Morti in carcere: almeno tre decessi alla settimana di Lorenza Pleuteri osservatoriodiritti.it, 29 luglio 2021 Nelle statistiche pubblicate online dal ministero della Giustizia i dati ufficiali (e parziali) dell’ecatombe dietro le sbarre: 154 vittime nel 2020, contando solo suicidi e decessi per presunte cause naturali. Decessi per Covid e altre malattie, in cella, in infermeria e nei reparti detentivi ospedalieri. Suicidi. Overdosi da stupefacenti e psicofarmaci, inalazione del gas delle bombolette da campeggio usate per cucinare. Infortuni accidentali. Mancata liberazione di persone malate con pochi giorni da vivere. La fine per vecchiaia, dietro le sbarre. Un delitto, probabilmente. Casi non chiari o non chiariti. Per il 2020, l’anno della pandemia fuori controllo e della strage post rivolte, il ministero della Giustizia conta e dichiara 154 decessi di persone sotto la custodia dello Stato: 61 detenuti si sono tolti la vita (stando alle apparenze iniziali) e altri 93 sono stati stroncati da “cause naturali” (voce che include i decessi per abuso di droghe). Ragazzi e uomini, nella quasi totalità dei casi. Una media di tre morti la settimana, almeno. L’avverbio è d’obbligo. Dal prospetto degli “eventi critici” sul portale di via Arenula mancano gli omicidi, i decessi accidentali e quelli per cause da accertare, pochi o tanti che siano. Morti in carcere 2021: suicidi e casi da chiarire - Di carcere, in carcere, si continua a morire. Anche quest’anno le storie tragiche si contano già a decine. Per esempio. Yassine Missri stava alla Dozza, il penitenziario alla periferia di Bologna. Aveva 28 anni, faceva il barbiere. È stato trovato senza vita il 27 gennaio 2021. Ambra Berti era della stessa età. Veniva da esperienze personali pesanti, soffriva la lontananza dai due figli piccoli e dagli altri affetti. È spirata nella casa circondariale Spini di Gardolo, a Trento, il 14 marzo 2021. Alberto Pastore, rinchiuso a Novara, non è arrivato a 25 anni. Ha scelto di congedarsi dalla vita il 14 maggio 2021 con un gesto irreparabile, annunciato da tempo. A Genova-Marassi sembrava che Emanuele Polizzi, il 28 maggio 2021, si fosse suicidato. Poi due compagni di dete Detenuti morti: nomi e dati nel dossier 2021 di Ristretti Orizzonti - Per il 2021 il ministero di Giustizia per ora in rete non fornisce informazioni né sui singoli decessi né sulla conta parziale, lasciando fuori omicidi e eventi accidentali o da approfondire. Pubblicherà statistiche aggregate l’anno prossimo. Numeri ufficiosi e provvisori e notizie arrivano dal prezioso dossier “Morire di carcere”. A curarlo sono i volontari di Ristretti orizzonti, il giornale fondato nella casa di reclusione Due Palazzi di Padova. Da gennaio a fine luglio di quest’anno, scandagliando pagine e siti di cronaca e vagliando denunce e segnalazioni, i redattori della rivista e del rapporto hanno individuato e censito 77 vittime, restituendo loro la dignità del nome (dove possibile). Per svariate vittime le cause di morte sono da ricostruire, per 27 è stato suicidio. Situazione carceri italiane: sui decessi manca trasparenza - Di molti carcerati morti si conoscono i dati anagrafici minimi, di alcuni nemmeno quelli. Via Arenula, il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, i provveditorati regionali, i singoli istituti, le procure e le regioni (con la competenza sulla medicina penitenziaria e sulla medicina d’urgenza) non rendono noti i singoli decessi in tempo reale (se non in casi eccezionali), né informazioni di base sulle vite perse e sulle circostanze. A far filtrare all’esterno le notizie delle morti in cella in genere sono fonti sindacali, avvocati e associazioni, familiari, operatori. Il dovere di informazione dello Stato, dicono dall’ufficio stampa di via Arenula, è ritenuto assolto con la pubblicazione dei riepiloghi annuali degli “eventi critici segnalati alla sala situazioni del Dap”, cioè notificati dai singoli istituti ai referenti romani. Suicidi nelle carceri italiane e morti per cause naturali - Nel 2019 