le Camere, di evitare una crisi da irresponsabilità dei grillini. La cui esplosione finale si è forse preferito a Palazzo Chigi ritardare al momento in cui si potrà davvero tornare alle urne e farla finita con questa legislatura appesa dal primo momento agli umori e ai problemi tutti interni ad un movimento nato e cresciuto allo scopo, neppure tanto nascosto, di destabilizzare un sistema che già di suo era in notevole sofferenza. Mi piace pensare - magari illudendomi, ripeto, e facendo la figura dell’ingenuo che Draghi e Cartabia abbiano voluto mettere in sicurezza quel poco della loro riforma - altro che la “schiforma” denunciata da Travaglio e contrastata da Conte nel suo rodaggio di presidente del MoVimento 5 Stelle designato, prima bocciato e poi recuperato da Grillo - e scommettere pure loro sui sei referendum sulla giustizia promossi da leghisti e radicali. Cui a questo punto, dopo l’adesione dei cinque consigli regionali previsti dalla Costituzione, non sarebbero più necessarie neppure le 500 mila firme anch’esse richieste dalla Costituzione. Più della metà delle quali comunque sono state già raccolte, a dimostrazione di quanto le prove referendarie siano condivise dall’opinione pubblica: tanto condivise quanto osteggiate dall’ala più militarizzata, diciamo così, della magistratura e dai partiti, correnti, giornali eccetera che la fiancheggiano. Sono passati ormai troppi anni dal 1987 e successi troppo guai da allora, a scapito della Giustizia con la maiuscola, per pensare che possa ripetersi - magari con Draghi ancora a Palazzo Chigi e la Cartabia guardasigilli - ciò che accadde 34 anni fa, quando la responsabilità civile dei magistrati, per esempio, fu reclamata dalla stragrande maggioranza degli elettori referendari e sostanzialmente negata, dopo pochi mesi, in una legge che avrebbe dovuto semplicemente disciplinarla. Per non sbagliare o essere più semplicemente coerente con ciò che ho scritto, appena trasmesso questo articolo al Dubbio andrò a firmare, alla prima postazione più vicina a dove mi trovo, i moduli di tutti i referendum in cantiere. Dei quali non deploro ma apprezzo che si siano convinti gli stessi o gli eredi di quei leghisti che il 16 marzo 1993 si unirono ai forcaioli applaudendo o incoraggiando con risate il loro collega deputato Luca Leoni Orsenigo che ostentava un cappio nell’aula di Montecitorio. È da garantisti avere dubbi sui referendum sulla giustizia di Alfredo Mantovano Il Foglio, 31 luglio 2021 Quanto segue è realmente accaduto in un ufficio giudiziario italiano, e ha trovato qualche giorno fa epilogo, al momento parziale, in Cassazione. Capodanno 2017. X buca le gomme all’automobile di Y e Y lo denuncia. Si avvia un procedimento penale per il reato di danneggiamento. Dopo appena 4 anni - la complessità del caso spiega la lunghezza dell’indagine - il processo perviene al gip e l’imputato chiede di patteggiare. Il pm esprime parere contrario dicendo che la Procura cui appartiene non lo ha autorizzato a pronunciarsi su istanze di patteggiamento: evoca cioè un dato organizzativo interno al proprio ufficio ma estraneo alla dinamica processuale. Ha il medesimo peso giuridico che se avesse detto “nego il consenso perché la mamma non mi ha dato la merenda”. Il gip, che secondo il codice è obbligato a prendere atto del dissenso del pm e a mandare l’imputato al dibattimento, se ne impipa, scrive che la contrarietà del pm è radicalmente immotivata, pronuncia la sentenza di patteggiamento, e quindi trasforma quello che è fisiologicamente un accordo fra le parti in un atto unilaterale (la richiesta dell’imputato), che lui accoglie. La procura generale fa ricorso per cassazione e la cassazione annulla la sentenza, ritenendo che costituisca un atto abnorme; restituisce gli atti al tribunale di provenienza perché il giudizio, quando con calma sarà rifissato, riprenda daccapo. Non è un caso di mafia o di corruzione, ma ha il pregio di riassumere alcuni dei principali problemi della giustizia italiana. In 4 anni e mezzo una foratura di ruote impegna dal primo grado alla Cassazione, e non è ancora finita: sarà interessante vedere alla fine quanti magistrati se ne saranno occupati. Gli emendamenti Cartabia alla riforma Bonafede ribadiscono i termini di durata delle indagini, che esistevano già il giorno in cui quelle gomme erano state bucate, e che nel caso specifico avrebbero dovuto chiudersi 6 mesi dopo l’avvio del procedimento: quali risultati conseguirà il mantenimento degli stessi termini? Non poche condotte illecite non esigono la sanzione penale: ledere le gomme altrui è diverso dal ledere l’integrità personale; comportamenti come il primo potrebbero essere più efficacemente puniti con una sanzione amministrativa o con la condanna in un giudizio civile. Ma questo non avviene a costo zero: l’alternativa del giudizio civile è praticabile se la sentenza arriva non alla generazione successiva. Idem per la sanzione amministrativa, per la quale non può andare come per gli assegni a vuoto, i cui fascicoli riempiono gli scaffali delle prefetture da quando a suo tempo quel reato fu depenalizzato. Ipotesi di depenalizzazione, e di parallelo potenziamento delle prefetture e della giurisdizione civile sono tuttavia estranee alla riforma Bonafede-Cartabia. Un pm che si presenti in udienza e rifiuti di svolgere la sua funzione (questo è accaduto nel nostro caso) andrebbe censurato disciplinarmente, unitamente al Procuratore che (non) lo ha delegato. Un gip la cui sentenza venga qualificata “abnorme”, cioè letteralmente “fuori dalla norma”, pure. Gli emendamenti Cartabia non trattano il versante disciplinare; confidiamo nei referendum? In effetti uno dei referendum per i quali è in corso la raccolta delle firme prevede la responsabilità diretta del magistrato che sbagli, ma si tratta di responsabilità civile: i risultati, se il referendum sarà ammesso dalla Consulta e votato dagli italiani, saranno per un verso l’equivalente di quel che in campo sanitario è la c.d. medicina difensiva, per altro verso l’incremento dei premi dell’assicurazione r.c. che ogni magistrato rinnova annualmente. Avremo la “giustizia difensiva”, cioè la ricerca nel caso concreto non della decisione giusta, ma di quella che mette meglio al riparo da eventuali azioni civili dirette di danno. Il fronte referendario condivide il medesimo disinteresse del governo rispetto alla responsabilità disciplinare, la sola in grado di incidere sulla carriera di un togato, e quindi di indurre a minore sciatteria. Se mai un giorno qualcuno chiedesse conto disciplinarmente a quel pm e a quel gip, l’esito dipenderà dalla copertura correntizia di cui l’uno e l’altro si saranno muniti. Vi è un referendum che garantisce la disarticolazione delle correnti della magistratura associata, e riguarda le modalità di presentazione delle candidature per l’elezione dei componenti togati del Csm. A quesito approvato, non sarà più necessario accompagnare la candidatura con una lista di presentatori; resta misterioso come questo incida sul sistema correntizio: se un magistrato appartiene a una corrente, che cosa cambia se si candida con o senza firme a supporto? Alla fine c’è il referendum sulla separazione delle carriere fra pm e giudicanti, separazione che nessuno può ragionevolmente contrastare, a 32 anni di distanza dall’operatività del codice di procedura penale in virtù del quale il pm è una parte. Leggendo il relativo lunghissimo quesito, ci si accorge però che da un lato esso è inutile, perché abroga disposizioni da tempo non più operative, dall’altro - pur precludendo il passaggio da una funzione all’altra - lascia in piedi un unico concorso di magistratura, un unico Csm, un’unica scuola di formazione. Lascia cioè invariata la sottoposizione dei giudici, quanto a progressione, incarichi e disciplina, a organi composti anche da pubblici ministeri, e viceversa, con un incremento della confusione. Taluni dei promotori, che compongono l’attuale maggioranza e hanno propri ministri al governo, rispondono che i referendum sono uno sprone per le riforme, e che - a quesiti approvati - il Parlamento farà quanto necessario per completare l’opera. Ma se così è, non sarebbe meglio dare spazio subito al confronto parlamentare, invece che cercare soluzioni più semplici solo in apparenza? In altri termini, pensare di riformare la Giustizia con referendum di dubbia ammissibilità e dall’esito incoerente, e con emendamenti (quelli Cartabia al ddl Bonafede) che eludono gli snodi centrali della crisi, non dà l’idea di voler raggiungere la meta con una vettura dalle gomme bucate? Stefano Musolino: “Un compromesso al ribasso inutile per la lotta alle mafie” di Giuseppe Legato La Stampa, 31 luglio 2021 Il sostituto procuratore della Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria: “Il doppio binario per i reati gravi non serve. Il provvedimento rischia la bocciatura della Corte europea”. “Vuole sapere francamente come la penso? Siamo di fronte a un compromesso politico al ribasso nel tentativo di accontentare tutti. Ed è una grave occasione mancata per una riforma complessiva del sistema. Preciso fin da subito che il doppio binario per i reati più gravi (mafia, terrorismo, etc. ndr) non solo non basta, ma non è nemmeno utile”. Stefano Musolino, magistrato in forza alla direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, è da pochi giorni il nuovo segretario di Magistratura Democratica. Con una linearità quasi impietosa analizza i punti critici del testo della riforma della giustizia in discussione in Parlamento. Con una premessa: “Una riforma del processo penale è ineludibile, ma non era questo che ci aspettavamo”. Delusi dalla ministra Cartabia? “Diciamo che confidavamo nel fatto che la ministra Cartabia avesse una maggiore capacità di interlocuzione che gli veniva dalla sua qualità tecnico-professionale. Credevamo che con il suo background, noto a tutti, potesse avere l’autorevolezza di imporsi