La regola della violenza di Luigi Manconi La Repubblica, 2 luglio 2021 Quale senso dello Stato e quale idea delle istituzioni esprime un leader politico che, di fronte a crimini attribuiti a membri di corpi di Polizia, non pronuncia una parola - nemmeno mezza - di netta riprovazione? Mi riferisco a Matteo Salvini e a Giorgia Meloni, che si mostrano preoccupati esclusivamente dell’”onore” della polizia penitenziaria: quasi che, a “macchiare” quella divisa, non fossero innanzitutto quanti, mentre la indossano, si rendono responsabili di atti ignobili. È quasi si pretendesse una organizzazione statuale dove settori delle istituzioni e degli apparati fossero sottratti al controllo di legalità e svincolati dall’ottemperanza alla legge. Qui nessuno, proprio nessuno, intende accusare in maniera indiscriminata l’intera Polizia penitenziaria, ma difenderla altrettanto indiscriminatamente - delinquenti e torturatori compresi, quindi - è un’operazione politicamente irresponsabile. Dietro questo silenzio della destra, che corrisponde a un’autodichiarazione di correità morale e politica, non c’è solo un calcolo elettorale piccino. C’è anche una concezione dell’ordine pubblico, della detenzione e del significato e della finalità della pena che rappresenta “un tradimento della Costituzione” (come detto dalla ministra della Giustizia a proposito delle violenze nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere). Un’idea del carcere, cioè, ridotto a luogo di contenimento e repressione dei corpi dei trasgressori e dei devianti, di sopraffazione fisica nei confronti di chi è fuori dalla norma e di afflizione psicologica per tutte le forme di irregolarità e indisciplina. Un sistema che, coscientemente o meno, persegue con ogni mezzo - dal linguaggio puerile (domandina, spesino, scopino...) alla mortificazione della sfera sessuale - l’infantilizzazione del recluso e la sua de-responsabilizzazione (verso sé e verso gli altri). In caso di disubbidienza (per esempio, una protesta), il codice non scritto prevede la sanzione massima. Quella del 6 aprile del 2020, infatti, non è stata una esplosione di violenza incontrollata, piuttosto una vera e propria spedizione punitiva, programmata e meticolosamente messa in atto. Dunque, la responsabilità di essa non può essere circoscritta agli esecutori materiali. E nemmeno al provveditore delle carceri campane, il quale informa in tempo reale il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, ottenendo questa risposta: “hai fatto benissimo”. Siamo in presenza, dunque, non di una manifestazione patologica, determinata da un imprevisto stato di emergenza, bensì dell’esercizio di un potere puntualmente definito (la “perquisizione straordinaria”) come strumento per ristabilire l’ordine violato. Non a caso, qualche mese dopo, il 16 ottobre, il ministro della Giustizia, rispondendo a un’interpellanza urgente di Riccardo Magi (+Europa), definiva quella del 6 aprile “una doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità”. E identica risposta avrebbe fornito a Pierantonio Zanettin (Forza Italia) qualche giorno dopo. Ecco, basta leggere questi atti parlamentari per comprendere il dispositivo di menzogna e di violazione delle garanzie, che legittima e riproduce la gestione del sistema penitenziario. Il ministero della Giustizia, attraverso due diversi sottosegretari, legge in Aula un testo bugiardo dalla prima all’ultima parola, risultato di una trama ingannevole, evidentemente tessuta tra uffici del dicastero e amministrazione penitenziaria. Ha qualcosa da dire, in proposito, l’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, indotto a mentire davanti al Parlamento? D’altra parte, il fatto che quello di Santa Maria Capua Vetere non sia stato un episodio isolato è confermato da una cronologia impressionante: nell’arco di 9 mesi, tra il luglio del 2019 e l’aprile del 2020, nove procure hanno indagato su altrettante vicende di violenze all’interno delle carceri. Per una di queste, San Gimignano, già c’è stata una prima condanna per il reato di tortura a carico di dieci poliziotti. Ripeto: non si deve dedurre da ciò che l’intero corpo della Polizia penitenziaria sia composto da criminali, ma nemmeno può dirsi che questi ultimi siano “poche mele marce”. (A proposito: le mele andate a male, anche quando rare, se lasciate nel cesto della frutta, finiscono per far marcire tutte le altre). La concezione della pena largamente dominante all’interno dell’amministrazione (ma anche della classe politica e del senso comune), è fondata sul presupposto che il recluso costituisca un fattore di irriducibile violenza da sottomettere con il ricorso a una violenza opposta e speculare, capace di renderlo inoffensivo. Va da sé che, in tale contesto, il principio costituzionale della “rieducazione del condannato” risulti un esercizio retorico per anime belle. Se questa è la concezione della giustizia e la cultura professionale di gran parte degli operatori penitenziari, è fatale che la tensione presente tra custodi e custoditi possa portare l’aggressività latente a farsi violenza diretta. Ciò non significa arrendersi al fatto che il carcere sia uno spazio extra-legale, sottratto a ogni controllo e a ogni possibilità di riforma. Intanto si individuino tutte le responsabilità, politiche e amministrative, di quella “orribile mattanza” (parole del giudice Sergio Enea). Sarà appena un primo passo, ma indispensabile, perché il carcere sia un luogo di esecuzione delle pene, secondo le regole dello Stato di Diritto, e non la sentina cupa e psicotica di tutte le pulsioni sadiche che la società e i suoi servizi di assistenza e cura non hanno saputo trattare: e che lì trovano sfogo. La violenza ha radici profonde. La soluzione? Meno carcere di Stefano Anastasia* Il Riformista, 2 luglio 2021 Ciò che lascia sgomenti, più ancora della violenza gratuita, è la sua esibizione, evidentemente nella certezza della impunità. E questo chiama in causa l’intero sistema penitenziario. Viste le immagini di quel che è accaduto a Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile dello scorso anno, la Ministra Cartabia ha trovato il tono giusto e ha dato la risposta che la società civile e migliaia di operatori e poliziotti penitenziari aspettavano: quello che si è consumato nel carcere casertano è stato un tradimento della Costituzione e dell’alta funzione assegnata alla Polizia penitenziaria. Nel rispetto del diritto alla difesa, tutti gli indagati sono stati sospesi dal servizio. E forse di qualche misura cautelare a più di un anno dal fatto si sarebbe potuto fare a meno se una simile scelta fosse stata adottata per tempo, impedendo ogni possibile tentativo di inquinamento delle prove. Ciò che appare impressionante nelle immagini delle videocamere di sorveglianza è la gratuità delle violenze e il sentimento di impunità. Non ho mai pensato che il carcere possa essere un luogo alieno dalla violenza, perché la stessa privazione della libertà si fonda su un latente esercizio di violenza, senza il quale saremmo di fronte a una forma non di costrizione volontaria, il che è fuori dal mondo. Il problema della vita quotidiana in carcere è proprio nella misura di quella coazione. Per questo la Costituzione vieta “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”, perché i costituenti sapevano che la relazione di potere che si instaura tra custodi e custoditi può trascendere, dalla custodia alla violenza, appunto. La professionalità degli addetti alla sicurezza in carcere si vede esattamente nella capacità di esercitare questo discernimento, tra ciò che è inevitabile e ciò che è inaccettabile. Quello che abbiamo visto in scena a Santa Maria Capua Vetere è inaccettabile, e mortifica prima di tutto i poliziotti per bene, quelli che interpretano coerentemente il mandato costituzionale nell’esercizio della loro funzione pubblica La gratuità di quelle violenze (finanche su un uomo che veniva portato in sedia a rotelle nella sua stanza) sono invece l’indice di una ignoranza di quel mandato e di quella funzione, per cui quelle persone, se identificate e accertate nella loro responsabilità, devono lasciare il Corpo della polizia penitenziaria. Ma ciò che più lascia sgomenti, più ancora della violenza gratuita, è la sua esibizione, evidentemente nella certezza della impunità. E questo chiama in causa l’intero sistema penitenziario, i suoi attori e i suoi massimi responsabili. Come è possibile che non uno, due, tre “mele marce”, ma decine di poliziotti, provenienti da diversi istituti penitenziari, concorrano in reati simili convinti di restarne impuniti? La Ministra ha già disposto non solo una indagine, ma anche nuovi indirizzi di selezione e di formazione del personale, ma questa cultura ha radici profonde. È probabile che all’interno della Amministrazione penitenziaria certe prassi si saranno affermate come “ferri del mestiere”, che bisogna saper usare; altri le avranno considerate giustificabili, se non altro in nome del governo del personale e delle sue pulsioni. All’esterno dell’Amministrazione penitenziaria, invece, per ragioni di consenso ci sono leader politici e sindacali non perdono occasione di sollevare distinguo, finendo per giustificare qualsiasi cosa accada. Tutto questo, ha detto a chiare lettere la Ministra, non è più tollerabile: né dentro né fuori, nessuno può più permettersi di baloccarsi nella retorica dei “padri di famiglia”, dei “servitori dello Stato”. Si può essere buoni o cattivi padri di famiglia (e questo è affare di ciascuno di noi), ma non si è servitori dello Stato se si tradisce la Costituzione. Ma tutto questo, lo sappiamo, viene anche dalla disattenzione, se non dal misconoscimento, del molo del carcere nel nostro sistema di giustizia: non luogo di prevenzione e di punizione dei reprobi, secondo l’immaginario da Prison Break diffuso anche in parte del nostro ceto politico, ma segmento di un’amministrazione della giustizia volta alla composizione dei conflitti, alla riconciliazione e alla inclusione degli esclusi. Questa, dunque, è la sfida più grande: riprendere il percorso in direzione di una riforma dell’esecuzione penale nel senso della sua umanizzazione, a partire dalla minimizzazione della pena detentiva e dalla sua qualificazione. In questa sfida, la Ministra sa di poter contare su migliaia di operatori e poliziotti penitenziari, sulla società civile e il volontariato, sugli enti territoriali e le altre amministrazioni dello Stato, sull’avvocatura, la magistratura e i garanti dei detenuti. Lo scandalo di Santa Maria Capua Vetere sia l’occasione di una profonda e radicale trasformazione del carcere e della pena. *Portavoce della Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà personale Calci e bastonate: i detenuti puniti con violenza anche in altre carceri di Giovanni Bianconi e Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 2 luglio 2021 Da Bologna a Melfi, i racconti dei soprusi subiti. Inchieste a rischio archiviazione perché le telecamere erano spente. “Alle 3 di notte, mentre dormivo nella mia cella, sono stato svegliato da quattro persone che avevano il volto coperto da un passamontagna. Mi bloccavano le braccia con delle fascette intimandomi “stai zitto, non parlare e abbassa la testa”. Mentre mi trovavo ancora in pigiama e con le ciabatte venivo accompagnato presso un pullman e lungo il tragitto sono stato percosso con calci e con l’utilizzo di un bastone. Prima di farmi salire mi hanno controllato facendomi fare i piegamenti sulle gambe con i pantaloni abbassati costringendomi a mantenere la testa china. Quando sono arrivato al pullman una delle persone presenti si è rivolta agli altri dicendo “basta... lascialo”. Mi tenevano sempre con la testa abbassata. Se alzavo la testa prendevo più botte”. È il 17 marzo 2020. Nel carcere di Melfi, in provincia di Potenza, i reclusi stanno protestando per le restrizioni e le mancate protezioni contro il Covid-19. Per questo si decide di trasferirli in altri penitenziari. Ma prima di portarli via gli agenti di custodia li sottopongono a pestaggi. Questo, almeno, denunciano i detenuti. Accade anche altrove. Ascoli Piceno, Modena, Rieti, Bologna. I racconti dei reclusi sono già stati acquisiti dai magistrati e dall’ufficio del Garante per le persone private della libertà. Ma sono anche stati trasmessi (o lo saranno presto) al Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria al quale la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha chiesto accertamenti ad ampio raggio. Raccontano le violenze e i soprusi lamentati da chi era agli arresti. La “mattanza” scoperta a Santa Maria Capua Vetere non è un caso isolato. Altrove le telecamere non hanno però registrato quanto è avvenuto, identificare i responsabili sarà più complicato. Ma non impossibile. I volti travisati - L’”ispezione straordinaria” sul carcere campano, ordinata dalla ministra, è stata affidata al direttore generale dell’ufficio detenuti e trattamento: modalità inedita che sta a ribadire l’importanza che ministero e Dipartimento attribuiscono alle verifiche amministrative. Fin dall’ottobre scorso i vertici del Dap chiesero ai magistrati informazioni sugli indagati e i capi d’accusa “necessarie e urgenti per valutare le iniziative di competenza non più procrastinabili”. Non ottennero risposta. Ora il lavoro degli ispettori, su questo come sugli altri casi, si baserà sui fogli delle presenze in servizio delle guardie, sugli atti consegnati dallo stesso garante Mauro Palma e sugli esposti presentati dall’associazione Antigone. L’avvocatessa Simona Filippi assiste decine di detenuti già interrogati dai magistrati. Le inchieste avviate a Potenza e Ascoli rischiano di essere archiviate perché nelle carceri le telecamere non erano attivate e - come sottolinea il pm di Potenza Gerardo Salvia - “tenuto conto dell’esito infruttuoso dell’individuazione fotografica a cui i denuncianti sono stati sottoposti”, poiché gli agenti “erano travisati”. La cella 52 - Agli atti dell’indagine di Ascoli ci sono i verbali dei reclusi trasferiti dopo le proteste dell’8 marzo nel carcere di Modena. “Alcuni di noi furono picchiati dagli agenti di Bologna anche nell’istituto di Ascoli Piceno con calci, pugni e manganellate all’interno delle celle, ad opera di un vero e proprio commando di agenti della penitenziaria”, raccontano. Tra loro c’è Salvatore Piscitelli che viene trasferito “in evidente stato di alterazione fisica probabilmente per l’assunzione di metadone o altri farmaci tanto da non riuscire a camminare”. Quando arriva ad Ascoli “viene portato nella cella numero 52 della sezione posta al secondo piano. Un detenuto lo aiuta a rifare il letto in quanto lo stesso, viste le condizioni di salute, non è in grado. I detenuti avvertono gli agenti ma nulla viene disposto. La mattina seguente, il 9 marzo, il compagno di cella avverte invano il personale che Piscitelli sta molto male, emette dei versi lancinanti. Dopo poco i detenuti chiedono che venga chiamato un medico. Intorno alle 10 i detenuti avvertono che Piscitelli oramai è deceduto, che “è nel letto freddo”. L’agente rileva che ormai è morto”. I depistaggi - A Melfi - dove la direttrice e il comandante delle guardie sono già stati trasferiti per altri reclami trasmessi dal magistrato di sorveglianza - un detenuto ha raccontato: “Un agente della penitenziaria mi ha immobilizzato i polsi con fascette di plastica nere simili a quelle usate dagli elettricisti. Mi hanno fatto inginocchiare e mi tenevano bloccato a terra, venivo percosso degli agenti con calci e sfollagente. Mi colpivano ripetutamente alla schiena, in testa, vicino alle gambe e nelle altre parti del corpo. Poi ci hanno fatto scendere le scale in fila indiana con la testa abbassata e venivamo insultati. Nell’area colloqui mi hanno fatto spogliare e fare i piegamenti. Ho notato alcuni detenuti con la testa rotta e sanguinante, gli occhi tumefatti, i nasi rotti”. Anche in questo caso mancano le immagini, e le ispezioni dovranno accertare se il sistema di sorveglianza fosse effettivamente fuori uso. Oppure se, come si sospetta per Santa Maria Capua Vetere, le prove possano essere state manomesse. Un “vero e proprio depistaggio”, lo ha definito il giudice accusando gli agenti di aver “manipolato le fotografie scattate nelle celle per dimostrare che i detenuti “erano pronti alla rivolta con l’olio bollente da gettare addosso alle guardie”. Fu il pretesto per organizzare la perquisizione straordinaria con l’intervento di personale giunto da altre carceri, diventata spedizione punitiva. Gli abusi nelle altre carceri, aperte 16 inchieste sugli agenti di Fabio Tonacci La Repubblica, 2 luglio 2021 Santa Maria Capua Vetere non è un caso isolato: pestaggi sono stati denunciati da centinaia di detenuti in tutta Italia. Ma raramente si arriva ad accertare fatti e responsabilità. “C’è troppa omertà, indagini archiviate frettolosamente”. Sedici inchieste per tortura, pestaggi e lesioni a carico di agenti della Penitenziaria documentano quanto sia pigra e frettolosa la teoria delle “poche mele marce”. E quanto siano fragili le gambe su cui poggia. A stare alle centinaia di denunce presentate dai detenuti di tutta Italia, infatti, “l’orribile mattanza” di Santa Maria Capua Vetere non è la follia di una giornata storta. Appare essere più un metodo. Replicabile e replicato. Spesso tollerato dalle gerarchie. Quindi, alla bisogna, sanguinosa strategia di contenimento e controllo della popolazione carceraria. Allo stesso tempo, però, le sedici inchieste aperte negli ultimi due-tre anni testimoniano la difficoltà dei magistrati a individuare responsabilità e a ricostruire i fatti, quando essi avvengono