Mettici la faccia. Appello per un nuovo patto sulla pena di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 30 luglio 2021 Un solo punto: il rispetto pieno, incondizionato, totale dell’articolo 27 della Costituzione, scritto con il sangue e le lacrime di chi ha subito la carcerazione durante il regime fascista. La questione carceraria è una questione sociale e culturale, prima di essere una questione criminale. Non deve esserci spazio nel dibattito pubblico per tesi che ci riportino a un’idea pre-moderna, violenta e vendicativa della pena. Ripartiamo dunque dalle parole importanti proferite dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, all’indomani della visita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: “Mai più violenza. Quegli atti sfregiano la dignità umana che la Costituzione pone come pietra angolare della nostra convivenza civile”. Quelle parole vorremmo diventassero un mantra per tutti quelli che operano, a diverso livello, nelle carceri. Dalle pagine del manifesto lanciamo un appello a tutti gli attori del sistema penitenziario, a partire dai sindacati autonomi di Polizia e da quelli confederali, perché le sottoscrivano a nome delle persone che rappresentano. Tutti, dico tutti, devono essere disposti ad aderire a un patto sulla pena che si fondi su un solo punto: il rispetto pieno, incondizionato, totale dell’articolo 27 della Costituzione, scritto con il sangue e le lacrime di chi ha subito la carcerazione durante il regime fascista. “Le pene non devono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, afferma l’enunciato costituzionale. Scriviamolo all’ingresso di tutte le carceri, sottoscriviamolo tutti insieme, associazioni e sindacati. Tutti devono metterci la faccia. Il carcere non è proprietà dei custodi. Un insegnante di liceo, un professore universitario, un volontario non devono essere tollerati. Devono essere incentivati nell’esercizio del loro prezioso lavoro. Ripartiamo, dunque, da un patto condiviso che espunga la violenza e la brutalità dai nostri istituti penitenziari. Per ripartire bene è necessario muoversi su tre piani convergenti: una riforma legislativa che minimizzi l’impatto del carcere, che punti sulle misure alternative, che depenalizzi (a partire dalla droghe) tutto ciò che non sia meritevole di punizione; una riforma di secondo livello che modifichi il Regolamento del 2000 e modernizzi la vita carceraria, a partire dall’istruzione, dalla gestione degli spazi comuni e del tempo, dall’uso sapiente delle tecnologie, dalla riduzione dell’isolamento, dalle relazioni con l’esterno, dalla previsione di codici identificativi per chi ha funzione di polizia; e, infine, una profonda revisione del modello organizzativo, a partire dalla restituzione di una nuova centralità strategica a educatori, assistenti sociali, direttori, e tutti gli altri operatori socio-sanitari. Negli ultimi due anni, nel nome di un securitarismo diffuso, anti-sociale e anti-storico, c’era addirittura chi chiedeva di cooptare gli educatori nel Corpo di Polizia Penitenziaria. La strada deve essere invece quella di una loro rinnovata autonomia e forza. Ovviamente molto passa da un investimento in assunzioni di persone che per età e entusiasmo siano protagonisti di una stagione di riforme che avvicinino l’essere tragico della pena al suo dover essere costituzionale. *Presidente Associazione Antigone Là dove si trasformano gli uomini in topi di Sergio Ventura L’Osservatore Romano, 30 luglio 2021 “Ma poi lo hanno messo in prigione, dove cercano di trasformare un uomo in topo”, cantava Dylan nel 1975 raccontando la drammatica vicenda del pugile di colore Rubin “Hurricane” Carter, pugile ingiustamente sbattuto in carcere per un omicidio mai commesso. Uno degli ambienti in cui la pandemia ha determinato inizialmente reazioni spesso incontrollate, perché dominate da una comprensibile angoscia, è stato quello del carcere. Quando era ignota la contagiosità e letalità del virus, la paura di “fare la fine del topo” è stato il sentimento prevalente tra i detenuti di tutto il mondo, oltre al disagio legato alla sospensione delle visite dei parenti e delle altre forme di socialità, tra cui la presenza di migliaia di volontari. La pressione psicologica sugli agenti di Polizia penitenziaria è aumentata oltre misura ed è stato messo a dura prova il loro essere “ponti tra il carcere e la società civile, custodi e tessitori di giustizia e di speranza” - come li aveva definiti Papa Francesco in udienza (14 settembre 2019), ringraziandoli per un lavoro “nascosto, spesso difficile e poco appagante, ma essenziale”. Così, quando in Europa, Sudamerica e Medioriente questo stato di tensione è sfociato nelle proteste, se non nelle rivolte dei detenuti, riportare l’ordine all’interno delle carceri si è rivelato essere oltremodo problematico: una tragedia nella tragedia. Ad essa gli stati hanno risposto - e stanno rispondendo - con una sensibilità maggiore verso quell’”insopprimibile dignità” dei detenuti ricordata agli operatori penitenziari dallo stesso Papa Francesco, soprattutto laddove sono presenti, da un lato, il reato di tortura e la finalità rieducativa della pena, dall’altro lato, la consapevolezza che l’onore di un’istituzione dipende dalla sua credibilità soprattutto nel momento in cui esercita il potere a sua disposizione. Dal punto di vista politico, poi, sono ormai chiari gli aspetti del carcere che dovrebbero essere curati dai rappresentanti del popolo, se essi, oltre ad essere indignati, si ispirassero ai “modelli positivi che già esistono” (don Gino Rigoldi): scommettere sulle pene alternative e sulla crescita psicologica, culturale e professionale dei detenuti, garantire una formazione permanente e specifica degli operatori carcerari (tra cui gli educatori) e stage penitenziari per i neo-magistrati, dotarsi di adeguati presidi e sistemi tecnologici di sorveglianza, ridurre la durata dei processi, finanziare spazi diversi (per reati di diversa motivazione e pericolosità) e comunque più ampi, moderni e sicuri - piuttosto che limitarsi a costruire nuove o ampliate carceri che subito ridiventano sovraffollate e dunque, constata il vescovo di Roma, “polveriere di rabbia, anziché luoghi di ricupero”. Non possiamo nascondere, però, che la naturale richiesta di sicurezza che proviene dal sentimento profondo del popolo a volte alimenta - o viene piegata verso - reazioni che rischiano di renderlo un po’ meno santo di quanto potrebbe essere, se anche in questo ambito esso ascoltasse e si fidasse maggiormente dell’alterità di cuore e di pensiero del suo Dio (Is 55, 8-9). Perciò vorremmo solo ricordare - per farci interrogare altrettanto nel profondo (1Cor 2, 10-14) - quanto il testo biblico si renda eco della questione carceraria e della violenza corporale che ad essa è legata. Infatti, l’opera di misericordia di visitare i carcerati, indicata da Gesù come uno dei criteri perché i pagani di ieri - e i cristiani anonimi di oggi - entrino nel Regno di Dio (Mt 25, 36.39.43-44), insieme all’invito della Lettera agli Ebrei (13, 3) di ricordarci dei carcerati - e dei maltrattati corporalmente - come se fossimo loro compagni di cella, costituisce il compimento di un percorso biblico di attenzione e di cura che affonda le sue radici sin nella storia dei patriarchi. Giuseppe il sognatore stette ingiustamente due anni in una prigione sotterranea, pur entrando nelle grazie del comandante di essa. Il profeta Geremia fu percosso e messo ingiustamente nei sotterranei di un carcere per molti giorni. Uguale sorte toccò al profeta Michea e al giudice Sansone, accecato e gettato in prigione a girare la macina. Tanti altri ebrei anonimi verranno poi imprigionati: per questo i salmi implorano Dio di liberare gli incarcerati, i profeti ne annunciano la liberazione e la sapienza la testimonia. Giovanni Battista terminò ingiustamente i suoi giorni in carcere, dove fu decapitato. Lo stesso Gesù, durante il processo in cui fu condannato a morte, venne deriso e percosso; e dei suoi discepoli profetizzò l’incarcerazione e le percosse. Essi, infatti, a partire da Pietro, furono incarcerati più volte: “senza violenza”, lo si noti, solo quando si era in presenza del popolo, per evitare atti di rappresaglia (Atti 5, 26). Anche Paolo, che prima dell’illuminazione sulla via di Damasco si era reso protagonista di tali atti, sperimentò la durezza della prigionia, a partire dalle percosse ricevute. Perché la Bibbia ebraica e quella cristiana evidenziano in tal modo il carcere e le violenze corporali ad esso legate? Forse per ricordare che il Dio degli ebrei e dei cristiani è sempre dalla parte delle vittime, spesso innocenti capri espiatori, oggetto degli abusi di chi detiene il Potere: soprattutto quando si tratta di reati, come quelli dei protagonisti biblici, che nei secoli abbiamo imparato a considerare espressioni della libertà di pensiero. Nel caso in cui, invece, siamo in presenza di reati veri e propri, è possibile che il testo biblico voglia ricordarci che nel carcere si sperimenta sino in fondo cosa - e quanto difficile - sia la misericordia verso il colpevole, la sua rinascita e il suo reinserimento: soprattutto se non dimentichiamo, in queste “storie a brandelli che non vuole più nessuno” (Via Crucis, 2020), il mistero della libertà personale in rapporto alla casualità degli ambienti di nascita, spesso legati al disagio psichico e socio-economico e capaci di condizionare fortemente la direzione della nostra esistenza. In definitiva, il ripresentarsi nel testo biblico della questione carceraria e della violenza corporale ad essa legata ci invita a fare esperienza profonda dell’essenza di ciò che vorrebbe da noi il Dio del popolo ebraico e di Gesù di Nazareth. Quell’”essere balsamo per molte ferite” (E. Hillesum), quel cingersi con un grembiule e lavare i piedi dell’altro - chiunque esso sia per genere e religione - che lo stesso Papa Francesco ci ha più volte indicato durante il triduo pasquale (a costo di modificare le rubriche del Messale). Non può essere un caso, infatti, che il vescovo di Roma, fino all’interruzione dello scorso anno (quando ha comunque dedicato al carcere la Via Crucis), abbia celebrato quasi tutte le lavande dei piedi del giovedì santo in carcere: Casal del Marmo (2013), Rebibbia (2015), Paliano (2017), Regina Coeli (2018) e Velletri (2019). A questo punto non resta che chiedersi se siamo altrettanto disposti a pensare e ad agire sulla scia di quanto ci ricordano le storie bibliche e la testimonianza di Papa Francesco che ci esorta, come ha detto di fronte ai detenuti di Regina Coeli, a “non lavarsi le mani”, ma a “lavarsi gli occhi”. Per non rifiutarci, come Pietro, di comprendere che esercitare sulle persone un’autorità significa, con le parole delle meditazioni della Via Crucis (2020), avere “mani amorevoli” come quelle di Giuseppe d’Arimatea, da un lato, e, dall’altro lato, guardare gli altri e se stessi con uno “sguardo che non giudica” come una “lama affilata”, ma che assume quell’”altra prospettiva” carezzevole e speranzosa proposta da Gesù: in ogni colpevole “cogliere il bene che, nonostante il male compiuto, non si spegne mai completamente”. Le proposte di Antigone a Cartabia per ridisegnare la vita in carcere di Enrico Cicchetti Il Foglio, 30 luglio 2021 “Non può esserci giustizia dove c’è abuso”, hanno detto il premier Draghi e la ministra della Giustizia Cartabia a Santa Maria Capua Vetere, durante la visita istituzionale nei luoghi delle violenze contro i detenuti avvenute un anno fa. La loro è un’alleanza che forse potrà finalmente fare la differenza, come scrive sul Foglio Adriano Sofri, con l’attesa riforma della Giustizia. Perché “ciò che accade nelle carceri ci riguarda tutti”. Nel presentare il rapporto di metà anno sulla situazione delle carceri italiane, l’associazione Antigone parte proprio da lì, dal carcere dell’”orribile mattanza”, come l’hanno definita i magistrati casertani. E allarga lo sguardo su tutta Italia. Antigone, che si occupa dei diritti delle persone private della libertà, è attualmente coinvolta in 18 procedimenti penali che hanno per oggetto violenze, torture, abusi, maltrattamenti o decessi avvenuti negli ultimi anni in varie carceri italiane. Alcuni di essi si riferiscono alle presunte reazioni violente alle rivolte scoppiate in alcune carceri tra il marzo e l’aprile 2020 per la paura generata dalla pandemia e per la chiusura dei colloqui con i parenti. Dalla prevenzione e repressione della violenza (con l’introduzione di strumenti di identificazione del personale, l’ampliamento della videosorveglianza, meccanismi di protezione del detenuto che sporge denuncia), alla prevenzione del rischio di suicidi fino a maggiori tutele per il lavoro delle persone detenute, le proposte di Antigone per un nuovo regolamento penitenziario toccano diversi ambiti. Il documento è stato inviato a Draghi e Cartabia e ai parlamentari delle Commissioni giustizia di Camera e Senato. A oltre 20 anni dall’approvazione del regolamento penitenziario in vigore, “oggi - si legge nel testo - è necessario ripensare disposizioni che risalgono a un modello di carcere diverso da quello che le esperienze del nuovo millennio - comprese quelle della pandemia - permettono di configurare”. Ma com’è la situazione delle carceri, oggi? Secondo il rapporto, al 30 giugno 2021 il numero di persone detenute si attesta a 53.637, di cui 2.228 donne (4,2 per cento) e 17.019 stranieri (32,4 per cento), per 50.779 posti ufficialmente disponibili e un tasso di affollamento ufficiale del 105,6 per cento. Carceri affollate. Ancora - Come da anni a questa parte, ormai, è sempre l’affollamento degli istituti il primo punto a essere evidenziato dall’associazione. Un nodo critico che, nonostante il calo dovuto alle uscite dal carcere grazie ai permessi dell’autorità giudiziaria in seguito all’emergenza Covid, rimane un’indecenza per uno stato di diritto che è costata al nostro paese condanne e sanzioni in sede europea. La prima illegalità è il sovraffollamento, quello che secondo Piercamillo Davigo sarebbe “una balla”. Il reale tasso di affollamento nazionale è invece addirittura superiore a quello ufficiale in quanto, come ricordato dal Garante nazionale, a metà giugno 2021 i posti effettivamente disponibili erano 47.445 per un tasso di affollamento reale del 113,1 per cento. Se 117 istituti su 189 hanno un tasso di affollamento superiore al 100 per cento, in undici di questi l’affollamento supera il 150 per cento. I cinque peggiori: Brescia (378 detenuti, 200 per cento), Grosseto (27 detenuti, 180 per cento), Brindisi (194 detenuti, 170,2 per cento), Crotone (148 detenuti, 168,2 per cento), Bergamo (529 detenuti 168 per cento). Misure alternative come risposta all’affollamento delle carceri - Se si puntasse sulle misure alternative si ridurrebbero in maniera significativa i numeri dell’affollamento. Il 36 per cento del totale dei detenuti deve scontare meno di 3 anni. Questi, se si eccettuano i condannati per reati ostativi, avrebbero potenzialmente accesso alle misure alternative. Se solo la metà vi accedesse il problema del sovraffollamento penitenziario sarebbe risolto. Droghe e dipendenze - Antigone ricorda che un detenuto su quattro è tossicodipendente e più di uno su tre è in carcere per violazione del Testo Unico sulle droghe (un terzo dei quali è straniero). Se si volge lo sguardo alla persona e non al reato, i dati raccontano di come circa 1 detenuto su 4 sia tossicodipendente. In generale, gli stranieri detenuti in Italia sono il 32,4 per cento (17.019 persone). Una presenza in costante flessione dal 31 dicembre del 2018, quando la percentuale sfiorava i 34 punti. Si tratta anche del secondo dato più basso nell’ultimo decennio. “Puntiamo alle misure alternative per ridurre il sovraffollamento in carcere” di David Allegranti La Nazione, 30 luglio 2021 Il rapporto di Antigone sulla detenzione. Triste primato fiorentino: a Sollicciano si sono verificati 105 episodi di autolesionismo ogni 100 detenuti, a Cassino 60, a Cagliari 50 e a Imperia 49. Serve un nuovo regolamento penitenziario, dice l’associazione Antigone, che si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Quello in vigore risale al 2000 e ha bisogno di una necessaria rivisitazione: “Oggi è necessario ripensare disposizioni che risalgono a un modello di carcere diverso da quello che le esperienze del nuovo millennio - comprese quelle della pandemia - permettono di configurare”, scrive Antigone nel suo rapporto di metà anno, presentato stamattina. Al 30 giugno 2021, i detenuti erano 53.637, di cui 2.228 donne (4,2 per cento) e 17.019 stranieri (32,4 per cento), per 50.779 posti ufficialmente disponibili e un tasso di affollamento ufficiale del 105,6 per cento. Tuttavia, i posti effettivamente disponibili erano 47.445, come già ricordato dal Garante nazionale, il che significa che il tasso di sovraffollamento reale era del 113,1 per cento. Ben undici gli istituti penitenziari con un affollamento superiore al 150 per cento. I cinque peggiori: Brescia (378 detenuti, 200 per cento), Grosseto (27 detenuti, 180 per cento), Brindisi (194 detenuti, 170,2 per cento), Crotone (148 detenuti, 168,2 per cento), Bergamo (529 detenuti 168 per cento). Un detenuto su quattro è tossicodipendente e più di un detenuto su tre è in carcere per violazione del Testo unico sulle droghe. “Al 30 giugno 2021 i detenuti per violazione del Testo Unico sulle droghe erano 19.260 (il 15,1 per cento sul totale delle imputazioni); di questi, 658 donne e 18.602 uomini. Il 33 per cento sul totale dei detenuti reclusi per droga è straniero, le donne sono il 3,4 per cento, a fronte del 4,1 per cento del totale della popolazione detenuta. La detenzione per droga in proporzione dunque incide più sugli uomini che sulle donne. Nel corso del 2020 sono stati 10.852 i detenuti in ingresso negli istituti penitenziari per questo reato, il 30,8 per cento sul totale”, scrive Antigone. Il dato sulla tossicodipendenza è da sottolineare: “Se si volge lo sguardo alla persona e non al reato, i dati raccontano di come circa 1 detenuto su 4 sia tossicodipendente. Vi è stata una crescita di 10 punti percentuali - tra il 2005 e il 2020 (i dati sono al 31/12) - negli ingressi in carcere di detenuti con problemi di tossicodipendenza. Nel 2020 il 38,6 per cento delle persone che sono entrate negli istituti penitenziari era tossicodipendente. Nel 2005 erano il 28,41 per cento. Il dato sulle presenze di detenuti tossicodipendenti - come si legge nel Libro bianco - restituisce una realtà preoccupante, in quanto al 31 dicembre 2020 i detenuti presenti tossicodipendenti erano il 26,5 per cento ovvero 14.148; molti se si pensa quanto i detenuti tossicodipendenti siano maggiormente soggetti a contrarre malattie infettive”. In carcere ci sono meno detenuti stranieri: 17.019, il 32,4 per cento, in flessione cosante dal 2018, quando erano quasi il 34 per cento. “Ben 19.271 detenuti, cioè il 36 per cento del totale, dece scontare meno di 3 anni. Se si puntasse alle misure alternative si ridurrebbero significativamente i numeri dell’affollamento”, scrive ancora Antigone. “Al 30 giugno 2021 erano 7.147 le persone detenute a cui era stata inflitta una pena inferiore ai 3 anni (per 1.238 era addirittura inferiore all’anno, per 2.180 compresa tra 1 e 2 anni e per 3.729 tra i 2 e i 3 anni). 