con maggiore decisione, portando in porto molte buone innovazioni contenute nella proposta della Commissione Lattanzi”. Dottor Musolino, perché non basta “salvare” i processi per mafia e terrorismo dalla tagliola della prescrizione? “Perché si tratta, per la maggior parte, di reati per cui celebriamo processi con imputati in custodia cautelare, con stringenti termini di fase che impongono, di per sé, l’accelerazione di quei processi”. Il doppio binario dunque non serve? “Non credo proprio ed inoltre, le valutazioni di gravità dei reati sono state già messe a dura prova dalla Corte Costituzionale, per altre fattispecie processuali. Nella situazione data, definire una categoria di reati più gravi di altri è un mero esercizio di stile, funzionale a garantirsi un compromesso minimo, senza risolvere i problemi della giustizia”. Quindi, per sintetizzare, i processi di mafia e terrorismo si sarebbero celebrati comunque anche senza le modifiche prospettate? “Esattamente”. Pare di cogliere che vi aspettaste più coraggio... “Credevamo fortemente che non si arrivasse a un compromesso, volto ad accontentare le parti politiche”. Su cosa si sarebbe dovuto intervenire allora? “I temi sono tanti. Ma la depenalizzazione, ad esempio, è uno dei perni su cui si segna una riforma autentica. Se invece di fronte alla verifica dell’impossibilità di gestire il carico penale attuale, su cui certo bisogna intervenire, si arriva a prevedere dei criteri di priorità, è una sconfitta. Al fondo vi è l’inefficienza del sistema sanzionatorio amministrativo che andrebbe riformato per consentire l’efficace trattazione di fattispecie meno gravi che ingolfano il processo penale. Si trovano così soluzioni provvisorie e precarie, senza una prospettiva di autentica innovazione”. Torniamo al doppio binario. Molti suoi colleghi sottolineano l’incombente ingiustizia per le parti offese dei processi per reati non contemplati. In soldoni: molte vittime di reati rischiano di non avere giustizia nel troncone penale. Cosa pensa? “È un tema ineludibile ed è una delle maggiori criticità dell’impianto di riforma proposto. Penso, ma solo per fare un esempio concreto, alla strage di Viareggio, ma domani alla tragedia della funivia del Mottarone”. Ilaria Cucchi ha detto che con questa riforma suo fratello Stefano non avrebbe avuto mai giustizia. È così? “E infatti il reato di tortura non è contemplato al momento nel doppio binario”. Quindi la signora Cucchi ha ragione? “Purtroppo sì. E vorrei dire che un’indagine su questa fattispecie di reato è molto complessa. Sono fatti difficili da accertare entrando in gioco la mancata tutela di un cittadino inerme nelle mani di uomini dello Stato. Più articolata è l’indagine, va da sé, più tempo necessita per addivenire all’accertamento della verità”. Può farci altri esempi di reati a rischio ghigliottina? “Per citarne due, ma sono diversi: le responsabilità per i morti sul lavoro, le bancarotte particolarmente gravi. Invece ci sono altri casi in cui la logica del doppio binario finisce per “salvare” fatti marginali “solo” perché aggravati dal metodo mafioso”. Altra osservazione corrente tra i suoi colleghi: lo strumento dell’improcedibilità rischia di incentivare impugnazioni dilatorie. È così? “Il rischio esiste eccome. Il miraggio di poter fruire della causa estintiva dell’azione penale, finisca con l’incentivare le impugnazioni meramente dilatorie con il risultato di frustrare l’efficacia degli altri meccanismi acceleratori e deflattivi introdotti da altre disposizioni del disegno di legge di riforma”. Cosa diranno da Strasburgo? “Se oggi ci condannano per la durata irragionevole dei processi, il rischio è che domani ci condannino per non essere stati in grado di concluderli”. Anche qui non si poteva seguire un’altra strada? “Meno controindicazioni presentavano le proposte formulate dalla Commissione Lattanzi che avevamo accolto con grande speranza e che aveva immaginato un sistema imperniato su meccanismi di incentivi e disincentivi rivolti a tutti gli attori processuali, potenzialmente capaci di assicurare un risultato (la durata ragionevole del processo), senza incentivare impugnazioni a pioggia (e sempre dilatorie) che - l’esperienza insegna - sono un fenomeno esistente”. Spangher: “Questa riforma è un compromesso al ribasso gestito da palazzo Chigi” di Valentina Stella Il Dubbio, 31 luglio 2021 Parla il professor Giorgio Spangher: “Questa riforma contempla che il giudice possa richiedere proroghe motivate in base alla complessità concreta del processo. Ma lasciare discrezionalità al giudice fa sorgere problemi sulle garanzie”. Per Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto processuale penale alla Sapienza di Roma, le questioni di diritto sono state sacrificate in nome del compromesso politico per portare a casa la riforma della giustizia targata più Draghi che Cartabia. Cosa pensa di questo accordo? Faccio innanzitutto notare che mentre il Csm era riunito in plenum per esprimere un parere richiesto dalla Ministra Cartabia, a Palazzo Chigi già stavano riscrivendo il testo della riforma. Poi ho letto nel comunicato sul Cdm: “Rispetto al testo approvato due volte all’unanimità dal governo si introducono alcune novità”. “Approvato” mi pare una sottolineatura ironica visto quello che poi è successo nei giorni successivi e il faticoso lavoro di mediazione che si è dovuto fare. Tornando alla sua domanda è chiaro che siamo dinanzi ad un compromesso. La Ministra avrebbe potuto fare molto meglio ma lei ha ridimensionato l’unica proposta culturalmente valida che era quella della Commissione Lattanzi. Da quel momento tutto si è complicato ed è iniziata la battaglia politica sull’improcedibilità. Nel frattempo sono emerse tutte le criticità culturali e scientifiche degli effetti dell’improcedibilità, che vedremo - ad essere ottimisti - alla fine del 2024. Tutto questo però è stato ignorato perché si è pensato a giocare solo con le bandierine che i partiti hanno messo sui vari reati affinché sfuggissero alla tagliola della prescrizione processuale. Infine sul risultato finale ha pesato il fatto che la partita si è spostata da via Arenula a Palazzo Chigi. Qualcuno dice che siamo vittime della solita fallacia realista, in base alla quale qualsiasi compromesso si raggiunga va sempre bene. Non siamo stanchi di questo? Assolutamente sì. Che il compromesso sia al ribasso lo si evince chiaramente dal fatto che ogni partito può rivendicare un pezzo di vittoria. Attenzione: sono spariti dal doppio binario inizialmente richiesto dal M5s i reati con la PA. All’inizio della trattativa sembrava invece essere il punto di snodo. Come vede è stato tutto un compromesso. Ma voglio aggiungere una cosa: ora abbiamo una serie di fasce per la celebrazione dei processi prima che scatti l’improcedibilità a seconda dell’imputazione che darà il pm. Ma oltre a questi doppi, tripli binari rimane in piedi tutto il problema dogmatico degli effetti del nuovo istituto: l’improcedibilità non decide, e cosa significa davvero lo scopriremo solo con la prima sentenza. Non dobbiamo scordarci che stiamo parlando del Diritto e dei suoi effetti sugli imputati e le persone offese. Ieri è stata depositata una sentenza della Consulta per cui se scatta la prescrizione in appello il giudice stesso può decidere sugli effetti civili. Con la nuova riforma si passa la palla al giudice civile. Ma sembra che tutte queste questioni giuridiche, messe in evidenze anche dal Csm, dall’Anm e dall’Accademia, non siano di interesse. L’Europa ci chiede una giustizia più snella e veloce. A leggere la bozza dell’accordo invece sembra tutto più complicato... Pensiamo di aver risolto il problema con la trattativa a Palazzo Chigi ma non è così, perché poi dovremo dar conto anche all’Europa degli effetti della riforma. Gli anni dell’appello dovevano essere 2 e poi in alcuni casi sono diventati 3, in altri 5 e poi 6. E in altri casi ancora abbiamo il fine processo mai. Il nostro sistema prevede già diversi binari, un vero groviglio dal punto di vista procedurale. Ora questa riforma contempla che il giudice possa richiedere proroghe motivate in base alla complessità concreta del processo. Innanzitutto vorrei capire qual è la definizione di “complessità”. Io capisco che i processi non sono tutti uguali ma lasciare discrezionalità al giudice fa sorgere problemi sulle garanzie. Già abbiamo un eccesso di proroghe nella fase delle indagini preliminari, pensi se un giudice deve decidere per il proprio processo. Farà di tutto per cercare una motivazione. Insomma, non credo onestamente che questo sia il modo giusto per raggiungere l’ambizioso obiettivo di ridurre del 25% la durata dei giudizi penali, come richiesto dall’Europa. Più tutele per gli indagati: se assolti o prosciolti previsto l’oblio sul web di Francesco Grignetti La Stampa, 31 luglio 2021 Costa (Azione): “Norma di civiltà”. Il meccanismo non sarà automatico. La sindaca di Roma Virginia Raggi è stata assolta in via definitiva per la vicenda delle nomine in Campidoglio: potrà chiedere de-indicizzazione dei pezzi giudiziari? Sono passati appena cinque anni da una Direttiva europea che sanciva i nuovi diritti alla Privacy, e tra questi il “diritto all’oblio”, ovvero come sfuggire ai motori di ricerca che su Internet macinano milioni di articoli e trovano in pochi secondi ogni tipo di riferimento collegabile a un nome. Ecco, nella riforma del processo penale, su proposta di Enrico Costa, deputato di Azione, accettata dal governo e dalla maggioranza, si estende il diritto all’oblio a tutti quelli che sono stati indagati o sottoposti a processo e poi assolti. La sentenza di assoluzione varrà come titolo per ottenere la de-indicizzazione dai motori di ricerca. Come, lo stabilirà un successivo provvedimento ministeriale. Ma il principio si avvia a diventare legge. Costa esulta: “È una norma di civiltà, in base alla quale una persona assolta o prosciolta non può essere