all’interno delle mura di una prigione e si fanno scudo dell’omertà di tanti. A fronte di poche sentenze di condanna (è del 17 febbraio scorso quella di dieci poliziotti in servizio a San Gimignano, accusati di aver brutalizzato un tunisino), spuntano frettolose richieste di archiviazione (come a Modena), indagini senza indagati (sempre Modena), l’impossibilità di riconoscere chi ha alzato le mani o il manganello (Potenza), e torture derubricate a semplici percosse (Pavia), dunque materia per giudici di pace. Prendiamo la notte di Melfi. Tra il 16 e il 17 marzo 2020, quando la rivolta innescata dalla paura del Covid pare ormai sedata al costo altissimo di 13 vite, dal penitenziario lucano trasferiscono 60 reclusi. Ecco alcuni passaggi dei loro racconti, così come figurano nei verbali consegnati ai pm: “Gli agenti ci hanno legato i polsi con fascette da elettricista, lungo il tragitto che ci portava al pullman ci urlavano di tenere la testa bassa, avevano formato un cordone umano e alcuni di loro ci colpivano con calci nel sedere e in altre parti del corpo”; “ho visto detenuti con la testa rotta e sanguinante, occhi tumefatti e nasi rotti”; “c’erano agenti incappucciati e altri col passamontagna”; “lungo il tragitto ho subito calci e colpi con un bastone”; “sono entrati nella cella e hanno pestato mio zio, che è cardiopatico e ha due stent”. Le testimonianze sono coerenti e convergenti. Leggendole, riparte il film di Santa Maria Capua Vetere. Eppure a maggio la procura potentina ha chiesto al Gip l’archiviazione, con la motivazione che anche laddove le violenze hanno avuto un riscontro sanitario, “le vittime non sono state in grado di riconoscere gli autori”. All’archiviazione si è opposta l’avvocato Simona Filippi dell’associazione Antigone. “Quando agli atti finiscono anche i video delle telecamere di sorveglianza - osserva Filippi - le inchieste vanno avanti, come nei casi di San Gimignano, Torino e Monza. Senza i filmati è difficile abbattere il muro di omertà. Vediamo stringate richieste di archiviazioni che ci lasciano a dir poco perplessi: a Modena la procura in due paginette vorrebbe chiudere l’indagine sui nove morti della rivolta. Una evidente forzatura”. Gli eventi del marzo scorso, quando scoppiarono ribellioni in 21 istituti, 107 agenti rimasero feriti e 13 detenuti sono deceduti, sono una ferita aperta per il nostro Paese. Dopo 15 mesi - come riportato da Repubblica - non una sola responsabilità è stata accertata. Le lettere dei compagni di cella, che a Rieti e a Modena hanno parlato di abusi e mancati soccorsi per chi durante i tafferugli aveva assaltato le farmacie imbottendosi di metadone e psicofarmaci, sono finite nel nulla. Per le presunte violenze denunciate negli istituti Pagliarelli di Palermo, Milano Opera e Pavia le indagini sono in corso. A Firenze, invece, dieci agenti e due medici sono imputati per i pestaggi nel carcere di Sollicciano, il più selvaggio dei quali ai danni di un marocchino: il 27 aprile il gruppetto di secondini lo ha massacrato a calci e pugni nell’ufficio dell’ispettrice (anche lei imputata), lasciandolo a terra, nudo, con due costole rotte. “Ecco la fine di chi vuol fare il duro”, pare abbia gridato uno degli aguzzini. Storie che sporcano l’immagine del Corpo della polizia penitenziaria e dei suoi 38 mila agenti. Chiamati ogni giorno a fare un lavoro complicato. E che, ovviamente, non sono tutti dei picchiatori. Ma quante mele marce bisogna ancora scoprire prima di capire che esiste un problema di sistema? Errori e allarmi inascoltati. Così Bonafede ignorò le violenze sui detenuti di Giuliano Foschini La Repubblica, 2 luglio 2021 Il ministero parlò di “legalità ripristinata”. Dopo Cartabia segnale di Draghi: ricevuto il Garante delle carceri. Ieri pomeriggio il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, è stato ricevuto dal presidente del consiglio, Mario Draghi. Poche ore prima la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, aveva usato parole precise: “Occorre attivarsi perché fatti così non si ripetano”. Sulla storia del carcere di Santa Maria Capua Vetere il governo Draghi ha deciso di prendere una posizione senza ambiguità: “Quella della Costituzione” per citare ancora Cartabia. Nessuno sconto, dunque. Una posizione figlia di quanto stava già da settimane emergendo negli uffici del ministero della Giustizia, in quelli del Dap, nelle stanze della Procura nazionale antimafia: quello che è accaduto a Santa Maria, così come la rivolta in 21 carceri italiane che hanno causato 13 vittime e più di 200 feriti sono state il punto più basso della storia recente delle nostre carceri. E non sono state il frutto di un caso. O di qualche mela marcia. Ma il risultato di una politica di sottovalutazione e improvvisazione. Una responsabilità che in qualche modo condividono l’allora ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e l’ex capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (il Dap), Francesco Basentini, che a maggio scorso, già travolto dalle polemiche, proprio Bonafede decise di sostituire. Febbraio 2020 - Secondo alcuni la data giusta per far partire la storia è quella del febbraio del 2020 quando la pandemia bussa al mondo. E, per primo in Europa, al nostro Paese. Qualcuno al ministero della Giustizia fa presente l’emergenza carceri: sono sovraffollate sino alla vergogna. Il luogo peggiore per immaginare il contenimento del virus. Il ministro sente Basentini e insieme decidono di istituire una “unità di crisi”. Compito: procurare e fornire il personale gel e mascherine. Assolutamente necessarie per carità, ma da sole non bastano. Qualcuno spiega, purtroppo inascoltato, che ci sono da affrontare anche altre urgenze. Con almeno tre informative il Nic, il Nucleo investigativo centrale, avvertono Dipartimento e ministero che la situazione è delicatissima. Le restrizioni dovute al Covid hanno bloccato i colloqui. E il Dipartimento non ha raccolto velocemente le richieste di detenuti, associazioni e anche di alcuni direttori di carcere che chiedono misure urgenti: prima tra tutte la possibilità di videochiamare casa. Marzo 2020 - Tra l’8 e l’11 marzo cominciano le rivolte negli istituti. Il 21 marzo dal Dap viene inviata la famosa circolare che permette a molti esponenti di primo livello della criminalità organizzata di chiedere ai tribunali di sorveglianza la detenzione domiciliare. Una decisione - può ricostruire oggi - non concordata. La circolare viene firmata di domenica dalla dirigente di turno che si occupava di tutt’altro - direttrice del Cerimoniale - che viene richiamata in ufficio in tutta fretta. “L’ho fatto - ha spiegato - per dovere di ufficio”. Nessuno informa nessuno. Nemmeno la Direzione nazionale antimafia è a conoscenza del provvedimento: il procuratore Federico Cafiero de Raho salta sulla sedia quando, nei giorni successivi, cominciano arrivare pareri per le scarcerazioni di alcuni mafiosi. Con gli stessi modi viene trattato il caso di Santa Maria qualche giorno dopo. Dal carcere segnalano qualche intemperanza dei detenuti del reparto “Nilo”. Non viene chiamato in causa il Gom, il Gruppo operativo mobile, il reparto scelto della Penitenziaria abituato a gestire vicende complesse. Ma arriva invece il Gis, il Gruppo di intervento speciale, una specie di celere. È la scelta della rappresaglia. La macelleria raccontata negli atti della Procura è quasi, secondo fonti del Dipartimento, scontata. Ottobre 2020 - È il 16 ottobre, invece, quando, dopo un’interrogazione del deputato Riccardo Magi, il ministero della Giustizia, per voce del sottosegretario 5 Stelle, Vittorio Ferraresi, va in aula a dire: “Quella di Santa Maria è stata una doverosa operazione di ripristino della legalità”. Com’è possibile che Bonafede e il suo ministero abbiano difeso quelle violenze? In realtà non sapevano. La vecchia gestione del Dipartimento aveva consegnato relazioni nelle quali si diceva che tutto era stato fatto nel rispetto della legge. E che nessun abuso era stato commesso. I nuovi vertici del Dap avevano chiesto informazioni alla procura sull’inchiesta in corso ma non erano state fornite informazioni per tutelare il segreto istruttorio. “E noi come ministero - dice oggi Ferraresi - non potevamo attivarci per un’indagine interna perché questo non è consentito in presenza di un’inchiesta della Procura”. Come ha detto ieri il garante Palma, se davvero si vogliono cambiare le cose, bisognerà intervenire anche su questo. Molti avevano denunciato da tempo la mattanza. La politica, pavida, ha taciuto di Samuele Ciambriello* fanpage.it, 2 luglio 2021 C’è stato un clima di forca invocato “a capocchia” che ha visto coinvolti politici, uomini della magistratura, trasmissioni televisive che hanno disinformato, e tanti silenzi, che facevano più male delle pietre. Tanti episodi poi di democrazia sospesa, di malagiustizia, malasanità. La politica pavida e cinica ha taciuto. Una regia unica, modalità analoghe. La Pandemia ha certamente peggiorato le condizioni di vita nelle carceri italiane. Chi è in carcere ha scontato una doppia pena. Ci sono stati morti per Covid tra agenti, detenuti ed operatori penitenziari. Ci sono stati morti tra detenuti durante le rivolte. C’è stato un clima di forca invocato “a capocchia” che ha visto coinvolti politici, uomini della magistratura, trasmissioni televisive che hanno disinformato, e tanti silenzi, che facevano più male delle pietre. Tanti episodi poi di democrazia sospesa, di malagiustizia, malasanità. La politica pavida e cinica ha taciuto. Una regia unica, modalità analoghe. I gravi episodi criminosi ai danni dei carcerati di Santa Maria Capua Vetere, definiti “una orribile mattanza” dal Gip che ha emesso sulla base di plurimi riscontri oggettivi 52 misure cautelari di diversa specie nei confronti dei poliziotti penitenziari e di qualche dirigente individuati dalla Procura come possibili responsabili, suscitano profondo turbamento e grande preoccupazione. Avevo dall’otto di aprile dello scorso anno denunciato torture, violenze e intimidazioni di vario genere. I detenuti mi avevano raccontato, finanche con particolari raccapriccianti le violenze subite, il clima che si era creato anche subito dopo, la convivenza nello stesso posto di denuncianti e denunciati. Condotte penalmente illecite poste in essere. Fatti, singoli episodi verificatesi anche in tante altre carceri di una gravità inaudita che non possono non destare indignazione e allarme, specie in un contesto come quello odierno: in cui daremmo ormai pressoché per scontato che il rispetto della vita, dell’incolumità personale, della dignità umana e degli diritti altri connessi sia imposto da obblighi costituzionali inderogabili che non ammettono, in linea di principio, discriminazioni di trattamento tra cittadini liberi e persone recluse per motivi di giustizia. Le violenze sono un’offesa e un oltraggio alla dignità della persona e alla divisa. Certezza della pena con qualità della pena. Più volte ho manifestato apprezzamento per il lavoro svolto dagli agenti di Polizia penitenziaria e non ritengo, nonostante tutto, che siano venuti meno gli elementi su cui ho fondato il mio giudizio. Però essere ambigui come tanti politici stanno facendo, essere tifosi di curva non serve. Io sono sia con le famiglie dei detenuti che con quelle degli operatori penitenziari che fanno un lavoro difficile e mal retribuito. Io, noi Garanti ai vari livelli continuiamo, con dedizione e senza curvare la schiena, a smentire la teorica pretesa che la legalità legislativa e costituzionale debba fungere da stella polare anche della gestione “concreta” delle carceri, confermando l’indispensabilità della figura del garante dei diritti dei detenuti, prevista nel nostro ordinamento secondo una articolazione territoriale differenziata (cioè a livello nazionale, regionale e locale). *Garante campano dei diritti delle persone private della libertà personale I depistaggi dopo “la mattanza”: foto, video e referti medici falsi di Adriana Pollice Il Manifesto, 2 luglio 2021 L’inchiesta sul carcere di Santa Maria Capua Vetere. Negli atti del Gip le prove della manipolazione a opera degli indagati per giustificare la “perquisizione”. “Non posso ripensarci, vado al manicomio. Secondo me erano drogati. Noi dobbiamo pagare ma non dobbiamo pagare con la vita. Voglio denunciarli”: è il racconto di Vincenzo Cacace, il detenuto sulla sedia a rotelle che si vede nell’immagini di videosorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vertere. Gli agenti lo tirano fuori dalla cella mentre lo percuotono con i manganelli. È il 6 aprile del 2020, il giorno prima nel reparto Nilo avevano protestato per timore che il Covid si diffondesse, il giorno dopo è partita la perquisizione straordinaria che il gip Sergio Enea ha definito “orribile mattanza”. Sono 52 le misure cautelari, tra gli indagati anche personale con ruoli di vertice. Negli atti emerge il ruolo del provveditore campano alle Carceri, Antonio Fullone, del comandante della polizia penitenziaria nell’istituto di pena, Gaetano Manganelli, e di altre figure apicali. La partecipazione di Manganelli alla perquisizione “non è minimamente discutibile - scrive il gip - si evince nitidamente oltre che dalle dichiarazioni rese da Anna Rita Costanzo (anche lei indagata, ndr) nel corso del suo interrogatorio (“io arrivai dopo che i comandanti si erano riuniti per distribuire i ruoli e compiti nella stanza di Manganelli dove l’operazione era stata pianificata”) ma anche dai messaggi che scambia con gli altri protagonisti”. Alle 13:38 Manganelli manda a Fullone il messaggio: “Stiamo pianificando operazione” e poi a Maria Parenti (direttrice facente funzione del carcere) “stiamo per effettuare la perquisizione straordinaria”. A Fullone chiarisce: “Utilizziamo anche scudi e manganelli”. A fine giornata è soddisfatto: “Buonanotte provveditore grazie per la determinazione assunta per la concreta vicinanza”. Costanzo, commissaria capo responsabile del Nilo, nelle chat scrive: “Un’operazione eccellente. Siamo tutti molto soddisfatti. Meno male che sono venuta, mi sono riscattata”. Messaggi anche tra Fullone e l’allora capo del Dap, Basentini, che al primo risponde: “Hai fatto benissimo” quando Fullone gli scrive: “Era il minimo per riprendersi l’istituto, il personale aveva bisogno di un segnale forte e ho proceduto così”. Per gestire gli esiti “dell’operazione eccellente” sono stati necessari falsi referti medici, foto e video artefatti, depistaggi. Diciannove agenti colpiscono tanto forte e tanto a lungo i detenuti da procurarsi lesioni. Si fanno refertare e poi trasmettono gli atti all’autorità giudiziaria: “Hanno dichiarato di essersi procurati le lesioni a seguito di aggressioni a opera di detenuti - scrive il gip -. La circostanza è falsa, venendo smentita dai filmati del circuito di sorveglianza, che non rilevano mai alcuna forma di resistenza da parte dei detenuti. Sopraffatti dal gran numero di agenti presenti, si sono limitati a contenere i colpi subiti, badando principalmente a proteggere la testa”. Manganelli il 7 aprile inoltra alla procura due informative di reato sul 5 e 6. Nell’ultima viene denunciata “una resistenza opposta da 14 detenuti (“durante tale perquisizione, i detenuti di cui sopra si sono resi protagonisti di violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale”) che con tale illecita condotta avrebbero cagionato lesioni a “varie unità si polizia penitenziari” che “hanno dovuto far ricorso alle cure dei sanitari del pronto soccorso”“. Nella nota i 14 vengono indicati come i capi della protesta del 5. “La ricostruzione contenuta in entrambi gli atti - scrive il gip - è affetta da palese falsità ideologica”. Pasquale Colucci, uno degli ispettori più attivi, pure avrebbe stilato relazioni false. In una (data nell’incipit 8 aprile e in calce 6) scrive: “Durante le operazioni di perquisizione i detenuti erano armati e avevano opposto resistenza, lanciando contro gli agenti oggetti di varia natura tra cui bombolette di gas incendiate; nelle celle erano stati rinvenuti oggetti atti a offendere, fra cui pentole piene di olio bollente, spranga di ferro e altro”. Per provare la ricostruzione sarebbero state alterate foto e video messi agli atti dagli indagati. Colucci e Costanzo, insieme ad altri agenti, “hanno simulato il rinvenimento di strumenti atti a offendere”. Colucci scrive in chat: “L’unica che mi sembra più sveglia è la Costanzo, gli ho detto cosa fare”. E Costanzo a Salvatore Mezzarano: “Con discrezione e con qualcuno fidato fai delle foto a qualche spranga di ferro. In qualche cella in assenza di detenuti fotografa qualche pentolino su fornelli anche con acqua”. I messaggi successivi ricostruiscono tutti i tentativi per confezionare le false prove con la data (falsa) del 6 aprile. Ma nella macchina fotografica utilizzata è rimasta traccia del giorno e dell’ora reale. “Dell’attività di depistaggio - scrive il gip - è consapevole e informata Francesca Acerra comandante del Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria di Napoli che, abdicando al suo ruolo istituzionale, svolge un ruolo di coordinamento nella redazione della relazione inoltrate anche per il suo tramite all’autorità giudiziaria”. Analoga manipolazione la subiscono i video realizzati dagli indagati per millantare la violenza dei detenuti il 5. I messaggi tra Colucci e Fullone, prosegue il gip, “provano che il primo si è recato come da accordi pregressi presso il carcere ad acquisire i video (verosimilmente girati con un cellulare) solo in data 9 aprile”. Colucci a Fullone il 9 aprile: “Sì soni sul posto ho raccolto tutto”. E l’altro: “Ottimo”. Gli audio però fanno