i suicidi “ufficiali” sono stati 53 e i decessi per cause naturali 90, con un solo omicidio dichiarato ad integrazione delle tabelle online. Per il 2018 i funzionari ministeriali censiscono 61 suicidi, 100 morti naturali, nessun omicidio. Dal 1992 al 2020 il totale dei decessi in carcere per cause note (o presunte tali) supera abbondantemente quota 4.000 e senza contare poliziotti penitenziari e altri operatori: 1.514 i ristretti suicidi e 2.623 i reclusi stroncati da malanni e problemi di salute, più un numero imprecisato di vittime di uccisioni o omissioni. Morti in carcere Modena: Antigone, la strage del Sant’Anna e altri casi - Antigone sta seguendo una serie di storie al vaglio alla magistratura e la strage del Sant’Anna di Modena (cinque vittime nella struttura emiliana e quattro durante e dopo i trasferimenti in altri penitenziari). Per quest’ultimo procedimento, archiviato dal giudice, l’associazione ha presentato reclamo contro l’estromissione dal ruolo di persona offesa. E sta studiando possibili contromosse. Omicidio colposo, ma c’è rischio prescrizione - Alfredo Liotta morì il 26 luglio 2012 in una cella del carcere di Siracusa. Aveva 41 anni e l’ergastolo da scontare. Una vicenda di “abbandono terapeutico”, a detta di Antigone. “ll personale medico e infermieristico non ha saputo individuare e comprendere i sintomi né il decorso clinico dell’uomo e le carenze conoscitive hanno portato al decesso Gli operatori succedutisi nella cella di Liotta, negli ultimi 20 giorni di vita, sono rimasti completamente passivi davanti alle sue patologie. Alfredo soffriva di epilessia, anoressia e depressione. Aveva smesso di bere e di mangiare”. In primo grado, il 13 ottobre 2020, cinque dei nove camici bianchi alla sbarra sono stati condannati per omicidio colposo. La sentenza è stata impugnata in appello. Sulla vicenda però incombe la prescrizione del reato, l’esito di svariate inchieste simili. Morti sospette in carcere: mancano diagnosi e cure - Stefano Borriello, 29 anni, il 7 agosto 2015 venne stroncato da una infezione polmonare durante il tardivo trasporto dal carcere di Pordenone all’ospedale. Secondo la madre, stava male da giorni ma non era stato curato. Antigone, opponendosi alla richiesta di archiviazione, è riuscita a far portare in aula la vicenda. A giudizio è stato mandato il medico curante del carcere. “Gli viene contestato di non aver diagnosticato l’infezione polmonare letale. Non fece alcun rilevamento dei parametri vitali, non dispose un esame clinico-toracico”. La mancata diagnosi portò a non “somministrare antibiotici, quelli che avrebbe evitato il peggiorare delle condizioni di salute e portato alla guarigione”. Il processo è in corso, prossima udienza a settembre 2021. Il ragazzo che non doveva essere in prigione - Valerio Guerrieri aveva 21 anni e problemi conclamati. Il 24 febbraio 2017 si tolse la vita a Regina Coeli. Non avrebbe dovuto essere in carcere. Un giudice, 10 giorni prima, aveva revocato la custodia cautelare in cella e disposto il ricovero in Rems, una delle strutture che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari. Dopo un doppio giro di richieste di archiviazione, e di opposizione, è stata disposta l’imputazione coatta per l’allora direttrice del penitenziario romano e un’altra dipendente ministeriale. Si ipotizzano i reati di rifiuto di atti di ufficio, indebita limitazione della libertà personale e morte o lesioni come conseguenza di un altro reato. Jhonny il rapper, impiccato nel carcere di Salerno - Il 26 luglio 2020, a 23 anni, il giovane rapper Jhonny Cirillo si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo alla finestra del bagno di una cella della casa circondariale di Salerno. Avrebbe dovuto esser sottoposto ad un livello di sorveglianza elevatissimo, perché si era fatto dei tagli a un braccio. Non solo. Era in condizioni mentali preoccupanti, manifestava scoramento, minacciava lo sciopero della fame e della sete, aveva chiesto il trasferimento in una struttura esterna specializzata. Il 22 