marchiata a vita”. E aggiunge: “Se non ci fosse questo dilagare del processo mediatico, se non ci fossero continue conferenze stampa delle procure, se fosse rispettata la presunzione d’innocenza, non ci sarebbe stato bisogno di questo emendamento. Oggi invece la Rete infanga spesso le persone e restano sacche di resistenza ai rimedi”. La Direttiva europea ha stabilito che questo diritto all’oblio esiste. C’è un comitato apposito di Google, che è il referente principale per questo tipo di problematica, addetto a esaminare le istanze degli utenti. Qualora la prima richiesta venga rigettata, si può poi fare ricorso al Garante nazionale per la Privacy. In Italia accade spesso che persone si rivolgano al Garante, perché delusi da Google. Ma anche qui non c’è un automatismo, in quanto vanno bilanciati il diritto alla reputazione individuale, ma anche il diritto alla conoscenza e alla memoria. E se un ex terrorista, come è accaduto, pur processato e condannato, chiede dopo 30 anni dalla condanna di essere cancellato dai motori di ricerca, la risposta è stata negativa, in quanto prevaleva l’interesse pubblico. Lo stesso accadde qualche anno fa con Mario Chiesa, universalmente conosciuto come “il mariuolo” per la definizione che ne diede Bettino Craxi: voleva l’oblio, gli dissero di no. Nel caso delle assoluzioni, ovviamente la situazione è diversa. Però non ci saranno automatismi neppure in questo caso. Può sempre esserci un interesse collettivo a non dimenticare una data vicenda. In ogni caso, la de-indicizzazione significa che gli articoli che riguardano una data persona non vengono mai cancellati dall’archivio del giornale che li ha pubblicati, ma che diventa impossibile risalirvi attraverso l’interrogazione di un motore di ricerca. “Imputati che sono stati assolti hanno diritto a vedere in qualche modo reintegrata la loro reputazione”, dice Costa. Secondo il deputato, la norma si applicherà più che ai grandi nomi della politica, ai tanti individui che finiscono stritolati dalle pagine di cronaca locale. “Persone qualsiasi, che, al primo colloquio di lavoro, trovano magari sul tavolo la stampa di qualche articolo che li ha citati. Parliamo di persone prosciolte o assolte. Nel frattempo hanno dimenticato i loro guai giudiziari. Ma da Internet quelle vecchie storie da cui sono usciti puliti, tornano fuori”. Da domani, non più. Quella norma-manifesto che sa di vendetta 30 anni dopo tangentopoli di Massimo Villone Il Manifesto, 31 luglio 2021 C’è ancora un residuo spazio di riflessione per cancellare la norma incostituzionale che mette il Pm sotto tutela di chi detiene il potere politico pro-tempore. Il New York Times del 29 luglio celebra l’accordo sulla riforma della giustizia con un articolo dal titolo emblematico: “Italy’s Mr. Fix-It Tries to Fix the Country’s Troubled Justice System - and Its Politics, Too”. Che possiamo tradurre come “Il signor Aggiustatutto d’Italia tenta di aggiustare il disastrato sistema giudiziario del paese, ed anche la politica”. Per quel giornale è la riforma di Draghi, che mette in gioco la sua funzione di premier. La lettura è - nella sostanza - giusta, perché la riforma Cartabia diventa ogni giorno di più la riforma Draghi. La ministra non avrebbe avuto la forza di scriverla, presentarla, sostenerla nella battaglia politica. Ma i problemi rimangono, quale che sia la firma sulle carte. Bisognerà aspettare testi definitivi. La camera dei deputati è convocata domani, 1° agosto, per l’esame dell’AC 2435 (proposta Bonafede). Secondo le ultime notizie, in commissione i relatori hanno presentato un subemendamento agli emendamenti del governo già depositati, riproduttivo dell’accordo di maggioranza. Quali sono gli scenari al momento probabili? Il governo porrà la fiducia sul testo approvato in commissione, se questa giungerà a votare. In caso contrario, in aula arriverà il testo originario Bonafede, e il governo porrà la fiducia su un maxi-emendamento onnicomprensivo di tutte le modifiche che si vogliono introdurre. Rimarrebbe in ogni caso aperta la via per ulteriori emendamenti in aula. Mentre è probabile che la fiducia sia posta comunque, per far cadere gli emendamenti delle (residue) opposizioni. Fino al voto dell’aula rimane uno spazio di riflessione. Il Consiglio superiore della magistratura ha censurato nel suo parere il nodo prescrizione-improcedibilità, ma anche l’indicazione parlamentare ex lege al Pm di priorità per l’azione penale. Si sussurra anche di dubbi da parte del Quirinale. È una palese incostituzionalità, che potrebbe domani spostare l’asse del potere punitivo dello Stato avvicinandolo pericolosamente alle mani di chi detiene il potere pro tempore. Va sottolineato che nella formulazione fin qui nota non si tratta della mera approvazione di una relazione del ministro al parlamento, ma di un atto che entra nella gerarchia delle fonti con il rango legislativo. È difficile pensare che non vi siano conseguenze. Qui bisogna intendersi: il riferimento alla legge sarà contenuto o no nella formulazione definitiva? Apprendiamo dalla stampa che nella convulsa e confusa trattativa la soppressione degli indirizzi parlamentari era chiesta da M5S. È stato opposto un diniego, vogliamo supporre da Draghi, perché preferiamo non imputarlo alla Cartabia, costituzionalista ed ex corte costituzionale. In ogni caso, ci chiediamo perché, visto che la norma sarebbe superflua o inutile (solo relazione), o con certezza incostituzionale (approvazione con legge). Norma manifesto, o eversione? E che fa il Pd, incapace come spesso accade di una parola identitaria? Non vorremmo che l’ultima rappresentazione fosse quella di una vendetta della politica sulla magistratura per Tangentopoli, trent’anni dopo. Siamo ottimisti. Ci aspettiamo che gli indirizzi parlamentari al Pm scompaiano. Auspichiamo poi un affinamento sull’ufficio del processo. Affidarlo a giovani inesperti, da formare e per di più precari assunti a tempo determinato, ci dice che nel tempo dato faranno qualche ricerca di giurisprudenza e poco altro. Dubitiamo assai che ci diano la palingenesi. Meglio rafforzare l’investimento sul radicale ampliamento degli organici dei magistrati e del personale di supporto, sull’aggiornamento tecnologico e nella digitalizzazione, sul miglioramento della qualificazione e della capacità investigativa della polizia giudiziaria. Nessuno nega l’importanza per il paese di una giustizia più rapida, efficiente, efficace, ma ci sono vie giuste e vie sbagliate, ed anche i dettagli contano. Oltre ai dubbi sulla improcedibilità e sulla tagliola del 1° gennaio 2020, un esempio. Oggi è consentita la rinuncia alla prescrizione, strumento a difesa dell’onore dell’imputato che si ritiene innocente. L’opinione pubblica vede, e valuta. Domani il giudizio sarà congelato dalla improcedibilità. L’opzione oggi disponibile per l’imputato sembrerebbe preclusa. È possibile ripristinarla? Diversamente, ci sentiremmo dire dal cattivo di turno, in specie se personaggio eminente come un Berlusconi, “avrei tanto voluto giungere a sentenza, ma purtroppo la legge me lo ha impedito”. Bisogna orientare al meglio l’emendamento - o emendamenti - del governo, contrastando l’ennesima emarginazione del parlamento. L’esito misurerà la cifra degli occupanti di Palazzo Chigi, più e meglio del New York Times. E se andasse male, il caro estinto - per dirla con Renzi - non sarebbe la riforma Bonafede, ma la speranza di una giustizia giusta. Cnf, si dimettono il presidente Mascherin e i consiglieri Picchioni, Orlando e Savi di Errico Novi Il Dubbio, 31 luglio 2021 Ieri sera fa le lettere inviate alla massima istituzione dell’avvocatura da quattro degli otto componenti interessati alla controversia sul divieto di triplo mandato, passata per la recente sentenza sull’ineleggibilità della Corte d’appello. Di grande intensità il messaggio del presidente dimissionario, che parla di “viaggio bello ed emozionante”. Lo scorso 22 luglio, all’immediata vigilia del congresso nazionale forense, la Corte d’appello di Roma aveva confermato la sentenza di ineleggibilità per il presidente Andrea Mascherin e altri 7 componenti del Cnf. Poco fa lo stesso Mascherin e tre dei consiglieri interessati con lui dalla controversa vicenda hanno rassegnato le dimissioni dalle rispettive cariche ricoperte nella massima istituzione dell’avvocatura. Un passaggio che incide in modo visibile la questione, insorta attorno al divieto di triplo mandato consecutivo che i giudici di secondo grado hanno ritenuto di riconoscere, con la loro pronuncia (la numero 5478 del 2021), per il Consiglio nazionale forense. Nella sua lettera Mascherin ringrazia “gli attuali e tutti gli altri componenti del Consiglio che nei tanti anni si sono susseguiti nel condividere un percorso comune, per alcuni aspetti ambizioso e coraggioso, avente come traguardo il riconoscimento della alta funzione degli Avvocati all’interno della Società e della Giurisdizione”. Chiaro riferimento innanzitutto alla battaglia per l’Avvocato in Costituzione che Mascherin ha condotto con grande forza. E ancora, il presidente dimissionario ringrazia anche “Cassa Forense, le Articolazioni ordinistiche, i Consigli di disciplina le Rappresentanze politiche, i Comitati, il mondo dell’Associazionismo e tutti coloro, e sono tanti, che a vario titolo, nelle commissioni e gruppi di lavoro, hanno messo a disposizione del Consiglio Nazionale Forense il loro entusiasmo e il loro convinto impegno”. Nel concludere, ricorda che per lui il “viaggio è stato bello ed emozionante”. Intenso anche il tono della lettera firmata dal consigliere dimissionario Carlo Orlando, che nel rivolgersi innanzitutto alla presidente facente funzioni Maria Masi, spiega: “Non credo di dover rassegnare le dimissioni (che comunque rassegno) da un incarico che evidentemente non ricopro alla luce di un percorso giudiziario contaminato e segnato, anche nelle scansioni temporali, da una cabina di regia avversa”. Seguono, come