capire che non si tratta di immagini del 5 così Colucci scrive al suo sottoposto Massimo Oliva: “Mi togli l’audio”. Santa Maria Capua Vetere, il pestaggio fu una rappresaglia di Conchita Sannino La Repubblica, 2 luglio 2021 Ecco da chi partirono gli ordini. Nella “mattanza” nel carcere campano coinvolta l’intera catena di comando dell’amministrazione penitenziaria della Campania. E l’ex capo del Dap Basentini, informato dell’operazione, dice al provveditore: “Hai fatto benissimo”. “Ormai siamo tutti in ballo”. Un messaggio via chat con le icone dei danzatori. È il 14 aprile del 2020, quando il provveditore all’amministrazione penitenziaria della Campania, Antonio Fullone, oggi interdetto dai pubblici uffici e sotto accusa per falso, depistaggio e favoreggiamento, prova a rassicurare il “suo” comandante, Pasquale Colucci, finito in carcere per il pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Parole più lapidarie di quanto loro stessi sappiano. Solo quattro giorni prima, forzando resistenze e pretesti, carabinieri e Procura sammaritani sono riusciti a mettere le mani sugli impianti di videosorveglianza: ottenendo le immagini choc di quella che il gip Sergio Enea, in 2300 pagine di ordinanza, ha definito “ignobile mattanza”. E quando l’acquisizione è avvenuta, il terrore corre lungo i cellulari di centinaia di operatori. “‘Azz, mo sò c...i - è la profetica conclusione di Colucci - mo succede il terremoto”. Fu “spedizione punitiva”, scrive dunque il gip. Una vera e propria rappresaglia. Altro che “perquisizione”, un ordine che - contrariamente a quanto sostenuto dalla Procura - per il giudice non presentava profili di illegittimità. Ma ci sono almeno tre fronti di responsabilità nelle pagine della vergogna scritte, da quel pomeriggio del 6 aprile, nella casa circondariale “Francesco Uccella”. Tre livelli: su cui le indagini non possono considerarsi chiuse. Chi ha pestato: a sangue, con manganelli, calci, cazzotti, ginocchiate. Chi ha osservato: inerte, moralmente partecipe, incitando o coprendo le spalle. E poi: chi ha comandato. Soprattutto qui, di fronte all’eccezionale materiale probatorio cui si è giunti tra video e chat telefoniche (gli uni “letti” con le altre, e viceversa), occorre domandarsi: chi sapeva cosa, tra coloro che erano ai vertici? E cosa ha fatto dopo, affinché la verità non venisse soffocata? L’intera catena di comando, a vario titolo, coinvolta. Dal vertice della Campania Fullone, passando per il capo Colucci che guidava il “Gruppo di supporto agli interventi”, istituito proprio da Fullone nei giorni cupi dell’emergenza carceri nel lockdown; dal comandante della penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere, Gaetano Manganelli, alle due colleghe, Anna Rita Costanzo, che è commissario capo responsabile del Reparto Nilo, (Colucci si fida solo di lei, scrive: “È la più tosta”), a Francesca Acerra, comandante del Nic, il nucleo investigativo centrale della penitenziaria. Scelte e assunzioni di responsabilità quanto meno sfuggite di mano. Agli atti non a caso figurano anche le chat estrapolate tra Fullone e l’allora direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dello Stato, Francesco Basentini (prima che il capo del Dap venisse travolto dalle scarcerazioni di alcuni padrini mafiosi, causa Covid). “Hai fatto benissimo”, risponde Basentini a Fullone che lo informa della perquisizione in corso e la definisce il “segnale forte di cui il personale aveva bisogno”. “Buona sera capo - gli scrive lui, nel fatidico 6 aprile - è in corso perquisizione straordinaria con 150 unità provenienti dai nuclei regionali (oltre al personale dell’Istituto). Era il minimo per riprendersi l’Istituto... “. Basentini approva. È evidente, lo sottolinea anche il gip, che Fullone non volesse “una spedizione punitiva, a questo non crede neanche la Procura”. Non solo il provveditore nega i falsi e il favoreggiamento, ma già nel precedente interrogatorio punta su una chiara conversazione captata via chat. In cui, a Manganelli che lo avverte, “Utilizziamo anche scudi e manganelli”, Fullone indica prudenza, “Ok, se necessario ovviamente”. Fatto sta, argomenta il giudice, che quella perquisizione “diventa lo strumento mediante il quale si è dato sfogo ai più beceri istinti criminali degli agenti a cui è stato consentito di operare ogni sorta di violenza ai danni dei detenuti”. Chi, e perché lo ha consentito loro. È il pezzo che manca. Mauro Palma: “Serve svolta nella formazione degli agenti, va estirpata la cultura del branco” di Giuliano Foschini La Repubblica, 2 luglio 2021 Pestaggio in carcere, incontro a Palazzo Chigi fra Draghi e il Garante delle persone private della libertà. Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha incontrato a Palazzo Chigi Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà. Lo ha reso noto l’uffico dello stesso Garante. Il contenuto del colloquio non è stato comunicato, ma visto il clamore che sta suscitando il caso del pestaggio dei detenuti dello scorso anno nel carcere di Santa Maria Capua Vetere è molto probabile che il premier e il garante abbiano discusso della vicenda. In mattinata Palma aveva chiesto un “radicale intervento sui percorsi formativi”, della Polizia penitenziaria che “sappia estirpare quella cultura del branco che emerge troppo spesso e che si ritrova anche negli atti del provvedimento della Procura di Santa Maria Capua Vetere”. Palma definisce le violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere comportamenti incompatibili con il fondamento democratico del nostro Paese”, e auspica “interventi rapidi che incidano su più fronti”. Secondo il Garante nazionale delle persone private della libertà serve “l’assoluta intransigenza verso messaggi, anche indiretti, di sottovalutazione degli episodi, con il rischio di veicolare altrimenti una sensazione di impunità”. E dunque occorrono “interventi che, al di là del piano penale, siano inequivocabili anche sul piano disciplinare”. In questo quadro, aggiunge, sarebbe “opportuno affrontare in modo efficace la questione della riconoscibilità degli operatori delle forze di polizia”. Palma indica anche un secondo fronte di azione che riguarda “la ridefinizione di una catena di trasmissione delle informazioni agli organi superiori tale da evitare in futuro che esponenti del Governo rispondano al Parlamento qualificando quale doverosa operazione di ripristino della legalità un’azione che la documentazione disponibile mostra chiaramente al di fuori di quanto il nostro ordinamento costituzionale possa accettare”. Un chiaro riferimento alla risposta del sottosegretario grillino Ferraresi ad un atto ispettivo. Infine, secondo Palma occorre “ricostruire un percorso condiviso dell’esecuzione penale e delle sue attuali criticità che valorizzi le professionalità esistenti e che rassicuri anche la comunità esterna, oggi frastornata e rischiosamente propensa a generalizzazioni ingiuste”. Quanto avvenuto nell’Istituto di Santa Maria Capua Vetere, al di là degli esiti degli accertamenti dell’Autorità giudiziaria, conclude il Garante, rischia di “generare più vittime: coloro che hanno visto calpestata la propria dignità e la propria integrità fisica e psichica; il Corpo di Polizia penitenziaria che certamente non merita di essere identificato nella sua totalità con tali comportamenti; il Paese stesso che vede anche aggredita la propria immagine democratica in ambito internazionale attraverso comportamenti di taluni che sono chiaramente dimentichi della funzione istituzionale loro affidata”. Quella ferocia gratuita sgretola la fiducia verso le istituzioni di Daniele Mencarelli* Il Domani, 2 luglio 2021 Le violenze riprese dalle telecamere nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, avvenute nell’aprile del 2020 per mano degli agenti penitenziari ai danni dei detenuti, sono di quelle che rimandano ad altre epoche della nostra storia, quando il potere dell’istituzione poteva tutto e il contrario di tutto ai danni del singolo. Sarebbe bello poterle considerare un incidente di carattere residuale, un anacronismo, ma purtroppo questo non corrisponde alla verità. Quello che abbiamo visto è qualcos’altro. È l’equivoco di sempre. La confusione del rappresentante dello Stato che smarrisce, per autoesaltazione, i confini del suo ruolo. Non più, dunque, agente di un potere che gli viene conferito, ma titolare unico del potere che esercita. Un padre padrone. Capace di un giudizio secondo solo a quello universale. La violenza che diventa così un atto domestico, fisiologico, capace di obbedire soltanto al cuore di tenebra che la brandisce. Si dirà: è una lotta fra disperati. Niente figli di papà contro quelli di mamma. La retorica che vuole guardie e ladri in fondo maledettamente simili. No. Le immagini mostrano altro. Mostrano individui che usano violenza contro altri individui, solo che i primi sono protetti dallo scudo e dal manganello dello Stato. Nel teatro della civiltà, e come giusto che sia in uno stato democratico, molti hanno iniziato a fare il loro dovere: difendere gli indagati. Questa volta sarà un compito davvero gravoso. Altrettanto impegnativo sarà smuovere compassione nei confronti di tutta quella violenza esercitata senza compassione alcuna. Il tempo e un’aula di tribunale metteranno nero su bianco responsabilità e pene. Ma il portato giudiziario non è il solo, ma uno dei tanti, e forse nemmeno il più rilevante, di questa vicenda. Quello che molto spesso sfugge a chi rappresenta lo stato è la portata sociale di notizie come questa. Ogni volta che escono testimonianze del genere, il rapporto tra individuo e istituzione si frantuma. Poco importa quale sia l’istituzione. Il succo resta sempre lo stesso. Ovvero il terrore di varcare una porta, che sia d’ospedale o carcere, palazzo di giustizia o caserma, e ritrovarsi davanti un individuo convinto di poterci fare qualsiasi cosa, in totale disprezzo della legge, e dello stato e della natura, con la ferma sicurezza che nessuno gli verrà mai a dire niente. I primi a essere sconvolti da quanto emerso da quei video saranno senz’altro le decine di migliaia di rappresentanti dello Stato degni di questo nome, molti di loro di fronte a quelle immagini avranno masticato la stessa rabbia di ogni altra persona per bene. Sta a loro, a chi presta la propria opera nei luoghi dello Stato, ricordare a ognuno di noi che per un episodio come quello accaduto a Santa Maria Capua Vetere rispondono quotidianamente centinaia e centinaia di gesti contrari, dettati dal rispetto della legge e della vita umana. Molti di loro avranno affrontato queste giornate proprio con lo spirito di chi vuole dimostrare che le istituzioni del nostro paese sono un’altra cosa. Non possiamo non crederci. *Poeta e narratore. Il suo ultimo romanzo è Tutto chiede salvezza (Mondadori), finalista al premio Strega e vincitore del premio Strega giovani. Il caso Cucchi della Polizia penitenziaria di Dimitri Buffa L’Opinione, 2 luglio 2021 I video e i frame pubblicati sul sito internet di “Domani” ci consegnano la solita immagine di un Paese ormai divaricato dallo Stato del diritto. Nel senso che lo Stato di diritto sta da una parte, il nostro Paese da quella opposta. Quel che è successo nell’aprile 2020 con le rivolte carcerarie causate dal panico Covid - e magari fomentate almeno in parte da qualche esponente della criminalità organizzata - grida vendetta o almeno giustizia. Quattordici persone morirono nelle carceri di mezza Italia e solo dopo quasi un anno e mezzo la magistratura si è messa in moto. Prima al Governo c’era Giuseppe Conte e il garantismo era un optional mentre la giustizia era in mano all’allora ministro Alfonso Bonafede, il che è tutto dire. Adesso queste immagini delle videocamere di sorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere rischiano di disegnare un quadro disonorevole e vergognoso per tutti gli agenti coinvolti, compresi quelli che sapevano e hanno insabbiato il tutto, cercando di fare passare quei pestaggi e i morti che ci sono scappati come una sorta di incidente di percorso. Verrà fuori che non è vero al cento per cento che tutti e quattordici i detenuti sono morti di overdose come hanno detto in un primo momento. E questa storia inevitabilmente si trasformerà in una sorta di “caso Cucchi” della Polizia penitenziaria italiana. Cosa che dovrebbe suggerire a un politico ormai accorto come Matteo Salvini, per differenziarsi dal becerismo di repertorio che lo contraddistingueva e che adesso è stato ereditato da un’ala dura e pura di Fratelli d’Italia, di essere molto prudente nelle manifestazioni di solidarietà agli indagati. Che - per carità - sono tutti innocenti fino a sentenza in giudicato, e con la magistratura italiana di questi tempi non sono da escludere sviste o errori di ogni tipo, ma che, nel caso delle persone riconoscibili nei video senza possibilità di sbagliarsi con altri agenti, sono individui che hanno disonorato la divisa e forse anche il genere umano. Non si può essere garantisti solo con i propri amici, con i politici della propria parte, con i figli dei propri capi. Sennò si fa la fine dei Cinque Stelle. C’è da chiedersi invece cosa sia ormai diventata l’Italia di oggi, con la sua “giustizia” e il suo “cuore di tenebra” carcerario. A forza di sostanzialismo, cioè di fine che giustifica i mezzi, la dottrina giuridica dei Piercamillo Davigo e dei Marco Travaglio, a forza di irridere chi invoca lo Stato di diritto e il rispetto delle regole pure per i criminali ci stiamo riducendo a diventare un Paese autoritario come la Cina di Xi Jinping o la Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Se siamo diversi - come lo siamo - dobbiamo, senza inutili inginocchiamenti di facciata, fare giustizia e verità senza riguardi per nessuno. E cerchiamo di evitare coperture e omissioni che nel caso della morte di Stefano Cucchi sono arrivate a infangare i vertici dell’Arma dei carabinieri. La Polizia penitenziaria deve avere il coraggio e, se vogliamo, anche la furbizia, di non fare la stessa fine. Perché poi quando il fuoco divampa non si salva più nessuno. Dopo le violenze in carcere “ora serve un cambiamento”. Accuse e polemiche di Antonio Averaimo Avvenire, 2 luglio 2021 L’appello dell’ispettore generale dei cappellani, don Grimaldi: riportare subito umanità e dignità dietro le sbarre. Agli agenti spesso manca formazione. Non è ancora finita. Anzi. Oltre alla bufera politica - in cui finisce anche l’ex ministro della Giustizia Bonafede - emergono altri particolari su quanto avvenne il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. A raccontarli, in un nuovo video che fa il giro di tutte le tv, è Vincenzo Cacace, detenuto in sedia a rotelle presente il giorno della perquisizione straordinaria degenerata in violenza di massa: “Sono stato il primo ad essere tirato fuori dalla cella insieme con il mio piantone, dato che sono in queste condizioni. Ci hanno massacrato, hanno ammazzato un ragazzo (il riferimento è a un detenuto oggetto del pestaggio e messo in isolamento, poi in realtà deceduto per abuso di sostanze stupefacenti, ndr). Hanno abusato di un detenuto. Mi hanno distrutto, mentalmente mi hanno ucciso. Volevano farci perdere la dignità”. Il racconto è concitato, tanto che l’uomo finisce col confondere la funzionaria presente (“Anche lei aveva il manganello”) con la direttrice Elisabetta Palmieri, assente invece per malattia il 6 aprile 2020 e nei giorni successivi. Al vaglio della procura di Santa Maria Capua Vetere, in ogni caso, ci sono anche le comunicazioni che intercorsero all’epoca dei fatti tra l’allora direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, e il provveditore alle carceri della Campania, Antonio Fullone, che è coinvolto nelle indagini. “Hai fatto benissimo”, scriveva l’ex capo del Dap a Fullone in riferimento alla perquisizione straordinaria disposta dal provveditore nel carcere di Santa Maria a poche ore di distanza da una rivolta dei detenuti. In quelle chat Fullone parla di “segnale forte” da dare all’interno dell’istituto, senza fare però riferimento alle violenze accertate dalla procura attraverso l’impianto di videosorveglianza del penitenziario. Ma le violenze nel carcere campano stanno diventando a ogni ora che passa un affare sempre più politico. Prova ne sia l’arrivo all’istituto, ieri pomeriggio, del segretario della Lega Matteo Salvini. Che si è intrattenuto a lungo con gli agenti della polizia penitenziaria e con i loro rappresentanti sindacali. “Sono qui a ricordare che chi sbaglia paga, soprattutto se indossa una divisa - ha detto il leader della Lega. Questo però non vuol dire infangare e mettere a rischio la vita di 40mila agenti della polizia penitenziaria che rendono il Paese più sicuro. La giustizia faccia il suo corso, e se ci sono stati abusi e violenze vanno puniti con nomi e cognomi. Però non accetto gli insulti, gli attacchi agli agenti, che stanno arrivando in queste ore anche dai clan della camorra”. Tra gli applausi degli agenti di custodia, Salvini ha ricordato che “mattanza” (questo il termine utilizzato dal giudice per le indagini preliminari per definire le violenze perpetrate dagli agenti ai danni detenuti, ndr) sono anche le 400 aggressioni subite dagli agenti della penitenziaria nelle carceri italiane”. È la sponda che cercava il segretario del sindacato di polizia penitenziaria Sappe, Emilio Fattorello: Respingiamo la gogna mediatica, pur prendendo le distanze da quelle immagini, nelle quali si vede la frustrazione della polizia penitenziaria. La situazione è tecnicamente sfuggita di mano, come a Bolzaneto”. Anche la direttrice del carcere, Elisabetta Palmieri, ha definito “inammissibili” le violenze, pur contestualizzando l’episodio: “Nei giorni precedenti, i detenuti in rivolta si erano impadroniti di alcune sezioni”. Pesante, invece, il richiamo dell’ispettore generale dei cappellani delle carceri, don Raffaele Grimaldi: occorre ripensare subito il carcere “non come luogo di repressione ma luogo di riscatto, per aiutare i ristretti a vivere il cambiamento, favorendo il più possibile le misure alternative alla detenzione”. Dall’altro lato non bisogna abbandonare a se stessa la polizia penitenziaria, “che svolge una difficile missione”. Gli agenti “hanno bisogno di sostegno, di vicinanza, ma soprattutto una formazione permanente e un confronto franco di come gestire le criticità, senza commettere illegalità rispettando le leggi”. “Il sovraffollamento poi “rende le nostre carceri polveriere di rabbia difficili da gestire”. L’impegno da perseguire è allora, scandisce il sacerdote, “riportare umanità e dignità nei nostri istituti”. Perché non accada mai più una “orribile mattanza” di Antonio Maria Mira Avvenire, 2 luglio 2021 Una terribile e inquietante coincidenza. Che speriamo resti solo una coincidenza. Venti anni fa, il 21 luglio 2001, decine di poliziotti fecero irruzione nella scuola Diaz di Genova che ospitava tante persone che avevano partecipato alle manifestazioni di contestazione del G8, sfociate in durissimi scontri e nella morte del giovane Carlo Giuliani, ucciso da un colpo di pistola sparato da un carabiniere ‘sotto pressionè. Un’irruzione violentissima, “una macelleria messicana” la definì uno dei poliziotti che vi parteciparono, Michelangelo Fournier, all’epoca dei fatti vicequestore aggiunto del primo Reparto Mobile di Roma. Dopo venti anni abbiamo letto parole analoghe. “Un’orribile mattanza”, ha infatti definito il Gip di Santa Maria Capua Vetere quanto accaduto il 6 aprile 2020 nel carcere della città casertana e che due giorni fa ha fatto finire in cella o agli arresti domiciliari decine di agenti penitenziari, accusati di “molteplici torture pluriaggravate ai danni di numerosi detenuti”. Sì, proprio torture, parola che venne evocata anche per i fatti della Diaz. Esagerazioni? Venti anni fa la vicenda si basò su testimonianze, sui referti medici, sulle indagini successive. Ma bastò per far condannare i responsabili, alcuni anche noti e brillanti investigatori. Questa volta le immagini delle violenze sono entrate con la loro forza diretta nei social e nelle televisioni. Immagini che non hanno bisogno di interpretazioni per spiegare o convincere. Immagini di violenza organizzata, non reazioni ad altre violenze. Ricordiamo. In quei giorni all’inizio della pandemia e del lockdown le carceri furono attraversate da proteste, spesso molto violente, causate dalle restrizioni per gli incontri coi familiari, ma anche dai timori dei detenuti di fronte al virus, in condizioni sicuramente non favorevoli, basti pensare il mai risolto sovraffollamento. Le violenze, ovviamente, sono sempre ingiustificate, da qualunque parte vengano. Ma ancora di più se vengono da rappresentanti delle istituzioni, in particolare delle Forze dell’ordine che dovrebbero combattere la violenza e non utilizzarla. Certo, alla violenza spesso è necessario rispondere con forza, ma questa non può e non deve diventare vendetta, umiliazione, sopraffazione. E ancora meno con modalità organizzate. Ed è invece quello che abbiamo visto nelle immagini delle telecamere del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Una violenza sistematica, a freddo, non come reazione ad altre violenze. Quelle due file di agenti tra i quali i detenuti erano costretti a passare per essere colpiti con calci, pugni e manganelli, ricorda più un lager che una struttura che la nostra Costituzione prevede destinata alla riabilitazione. O sembrano atteggiamenti dal clan criminale, da punizione contro lo sconfitto. Ma anche contro l’inerme, addirittura colpendo chi è a terra, o chi è stato fatto inginocchiare e addirittura chi è in carrozzina. Certo lo sappiamo bene, soprattutto noi di ‘Avvenirè che al carcere dedichiamo tanti articoli e approfondimenti, che il lavoro degli agenti penitenziari non è facile, che la loro vita è quasi da detenuti, che spesso hanno a che fare con persone pericolose, violente, che non accettano le regole. Ma tutto questo non giustifica l’”orribile mattanza”. Anche perché conosciamo bene, e lo abbiamo spesso raccontato su queste pagine, storie belle e positive che vengono dalle carceri. Storie che vedono protagonisti non solo cappellani, volontari, operatori, ma anche direttori e gli stessi agenti. Un altro carcere è possibile. Per questo fanno ancor più male quelle immagini, quegli intollerabili fatti. E preoccupano. Perché altrettanto inquietanti sono stati i tentativi di depistare, di inquinare le prove, di creare prove false. Proprio come per la Diaz. Allora furono delle molotov portate nella scuola dagli stessi poliziotti e un falso accoltellamento. Oggi sono state spranghe o bastoni che dovevano comparire nelle celle per giustificare le violenze. Depistaggi che hanno visto come protagonisti non solo i semplici agenti, ma anche responsabili superiori. E non è certo tranquillizzante se il ‘marcio’ sale la catena di comando. Ora sarà la giustizia a individuare e sanzionare le responsabilità, e toccherà anche all’Amministrazione penitenziaria e allo stesso Ministero della Giustizia - ieri la ministra Cartabia è stata chiarissima - fare pulizia e chiedere scusa, non solo ai detenuti vittime della violenza ma anche ai tanti agenti che ogni giorno svolgono il loro difficile e importante lavoro con impegno, correttezza, passione e dignità. La democrazia è anche riconoscere gli errori, per migliorarsi. Tacciano, invece, quei politici che subito hanno provato a buttare benzina sul fuoco, difendendo l’indifendibile, per un pugno di voti. Guardino meglio quelle immagini e si impegnino anche loro, in silenzio, perché non accada più. Dalla parte dei detenuti e degli agenti picchiatori, ventuno anni dopo di Adriano Sofri Il Foglio, 2 luglio 2021 Comincerò facendo gli auguri ai miei amici Radicali, che oggi inaugurano la raccolta di firme per il referendum sulla giustizia, contando finalmente di farcela, grazie all’intervento di Salvini e della sua Lega: non 500 mila ne raccoglieremo, ma un milione, dicono, e prima di loro l’aveva detto Salvini. Avranno messo in conto l’effetto della mosca e del bue: “Ariamo”. Il bue ha trascorso la vigilia, ieri, a Santa Maria Capua Vetere, per solidarizzare con la Polizia penitenziaria. Auguri, auguri. Non scherzo, lo sapete. Salvini ieri ha perfino rettificato leggermente, nel senso delle mele marce, l’automatismo della sua solidarietà con chi picchia e tortura indossando una divisa - è un tipo invidioso delle divise. Come nei selfie a San Gimignano, già passata in giudizio. Detto questo, per una volta commetto l’indiscrezione di immaginare che cosa avrebbe fatto Marco Pannella. Mi è facile, perché è quello che farei io. Andrei a Santa Maria C.V., ad abbracciare i detenuti, certo, e anche a solidarizzare con quegli agenti penitenziari. Non perché dubiti di quello che hanno fatto, ma proprio perché l’hanno fatto. È grottesco additarli come mele marce: non si è trovata una mela sana fra loro. È ridicolo, e vile, immaginarli cattivi. Vuol dire non aver capito niente della storia, delle brave persone, degli uomini ordinari che diventano a gara fra loro carnefici obbedienti e volenterosi. Del branco, che quando ha dalla sua, oltre all’emulazione e all’eccitazione reciproca, l’autorizzazione dell’uniforme di servizio e lo sprone dei superiori e l’incoraggiamento del pubblico, non sa come smettere di pestare e umiliare. Branco maschile, ma ci sono anche donne, e questo li esalta. A Bolzaneto, nei tre giorni di tortura vera, organizzata, nazifascista nei gesti e negli slogan, disgustosamente sessuale com’è al fondo la tortura (com’è stata anche a Santa Maria C.V.), fu la polizia penitenziaria ad avere mano libera, furono poliziotte penitenziarie a schernire e brutalizzare giovani donne sanguinanti di botte e di mestruazioni. Non erano agenti “speciali” quelli di Santa Maria C.V.: guardate il video, ci sono uomini di mezza età, pesanti di corporatura - padri di famiglia (gli agenti speciali possono fare molto male, ma sanno fermarsi, c’è qualcuno a fermarli, quando non sia indetto il mattatoio d’eccezione come a Genova). Porterei loro la mia solidarietà, perché sono scandalizzato che si dica che sono “un’eccezione”, che sono malvagi. Decine e decine, centinaia addirittura, reclutati all’ingrosso in una notte, eccezionali e cattivi? “È successa ai detenuti una cosa orribile. Sono stati picchiati e umiliati da chi rappresentava la legge. Però è successa anche a quegli agenti picchiatori una cosa orribile. Sono stati condotti, con indosso una divisa, a malmenare e seviziare persone in quel momento indifese… Dopo aver saputo, la prima cosa che ho pensato è stata: avrei potuto essere anch’io fra i bastonati. Il secondo pensiero è stato: avrei potuto essere anch’io fra i bastonatori? So che cosa sono le “squadrette” carcerarie, gli specialisti dei pestaggi. Gentaglia, cui piace. Anche le autorità le conoscono. Li disprezzano, probabilmente, e li usano. Ma qui si sono messi assieme agenti normali. Ora, i loro colleghi dicono che i detenuti avevano fatto una rivolta… Il punto è nell’ammissione che la dignità degli agenti è legata alla dignità dei detenuti. L’odio e il disprezzo reciproci fra guardie e ladri sono la condizione perché la barbarie delle galere non sia scalfita. È una verità più difficile da dire, ma ancora più vera, nel momento in cui qualche guardia è ruzzolata dall’altra parte delle sbarre”. Ho messo fra virgolette quest’ultimo brano, perché l’ho scritto ventuno anni fa, dopo che a Sassari era successa una cosa come a Santa Maria C.V., ancora più grossa, più numerosa, per mano di agenti penitenziari “normali”, chiamati da tutte le galere sarde. Era intitolato, il mio pezzo di allora, “Dalla parte dei detenuti e degli agenti picchiatori”. Come cancellare la vergogna di Santa Maria Capua Vetere? Con amnistia, indulto e riforme di Nicola Graziano Il Riformista, 2 luglio 2021 La vicenda dei pestaggi e delle inaudite violenze consumate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere lasciano inorridito chiunque sente la forza di una vigliacca violenza come polo opposto del senso profondo dello Stato e fanno venire in mente, biasimandola, ogni violenza di Stato che, in quanto tale, merita una condanna secca e senza appello, al di là ovviamente della verifica della responsabilità personale dei soggetti che ne risultano coinvolti e che sarà affidata ad un giudizio che la accerterà. Ma il tema agita le coscienze perché pone la condanna di gesti che significano autorità nel senso più deleterio della parola così gettando gravissime ombre sulla autorevolezza che deve caratterizzare uno Stato democratico. Non è tollerabile una risposta violenta a una ribellione violenta perché non esiste giustificazione alcuna, anche in considerazione della natura chiaramente punitivo-dimostrativa della reazione a freddo avvenuta nel microcosmo carcerario sammaritano. Eppure nella Costituzione è detto che la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, il che rende ancora più gravi e imperdonabili gesti di vera e propria tortura o - per usare le parole agghiaccianti della ordinanza applicativa delle misure cautelari - gesti concretizzatisi in una “mattanza”. E di questo credo che debba parlarsi, interrogando le nostre coscienze. Che funzione oggi continua a svolgere il carcere? In che condizione si sconta una pena (anche se la più meritata di tutte)? E, soprattutto, nel carcere si riesce ad assolvere quella funzione rieducativa della pena come delineata nei suoi contorni costituzionali? Io credo che il tema nella discussione politica, ma anche sociale, non possa più essere rimandato perché in Italia troppo spesso è stato rinviato indietro, nonostante le numerose condanne europee sulla violazione dei diritti fondamentali della popolazione carceraria. Non è questo il contesto per richiamare la motivazione posta a base della cosiddetta sentenza Torreggiani che apre al tema del sovraffollamento carcerario, ma forse è necessario affrontare una volta per tutte il tema dell’amnistia e/o dell’indulto che possono avere una funzione utile e necessaria per liberare il mondo carcerario da (a volte un inutile) sovraffollamento. Ci vuole un coraggio politico che il Parlamento non può non esercitare in scelte che si auspicano immediate perché solo così si può mettere un punto fermo e ripartire. Chi scrive è stato protagonista di un’esperienza civile importante vivendo gli ultimi giorni di esistenza degli ospedali psichiatrico-giudiziari come internato volontario e così può oggi raccontare di quanto a volte era inutile una detenzione collegata a una pericolosità sociale che ben poteva essere gestita da strutture esterne alle sbarre, ma soprattutto essere presa di coscienza della società. È chiaro che non si può proporre il totale superamento del carcere, ma credo che non sia più rinviabile una riforma della custodia cautelare e dei suoi presupposti (come auspicato da uno dei referendum giustizia da poco depositati in Cassazione) laddove la carcerazione preventiva deve essere davvero e assolutamente necessaria e non svolgere altro fine. Certamente bisogna rivedere anche il tema della obbligatorietà dell’azione penale e arrivare a una punizione che sia meritata e proporzionata al valore dei beni giuridici effettivamente rilevanti la cui lesione giustifica la sanzione più aspra che incide sulla libertà personale. Questo è un tema centrale, non strettamente giuridico ma di civiltà, se si vuole che uno Stato resti autorevole e capace di realizzare con pienezza il principio di rieducazione della pena. Non scendo nei dettagli dei fatti sammaritani, ma essi esemplificano in modo forte e chiaro la necessità di una nuova visione dei diritti dei reclusi e del rapporto che quotidianamente si svolge in un braccio carcerario. È un rapporto difficilissimo - ne sono assolutamente certo - che evidentemente non fa pendere il giudizio da una parte o piuttosto dall’altra parte; tuttavia, se uno Stato deve essere definito democratico, come lo è per fortuna il nostro, non può non trarre da gesti oscuri la luce di una riforma davvero pregnante che possa far pensare a un futuro migliore. Le grida del dolore provocato dalla reclusione dei miei involontari compagni di cella rimbomba ancora (e lo farà per sempre) dentro la mia anima e a esse, mentre scrivo, fanno eco i rumori della mattanza oggi svelata e forse anche il silenzio della negazione quotidiana di alcuni diritti fondamentali sempre e comunque spettanti ai reclusi. Lo Stato non può permettersi tale battuta d’arresto. Ci vuole un colpo d’ala per lavare il doloroso sangue che schizza della ferita inferta alla nostra Costituzione e alla nostra democrazia. Ora o mai più. Ora e per sempre. Violenze in carcere, i penalisti: “Succede quando la prigione è vendetta” di Viviana Lanza Il Riformista, 2 luglio 2021 “Non ha senso provare indignazione e pietà per i detenuti maltrattati se non si è disposti a mutare radicalmente i paradigmi su cui si fonda l’istituzione carceraria. Il carcere deve essere un luogo per pochi, anzi pochissimi, in cui il rapporto tra detenuti ed educatori, psichiatri, operatori sia di uno a uno. E la pena deve avere una durata sufficiente a che il reo riacquisti la capacità di vivere in società da uomo libero”. La Camera penale di Napoli interviene così nel dibattito sul carcere che si è riacceso all’indomani della svolta nell’inchiesta sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. “Oggi - spiega il presidente Marco Campora - nelle nostre prigioni ci sono uomini che da anni hanno concluso il processo di risocializzazione, ma restano reclusi perché le pene sono spesso legate ad astratti titoli di reato, senza alcuna seria valutazione sul percorso degli uomini. E l’inutile sovraffollamento carcerario impedisce a monte ogni possibilità di dare attuazione all’articolo 27 della Costituzione”. Urge, dunque, una seria riforma del sistema. “Il progetto di riforma recentemente avanzato, che si propone di potenziare al massimo le misure alternative alla detenzione, e la storia personale del ministro Cartabia fanno sperare che il carcere possa uscire dalla logica vendicativa e immorale. Che smetta - sottolinea Campora - di essere un recinto finalizzato esclusivamente a contenere i devianti per diventare un luogo di progresso, sviluppo e uguaglianza”. “Prima o poi - proseguono i penalisti - il carcere sarà abolito così come tutte le istituzioni totali del passato che oggi a noi contemporanei provocano ribrezzo. È il momento per iniziare questa opera di graduale demolizione”. Oggi il carcere è soprattutto un luogo di sofferenza e diritti compressi. “La realtà, chiara da decenni ma rivelatasi in modo deflagrante durante l’emergenza pandemica, è che l’istituzione carcere, dopo qualche secolo di disonorata carriera, mostra dei limiti evidentissimi che la rendono ormai incompatibile con una società democratica - osserva il presidente dei penalisti napoletani - Non sembra del resto un caso che, proprio nel momento in cui il discorso pubblico sul carcere si è imbandito e incrudelito e sono riemerse parole d’ordine che sembravano bandite per sempre come “devono marcire in galera!” o “buttate la chiave!”, si sono verificati eventi (rivolte e relative repressioni) che ci hanno fatto ripiombare in un orrendo passato”. Denudati, picchiati e insultati: al carcere di Melfi come a