aprile 2021 Antigone ha depositato un esposto-denuncia, chiedendo verità e giustizia anche per lui. Torture, percosse, abusi e altri decessi da chiarire - Video, esposti e denunce di torture e pestaggi hanno riportato l’attenzione investigativa, e ministeriale, su altri casi che interrogano e inquietano: un detenuto morto nel carcere della mattanza di Santa Maria Capua Vetere (Lamine Hakimi di 27 anni, inizialmente considerato un sucida) e i tre trovati senza vita a Rieti, dopo la sommossa di marzo 2020 (Marco Boattini di 40 anni, Carlo Samir Perez Alvarez di 28 e Ante Culic di 41, per cui si ipotizzò l’overdose). “Ad oggi - asserisce l’ufficio stampa di via Arenula - non risultano episodi di decessi di detenuti all’interno degli istituti riconducibili a personale penitenziario”. Post-Covid nelle carceri: incontro dei Garanti dei detenuti con il capo del Dap di Roberta Pumpo romasette.it, 29 luglio 2021 Sul tavolo, la ripresa di colloqui e attività. Il portavoce Anastasia: “Completata la campagna vaccinale, non possiamo permetterci ancora un anno di chiusura”. La “ripartenza” dei colloqui e delle attività nelle carceri, dopo il superamento dell’emergenza epidemiologica. Questi i temi al centro dell’incontro che si è svolto ieri, 28 luglio, nella sede della Regione Lazio tra la Conferenze dei garanti territoriali - riunita in assemblea - e il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Bernardo Petralia. Presenti, tra gli altri, l’assessore regionale alla Sanità Alessio D’Amato e il Garante nazionale Mauro Palma. “Completata la campagna vaccinale, non possiamo permetterci ancora un anno di sostanziale chiusura delle attività”, la tesi di apertura di Stefano Anastasìa, portavoce della Conferenza dei garanti territoriali e Garante dei detenuti della Regione Lazio. Quindi, spazio agli interventi di diversi Garanti, sia in presenza che collegati da remoto, sui temi del momento, tra cui il dibattito sulla formazione del personale della Polizia penitenziaria, dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere. “A memoria d’uomo non si ricorda la visita in un carcere di un presidente del Consiglio dei ministri accompagnato da un ministro della Giustizia, dopo un pestaggio disumano”, ha sottolineato il Garante della Campania Samuele Ciambriello mentre la Garante del Comune di Roma, Gabriella Stramaccioni, ha evidenziato il ruolo della libera stampa nella diffusione delle immagini sui gravi episodi di violenza ai danni dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Relativamente alla formazione del personale, Petralia ha annunciato una vera e propria rivoluzione, informando anche che l’amministrazione penitenziaria attende la risposta del Comitato tecnico-scientifico alle richieste sulla ripresa delle attività e i trasferimenti tra istituti, per consentire ai detenuti di poter scontare la pena vicino a casa. Per quanto riguarda la Regione Lazio, l’assessore D’Amato ha annunciato la prossima apertura della nuova Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria (Rems) a Rieti, dopo l’accordo fra Regione, Prefettura di Rieti e Asl di Rieti, ma ha anche rimarcato la necessità di un accordo sul fabbisogno di posti e sull’appropriatezza degli invii alle Rems. Tema sul quale è intervenuto anche il garante nazionale Palma, il quale si è detto contrario alla tendenza a psichiatrizzare ogni comportamento nel carcere, “anche laddove ci sono comportamenti spesso dettati da condizioni materiali di ristrettezza ma non riconducibili a a problematiche di natura psichiatrica”. Violenze in carcere, teatro e psicologia per evitare scontri e stress di Luisa Barberis Il Secolo XIX, 29 luglio 2021 Il progetto di convivenza nella Scuola di formazione della Polizia penitenziaria. Il generale Zito: “Simuliamo rivolte per imparare ad affrontare ogni situazione”. Da una parte 196 agenti di Polizia penitenziaria in attesa di giurare e prendere servizio in carcere. Dall’altra dieci detenuti, ormai a fine pena, intenti a provvedere alla manutenzione e a riabilitarsi