per Mascherin, lunghi ringraziamenti rivolti anche al personale del Cnf, quindi Orlando assicura: “Non dimenticherò nulla di questi anni al Consiglio, le cui emozioni (positive e negative) custodirò gelosamente. Ho scritto con passione e impegno ogni pagina di questo libro che ora ho terminato. Sono orgoglioso di aver servito in questi anni il Cnf di cui resterò un gran tifoso”, conclude il consigliere dimissionario. Brevi i messaggi con cui lasciano l’incarico il vicepresidente e il consigliere dimissionari Giuseppe Picchioni e Stefano Savi. Picchioni comunque non manca di riferirsi alla sentenza della Corte d’appello che, scrive, “ancorché, e non solo per la parte motiva, mi rafforzi nel convincimento della fondatezza delle nostre tesi, mi impone di tener conto dei suoi riflessi sul piano istituzionale. E ciò al di là delle personali convinzioni sull’esito processuale della vicenda, peraltro non definitivo, e delle sue implicazioni”, conclude Picchioni. Sulla strage di Bologna non facciamoci distrarre di Benedetta Tobagi La Repubblica, 31 luglio 2021 Sono 41 anni che, tra false piste e notizie manipolate, sollevano un gran polverone per annebbiare la percezione del contesto di potere che si mosse intorno al massacro del 2 agosto 1980. Il nuovo processo per la strage di Bologna sta svelando al pubblico una sorta di “ritratto di Dorian Gray” della Repubblica, a lungo confinato in soffitta, in cui si scorgono i tratti deformati e corrotti di una storia finora solo parzialmente svelata, in particolare i meccanismi e le dinamiche del potere occulto e gli intrecci tra storia politica e criminale del Paese. Perché Bologna vuol dire terrorismo nero e anche P2. In aula non c’è solo Bellini, neofascista e killer di ‘ndrangheta, oggi imputato principale per concorso in strage. Gelli, già condannato per i depistaggi consumati tramite i servizi segreti, è oggi sotto scrutinio come mandante e finanziatore della strage. Lo scoperchiamento della P2 nel 1981 non ha segnato la fine dell’influenza pervasiva di quel sistema di potere, occulto e ramificato. A prescindere dai profili penali, davanti alla Corte d’Assise bolognese riemerge un clima di ricatti, reticenze, leggerezze e favoritismi caratteristico dell’anatomia del potere italiano. Il tutto a partire dal “documento Bologna”, un appunto di Gelli con bonifici effettuati prima e dopo il 2 agosto 80, rintracciato in forma integrale agli atti del processo per il crac dell’Ambrosiano solo in anni recenti. Da mesi la Corte rincorre invano il factotum finanziario di Gelli, Marco Ceruti, per interrogarlo su questi bonifici: forse l’hanno individuato in Brasile. Seguendo il denaro, la procura ha riscoperto il “mediatore d’affari” Giorgio Di Nunzio, che incassava bonifici di Gelli in Svizzera riportando i denari in Italia. In aula, il figlio Roberto descrive il “contesto di potere” in cui si muoveva il padre, l’auto blindata con la scorta, sebbene non avesse incarichi istituzionali, le frequentazioni con politici e militari, boss della Magliana e cardinali, il potente Federico Umberto D’Amato e il senatore missino affiliato P2 Mario Tedeschi, questi ultimi, secondo l’accusa, pagati da Gelli per collaborare al depistaggio della strage. Muore nell’81 e, in camera ardente, rammenta il figlio, si parla di far sparire i documenti del suo ufficio privato. Il “documento Bologna” fa parte degli appunti sequestrati a Gelli nel 1982, al momento dell’arresto a Ginevra. Scottano al punto che nell’ottobre 1987 (poco dopo che Gelli, evaso dalle carceri svizzere, si è costituito) il suo difensore, Fabio Dean, incontra Umberto Pierantoni, direttore dell’ex Ufficio Affari riservati del Viminale. Gelli, dice il legale potrebbe “avallare o meno, sulla base del come gli verranno poste le domande stesse”. Chiede il coinvolgimento del ministro dell’Interno e minaccia: se lo costringono “a tirare fuori gli artigli, allora [...] li tirerà fuori tutti”. Con un appunto riservatissimo, gestito al di fuori del circuito archivistico ufficiale, il capo della polizia Parisi comunicava tutto al ministro Fanfani. Quanti imputati beneficiano di un simile trattamento? Prima che una “manina” facesse sparire l’intestazione “Bologna” dalla famigerata nota (riducendola alla forma mutila trasmessa agli atti della prima inchiesta sulla strage), quell’intestazione, insieme al resto del documento, era riprodotta, ben chiara, in un lungo rapporto investigativo della Guardia di Finanza, consegnato ai giudici istruttori che indagavano sul crac dell’Ambrosiano (illustrato con tanto di slide al nuovo processo). Non era chiaro cosa volesse dire “Bologna”, precisava il rapporto. Eppure l’allora giudice Bricchetti (oggi presidente di sezione in Cassazione) e il collega Pizzi (defunto), interrogando Gelli nel maggio 1988, non glielo chiedono. Bricchetti, in aula, si rammenta di Gelli “nella nostra stanza” (presumibilmente nell’ufficio istruzione): “Ci fu un primo interrogatorio in cui secondo me [...] venne a sondare il terreno con il suo avvocato a capire che tipo di domande potessero essere fatte”. Le molte testimonianze sul defunto prefetto D’Amato, poi, confermano l’esistenza di gerarchie di potere che prescindevano dagli incarichi ufficiali, un potere che si nutre di ricatti. Sono 41 anni che, tra false piste e notizie manipolate, sollevano un gran polverone per annebbiare la percezione del contesto di potere che si mosse intorno al massacro del 2 agosto ‘80. Non facciamoci più distrarre. Sicilia. Silvestro: “I detenuti al 41 bis sono trattati in maniera disumana” di Nuccio Anselmo Gazzetta del Sud, 31 luglio 2021 “I detenuti ristretti in regime di “41 bis” sono trattati in maniera disumana, male interpretando le restrizioni per la pandemia, in molti casi non sono garantiti i loro diritti civili”. È durissimo l’affondo del noto penalista messinese Salvatore Silvestro, che interviene come responsabile del settore Giustizia di Forza Italia per la Sicilia, dopo aver inviato una serie di esposti ai vertici del Dap e a vari organismi giudiziari. “Mi perdonerete se cito quattro casi concreti che ho trattato insieme ad altri colleghi come difensore - prosegue il legale -, ma ritengo che siano un esempio calzante di un fenomeno che ormai, purtroppo, è generalizzato all’intero Paese”. Ed ecco i casi concreti ricostruiti dal penalista: 1. a Parma “mi viene comunicato il ricovero d’urgenza del detenuto, ma a fronte della richiesta sulle ragioni del ricovero e delle patologie, la direzione subordina l’evasione della richiesta all’inoltro di apposita procura speciale sottoscritta dal detenuto con allegata copia della sua carta di identità. Ho denunziato il fatto al ministero della Giustizia e alla competente autorità giudiziaria, ma ad oggi non ho avuto nessun riscontro”; 2. a Parma “dopo l’assoluzione dall’imputazione dal reato di partecipazione al gruppo mafioso “clan Mangialupi” dell’assistito, ho avanzato istanza di revoca anticipata. Dopo avere appreso dal detenuto del rigetto dell’istanza e della mancata consegna dell’atto, ho avanzato richiesta di rilascio copia. Secondo la direzione trattasi di provvedimento la cui motivazione non è ostensibile né al detenuto, né al suo difensore”; 3. a L’Aquila “il soggetto è detenuto perché imputato in appello a Reggio Calabria. Dopo l’ennesimo evento infartuale, ricovero ed intervento non comunicato né al sottoscritto, né ai congiunti, chiedo ed ottengo dalla Corte di appello di Reggio Calabria l’autorizzazione affinché un medico faccia ingresso nella struttura. La direzione non ha permesso l’ingresso del consulente di parte. La corte reggina ha ribadito l’autorizzazione all’ingresso in carcere a condizione che la visita venga video-registrata ed eseguita in presenza di un agente penitenziario per evitare... l’eventuale ricezione o trasmissione di “messaggi”; 4. a L’Aquila “per un imputato del procedimento “Nebrodi” il tribunale di Patti autorizza la moglie, detenuta agli arresti domiciliari per lo stesso titolo, ad effettuare il colloquio mensile telefonico dai carabinieri di Tortorici. La direzione della casa circondariale non ha mai dato esecuzione all’ordinanza, anzi l’ha interpretata restrittivamente impedendo al detenuto di effettuare colloqui con soggetti diversi dai congiunti conviventi”. Prosegue l’avvocato Silvestro: “Numerosi e frequenti sono poi i casi in cui le varie direzioni non eseguono le ordinanze con le quali i magistrati di Sorveglianza competenti per territorio disapplicano le circolari emesse dal Dap o dai vari direttori. Ciò che si lamenta è il mancato rispetto dei diritti fondamentali della persona, che sempre più spesso si concretizza attraverso la palese violazione dei precetti normativi che regolano la materia e le guarentigie difensive. Il tutto evidentemente alimentato dall’atavico sospetto che accompagna l’esercizio della professione forense di cui le procure e i magistrati che dirigono il Dap, pur dinanzi agli scandali che li hanno interessati e li continuano ad interessare, non riescono a liberarsi”. Campania. Un detenuto su tre è in carcere per droga di Viviana Lanza Il Riformista, 31 luglio 2021 Un detenuto su quattro è tossicodipendente e uno su tre si trova in carcere per reati di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti, mentre oltre il 60% della popolazione detenuta assume psicofarmaci, in particolare benzodiazepine e ansiolitici. Sono i dati di Antigone Campania diffusi a margine della presentazione del rapporto sui primi sei mesi del 2021 dell’associazione in prima linea per la difesa dei diritti dei detenuti. Antigone, in questa prima metà dell’anno, ha eseguito 67 visite nei penitenziari di 14 regioni italiane. In Campania, l’associazione ha visitato gli istituti di pena di Carinola, Eboli, Salerno, Sant’Angelo dei Lombardi, Arienzo e naturalmente Santa Maria Capua Vetere, il carcere finito di recente al centro di un’inchiesta penale e di un’indagine interna