8.236 detenuti avevano una pena inflitta compresa tra i 3 e i 5 anni, 11.008 tra i 5 e i 10 anni, 6.546 tra i 10 e i 20 anni e a 2.470 era stata inflitta una pena superiore ai 20 anni. Gli ergastolani erano 1.806 (erano 1.784 a fine 2020, 1.224 nel 2005)”. Per quanto riguarda invece il residuo pena, cioè la parte di pena ancora da scontare, “al 30 giugno a 2.238 detenuti (di cui 1.806 ergastolani) restavano da scontare più di 20 anni; a 2.427 tra i 10 e i 20 anni, a 5.986 trai 10 e i 5 anni, a 7.281 tra i 5 e i 3 anni e infine a ben 19.271 detenuti, il 36 per cento del totale, meno di 3 anni (a 5.609 tra i 2 e 3 anni, a 6.705 tra 1 e 2 anni e a 6.957 meno di un anno)”. Questi ultimi, se si eccettuano i condannati per reati ostativi, “avrebbero potenzialmente accesso alle misure alternative. Se solo la metà vi accedesse il problema del sovraffollamento penitenziario sarebbe risolto. Rispetto al periodo precedente alla pandemia vi è una diminuzione del numero di persone detenute con pena inflitta inferiore ai 3 anni. A fine 2019 erano il 23,5 per cento del totale, oggi sono il 19 per cento. Si è dunque fatto un minore ricorso al carcere per reati lievi, per quanto in misura non sufficientemente significativa”. C’è poi la questione dei detenuti in attesa di primo giudizio (uno su sei) e quelli in custodia cautelare (uno su tre). “Al 30 giugno 2021, il 15,5 per cento dei detenuti era recluso in attesa di primo giudizio, il 14,5 per cento era condannato ma non ancora definitivo e il 69,4 per cento stava scontando invece una condanna definitiva. Gli internati rappresentavano lo 0,6 per cento sul totale. Dei condannati non definitivi il 48,4 per cento sono in attesa della pronuncia della sentenza d’appello, il 39,2 per cento invece della Cassazione. Il 12,4 per cento ricade invece nella categoria dei cosiddetti ‘misti’, ovvero sono detenuti i quali hanno più procedimenti aperti per i quali cioè non vi sono condanne in via definitiva”. Il numero dei detenuti definitivi, negli ultimi 18 mesi è cambiato in maniera considerevole: “Se al 31 dicembre 2019 questi rappresentavano il 68,3 per cento della popolazione reclusa totale, a giugno 2020 erano scesi al 66,9 per cento per poi tornare a salire al 67,8 per cento al 31 dicembre 2020 fino a raggiungere il picco del 69,4 per cento di giugno 2021”. Le carceri visitate, non senza difficoltà, da Antigone, presentano numerosi problemi. Nel 42 per cento degli istituti sono state trovate celle con schermature alle finestre. Il 36 per cento delle carceri monitorate aveva celle senza doccia e il 31 per cento senza acqua. “Notevole la crescita degli episodi di autolesionismo, indice anche della tensione generata in carcere dalla crisi sanitaria. Considerando gli ultimi 12 mesi prima della visita, il numero medio di tali episodi nelle carceri monitorate è pari a 23 casi ogni 100 persone, un dato notevolmente superiore ai 15 episodi annui ogni 100 persone dell’ultima rilevazione prima della pandemia”. Brutto il primato fiorentino: a Sollicciano si sono verificati 105 episodi di autolesionismo ogni 100 detenuti, a Cassino 60, a Cagliari 50 e a Imperia 49. “Oltre alle difficoltà legate all’emergenza pandemica, il dato si spiega da un lato con l’elevatissima presenza di detenuti in terapia psichiatrica, che sono arrivati a costituire il 39,5 per cento dei presenti (erano il 27,6 per cento nel 2019); e dall’altro con la scarsa disponibilità di interventi terapeutici: in media negli istituti visitati per 100 detenuti erano erogate 8,8 ore settimanali di intervento psichiatrico e 16,7 ore settimanali di sostegno psicologico”. Oltre le torture c’è ancora sovraffollamento, carenza d’acqua, colloqui sospesi di Marta Rizzo La Repubblica, 30 luglio 2021 Il rapporto di Antigone. Ma anche finestre schermate e contatti visivi con le famiglie resi difficili. “Urge un nuovo sistema penitenziario”. Le visite dell’Associazione Antigone nelle carceri italiane a metà 2021, segnalano criticità che vanno al di là le delle torture, già tragiche in sé, ma che si aggiungono ad altre privazioni: sovraffollamento pari al 113, 1%; in molti istituti non ci sono docce in cella e le finestre schermate non aiutano il passaggio di aria; i colloqui in presenza con i parenti, da diverse parti, si svolgono ancora al di là di un vetro e non c’è possibilità di incontrare i propri figli minori; aumenta l’autolesionismo; si rinuncia agli studi. “Urge una revisione totale del sistema penitenziario”, denuncia Antigone. Il sovraffollamento carcerario supera il 113%. Le misure alternative aiuterebbero a superarlo. Calano gli stranieri. Negli ultimi 12 mesi, l’Associazione Antigone ha svolto 67 visite in 14 regioni italiane. Le carceri visitate dagli osservatori di Antigone ospitavano in tutto 24.418 detenuti, quasi la metà (il 46%) della popolazione detenuta italiana. In generale, il sovraffollamento nazionale è però molto preoccupante e pari al 113,1%; sono 11 le carceri con sovraffollamento oltre il 150%: tra questi i cinque istituti di pena con maggiori criticità sono Brescia (378 detenuti, 200%), Grosseto (27 detenuti, 180%), Brindisi (194, 170,2%), Crotone (148, 168,2%), Bergamo (529, 168%). 19.000 detenuti devono scontare meno di 3 anni. Questi ultimi, se si eccettuano i condannati per reati ostativi, avrebbero potenzialmente accesso alle misure alternative. Se solo la metà vi accedesse il problema del sovraffollamento penitenziario sarebbe risolto. Al 30 giugno 2021 la percentuale di detenuti stranieri ristretti negli istituti penitenziari in Italia era del 32,4% (17.019 persone). Una presenza in flessione dal 31 dicembre del 2018. Le criticità più dolorose. Celle schermate, celle prive di docce; alcune del tutto prive di acqua. Nel 42% degli istituti sono state trovate celle con schermature alle finestre che impediscono passaggio di aria e luce naturale. Nel 36% delle carceri vi erano celle senza doccia (il regolamento penitenziario del 2000 prevedeva che, entro il 20 settembre 2005, tutti gli istituti installassero le docce in ogni camera di pernottamento). Nel 31% degli istituti visitati da Antigone vi erano addirittura celle prive di acqua calda. In 3 carceri sono state trovate celle con il wc a vista. Nel Carcere di Frosinone, per esempio, sono stati segnalati frequenti episodi di mancanza di acqua corrente. Santa Maria Capua Vetere presenta un problema strutturale di mancato allaccio idrico e l’acqua erogata non è potabile. La gara d’appalto per provvedere all’allaccio idrico c’è stata, ma i lavori non sono iniziati e l’acqua potabile viene data a ciascun detenuto con due bottiglie da due litri al giorno. Si è passati da celle aperte, a celle chiuse nel 24% dei casi. Il regime a celle aperte, seppure accompagnato con restrizioni di movimento, è rimasto prevalente: nel 65% degli istituti visitati sono state trovate celle aperte almeno 8 ore al giorno; ma nel 24% dei casi Antigone segnala che c’erano sezioni in cui si è passati, con la pandemia, da un regime di celle aperte, a chiuse. Molti i tossicodipendenti in carcere. I dati di Antigone raccontano di come circa 1 detenuto su 4 sia tossicodipendente. Questo dato restituisce una realtà preoccupante, in quanto al 31 dicembre 2020 i detenuti presenti tossicodipendenti erano il 26,5% ovvero 14.148: molti, se si pensa quanto i detenuti tossicodipendenti siano maggiormente soggetti a contrarre malattie infettive. La piaga dei suicidi. Diciotto i suicidi a metà 2021 e nei soli primi 3 mesi dell’anno 2.461 gli atti di autolesionismo. Nel 2021 fino al 15 luglio secondo il dossier Morire di carcere di Ristretti, i suicidi sono stati 18, di cui 4 commessi da stranieri e i restanti da italiani. Il più giovane aveva 24 anni e il più anziano 56. Nel 2020 i suicidi sono stati 62 e il numero di suicidi ogni 10.000 detenuti è stato il più alto degli ultimi anni, raggiungendo gli 11. Per quanto riguarda i casi di autolesionismo, per il primo trimestre del 2021 la Relazione al Parlamento del Garante Nazionale ne riporta 2.461. A Firenze Sollicciano si sono verificati 105 casi di autolesionismo ogni 100 detenuti. Il costo delle carceri: 3 miliardi all’anno. La detenzione costa allo Stato 3 miliardi, di cui il 68% è impiegato per la polizia penitenziaria. Necessario assumere personale civile. Ogni anno vengono spesi i circa 3 miliardi le carceri per adulti e i 280 milioni per il sistema di giustizia minorile e alle misure alternative alla detenzione. Dei 3 miliardi che sono stati destinati al carcere per il 2021, il 68% è impiegato per la polizia penitenziaria, la figura professionale numericamente più presente con oltre 32.500 agenti. Il divario con l’organico previsto dalla legge (37.181 unità) si attesta a circa 12,5%. Diversa la situazione dei funzionari giuridico-pedagogici che, con un organico previsto di 896, sono oggi poco più di 730 (-18,4%). Il rapporto medio rilevato dall’Osservatorio di Antigone è di 90 detenuti per ogni educatore, ma in 24 istituti sui 73 visitati fra il 2020 e 2021 questo numero sale a ben oltre 100. Solo nel 65% degli istituti visitati, meno di 2/3, c’era un direttore assegnato in via esclusiva. Negli altri, il direttore era responsabile di più di una struttura, con le difficoltà e le limitazioni che ciò comporta sia per il personale che per i detenuti. Fortissimo lo squilibrio tra personale di custodia e personale dell’area trattamentale preposto alla reintegrazione sociale delle persone detenute: il rapporto medio negli istituti visitati era di un poliziotto penitenziario ogni 1,6 detenuti e di un educatore ogni 91,8 detenuti. Solo 1/3 dei detenuti lavora. La formazione professionale è in calo; 1 studente detenuto su 3 ha abbandonato la scuola. Secondo gli ultimi dati diffusi dal Dap, al 31 dicembre 2020 erano 17.937 le persone detenute lavoranti. Di queste, quasi l’88% (15.746) alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e il restante circa 12% (2.191) per datori di lavoro esterni. I corsi professionali attivati all’interno degli istituti di pena nel secondo semestre del 2020 sono stati 117, di cui 92 portati a termine. Sebbene si registri un aumento rispetto al primo semestre del 2020, si è ancora lontani dai numeri pre-pandemia quando i corsi attivati superavano i 200 (dicembre 2019). Le interruzioni nella scuola. Durante la pandemia la scuola in presenza ha conosciuto interruzioni in quasi tutti gli istituti (nel 94% del totale). Nel 60% delle carceri le attività in presenza sono state interrotte per almeno 3 mesi, cioè per almeno 1/3 dell’anno scolastico. Sono pochi i casi in cui è stata garantita la (Dad) didattica a distanza, a differenza di quanto avvenuto all’esterno. All’andamento irregolare della attività scolastiche, ha corrisposto un alto tasso di abbandono scolastico. Nel 20% degli istituti monitorati almeno 1 studente su 3 ha abbondato la scuola. Covid-19 dentro: numeri del contagio in linea col fuori. Secondo i dati del DAP, a fine luglio 2021 sono 29 i detenuti positivi al Covid-19, tutti asintomatici e 64.469 le somministrazioni di vaccini ai detenuti. I dati ogni 10.000 detenuti sono in linea con i dati all’esterno del sistema penitenziario. Fra la polizia penitenziaria i positivi sono 64 e 24.098 le somministrazioni, mentre fra il personale amministrativo i positivi sono 12 e 2.630 le somministrazioni. I 18 procedimenti penali per violenze e torture. Antigone è attualmente coinvolta in 18 procedimenti penali che hanno per oggetto violenze, torture, abusi, maltrattamenti o decessi avvenuti negli ultimi anni in varie carceri italiane. Alcuni di essi si riferiscono alle presunte reazioni violente alle rivolte scoppiate in alcune carceri tra il marzo e l’aprile 2020 per la paura generata dalla pandemia e per la chiusura dei colloqui con i parenti. Questi alcuni dei procedimenti: Carcere di Monza Antigone è attualmente coinvolta in 18 procedimenti penali che hanno per oggetto violenze, torture, abusi, maltrattamenti o decessi avvenuti negli ultimi anni in varie carceri italiane. Alcuni di essi si riferiscono alle presunte reazioni violente alle rivolte scoppiate in alcune carceri tra il marzo e l’aprile 2020 per la paura generata dalla pandemia e per la chiusura dei colloqui con i parenti. Questi alcuni dei procedimenti: Carcere di Monza; Carcere di San Gimignano; Carcere di Torino; Carcere di Milano Opera; Modena; Melfi; Pavia; Santa Maria Capua Vetere. Un sistema che va ripensato. Antigone chiede di rinnovare il sistema penitenziario nazionale. L’attuale regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario è in vigore dal 20 settembre 2000. Oggi è necessario ripensare disposizioni che risalgono a un modello di carcere diverso da quello che le esperienze del nuovo millennio permettono di configurare. Il regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario è uno strumento potenzialmente capace di disegnare la vita degli istituti di pena selezionando i valori cui improntarla. La legge ha bisogno di indicazioni concrete che sappiano leggerne le potenzialità dirette a un’esecuzione penale in linea con il dettato costituzionale. Antigone ha lavorato a un documento che raccoglie riflessioni volte a rinnovare il regolamento penitenziario su alcune tematiche rilevanti per la vita interna e per la sua relazione con il mondo libero. Il documento in pdf completo è scaricabile a questo link: https://www.antigone.it/upload2/uploads/docs/RegolamentoEsecuzioneProposta.pdf Un detenuto su sei in attesa del primo giudizio di Eleonora Martini Il Manifesto, 30 luglio 2021 Tossicodipendenti in aumento: 10% in più tra il 2005 (28% degli ingressi) e il 2020 (38%). La fotografia scattata nel Rapporto di metà 2021 mette in evidenza anche alcuni limiti della riforma Cartabia. “Un detenuto su sei in attesa del primo giudizio, uno su tre in custodia cautelare. Uno su quattro è tossicodipendente, uno su tre entra in carcere per violazione delle leggi sulle droghe”. La fotografia della popolazione e delle condizioni carcerarie scattata dall’Associazione Antigone con il Rapporto di metà anno 2021 a ben vedere mette in luce anche alcune lacune della riforma della giustizia che il governo si appresta a varare. “Il numero dei detenuti condannati in via definitiva negli ultimi 18 mesi è cambiato in maniera considerevole: se al 31 dicembre 2019 questi rappresentavano il 68,3% della popolazione reclusa totale, a giugno 2020 erano scesi al 66,9% per poi tornare a salire al 67,8% al 31 dicembre 2020 fino a raggiungere il picco del 69,4% di giugno 2021”, si legge nel testo che il presidente Patrizio Gonnella, la coordinatrice nazionale Susanna Marietti, il dirigente Alessio Scandurra, l’avvocata Simona Filippi e il coordinatore dei Garanti territoriali Stefano Anastasia hanno presentato ieri. Se poi guardiamo ai soli detenuti stranieri, “la percentuale dei condannati in via definitiva scende di due punti percentuali”. Ma la questione importante è che l’”intoppo” non si trova tanto nei tempi del giudizio d’Appello o su quelli della Cassazione: “Al 30 giugno 2021, il 15,5% dei detenuti era recluso in attesa di primo giudizio, il 14,5% era condannato ma non ancora definitivo”. “Dati ingiustificatamente elevati a confronto con gli altri Paesi Ue”, fa notare Alessio Scandurra. L’altro nodo dolente sottolineato dal rapporto stilato dopo aver visitato nell’ultimo anno, nonostante la pandemia, 67 istituti di 14 regioni, è la questione “droghe”. Dei 53.637 detenuti per 50.779 posti ufficialmente disponibili, con un tasso di affollamento ufficiale del 105,6% (ma il tasso reale medio è 113,1% perché i posti effettivamente disponibili a fine giugno erano 47.445, con punte del 200% di affollamento come a Brescia e un tasso reale sopra il 150% in ben 11 istituti), i detenuti per violazione del Testo Unico sulle droghe sono 19.260 (il 15,1% sul totale delle imputazioni). La stragrande maggioranza uomini. Ma la percentuale sale al 30,8% sul totale per quanto riguarda gli ingressi in carcere nel corso del 2020 per questo tipo di reati. La maggioranza di essi è per violazione dell’articolo 73, quello che punisce e sanziona la produzione, la detenzione e lo spaccio di sostanze, compresa la coltivazione di marijuana (malgrado la sentenza 12348/2020 delle Sezioni unite della Cassazione). “Nel 2020 - si legge sul rapporto - il 38,6% delle persone che sono entrate negli istituti penitenziari era tossicodipendente. Nel 2005 erano il 28,41%”. Dieci punti percentuali in più. Guardando la realtà delle carceri si capisce dunque che, come sottolinea Scandurra, “il fenomeno droghe è il principale motore del sovraffollamento e delle recidive”. Anche perché, aggiunge, “le tossicodipendenze tornano ad aumentare” e il percorso di reinserimento nella società per questo tipo di rei è ancora più difficile. Di sicuro “il carcere non è il percorso migliore”. Se si considera poi il “grande problema dell’innalzamento dell’età media” dei detenuti (“la fascia di età più rappresentata è tra i 50 e i 59 anni, il 18,1% sul totale; solo lo 0,9% ha tra i 18 e 20 anni; l’1,7% ha più di 70 anni”), appare evidente che la strada per il decongestionamento dei penitenziari passa per “la depenalizzazione di tutto il consumo di stupefacenti, a partire dalla cannabis”. L’associazione Antigone invita anche a riflettere sui costi: “I soli costi di detenzione si aggirano sui 120/130 euro al giorno - ragiona Scandurra - mentre il costo di una comunità è 10-15 volte inferiore. E i risultati in termini di recidiva sono molto migliori”. Non è purtroppo superfluo ricordare poi che la maggior parte delle carceri italiane versa in condizioni cattive, a volte pessime. Per non parlare della mancanza strutturale di operatori, di educatori, di salute. Il sistema di comunicazione, per dirne una, è fermo agli anni ‘70. I giornalisti fanno fatica ad entrare (da Bonafede in poi molto di più) e i bambini fanno fatica ad uscire. Per questo, come ha riferito Susanna Marietti, Antigone ha stilato una dettagliatissima proposta di riforma del regolamento penitenziario, quello che dà indicazioni effettive sulla vita interna del carcere. E pensare che i reati più gravi sono in diminuzione: “Nel primo semestre del 2021 sono stati registrati 140 omicidi, di cui 57 hanno avuto come vittime delle donne (49 uccise in ambito familiare/affettivo). Un decremento del 5% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Il calo riguarda anche i femminicidi, passati da 66 a 57 (-14%)”. Ma le violenze, nelle carceri, continuano a ripetersi, come negli anni più bui. L’avvocata Simona Filippi fa il punto dei fascicoli aperti nelle procure e seguiti da Antigone: Santa Maria Capua Vetere, certo, ma anche Modena, dove durante le rivolte del 2020 sono morti 8 detenuti, più uno che è deceduto dopo il trasferimento ad altro istituto. E Melfi, dove “è ancora più marcata la distanza temporale tra le rivolte dei detenuti, avvenute il 9 marzo, e l’intervento degli agenti nella notte tra il 16 e il 17 marzo con il trasferimento dei reclusi ad altri carceri”. Proprio quella notte, ricostruisce Filippi, ci sarebbe stata una sorta di rappresaglia, sullo stile del carcere campano. almeno a stare ai racconti “dettagliati e analoghi” raccolti dall’associazione che si è opposta all’archiviazione del caso. Celle con poca aria sovraffollate e 18 suicidi: i numeri di Antigone di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 luglio 2021 In diverse carceri sono state trovate celle con schermature alle finestre, che