Santa Maria Capua Vetere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 luglio 2021 Gli episodi nella notte tra il 16 ed il 17 marzo 2020, ma le immagini risultano inutilizzabili. L’avvocata Simona Filippi, dell’Associazione Antigone, si è opposta alla richiesta di archiviazione dell’esposto. Detenuti del carcere di Melfi legati con le fascette ai polsi, denudati, inginocchiati e messi con la faccia a terra o rivolta al muro. A quel punto schiaffi, umiliazioni e manganellate da parte di un gruppo consistente di agenti penitenziari che, secondo le testimonianze, apparterrebbero ai Gom. Le immagini delle telecamere risultano inutilizzabili - Le telecamere di video sorveglianza del carcere di Melfi, però, risultano inutilizzabili per l’acquisizione delle immagini a causa di un backup periodico. Diversi detenuti della sezione di Alta Sicurezza di Melfi sarebbero stati messi con la faccia a terra e tenuti fermi con gli anfibi. Altri ancora, per condurli nel pullman, sono dovuti passare tramite un cordone formato dagli agenti e al passaggio sarebbero stati manganellati e insultati. Alcuni testimoniano di aver visto detenuti con la testa sanguinante, occhi tumefatti e nasi rotti. I fatti sarebbero avvenuti nella notte tra il 16 e il 17 marzo 2020 - Parliamo del carcere di Melfi e sono le 3 di notte del 17 marzo 2020. Un gruppo rilevante di agenti incappucciati in tenuta antisommossa con caschi, scudi e manganelli irrompono nelle celle della sezione AS1 per far uscire i detenuti. Alcuni di loro li avrebbero preso a calci, schiaffi e a manganellate quando erano legati e inginocchiati con la faccia rivolta al muro. Altri ancora, mentre si dirigevano verso il pullman per trasferirli in altre carceri, sarebbero stati presi a manganellate dagli agenti che avevano formato un cordone. “Venivo messo con la faccia rivolta verso il muro del corridoio della sezione dove era ubicata la cella detentiva e in attesa che arrivassero gli altri detenuti, venivo percosso con il manganello mentre mi insultavano”. Le testimonianze dei detenuti concordano sulla modalità dei pestaggi - È una delle tante testimonianze dei detenuti del carcere di Melfi relative a presunti pestaggi avvenuti alle 3 di notte del 17 marzo 2020. Una situazione simile a quello che è accaduto al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Un altro detenuto racconta: “Durante tutto il tragitto l’agente della scorta mi ha preso a manganellate fino al locale colloqui, qui arrivati mi ha fatto entrare nella stanza dei colloqui era presente anche l’ispettore dei colloqui, uno bassino pelato, ed era presente anche l’appuntato dei colloqui che mi aveva fatto uscire dalla cella. Sempre il poliziotto che mi ha preso a manganellate mi ha detto mettiti faccia al muro e spogliato, ogni indumento che mi toglievo avevo una manganellata”. Circostanza confermata anche da un altro detenuto, il quale ha ricordato che, mentre era in attesa di effettuare la perquisizione, ha sentito che il ristretto “veniva malmenato nello stanzino dei colloqui”, tanto che lo stesso chiedeva “al personale in servizio di lasciarlo stare perché lo stavano massacrando”. Un altro detenuto racconta di essere stato bruscamente svegliato da alcuni poliziotti penitenziari in tenuta antisommossa, muniti alcuni di caschi protettivi altri da passamontagna, i quali gli hanno chiesto di vestirsi ed uscire velocemente dalla cella. Nel contempo, sia a lui che al compagno di cella, gli avrebbero applicato delle fascette in plastica ai polsi, dietro la schiena, in modo da impedire qualsiasi movimento. Faccia al muro e costretti a passare in un “cordone umano” - Usciti fuori dalla cella, ovvero nel corridoio, li avrebbero messi faccia al muro in attesa di essere trasferiti ai piani inferiori. “Lungo il tragitto che ci avrebbe portato all’interno dei pullman -prosegue il racconto del detenuto -, gli agenti intimandovi di tenere la testa bassa, avevano formato un cordone umano e alcuni di loro ci colpivano con dei calci nel sedere e in altre parti del corpo”. Tutte testimonianze che raccontano lo stesso evento. Un altro detenuto ancora racconta di essersi svegliato a causa delle urla di altri detenuti. Aperto gli occhi ha visto 5 agenti antisommossa dentro la sua cella. Uno di loro si è rivolto a lui e l’altro compagno di cella, intimandogli di vestirsi. Una volta uscito dalla cella, il solito modus operandi con le fascette di plastica ai polsi. “Una volta immobilizzato - racconta il detenuto -, due agenti di Polizia penitenziaria, mi hanno fatto inginocchiare e mi tenevano bloccato, faccia a terra, con gli anfibi. Durante queste fasi, venivo percosso dai predetti agenti di Polizia penitenziaria, con calci e sfollagente, gli stessi mi colpivano ripetutamente alla schiena, in testa, vicino alle gambe e nelle altreparti del corpo”. Il caso seguito da Antigone - È Antigone ad occuparsi di questo caso. In particolar modo l’avvocata Simona Filippi, sempre in prima fila per i casi di pestaggi e tortura che purtroppo avvengono in alcuni penitenziari. A marzo del 2020 Antigone viene contattata dai familiari di diverse persone detenute presso la Casa Circondariale di Melfi. Questi denunciano gravi violenze, abusi e maltrattamenti subiti dai propri familiari nella notte tra il 16 ed il 17 marzo 2020.Si tratterebbe, esattamente come il caso di Santa Maria Capua Vetere, di una punizione per la protesta scoppiata il 9 marzo 2020. Le testimonianze, come abbiamo riportato nello specifico, parlano di detenuti denudati, picchiati, insultati e messi in isolamento. L’avvocata Simona Filippo ha presentato un esposto, ma la procura ha chiesto l’archiviazione - Molte delle vittime sarebbero poi state trasferite. Ai detenuti sarebbero poi state fatte firmare delle dichiarazioni in cui avrebbero riferito di essere accidentalmente caduti, a spiegazione dei segni e delle ferite riportate. Il 7 aprile 2020 l’avvocata Filippi di Antigone ha presentato un esposto contro agenti di polizia penitenziaria e medici per violenze, abusi e torture. Ma la procura di Potenza ha avanzato richiesta di archiviazione. Presentata opposizione e chiesto di sentire i compagni di cella - L’avvocata Simona Filippi di Antigone non ci sta e ha presentato opposizione. Secondo il legale, la procura non ha approfondito fondamentali circostante. Innanzitutto chiede di sentire i compagni di cella dei denuncianti. Secondo l’opposizione all’archiviazione, questi potranno confermare il racconto reso dalle persone offese sia rispetto alla dinamica di quanto posto in essere dagli agenti di polizia penitenziaria intervenuti sia rispetto alle lesioni riportate dalle vittime. Per quanto riguarda il riconoscimento degli agenti, Antigone chiede di procedere all’acquisizione dell’elenco degli agenti appartenenti al reparto Gom ed intervenuto nella notte tra il 16 e il 17 marzo 2020. Un agente in servizio sarebbe stato riconosciuto - Risultano infatti acquisiti tra gli atti di indagine gli elenchi del personale intervenuto facente riferimento al Provveditorato territoriale. C’è anche un detenuto, compagno di cella di una delle presunte vittime dei pestaggi, che ha riconosciuto un agente in servizio nel carcere. Quest’ultimo, secondo la testimonianza, avrebbe detto ai Gom di andarci piano con quel detenuto, perché aveva seri problemi fisici. In sostanza, mancherebbero accertamenti fondamentali per avere riscontri. Ci sono diversi detenuti da sentire che sono testimoni dell’accaduto. C’è l’elenco dei Gom per individuare chi è intervenuto quella notte. Magari sentendo anche il Comandante che ha coordinato le operazioni, per approfondire in quali reparti e in quali celle sono andati gli agenti di polizia penitenziaria in servizio e anche gli agenti di polizia penitenziaria appartenenti ai Gom. Il Gip accoglierà l’opposizione dell’avvocata di Antigone? - La dinamica denunciata è uguale a quella che è avvenuta nel carcere campano di Santa Maria Capua Vetere. Con la sola differenza che non è stato possibile dare corso all’acquisizione delle riprese video, in quanto, come emerso dall’esito degli approfondimenti, le telecamere poste all’interno del carcere, consente solo alla visione diretta, ma non la registrazione. Non solo. Quelle che avrebbero potuto registrare i trasferimenti, risultavano danneggiate dalla rivolta. Per le sole telecamere che hanno registrato tutto, allocate nella fascia perimetrale, il caso vuole che il backup periodico ne ha impedito l’acquisizione. Il gip accoglierà l’opposizione dell’avvocata Filippi di Antigone? Di sicuro, ci sono ancora tanti accertamenti da compiere. L’anno in cui il virus è stato il mio compagno di cella di Giulia Merlo Il Domani, 2 luglio 2021 Mentre arrivava il virus e le rivolte erano soffocate nel sangue, un premio letterario raccoglieva i racconti scritti dai detenuti. Sono il ritratto di un dramma, accentuato dalla convivenza con un nemico invisibile. Il 2020 è stato un anno terribile per tutti. Per le carceri in particolare. Al Covid si è unito il dramma delle rivolte. Tra detenuti impauriti dall’ondata pandemica che stava contagiando il paese. Il fatto che la terza edizione del Sognalib(e)ro si sia svolta e infine conclusa possiede dunque un valore simbolico preziosissimo. Perché i manganelli alzati a Santa Maria Capua Vetere non sono stati i soli. Ventuno carceri in rivolta. 13 morti, tutti carcerati. Tre a Rieti, uno a Bologna, cinque a Modena, altri quattro trasferiti da Modena e deceduti ad Alessandria, Parma, Verona e Ascoli, 107 agenti feriti, 69 detenuti ricoverati. Sono passati 15 mesi. Non una sola responsabilità è stata accertata. Soltanto i nomi di persone morte mentre erano sotto la custodia dello Stato. Sognalib(e)ro è un premio promosso dal Comune di Modena, dal Ministero della Giustizia e da Bper Banca, coordinato da Bruno Ventavoli, il responsabile di “Tuttolibri”, l’inserto del sabato della Stampa, che ha coinvolto molte carceri italiane. Lo scopo: fare leggere e scrivere i detenuti. Dalle rispettive sedi, i detenuti hanno assistito alla autopresentazione dei tre scrittori in lizza per l’edizione 2020: Gianrico Carofiglio, con La misura del tempo, Einaudi; Valeria Parrella, con Almarina, Einaudi; Maria Attanasio, con Lo splendore del niente e altre storie, Sellerio. Ha vinto Parrella che farà un insolito book-tour per le carceri italiane presentando il suo romanzo. Per l’edizione 2020 sono stati individuati dal ministero 17 istituti, dove sono attivi laboratori di lettura o scrittura creativi: la Casa circondariale di Torino Lorusso e Cotugno, quella di Modena, le Case di reclusione Milano Opera, e Pisa, Brindisi, Trapani, Verona, Cosenza, Saluzzo, Pescara, Napoli Poggioreale, Sassari, Paola, Ravenna, e Castelfranco Emilia; e quelle femminili di Roma Rebibbia e Pozzuoli. I detenuti sono stati invitati non solo a leggere ma anche a scrivere e ora Il Dondolo, la casa editrice digitale del comune di Modena diretta da Beppe Cottafavi, pubblica un volume digitale che seleziona e raccoglie gli scritti pervenuti. Questo ebook si può ora leggere e scaricare gratuitamente sulla piattaforma Mlol che digitalizza tutte le biblioteche pubbliche italiane e su cui si può leggere anche Domani oppure su www.comune.modena.it/ildondolo. Sono poesie, racconti, semplici “sfoghi” sul tema “il mio lato migliore”. C’è anche un romanzo breve, Un po’ dentro, un po’ fuori, di Daniele Oriolo, dal carcere di Torino, di cui la giuria tecnica, composta da Barbara Baraldi, Simona Sparaco e Paolo di Paolo, ha apprezzato lo sforzo di costruire una trama complessa, ricca di colpi di scena, cercando anche di sensibilizzare sul tema della violenza sulle donne. Valeria Parrella, la vincitrice, apre l’antologia, indicando le letture importanti della sua vita. Resurrezione di Tolstoj, L’Agente segreto di Conrad, Jane Eyre di Charlotte Brontë, I Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci e, tra i nuovi libri, La città dei vivi di Nicola Lagioia. I testi che ha suggerito verranno acquistati e regalati con il contributo di Bper alle biblioteche degli istituti che hanno partecipato al premio. Ecco uno dei testi scritti nelle carceri italiane, realizzato da Marco Casonato dalla Casa circondariale “Don Bosco” di Pisa e pubblicato dal Dondolo. Io e Lui: il virus - Nel 2020 il virus divenne una sorta di compagno immaginario che popolava invisibilmente l’ambiente circostante alle persone e a cui si guardava con qualche circospezione e cautela al punto da cambiare molte abitudini inveterate e richiedere molti cambiamenti agli ambienti e alle modalità di vita più elementari. Infermeria - Nell’angusta infermeria arredata di vecchie sedie dalle cui screpolature emergeva l’imbottitura di spugna giallastra, seduto alla scrivania di paniforte e formica sbrecciata, il dottor G aveva deciso di indossare il completo azzurro. Quello da sala operatoria per fare fronte al caldo afoso da cui gli indumenti forniti dal Presidio sanitario, composti com’erano di fibra sintetica scelta dall’amministrazione così attenta al risparmio, non parevano assolutamente in grado di proteggerlo. La stanza, come al solito, era affollatissima: due medici, due infermiere, due pazienti tutti provenienti da zone indeterminabili senza soprascarpe, né altre precauzioni minori. La pala del ventilatore all’americana si allungava dal soffitto ed era striata dal nero delle muffe e per le colonizzazioni batteriche allargatesi nel tempo. La pala girava pigramente rimescolando l’alito afoso dei presenti col pulviscolo. Gli alimentatori dei vecchi computer ronzavano affannati aspirando la polvere che poi espellevano dai loro pertugi nascosti. Ma il dottor G è allegro, il completo azzurro gli dona molto dicono le infermiere, e poi, soprattutto, non percepisce più il fastidio costante, come un prurito mentale causato dall’improprio tessuto sintetico fornito dall’amministrazione sempre micragnosa rispetto a quanto è necessario per il personale sanitario: ciò lo rende nervoso, ora respira e sorride alla giornata. Gli avvisi e i promemoria di servizio polverosi sembrano suppurare sulle quattro pareti ove sono affissi con cerotto per medicazioni. Tuttavia l’atmosfera è allegra; il medico di ottimo umore sembra spandere attorno a sé il suo ottimismo. L’équipe è in certo qual modo raggiante anch’essa nella luce trasversa che filtra a fatica dalla stretta finestra che non si può aprire. Luminosa come una foto ricordo. Oggi l’indice Rt è 0,98: una sorta di nuova quotazione di borsa che si accompagna ai dati del campionato di calcio e a quelli della volatilità della borsa di Tokyo. Uno dei tanti dati che si ascoltano distrattamente mentre si prende il caffè. Eppure nell’afosa calura d’agosto qualcosa circola invisibile spinto da pale cariche di muffa, da vecchi computer sbuffanti, dal via vai di suole provenienti da chissà dove. Riesame - Un giudice sudato maneggia con distratto fastidio il fascicolo del Riesame, l’auletta angusta si raggiunge tramite un tortuoso corridoio ove transitano lentamente agenti di polizia accaldati che provengono da ogni parte della regione. Le scarpe della polizia spremono camminando la suola cotta dal sudore che ha conosciuto i sudici corridoi di ogni istituto del comprensorio. Anche nell’auletta del Riesame le pale del ventilatore all’americana rimescolano svogliatamente i sudori di magistrati assiepati nella stanza troppo stretta, del cancelliere, di un’uditrice visibilmente a disagio, con quelli di avvocati e scorta. La moltitudine di deodoranti, le polveri, gli aliti si sedimentano sulle lucide superfici dei banchi e sulla balaustrina di legno finto-antico da ufficio giudiziario semi-dirigenziale che cerca di regalare dignità a quell’assembramento affannato. Come i furgoni-taxi del Medio Oriente. La ricrescita delle ascelle della sostituta procuratore generale stilla lentamente gocce silenziose durante l’udienza camerale. Mentre si consuma velocemente il tempo contingentato con un susseguirsi di mute mimiche nei momenti cruciali in cui sono esposte frettolosamente tesi e contro-argomenti, la pala del ventilatore all’americana gira lenta e instancabile come la ruota delle Parche. Si riservano. Infine: La situazione epidemica è oramai sotto-controllo. Giugno 2020. Didattica a distanza - In una stretta aula nobilitata dai nuovissimi banchi a rotelle. Mi sente? Un po’, però, non la vedo. Come? Io vedo bene. Io no, un punto colorato col nome. Ah, ecco, ora si vede, ma non la sento più. Potrebbe parlare più forte? No, forse devo allontanarmi dal microfono. Cosi la vedo a metà. Ecco, forse ci siamo. Si parte? Procediamo. Dovevate scrivere un commentino al libro che avete scelto. Come vi è parso? Mi sentite? Mi sentite? Sì, ah, mi pareva… andiamo avanti. Brrblurg… Non sento più! Non sento più! Noi la vediamo bene, ma il suono va e viene. Scrrbg… Il commentino lo avete scritto? Ora si sente. Andiamo avanti. Apri la finestra, ché siamo un assembramento. Ma è freddo. Ammazza il virus. Ma se viene da fuori? Boh, andiamo. Io il commento non ho fatto in tempo a scriverlo, ma lo faccio la prossima volta. Come hai detto? … prossima volta. Ah, va bene, va bene. Mi sente? Io ho letto quel libro di storie siciliane. Mi è piaciuto, soprattutto… Come? Mi sente? Ah, ecco, sì. Storie siciliane, sì. Ti è piaciuto? L’ambientazione, l’atmosfera di paese. Mi sentite sempre? Sì. Quella autrice ha fatto un bel lavoro: è partita da antichi documenti di archivio e poi ha romanzato le scarne informazioni. Come? Come? Ma, mi sentite o è caduta di nuovo la connessione? Va e viene… Forse bisogna parlare vicino a questo microfono aggiuntivo. Ah, allora i banchi a rotelle servono, uno si sposta verso il microfono, pagaiando