disposta dal Ministero per i pestaggi e le violenze avvenute il 6 aprile 2020 e ormai da anni afflitto da una grave carenza strutturale per la mancanza di una condotta idrica. Dopo anni di attesa, nei mesi scorsi i lavori sono stati sbloccati ma si è ancora lontani dal garantire acqua potabile e così ciascun detenuto del carcere sammaritano può avere a disposizione due bottiglie d’acqua da due litri al giorno. L’emergenza, dunque, non è soltanto la violenza. L’aumento dei detenuti con una diagnosi di tossicodipendenza è uno dei fattori di rischio su cui Antigone ha acceso i fari perché, per come sono concepite e strutturate gran parte delle strutture penitenziarie, diventa più difficile il percorso di recupero di detenuti tossicodipendenti mentre sarebbe preferibile che fossero i servizi territoriali a prendere in carico queste persone prevedendo per loro dei percorsi mirati. “Inoltre è in aumento, tra i detenuti, il consumo di psicofarmaci anche in assenza di una diagnosi o di una terapia medica”, fa sapere il presidente di Antigone Campania Luigi Romano. È il segnale di disagi e sofferenze che rendono le carceri delle bombe pronte a esplodere. Spesso si assiste a rimpalli di responsabilità per le criticità legate alla gestione di detenuti che hanno comportamenti che necessitano di particolari cautele. La legge prevede delle misure da adottare ma “l’esplosione dei regimi, che si auspica possano essere regolamentati e stabilizzati - osserva il presidente Romano, facendo riferimento in particolare all’articolo 32 del decreto 230 del 2000 relativo all’assegnazione e al raggruppamento dei detenuti per motivi cautelari - ha trasformato di fatto le celle di isolamento in luoghi di contenzione dei casi più difficili, anche quelli psichiatrici, svuotandosi della funzione originaria”. Dall’inizio dell’anno si sono contati in Campania tre detenuti morti suicidi in cella e non si contano, invece, i gesti di autolesionismo. Vivere in celle sovraffollate, dove bisognerebbe stare in quattro e ci si ritrova invece in sei o anche in otto, non è semplice. La vivibilità è difficile anche se si pensa che ci sono celle con schermature alle finestre che impediscono il passaggio di aria e luce naturale. E, con il caldo di questi mesi, è ovvio che la vita in questi luoghi diventi infernale. Dal 31 dicembre 2020, la Campania è tra le sette regioni in cui la popolazione detenuta risulta aumentata e detiene anche il triste primato dei bambini reclusi: dodici sono i bambini che si trovano con le loro mamme all’Icam di Lauro. Resta enorme la sproporzione tra numeri di detenuti reclusi e unità di personale, tra educatori, psicologi e mediatori, assunti per garantire percorsi di rieducazione. Antigone propone un intervento urgente, oltre che di riforma dell’ordinamento penitenziario, anche sul piano delle assunzioni di personale civile facendo notare che la detenzione costa allo Stato tre miliardi, di cui il 68% è impiegato per la polizia penitenziaria, e che il rapporto medio negli istituti visitati è di un poliziotto penitenziario ogni 1,6 detenuti e di un educatore ogni 91,8 detenuti. Roma. Detenuto si uccide a Rebibbia nel giorno del suo compleanno La Repubblica, 31 luglio 2021 Si è ucciso in carcere il giorno del suo compleanno. La vittima soffriva di problemi psichiatrici. La tragedia è avvenuta a Rebibbia. A denunciare il caso è il Sindacato di polizia penitenziaria. “Un detenuto italiano di 52 anni con problemi psichiatrici si è suicidato dopo essersi coperto la testa con una busta e aver inalato del gas, proprio nel giorno del suo compleanno. Altro che 72, come sostiene la ministra Cartabia: i detenuti con problemi mentali sono molto più numerosi”. A lanciare l’allarme è Aldo Di Giacomo, segretario generale del Sindacato di polizia penitenziaria che ricorda che da inizio anno nelle carceri “ci sono stati 18 suicidi, 4 di stranieri, 16 di italiani, il più giovane aveva 24 anni e il più anziano 56 (nel 2020 i suicidi sono stati 62, uno ogni 10mila detenuti, il tasso più alto degli ultimi anni)”. Per Di Giacomo “i detenuti con problemi psichiatrici certificati sono circa 1.300, di cui 630 circa ospitati nelle 30 residenze per le misure di sicurezza (Rems) disponibili, e oltre 700 in attesa di entrarvi”. Crotone. Donazione di ventilatori e borse termiche per i detenuti crotoneinforma.it, 31 luglio 2021 Accolto l’appello del Garante comunale Federico Ferraro. Nella mattinata di mercoledì 27 luglio sono stati consegnati dalla dott.ssa Rosa Ciccone 150 mini-ventilatori a batteria e 10 borse termiche ai detenuti della Casa Circondariale di Crotone. Gli strumenti sono stati immediatamente consegnati nelle celle ai singoli detenuti di Crotone. Presenti alla consegna oltra la garante comunale dei detenuti Federico Ferraro anche la direttrice della Casa Circondariale Caterina Arrotta, una delegazione di detenuti e del personale del DAP, nonché degli agenti di Polizia Penitenziaria. La dott.ssa Ciccone, originaria di Avellino, raccogliendo l’invito del garante dei detenuti avv.to Federico Ferraro, con grande sensibilità ha compiuto un gesto di grande solidarietà e di attenzione verso il prossimo. Un pubblico plauso è stato rivolto alla dottoressa dal garante comunale dei detenuti, soddisfatto per la grande solidarietà rivolta verso la popolazione carceraria, e anche dall’Assessore alle Politiche Sociali Filly Pollinzi che ha espresso la gratitudine a nome del sindaco e della comunità cittadina. Nella Sala Giunta si è svolta la consegna del gagliardetto del Comune da parte dell’Assessore Pollinzi mentre da parte dell’avv.to Ferraro è stata consegnata in dono una riproduzione delle pinakes votive della Magna Graecia raffigurante Persefone, dea del rinnovamento della vita, come auspicio buonaugurale dopo il Covid. L’appello del garante comunale è stato accolto anche dal Comitato crotonese della Croce Rossa Italiana, nella persona del Presidente Sergio Monteleone per la consegna di 10 borse termiche e 20 ghiacciolini, per interessamento del sig. Aurelio Capogreco. Questi gesti di solidarietà fanno capire che la libertà deve essere pagata con la pena della reclusione e mai con la dignità dell’essere umano. L’ estate torrida di quest’anno ha reso ancora più difficile la privazione della libertà personale quotidiana e si è pensato di assicurare ai detenuti, attraverso la dotazione di strumenti di refrigerio una condizione più umana. La donazione delle mascherine anti-Covid in inverno e i ventilatori questa estate hanno certamente reso la pena meno afflittiva ed è stata assicurata la tutela della dignità umana, diritto irrinunciabile per ogni persona. Monza. La capanna solidale dei detenuti falegnami di Marco Galvani Il Giorno, 31 luglio 2021 Nel laboratorio del carcere di Monza è stato realizzato il bivacco che da oggi accoglierà pellegrini ed escursionisti al Passo della Cisa. Al Passo storico della Cisa, lungo la Via Francigena nel mezzo dei rilievi tosco-emiliani, c’è una capanna in legno. Ricorda un bivacco di montagna, ma è soprattutto un ‘rifugio’ dove i viaggiatori incontrano il territorio e i loro abitanti. Dove pellegrini, escursionisti e ciclisti possono vivere e alimentare il turismo lento e l’inclusione sociale. Anche per questo il progetto realizzato dal Politecnico di Milano e dal Club alpino italiano si chiama Twin (Trekking walking and cycling for inclusion). Gemello. Nel nome della solidarietà sociale. Perché a realizzare la capanna ci hanno pensato cinque detenuti del carcere di Monza impegnati nel laboratorio di falegnameria oltre le sbarre. Primo passo di un percorso di formazione per il reinserimento nella società, sostenuto dalla direttrice della casa circondariale Maria Pitaniello e dal responsabile dei servizi educativi Raffaele Carbosiero. I detenuti sono stati guidati da falegnami professionisti e volontari, già docenti all’istituto Meroni di Lissone. E anche il materiale utilizzato non è un legno qualsiasi. Sono i tronchi di Vaia, per sostenere le comunità alpine del Triveneto colpite dalla terribile tempesta dell’ottobre del 2018 che aveva abbattuto 16 milioni di abeti. Nella falegnameria di via Sanquirico si è proceduto a taglio, piallatura, messa in squadra dei longheroni e dei tavolati. Tutti i componenti lavorati sono stati portati in quota e assemblati. E questa mattina la capanna Twin aprirà e potrà accogliere i primi ospiti. La struttura è stata allestita con una camera con un letto matrimoniale e due letti singoli, un bagno dotato di lavandino, wc e doccia. Con la possibilità di ricavare ulteriori due posti letto sul tavolo che si trasforma in letto grazie ad appositi materassi. A gestirla saranno persone fragili coinvolte in un progetto di formazione coordinato dai servizi sociali del Comune di Berceto in collaborazione con la Cooperativa di comunità Berceto Nova. “Scegliendo di soggiornare in questo luogo - spiegano i promotori di Twin - si decide di abbracciare la solidarietà. Il messaggio che lanciamo al Paese è proprio quello di credere e investire in una ‘lentezza generativa’. Abbiamo bisogno delle migliori intenzioni istituzionali e amministrative per appoggiare sulla lentezza una proposta di sviluppo inedita e ad altissima resa sociale. Camminando e pedalando si fa del bene a se stessi, ma anche ai territori attraversati e ai loro abitanti”. “Sin dall’inizio il Sentiero Italia CAI ha avuto tra i suoi obiettivi l’aiuto concreto alle economie della montagna - le parole di Antonio Montani, vicepresidente generale del CAI e responsabile del Sentiero Italia CAI - aiuto che non può che passare attraverso progetti di coesione sociale come appunto Twin”. Varese. Primo raccolto nell’orto aromatico della casa circondariale di Carla Santandrea varesenews.it, 31 luglio 2021 Sarà Massimo Colombo, cuoco di Enaip, a realizzare il pranzo con i prodotti dell’orto voluto dalla direttrice della casa circondariale e gestito da alcuni detenuti. Da qualche mese presso