impediscono il pieno passaggio di aria e luce naturale e durante il periodo estivo rendono particolarmente penosa la permanenza nelle stanze. Altri ancora vi erano celle senza doccia e con il wc a vista. Altre carceri prive addirittura di acqua calda. Questo è solo uno dei tanti aspetti monitorati dall’associazione Antigone grazie alla possibilità di far visita presso gli istituti nonostante la pandemia. Tutti dati e criticità prontamente riportati nel suo rapporto di metà anno sulle condizioni di detenzione in Italia. In un carcere sconvolto dalle immagini della mattanza avvenuta nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere, questa della violenza non è infatti l’unica emergenza che riguarda il sistema penitenziario italiano. Antigone sottolinea che sono diverse le problematiche che vanno affrontate con urgenza. Resta presente quella del sovraffollamento con un tasso che supera il 113% con oltre 53.000 detenuti a fronte di 47.000 posti disponibili. Per affrontare la questione, secondo Antigone basterebbe incentivare le misure alternative. Sono poco meno di 20.000 i detenuti che, con un residuo pena di meno di 3 anni, potrebbero accedervi. Un ulteriore intervento potrebbe riguardare una modifica della legge sulle droghe. Un detenuto su quattro ha una diagnosi di tossicodipendenza e queste persone andrebbero prese in carico dai servizi territoriali per affrontare la loro problematica e non chiusi in un carcere. Il rapporto di Antigone osserva che nel 2021 fino al 15 luglio, secondo il dossier “Morire di carcere” di Ristretti, i suicidi sono stati 18, di cui 4 commessi da stranieri e i restanti da italiani. Il più giovane aveva 24 anni e il più anziano 56. Nel 2020 i suicidi sono stati 62 e il numero di suicidi ogni 10.000 detenuti è stato il più alto degli ultimi anni, raggiungendo gli 11. Per quanto riguarda i casi di autolesionismo, per il primo trimestre del 2021 la Relazione al Parlamento del Garante Nazionale ne riporta 2.461. Nel 2020 sono stati 11.315, in aumento rispetto agli anni passati. Sempre Antigone, nel rapporto di metà anno, osserva che l’universo delle misure di sicurezza per pazienti psichiatrici autori di reato va incontro ad un “autunno caldo”. A giugno la Corte Costituzionale ha emesso un’ordinanza istruttoria (n. 131/ 2021) con cui ha posto alcune domande sul concreto funzionamento del sistema Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. La Corte vuole sapere se la capienza delle Rems è adeguata ai “bisogni”, quanto sono lunghe e come vengono gestite le “liste d’attesa”. Le 32 Rems italiane che ospitano circa 550 persone internate potrebbero dunque andare incontro a una stagione di cambiamenti e sono pendenti alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo alcuni ricorsi riguardanti pazienti destinati alle Rems che “attendono” il posto in carcere. Intanto però, viene sottolineato nel rapporto, rimangono sul tavolo tutti i problemi della tutela della salute mentale in carcere, gli istituti penitenziari continuano ad ospitare Articolazioni per la salute mentale con enormi criticità. Il rapporto di Antigone rileva che ogni anno vengono spesi i circa 3 miliardi per il funzionamento delle carceri per adulti e i 280 milioni per il sistema di giustizia minorile e alle misure alternative alla detenzione. Dei 3 miliardi che sono stati destinati al carcere per il 2021, il 68% è impiegato per la polizia penitenziaria, la figura professionale numericamente più presente con oltre 32.500 agenti. Il divario con l’organico previsto dalla legge (37.181 unità) si attesta a circa 12,5%. Secondo i dati raccolti durante le visite dell’osservatorio di Antigone fra 2020 e 2021, il numero di detenuti per agente è di 1,6. Diversa la situazione dei funzionari giuridico- pedagogici che, con un organico previsto di 896, sono ad oggi poco più di 730 (- 18,4%). Il rapporto medio rilevato dall’Osservatorio di Antigone è di 90 detenuti per ogni educatore, ma in 24 istituti sui 73 visitati fra il 2020 e 2021 questo numero sale a ben oltre 100. Infine, anche nel caso dei direttori, l’Osservatorio di Antigone riporta che nel 35,1% dei 73 istituti visitati non vi sia un direttore incaricato solo in quell’istituto. La speranza è che i recenti concorsi di assunzione aiutino a colmare questi divari, ma sarebbe necessario aumentare gli organici di funzionari giuridico- pedagogici perché possano svolgere le loro funzioni in maniera efficace in tutti gli istituti. Non solo Santa Maria Capua Vetere, ecco le carceri di torture e violenze di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 30 luglio 2021 In un rapporto di Antigone si segnalano i casi di San Gimignano, Torino, Monza. Negli istituti penitenziari un sovraffollamento del 113% con picchi del 200% a Brescia. Non solo Santa Maria Capua Vetere. In un rapporto redatto dall’associazione Antigone sono segnalate altre tre carceri in Italia dove gli agenti penitenziari sono stati coinvolti in reati di tortura, violenze, lesioni aggravate, e altri due (Opera e Pavia) dove le indagini per reati simili sono in corso. Antigone è attualmente impegnata in 18 provvedimenti, la maggior parte in corso di verifiche. Questo in un panorama dove a giugno del 2021 il tasso di sovraffollamento degli istituti penitenziari ha raggiunto il 113,1%, ovvero 53 mila 637 detenuti con una capienza di 50 mila 779 posti. Ma questo per i dati ufficiali che si stima essere inferiori al reale sovraffollamento, e dove ben undici istituti ha un sovraffollamento superiore al 150%, con picchi del 200% a Brescia, del 180% a Grosseto, 170,2% a Brindisi e Crotone, poi Bergamo con il 168%. In più di un istituto su tre non ci sono le docce nelle celle e nel 31% dei casi non c’è acqua calda. Carcere di San Gimignano - Il 28 agosto 2019 nel carcere di San Gimignano 15 agenti sono stati arrestati per un brutale pestaggio avvenuto l’11 ottobre 2018 i danni di un detenuto di 31 anni. Dopo un esposto di Antigone, il 26 novembre 2020 5 agenti che non hanno optato per il rito abbreviato vengono rinviati a giudizio per tortura: la prossima udienza è fissata per il 28 settembre 2021. i 10 agenti che hanno scelto il rito abbreviato sono stati condannati per tortura e lesioni aggravate. Carcere di Torino - Nel carcere di Torino nel mese di luglio 2021 è stato chiesto il rinvio a giudizio per 25 tra agenti e operatori, tra cui il direttore del carcere per violenze tra il 2017 e il 2018. Tredici sono stati arrestati e tra i reati contestai c’è anche quello di tortura. Anche in questo caso c’era stato un esposto di Antigone. Carcere di Monza - Nel carcere di Monza sono 5 i poliziotti penitenziari rinviati a giudizio il 2 luglio 2021 per lesioni aggravate e altri reati: la prima udienza dibattimentale è fissata per il 16 novembre 20121. Il 25 settembre Antigone aveva depositato un esposto dopo aver ricevuto una telefonata da parte di una persona che aveva raccontato di una violenta aggressione fisica nei confronti del fratello. Detenuti in attesa di giudizio - Nelle nostre carceri italiane un detenuto su sei è in attesa del primo grado di giudizio, più di uno su tre deve scontare pene inferiori ai tre anni. Un detenuto su quattro è tossicodipendente, più di un detenuto su tre è in carcere per violazione della legge sulla droga. Nel 202o il tasso dei suicidi è stato il più alto degli ultimi anni, con 11 persone che si sono tolte la vita ogni 10 mila carcerati (62 in numero assoluto). Soltanto il 4,2% della popolazione carceraria sono dove e con loro ci sono 29 bambini sotto i tre anni. Giustizia, la prima vera battaglia di Stefano Folli La Repubblica, 30 luglio 2021 La riforma Cartabia non è essenziale solo per ottenere i fondi del Pnrr. In verità è fondamentale per migliorare la convivenza civile e restituire al cittadino fiducia nell’efficienza della magistratura. Il tentativo dei Cinque Stelle di affossare la riforma della giustizia prima ancora che arrivasse in Parlamento non è riuscito. Allo stesso modo si è infranta la speranza di modificare il testo fino a cambiarne il senso attraverso la valanga degli emendamenti. L’aspro confronto è durato più di cinque ore, con il Consiglio dei ministri sospeso. Sono stati introdotti quei correttivi - pochi - che il premier e Marta Cartabia avevano giudicato fin dall’inizio compatibili con l’impianto riformatore: in sostanza la garanzia del regime speciale per i processi di mafia all’interno di un periodo transitorio previsto fino al 2024. Regime speciale significa che viene aggirato il rischio della prescrizione con delle norme “ad hoc”, così da venire incontro alle riserve espresse da molti magistrati e dal Csm. Non si può certo dire che i Cinque Stelle abbiano vinto: nemmeno le esigenze mediatiche possono indurre i vertici del movimento a sostenere una simile tesi. Tuttavia Conte e i suoi, come si dice in questi casi, hanno in qualche misura salvato la faccia. Poteva essere una disfatta, è stata solo una sconfitta resa meno cocente dal lungo braccio di ferro: in parte autentico, in parte a uso dei militanti costernati e dei gruppi parlamentari perplessi. Alla fine il castello retorico costruito dall’ala oltranzista su presupposti fantasiosi - vale a dire che bastava tener duro per piegare Draghi - è crollato. Come ha detto Conte: “Non è la nostra riforma, però l’abbiamo migliorata”. In realtà la minaccia di uscire dal governo non è mai stata credibile. Non lo avrebbe permesso Grillo, l’altro uomo della diarchia; non lo avrebbe mai voluto Di Maio. Conte ha fatto del suo meglio per tenere insieme il M5S sapendo peraltro che il sentiero era già tracciato, a meno di non procedere a un suicidio politico di massa. Oggi di sicuro qualcuno dirà che il movimento è ugualmente defunto poiché ha ammainato la bandiera anti-Cartabia e anti-Draghi. Ma sono frasi polemiche. È vero che finisce un equivoco: l’idea che Conte fosse l’uomo adatto per interpretare una linea politica bizantina, un piede nel governo e uno fuori; appoggiare il presidente del Consiglio e al tempo stesso insultarlo. Questa velleità si è esaurita ieri, quando il Consiglio ha approvato l’ultima versione della riforma e tutti gli emendamenti sono stati ritirati. Restano le residue incognite del passaggio alla Camera, più contenute rispetto ai timori di due giorni fa. Per Draghi il significato della giornata consiste nell’aver consolidato il profilo della sua leadership alla vigilia del semestre bianco. Non vuol dire, s’intende, aver cancellato le spine che attraversano la maggioranza. I prossimi mesi saranno faticosi e carichi di insidie. Ma ieri è stata vinta una battaglia cruciale, dal momento che la riforma della giustizia non è essenziale solo per ottenere i fondi del Pnrr. In verità è fondamentale per migliorare la convivenza civile e restituire al cittadino fiducia nell’efficienza della magistratura. Quanto ai partiti, i Cinque Stelle dovranno decidere se Conte è il loro capo, pur senza considerarlo il demiurgo che risolve le infinite contraddizioni del mondo “grillino”. Lo stesso Conte dovrà dimostrare lealtà verso il governo e gli accordi sottoscritti, quali che siano le pressioni a cui verrà sottoposto. E il Pd dovrà decidere se valuta ancora i 5S degli alleati affidabili. Giustizia: riforma ambiziosa, metodo pessimo di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 30 luglio 2021 La travagliata gestazione della proposta governativa per la riforma del processo penale giunge ora alla approvazione a tamburo battente del Parlamento, con l’annuncio che non ci saranno modifiche possibili perché in caso contrario il governo porrà la questione di fiducia: annuncio inusuale perché formulato prima ancora che il testo fosse definito ed eventuali difficoltà di approvazione manifestate. Con l’aggiunta anche della data immediata entro la quale il Parlamento approverà la proposta governativa. Il testo è il frutto di trattative con i partiti della maggioranza, gestite dal presidente del Consiglio e dalla ministra della giustizia. Qualche dichiarazione e qualche indiscrezione hanno raggiunto l’opinione pubblica. Il valore della pubblicità che connota il processo legislativo in Parlamento è vanificato. Dopo anni di decadimento dei principi costituzionali sul processo legislativo e sul rapporto tra governo e Parlamento assistiamo ad una forzatura, tanto più preoccupante perché riguarda un tema proprio del nucleo centrale della sovranità dello Stato: quello della potestà punitiva. Di questo infatti si tratta, quando si disciplinano le regole del processo penale e si definisce quando e come lo Stato rinuncia a punire la violazione della legge penale: la prescrizione dei reati e ora l’inedita improcedibilità che vi si sovrappone ne sono l’applicazione. La riforma che sta per divenire legge è di ampio respiro. Essa contiene norme fortemente innovative per ridurre l’area del giudizio penale, almeno per quanto riguarda la forma piena e gravosa del dibattimento, e del carcere come sanzione principale. Essa introduce nuove vie per evitare il processo mediante le restituzioni e le riparazioni da parte dell’imputato, maggior cura per gli interessi delle parti offese, più larghe possibilità di patteggiamento della pena, nuove possibilità di giustizia riparativa ecc. Di queste novità si parla poco e non sono oggetto dell’attenzione dei partiti. Non sono di immediata applicazione poiché si tratta dell’oggetto di una delega al governo, che dovrà produrre articolati decreti legislativi, traduzione in norme di studi sviluppati da tempo dalla cultura giuridica italiana ed europea. Le modalità con cui si è giunti alla definizione del testo di riforma sembrano però ignorare che non siamo nel deserto delle idee. Oltre e prima degli interessi di partito vi sono in Italia ambienti professionali che hanno maturato esperienze e sviluppato conoscenza e cultura, in un campo che vede convivere con le esigenze pratiche il rigore di principi e valori: le une e gli altri conosciuti dagli esperti pratici e dagli studiosi. Dopo il lavoro svolto dalla Commissione degli esperti nominata dalla ministra della giustizia, nessuna delle osservazioni, degli argomenti critici, degli allarmi lanciati da istituzioni e da singoli esperti (da ultimo, il parere espresso dal Consiglio superiore della magistratura e l’intervento di quattro autorevoli processualisti) ha trovato riscontro. Non dico accoglimento, ma segno di attenzione e magari un principio di risposta, per dire che le critiche non sono fondate. Eppure non si sarebbero dovuti trattare argomenti seri, civilmente esposti, come fossero parte di una campagna urlata, offensiva, con la quale effettivamente il dialogo può esser difficile. Nemmeno l’indicazione che il sistema della decadenza del processo senza decisione nel merito dell’accusa entra in collisione con il diritto dell’Unione e con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani sembra aver impensierito un governo che pur si identifica nell’europeismo. Anche dalla nostra Costituzione, d’altra parte, si trae il diritto degli imputati a vedersi assolti o condannati, dopo che lo Stato ha iniziato nei loro confronti un processo penale. La fretta di ottenere un testo di riforma approvato dal Parlamento ha anche impedito ciò che un governo dovrebbe invece gradire e sollecitare in simile importante materia: lo studio e l’approfondimento nelle sedi in cui si studia e si approfondisce. Per esempio, invece di scegliere di gettare alle ortiche le sentenze di primo grado, quando le Corti di appello o di Cassazione non osserveranno di termini di ragionevolezza stabiliti dalla legge, non si è nemmeno iniziato a pensare se non sia meglio studiare come far sì che le entrate nel circuito processuale siano tali e tante da consentire la loro conclusione: con tutta la depenalizzazione che si può fare, con l’approfondimento del tema dell’organizzazione degli uffici giudiziari nel suo rapporto con le scelte di priorità, che non riguarda le sole Procure della Repubblica, ma il sistema processuale nel suo complesso. I nuovi sistemi di deflazione dei procedimenti sono infatti palesemente insufficienti. Ma, non ostante che nessuna delle nuove norme sia di prossima applicazione a causa della lunga transizione stabilita, nulla di ciò è stato fatto. Gli esperti sono stati degradati a tecnici, facendo credere che si tratti dei difensori di un vecchio, inaccettabile sistema di potere. Il risultato, sul punto delle prescrizioni, è senza pregio e pieno di rischi. E, per una riforma che si vuole ambiziosa, il metodo è stato pessimo. Peccato. Giustizia: toghe e doppie verità di Paolo Mieli Corriere della Sera, 30 luglio 2021 Il cento per cento dei magistrati in servizio si è pronunciato contro il progetto Cartabia sostenendo che se non fosse stato cambiato avrebbe provocato al nostro Paese danni incalcolabili. Ma ora che è stato rivisto dovrebbero festeggiare. Lo faranno? Colpisce che il cento per cento dei magistrati che si sono fin qui pronunciati sulla riforma Cartabia abbiano espresso dissenso. Dissenso manifestato senza il ricorso ad eufemismi, anzi in termini assai impegnativi. È vero che due o tre di questi magistrati (quattro se comprendiamo Luciano Violante) hanno aperto qualche spiraglio al progetto messo a punto dalla ministra della Giustizia assieme a un gruppo di valenti giuristi. Ma erano toghe in pensione: quelle tuttora in servizio hanno sparato alzo zero contro il provvedimento che, secondo i loro calcoli, avrebbe consentito il ritorno in libertà di centinaia di migliaia di delinquenti. Proprio così: centinaia di migliaia. E avrebbe altresì provocato la fine dello stato di diritto nonché, forse, della democrazia riconquistata con la Resistenza. Anche personalità fino ad oggi conosciute come poco inclini alle esagerazioni hanno fatto ricorso a quel genere di toni. Sia come singoli che come capi delle organizzazioni di categoria. Ripetiamo: il cento per cento dei magistrati in servizio, presa la parola, si è pronunciato contro il progetto Cartabia votato all’unanimità dal precedente Consiglio dei ministri sostenendo che se fosse rimasto com’era e non fosse stato cambiato con una seconda decisione unanime, quella di ieri sera, avrebbe provocato al nostro Paese danni incalcolabili. In casi come questo si è soliti sostenere che non tutti i magistrati la pensano come quelli che intervengono pubblicamente. Ma tenderemmo a escludere che ciò corrisponda al vero perché, se così fosse, dopo quasi trent’anni di riproposizione di questo copione, dovremmo pensare che tra pubblici ministeri e giudici non ce ne sia uno, neanche uno, capace di manifestare il proprio dissenso dal pensiero prevalente tra i colleghi. Tutti senza coraggio? Impossibile. Più verosimile che, con maggiore o minore intensità, siano d’accordo tra loro. A questo punto si pone una domanda: cosa ha reso possibile questa unanimità delle toghe contro Mario Draghi e Marta Cartabia? La risposta può essere di due tipi. La prima - con maggiori probabilità di esser vicina al vero - è che il precedente accordo raggiunto dalla ministra avesse un carattere eccessivamente compromissorio; che lei e i saggi che l’hanno affiancata non si rendessero conto dello spropositato numero di mafiosi, terroristi e malfattori di ogni specie che grazie al loro provvedimento (nella prima versione) avrebbero riacquistato libertà; e che l’intero Consiglio dei ministri avesse concesso luce verde a questo piano nell’intima (e