attraverso il lavoro. A Cairo Montenotte (Sv). la convivenza tra poliziotti e detenuti inizia già all’interno della scuola di formazione “Andrea Schivo”. La città ospita uno dei centri di eccellenza italiana dell’amministrazione penitenziaria, dove ogni anno gravitano centinaia di allievi. È qui che, dopo un percorso lungo 7 mesi, vengono formati gli agenti. Attraverso lezioni di diritto, psicologia, gestione dello stress e addestramenti tecnici, vengono “trasmessi gli anticorpi” che permettono di evitare fatti come le violenze registrate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere da parte degli agenti sui detenuti (decine gli indagati e su cui è in corso un’inchiesta della magistratura). L’episodio ha riacceso i riflettori sulle carceri e il Secolo XIX ha visitato una delle otto scuole italiane deputate alla formazione. La struttura cairese è anche sede di un progetto all’avanguardia, “Una scuola come casa”: dieci detenuti (provengono da Liguria, Piemonte e Lombardia) in regime di espiazione della pena possono trascorrere l’ultimo periodo di condanna all’interno della Scuola, anziché in carcere o ai domiciliari, per essere riabilitati con il lavoro. “Ai futuri agenti mi piace ricordare che il primo garante dei detenuti è il poliziotto - spiega il direttore della scuola, il generale di brigata Giuseppe Zito - la formazione negli anni ha fatto passi da gigante e a Cairo, proprio grazie a questo progetto, gli allievi imparano a rapportarsi con i detenuti già durante la formazione”. Gli allievi hanno appreso i fatti di Santa Maria Capua Vetere dalla tv, ma a Cairo eventi critici come questo sono “materia di studio”, vengono analizzati dal punto di vista didattico, procedurale e operativo. “Qui si insegna che non ci sono nemici - aggiunge Zito - che il conflitto va sempre evitato e a non giudicare, perché per questo ci sono le autorità competenti. Si impara a gestire l’emotività e lo stress, si simulano eventi critici, per esempio una rivolta dei detenuti, per imparare ad affrontare ogni situazione. Il mestiere è molto complicato, per questo è previsto un periodo di tirocinio in carcere, alla fine del quale i ragazzi tornano a Scuola per approfondire con i formatori vari aspetti”. La giornata tipo degli allievi inizia con l’alzabandiera alle 8.15, prosegue in classe o in palestra. Alle 16,45 a ordinare il “rompete le righe” è il comandante Andrea Tonellotto: “La scuola si avvale di personale interno per le materie più tecniche e operative e l’addestramento classico, ma anche di professori esterni molto qualificati, avvocati, psicologi e docenti universitari per le discipline giuridiche. Negli ultimi anni sono diventate fondamentali le materie psicologiche alle quali sono dedicate 102 ore di lezione delle 720 totali”. La gestione dello stress viene affrontata con tecniche teatrali. “Determinante è anche la comunicazione - precisa Aurelio Traversa, funzionario giuridico-pedagogico della Scuola -, per rapportarsi nel modo corretto con i detenuti. Il primo approccio è la mediazione, ma tutte le tecniche che vengono trasmesse agli allievi sono di autodifesa”. Lavoro vero in carcere, una polizza sul futuro di Lucio Boldrin* Avvenire, 29 luglio 2021 Il lavoro in carcere dovrebbe rappresentare uno dei pilastri della rieducazione dei condannati, ma anche un investimento sulla sicurezza del Paese: penso al problema della recidiva, che tra chi sconta la pena in cella è altissima, intorno al 70%. Insomma, il lavoro dei detenuti è un’assicurazione sul futuro di tutti. Ma oggi è visto come una concessione o un favore. Sono pochissimi, il 5 o 6%, i reclusi che fanno un lavoro vero, con formazione, contratto e stipendio. Un giovane detenuto mi ha confidato: “Non c’è niente di più responsabilizzante. Se vedo che con le mie mani produco qualcosa, quando esco potrò camminare con le mie gambe”. Alcuni sono assunti da imprese e cooperative. Ma la maggior parte svolge attività alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria: addetti alle pulizie, alla lavanderia