la realtà della Casa Circondariale di Varese un gruppo di detenuti, accompagnati da alcuni operatori, si sta dedicando alla coltivazione di erbe aromatiche. Si tratta di un’iniziativa formativa voluta dalla direttrice dell’Istituto la dr.ssa Carla Santandrea e dal responsabile delle attività educative dr. Domenico Grieco. Il progetto ha preso forma grazie ad un contributo della Regione Lombardia con la collaborazione di Enaip e della Cooperativa Homo Faber. Martedì 3 agosto verrà realizzato il primo piccolo ma significativo raccolto, le produzioni verranno utilizzate per preparare un menù speciale da destinare a tutti i detenuti, in questo modo si vuole celebrare il lavoro di chi si è impegnato nell’attività agricola. Sarà Massimo Colombo, cuoco di Enaip, a guidare la brigata della cucina nell’allestimento del menù che prevede: pasta al pesto di salvia, fusi di pollo con capperi limone e origano, patate al rosmarino e panna cotta alla menta. È proprio il caso di dire che in carcere quando si vuole si riesce a trovare sempre qualcosa di buono! “Questa iniziativa - dichiara la direttrice Carla Santandrea - si aggiunge alle altre che abbiamo realizzato e realizzeremo per il periodo estivo. Le erbe aromatiche che verranno utilizzate nella preparazione del menù sono quelle raccolte nel giardino creato all’interno dell’istituto che viene curato quotidianamente da un gruppo di detenuti. Questo evento fa parte di una serie di precedenti iniziative sul cibo che hanno visto coinvolti i ristretti (si pensi al ricettario periodico Cucinare al fresco) e che sono sempre state accolte con grande entusiasmo. Sarà possibile così servire un pranzo particolare che verrà preparato sotto la guida di un esperto chef”. La nostra libertà non è assoluta: per avere senso ha bisogno degli altri di Nadia Urbinati Il Domani, 31 luglio 2021 La pandemia ha catapultato la democrazia costituzionale in una realtà inedita sotto molti punti di vista, medico-sanitari, giuridico-amministrativi ed etici. La riporta alle sue radici - la libertà e i diritti - come non accadeva dagli anni Quaranta e Cinquanta, quando su questi temi si accese una delle più ricche e importanti discussioni filosofiche e politiche del Ventesimo secolo. Allora, l’obiettivo polemico era il potere totalizzante di uno stato non democratico. Oggi, sono i limiti alla libertà nelle decisioni di democrazie costituzionali. Nelle strategie di contenimento e prevenzione del contagio adottate dai governi democratici, i critici leggono il segno della dimensione fatalmente arbitraria del potere statale, pronto a derubarci della libertà con il pretesto di proteggere la nostra vita. Il green pass è scomunicato come una politica di discriminazione verso chi non è vaccinato o non si vuole vaccinare - addirittura come la stella di David che i regimi nazi-fascisti imponevano agli ebrei di appuntarsi sul petto. Si tratta di una battaglia ideologica che immagina complotti e cospirazioni da parte di poteri occulti ai danni di cittadini vulnerabili usati come cavie. La narrativa del potere invisibile e totale è irresistibile perché dogmatica; ed è capace di unire al di là di destra e sinistra, di risvegliare il dormiente “potere costituente” contro il “potere costituito” nel nome della libertà (di non vaccinarsi e di non certificare la vaccinazione). Tornare alle radici, ai principi fondativi della nostra democrazia è quanto mai necessario e urgente. La Costituzione - La Costituzione documenta la complessità della libertà individuale quando la collega direttamente all’uguaglianza e impegna il legislatore a rimuovere gli ostacoli che non ne permettono l’uguale godimento. Gli “altri” - le persone che ci vivono accanto - sono l’orizzonte nel quale la Costituzione situa la libertà, che si accompagna necessariamente alla limitazione. Ciò non solo perché noi non possiamo volere tutto quel che desideriamo (non possiamo volare per esempio); non solo perché siamo “costretti” a decidere (la nostra natura non è programmata ad attivare comportamenti istintivi funzionali); non solo perché la nostra possibilità di fare scelte richiede un governo limitato (e governanti che rispettino le norme che lo limitano); ma anche perché ogni volta che scegliamo rinunciamo a qualcosa per qualcos’altro e facendo ciò incrociamo altre persone che come noi scelgono e magari scelgono le stesse cose, per cui ogni azione per essere libera concretamente presume un coordinamento, una regia - ovvero la legge. La democrazia costituzionale si è rivelata una buona regia; tiene conto di questa complessità di limiti normativi e fattuali; delinea un ordine istituzionale incentrato sulla divisione dei poteri e comanda il rispetto dei diritti fondamentali. Il vivere democratico ci ha abituati a identificare la libertà con i diritti. I diritti stabiliscono una limitazione giuridica che coincida il più possibile con quella che noi daremmo a noi stessi; istigano per tanto una diffidenza naturale verso il potere costituito. L’età dei diritti è a tutti gli effetti l’età della centralità della persona e delle libere contestazioni al potere; della critica all’autoritarismo e alle tecniche di sorveglianza affinate dal potere istituzionale, politico ed economico, con lo scopo di addomesticare le volontà e rendere le persone docili; della critica al formalismo dei diritti, indifferente alle condizioni socio-economiche e culturali nelle quali la libertà è (o non è) goduta. L’età dei diritti - Nel secondo dopoguerra, agende libertarie e agende socialdemocratiche hanno segnato buona parte dell’età dei diritti. L’esito è stato l’espansione dei diritti di libertà nel campo delle relazioni private e intime (interruzione volontaria del vincolo matrimoniale e della gravidanza); la sovversione di tradizioni ataviche (abolizione del delitto d’onore); la conquista dell’eguale opportunità di donne e uomini di accedere alle carriere nell’amministrazione pubblica; la traduzione del diritto alla salute in un sistema sanitario nazionale. Tutte queste battaglie sono state condotte nel nome della libertà. E tutte implicano limiti. Scriveva Norberto Bobbio che la storia delle libertà è una storia di lotte volte a conquistare i diritti, a partire da quelli che chiamiamo fondamentali e poi quelli che proteggono altri beni non meno importanti come condizioni dignitose di lavoro e di vita o protezione dell’ambiente. Tutti questi diritti vogliono obblighi. Sovente ce ne dimentichiamo. La politica e la pratica dei diritti è a un tempo di contestazione e di differenziazione. Ha anche la forza di distanziare le persone dai valori comunitari. Infine, le abitua a concepire la loro libertà in un rapporto di tensione, quando non di contrasto, con gli altri; a idealizzare la libertà come un bene esclusivamente individuale, idealmente in assenza degli altri e della società. La pandemia ha portato alla superficie questa concezione individualistica della libertà e ne ha messo in luce i problemi e i limiti. Fare quel che ci piace - Il green pass rientra in questa concezione. Coloro che identificano il gress pass con il despotismo securitario e la discriminazione nei confronti di coloro che sono contrari alla vaccinazione ci hanno come svegliato da un sonno dogmatico. Ci han fatto vedere quel che in condizione di ordinaria vita civile non vediamo: che la libertà non è mai una dichiarazione di assolutezza, anche quando proclamata nel nome di diritti fondamentali; che, infine, i diritti hanno un necessario contraltare di obblighi legali e di doveri morali. Riposano per la loro efficacia sulla nostra individuale responsabilità, per cui averli proclamati nei codici non è bastante a renderli forti ed efficaci. La pandemia ci fa comprendere quel che tendiamo a dimenticare: che chi sta fuori da ogni relazione umana non è né libero né non libero (non è giudicabile moralmente) e non ha quindi bisogno di diritti. La libertà vuole gli altri per essere e avere un senso. Per questo si esprime nelle forme che il diritto stabilisce e la legge detta. Scriveva John Stuart Mill che la libertà significa “fare quel che ci piace, essendo soggetti alle conseguenze che possono da ciò derivare, senza impedimento da parte degli altri fino a quando non arrechiamo loro danno”. Questa teoria trova la sua traduzione giuridica nella nostra Costituzione, la quale indica al legislatore il principio per decidere di limitare la nostra libertà di “fare quel che ci piace”. Questo principio, dice Mill, “è che l’umanità è giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà d’azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi: il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri”. Dice l’articolo 16 della nostra Costituzione: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza”. Dice l’articolo 32: “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Riandare ai principi ci aiuta a criticare atteggiamenti e idee a sostegno di una libertà assoluta e indifferente a quel che sta oltre il desiderio e il volere del singolo, secondo l’assunto che “fare quel che ci piace” sia un fare senza limiti. Ma la libertà assoluta è un ossimoro e il diritto che la protegge ne è la conferma. Il diritto si cura di dirci se e quando le nostre scelte sono dannose agli altri, e legittima lo stato a intervenire. Il green pass è questo intervento. Non discrimina, ma indica una condizione grazie alla quale possiamo scegliere di fare o non fare qualcosa. Il suo principio di riferimento è quello del danno che, secondo la Costituzione, ammette l’interferenza con le scelte individuali se queste sono comprovatamente dannose agli altri. I Paesi dove si muore per l’ambiente di Chiara Nardinocchi La Stampa, 31 luglio 2021 Colombia, Brasile e Perù tra i 17 Paesi dove si rischia di più la vita per le battaglie in difesa del Pianeta. Nel 2020 sono 225 le persone che sono state assassinate perché determinate a preservare la terra e i luoghi ancestrali delle loro