cinica) certezza che qualcun altro l’avrebbe rimesso in discussione. Fosse vero, dovremmo ringraziare quei parlamentari del M5S che con rapidità, resisi conto dei rischi, hanno ottenuto il nuovo compromesso che impedirà a mafiosi, terroristi e delinquenti d’ogni risma di uscire di prigione. E che risparmierà all’Italia un provvedimento che avrebbe “minato la sicurezza del Paese”. L’altra ipotesi di spiegazione - assai meno plausibile della precedente, anzi, ammettiamolo, quasi inverosimile - è che la magistratura italiana sia ormai divenuta un corpo malato. Un insieme in cui uomini e donne si lasciano rappresentare da avanguardie impegnate a combattersi le une contro le altre a colpi di dossier. Che le loro istituzioni, a cominciare dal Csm, stiano sprofondando, anzi siano già sprofondate nel più assoluto discredito. Che correnti e sottocorrenti abbiano standard di moralità minori di quelli che avevano i partiti politici all’epoca della loro massima degenerazione. Che procure, passate alla storia come templi della legalità, siano oggi sconvolte da lotte fratricide in cui è consuetudine l’accoltellamento alla schiena. Luoghi in cui sarebbe divenuto lecito nascondere le prove a vantaggio degli imputati. Dove è pratica corrente spedire anonimamente a colleghi e media verbali finalizzati a minare la credibilità di un qualche “nemico”. E di servirsi in tal guisa di astutissimi “pentiti” ben consapevoli dei servizi che si prestano a rendere. In questi Palazzi di giustizia sarebbe venuto meno ogni spirito di lealtà nei confronti dei capi. Capi che verranno sì sostituiti ma continueranno ad esser nominati da un Csm abbondantemente avvelenato. Se la magistratura italiana fosse precipitata in questo abisso - cosa che non crediamo, anche se qualche rischio lo si può intravedere in lontananza - allora le prese di posizione di alcune toghe contro Draghi e la Cartabia andrebbero interpretate come un accorto posizionamento in vista di un cataclisma prossimo venturo. Una scossa tellurica nel corso della quale potrebbero venire alla luce le malefatte di molti, talché alcuni togati avrebbero ritenuto conveniente assumere la postura di indomiti alfieri della legalità capaci di mettere con le spalle al muro l’ex Presidente della Corte costituzionale. Tali posture potrebbero valere, nell’immediato, per promozioni che verranno fatte con gli stessi criteri adottati in passato. Ed essere eventualmente considerate un titolo di benemerenza nel momento in cui giungesse l’ora del redde rationem. Ma ora che il governo è stato in grado di giungere ad un secondo compromesso ci aspettiamo che i magistrati ne prendano atto e festeggino lo scampato pericolo. E che siano unanimi anche in questi festeggiamenti. Le minacce di astensione e la telefonata con Grillo. Poi Conte strappa l’intesa di Ilario Lombardo La Stampa, 30 luglio 2021 Chiamate preoccupate anche dal Quirinale. La mediazione di Giorgetti. Il premier ha rischiato il rinvio di un’altra riforma dopo fisco e concorrenza. È il tono della voce - di solito controllato, pacato, piatto - che tradisce con il passare delle ore il nervosismo di Mario Draghi. La voce, raccontano i ministri che hanno partecipato in prima linea alle trattative, si indurisce e rompe gli argini della pazienza quando il presidente del Consiglio capisce che nessuna delle due parti è disposta a cedere sulla riforma del processo penale. Né il M5S che si impunta su un comma, contenitore di molti reati-satellite di mafia, per neutralizzare il più possibile la prescrizione. Né la Lega, Italia Viva e Forza Italia, decisi a non concedere più nulla ai 5 Stelle. La mediazione alla fine arriverà, e Draghi per questo ringrazierà soprattutto il ministro leghista Giancarlo Giorgetti, per aver trovato il modo di rendere conciliabili posizioni inconciliabili. Sulla scena principale ci sono tre avvocati: da una parte Giuseppe Conte per il M5S, dall’altra Giulia Bongiorno, senatrice della Lega, difensore di Giulio Andreotti e di Matteo Salvini, e Niccolò Ghedini, senatore di Forza Italia e legale di Silvio Berlusconi. Sono loro a sfidarsi a distanza sui tecnicismi dell’improcedibilità. Ma concentrarsi troppo su quel punto dell’articolo del Codice di procedura penale, il 416 bis 1, che riguarda l’aggravante mafiosa di particolari delitti, sarebbe riduttivo per spiegare cosa davvero è avvenuto in una mattina e in un pomeriggio dove fino all’ultimo si è rischiato di scivolare nell’ennesima crisi di governo agostana. Una tensione arrivata talmente al limite da aver trascinato dentro le trattative il Quirinale e Beppe Grillo. Interessi, strategia, propaganda: è la politica, pura, che si riprende la scena, e si impone su un’armonia artificiale, creando una profonda smagliatura al governo di unità nazionale. Non è quello che si aspettava Draghi per il 29 luglio, a quattro giorni all’inizio del semestre bianco, quando non sarà più possibile sventolare la minaccia dello scioglimento del Parlamento e delle elezioni anticipate. Il premier aveva promesso all’Europa per la fine del mese il via libera a tre riforme: giustizia, concorrenza, fisco. Le prime due sono considerate da Bruxelles vincolanti per i soldi del Recovery. Al mattino, dopo una notte di trattative che sembrano non portare a nulla, davanti al premier si materializza l’incubo di non veder approvata nessuna delle tre. Non il fisco e la concorrenza, rinviate a settembre, né, forse, la giustizia sulla quale la maggioranza è nello stallo più totale. È il motivo che spinge Draghi a tentare una forzatura. Convoca il Consiglio dei ministri alle 11.30, ma senza ordine del giorno. Vuole piegare Conte e i 5 Stelle, che ancora insistono ad avere correttivi alla legge e non si sentono abbastanza garantiti sui reati di mafia, terrorismo e violenza sessuale. Il Cdm inizierà solo un’ora e mezza dopo e verrà quasi subito interrotto per una lunga sospensione. Le riunioni con il M5S sono continue. Per Conte è la prima vera trattativa. La segue dalla Camera, in contatto continuo con i ministri e la sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina. Attorno a lui ci sono i capigruppo, e diversi parlamentari. Sa che il confronto sarà durissimo e iper-tattico. “Se il testo della riforma rimane quello per noi è no”, fa sapere al premier, con cui si sente ripetutamente. Ancora nessuno ha il coraggio di pronunciare la parola “astensione”. I 5 Stelle lo faranno all’ora di pranzo, prima dell’inizio del Cdm. “Sei sicuro?” chiedono i ministri a Conte. “Sì - è la risposta - sulla mafia non si transige”. Ce l’ha soprattutto con la Lega e le resistenze che oppone, come gli spiegano Draghi e la ministra Marta Cartabia. La crisi, fino a quel momento poco più che una fantasia estiva, diventa realtà sulla bocca di Luigi Di Maio. È lui a chiedere a Conte fino a che punto intende spingersi. Ed è sempre lui a chiarire a Draghi il rischio che sta correndo. Non sarà come è avvenuto quando la Lega si astenne in Consiglio dei ministri sul decreto delle riaperture, a fine aprile. L’astensione dei 5 Stelle sarà seguita da un voto contrario in Parlamento, anche nel caso in cui il governo dovesse imporre la fiducia sul testo. “Sarebbe la fine del governo di unità nazionale”. È in quel momento che Draghi capisce che fanno sul serio e interrompe il Cdm per trovare una mediazione. Scongiurare il peggio diventa l’imperativo di tutti. Del presidente della Repubblica Sergio Mattarella che, secondo quanto riportano fonti qualificate, si informa di quello che sta accadendo con Palazzo Chigi, con Di Maio e con Conte. Ma anche Di Beppe Grillo che sente al telefono il ministro degli Esteri e viene aggiornato dall’ex premier sulla decisione, condivisa con ministri e parlamentari, di astenersi in caso di mancato accordo. Conte entra ed esce continuamente dall’ufficio della Camera, per rispondere al telefono. Lo chiamano anche dal Pd. Lo implorano di concedere una mediazione. Trovano un compromesso fissando per i reati del 416 bis 1 l’improcedibilità solo dopo 5 anni. Di fatto è un’eternità e ai 5 Stelle può andar bene, ma solo a patto che emerga come si è comportata la Lega: “Mi rammarica il comportamento della Lega - dice Conte - che in pubblico usa slogan contro la mafia e poi, lontano dalle telecamere, ci ha fatto una durissima opposizione”. Addio al “fine processo mai” col sì dei ministri grillini di Errico Novi Il Dubbio, 30 luglio 2021 Ok del governo al testo “Cartabia 2”. Vincono Draghi e la guardasigilli: no del Movimento alla prima bozza, decisivo il restyling che lascia 5 anni in appello per chi “agevola” i clan. Riscriveranno un giorno la storia del lodo Draghi e forse si scoprirà che il premier ha avuto un colpo di genio, una finta di quelle che riescono ai grandi campioni, da Garrincha in su. Prima mette sul tavolo un nuovo emendamento Cartabia che recepisce quasi tutte le richieste. Incluse quelle della Lega, ma soprattutto dei 5 Stelle. Tutte. Tranne una. Nel ddl penale riveduto e corretto in mattinata da Draghi e Cartabia c’è un processo “no limits” almeno potenziale per il 416 bis e il terrorismo, oltre che per il narcotraffico in forma associativa e la violenza sessuale su minori o di gruppo. C’è persino lo scambio politico-mafioso, l’arcinoto 416 ter del codice penale. Manca una cosetta che, a confronto del resto, pare un dettaglio insignificante: la mannaia dell’improcedibilità non è esclusa per il 416 bis 1, l’articolo che punisce i reati commessi da soggetti non intranei al consesso criminale ma che comunque “agevolano” i boss, ivi incluso il generico concorso esterno. Apriti cielo. Ministri 5 Stelle che fanno sapere alle agenzie “così non ci stiamo”. Sembra una barzelletta. Consiglio dei ministri sospeso, capigruppo e commissione Giustizia della Camera disperate, ad alambiccare sui tempi del voto. Tragedia politica. Tutto quanto sopra si verifica poco prima delle 15. Poi dopo quasi tre ore, la sorpresa: “Accordo raggiunto”. Lo comunica proprio uno dei ministri pentastellati, il responsabile ai Rapporti col Parlamento Federico d’Incà: “Accordo unanime”. Roba da non credere. Cosa è successo? Testualmente, che Mario Draghi presenta ai ministri, per il secondo tempo della riunione a Palazzo Chigi, un ulteriore emendamento Cartabia, il terzo della serie se si considera quello salutato con approvazione dagli stessi grillini l’8 luglio scorso. E cosa cambia nella terza e ultima bozza, quella che sigilla il via libera politico al ddl penale? Che i famosi reati del 416 bis 1, quelli appunto di concorso esterno o che agevolano l’associazione mafiosa, rientrano in un “regime speciale”: sono fulminati da improcedibilità dopo 6 anni in appello (5 anni dal 2025 in avanti). Giubilo. Riforma fatta. Si corre in commissione, da domani mattina, e poi in Aula, non più tardi di dopo domani. Su queste colonne era stato anticipato qualche giorno fa, ma non con un carico di suspence degno di Hitchcock (o Garrincha).C’è un ulteriore colpo di classe, nell’accordo al cardiopalmo siglato nel pomeriggio, e porta stavolta la prima firma della professoressa Marta Cartabia: come spiega la stessa guardasigilli a Consiglio dei ministri appena sciolto, c’è pure “l’impegno a ritirare tutti gli emendamenti che erano stati presentati dalle forze di maggioranza”, per “concludere il lavoro in Parlamento su questa importantissima riforma prima della pausa estiva”. Ergo, in commissione Giustizia verrà approvato il solo “maxiemendamento” Cartabia. Da 400, le proposte dei gruppi si riducono alle sole poche decine che provengono da Fratelli d’Italia. Al momento di andare in stampa l’Aula resta formalmente convocata per oggi, ma uno slittamento a domani non guasterebbe i piani di Draghi e Cartabia: resterebbe intatta la possibilità di ottenere il contingentamento dei tempi nell’emiciclo di Montecitorio, in virtù della norma che ne consente l’attivazione “dal mese successivo alla presentazione delle misure in Assemblea”. Dettaglio che contribuisce a rendere l’idea di un piccolo capolavoro di astuzia politica. Di sicuro, la vittoria oltre che al premier va ascritta alla ministra della Giustizia, capace della pazienza necessaria a incassare cazzotti nello stomaco senza perdere la lucidità per il colpo decisivo. “È una giornata importante, lunghe riflessioni e lavoro per venire a un accordo, c’è stata un’approvazione all’unanimità, con la convinzione di tutte le forze politiche” dice Cartabia. Che aggiunge: “Abbiamo apportato degli aggiustamenti alla luce del dibattito molto vivace sviluppato in queste settimane sia da parte delle forze politiche che degli uffici giudiziari”. Riferimento innanzitutto alle obiezioni di Nicola Gratteri e Federico Cafiero de Raho sull’improcedibilità per i reati di mafia. “L’obiettivo è garantire una giustizia celere all’interno della ragionevole durata del processo e, allo stesso tempo, che nessun giudizio vada in fumo”. Come ci si arriva, in dettaglio? Con l’articolo 14 bis, riveduto e corretto, del ddl 2435, l’ormai mitologica riforma del processo penale, presentata l’anno scorso alla Camera da Alfonso Bonafede. In particolare, il 14 bis è immutato nella parte già acclamata a Palazzo Chigi a inizio luglio, vale a dire per l’introduzione dell’improcedibilità dopo 2 anni in appello e 1 anno in Cassazione, esclusi i reati punibili con l’ergastolo e chiarito che l’imputato possa rinunciare alla morte del processo esattamente come per la prescrizione. La riformulazione condivisa oggi all’unanimità dai ministri prevede innanzitutto la norma transitoria suggerita dal Pd, in base alla quale, fino al 31 dicembre 2024, il tempo limite oltre il quale il giudice dichiara improcedibile il giudizio è innalzato a 3 anni in secondo grado e a un anno e 6 mesi in Cassazione. C’è quindi un triplo regime speciale. Il primo qualora il giudizio d’impugnazione sia “particolarmente complesso”: in tal caso, il giudice può concedere una proroga di un anno in più in appello e 6 mesi in sede di legittimità. Il secondo regime speciale, decisivo per l’intesa coi 5 Stelle, riguarda appunto l’articolo 416 bis 1, per il quale il giudice potrà concedere “ulteriori proroghe” di un anno in appello, fino a un totale di 6 anni (che diventano 5 per le impugnazioni proposte dal 1° gennaio 2025 in poi). Infine la terza eccezione, che lascia potenzialmente infinite le “ulteriori proroghe” a disposizione del giudice d’appello (e della Suprema Corte) per i seguenti reati: 416 bis, scambio politico mafioso, terrorismo (se la pena prevista non è inferiore a 5 anni), ma anche i reati inseriti su input di Matteo Salvini e Giulia Bongiorno, ossia la violenza sessuale su minori o di gruppo e l’associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga. Proroghe analoghe anche per i giudizi susseguenti a rinvio in appello. A sfibrante partita chiusa, il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza fa comunque notare che gli scontri a cui si è assistito restano “finalizzati a ottenere norme di valore solo simbolico e mediatico”. Il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa ricorda che “la riforma Bonafede è definitivamente archiviata” e che “questa” è “la notizia”. Matteo Renzi infierisce sulla prescrizione voluta tre anni fa dal Movimento: è “il caro estinto”. Salvini esprime “soddisfazione”, e Andrea Orlando nota il superamento della “irragionevole riforma” del suo successore a via Arenula. Fino a Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione, che pure chiosa in modo indovinato: “Viene finalmente cancellato il fine processo mai e già questo risultato giustifica ampiamente ogni mediazione”. Forse è davvero così. Riforma della giustizia, Draghi impone lo stop: oltre questo limite non possiamo andare di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 30 luglio 2021 Per tre volte l’intesa rischia di saltare. Orlando ricuce, Bonetti pronta a rompere con i 5S. Giorgetti mediatore nel centrodestra. Scoccano le 16, minuto più, minuto meno. Mario Draghi ne ha abbastanza. Pensa che sia giunto il momento di chiudere la partita. Da sei ore, Palazzo Chigi è il terminale delle richieste di Giuseppe Conte. Il Consiglio dei ministri è sospeso. L’atmosfera irreale. Gli ambasciatori 5S hanno appena comunicato che l’avvocato chiede un anno in più sulla prescrizione. È l’ultima di una serie lunga, lunghissima di richieste del leader. Diverse le ha anche portate a casa, su altre ha ricevuto un rifiuto. La minaccia non cambia: “Se non accettate, ci asterremo”. La renziana Elena Bonetti, sdegnata, si infuria: “Lasciamo andare via i Cinque Stelle, basta così!”