e alla cucina, cuochi e manutentori. Mestieri senza formazione e difficilmente spendibili fuori dalle mura del penitenziario, svolti per poche ore al giorno, alcuni neppure per tutto l’anno. Con stipendi bassi, un terzo in meno rispetto al contratto nazionale di riferimento, a cui poi bisogna togliere le spese di mantenimento. Poco più di un sussidio. È un modo per tenere calmi i detenuti, che con quei soldi possono comprarsi cibo o sigarette. Eppure il lavoro “vero” potrebbe migliorare le condizioni nelle carceri. Ma la politica nostrana preferisce l’emotività, la risposta seccamente punitiva viene fatta passare come quella più soddisfacente. E, a lungo andare, è disastrosa. Oggi ci sono persone in carcere per pene brevi e ripetute: gente che entra ed esce. Lo Stato, invece, dovrebbe investire affinché le persone non tornino in prigione. Spesso, tra l’altro, il lavoro rappresenta anche la possibilità di mandare soldi alle famiglie e riduce il rischio di esposizione alla criminalità. Non parlo di misure assistenziali, ma di attività che stanno sul mercato: formazione professionale con tirocinio pagato, poi l’assunzione in base al contratto collettivo di categoria. Se si tratta di persone da reinserire nella società, allora devono essere “allenate” a farlo. È vero, ad aziende e cooperative sociali che decidono di varcare le soglie dei penitenziari, lo Stato concede incentivi fiscali e previdenziali. Tuttavia la vita degli imprenditori dietro le sbarre procede tra mille ostacoli. Tutto è assorbito dalla burocrazia. Le imprese, alla stregua dei detenuti, devono fare una “domandina” all’Amministrazione penitenziaria per ogni cosa che intendono fare. L’organizzazione carceraria è rigida per definizione: di fatto, la giornata carceraria finisce alle 15.30. Ma un imprenditore che investe non può stare a questo tipo di logica. Le norme non bastano, servono persone che le applichino con intelligenza per dare una speranza a chi è dentro. Conosco detenuti che lavoravano e che, una volta usciti, hanno trovato un’occupazione o creato imprese. Persone che dopo un lungo percorso sono cambiate. *Cappellano Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia Un nuovo modello di carcere di Maria Rita Parsi* angelipress.com, 29 luglio 2021 Mentre scrivo, penso alle “Lettere dal Carcere” di Antonio Gramsci. E mi chiedo quali lettere dal carcere, oggi, potrebbero, inviare al Ministro della Giustizia, Marta Cartabia, quelli che - colpevoli, presunti colpevoli o, perfino, innocenti - stanno scontando, in carcere, la loro pena. Quei “cattivi” sono “doppiamente” imprigionati, proprio nel senso che la radice latina della parola suggerisce: “Captivus” ovvero “Prigioniero”. Ma, proprio in prigione, se ben contenuti e trattati, essi potrebbero comprendere il valore del redimersi e della libertà. E così dovrebbe, in assoluto, essere se si considerassero le strutture carcerarie come luoghi di pena istituiti al fine della riabilitazione di chi, per scontarla, vi è rinchiuso. Infatti, i carcerati sono “doppiamente prigionieri”. Sia perché detenuti e sia perché “incattiviti” dai loro vissuti, dai loro disfunzionali e/o violenti e/o criminali percorsi di vita. E, ancora, dall’educazione che hanno ricevuto dall’ambiente familiare, scolastico, sociale, culturale, spirituale nel quale sono cresciuti. Poveri o poverissimi, benestanti, o ricchi o ricchissimi che fossero. È su questa seconda, patologica prigionia che comunque la detenzione comporta che si dovrebbe, anzitutto e soprattutto, provvedere a far luce. Per rendere le carceri quel “modello” di intervento che, allorquando esse vengano, in tal modo, progettate e gestite, espiare una pena consentirebbe di favorire un’autentica riabilitazione dei condannati. Comunque, “carceri modello”, in Italia, esistono. Forse poche. Ma esistono. E in una di quelle sono, oggi, rinchiuse le guardie carcerarie che hanno picchiato e torturato tanti detenuti. Per la loro brutalità, per la loro “cattiveria”, è necessario, però, considerare la tripla prigionia