coi piedi… La carta e l’edizione sono raffinate, eleganti. Ma il libro è una riedizione di alcune storie raccolte in precedenza, cui ne sono stati aggiunti di nuovi. Eh sì, ha trovato “un genere” l’autrice! Mi ha sentito? Che ne pensa? Mi sente? Che ne pensa? Ora sento, che dicevi? Che è il secondo libro. Ah sì, certo. Aggiunte delle storie al primo. Uh, forse, eh sì, ha ragione, il libro era esaurito e l’autrice invece di una ristampa, ne ha fatto uno parzialmente nuovo. E a voi che è sembrato? Dice? Si sente? Sì, sentiamo, ci è piaciuto in generale. Di nuovo va e viene la voce, proprio a metà, la frase tagliata a metà, sul più bello. Natascia Savio in digiuno di protesta, reclusa a 1.000 chilometri di distanza da casa e avvocato di Frank Cimini Il Riformista, 2 luglio 2021 Questa è la storia di Natascia Savio militante anarchica che sta facendo lo sciopero della fame dal 17 giugno scorso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, quello dei pestaggi e delle torture ai danni dei detenuti dove l’inchiesta della magistratura ha portato all’emissione di 52 misure cautelari per agenti e funzionari penitenziari. Natascia Savio considera lesi i suoi diritti di reclusa e di imputata in due processi in corso a Torino e Genova. Nel capoluogo piemontese la donna risponde di associazione sovversiva ma a piede libero perché le manette erano state annullate dal Tribunale del Riesame. Al centro del processo genovese ci sono invece alcuni pacchi esplosivi. Savio protesta contro le condizioni detentive che le impediscono di avere rapporti con i familiari e soprattutto con il suo avvocato Claudio Novaro con cui è in pratica impossibilitata a preparare le udienze. Natascia Savio è detenuta dal marzo di due anni fa e dal marzo scorso proprio nell’imminenza dei due processi è stata trasferita nella prigione di Santa Maria Capua Vetere che dista circa mille chilometri dal luogo di residenza della famiglia e dallo studio del suo legale. L’avvocato Claudio Novaro ha scritto al Garante dei detenuti che l’ha risposto spiegando di aver avviato un’interlocuzione con il Ministero della Giustizia. Il legale racconta inoltre di aver inviato plurime istanze al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria nella speranza di ottenere un trasferimento in un carcere vicino ai luoghi di celebrazione dei due processi e attrezzato al fine di consentire la consultazione degli atti. Il tutto finora senza esito alcuno. La presidente della corte d’Assise di Torino alla quale era stata mandata per conoscenza la richiesta di trasferimento per Natascia Savio aveva espresso parere favorevole spiegando che il procedimento prevedibilmente impegnerà diverse udienze con cadenza di almeno una per settimana. Dice l’avvocato Novaro che i continui trasferimenti tra un carcere e l’altro hanno visto la detenuta sempre in quarantena sanitaria, di avere a disposizione soldi per la spesa interna e i propri vestiti. Sempre secondo il difensore la donna è reclusa 24 ore al giorno senza la possibilità di fare l’ora d’aria. Inoltre sarebbe sparita la vecchia cartella clinica e ne è stata predisposta una nuova. I parametri vitali vengono rilevati da un infermiere “che la pesa non tutti i giorni e le misura la pressione. La glicemia è stata rilevata in una sola occasione”. L’avvocato ricorda le diverse raccomandazioni del Consiglio d’Europa secondo le quali i detenuti hanno diritto di mantenere rapporti normali con i familiari. “Ancora una volta si tocca con mano la divaricazione che si produce sul piano del concreto trattamento penitenziario tra l’empireo dei principi e la realtà materiale delle condizioni detentive” scrive l’avvocato nella memoria inviata al Garante e al Dap. Novaro ricorda anche che la casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere non prevede la possibilità di video-chiamate a distanza tra i detenuti e i loro difensori. Nei giorni scorsi il legale ha parlato con la sua assistita per una decina di minuti per telefono e sino al prossimo mese non avrà più diritto di comunicare per discutere della linea di difesa. Draghi-Cartabia è sprint sulla riforma della giustizia. Il caos M5s favorisce l’accordo di Carmelo Caruso Il Foglio, 2 luglio 2021 Sulla giustizia c’è un problema potenziale ma non un rischio effettivo. Si esclude che accada ma non è detto che non succeda. Se ne parla. Può accadere che un M5s sbandato voglia tornare alle origini e riprendere dal vecchio sacco tutte quelle malandate idee sulla giustizia. Può anche accadere che un nuovo gruppo, con a capo Giuseppe Conte, possa servirsi di questo tema per annunciare al mondo i suoi valori antichi e nuovi. Accadrà? E perché? Questo non è il pensiero di Mario Draghi ma di chi è al governo con Draghi: “Sulla giustizia c’è un problema potenziale ma non un rischio effettivo. La riforma della giustizia si farà. Un irrigidimento di una parte può solo accelerare il suo percorso”. Ci sono dei temi sensibili che allontanano le forze di governo? Ci sono. Nasconderlo non serve. La ministra Marta Cartabia che è rimasta addolorata e ferita dal video dei pestaggi non ha voluto ancora dare una data. Non ha detto “la prossima settimana la riforma va in Consiglio dei ministri”. Scrivere tuttavia che a metà della prossima settimana la riforma sarà discussa in Cdm non è azzardare. È una sorta di vidimazione politica. A Palazzo Chigi la chiamano “andatura”. E dunque “la riforma della giustizia va approvata per mantenere l’andatura”, “non ostacoliamo l’andatura”. Chi potrebbe andare controvento? L’ex ministro Alfonso Bonafede. È la variabile ex ministro. C’è infatti un M5s stordito che si teme possa esasperare i suoi “non ci sto”. Le impuntature sono tre: la prescrizione, il criterio di priorità per esercitare l’azione penale e i limiti di appellabilità delle sentenze. Chi sono i parlamentari del M5s che hanno finora mostrato una certa durezza? Di Bonafede si è detto. Gli altri sono Vittorio Ferraresi, Elvira Evangelista, Giulia Sarti. La ministra Cartabia ha lavorato su questa durezza e non solo lei. Li ha ascoltati a più riprese. E se non fosse una parola che in questo paese si interpreta sempre male, come dice giustamente la responsabile del Pd Anna Rossomando, si potrebbe dire che il Pd si è speso con i suoi diplomatici. Sono Cesare Mirabelli, Alfredo Bazoli, Walter Verini che hanno cercato di spostare in area buon senso i “tecnici diritto” del M5s. Si può dunque dire che il Pd stia lavorando al fianco della ministra, ma si può dire, premette la signora Giustizia dei democratici, solo se si spiega che “il nostro partito ha tenuto un punto politico netto. Significa stare al merito. Le soluzioni si trovano così ed è quello che come Pd stiamo facendo. Se invece si sceglie di piantare bandierine simboliche o di giocare due parti in commedia, allora la metà si allontana”. Se il M5s dovesse separarsi la vera incognita non sarà tanto sapere a quale leader rispondono ma a quale idea si ispireranno. Fare della prescrizione l’ultima bandiera non dovrebbe essere nella natura di Conte se è un vero Conte liberato da Grillo. La riforma civile è perfino già calendarizzata. Il 20 luglio va in Aula a Palazzo Madama. Si è avanti. Il passaggio in Cdm riguarda invece la riforma del penale. Quando la ministra Cartabia prenderà la parola sarà più un momento politico anziché tecnico. Sarà l’invito a mettere un sigillo che non può che essere il sigillo del governo. A questo serve la discussione in Cdm. In che condizioni arriverà il Movimento? Scosso, disorientato. La riorganizzazione toglierà forze ancora per qualche settimana. Il governo non ha il fiato corto mentre il M5s adesso è occupato dalle cause di divorzio. Incide. Nessuno né tantomeno Draghi vuole approfittare del loro tormento. Si chiama solo “cronoprogramma”. È stato condiviso. Il governo vuole chiudere il pacchetto Giustizia entro fine luglio. E se andrà come deve andare si dovrà cominciare a ragionare sul sistema penitenziario. Quando il premier si è insediato, molti non lo ricordano, ma uno dei passaggi più alti riguardava le carceri. È uno dei pensieri fissi della Cartabia. Sarà insomma la settimana di questa ministra che usa come frase ricorrente “andare spediti” e che ha definito “oltraggio alla divisa e tradimento della Costituzione” quello che non doveva avvenire. La riforma della giustizia non sarà tanto la prima vera prova parlamentare di Draghi ma la prima uscita di Conte. Giustizia, al via raccolta firme per referendum targati Lega-Radicali adnkronos.com, 2 luglio 2021 Al via la raccolta delle firme per i referendum sulla giustizia targati Lega-Radicali. Gazebo (1200 del Carroccio) e penne saranno a disposizione dei cittadini per 90 giorni. Oggi inizia, infatti, il primo weekend referendario: “L’obiettivo è avere almeno 3000 banchetti per la raccolta firme in tutta Italia: se si raccolgono” in questo fine settimana “la metà delle firme necessarie, 250 mila firme vuole dire che la gente è pronta”, ha detto Matteo Salvini, a inizio giugno, prima di depositare i sei quesiti in Cassazione, insieme al radicale Maurizio Turco. Nel merito i sei quesiti che Lega e radicali vogliono portare in cabina elettorale sono sul tema della riforma del Csm, responsabilità diretta dei magistrati, equa valutazione dei magistrati, separazione delle carriere, limiti agli abusi della custodia cautelare e abolizione del decreto Severino. Ieri il leghista ha ribadito come siamo di fronte a “una pacifica rivoluzione, la firma dei sei referendum potrà fare, dopo 30 anni, quello che non ha fatto la politica in Parlamento”. “Noi sosteniamo le riforme di Draghi e Cartabia, ma i cittadini potranno dare un a bella spinta”, si è affrettato ad aggiungere poco dopo. Una posizione che tiene conto della partecipazione al governo della Lega, che deve garantire anche l’appoggio al cammino parlamentare della riforma della giustizia, il ‘pacchetto’ Cartabia che rischia di essere azzoppato dalla campagna del Salvini di lotta, per la prima volta a fianco dei radicali, da sempre partito referendario del paese. Sul tema Salvini ha, negli ultimi giorni, cercato di trovare l’appoggio del centrodestra di governo, incassando lunedì scorso l’ok ai referendum di Antonio Tajani, coordinatore azzurro che ha assicurato che il suo partito aiuterà anche per la raccolta delle firme. Dentro la battaglia referendaria anche l’Udc. Uno stringere le fila che sembra costituire come un ulteriore passo verso la federazione dei partiti di centrodestra, auspicata da Salvini, con un patto sulla giustizia targato Lega-Fi-centristi, dopo la proposta comune sui temi fiscali. Una sirena che non attrae Fdi, che in un vertice, a quanto apprende AdnKronos ha preso questa posizione: appoggio ai quesiti sulla magistratura, ad esempio sul Csm, mentre no a quanto chiesto da Lega e radicali su custodia cautelare e legge Severino. Nello specifico, per il partito di Giorgia Meloni si rischia con le modifiche alla custodia cautelare, nel caso di reiterazione di reato, di favorire ad esempio gli spacciatori. Sul tema della Severino la linea è quella di mantenere l’automatismo tra incandidabilità e la condanna per certi reati, anche per evitare che si torni alla discrezionalità dei giudici. In ogni caso da parte di Fdi si insisterà per portare le forze del centrodestra a votare gli emendamenti in parlamento presentati dal partito di Giorgia Meloni, per esempio sul tema della separazione delle carriere, con concorsi distinti per pm e giudici. “Sul Csm - spiega all’AdnKronos Andrea Delmastro, deputato di Fdi responsabile dei temi della giustizia - noi per esempio proponiamo il sorteggio, il centrodestra voti i nostri emendamenti, e la risolviamo più facilmente”. L’Anm è una monarchia assoluta, per questo nega i referendum sulla giustizia di Armando Mannino Il Riformista, 2 luglio 2021 Nella sua relazione al direttivo dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) il presidente Giuseppe Santalucia ha criticato le sei proposte istitutive dei referendum sulla giustizia depositate dai radicali e dalla Lega, perché i temi trattati per la loro rilevanza istituzionale e intrinseca complessità avrebbero dovuto essere discussi e valutati nelle aule parlamentari. La preferibilità di questa soluzione rispetto a quella referendaria è indubbia. Non si può però trascurare che le proposte in discussione in Parlamento, certamente utili, sono timide e in larga misura non idonee a rimuovere le cause della pesante crisi in cui da troppo tempo si dibatte il “sistema giustizia” in Italia. Inoltre, indipendentemente dal merito delle singole proposte di referendum, sulle quali saranno chiamati a pronunciarsi i cittadini se com’è prevedibile sarà raggiunto il numero di firme necessario, l’effetto non secondario di fatto perseguito è anche quello di accertare la misura del consenso dell’opinione pubblica nei confronti di misure sostanziali di riforma della magistratura, senz’altro utile per rimuovere quegli ostacoli politici che in Parlamento ne impediscono l’adozione. Sembra questo il vero timore di Giuseppe Santalucia e dell’associazione che presiede. Egli aggiunge infatti che “il tema referendario sembra esprimere un giudizio di sostanziale inadeguatezza dell’impianto riformatore messo su dal Governo; e fa intendere la volontà di chiamare il popolo ad una valutazione di gradimento della magistratura, quasi a voler formalizzare e cristallizzare i risultati dei vari sondaggi di opinione che danno in discesa l’apprezzamento della magistratura”. Conclude poi che “spetta all’Anm una ferma reazione a questo tipo di metodo”, perché è suo compito operare “affinché il carattere, le funzioni e le prerogative del potere giudiziario, rispetto agli altri poteri dello Stato, siano definiti e garantiti secondo le norme costituzionali”. Per valutare queste affermazioni è opportuno partire dalla contrapposizione esistente tra la costituzione formale, cioè i principi sanciti nella Carta costituzionale, e la cosiddetta costituzionale materiale, derivante dall’assetto concreto che la magistratura ha progressivamente assunto in questi ultimi trent’anni. La prima si fonda sulla concezione della magistratura come un “ordine” (art. 104 Cost.), privo in quanto tale di una organizzazione e di un vertice che di fatto potessero consentirle, avvalendosi dei poteri coercitivi ad essa affidati, di assumere un’indebita supremazia sui poteri costituzionali. Questo ordine è caratterizzato dai principi di indipendenza da condizionamenti interni ed esterni e di autonomia nell’esercizio della funzione, necessari per assicurare la subordinazione del magistrato alla legge, cioè alla volontà sovrana dei cittadini espressa direttamente con il referendum o indirettamente per mezzo degli organi che li rappresentano. La costituzione materiale della magistratura si fonda invece su principi opposti, il cui fondamento si rinviene nell’associazionismo sindacale. Messo fuori legge nel 1925 dal regime fascista, nel 1944, quindi ben prima dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, i magistrati costituiscono l’Anm, al cui interno nel 1950 si organizzano le correnti sulla base dei diversi orientamenti culturali e politici. In tal modo la magistratura ha assunto una struttura unitaria e si è trasformata in un potenziale potere politico, poi divenuto effettivo a partire dagli inizi degli anni 90 del secolo scorso con la stagione cosiddetta di “Mani Pulite”, che ha prodotto il collasso della tradizionale classe politica di governo e l’avvento di nuove organizzazioni partitiche. Con la contestuale soppressione della prerogativa costituzionale dell’immunità penale dei parlamentari - avventata perché non sostituita da altre forme di garanzia della politica nei confronti di una magistratura politicizzata e dominata dalla corrente di sinistra -, la classe politica ha perso la sua autonomia, condizionata dalla minaccia sempre latente di iniziative penali inconsistenti, politicamente orientate, destinate a concludersi con un proscioglimento a distanza anche di decenni dopo avere stroncato carriere politiche e prodotto danni notevoli di natura personale, familiare, economica e politica. Approfittando dei poteri coercitivi ad essa assegnati dalla Costituzione e dalla libertà di associazione sindacale, la magistratura si è così trasformata in uno Stato nello Stato, assumendo di fatto la supremazia su tutti gli altri poteri. Ha un proprio organo politico-rappresentativo (l’Anm), costituito a sua volta da entità in prevalenza politicizzate (le correnti) e un proprio organo esecutivo (il Consiglio superiore della magistratura), per mezzo del quale controlla e condiziona, con le modalità descritte da Palamara, tutta la carriera dei magistrati e di riflesso la loro indipendenza e autonomia, distorcendo di fatto principi fondamentali della Costituzione. È questo il contesto in cui si collocano le affermazioni del Presidente dell’Anm, che, considerata l’assenza di qualsiasi forma di dissociazione o dissenso, appaiono rappresentative della generalità della corporazione. Esse sono espressione e rivendicazione da parte della magistratura, e per essa della cerchia ristretta di magistrati che la governa, della sua supremazia sulla società e sull’organizzazione costituzionale dello Stato. Viene addirittura sindacata la sovranità popolare e con essa i diritti dei cittadini che ne sono espressione! Al referendum vengono posti limiti inesistenti in Costituzione, perché ad esso non sarebbe consentito esprimere, sia pure implicitamente, una valutazione di “sostanziale inadeguatezza dell’impianto riformatore messo su dal Governo” nei confronti dell’ordinamento giudiziario: impianto riformatore che tra