. Giancarlo Giorgetti e Andrea Orlando dicono che no, “invece bisogna mediare fino alla fine”. Il presidente del Consiglio prende la parola. E traccia il suo confine invalicabile: va bene, sostiene, ragioniamo insieme, ma credo che siamo arrivati al “punto più avanzato possibile”. Significa che non si spingerà oltre. Significa, soprattutto, che il governo andrà avanti comunque, accada quel che accada, perché ha promesso questa riforma a Bruxelles e perché, spiega, non si lascia un Paese in balia di questioni interne ai partiti. Per la prima volta, indica a tutti uno scoglio grande come una potenziale crisi. Montagne russe, come chiamarle altrimenti? Si capisce subito che qualcosa non va. Il consiglio è convocato per le 11.30. Passano dieci minuti. Un’ora. Due ore. I cinquestelle disertano, non ci sono, pare che siano riuniti con Conte. Sì, sono con Conte. Draghi sente il leader 5S. Triangolano con Marta Cartabia, a lungo. A un certo punto il premier si consulta con i suoi e sceglie di aprire comunque l’incontro. È il momento di massima tensione. I ministri chattano tra loro e con i segretari di partito: salirà al Colle? Aprirà una crisi? Matteo Salvini medita di annullare i suoi impegni, Letta segue ogni passaggio. È un atto politico forte, perché il messaggio è chiaro: tiriamo dritto, stasera si approva comunque un testo. Ma vuol dire anche un’altra cosa: se nessuno si presenta, nulla può essere escluso. Alle 14 arriva, trafelata, la delegazione grillina. Draghi, intanto, continua a trattare. Giancarlo Giorgetti è fondamentale, al suo fianco. Media pure Andrea Orlando. Per tre volte l’accordo sembra chiuso. Per tre volte salta. Conte incassa, ma rialza. Patuanelli spiega che un accordo va fatto, “ma Conte sta cercando di tenere assieme i gruppi parlamentari”. “Dateci un po’ di tempo”, aggiunge Federico D’Incà. Il premier non è ostile a concedere correzioni al testo, anzi, pensa che sia giusto andare incontro anche ad alcune richieste della magistratura. È rimasto colpito da alcune posizioni dell’Anm, così come dagli argomenti di una figura come Cafiero De Raho. Ne ha apprezzato la moderazione, il merito. L’orologio macina minuti. Durante il question time alla Camera, pausa benedetta, sembra di nuovo fatta, l’accordo a un passo. Scoccano le 16. È in quel preciso momento che l’avvocato frena. Non è un caso. Poco prima, si era confrontato al telefono con Luigi Di Maio. Colloquio intenso, qualcuno dice aspro. Il ministro degli Esteri, a sua volta in contatto con il Quirinale, consegna all’avvocato una tesi che può riassumersi così: abbiamo ottenuto molto, davvero vogliamo astenerci? Lui è per votare a favore, insomma. Al premier, poco prima, aveva promesso di spendersi per un patto. Ma l’aveva anche pregato di aiutarlo a evitare una scelta mortale per i ministri 5S: governo, oppure partito. Draghi capisce che la situazione sta per sbloccarsi. Sa di poter contare, a questo punto, anche su una fetta rilevante del Movimento. Forza Italia, intanto, vola basso, bassissimo. Non si impunta. Maria Stella Gelmini fa notare che se i 5S resistono a lungo a un’intesa, significa che è passata una “riforma garantista”. Certo, del testo Bonafede non resta molto. Ma è anche vero che Conte ottiene modifiche. E Giancarlo Giorgetti deve spendere ogni energia per farsi garante della compattezza del centrodestra. Il premier apprezza. Lo ringrazia, a riforma approvata. E il braccio destro di Salvini si lascia andare a un attimo di euforia: “Ho salvato il governo”. A fine giornata, Draghi sa di avere a casa una riforma che ha lasciato sul campo parecchi governi. Ma sa anche di aver dovuto mediare duramente, per la prima volta. Non minaccia nulla, ma si lascia alle spalle un consiglio dei ministri lungo otto ore. È uno schema che non può, non deve ripetersi. Dal 3 agosto si apre il semestre bianco, non c’è più lo spettro di elezioni e tutti sono in grado di alzare ancora di più l’asticella. Lui non si presterà ad altre esperienze così, l’ha già fatto sapere. Non può ricapitare che si voti un testo in consiglio e lo si rimetta in discussione. Non si può minacciare l’astensione, o addirittura astenersi come fece la Lega tre mesi fa. Dovesse ricapitare, non spenderà troppe parole e trarrà le conseguenze. Perché la linea è sempre la stessa: guido un governo di unità nazionale, chi vuole sfilarsi si assume le proprie responsabilità. Lui, questo è certo, non si farà trascinare nel pantano. La nuova giustizia: come cambia il processo penale di Francesco Grignetti La Stampa, 30 luglio 2021 Previsto un periodo transitorio per consentire alle Procure di adeguarsi. La Guardasigilli esulta: “Giornata importante, garantiamo che nessun procedimento vada in fumo”. La riforma del processo penale sarà in aula domenica prossima, a partire dalle ore 14. Non è usuale che i parlamentari lavorino di giorno festivo, ma l’urgenza di approvare la riforma è tassativa. Si procederà da subito con il voto delle questioni pregiudiziali, mentre la discussione proseguirà nel pomeriggio e poi nei giorni seguenti. In capigruppo il governo non ha preannunciato né parlato di porre la questione di fiducia, dato che l’accordo di maggioranza prevede che vengano ritirati tutti gli emendamenti da parte dei partiti che appoggiano il governo Draghi. La riforma Cartabia, insomma, superati così faticosamente gli scogli di questi giorni, pare aver messo le ali. “L’obiettivo - dice la ministra Guardasigilli, uscendo dal conclave di palazzo Chigi - è garantire una giustizia celere, nel rispetto della ragionevole durata del processo, e allo stesso tempo garantire che nessun processo vada in fumo. L’aggiustamento più importante è una norma transitoria che ci consente di arrivare ad una gradualità a quei termini che ci eravamo dati e rimangono fissi. La seconda cosa è un regime particolare per quei reati che nel nostro Paese hanno sempre destato allarme sociale - come i reati di mafia, terrorismo, violenza sessuale e il traffico internazionale di droga”. E nonostante una giornata al cardiopalma, che ha messo a dura prova i nervi di tutti, Marta Cartabia mostra una calma olimpica: “È una giornata importante: lunghe riflessioni per arrivare a un’approvazione all’unanimità con convinzione da parte di tutte le forze politiche”. Il nodo dell’improcedibilità - Sulla prescrizione, si profila un sistema misto: ci sarà lo stop della prescrizione dopo la sentenza di primo grado (sia in caso di condanna che assoluzione), ma si fissano tempi certi per i processi d’Appello (2 anni) e di Cassazione (1 anno) in nome del principio costituzionale della ragionevole durata del processo. La riforma riguarderà solo i reati commessi dal 1° gennaio 2020, cioè dopo l’entrata in vigore della legge Bonafede che ha eliminato la prescrizione del reato in appello e in cassazione, creando il rischio di processi infiniti. In caso di mancato rispetto dei termini, cioè se il processo durerà anche un solo giorno più del previsto, scatterà la “prescrizione processuale”, ossia il processo decadrà insieme alla sentenza pronunciata in primo grado o in appello, che sarà rimossa. Il processo decadrà anche se avesse fatto buona parte del suo cammino e fosse in Cassazione. In gergo, si dice che scatta “l’improcedibilità”. Da questo meccanismo sono però esclusi i reati imprescrittibili, cioè tutti quelli punibili con l’ergastolo. Sono previsti periodi di sospensione del termine nelle fasi di stasi del processo (es. legittimo impedimento) e proroghe, di 1 anno in appello e 6 mesi in Cassazione, per tutti i reati, con ordinanza motivata dal giudice sulla base della complessità del processo. Fin qui, il meccanismo per i reati ordinari. Qualora si tratti di mafia, terrorismo, stupro e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti ci sarà la possibilità di più proroghe, senza limiti, ma sempre motivate. La mediazione più difficile - Il braccio di ferro che ha rischiato di spaccare la maggioranza ha riguardato i reati speciali. È filato tutto liscio per quelli di terrorismo, stupro, e traffico di stupefacenti. Per questi, come detto, il binario è diverso rispetto agli ordinari: non c’è la imprescrittibilità formale come per i reati da ergastolo, di contro è caduto il limite alle proroghe, sempre motivate dal giudice. In sostanza, la imprescrittibilità è sostanziale. Sui cosiddetti reati di mafia, invece, c’è stato un duro braccio di ferro. In realtà il meccanismo di cui sopra è stato accettato da tutti i partiti finché si tratta di processi per associazione a delinquere di stampo mafioso (416 bis) e quelli per voto di scambio politico-mafioso (416 ter). Il dissidio è insorto sui reati dove è contestata l’aggravante mafiosa (416 bis, punto primo). Va spiegato che nelle regioni del Sud dove la mafia è onnipresente, i processi per mafia si tengono essenzialmente per 416 bis. La variante dell’aggravante mafiosa conta invece da Roma in su. Il processo al clan Spada, a Ostia, per dire, quello della famosa testata al giornalista, s’è giocato tutto sull’aggravante mafiosa. Togliere questi reati dal binario speciale e metterli tra gli ordinari avrebbe significato un grosso rischio. L’accordo è che a regime, dal 1° gennaio 2025, i processi dove è contestata l’aggravante mafiosa potranno essere allungati con un massimo di 2 proroghe in Appello (ciascuna di un anno e sempre motivata) e 2 proroghe in Cassazione (ciascuna di 6 mesi e sempre motivata). I riti alternativi - Con formulazioni meno incisive di quanto avesse proposto la commissione di saggi, la riforma Cartabia prevede comunque di favorire i riti alternativi per deflazionare i processi. Nel patteggiamento, si prevede che, quando la pena detentiva da applicare supera due anni (il cosiddetto patteggiamento allargato), l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata, nonché alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare. Nel giudizio abbreviato, si prevede tra l’altro che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto, qualora l’imputato rinunci alla impugnazione, accettando quindi che la sentenza sia immediatamente eseguibile, e che la riduzione sia applicata dal giudice dell’esecuzione. Con la riforma si trasformano anche alcune misure alternative, attualmente di competenza del Tribunale di Sorveglianza, in sanzioni sostitutive delle pene detentivi brevi, direttamente irrogabili dal giudice della cognizione. Un ulteriore snellimento verrà da un accorgimento che pare banale, ma non lo è: qualora ci sia un mutamento del giudice, perché trasferito, malato o in permesso, o anche di uno o più componenti del collegio, è previsto che il giudice disponga, in caso di testimonianza acquisita con videoregistrazione, la riassunzione della prova solo quando lo ritenga necessario. Attualmente, con il cambio del giudice era necessario quasi sempre ripetere la prova in dibattimento I tempi della riforma - La riforma riguarderà soltanto i reati commessi dopo il 1 gennaio 2020 ed entra in vigore dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della legge. Su sollecitazione dei magistrati, però, il governo si è reso conto che occorreva dare un certo tempo agli uffici giudiziari per metabolizzare la novità e soprattutto per assorbire i rinforzi annunciati. Bisogna tenere conto che, grazie ai miliardi del Recovery Plan, sono in arrivo 16.500 giovani laureati come assistenti dei magistrati, previsti dall’Ufficio del processo, più 5mila unità di personale amministrativo. In tutto vengono immesse oltre 20mila persone, ma con tempi diversi. La riforma perciò entrerà in vigore gradualmente grazie alla cosiddetta norma transitoria, che vale fino al 31 dicembre 2024. In questo periodo di transizione, i termini saranno più lunghi per tutti i processi, e cioè vengono concessi 3 anni in Appello; 1 anno e 6 mesi in Cassazione per ogni tipologia di reato. Avranno anche la possibilità di una proroga: in totale, fino a 4 anni in appello e fino a 2 anni in Cassazione. Ogni proroga dovrà essere motivata dal giudice con ordinanza, sulla base della complessità del processo, per questioni di fatto e di diritto, e per numero delle parti. Contro l’ordinanza di proroga, sarà possibile presentare ricorso in Cassazione. I limiti sono stati introdotti per salvaguardare il diritto costituzionale alla ragionevole durata del processo. Con la Bonafede, infatti, il processo non avrebbe più avuto limiti. Il Csm vota il no alla riforma Cartabia: “Drammatiche ricadute” di Simona Musco Il Dubbio, 30 luglio 2021 Il Csm boccia ufficialmente la riforma Cartabia. Proprio mentre in Consiglio dei ministri i partiti trovavano l’intesa, a Palazzo dei Marescialli l’assemblea ha votato le due delibere elaborate dalla sesta Commissione, con le quali sono state cassate le norme volute dalla ministra della Giustizia, prima fra tutte quella sulla improcedibilità, pensata per stemperare lo stop alla prescrizione introdotto dall’ex guardasigilli Alfonso Bonafede. Un meccanismo che, secondo il plenum, determina “l’irrazionalità complessiva del sistema”, con il rischio di “rilevanti e drammatiche ricadute pratiche” delle nuove norme “in ragione della situazione di criticità di molte delle Corti D’Appello italiane”. La prima delibera è stata approvata con 16 voti a favore e tre contrari, quelli dei laici della Lega Emanuele Basile e di Fi Alessio Lanzi e della togata di Mi Maria Tiziana Balduini, con quattro astensioni, quelle del laico della Lega Emanuele Cavanna e dei togati di Mi Loredana Micciché, Paola Braggion e Antonio D’Amato. Prima del voto, il plenum ha respinto l’emendamento sostitutivo proposto dal consigliere Lanzi, secondo cui la riforma Cartabia, seppur con qualche criticità, “nell’attuale sistema politico è l’unica soluzione concretamente e politicamente possibile”. Così, invitando a ragionare in termini di “realpolitik” ed evidenziando l’occasione di poter usufruire di ingenti fondi per riformare la giustizia, ha invitato i consiglieri ad eliminare dal parere termini “da tregenda” e a ragionare sull’esigenza di arrivare ad un processo che non duri all’infinito. Illustrando il parere, il presidente della sesta commissione, il laico M5S Fulvio Gigliotti, ha sottolineato “la dubbia compatibilità” della norma sull’improcedibilità con “fondamentali principi dell’ordinamento, da quello dell’obbligatorietà dell’azione penale a quello di ragionevolezza ed eguaglianza”. Gigliotti ha poi segnalato “l’insostenibilità pratica” della riforma che comporterebbe, “in numerosi distretti giudiziari, l’impossibilità di portare a conclusione un gran numero di processi”. “Nessuno pensa che un processo debba durare 10-15 anni - ha sostenuto il togato di Area Giuseppe Cascini. E tutti siamo consapevoli del fatto che l’Europa ci chiede di ridurre i tempi di durata dei giudizi. Ma la soluzione non può certo essere quella proposta dal governo”. E secondo il togato, il rischio è “la morte di migliaia di processi in appello e in Cassazione e, dunque, una rinuncia dello Stato a perseguire i reati”. Bisognerebbe intervenire, piuttosto, sulle “gravissime patologie del sistema giudiziario italiano, diventate ormai endemiche” la cui “soluzione non può essere quella di mandare in fumo migliaia di processi, e il Csm ha il dovere di segnalare le conseguenze di questa riforma sulla funzionalità degli uffici e sulla resa di giustizia”. Per il procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi, “il contributo del Csm allo sforzo di ridurre i tempi del processo penale è nello spirito della piena collaborazione. Le scelte operate del governo hanno aspetti di grande positività, come in tema di giudizio di appello e Cassazione - ha sottolineato -. Vi sono però profili critici da evidenziare, pur nella condivisione delle scelte di fondo. Ad esempio, l’opzione per la improcedibilità dopo la sentenza di primo grado dovrebbe essere collegata alla stasi del processo causata da inerzia e non a termini perentori, analoghi a quelli della prescrizione ma più brevi”. Secondo Giuseppe Marra, togato di Autonomia e Indipendenza, “il principio costituzionale della ragionevole durata deve convivere con altri principi costituzionali come quello del diritto alla effettiva tutela giurisdizionale, che riguarda anche le vittime dei reati, le quali hanno un diritto ad ottenere giustizia con sentenze che accertino i fatti e le responsabilità dei reati, prospettiva che l’istituto della improcedibilità ignora”. Per il laico M5S Alberto Maria Benedetti, una norma così fatta rappresenterebbe anche una sorta di incentivo a delinquere, in quanto “se i processi si estinguono e le pene non si applicano chi vuole delinquere ha molte speranze di farla franca”. Durante il plenum è intervenuto anche il primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio. Secondo cui il Csm “doveva esprimere le sue critiche, perché il legislatore sappia quali saranno gli effetti delle sue scelte, nel rispetto delle rispettive competenze”. Secondo Curzio, la disciplina della improcedibilità dei processi penali in Cassazione rischia di mettere in crisi “un settore della Corte che funziona bene e rendere necessario spostare risorse dal civile, settore quest’ultimo sul quale si misurerà la possibilità di usufruire dei finanziamenti del Pnrr”. Il plenum ha dunque votato anche la seconda delibera, che tocca, in particolare, il tema dell’equilibrio tra il potere legislativo e quello giudiziario. L’assemblea ha dato l’ok al parere con 17 voti a favore, il solo voto contrario del laico della Lega Emanuele Basile e l’astensione dell’altro laico in quota Lega, Stefano Cavanna, e dei vertici della Cassazione, il primo presidente Piero Curzio e il procuratore generale Giovanni Salvi. Uno dei rilievi mossi riguarda la possibilità, per il Parlamento, di definire dei criteri di priorità nella trattazione degli affari. Ciò, secondo il Csm, rischia infatti di sbilanciare “l’attuale assetto dei rapporti tra i poteri dello Stato”, in quanto il potere legislativo potrebbe così “orientare” la funzione giudiziaria sulla base dei valori delle maggioranze politiche del momento. Ciò che conta, invece, è “la condizione oggettiva dell’ufficio e della realtà criminale insistente nel territorio ove esso si colloca”. Riccardo Magi: “Non solo prescrizione. Riformiamo la Carta su amnistia e indulto” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 luglio 2021 Per il deputato e presidente di +Europa Riccardo Magi, per completare il dibattito sulla giustizia, ampliandolo anche alle questioni di politica criminale, occorre accelerare la discussione sulla modifica costituzionale per abbassare il quorum per amnistia e indulto e puntare alla depenalizzazione per i fatti di lieve entità legati alle droghe, come ci aveva detto qualche giorno fa anche la neo presidente di Md, Cinzia Barillà. Onorevole si torna a parlare di amnistia all’interno della più ampia cornice di riforma della giustizia. Lei è primo firmatario di un progetto di legge costituzionale n. 2456, ispirato al volume “Costituzione e clemenza” curato da Pugiotto, Corleone, Anastasia. Di che si tratta? È urgente riaprire un dibattito sul recupero dell’istituto dell’amnistia e dell’indulto, a 30 anni dall’intervento del Parlamento che nel 1992 di fatto lo sterilizzò, portando il quorum necessario per approvarli ai due terzi dei componenti di ciascuna Camera, che è superiore a quello che serve a modificare la stessa Costituzione. Attraverso questa proposta di modifica dell’articolo 79 Cost. - che attualmente ha raccolto le firme dei colleghi Giachetti, Migliore, Bruno Bossio, ma che spero trovi consenso anche tra quelli di Forza Italia - si vuole ridare praticabilità allo strumento, abbassando il quorum alla maggioranza dei membri del Parlamento e condizionando l’approvazione degli atti di clemenza a due presupposti tra loro alternativi: “situazioni straordinarie”, ad esempio una pandemia che crea emergenza sanitaria in carcere, “ragioni eccezionali”, legate anche ad una riforma radicale in ambito penale. Voglio per questo ringraziare la neo presidente di Magistratura Democratica che ha riportato questa questione nel dibattito. Segnalo anche che pochi giorni fa il senatore dem Zanda ha chiesto di riflettere sull’opportunità di adottare un atto di amnistia che accompagni la riforma del processo penale. Deve essere chiaro a tutti che non si può parlare realisticamente di amnistia se non si fa questa modifica costituzionale. Diversi accademici, analizzando la riforma Cartabia, hanno messo in evidenza che sarebbe necessaria una seria depenalizzazione, su cui anche lei sta lavorando... Partirei dalle parole della Ministra Cartabia nell’informativa sui fatti di Santa Maria Capua Vetere, quando ha chiesto di individuare le cause profonde del malessere del carcere. Allora non possiamo non partire dal chiederci chi è in carcere e perchè. Più di un terzo dei reclusi attualmente in carcere e dei nuovi ingressi sono lì per la violazione del Testo Unico sugli stupefacenti. Se a questi aggiungiamo i detenuti che sono negli istituti di pena per altri reati ma che sono tossicodipendenti arriviamo quasi alla metà dell’intera popolazione carceraria. Non avremmo il sovraffollamento se non fosse per i reati di droga. Si tratta di un dato macroscopico che non può mancare dalla riflessione sulla giustizia e sul carcere. Anche qui la presidente di Md ha colto il punto quando ha parlato della depenalizzazione per i reati legati al Testo Unico a partire dai fatti di lieve entità, per cui si finisce in carcere in sette casi su dieci. Casi come quello di Walter De Benedetto hanno dimostrato l’assurdità della legge vigente. Invece la riforma della Ministra Cartabia ha indicato la necessità che i reati di lieve entità non abbiano come esito il carcere affinché si possa avere un impatto deflattivo sia sulle carceri sia sulla giustizia. E proprio in questa direzione va il testo base depositato in commissione giustizia alla Camera - e spero che la prossima settimana venga adottato- un testo unificato di una mia proposta e di quelle della Licatini del M5S e di Molinari della Lega che riguarda esattamente la depenalizzazione dei fatti di lieve entità relativi alle droghe e che tocca un altro punto citato dalla presidente Barillà nella sua intervista e cioè la depenalizzazione della coltivazione domestica per