a cui essi sono sottoposti. Anzitutto, essere persone che vivono in carcere gran parte del loro tempo, per tenere sotto controllo chi è incarcerato. In secondo luogo, essere costantemente a contatto con il malessere, l’odio, la rabbia, la frustrazione, il senso di colpa di tanti detenuti, per quel che hanno fatto. O, invece, col loro ingovernabile desiderio di continuare a delinquere. Oppure con il loro doppio, schizofrenico gioco di fingere un pentimento che non provano. E, anche, col doversi misurare con il malaffare ricattatorio che si insinua e circola nelle strutture carcerarie, eludendo le norme e ricercando collusioni. In terzo luogo, difendersi da tutto questo “contagio” senza essere, adeguatamente e costantemente, assistiti individualmente e in gruppo. Per garantire, a se stessi e ai detenuti, un equilibrio e una salute psicofisica e mentale capace di sostenere un simile inferno. Se, dunque, ogni penitenziario fosse - come dovrebbe, in assoluto e in primis, essere - un luogo di riabilitazione, di recupero, un “modello” da offrire a chi, deviando in modo criminale, ha smascherato, anzitutto e soprattutto, quel che di peggio ogni collettività umana è capace di determinare, far crescere e prosperare, esso potrebbe mostrare- e si legga la radice latina “monstrum” - laddove mostro è “colui che mostra” - quale inferno può ospitare la vita di tanti. A loro danno e danno degli altri. E, pertanto, ogni struttura carceraria dovrebbe essere strutturata come un ottimale centro di recupero, studio, lavoro, cura, assistenza psicologica, sanitaria, spirituale. E di educazione alla legalità e alla responsabilità. Ed essere, dunque, un luogo produttivo, programmato in modo tale da consentire ai detenuti - attraverso cure, formazione e lavoro (lavoro da individuare tra quelli che si possono espletare pur essendo carcerati) - di contribuire anche al proprio mantenimento e a quello delle strutture penitenziali che li ospitano. “Le aziende carcerarie” potrebbero, così, essere un investimento utile, produttivo, nel senso della prevenzione e del contrasto alla criminalità, attraverso la valorizzazione di quei contributi socio-pedagogici e legali che, forse, oggi, né i carcerati né chi li controlla potrebbero aver non ancora ricevuto o non aver ricevuto in modo adeguato. Così da poter positivamente contenere e riciclare quel patologico malessere che “incattivisce” chi si sente “prigioniero”. E non vede, in fondo al tunnel, alcuna luce di speranza e di costruttivo, creativo, produttivo cambiamento, per sé stesso e per gli altri. *Psicoterapeuta e presidente Movimento Bambino Giustizia, giorno della verità. Oggi la proposta del governo di Andrea Colombo Il Manifesto, 29 luglio 2021 Riforma Cartabia. La Lega chiede lo stralcio anche per i reati di droga e stupro. Domani il testo in aula. La riunione decisiva della commissione giustizia della Camera sulla riforma Cartabia, prevista per ieri sera, è slittata a questa mattina. Il governo presenterà la sua proposta complessiva e, in caso di accordo di tutta la maggioranza, non ci sarà forse bisogno della fiducia: potrebbero bastare tempi contingentati per la discussione. Dopo una giornata nella quale aveva prevalso il pessimismo, l’annuncio del rinvio ha aperto uno squarcio roseo. “La sintesi è vicina”, ha annunciato il presidente della commissione Perantoni. A sbloccare la situazione potrebbe essere stata la piroetta della Lega. Dopo aver ripetuto sino a ieri mattina che il testo Cartabia non doveva essere rimaneggiato ha cambiato completamente posizione in serata. “La priorità è ridurre i tempi dei processi ma al contempo il massimo impegno per evitare che vadano in fumo i processi per mafia, traffico di stupefacenti e violenza sessuale”, annuncia la responsabile della giustizia Giulia Bongiorno. Salvini conferma poco dopo: “Vadano fino in fondo anche i processi per droga e stupro”. La Lega si è evidentemente resa conto di non poter impedire l’accordo con i 5S sull’esclusione dei reati di mafia dalla improcedibilità e ha deciso