popolazioni. Martiri dell’ambiente. Nella maggior parte dei casi sono contadini o capi di comunità indigene, ma anche attivisti, avvocati, sindacalisti. In tutto sono 225 le persone che nel 2020 sono state assassinate perché determinate a preservare la terra e i luoghi ancestrali delle loro popolazioni. Una cifra che segna un triste primato e che supera il numero di vittime del 2019 definito l’anno nero dei difensori dell’ambiente. La pandemia di Coronavirus ha esasperato le dinamiche che negli anni hanno contrapposto le popolazioni autoctone e i governi dei paesi che si basano sullo sfruttamento delle risorse ambientali. Stando ai dati dell’ong irlandese Front Line Defenders, sono 17 i Paesi dove sono stati uccisi degli ambientalisti. La maggior parte sono concentrati in America Centrale e Meridionale, ma c’è un unico stato che conta più della metà delle vittime globali: la Colombia. “Ogni giorno con le pistole puntate contro per difendere l’Amazzonia: è la nostra vita” - L’escalation di omicidi (raddoppiati rispetto al 2019 quando a morire erano stati 64) sembra inarrestabile ed è figlia degli accordi di pace del 2016 e della smobilitazione delle Farc. Nel Paese, infatti, si stanno affermando gruppi armati che colmano il vuoto lasciato dal governo, incapace di affermarsi e controllare aree estese di territorio. Inoltre, la pandemia e quindi l’impossibilità di spostarsi hanno reso ancora più vulnerabili gli attivisti a rischio ai quali spesso Bogotà ha negato una protezione. Il risultato è un’ecatombe. Ad essere eliminati sono stati soprattutto contadini e capi di comunità indigene che si sono battuti per arginare l’estrattivismo e l’inquinamento da questo derivato. Ma anche per rivendicare l’attuazione di uno dei capitoli del processo di pace ossia la conversione di terreni agricoli, ad oggi usati per le colture di coca e in mano ai narcotrafficanti, in coltivazioni necessarie per il fabbisogno delle comunità. Gli stessi gruppi armati hanno imposto periodi di quarantena e limitato la mobilità per controllare meglio le azioni di interi villaggi. L’associazione colombiana Programa Somos Defensores ha riportato un aumento del 61% delle uccisioni rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso: di questi omicidi il 48% è avvenuto durante un periodo di restrizioni. In risposta a questo bagno di sangue, il governo ha aumentato la presenza dei militari nei territori più critici. Una mossa che si è rivelata controproducente e che al contrario ha alimentato la spirale di violenza ai danni delle popolazioni e attivisti. Amazzonia, la lotta degli invisibili per la sopravvivenza contro petrolio e virus - Restando nell’area sudamericana, il Brasile e il Perù sono i Paesi che dopo la Colombia registrano il numero maggiore di omicidi. Nel primo caso, così come in altri paesi del continente, le aree amazzoniche sono state abbandonate a se stesse. Così, isolate e senza accesso alle vie di comunicazione, le nazionalità indigene hanno subìto numerosi decessi a causa del covid, anche tra gli attivisti. Non sorprende quindi che il numero di ambientalisti e leader di comunità uccisi violentemente in Brasile sia diminuito di molto rispetto al 2019. Al contrario il Perù ha visto aumentare vertiginosamente il numero di vittime. Sono 14, mentre nell’anno pre-pandemia il conteggio si era fermato ad un unico nome. Un’area altrettanto pericolosa per chi si batte per la terra e la sua protezione è l’America centrale. In Guatemala, Messico e Honduras sono morti più di trenta attivisti. L’Honduras è tornato a far parlare di sé di recente in seguito alla condanna di Roberto David Castillo, proprietario dell’impresa Desa, con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio di Berta Cáceres, ambientalista uccisa nel 2016 impegnata nella lotta contro la creazione della diga idroelettrica di Agua Zarca. L’opera avrebbe allagato le terre dei nativi privandoli della loro fonte di sostentamento. Honduras. In memoria di Berta Cáceres (foto: Orlando Sierra/Afp via Getty Images) Attraversando l’Oceano Pacifico si atterra nel secondo Paese al mondo più pericoloso per gli attivisti: le Filippine. Il governo di Duterte non solo non protegge, ma sta alimentando un clima da “caccia alle streghe” contro coloro che si schierano contro l’estrattivismo selvaggio nelle poche foreste vergini ancora rimaste e a favore della conservazione dei territori ancestrali delle popolazioni. L’arcipelago è una delle zone più colpite dai cambiamenti climatici al mondo, ma nonostante il pericolo, Manila non ha nessun piano per la protezione ambientale e la riduzione di emissioni. Chi prova ad alzare la voce viene etichettato come “comunista” o “terrorista”. Un’accusa non da poco soprattutto in seguito all’emanazione dell’Anti Terrorism Act, una legge dai contorni molto ambigui che lascia spazio a interpretazioni e che viene usata come spauracchio per chiudere la bocca a chi denuncia la distruzione dell’ecosistema. Ma ci sono anche Cina, India, Indonesia, Nepal, Sudafrica e Thailandia nella lista dei Paesi che nel 2020 hanno visto versare sangue di ambientalisti e capi indigeni. Una lista che si allunga di anno in anno anche a causa del silenzio di molti e dall’azione di governi che preferiscono zittire le voci del dissenso e tutelare un profitto sul breve periodo a discapito del Pianeta. Tunisia, una crisi grave e le nostre responsabilità di Andrea Cozzolino* Il Manifesto, 31 luglio 2021 Tale crisi, alimentata dall’instabilità del sistema politico, dal deterioramento della situazione economica e dal covid, nasconde tutte le profonde fratture presenti nella società tunisina dagli albori della primavera araba e rese più laceranti dai differenti interessi stranieri nel Paese. Quando non ci sono nuvole, verso l’ora del tramonto, da Kelibia, città costiera del nord della Tunisia, è possibile vedere il profilo di Pantelleria e dunque l’Italia. Questo, ci dice molto di quanto la Tunisia sia importante per il nostro Paese, nella sua funzione geografica di porta d’accesso all’Africa, nella sua funzione geopolitica per la pace nel Mediterraneo e nella sua funzione culturale di chiave di lettura del mondo arabo e delle pulsioni che lo animano. Ciò che succede in Tunisia, dunque, ci riguarda per questo, non solo per i temi legati alla sicurezza e alla presunta crescita dei flussi migratori. Domenica scorsa il Presidente della Repubblica tunisina Kais Saied ha assunto la responsabilità del potere esecutivo e sospeso le attività del Parlamento in base dell’art. 80 della Costituzione. Tale crisi, alimentata dall’instabilità del sistema politico, dal deterioramento della situazione economica e dal covid, nasconde tutte le profonde fratture presenti nella società tunisina dagli albori della primavera araba e rese più laceranti dai differenti interessi stranieri nel Paese. Alcune forze politiche hanno parlato di golpe e la situazione politica è al momento incerta. Tuttavia, continuo a confidare che il Presidente Saied, già docente di diritto costituzionale ed esperto per la Lega Araba e per l’Istituto arabo per i diritti umani, dopo le tensioni di questi giorni, eserciti le sue funzioni nel rispetto dello Stato di diritto e delle garanzie democratiche. Del resto, l’obiettivo politico dello scontro istituzionale aperto dal Presidente tunisino, il Partito Ennahda, forza islamista moderata che ha la maggioranza relativa in Parlamento, ha rinunciato ad invocare la piazza e ha aperto al dialogo. Tuttavia, la situazione resta tesa. Con la sospensione dell’immunità parlamentare decisa dal Presidente della Repubblica, che si è detto desideroso di sradicare la corruzione che affligge la politica tunisina, si stanno moltiplicando le accuse di “finanziamenti illeciti dall’estero” verso esponenti di Ennadha e dei suoi alleati laici di Qalb Tounes. Una vera “tangentopoli tunisina”, già alla base delle proteste di piazza degli ultimi 15 giorni. Proteste alimentate anche dalla diffusa sfiducia sulla gestione dell’emergenza covid: 18 mila vittime in un Paese di 11 milioni di abitanti. Un binomio pericoloso, dunque, fra Covid e corruzione, che ha incendiato la società tunisina e che spiega i caroselli della popolazione domenica notte in tutte le città del Paese, anche le “roccaforti” di Ennadha, con manifestazioni popolari spontanee esplose per festeggiare la chiusura del Parlamento da parte di Saied. Questo sentimento popolare non può essere minimizzato, ma va ascoltato e ricondotto nella normale vita democratica del Paese. Saied deve farsene interprete nominando in tempi rapidi un capo del Governo nel rispetto della Costituzione tunisina, ma dovrà anche garantire processi giusti e l’indipendenza della magistratura che giudicherà gli esponenti politici accusati di illeciti, tutto nel piano rispetto del ruolo e delle funzioni del Parlamento che dopo la sospensione di 30 giorni deve tornare a poter efficacemente rappresentare i cittadini. Il Capo dello Stato sarà giudicato dalla comunità internazionale su questo, e toccherà a lui decidere se farsi autocrate o vera guida per la giovane democrazia tunisina. In tale scenario, il nostro ruolo è promuovere, come Italia e come Ue, nel pieno rispetto della sovranità tunisina, una nuova fase di dialogo. Dobbiamo farci promotori di un confronto tra il presidente Saied, le parti politiche e le forze sociali e civili, come i sindacati, le associazioni studentesche e gli altri corpi intermedi, e nel frattempo dobbiamo adoperarci per garantire un aiuto concreto in termini economici e di profilassi sanitaria per consentire al popolo tunisino di vaccinarsi in massa. Due sono le strade da seguire. Sull’esempio di Next generation Eu, si elabori, utilizzando i 110 miliardi del capitolo “neighbourhood and the world” del quadro finanziario pluriennale UE 2021-2027, un PNRR per il Nord Africa. In contemporanea si sviluppi anche un piano immediato di aiuti sanitari per vaccinare tutti i popoli della sponda Sud