uso personale di cannabis. Noi proponiamo anche la eliminazione delle sanzioni amministrative che si rivelano gravose soprattutto per i giovani, perché prevedono ad esempio il ritiro della patente o del passaporto. Lei è stato autore della famosa interpellanza che ha stanato l’immobilità del ministro Bonafede sulle violenze di Santa Maria Capua Vetere. È invece soddisfatto della risposta dell’attuale Guardasigilli? Dalla ministra e dal presidente Draghi abbiamo sentito parole chiare e importanti che prima non avevamo sentito. C’è stata anche una ammissione da parte della Guardasigilli: all’interno dell’amministrazione penitenziaria è mancata la capacità di indagare. Si tratta di una considerazione definitiva rispetto a quello che ci sentiamo continuamente ripetere quando presentiamo degli atti di sindacato ispettivo su ipotesi di fatti gravi che avvengono in carcere: nulla si può fare se la Procura non chiude le indagini. Adesso sappiamo che non è vero perché c’è un livello amministrativo e politico che può e deve approfondire. Paolo Ferrua: “Anche gli imputati di mafia hanno diritto a un processo di ragionevole durata” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 luglio 2021 Il professor Paolo Ferrua stronca la riforma Cartabia e soprattutto l’improcedibilità che “rappresenta la più nichilistica e vuota delle possibili conclusioni, perché dissolve il processo, lasciando in vita e priva di risposta l’ipotesi di reato”. Cinque Stelle, Lega e Governo sembrano aver trovato un accordo sulla riforma della giustizia che adesso dovrà passare il vaglio dell’Aula. Nel momento in cui scriviamo le notizie ancora non sono dettagliate ma raccogliamo intanto il parere di Paolo Ferrua, Professore emerito di Diritto processuale penale presso l’Università degli Studi di Torino, uno dei massimi esponenti dell’accademia giuridica italiana. Come giudica dal punto di vista politico questo tipo di trattativa? Con una scelta, a mio avviso radicalmente errata, la riforma “Cartabia” ha deciso di percorrere la strada della “improcedibilità” come mezzo per assicurare la ragionevole durata del processo nei gradi di impugnazione. È stata così costretta ad ipotizzare rigidi termini per la conclusione di ciascuna fase, con altrettanti rigidi termini di proroga e di sospensione. Soluzione a priori inadeguata, fatalmente destinata all’insuccesso, perché i tempi ragionevoli vanno misurati in base alla complessità del singolo processo, che non può essere ipotizzata astrattamente né per categorie di reati, ma va verificata empiricamente, con riguardo al caso concreto e all’evidenza disponibile. A quel punto, come prevedibile, sono insorte le varie forze politiche in un coro di piccole e grandi signorie, ciascuna volta a reclamare termini differenziati a seconda del tipo di reato o, addirittura, l’esclusione di qualsiasi termine per determinate categorie di reati, come quelli relativi alla mafia o al terrorismo o alla violenza sessuale. Quest’ultima idea parrebbe alla fine, almeno in parte, tramontata, ma è già grave anche averla semplicemente ipotizzata. Perché professore? Non solo perché, come appena detto, i termini non possono essere astrattamente ipotizzati, ma per una ragione più assorbente. Se quei termini sono davvero volti ad assicurare l’osservanza del precetto costituzionale sulla ragionevole durata del processo - secondo una prospettiva, a mio avviso, fortemente criticabile - allora vanno garantiti ad ogni imputato, quale che sia il reato che gli viene ascritto. Nessuno nega che mafia e terrorismo rappresentino emergenze criminose da affrontare con la massima efficienza e severità: la Corte europea dei diritti dell’uomo ne è ben consapevole. Ma questo non significa che gli imputati di quei reati non abbiano diritto ad una giustizia tempestiva, che, anzi, proprio in tali casi, dovrebbe esserlo quanto più possibile. Anche gli imputati dei più gravi reati potrebbero essere innocenti, ingiustamente accusati; è la stessa Costituzione, come d’altronde la Convenzione europea, ad imporci di non cadere in presunzioni di colpevolezza. Perché ammettere per loro un processo potenzialmente senza fine o, comunque, con termini eccessivamente lunghi (si parla, ad esempio, di sei anni per l’appello nei reati con aggravante mafiosa), quando è noto che il processo è già di per sé fonte di sofferenza? L’esperienza insegna che, quando si prevedono termini massimi per lo svolgimento di determinate attività, quei termini tendono a segnare non soltanto la durata “massima”, ma anche quella “media”. Parlando di “ragionevole durata” del processo, l’art. 111 comma 2 Cost. fissa un principio che riguarda, senza eccezioni, ogni imputato, nessuno escluso; pena l’illegittimità costituzionale delle disposizioni che vi deroghino. E con ciò si torna al punto di partenza. Non è attraverso la previsione legislativa di termini massimi che si può garantire al processo una durata ragionevole. Siamo pratici: con tutti questi aggiustamenti, norme transitorie, allungamenti dei tempi per i processi di appello e Cassazione si raggiunge l’obiettivo della ragionevole durata dei processi? La riforma “Cartabia” è ormai entrata in un labirinto dal quale difficilmente potrà uscire, offrendo soluzioni coerenti sul tema della durata ragionevole dei processi. Per comprenderlo è necessaria una premessa. Il disastro - o, proseguendo nella metafora, l’ingresso nel labirinto - è avvenuto quando si è pensato che la prescrizione potesse essere un mezzo per garantire tempi ragionevoli alla giustizia penale, in conformità all’art. 111 comma 2 Cost. In realtà chiunque capisce che quel precetto, parlando di ‘ragionevole durata’, sta ad indicare l’esigenza che il processo si concluda in tempi ragionevoli con una decisione sul merito dell’accusa. Soluzione che può essere perseguita essenzialmente con tre tipi di intervento: a) una coraggiosa politica di depenalizzazione, interrompendo il circolo vizioso che alimenta l’inflazione penalistica; b) l’aumento delle risorse, a cominciare dall’organico dei magistrati e del personale addetto alla giustizia; c) l’eliminazione dei tempi morti del processo e delle fasi superflue, secondo la logica del modello accusatorio: ad esempio, la soppressione dell’appello del pubblico ministero, non tutelato da nessun precetto costituzionale né dalle fonti sovranazionali; l’eliminazione dell’udienza preliminare, come sostenuto con validi argomenti da Marcello Daniele, o, quanto meno, la sua ammissione solo a richiesta dell’imputato; una maggiore fluidità nello svolgimento delle indagini preliminari, ecc. Quindi conferma che la improcedibilità non è la soluzione... È evidente che né la prescrizione sostanziale né quella processuale (ora chiamata “improcedibilità”) possono servire alla ragionevole durata del processo perché non hanno nulla - proprio nulla - a che vedere con il relativo impegno contemplato nell’art. 111 comma 2 Cost. Con una differenza, tuttavia. La prescrizione sostanziale come causa estintiva del reato - legata alla funzione rieducativa della pena e all’oblio che il trascorrere del tempo determina sulla memoria del reato - non contrasta con alcuna disposizione costituzionale. Dichiarando estinto il reato, segna la fine del processo con una decisione che è, almeno parzialmente, di merito: a seconda della fase in cui è emanata, accerta che non vi è la prova dell’innocenza o che il reato sussiste, pur essendo estinto. Al contrario, la “improcedibilità” rappresenta la più nichilistica e vuota delle possibili conclusioni, perché dissolve il processo, lasciando in vita e priva di risposta l’ipotesi di reato; come tale, entra in tensione con l’art. 112 Cost, relativo al principio, rectius alla regola dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non so sino a che punto la Corte costituzionale possa tollerare il vulnus; ma, quand’anche ciò avvenisse, il mio timore è che sul valore di questa disposizione - come di quella relativa alla ragionevole durata - cada un gran discredito che rischierebbe di coinvolgere l’intera disciplina costituzionale del processo. Strage di Bologna. Cartabia: “Non c’è giustizia senza certezza piena delle responsabilità” di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 30 luglio 2021 La ministra sarà all’anniversario e annuncia il potenziamento dei magistrati a Bologna. “Non c’è giustizia senza un completo accertamento dei fatti e delle responsabilità”. La ministra della Giustizia Marta Cartabia anticipa così il senso della sua presenza a Bologna, in nome del Governo, alla commemorazione della strage alla stazione. Una presenza importante, soprattutto alla luce del processo in corso sulle responsabilità di mandanti e finanziatori dell’attentato più grave dal dopoguerra. La Guardasigilli arriva a Bologna con l’obiettivo dichiarato di esprimere il sostegno personale e del Governo all’Associazione dei familiari delle vittime e alla magistratura inquirente, impegnata nei processi in corso (entro fine anno inizierà in Appello il secondo grado contro Gilberto Cavallini, già condannato in Corte d’Assise all’ergastolo). “La strage - dice - fu un gesto di violenza cieca, distruttiva, nichilistica. Un gesto che stroncò la vita di tante persone innocenti, lavoratori, viaggiatori, bambini, famiglie. Fu un attacco al popolo italiano e al cuore della Repubblica. Verrò a Bologna il 2 agosto, in rappresentanza del Governo, per rinnovare concreto sostegno all’associazione dei familiari delle vittime e agli uffici giudiziari della città, che ancora oggi sono all’opera per arrivare all’accertamento di tutte le responsabilità”. Nell’anno in cui, udienza dopo udienza, sta emergendo in modo sempre più deciso il ruolo avuto da eversione nera, apparati deviati dello Stato, politica e massoneria, la rappresentante dell’esecutivo ricorda come sia “importante che anche dopo 41 anni si stia celebrando un processo ai mandanti di quella strage”. Alla vigilia della commemorazione Marta Cartabia ha annunciato che “il 30 luglio al ministero si programmerà il rinnovo per altri 3 anni del protocollo per la digitalizzazione dei processi di interesse storico, strumento fondamentale per tenere viva la memoria e contribuire a fornire nuovi stimoli investigativi su questa e su altre stragi avvenute in un’epoca di terrorismi, trame occulte e depistaggi”. Inoltre, annuncia ancora, “vogliamo sostenere la Procura generale di Bologna, che si trova ad affrontare, in una condizione di scopertura d’organico, due processi collegati al 2 agosto ‘80”. Per quanto riguarda l’arrivo di nuovi magistrati, di cui il ministero “ha già parlato tempo fa con il procuratore generale”, si è in attesa “di un parere del Consiglio superiore della magistratura - richiesto ormai nell’ottobre scorso - sulle piante organiche flessibili”. Quando il Csm si sarà pronunciato “la situazione si potrà sbloccare rapidamente, e sarà possibile dare un po’ di sollievo anche a Bologna, dove dovrebbero arrivare altri 9 magistrati, tra funzioni giudicanti e requirenti”. Inoltre “molto presto faranno ingresso negli uffici giudiziari nuovi magistrati, cancellieri e altro personale” in vista “del nuovo anno in cui prenderà il via l’ufficio del processo”. Per Cartabia “la strage è una cicatrice viva per i familiari delle vittime e per l’intero Paese, e il ministero e il Governo hanno il dovere di contribuire al lavoro della magistratura per fare piena luce su fatti così tragicamente rilevanti per la storia italiana”. Santa Maria Capua Vetere. “Non ho dato io l’ordine di massacrare i detenuti” di Mary Liguori Il Mattino, 30 luglio 2021 Depositata la memoria di Pasquale Colucci, braccio destro del provveditore Antonio Fullone. La nuova scossa di terremoto ai vertici del carcere di Santa Maria Capua Vetere coincide con le ultime discussioni dinanzi al tribunale del Riesame. Mentre all’ufficio di direzione, dopo l’avvio delle procedure di revoca per Elisabetta Palmieri, s’avvicenderanno i direttori delle carceri di Poggioreale e Secondigliano in attesa della nomina del successore, i giudici della libertà sottoscrivono, una dopo l’altra, le misure cautelari spiccate dal gip Enea su richiesta della Procura diretta da Maria Antonietta Troncone. La direttrice Palmieri, a ogni modo, non è indagata per i pestaggi, ma il Dap le contesta di aver consentito al suo fidanzato di accedere all’istituto di pena benché non ne avesse titolo. Nessun colpo di scena, dicevamo, sotto il profilo giudiziario per chi, invece, per i pestaggi è finito in carcere, ai domiciliari o interdetto. La lunga e articolata disamina delle decine di posizioni per le quali i difensori avevano chiesto l’alleggerimento delle misure cautelari non ha prodotto particolari risultati, piuttosto, dal Riesame, è emersa una complessiva convalida dell’impianto accusatorio. Ciò nonostante gli indagati principali abbiano cercato di difendersi spiegando chi durante ore e ore di interrogatorio, chi affidando a una memoria scritta la propria versione dei fatti, che loro, il 6 aprile 2020, non diedero ordine di usare la violenza e che, successivamente, non fecero nulla per depistare le indagini e cancellare le prove dei pestaggi. Alcuni degli indagati rischiano condanne altissime, sono uno spauracchio i verdetti emessi a febbraio per il reato di tortura per i fatti del carcere di San Gimignano dove ben dieci agenti di polizia penitenziaria sono stati condannati per una fattispecie di reato solo di recente introdotta nell’ordinamento italiano (nel 2017). Non tutti, ma buona parte degli indagati per le violenze dell’Uccella secondo il gip hanno agito con “violenze o minacce gravi o crudeltà” e hanno riservando ai detenuti del reparto Nilo un “trattamento inumano e degradante”. Ed è in questo che si realizza l’accusa di tortura contestata ai poliziotti più violenti ritratti nei video registrati dall’impianto dell’istituto di pena e ipotizzata a carico di decine di poliziotti che sono rimasti ignoti perché quel giorno indossavano il casco. Le difese di chi era al comando dei nuclei intervenuti quel giorno ufficialmente per eseguire una perquisizione giustificata con la rivolta avvenuta 24 ore prima, come detto, hanno cercato di provare che le manganellate, i calci, i pugni, gli schiaffi furono opera degli agenti e che non ci fu alcun comando dall’alto affinché tanto orrore avesse luogo. È affidata a una memoria di diciassette pagine la versione dei fatti di Pasquale Colucci, braccio destro del provveditore Antonio Fullone (sospeso per otto mesi) e comandante del nucleo composto da 75 ignoti poliziotti provenienti da Secondigliano che il 6 aprile 2020 presero parte ai pestaggi. “Vorrei porre all’attenzione dell’autorità lo stato di disagio e pericolo che attualmente sta minacciando i miei familiari in seguito alla pubblicazione dei miei dati anagrafici su tutti i media locali e nazionali. Ho dei figli che hanno paura di uscire di casa perché temono ritorsioni e violenze”. È lo sfogo che chiude la ricostruzione di quei giorni tremendi nel carcere casertano. Giorni in cui, sostiene Colucci, “non ebbi ruolo alcuno nelle violenze anzi, quando vidi un collega picchiare un detenuto cercai di fermalo”, racconta al gip “ma mi fu detto di scansarmi”. Successivamente “notai un detenuto che si teneva la testa con un asciugamano e ordinai ad alcuni uomini di condurlo immediatamente in infermeria”. Non “regista” dei pestaggi, dunque, come sostiene il gip, ma “soccorritore” dei detenuti pestati. Colucci racconta anche lo stato di “frustrazione” in cui trovò il comandante Gaetano Manganelli (a capo della polizia penitenziaria in servizio a Santa Maria Capua Vetere) e sottolinea che fu lui, Manganelli, a chiedere a Fullone se “l’uso degli sfollagente fosse autorizzato” come si evince dagli ormai arcinoti sms intercorsi tra il funzionario di polizia e l’allora capo del Dap Campania e il provveditore rispose “solo se necessario”. Quanto ai depistaggi, alla produzione di prove false per far ricadere sui solo detenuti le responsabilità di quel giorno “sono estraneo ai fatti”, scrive Colucci “in quanto ho verbalizzato ciò che mi veniva riferito da chi era al comando quel giorno e le armi rudimentali che ho personalmente visto nel reparto, tanto che le ho fotografate col mio telefono, parlo di mazze, pezzi dei fornelli, punteruoli”. Ma anche quelle foto, sostiene l’accusa, furono ritoccate. Infine, nel suo lungo monologo a discolpa, Colucci riferisce in merito al trasferimento dei 14 detenuti che, poi, finirono in isolamento al Danubio. “Manganelli mi disse che era necessario spostare 14 ristretti e io mi limitai a chiedere se c’era la certificazione sanitaria prevista in quel periodo per via del Covid”. Brescia. Canton Mombello carcere tra i peggiori: sovraffollamento stimato al 200% di Mara Rodella Corriere della Sera, 30 luglio 2021 In serata, Luisa Ravagnani, garante dei detenuti, esce da Canton Mombello dopo un “gruppo” di lavoro dedicato ai diritti umani. Quelli altrui, del mondo “fuori”. “E mi sono chiesta: adesso cosa dico loro? Cosa racconto?”