l’altro è quello predisposto dall’ex ministro Bonafede, il cui progetto di legge, largamente condizionato nei suoi contenuti timidi e insufficienti dagli ambienti giudiziari interni ed esterni allo stesso Ministero, è il testo-base dell’esame parlamentare in corso. Quindi l’avvertimento è rivolto anche al Parlamento, nel suo raccordo con il Governo in carica, che nell’esercizio del potere legislativo non potrebbe né dovrebbe modificare quell’ “impianto riformatore”. Le affermazioni del presidente dell’Anm tendono ad attestare e rafforzare la supremazia assoluta che la magistratura ha assunto nella costituzione materiale dello Stato. Il popolo, i cittadini sovrani, non potrebbero pronunciarsi nemmeno implicitamente sul loro “gradimento” nei confronti della magistratura, perché si teme che possano “formalizzare e cristallizzare i risultati dei vari sondaggi di opinione che [ne] danno in discesa l’apprezzamento”. È questa la prerogativa essenziale del sovrano assoluto, che in quanto tale è per principio esente da qualsiasi critica. Ma rivendicarla è espressione di grande debolezza. Presuppone la consapevolezza che il consenso dell’opinione pubblica è requisito indefettibile della magistratura, come ha ripetutamente ammonito il presidente Mattarella, e manifesta il fondato timore che l’esito del referendum ne attesti l’avvenuto declino, aprendo la strada a effettivi interventi riformatori non solo di natura legislativa ma anche costituzionale. Il sovrano è nudo e cerca disperatamente di difendersi. Per questo l’Anm, quale organismo sindacale rappresentativo dei magistrati, preannunzia “una ferma reazione”, che non è espressione della libertà di manifestazione del pensiero, mai in discussione, ma esercizio della libertà di associazione, nella specie sindacale, che si dovrebbe sostanziare in un’attività volta ad impedire lo svolgimento del referendum comprimendo i diritti costituzionali dei cittadini. Sembra escludersi però che questa attività possa risolversi nella proclamazione di uno sciopero, non solo perché la sua legittimità costituzionale sarebbe molto dubbia, ma specialmente per gli ulteriori effetti pesantemente negativi che produrrebbe sull’opinione pubblica, perché contribuirebbe a delegittimare ulteriormente la magistratura. Non si comprende quindi quali dovrebbero essere le forme e modalità della “ferma reazione” preannunziata dal Presidente dell’Anm, che questi ha omesso di precisare, creando una situazione di incertezza e di preoccupazione che si fonda sui poteri coercitivi costituzionalmente spettanti alla magistratura e sui tanti casi in cui il loro uso si è dimostrato non corretto. Il silenzio con cui queste affermazioni sono state accolte dalle forze politiche sembra confermarlo. Si comprende quindi la particolare prudenza con la quale la ministra Cartabia sta seguendo la riforma dell’ordinamento giudiziario: prudenza che non è dovuta a debolezza o a interessi politici personali, estranei alla sua formazione e personalità, ma alla preoccupazione che iniziative giudiziarie inconsulte possano intralciare il cammino del Governo e della sua maggioranza, mettendo a repentaglio il raggiungimento di quegli obiettivi di riforma a cui ci siamo impegnati nei confronti dell’Unione Europea. È quindi più che opportuno che tra le tante riforme in cantiere vi sia anche quella di ricostituire le garanzie della politica, riaffermandone l’autonomia nei confronti del potere giudiziario. Referendum, Meloni divorzia da Salvini: “Che errore indebolire il carcere preventivo” di Errico Novi Il Dubbio, 2 luglio 2021 L’altolà di FdI affidato al responsabile Giustizia, Delmastro: “Assurdo il quesito sulla custodia cautelare”. Firme, oggi il via. Destra divisa. Altro effetto del lungo day after pentastellato, forse, che indirettamente favorisce il disordine e il solipsismo anche in altri schieramenti. Fatto sta che dopo la faticosa adesione al referendum concessa tre giorni fa da Silvio Berlusconi, ieri è invece arrivata la gelida conferma del no di Fratelli d’Italia. L’ha comunicata il deputato e responsabile Giustizia di Giorgia Meloni, Andrea Delmastro Delle Vedove, con una secca intervista al Fatto quotidiano: stroncato innanzitutto il quesito che vieterebbe la custodia cautelare basata se basata solo sul rischio di reiterazione (“noi siamo assolutamente contrari”), ma FdI si chiama fuori anche sulle altre proposte abrogative. Siamo dunque alla scissione referendaria nel centrodestra. Ed è un dato politicamente pesantissimo. La “destra- destra” di Meloni marca le distanze sulla nuova affinità di Salvini coi radicali. Lo avrebbe fatto in ogni caso, probabilmente, per lucrare una legittima visibilità, lo fa a maggior ragione per mettere il Carroccio in difficoltà sul quesito più problematico per le vocazioni leghiste: quello appunto sui “limiti alla custodia cautelare”. Proprio sul Fatto, Piercamillo Davigo aveva veicolato il messaggio secondo cui il successo di quel referendum sarebbe un regalo alla microcriminalità. Non si può parlare certo di idillio, in questa fase, fra i tre partiti del centrodestra. E il quadro non è semplice neppure per il solo asset della giustizia che prescinda dalle contorsioni 5s, il referendum appunto. Delmastro risponde al quotidiano di Marco Travaglio, che punta a far emerge un “Salvini incoerente” rispetto alla linea “legge e ordine”: non è possibile, per il deputato di Fratelli d’Italia, “privare gli inquirenti di uno strumento così efficace”, utile, a suo giudizio, a “evitare un’attività criminosa che altrimenti proseguirebbe imperterrita”. Il parlamentare si sofferma sulla necessità di contrastare “spaccio, scippi e furti in abitazione”, ma anche i reati dei “colletti bianchi”. Non lascia intravedere aperture sugli altri quesiti: noi siamo per gli emendamenti alle riforme, spiega il responsabile Giustizia di Fratelli d’Italia, anche “sul Csm”. E la bocciatura del referendum è esplicita, per il partito di Giorgia Meloni, persino sull’abrogazione della legge Severino: “La legge ha effetti distorsivi e incostituzionali per gli amministratori locali, ma dei criteri di ineleggibilità e incandidabilità per i condannati devono restare. Sono contrario a eliminarla del tutto”, è la sentenza. Non è solo un problema di Salvini e al limite di Berlusconi, ma di equilibrio generale. Cosa può avvenire? Che il Carroccio potrebbe sentirsi spinto a esasperare la propria intransigenza su altri versanti, per attenuare il colpo sulla custodia cautelare. Salvini ha già iniziato a farlo a proposito delle carceri, col suo precipitarsi a incontrare il direttore di Santa Maria Capua Vetere nel pieno dello sgomento per i pestaggi. La generale inclinazione leghista alle restrizioni punitive potrebbe riemergere anche sul ddl penale: le modifiche ipotizzate dalla commissione Lattanzi e da alcuni partiti, Pd incluso, estendono il ricorso ai riti speciali per molti reati: ma intanto Salvini è il padre della legge, approvata due anni fa, che ha abolito l’abbreviato per i reati da ergastolo. C’è il rischio insomma di un caos supplementare, sulla giustizia, tutto nel versante della destra. Certo, al di là delle presunzioni pessimistiche, va riconosciuta al leader della Lega una linea molto chiara, sui quesiti promossi col Partito radicale: “È una pacifica rivoluzione, la firma dei sei referendum potrà fare dopo trent’anni quello che non ha fatto la politica in Parlamento”, ha ribadito ieri. Ha quindi chiarito: “Noi sosteniamo le riforme di Draghi e Cartabia, ma i cittadini potranno dare una bella spinta”. Sono ottime intenzioni accompagnate da uno sforzo organizzativo mastodontico: da oggi sono attivi 1.200 gazebo per la raccolta delle firme in tutte le regioni italiane. Nelle ultime ore, Salvini è stato a Bologna per inaugurarne 30. Il suo commissario toscano, Mario Lollini, assicura che cercherà di essere presente “anche nelle località balneari”. Una grande mobilitazione, che ha però un prezzo politico notevole per la Lega. Pagato proprio al partito e alla leader, Giorgia Meloni, che a Salvini vogliono portar via lo scettro di Capitano del centrodestra. Pordenone. Carcere, appello del vescovo: “Dignità a detenuti e agenti” di Enrico Lisetto Messaggero Veneto, 2 luglio 2021 Monsignor Pellegrini auspica che si realizzi presto la nuova Casa circondariale. Al Castello 60 ospiti rispetto ai 38 previsti. Ma prima del Covid era peggio. “Da tempo prego e auspico che si risolva la vicenda del nuovo carcere. Che renda la vita dignitosa a tutti, personale che vi opera e detenuti”. Così il vescovo Giuseppe Pellegrini alla messa per il patrono della polizia penitenziaria San Basilide, nella chiesa del Cristo di Pordenone. La situazione odierna al castello è di “affollamento ordinario”, ma non di sovraffollamento. L’antico maniero, infatti, dovrebbe ospitare 38 detenuti: in questi giorni oscillavano da 58 a 60. Ma la riparametrazione degli standard fa sì che non vi sia emergenza. Si è, in sostanza, in una situazione “tollerabile” dal momento che in passato si era toccata anche quota 80 detenuti, 72 prima della pandemia. Pure i numeri della polizia penitenziaria non sono ottimali: a fronte di 53 posti previsti in pianta organica, oggi gli agenti sono 41, con una dozzina di scoperti, al comando del dirigente aggiunto Donatella Nardacchione. Un “panorama” che prima della messa del patrono - alla quale hanno assistito anche il prefetto Domenico Lione, il procuratore Raffaele Tito, il presidente del tribunale Lanfranco Tenaglia e l’assessore Cristina Amirante per il Comune di Pordenone - era stato illustrato al vescovo, accompagnato dal cappellano della casa circondariale don Piergiorgio Rigolo. “La struttura di Pordenone non è stata colpita in maniera pesante dall’emergenza Covid - ha premesso la direttrice in reggenza Irene Iannucci - mentre Tolmezzo sì. Mi sembrava di vivere tanti venerdì santi in una sorta di lazzaretto. Anche in quel frangente ho conosciuto l’attività instancabile della polizia penitenziaria. Il carcere è anche luogo di sofferenza, gestiamo vite dolenti: ma ho visto fermezza, professionalità, rispetto delle regole e profonda umanità”. La direttrice ha esortato “a non delegittimare le istituzioni. Gestiamo sempre con meno risorse e maggiori difficoltà una popolazione variegata”. Tornando alle parole del presule, monsignor Pellegrini ha dato una lettura cristiana all’operato della polizia penitenziaria, con la premessa che ha a che fare quotidianamente con persone fragili: “Il cristiano risponde in un clima di serenità e non di contrapposizione. Ciò non vuol dire lasciar correre, ma c’è modo e modo di trattare le persone”. Un riferimento indiretto ai fatti recentemente accaduti nel Casertano. Quindi l’auspicio che la nuova casa circondariale sia realizzata al più presto: “Da anni prego e auspico - ha concluso il presule - che si realizzi una nuova struttura, per rendere la vita più dignitosa sia al personale sia ai detenuti”. La vertenza si trascina da anni, il via libera del Consiglio di Stato per una struttura da 300 posti, risale a marzo. Crotone. Per la prima volta tre detenuti conseguono il diploma lacnews24.it, 2 luglio 2021 I corsi a indirizzo Alberghiero e Agrario sono stati attivati nella Casa circondariale dal Polo scolastico di Cutro. Per la prima volta, tre detenuti del Carcere di Crotone si sono diplomati. A darne notizia è Vito Sanzo, Dirigente Scolastico del Polo di Cutro, che ha attivato i corsi di Alberghiero e Agrario all’interno della Casa Circondariale pitagorica. “In provincia di Crotone - spiega Sanzo in una nota - non si era mai verificato prima che si diplomassero studenti/detenuti. Oltre al grande risultato scolastico ottenuto, è importante evidenziare il positivo impatto sociale realizzato”. Nel penitenziario pitagorico si sono tenuti gli Esami di Stato con due diverse commissioni che hanno esaminato i candidati e il percorso di studi di tre detenuti che hanno brillantemente conseguito il diploma, due ad indirizzo Alberghiero e uno ad indirizzo Agraria. “La collaborazione tra il Polo di Cutro e la Casa circondariale di Crotone ha portato i suoi ottimi frutti e ancora ne porterà. È doveroso ringraziare sia tutti i docenti del Polo di Cutro della Sezione Carceraria, tutto il personale della Casa circondariale che in ottima sinergia sono riusciti ad ottenere questo splendido risultato. Ringrazio anche il Cpia e l’Ufficio scolastico provinciale” aggiunge Sanzo. Un percorso, quello del Polo di Cutro, iniziato con la riapertura del carcere dopo la sua ristrutturazione e che ha portato al risultato di oggi che assume un significato particolare nella comunità crotonese, anche in considerazione delle difficoltà che la pandemia ha creato. I corsi saranno istituiti anche per il prossimo anno scolastico. Alessandria. Un luppoleto per fare birra gestito dai detenuti radiogold.it, 2 luglio 2021 Si chiama Hope ed è la fusione tra speranza e luppolo. Un termine non scelto per caso dato che il progetto, nato dall’unione tra Associazione Ises, Idee in Fuga e Carcere di Alessandria, mira a creare un luppoleto su una superficie già individuata all’interno della struttura carceraria. La coltivazione del luppolo è un progetto sperimentale che potrebbe ingrandirsi e svilupparsi utilizzando l’ampia fascia di terreno ancora a disposizione. Si tratta di una novità per Alessandria che non ha mai approcciato un progetto del genere ma soprattutto permetterebbe alla Cooperativa Sociale Idee in Fuga di potersi approvvigionare dei luppoli necessari a produrre le birre poi vendute in Bottega o sul proprio sito. Una volta portato a regime il luppoleto, il luppolo sarà acquistabile anche da altri birrifici. Ci vorranno però tre anni prima che le piante vadano a regime. L’importanza di questo progetto, prima che economico è soprattutto sociale. Il progetto partirà sotto la supervisione di un esperto di luppoleti e con un percorso formativo con cui inserire due detenuti. Questo corso di formazione permetteranno di far conoscere le caratteristiche della pianta, come si gestisce un luppoleto, come si raccoglie e lavora il luppolo. Il primo step del progetto sarà quello della preparazione del suolo (circa 150 mq) che ospiteranno il luppoleto e la piantumazione delle prime 50 piante e filari. Sarà necessario anche un impianto di irrigazione a goccia e spruzzatori fissati alla cima dei pali per dare da bere alle piante. Per realizzare il luppoleto servono però 10 mila euro e per questo è stata lanciata una raccolta fondi che sinora ha raccolto poco meno di duemila euro. La Spezia. 25 detenuti del carcere protagonisti di un film Gazzetta della Spezia, 2 luglio 2021 “Ciò che resta - appunti dalla polvere” realizzato da “Gli Scarti” verrà presentato alla Fortezza Firmafede di Sarzana. Il celebre critico cinematografico Tatti Sanguineti - noto oltre che per la sua attività di critico e giornalista anche per le sue partecipazioni come attore nei film di Nanni Moretti e Mario Monicelli - assieme al regista e sceneggiatore bolognese Germano Maccioni presenteranno, mercoledì 7 luglio alle ore 21.00 nella suggestiva cornice della Fortezza Firmafede di Sarzana, il film “Ciò che resta - appunti dalla polvere” realizzato da Gli Scarti (con regia di Enrico Casale e Renato Bandoli e riprese di Rocco Malfanti) con protagonisti 25 detenuti della casa circondariale della Spezia. Il film è stato prodotto e realizzato all’interno della seconda annualità del progetto “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” promosso su tutto il territorio nazionale da Acri e sostenuto da 10 Fondazioni di origine bancaria, tra cui Fondazione Carispezia. Alla proiezione saranno presenti anche i detenuti-attori che hanno partecipato alle riprese per raccontare dal vivo la loro esperienza al pubblico presente. L’ingresso alla proiezione è gratuito con prenotazione obbligatoria. Protagonista del film è “un uomo che cammina: forse è un artista che insegue la sua vocazione. O forse è solo alla ricerca di storie. È incalzato dai suoi pensieri, assalito da improvvise apparizioni: frammenti di conoscenza, come parole, immagini o melodie, che inaspettatamente giungono fino a lui. Incede attraverso luoghi a lui ignoti. Forse in nessun tempo reale. Il suo è un ambiguo oscillare tra realtà e finzione. È accompagnato da visioni discontinue di esseri umani... volti, segni, frasi, melodie, musiche e rumori, versi poetici e brandelli di prose inutilmente filosofeggianti. La realtà, spogliata del superfluo e del quotidiano, diventa incerta e sfuggevole, misteriosa e insondabile: restano solo i pochi tratti necessari a coglierla per un attimo. Che cosa c’è di più lieve e sottile della polvere?”