che vada oltre il Covax. L’Italia e l’Unione europea non lascino il Maghreb abbandonato alla morsa del Covid-19 e della povertà. *Presidente della delegazione per le relazioni con i paesi del Maghreb, eurodeputato del Pd Malta. Le colpe del governo per la morte di Caruana Galizia di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 31 luglio 2021 Sebbene non ci sia evidenza di un coinvolgimento delle istituzioni nell’omicidio della giornalista un’inchiesta di tre giudici sottolinea che non sono stati considerati i rischi reali alla sua incolumità. Impunità, protezione di uomini vicini al potere e negligenza: sono i tre fattori che hanno svolto un ruolo cruciale nell’assassinio della giornalista maltese Daphne Caruana Galizia. È quanto emerge da un’inchiesta di 437 pagine pubblicata giovedì e a cui hanno lavorato tre giudici maltesi: Michael Mallia, Joseph Said Pullicino e Abigail Lofaro. Il contenuto del rapporto è chiaro: “Si è creata un’atmosfera di impunità, generata dalle più alte sfere dell’amministrazione all’interno della Castiglia, i cui tentacoli si sono poi estesi ad altre istituzioni, come la polizia e le autorità di regolamentazione, portando a un crollo dello stato di diritto”. Una constatazione che ha suscitato lo sdegno della popolazione e della società civile che dopo la pubblicazione del rapporto si è ritrovata davanti la sede del governo in segno di protesta. “Mafia state” e “Giustizia” sono le scritte più frequenti nei cartelli imbracciati dai maltesi. L’imbarazzo ha colpito in pieno il governo e il partito laburista che è al potere dal 2013. Nella mattinata di venerdì il primo ministro Robert Abela ha annunciato le sue scuse davanti al parlamento, affermando che da quando è entrato in carica a gennaio 2020 la situazione è migliorata notevolmente. “Sono il primo ministro di un paese che vuole andare avanti. Voglio dare alla gente una svolta positiva. Impareremo dai nostri errori, ma continueremo ad andare avanti” ha detto Abela. Sulla questione è intervenuto anche il presidente della Repubblica, George Vella, che ha chiesto al governo e al parlamento di adottare le raccomandazioni pubblicate dai giudici nello scottante documento. “Accettiamo le scuse - dice Paul - ma sono sicuro che debbano essere rivolte a tutto il paese, perché ha subito un grande trauma”. Un trauma che si manifesta concretamente nella via centrale di La Valletta dove è ancora vivo il memoriale in onore di sua madre, situato davanti il palazzo di giustizia. I passanti gli rendono omaggio accendendo delle candele o posando un mazzo di fiori sulla piccola scalinata, mentre c’è chi più volte ha tentato di vandalizzarlo in passato. L’impunità - Sebbene non c’è alcuna evidenza di un coinvolgimento diretto di membri delle istituzioni maltesi nell’omicidio della giornalista investigativa, i tre giudici sottolineano che il governo non ha considerato i rischi reali alla sua incolumità e non ha preso provvedimenti per proteggerla. Il risultato di questa inazione statale è che gli assassini che hanno piazzato la bomba nell’automobile di Daphne Caruana Galizia, esplosa sotto casa sua il 16 ottobre del 2017, hanno agito in un clima favorevole tantoché si sentivano protetti da uomini vicini al potere. “I rischi alla propria vita erano palesi a tutti tranne alle autorità nazionali” ha detto ieri Paul Caruana Galizia, uno dei figli della giornalista durante un briefing con i media. “La pubblicazione dell’inchiesta è un importante passo avanti che restituisce a mia madre la sua umanità e incolpa la propaganda politica di quegli anni”. Dal 2013, infatti, il governo dell’allora primo ministro Joseph Muscat ha preso di mira e ha attaccato più volte la giornalista maltese che attraverso le sue inchieste ha denunciato il sistema corruttivo in cui vari membri dell’esecutivo di centro sinistra erano implicati. Caruana Galizia era diventata l’unica vera opposizione nel paese, come affermato dallo stesso Muscat, ma l’apice dello scontro tra il governo e la reporter è avvenuto nel 2016. La pubblicazione dei Panama Papers ha rivelato importanti legami illeciti tra il mondo politico e quello imprenditoriale dell’isola: conti offshore, tangenti e appalti pubblici sono finiti nel mirino della magistratura che da anni indaga tra i corridori delle istituzioni maltesi. Erano affari da tenere lontano dai giornalisti e che hanno portato, si legge chiaro nel rapporto, anche all’uccisione di Daphne Caruana Galizia. I relatori dell’inchiesta hanno criticato duramente anche le indagini degli investigatori per aver subito continui rallentamenti e depistaggi. “All’epoca la polizia, sotto il commissario Lawrence Cutajar, non fece quasi nulla. Certamente non hanno fatto quello che avrebbero dovuto fare” si legge infatti nel documento. Soltanto grazie alla confessione di importanti testimoni si è riusciti a costruire la dinamica dell’omicidio e ad arrestare noti esponenti della malavita maltese accusati di aver fornito l’esplosivo, alcuni dei quali hanno avuto in passato legami con il clan Santapaola di Catania. Una svolta alle indagini è arrivata nell’autunno del 2019 dopo che l’intermediario dell’omicidio, un tassista di nome Melvin Theuma, ha individuato il magnate Yorgen Fenech come il mandante dell’assassinio della giornalista dopo alcuni suoi articoli sulla 17 Black, una società di sua proprietà. Secondo Daphne Caruana Galizia, la 17 Black, registrata a Dubai, sarebbe stata il mezzo attraverso cui Fenech versava delle tangenti milionarie a due società offshore di Panama di proprietà di Keith Schembri e Konrad Mizzi, che all’epoca dei fatti erano rispettivamente il capo di gabinetto di Muscat e il ministro dell’Energia. Fenech è stato arrestato mentre era in fuga a bordo del suo Yatch, ma ha sempre respinto le accuse. La necessità di riforme - Il rapporto scritto dai giudici restituisce anche un quadro drammatico sullo stato di salute della democrazia del piccolo stato europeo, puntando il dito, ancora una volta, contro le istituzioni per essere state incapaci di tutelare e difendere la libertà di stampa. “Lo stato ha l’obbligo di difendere in ogni modo possibile la vita dei giornalisti e il diritto fondamentale alla libertà di parola, anche quando un giornalista esprime opinioni dure contro il governo” si legge tra le pagine. Non è un caso, infatti, se molti giornalisti negli anni hanno preferito non firmare le loro inchieste e hanno ricorso spesso all’anonimato. Ora, però, è giunto il momento di implementare le raccomandazioni fornite dal rapporto attraverso nuove riforme governative per avere una maggiore trasparenza tra legami politici e imprenditoriali. “Il modo migliore per onorare mia madre è essere trasparenti e implementare in maniera completa e indipendente le riforme chieste dal rapporto” ha affermato Paul Caruana Galizia che ha anche ringraziato la società civile per la mobilitazione nel chiedere verità e giustizia. Ma la strada è ancora lunga, sebbene gli esecutori materiali dell’omicidio (Vince Muscat e i fratelli George e Alfred Degiorgio) e il loro intermediario sono in carcere, i mandanti politici sono ancora a piede libero. “Ci sono ancora persone che devono essere ritenute responsabili per le loro azioni” ha concluso Paul, indirizzando il messaggio ai ministri del vecchio esecutivo che dopo la pubblicazione del rapporto hanno preferito non commentare la notizia. Nicaragua. José Antonio Peraza in carcere a Managua di Paolo Lepri Corriere della Sera, 31 luglio 2021 Politologo e docente universitario, è stato arrestato per aver affermato che, attualmente, “non esistono le condizioni per un voto libero e competitivo” riferendosi alle presidenziali in programma a novembre. “Abbiamo la necessità storica di una transizione politica pacifica: senza una riforma elettorale non ci sono elezioni, senza le elezioni non c’è democrazia possibile”, dice il politologo e docente universitario José Antonio Peraza sul blog “El Cambio Azul y Blanco”, cioè i colori della bandiera nicaraguense: le due bande azzurre rappresentano gli oceani che bagnano il Paese, la bianca simboleggia la pace. Pace in cui non crede più Daniel Ortega, il leader della rivoluzione sandinista contro il regime di Anasasio Somoza che si è trasformato in uno spietato autocrate. Il suo linguaggio è quello della guerra totale agli oppositori. Quei concetti Peraza li ha ripetuti domenica scorsa durante una trasmissione televisiva diffusa su YouTube. Riferendosi alle presidenziali in programma a novembre (che per Ortega e la sua vice, la moglie Rosario Murillo, sono l’ultima speranza di rimanere al potere o trattare una via d’uscita) il direttore esecutivo del Movimiento por Nicaragua (Mpn), organizzazione “apartitica” della società civile che lotta per la democrazia, ha affermato che, attualmente, “non esistono le condizioni per un voto libero e competitivo”. Il giorno dopo è stato arrestato. Le accuse? Avere commesso, riferisce El País, “atti che minacciano l’indipendenza, la sovranità e l’autodeterminazione del Nicaragua”. Sembra incredibile, ma è proprio così. Con il professore di scienze politiche - laureato in Costa Rica, una lunga carriera accademica alle spalle - salgono a ventinove le persone messe in carcere dopo l’avvio dell’ultima offensiva del regime. Tra loro vi sono sette candidati presidenziali, tra cui Cristiana Chamorro, figlia di Violeta, la donna che riuscì a battere Ortega nel 1990. Sedici anni dopo, con il ritorno sulla scena dell’ex comandante rivoluzionario, iniziò quel processo che ha convertito il sandinismo - come ha scritto il quotidiano spagnolo - “in un gulag per chi affronta la coppia al potere”. Peraza è uno dei tanti prigionieri di questo gulag. “È stato catturato per aver detto la verità”, denuncia il giornalista Carlos Ferdinando Chamorro, fratello di Cristiana. Ma dire la verità è un reato. Non resta che ammirare il coraggio di questo uomo tranquillo. “La dittatura - dice - non mi fa paura”.