. Non serviva certo un bollettino, ma anche lei ha letto il rapporto dei primi 6 mesi 2021 stilato dall’associazione Antigone, intitolato “A partire da Santa Maria Capua Vetere, numeri, storie, proposte per un nuovo sistema penitenziario”. E ci risiamo, di nuovo: il carcere di Brescia è tra i cinque penitenziari peggiori d’Italia, con un sovraffollamento che sfiora il 200%: 378 detenuti (al 30 giugno, una ventina nel frattempo è stata trasferita) a fronte di 189 posti. Insieme a Brescia, fra le strutture che superano il 150%, troviamo Bergamo (529 detenuti, 168%), Brindisi (194 detenuti, 170,2%), Crotone (148 detenuti, 168,2%). In tutto, a livello nazionale, si contano 53.637 detenuti, di cui 17.019 stranieri (il 32,4%). Percentuale, questa, che a Canton Mombello pesa ulteriormente. E se la promiscuità moltiplica la tensione, dice Carlo Alberto Romano - docente di criminologia alla Statale di Brescia - la soluzione passa da due strade: “Da un lato diminuire le custodie cautelari, siamo al 30% in Italia e a Brescia la percentuale sale vista l’incidenza di stranieri, dall’altro aumentare le esecuzioni penali esterne. Gli strumenti ci sono, manca il coraggio di applicarli”. E in un sistema carcere “che fra gestione dei trasferimenti e pandemia non mi pare abbia una visione così progressista: stiamo tornando indietro, ed è grave”. Alla base del problema, per Romano, c’è “il profondo scollamento fra teoria e pratica: ci riempiamo tanto la bocca di rispetto dei diritti umani, ma la quotidianità è ben diversa”. Certo è - dice - “non si possa continuare a usare il carcere in questo modo: è il luogo del non-senso”. Lo ribadisce da anni: “Credo sia una realtà che va rivista, che non serve così come è strutturata, se non in regime di 41 bis”. La quotidianità, in cella, “è la sintesi di una serie di incongruenze rispetto ai principi costituzionali: poi arriva l’Europa che ci bacchetta e per un po’ righiamo dritto. Ma non è sufficiente”. No, non lo è. Ravagnani avrebbe dovuto parlare del mondo fuori, gli incontri non sono finalizzati alle lamentele. Ma dentro, la realtà è fatta “di trasferimenti condotti senza criterio, per esempio - ribadisce anche lei - chi li chiede li vede negati, chi vuole restare viene spedito dall’altra parte della regione lontano da una famiglia ormai radicata e in barba alla territorializzazione della pena”. Ne parleranno tra loro, i garanti, nei prossimi giorni. “Il problema del sovraffollamento è serio”, ma per Ravagnani “manca la base: gli educatori, per cominciare. A mio modo di vedere, per rendere attuabile il dettato costituzionale, ne servirebbe uno ogni 10 detenuti, in Europa la media si aggira sui 35”. A Canton Mombello “ne hanno tre effettivi, più due agenti di rete. Ma “servono anche psicologi, psichiatri, comunità e operatori per attuare le misure alternative”. In sintesi, “è un problema di approccio: l’educatore non è nelle condizioni di fare un trattamento, che non può ridursi a un colloquio sporadico, ma deve tradursi in un percorso rieducativo vero. Bisogna investirci risorse, senza nascondersi solo dietro al sovraffollamento, ma a nessuno importa: a livello centrale non c’è l’interesse che funzioni, basta far finta di gestire le cose”. Firenze. Sollicciano è il peggiore carcere per casi di autolesionismo di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 30 luglio 2021 C’entra l’isolamento forzato causa pandemia, ma non solo. Cruccolini: “Non è sinonimo di problemi psichiatrici, spesso manca l’ascolto”. Sollicciano è il carcere in Italia con più episodi di autolesionismo: 105 ogni 100 detenuti, contro la media nazionale di 23. A rivelarlo è l’associazione Antigone nella sua relazione annuale sullo stato delle carceri italiane. Sollicciano è il carcere italiano con il più alto numero di episodi di autolesionismo. Se la media italiana è di 23 episodi ogni cento persone, qui si raggiunge la cifra record di 105 casi ogni 100 detenuti. A rivelarlo sono i dati redatti dall’associazione Antigone nella relazione annuale sullo stato delle carceri italiane. A pesare c’è sicuramente la pandemia e l’isolamento ancora maggiore dei detenuti, che per lunghi mesi sono stati lontano dai propri familiari e chiusi per più tempo all’interno delle proprie celle. Ma non solo. A Sollicciano c’è una elevatissima presenza di detenuti in terapia psichiatrica, il 39,5 per cento dei presenti (erano il 27,6 per cento nel 2019) sul territorio nazionale, mentre i reclusi che fanno uso di psicofarmaci superano la metà del totale e il 10 per cento sono pazienti con problematiche psichiatriche gravi. Sono invece 200 i carcerati con dipendenze. A fronte di questo, sottolinea l’associazione Antigone, c’è una scarsa disponibilità di interventi terapeutici: in media negli istituti visitati per 100 detenuti erano erogate 8,8 ore settimanali di intervento psichiatrico e 16,7 ore settimanali di sostegno psicologico. Un discorso che vale anche per Sollicciano, afferma Alessio Scandurra di Antigone, secondo il quale “servirebbero più strutture di tipo comunitario all’esterno del penitenziario per permettere il decongestionamento di detenuti con problematiche psichiatriche”. Solo nel 2020, sono stati circa 700 gli atti di autolesionismo. L’ultimo grave in ordine di tempo a inizio luglio, quando un recluso si è chiuso in bagno con un lenzuolo e una lametta da barba: prima ha tentato di strozzarsi, poi si è tagliato la gola ed è stato ricoverato all’ospedale di Torregalli. Permane importante anche il sovraffollamento, che a è pari al 146 per cento, più alto rispetto alla media nazionale (i reclusi complessivi sono circa 650). Ancora pochi i reclusi che lavorano, sono soltanto il 20 per cento, contro una media nazionale del 33 per cento. Criticità anche sul fronte rieducativo visto che c’è soltanto un educatore ogni 163 reclusi, a differenza di una media italiana di un educatore per 79 persone. “Il problema dell’autolesionismo - ha commentato il garante dei detenuti di Firenze Eros Cruccolini - non è sinonimo di problematiche psichiatriche, spesso succede perché i reclusi non sono ascoltati o magari non hanno lavoro. Il reparto psichiatrico a Sollicciano funziona bene, quello che occorre è rendere effettivo un progetto benessere in carcere per tenere impegnati professionalmente i detenuti perché il lavoro è terapeutico”. Parole simili da Franco Scarpa, responsabile psichiatria in carcere nell’Asl Toscana Centro: “Il disagio psichico è spesso legato alle difficoltà di condizioni di vita in cella, alla mancanza di stimoli allo sviluppo come il lavoro, la formazione, le relazioni sociali, l’attività fisica”. Spiega la direttrice Salute carcere penitenziari fiorentini Sandra Rogialli: “La questione psichiatrica è relativamente psichiatrica ma legata alle condizioni di Sollicciano, che ha condizioni di promiscuità di detenuti e una situazione strutturale pesante su cui l’amministrazione sta intervenendo”. Taranto. Niente regime aperto per le detenute. Il Dap interviene di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 luglio 2021 È una delle criticità riscontrate dal Garante nazionale nella visita agli istituti pugliesi. Nel carcere di Taranto le donne detenute, a differenza degli uomini sottoposti a un regime aperto, trascorrono la maggior parte del tempo al chiuso delle celle. Questa differenza di trattamento lo ha riscontrato la delegazione del Garante nazionale delle persone private della libertà, che ha prontamente segnalato la questione al Dap. Segnalazione subito recepita e l’amministrazione è ricorsa ai ripari. Dal 19 al 27 luglio 2021 il Garante nazionale delle persone private della libertà ha visitato dodici strutture di privazione della libertà tra Puglia e Basilicata. In particolare, tre diverse delegazioni si sono recate negli istituti penitenziari di Bari, Foggia, Lecce, Brindisi, Taranto, Trani, San Severo, Melfi e Turi e presso il Centro di permanenza per i rimpatri di Palazzo San Gervasio. Le tre delegazioni erano guidate dai tre componenti del Collegio del Garante: Mauro Palma, Daniela de Robert ed Emilia Rossi. Diverse le criticità emerse, che verranno come da prassi illustrate in un Rapporto che sarà inviato alle Autorità competenti. A seguito della visita nella Casa circondariale di Taranto, il Garante nazionale ha inviato due Raccomandazioni urgenti al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. La prima ha riguardato la sezione femminile. Il Garante nazionale - fa sapere in una nota ha riscontrato una differenza di trattamento tra i quasi seicento detenuti uomini, sottoposti a un regime custodiale più aperto, e le venticinque detenute. Queste trascorrevano la maggior parte della giornata chiuse nelle camere di pernottamento. Il Garante ha dunque sollecitato l’Amministrazione a tenere le celle aperte durante il giorno. La Raccomandazione urgente è stata prontamente tradotta in un ordine di servizio che prevede il rientro delle detenute nelle celle solo per i pasti, la conta e le ore notturne. È stato inoltre rivisto, come da indicazione del Garante, l’orario del passeggio, precedentemente previsto nelle ore più calde del pomeriggio. Oggetto della seconda Raccomandazione è stata la necessità di nominare al più presto un dirigente sanitario per la Casa Circondariale di Taranto, posizione rimasta vacante dopo le dimissioni del precedente dirigente. Il nuovo responsabile è stato nominato nella giornata successiva alla visita, come il Garante nazionale ha avuto modo di verificare nel corso di una seconda visita di follow- up. Nel corso della missione il Garante nazionale ha svolto una serie di incontri istituzionali fra cui quello con la Presidente del Consiglio Regionale pugliese, Loredana Capone e con l’Assessore regionale alla Sanità Pier Luigi Lopalco. Milano. A San Vittore i detenuti riabbracciano i figli, finalmente agi.it, 30 luglio 2021 “Il 10 luglio alle ore 11:30 ho fatto il mio primo colloquio visivo con mia figlia presso l’area verde, erano nove mesi che non sentivo il profumo e il calore della mia principessa, posso dire di avere provato un’emozione indescrivibile, qualcosa di superlativo”. C’è un nuovo spazio verde nel carcere di San Vittore che per i detenuti è diventato simbolo di libertà, se così si può dire, in un luogo di detenzione. Qui sono ripresi da poco più di un mese i colloqui dopo la lunga sospensione dovuta al Covid, qui alcuni hanno visto “per la prima volta - spiega Francesco Maisto, il Garante dei loro diritti a Milano - figli o nipoti nati durante questo tempo”. In un’altra testimonianza, Nicolas esprime il suo sentimento negli attimi prima dell’incontro col figlio che non vede da un anno e mezzo. “Ore 10:00: eccomi qui in piedi davanti alla mia cella, sto aspettando l’assistente che venga a chiamarmi e quando arriva in me si sprigiona tutta una serie di emozioni che erano ormai sepolte da tanto, tanto tempo. Faccio le scale quasi con la sensazione di volare, passo per il lungo corridoio che mi porta in quell’area verde che per me si chiama speranza, quel giardinetto che per molti può sembrare insignificante ma che per me in quel preciso istante che vedo mio figlio significa tutto, significa gioia, speranza, felicità e allo stesso tempo malinconia e dolore, quando, passata l’unica ora che dopo 18 mesi mi è stata concesso per vedere il mio Angelo, mi vedo costretto a guardarlo mentre se ne andava con le lacrime agli occhi e con lui la mia anima”. Anche per Giuseppe l’incontro col figlio di 13 anni, dieci mesi dopo il suo arresto, “è stata un’esplosione di pianti e sorrisi con un po’ d’imbarazzo agli occhi della polizia penitenziaria a due passi da noi”. Ferrara. Reinserimento dei detenuti, il Comune stanzia 150mila euro Il Resto del Carlino, 30 luglio 2021 Per il loro recupero e l’autonomia sociale, un ricco programma di iniziative. Il reinserimento sociale dei detenuti e il loro recupero, anche attraverso nuove attività finanziate con 150mila euro dal Comune, sono la parte più importante di una pena da scontare in carcere. Questi temi fanno parte delle iniziative programmate ne 2021-2022 per i detenuti della casa circondariale di Ferrara. Altri temi di questa programmazione sono l’autonomia, la crescita culturale e il supporto psicologico. La progettazione delle attività elaborata dal Comune di Ferrara per il Piano di zona 2021 è stata illustrata l’altro giorno nel corso della riunione del ‘Comitato locale Esecuzione penale adulti di Ferrara’ convocata dall’assessore comunale alle Politiche sociali, e presidente dello stesso Comitato, Cristina Coletti. All’incontro hanno preso parte, fra gli altri, il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Ferrara Francesco Cacciola, la direttrice della Casa Circondariale di Ferrara Nicoletta Toscani e Maria Maiorano dell’Ufficio per l’esecuzione penale esterna (Uepe) di Bologna. L’incontro si è aperto con il ringraziamento da parte dell’assessore Coletti alla direzione della casa circondariale “per l’efficienza dimostrata nella gestione del difficile periodo di emergenza sanitaria, affrontato in condizioni di piena sicurezza, sia per i detenuti che per il personale”. L’assessore ha quindi confermato la volontà dell’amministrazione di sostenere la realtà del carcere e di tutti coloro che la vivono in prima persona, preannunciando la prosecuzione dei progetti in corso e l’introduzione di nuove attività. “Si tratta - ha spiegato nel dettaglio l’assessore Coletti - di un insieme di azioni per una spesa complessiva di oltre 150mila euro, per il 2021-2022, con cui l’amministrazione comunale conferma il proprio impegno a supporto della Casa circondariale cittadina, specie in un momento difficile come quello attuale. È un complesso importante di attività con cui si vuole favorire il permanere di un clima il più possibile sereno all’interno della struttura e si vuole rispondere alle diverse esigenze delle persone detenute, garantendone la salute e la dignità e favorendo percorsi individuali di reinserimento sociale e lavorativo”. Nella programmazione delle attività per i prossimi mesi è confluito il progetto ‘Sesamo’, gestito per conto del Comune da Asp Ferrara e finanziato per il 70% con risorse regionali e per il 30% con risorse comunali (per un totale di 80.051 euro). Tra le attività da tempo in corso figurano quelle dello Sportello informativo sociale e di mediazione culturale, che ha il compito di fornire informazioni, attivare servizi e offrire l’accompagnamento verso percorsi individualizzati di inclusione sociale. Il vero nemico della democrazia è l’eterna disuguaglianza di Mario Giro Il Domani, 30 luglio 2021 Se guardiamo al fenomeno della disuguaglianza in una prospettiva storica, notiamo che a partire dagli anni Ottanta quella tra paesi decresce mentre quella in seno ai paesi aumenta, dopo essere stata a lungo stazionaria. La globalizzazione ha rimescolato le carte: non guarda alle nazioni ma agli individui. La redistribuzione della ricchezza di questi vent’anni ha favorito l’emergere di nuove classi ricche o medie in ogni paese. Così ha ridotto lo scarto tra nazioni ma ha aumentato le distanze all’interno, anche dei paesi sviluppati, provocando le reazioni che conosciamo. La grande contraddizione - All’interno degli Stati Uniti, ad esempio, dopo circa 40 anni di relativa stabilità, la società americana sembra aver cancellato i progressi di uguaglianza iniziati all’indomani della crisi del 1929 e dopo la Seconda guerra mondiale. È proprio alla classe lavoratrice “bianca”, declassata e impoverita, che si rivolge ora la propaganda populista e trumpiana. Con il “grande raddoppio” della forza lavoro (l’entrata nel mercato del lavoro dell’ex mondo del socialismo reale che ha raddoppiato la manodopera disponibile) si prevedeva un abbassamento dei salari per i meno qualificati nei paesi ricchi ma non che ciò si sarebbe rapidamente allargato anche alle posizioni mediane e ai quadri. Così il lavoro nella manifattura, cioè la vera economia reale, si è dimezzato negli Usa, più che dimezzato in Gran Bretagna e quasi dimezzato negli altri paesi europei. Nel contempo i salari del top management globale schizzavano verso l’altro, favoriti dai nuovi guadagni realizzati e causando molti malumori nella popolazione. Secondo i dati del Fondo monetario internazionale lo scenario è contraddittorio: la disuguaglianza è cresciuta in tutti i paesi occidentali ma anche in Cina e India, mentre (almeno fino a prima della pandemia) è diminuita in Brasile, Turchia, Iran, molti paesi africani, Cile, Perù, Tailandia e così via. La paura dei ceti medi - In tale incertezza globale nasce la già citata “paura del declassamento” dei ceti medi occidentali, mentre in parallelo si forma - e diviene influente - l’opinione insoddisfatta delle nuove classi medie dei paesi emergenti, che chiedono di più. In Europa le ansie della classe lavoratrice e dei ceti medi si sono tramutate in vere sorprese elettorali. Colpiti dalla crisi costoro temono di essere lasciati indietro e si domandano se i propri figli potranno mantenere il medesimo tenore di vita. Dal canto loro i nuovi ceti emergenti (quella che in Brasile viene chiamata la classe C, su una scala A - D), si sentono ancora troppo deboli e pretendono rassicurazioni sul poter rimanere al livello appena acquisito e magari migliorarlo. La novità è che la diseguaglianza oramai si vede a occhio nudo e innesca reazioni. E’ in corso un cortocircuito globale su due fronti: sul fronte sud l’improvviso arricchimento in una popolazione abituata all’eguaglianza della penuria, man mano che aumenta produce risentimento sociale. Le classi diseredate vedono la ricchezza avvicinarsi, favorire un élite nazionale ma senza che la maggioranza ne possa ancora godere appieno. In assenza di welfare, corruzione, favoritismi, burocrazia: tutto diviene intollerabile. È il caso della Cina e dell’India, ma anche del Brasile appena è rallentata l’economia l’anno scorso. Sul fronte nord il rancore si diffonde con il taglio del welfare, il propagarsi di mini-jobs non garantiti come in Germania o la gig economy dei delivery ad esempio, il precariato e lo sviluppo della classe dei “working poors”, coloro che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese e devono fare più lavori. È la “frattura sociale” che aveva intravisto Jacques Chirac nella sua campagna presidenziale del 1995. Democrature - Vecchi e nuovi ceti medi provocano la crisi su entrambi i fronti con conseguenze politiche: per questo è a tali ceti che deve guardare chi governa, sia a nord sia a sud del mondo. Vanno rimarcati due aspetti preoccupanti: specialmente in Occidente le classi medie sono anche coloro che pagano le tasse e formano la colonna vertebrale delle democrazie. Se tale equilibrio va in pezzi, il danno è colossale. Nel contempo si sta costituendo una sorta di “non-classe”: quella degli inoccupati. Si tratta di coloro che perdono il lavoro dopo i 50 anni senza più speranza di ritrovarne, dei giovani inattivi (Neet), di molte donne. Si tratta di “esclusi non rappresentabili”, secondo l’analisi di Pierre Rosanvallon. Pur non raffigurando un’assoluta novità nella storia, la diseguaglianza è divenuta una questione cruciale. Per tali ragioni Francis Fukuyama ha parlato di “nuova lotta di classe”, che concerne questa volta il ceto medio globale. Quest’ultimo complessivamente ammonta a circa tre miliardi di persone: è circa il 40 per cento che detiene il 14 per cento delle risorse disponibili. Non si tratta tuttavia di una classe omogenea: gli esperti la calcolano in base ad un reddito per persona che varia tra i 10 e i 100 dollari al giorno disponibili. Come si vede, una forchetta assai larga, pensata per mettere assieme la classe media occidentale e quella emergente del sud. Secondo il Fondo monetario internazionale di questi tre miliardi circa la metà sono asiatici, il 25 per cento europei, il 10 per cento nordamericani, l’8 per cento sudamericani, il resto africani e mediorientali (per l’Africa nera si usa un’altra forchetta: tra i 2 e i 20 dollari al giorno). Si tratta di quella porzione di popolazione mondiale in bilico tra ribellione e adesione all’autoritarismo delle “democrature”. In entrambi i casi l’obiettivo è sempre lo stesso: difendere il proprio fragile status. Il sentimento prevalente in seno a tale universo, sia nei paesi ricchi che in quelli emergenti o poveri, è una sensazione di “precarietà”. L’economista francese Thomas Piketty ha fatto fortuna con un libro - Il capitale nel XXI secolo - nel quale mette l’accento sulle politiche necessarie a diminuire la disuguaglianza. “Le classi medie - scrive - hanno l’impressione che i più privilegiati pagano meno di loro (in tasse, tariffe ecc.). Tali disuguaglianze alimentano i populismi di destra e di sinistra come anche il declino nell’autorappresentazione sovranista”. La sua conclusione è semplice: “si avverte sempre di più la necessità di una regolamentazione del capitalismo. Abbiamo bisogno di istituzioni democratiche forti che possano limitare la crescita delle disuguaglianze e rovesciare il rapporto di forza. È sbagliato pensare che tutto si risolve in modo naturale. Lo abbiamo visto in passato: nel primo ciclo di globalizzazione, tra Ottocento e 1914, quando la fede cieca nell’autoregolazione dei mercati ha provocato disuguaglianze, tensioni sociali, crescita dei nazionalismi, fino alla guerra mondiale”. Tuttavia numerosi suoi colleghi non credono che ciò sia possibile: la degradazione dei rapporti sociali sarebbe ormai troppo avanzata per essere corretta. Solo la pandemia ha dato un colpo di freno a tale divaricazione. Per alcuni esperti l’unico esito sarà la reazione violenta o rivoluzionaria oppure un’involuzione autoritaria altrettanto violenta, dal momento che regimi dispotici hanno capito come partecipare alla globalizzazione senza pagare il