. Il film raccoglie “ciò che resta” del percorso creativo dei detenuti della Casa Circondariale della Spezia partecipanti ai laboratori teatrali - curati da Enrico Casale, Renato Bandoli e Simone Benelli - e ai laboratori tecnici - curati da Daniele Passeri, Fabio Clemente, Alessandro Ratti, Enrico Corona - dell’Associazione Gli Scarti nell’ambito del progetto “Per Aspera ad Astra. Come riconfigurare il carcere attraverso cultura e bellezza”. A causa del blocco dovuto alla pandemia del marzo 2020, non è stato possibile portare a compimento la naturale e originaria forma teatrale del lavoro che si è trasformato in un film per non dissipare il lavoro e il valore umano dell’impegno dei partecipanti al progetto, e “per non disperdere tutti i granelli di polvere che la vita e l’arte depositano su tutte le cose”. Fonte d’ispirazione è stata l’opera di Alberto Giacometti, il quale scriveva che “bisogna caricare di vita ogni particella di materia” per “dare permanenza a ciò che passa”. “Per Aspera ad Astra” è un progetto promosso da Acri (l’associazione delle Fondazioni di origine bancaria) e sostenuto per la quarta annualità (2021/2022) da Fondazione Cariplo, Fondazione Carispezia, Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia, Fondazione Cassa di Risparmio di Volterra, Fondazione Compagnia di San Paolo, Fondazione Con il Sud, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, Fondazione Tercas, Fondazione di Sardegna Cagliari. Su il sipario in carcere, in scena 20 attori detenuti di Stefano Ambu ansa.it, 2 luglio 2021 Sul palco testo di Giacobbe e musica dei Tazenda. Liberi dentro. Un gioco di parole, ma anche la sintesi dello spettacolo andato in scena ieri pomeriggio nella sala della biblioteca del carcere di Uta, alle porte di Cagliari. Attori e musicisti, i detenuti dell’istituto penitenziario. L’aiuto “tecnico” è arrivato da fuori, quello della compagnia teatrale Cada die, che ha preparato i protagonisti dello spettacolo. La scena più bella? Quando un attore detenuto, tra l’altro bravissimo, si è fermato a metà di un lungo monologo, forse tradito dall’emozione e dalla memoria. E gli altri compagni di carcere seduti tra il pubblico hanno applaudito, coprendo il vuoto. E consentendo a chi era in scena di riprendersi. Un lavoro di squadra tra chi ha lavorato all’opera e chi ha assistito: un senso di solidarietà che ha illuminato il pomeriggio di un posto dove le giornate spesso sono tutte uguali. “Grazie per questa opportunità - ha detto a fine spettacolo un giovane detenuto - perché ci ha consentito di impegnare il tempo in maniera proficua. E penso che sia la buona strada per un futuro personale migliore”. Sul palco venti detenuti e quattro nazionalità di provenienza: Algeria, Italia, Nigeria, Venezuela. Tutti che in scena parlavano l’italiano. E addirittura il sardo perché il testo era “Arcipelaghi”, tratto dal romanzo della scrittrice nuorese Maria Giacobbe. Per tutti una prima volta. Ma chi li ha guidati, Pierpaolo Piludu e Alessandro Mascia, non ha potuto nascondere la sorpresa di aver trovato dei talenti naturali. “Anche se all’inizio - confessano - sembrava con questo spettacolo di non andare da nessuna parte. Poi tutto si è messo a posto naturalmente”. E la resa è stata ottima: attori detenuti convincenti e coinvolgenti. Perché tutti hanno seguito con grande attenzione e disciplina i corsi organizzati e tenuti dagli organizzatori. Anzi, arrivavano in anticipo alle lezioni. E sino alla notte prima tutti stavano ripassando la loro parte. E tutti sono entrati nella parte. Non è finita con gli applausi, i bravi e le strette di mano. Perché c’è un futuro, anche di teatro, oltre le sbarre. Una porta è mezzo aperta. “Siete tutti invitati ai laboratori, faremo ancora teatro insieme”, promette Piludu. Recitazione, ma anche molta musica con una predilezione per i Tazenda, da Terra Madre a Mamoiada. C’è stata anche una produzione originale, composta da due detenuti. “Siamo qui ma in fondo liberi, liberi dentro. Liberi di viaggiare ogni volta con la mente. Liberi di volare con la fantasia ma liberi di sentirci ancora uomini liberi”, questa una parte del testo. Parole importanti per chi uscirà tra poco e per chi dovrà rimanere ancora lì per molti anni. Il direttore del carcere Marco Porcu ha assistito allo spettacolo in prima fila. E ha seguito con grande partecipazione ogni secondo. “È stato bello ritrovarsi qui - ha spiegato - in un clima diverso dalle normali consuetudini di ogni giorno. Bello soprattutto dopo un anno e mezzo molto difficile con le restrizioni che hanno toccato anche il nostro mondo”. L’idea messa a punto dai due artisti del Cada die è parte del programma nazionale “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere con la cultura e la bellezza”, terza edizione, promosso da Acri (Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio) e sostenuto da dieci Fondazioni bancarie, tra cui la Fondazione di Sardegna, e che da 3 anni coinvolge circa 250 detenuti di 12 carceri italiane in percorsi di formazione artistica e professionale nei mestieri del teatro. Una giornata diversa e di speranza. Una festa che ha lasciato qualcosa nel cuore di chi ha partecipato da protagonista. Ma anche di chi ha assistito. Messaggio fin troppo chiaro: anche il teatro è una ripartenza. Libia. La motovedetta donata dall’Italia spara e sperona una barca di migranti di Marika Ikonomu Il Domani, 2 luglio 2021 È accaduto nella zona Sar maltese. Nel video diffuso dall’ong tedesca Sea Watch viene ripreso il tentativo dei guardiacoste libici di colpire un’imbarcazione con a bordo circa sessanta persone. Seabird, il mezzo aereo della ong tedesca Sea Watch che monitora la situazione nel Mediterraneo centrale, mercoledì 30 giugno ha ripreso il tentativo da parte della guardia costiera libica di colpire e speronare una barca con a bordo circa sessanta migranti. È accaduto nella zona Sar, zona di ricerca e soccorso, di Malta. L’equipaggio della ong nel video chiede più volte alla motovedetta libica Ras Jadir, donata dall’Italia alla Libia nel maggio 2017, di interrompere i tentativi di attacco, durati circa 90 minuti. Sea Watch, in un tweet, ha riferito che “le 63 persone a bordo sono riuscite a fuggire all’attacco della motovedetta Ras Jadir e ad arrivare a Lampedusa. La violenza a cui sono state sottoposte è inaccettabile e dimostra la necessità d’interrompere gli aiuti alla cosiddetta guardia costiera libica”. In molti denunciano le violazioni dei diritti umani perpetrate dalla guardia costiera libica, finanziata dall’Italia e dall’Europa. L’episodio è avvenuto a poche settimane dal voto sul decreto missioni con cui si deciderà se rinnovare o meno il finanziamento. “Un atto di pirateria”, così lo ha definito Nicola Fratoianni, deputato e segretario di Sinistra italiana. Erasmo Palazzotto, deputato, ha denunciato il finanziamento alla cosiddetta guardia costiera libica finanziata dall’Europa e dall’Italia stessa. La denuncia arriva anche da Pietro Bartolo, eurodeputato Partito democratico, medico di Lampedusa che per quasi trent’anni si è occupato dell’accoglienza sull’isola dei migranti. Libia. L’esplosione nella prigione militare e la caccia ai migranti in fuga di Sara Creta Il Domani, 2 luglio 2021 Abu Rashada. Regione dei monti Nafusa, 100 km a sud-ovest di Tripoli. Qui c’è uno dei centri di detenzione per migranti gestiti dal governo libico, lontano dalle coste, lontano dagli occhi dell’Europa. Talmente distante da non suscitare nessun clamore né per gli uomini armati presenti a guardia di chi fugge da guerre e fame né per una esplosione che potrebbe aver provocato molti morti. Esplosione di cui le autorità non ne hanno dato notizia, nascosta per giorni. Deflagrazione avvenuta nei pressi delle celle dove vengono stipati uomini, donne e bambini respinti in Libia dalla guardia costiera locale finanziata con i soldi europei e italiani. La devastazione provocata dalla detonazione nel centro di detenzione Abu Rashada a Gharyan è visibile nelle foto satellitari di Maxar Technologies, società che si occupa di aerospazio, ottenute da Domani. A pochi passi dal luogo dell’esplosione sono detenute circa 600 persone. Secondo un funzionario locale delle Nazioni Unite un deposito di munizioni è a pochi metri dalle prigioni dove vengono riportati i migranti intercettati nel Mediterraneo. Nelle foto satellitari ottenute si vedono anche carri armati e un cannone d’artiglieria stazioni a pochi metri dal centro di detenzione. “Temo che ci siano decine di morti. La milizia che controlla il centro ha un deposito di armi e i suoi uomini sono coinvolti nel traffico di carburante nel deserto”, racconta un funzionario del Dipartimento per il contrasto alla migrazione (Dcim) del ministero dell’Interno libico. La conferma dell’esplosione - avvenuta nel pomeriggio del 20 giugno - arriva anche da fonti delle Nazioni Unite che però ribadiscono: “Non abbiamo accesso al centro”. Fonti mediche dell’ospedale di Gharyan dicono che i feriti sarebbero tre, colpiti da proiettili di armi da fuoco e con fratture. Due sarebbero minori. Secondo una stima, nella cella più vicina al luogo dell’esplosione, erano rinchiuse almeno 60 persone. L’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari di Tripoli teme che potrebbero esserci centinaia di vittime. “Sarei sorpreso di sapere che non ci sono feriti”, ribadisce Justin Brady un rappresentante della divisione umanitaria delle Nazioni Unite. Nelle celle c’erano anche siriani, algerini ed egiziani. “È successo alle 7 di sera. Tutto è iniziato nel magazzino di munizioni: era l’ultima stanza sul retro del centro di detenzione”, ha raccontato a Domani un sopravvissuto, che aggiunge: “Le guardie stavano saldando delle sbarre di ferro, ma una scintilla ha colpito il deposito di munizioni, il fuoco è scoppiato e si è esteso, ed è qui che è avvenuta l’esplosione. Siamo riusciti a scappare. Ci siamo nascosti nelle montagne e abbiamo scoperto che c’erano dei feriti, che erano fuggiti con noi”. Usama Halfaoui, il direttore del centro di Gharyan, contattato da Domani spiega che l’incidente è stato innescato a causa dello scoppio di una bombola del gas in una sezione del centro e le fiamme si sono propagate nelle celle: “Abbiamo fatto uscire i migranti e alcuni di loro hanno tentato la fuga. Non ci sono morti, né feriti”. Ma una caccia all’uomo è iniziata nelle montagne circostanti: “Hanno sparato alle persone che hanno tentato di fuggire”, ha confermato un altro funzionario del ministero dell’Interno libico. Sono circa 200 i migranti riportati nel centro dopo la ricerca di chi era scappato terrorizzato dalle fiamme e del boato. Qualche giorno prima dell’esplosione erano arrivate a Gharyan centinaia di persone. Respinte al largo delle coste libiche dalla guardia costiera e poi ammassate in stanzoni fatiscenti. Due piccole finestrelle da cui passa poca aria e poca luce. Stipati l’uno accanto all’altro, con temperature oltre 40 gradi. Secondo quanto emerge da un documento ottenuto da Domani “le condizioni a Gharyan sono brutali. Un tentativo di fuga lo scorso aprile è costato la vita a due sudanesi, morti con un colpo alla testa”. Continuano i respingimenti per procura - Oltre 13.000 persone sono state riportate in Libia dalla Guardia Costiera; una cifra che ha già superato quelle intercettate in tutto il 2020. E l’unico attore rimasto in mare insieme alla Guardia Costiera Libica sono le navi mercantili. Lo scorso 14 giugno la Vos Triton, bandiera di Gibilterra ma proprietà di una compagnia con sede in Olanda (la Vroon), ha raggiunto 200 migranti e li ha consegnati alla guardia costiera libica. Ed è solo l’ultimo di numerosi episodi di “respingimento per procura” in violazione dei diritti umani, che l’Organizzazione non governativa Sea Watch ha documentato grazie alle riprese dal suo aereo di ricognizione Seabird. Nella notte tra il 13 e il 14 giugno scorsi, “le autorità, Frontex e l’Unhcr, venivano aggiornate via e-mail con tutte le informazioni rilevanti e le posizioni Gps” si legge in un report congiunto di Mediterranea Saving Humans, Sea Watch, e Alarm Phone. Come di prassi, dopo lo sbarco, i sopravvissuti sono stati scortati nei centri di detenzione di Al-Mabani e nel deserto fino a Gharyan, il centro dove sette giorni più tardi avverrà l’esplosione. Gli autobus utilizzati per i trasferimenti sono stati forniti dal ministero dell’Interno italiano. Assistenza materiale, tecnica e politica, finanziata dal Fondo Fiduciario d’Emergenza per l’Africa (un finanziamento di 46 milioni di euro) con l’obiettivo di rafforzare le capacità operative delle autorità libiche nelle attività di gestione dei confini terrestri e marittimi. Traduzione: facilitare il ritorno di migranti e rifugiati alle crudeli e disumane condizioni di tortura nei centri di detenzione del paese. Negli ultimi mesi sono stati aperti nuovi centri nel deserto libico, sulle montagne occidentali della Libia, lontani dalla costa e controllati da gruppi armati vicini al capo del Dcim, il colonnello Mabrouk Abd al-Hafiz. Il nuovo piano, anche questo supportato dall’Italia e finanziato dall’Europa prevede pattuglie nel deserto: attrezzature dell’UE per la gestione delle frontiere, che le autorità libiche riferiscono essere made in Italy. Una delegazione del Dipartimento per il contrasto alla migrazione (Dcim) del ministero dell’Interno libico è tornata a Tripoli da pochi giorni dopo una visita ufficiale a Roma. Inviti ormai periodici, e un piano sempre più chiaro: spostare le frontiere europee sempre più a sud. “L’Italia ha fornito alcuni fuoristrada. Lo sanno che il loro aiuto sta contribuendo al traffico di esseri umani, il contrabbando di carburante, il traffico illegale di droghe e la prostituzione. Ma continuano il loro supporto”, ha ribadito una fonte del Dcim. “Ci sono stati morti a Gharyan. Qui non esistono i diritti umani”, conclude. Stati Uniti. Pena di morte, il procuratore generale annuncia la moratoria federale Il Dubbio, 2 luglio 2021 Il procuratore ore generale degli Stati Uniti, Merrick Garland, ha annunciato una moratoria federale sull’esecuzione delle condanne a morte, invertendo la linea dell’amministrazione Trump che aveva invece ripristinato le esecuzioni capitali da parte della giustizia federale. Una svolta attesa da mesi, dopo l’approdo alla Casa Bianca del democratico Joe Biden. In un memorandum, Garland informa che il dipartimento di Giustizia intende rivedere le sue politiche e procedure per garantire che “siano coerenti coni principi articolati in questo memorandum: il dipartimento deve garantire che a chiunque sia sotto custodia del sistema di giustizia penale federale vengano garantiti non soltanto i diritti garantiti dalla Costituzione e dalle leggi degli Stati Uniti, ma anche un trattamento equo e umano”, recita il memorandum di Garland, secondo cui tale imperativo si applica in particolare “ai casi di condanna capitale”. La revisione interna del dipartimento di Giustizia interesserà, tra le altre cose, “i rischi di dolore e sofferenza fisica associati all’impiego del pentobarbital”, il barbiturico utilizzato durante l’amministrazione Trump per l’esecuzione di condannati a morte tramite iniezione letale. Garland ha quindi annunciato che il dipartimento della Giustizia rivedrà i protocolli di esecuzione messi in atto dall’ex procuratore generale William Barr. Nessun presidente in più di 120 anni, come Donald Trump, aveva approvato tante esecuzioni federali. L’ultimo detenuto a essere giustiziato, Dustin Higgs, è stato messo a morte nel complesso della prigione federale di Terre Haute, nell’Indiana, meno di una settimana prima che Trump lasciasse l’incarico. La Turchia è uscita ufficialmente dalla Convenzione di Istanbul di Riccardo Noury Corriere della Sera, 2 luglio 2021 Allo scoccare della mezzanotte, la Turchia ha fatto tornare indietro le lancette dell’orologio dei diritti umani di 10 anni. Dieci anni dall’apertura alla firma, proprio a Istanbul, della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e il contrasto della violenza contro le donne e della violenza domestica. Un gesto annunciato tre mesi fa dal presidente Erdo?an, definito “vergognoso” da Amnesty International e condannato in tutto il mondo e particolarmente in Turchia (vedi foto), dove solo lo scorso anno sono state assassinate almeno 300 donne. Un gesto che sarà ricordato nella storia come la prima volta in cui uno stato membro del Consiglio d’Europa si è ritirato da una convenzione internazionale sui diritti umani. Il trattato contiene una struttura giuridica per proteggere le donne dalla violenza e promuove l’uguaglianza di genere attraverso atti legislativi, istruzione e sensibilizzazione. I quattro principi fondamentali (prevenzione, protezione, procedimenti penali e politiche integrate) forniscono un quadro di riferimento per contrastare la violenza di genere. Attraverso la sua ratifica e la sua attuazione, la Convenzione di Istanbul ha favorito importanti progressi, tra cui l’istituzione in Finlandia di linee telefoniche attive 24 ore su 24 per le donne che subiscono violenza domestica e l’introduzione, a partire dal 2018, di leggi sullo stupro basate sul criterio del consenso in Islanda, Svezia, Grecia, Croazia, Malta, Danimarca e Slovenia. Nel giugno 2021 il Liechtenstein è diventato il 34° stato membro del Consiglio d’Europa su 47 ad averla ratificata. Azerbaigian e Russia sono gli unici due stati membri a non averla neanche firmata, mentre la scorsa settimana Ucraina e Regno Unito si sono impegnati a ratificarla. Tuttavia, in molte parti d’Europa la Convenzione è sotto attacco e vari governi la usano per diffondere informazioni false e demonizzare l’uguaglianza di genere e i diritti delle donne e delle persone Lgbti. Le pretestuose motivazioni addotte dalle autorità turche per giustificare il ritiro, ossia che la Convenzione è una minaccia ai “valori della famiglia” e “normalizza l’omosessualità”, sono state fatte proprie da vari governi, tra cui quelli di Polonia e Ungheria. Il ritiro della Turchia dalla Convenzione è uno sviluppo estremamente preoccupante anche perché avviene in un periodo di profonda erosione dei diritti nel paese. Il 26 giugno la polizia anti-sommossa ha usato forza eccessiva contro i partecipanti al Pride di Istanbul, scesi in strada nonostante l’evento fosse stato vietato per il sesto anno consecutivo. Centinaia di manifestanti sono stati colpiti dai gas lacrimogeni e dai proiettili di plastica. Sono state arrestate almeno 47 persone, tra cui due minorenni e un giornalista dell’Agenzia France Presse che ha subito maltrattamenti e torture da parte della polizia mentre era bloccato a terra con un ginocchio sul collo.