prezzo della democrazia. Com’è noto la conseguenza finale di tale processo sarebbe la crisi del sistema liberal-democratico. Tra le due posizioni vi sono quelle più moderate e ottimistiche che si rifanno alla vecchia teoria ma ancora vitale del “flat world”, il mondo divenuto piatto di Thomas Friedman: la globalizzazione e le nuove tecnologie avranno comunque un effetto livellante per tutti. L’innovazione sociale e tecnologica possiede una forza ugualitaria che alla fine prevarrà. Il dibattito è aperto. Dopo decenni di sganciamento tra economia liberista e le esigenze della società, ci si chiede come possa quest’ultima mantenere un atteggiamento razionale e solidaristico, quando il grado di incertezza e insicurezza è aumentato a livelli intollerabili. Sapranno le società resistere alle tentazioni dettate dalla disperazione e dal malcontento, mentre il sistema prova a correggersi? C’è ancora tempo? Quale spazio negoziale esiste tra le regole del mercato globale e l’aspirazione delle persone al benessere e alla giustizia? In una società globale dove tutto si scambia, si monetizza, si banalizza, la difesa della democrazia non può che iniziare da tali domande. Seid, suicida per razzismo, e l’anarchico Malatesta uniti dal potere della parola di Roberto Saviano Corriere della Sera, 30 luglio 2021 La foto che ho scelto ritrae Seid Visin, giovane talento del calcio che si è tolto la vita. Il ragazzo che vedete è sorridente e bellissimo, sembra un attore - tra i tanti talenti che aveva, Seid dicono fosse anche bravo a recitare - o un ragazzo degli Anni 60 e 70, un attivista dall’aria sfrontata, un trascinatore che lotta per i diritti dei neri. Seid Visin, nato in Etiopia, adottato da una famiglia italiana da molto piccolo, giovane promessa del calcio e attore dilettante, si è tolto la vita a 20 anni. Aveva scritto tempo prima una lettera molto forte e precisa sul razzismo sempre più diffuso in Italia. È sempre “colpa” degli anarchici. Ogni bomba, ogni scritto sovversivo, ogni tentativo di rovesciare lo status quo. È sempre stato così, sin dai tempi di Errico Malatesta, anarchico italiano nato a Santa Maria Capua Vetere, cittadina assurta agli onori della cronaca per il trattamento inumano riservato ai detenuti del suo carcere. Siccome la “colpa” è sempre degli anarchici, leggere scritti anarchici, lettere di anarchici, articoli di anarchici è da sempre considerato un atto sovversivo. Ritrovo nella mia biblioteca un piccolo volume ricevuto in regalo ormai quasi venti anni fa, lo avevo già letto, ma lo riapro e lo scorro per ritrovare oggi quel senso di partecipazione ai destini degli ultimi del secolo scorso e di chi ha provato ad alleviare le loro sofferenze. C’è una voce nella mia testa che mi dice: Roberto, sei un borghese, lascia stare. Non ci provare proprio a immergerti in questo mare. Ormai non hai più l’età e hai paura. Paura che ti si dica che non hai patenti per parlare anche di questo. Ma credo che non ci si debba far paralizzare dalla paura; al massimo arriverà chi potrà dirmi: non sei mai stato un anarchico, quindi taci. Poco male. O chi mi dirà: tu non hai vissuto come Malatesta, quindi taci. Vero, non sono mai stato anarchico e non ho mai vissuto le grandi privazioni di Malatesta, che rinunciò ai suoi beni per poter essere esattamente come la classe operaia ai cui destini si interessava. Però questa volta non mi farò spaventare e vi dirò ciò che voglio dirvi. “Ai tempi di Crispi, quando i “patrioti” d’Italia e di Francia facevano a gara nel soffiar l’odio tra i due paesi, una notte passando sul ponte di S. Michele a Parigi fui affrontato in atto minaccioso da un uomo alquanto avvinazzato, il quale, avendo riconosciuto in me un italiano, mi gridò sul muso: “Viva la Francia!”. “Sì, amico mio - rispose Malatesta -, viva la Francia, ma viva anche l’Italia e vivano tutte le nazioni del mondo, o piuttosto gli uomini giusti e buoni di tutti i paesi”. Malatesta iniziò a discutere con il nazionalista francese, gli chiese se fosse soddisfatto della vita che faceva, e scoprì che l’uomo era un povero operaio che beveva per dimenticare la sua misera condizione. Ammise che quando diceva “Viva la Francia!” lo faceva perché imbeccato dalla propaganda, ma che nemmeno lui era contento di come andavano le cose. Lui e Malatesta convennero che, molto probabilmente, “la Francia degna di essere amata era quella dei lavoratori, dei pensatori, degli artisti, a differenza di quella dei politicanti e degli sfruttatori la quale meritava di essere combattuta e abbattuta, e che il miglior modo di amare i francesi era quello di volerli non nemici ma fratelli dei lavoratori di tutto il resto del mondo”. Cosa c’entra tutto questo con la foto che ho scelto questa settimana? Per me c’entra. La foto che ho scelto ritrae Seid Visin, giovane talento del calcio che si è tolto la vita. Il ragazzo che vedete è sorridente e bellissimo, pare un attore - tra i suoi tanti talenti dicono fosse bravo a recitare - o un ragazzo degli Anni 60 e 70, un attivista dall’aria sfrontata, un trascinatore che lotta per i diritti dei neri. Sto fantasticando... Seid è stato schiacciato da un cambiamento di rotta ingiustificato, un cambiamento ignorante e violento, violento nelle parole e nei gesti: schiacciato da una violenza senza scopo. Dopo la sua morte è stata diffusa una sua lettera di qualche anno prima in cui Seid raccontava di come l’Italia fosse cambiata negli ultimi tempi, della pressione che sentiva addosso per avere la pelle nera. Senza girarci troppo attorno, sappiamo bene quali forze politiche siano direttamente responsabili di questo clima fetido, e quali i complici, anche se nascondono la testa sotto la sabbia. E ora immagino vogliate sapere cosa c’entra Malatesta. C’entra perché Malatesta, con ogni suo scritto, dimostra la potenza dirompente della parola, una parola che porta pace, che placa gli animi, che li dispone all’amicizia e li allontana dal prendere le armi, dall’usare violenza. Ma come - qualcuno dirà - davvero è esistito un anarchico di questa pasta? No, rispondo io, ne sono esistiti e ne esistono a centinaia. Leggete Malatesta, studiate la sua vita, vi sarà di grande aiuto. Il testo citato è del 1921, è intitolato L’amor di patria, pubblicato su Umanità Nova. Io l’ho letto in Errico Malatesta. Autobiografia mai scritta, Edizioni Spartaco (editore di Santa Maria Capua Vetere). Siria. Ignorare la storia di Paolo Dall’Oglio significa dimenticarsi di un intero Paese di Shady Hamadi* Il Fatto Quotidiano, 30 luglio 2021 Squillò il mio telefono la sera del 29 luglio di otto anni fa. “Padre Paolo Dall’Oglio è scomparso” annunciò concitata la voce dall’altro capo della cornetta. Era rientrato in Siria pochi giorni prima, dopo esservi stato espulso dal regime di Bashar al Assad per aver scritto degli articoli nei quali chiedeva l’apertura democratica del paese. Aveva passato i 30 anni prima a lavorare per il dialogo islamo-cristiano. Una opera cominciata con la scoperta, negli anni Ottanta, dei ruderi del monastero di Mar Musa su una montagna nel deserto del Nabek. Da solo, quel giovane gesuita italiano si era messo a ricostruire quel luogo attorno al quale si ricostituì una comunità monastica dedita alla convivialità. Conoscere la storia di Dall’Oglio significa conoscere quella di un paese, la Siria, al quale questa figura è legata indissolubilmente. Non conoscerlo, ignorarlo come sta avvenendo, significa invece dimenticarsi anche di un intero paese. Ormai dodici anni fa, percorsi quelle scalinate in pietra che si arrampicano su per quella montagna priva di vegetazione nel deserto del Nabek. Vidi questo uomo di cui avevo sentito tanto parlare a Damasco. Il giorno dopo, invitò la mia comitiva alla messa del mattino per una preghiera in comune. “Reciteremo il Padre Nostro” disse. “Padre, ma io sono musulmano, non posso” replicai. Con un gran sorriso e parole indimenticabili, Dall’Oglio spiegò che quella preghiera, tanto cara a Gesù, è una invocazione neutra in cui si ringrazia ‘il padre’ e nella quale non è dichiarata nessuna delle tre rispettive verità dei monoteismi. È una preghiera abramitica, cioè che segue il percorso verso la casa di Abramo, padre delle fede, alla ricerca di quell’unicità che è rappresentata dal padre di tutti i credenti. Su Dall’Oglio si è detto e scritto di tutto. Osteggiato dal regime siriano, e da quella chiesa collusa con il governo di Damasco, è stato descritto come sostenitore dei fondamentalisti nonostante da questi si sia recato per chiedere la liberazione di alcuni ostaggi nella città di Raqqa. “Chiedo che sosteniate i giovani democratici siriani” aveva gridato in tutte le sedi nei due anni precedenti alla sua scomparsa. Era un “esilio amaro” diceva, perché lontano da quella Siria amata di cui conosceva lingua e popolo. Ad essa, alla Siria e ai siriani, guardava con sguardo risoluto e disperato. Nonostante tutto gli fosse contro, avanzava, Dall’Oglio, nella sua battaglia in solitaria. Lui è ‘abuna’, nostro padre, lo chiamavano in arabo musulmani e cristiani. Abuna Paolo, che verso il deserto camminava e in una città nel deserto è scomparso: alla ricerca del Signore e della giustizia per un popolo abbandonato. “Solo nel vuoto del deserto, nell’assenza di ogni forma animale e vegetale, lo spirito si può innalzare ed entrare in comunione con il creato”. Nel pieno della luce, Paolo. *Scrittore Tunisia. Purghe e giustizia, le armi di Saied di Arianna Poletti Il Manifesto, 30 luglio 2021 Il presidente tunisino procede a passo spedito: inchieste contro Ennahda e minacce “a chi specula sulla crisi”. Licenziati 24 tra alti dirigenti e sindaci. Tra loro anche il direttore della tv di Stato. Mentre la vita sembra procedere normalmente per le strade, i palazzi di Tunisi cominciano a tremare dopo il terremoto scatenato dalle parole di Kais Saied domenica notte. Come ripete da tempo, il presidente tunisino che da lunedì governa a colpi di ordinanze intende mettere mano all’enorme dossier della corruzione. Sul tavolo c’è un rapporto di 342 pagine della Corte dei conti che contiene i nomi di una buona parte dei deputati eletti nell’ottobre 2019, gli stessi a cui Saied ha tolto l’immunità parlamentare dopo aver congelato le attività del parlamento. Da allora le organizzazioni della società civile chiedono che la giustizia proceda con le indagini e sospenda il mandato di chi non è pulito, come non è mai successo né dopo le legislative del 2014 né dopo le municipali del 2018. Mercoledì 28 luglio, il portavoce della procura generale Mohsen Dali ha comunicato l’apertura di un’inchiesta giudiziaria sui finanziamenti illeciti alle campagne elettorali di tre partiti: Ennahda, maggioritario in parlamento, Qalb Tounes, fondato dal magnate Nabil Karoui, e Aich Tounsi, un piccolo partito che conta un solo deputato all’Assemblea dei Rappresentanti del Popolo. Ma questo annuncio - quello che ha fatto più scalpore soprattutto a causa delle accuse di finanziamenti provenienti dall’estero mosse nei confronti di Ennahda - non è l’unico. Mentre i lavori negli uffici della pubblica amministrazione e degli enti locali sono fermi su ordine del presidente, gli apparati della giustizia procedono a passo spedito: inchieste sono state aperte contro l’ex presidente dell’anticorruzione e altri tre deputati coinvolti in affari recenti. La purga di Saied è appena cominciata. Su questa il presidente si giocherà parte della sua credibilità di fronte agli occhi attenti dell’opinione pubblica, che per ora appoggia lo stato d’eccezione in attesa di un programma più preciso e, soprattutto, di misure concrete in piena crisi sanitaria. Così Saied ha creato mercoledì una cellula di crisi coordinata proprio dall’esercito per rispondere alla quarta ondata di Covid-19 e, a seguito di un incontro con il presidente dell’Unione tunisina dell’industria, del commercio e dell’artigianato, ha lanciato un appello a grossisti e negozianti perché abbassino i prezzi dei generi alimentari. Anche in questo caso, Saied ha evocato l’arma della giustizia: “Chi specula sarà perseguito e punito. Bisogna sostenere le categorie più vulnerabili che subiscono la crisi da vari decenni”, ha detto, impassibile, sfoggiando l’arabo classico che gli è valso i soprannomi di Robocop e professore. Le due misure sono state comunicate tramite la pagina Facebook della presidenza, che da giorni pubblica video e dichiarazioni del presidente a partire dalla sua sfilata su Avenue Bourguiba di domenica notte, che è piaciuta a quasi 110mila utenti. Dopo il premier, il ministro della giustizia e quello della difesa - si attendono in questi giorni le nuove nomine - Saied ha licenziato 24 tra alti funzionari, governatori e sindaci. Tra questi, anche il direttore della televisione nazionale, sostituito dall’economista ed ex direttrice di un canale tv Awatef Dali dopo che mercoledì pomeriggio l’esercito ha vietato l’accesso agli ospiti invitati da Wataniya 1. Nel frattempo, la crisi Covid torna in prima pagina dei giornali locali. Dopo il passo indietro del premier Hichem Mechichi, la tensione tra la presidenza e il partito di maggioranza Ennahda (52 deputati su 217) non si è tradotta in scontri per strada a parte qualche tensione di fronte al parlamento tra giovani militanti pro Saied e militanti pro Ennahda lunedì sera. Ennahda vuole nuove elezioni legislative e un dialogo nazionale, mentre chiede un ritorno “al normale funzionamento delle istituzioni democratiche”. Ma il partito è accusato dall’opinione pubblica non solo di corruzione, ma di compromettere da anni l’avanzamento del processo democratico tunisino rallentando la nomina della Corte costituzionale a cui oggi spetterebbe di sciogliere i nodi e limitare il potere concentrato nelle mani di Saied. Afghanistan. Il grido degli interpreti degli italiani: “I talebani arrivano a Herat, portateci in salvo” di Francesco Semprini La Stampa, 30 luglio 2021 Colpi vicino alla base lasciata dai nostri soldati. I collaboratori: se ci prendono ci massacrano. “Ciao, sono Sakhi, ad oggi 29 luglio i taleban controllano diversi distretti attorno alla città di Herat, sono 17 ore di seguito che combattono contro le forze di sicurezza governative proseguendo un assedio che dura da giorni. Io sto lavorando in una fabbrica, non so se riuscirò a tornare a casa, forse sarò costretto a scappare”. Sakhi è un interprete afghano che ha lavorato con i militari italiani per anni, la sua testimonianza è contenuta in un audio inviato a “La Stampa” dove in sottofondo si sentono ripetuti colpi di fucile. La vita di Sakhi e della sua famiglia è a rischio, se i taleban prendessero il controllo dell’aeroporto di Herat prima della sua evacuazione, promessa dal governo italiano, lo attenderà il feroce giudizio della sharia in quanto “infedele e collaborazionista”. Destino che tocca altri cittadini afghani che hanno lavorato a vario titolo con le Forze armate italiane mettendo a rischio la propria vita. In virtù di questo il governo di Roma si è impegnato a dare loro ospitalità una volta terminata la missione al fine di metterli al riparo da vendette sanguinarie. Ad oggi ne sono stati portati in salvo 228 (tra interpreti e famiglie), altre 397 persone (interpreti, collaboratori a vario titolo e familiari) saranno evacuati tra agosto e settembre. Il punto è che l’avanzata dei taleban è assai veloce: ad oggi i fondamentalisti si trovano a 3 km dall’aeroporto di Herat e all’adiacente Camp Arena che è stata per due decenni la base del contingente italiano. Se lo scalo dovesse essere conquistato gli interpreti rimarrebbero bloccati visto che non sarebbe per loro possibile raggiungere Kabul da dove partono i voli per l’Italia. È quindi subentrata una necessità di urgenza che richiede risposte immediata. Ancor di più perché nei mesi scorsi si sono aggiunte altre 300 domande di protezione recapitate all’Ambasciata italiana a Kabul che portano le richieste complessive ben oltre le 600 persone che si era previsto di ospitare. Le stime attuali per eccesso fissano a un massimo di 1.500 gli asili a cui dare via libera, ma si tratta di numeri che il Paese in altri contesti ha dimostrato di saper gestire. E comunque un rivolo rispetto all’emorragia di afghani che hanno lavorato con le truppe Nato in 20 anni di missione nel Paese asiatico. Solo gli Stati Uniti, ad esempio, hanno ricevuto 18 mila domande ma l’evacuazione tra nuove richieste e familiari potrebbe arrivare alle 70 mila unità. E per velocizzare la pratica dinanzi all’avanzata dei fondamentalisti, gli americani stanno preparando il trasferimento di 35 mila tra collaboratori e familiari verso due basi in Kuwait e Qatar per controllarli e poi portarli negli Usa. Il presidente Joe Biden ha inoltre annunciato lo stanziamento di 100 milioni di dollari per l’ondata di profughi e rifugiati dall’Afghanistan. Mohammad Ali Safdari, portavoce di un gruppo di interpreti della provincia occidentale che ha manifestato davanti Camp Arena (oggi occupato dall’Esercito afghano), ci spiega di aver espletato tutte le procedure da tempo senza ricevere risposta. “I taleban sono arrivati a Pole Malan e si sono asserragliati nelle case dei civili”, racconta l’interprete ferito due volte nei sette anni in cui ha lavorato con gli italiani. Fonti della Difesa, che lavora sul dossier con Esteri e Interni spiegano che “ci sono dei tempi tecnici richiesti tra controlli preventivi ed emissione dei visti”. Non è escluso tuttavia che ci potrebbe essere un’accelerazione dinanzi al veloce deterioramento della situazione sul terreno. Ne è convinto Hamid, interprete di Farah: “Questo angolo di Afghanistan parla italiano”. Egitto. La lettera di Patrick Zaki: “La mia libertà è lontana”. Scioperi al Cairo di Chiara Cruciati Il Manifesto, 30 luglio 2021 Dal carcere un nuovo messaggio dello studente dell’Università di Bologna: “Combatterò finché non tornerò a studiare”. La protesta, rara, di 2mila lavoratori: chiedono un salario migliore e contratti a lungo termine. Una nuova lettera dal carcere racconta la sofferenza e la resistenza di Patrick Zaki: “La mia indagine è ripresa - scrive alla fidanzata - il che potrebbe significare che un giorno andrò in tribunale e avrò un processo, è molto peggio di quanto mi aspettassi. Dopo un anno e mezzo, non potevo fare a meno di pensare che avrò presto la mia libertà, ma ora è chiaro che non accadrà presto”. “Combatterò finché non tornerò a studiare a Bologna”, dice Patrick, con un costante riferimento agli studi interrotti da una detenzione preventiva senza fine apparente nel peggior carcere egiziano e da accuse senza prove. E mentre tutto tace sul fronte italiano dopo la doppia mozione parlamentare che chiede al governo di riconoscere la cittadinanza al giovane egiziano (prima il voto favorevole del Senato, poi quello della Camera poche settimane fa), ieri è stato l’europarlamentare del Pd Majorino a ricordare lo stallo: “Il governo italiano deve farsi una domanda semplice: sta davvero facendo tutto il necessario per ottenere la sua liberazione? A me non pare”. Né sul fronte della cittadinanza, né tanto meno su quello del business militare (e non solo) con Il Cairo, mai interrotto. Intanto in Egitto si fanno strada, nel muro della repressione di Stato, proteste sporadiche ma significative: i 2mila lavoratori della Lord for Industry and Trade, specializzata in rasoi, scioperano da martedì. Chiedono un salario migliore e contratti a lungo termine e non più annuali.