di provare a intestarsi la mediazione, rilanciando anzi con l’aggiunta dei reati di droga e violenza sessuale alla lista di quelli esclusi dalla improcedibilità. L’inversione di marcia, comunque, potrebbe aprire la strada all’intesa sin qui ostacolata soprattutto dal pollice verso leghista. Con l’abituale stile indiretto, è intervenuto lo stesso capo dello Stato. Nella cerimonia del Ventaglio ha ricordato che nelle riforme “occorre praticare una grande capacità di ascolto e mediazione. Ma poi bisogna essere in grado di assumere decisioni chiare ed efficaci rispettando gli impegni assunti”. L’allusione alla riforma della giustizia non potrebbe essere più chiara. La riunione della commissione Giustizia era fissata per le 18.30 di ieri. Avrebbe dovuto iniziare a votare i 400 emendamenti rimasti in campo, previo parere del governo, cioè della ministra Cartabia che in mattinata aveva incontrato i capigruppo di maggioranza senza però ancora affrontare i nodi più critici. Tra gli emendamenti esaminati ieri il governo darà parere positivo solo su tre, due del Pd e uno dei 5S. Il governo avrebbe preferito iniziare a votare già ieri sera gli emendamenti già esaminati. Il M5S ha però rifiutato di procedere prima di conoscere la proposta del governo. La giornata chiave sarà dunque oggi e si articolerà su tre tavoli: quello del cdm di stamattina che si occuperà proprio della riforma, il tavolo tecnico che sta lavorando materialmente al testo e la commissione. l’ottimismo di ieri sera però è in contrasto stridente con il clima plumbeo della giornata. Forse è solo la proverbiale difficoltà dell’ultimo miglio ma certo ieri lo stato della trattativa sulla riforma della giustizia, in aula domani, registrava caos assoluto. L’accordo sembrava essersi allontanato. Conte ha alzato la posta, mettendo in discussione anche il passaggio della riforma che incarica il Parlamento di indicare alle Procure i criteri sulle priorità dell’azione penale. Non è la delega alle Camere sulle priorità, come in molti paesi tra cui gli Usa. Siamo al semplice suggerimento ma i magistrati temono che si tratti di un passo irreversibile in quella direzione: il capitolo è appaiato alla prescrizione nelle note critiche che il plenum del Csm voterà oggi. Il potere togato chiama. Conte e i 5S rispondono. Uscendo da Montecitorio, dopo la seconda tornata di incontri con i parlamentari pentastellati sulla riforma, l’ex premier apre il fuoco: “In altri ordinamenti indirizzi del genere sono previsti però conosciamo i rapporti difficili del passato tra politica e magistratura. Ritengo che quella norma sia critica e sia meglio lasciare appieno il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale”. È un rilancio che fa saltare i nervi al governo che stavolta punta i piedi. Nessuna nuova modifica. Lo stralcio dell’improcedibilità anche per le imputazioni di mafia che non prevedono l’ergastolo è l’ultima frontiera. Però Il rilancio della Lega da un lato e la presa di posizione del Csm contro l’indirizzo del Parlamento sui criteri, che sarà tassativa, dall’altro complicano tutto. L’accordo è possibile, forse vicino. Ma tutt’altro che certo. Governo, Draghi media con Salvini per chiudere sulla giustizia di Tommaso Ciriaco Emanuele Lauria La Repubblica, 29 luglio 2021 Dopo giorni di tensione, faccia a faccia tra il premier e il leader della Lega che offre il proprio sostegno sulla giustizia e ottiene in cambio una frenata sul capitolo delle misure anti-Covid. Il presidente del Consiglio accetta di concedere altri giorni sulla scuola. Lasciare che la polvere si depositi, assieme alle polemiche. Evitare una pericolosa strettoia, che concentri in 48 ore la nuova stretta sulla scuola e la soluzione del rebus giustizia. Mario Draghi sceglie la via della prudenza. Lo fa dopo essersi ritrovato faccia a faccia con Matteo Salvini. E dopo aver sentito il leghista che gli propone proprio questa strategia: “Rallentiamo. Chiudiamo un problema alla volta, presidente. Non apriamo dieci fronti contemporaneamente”. Offre il proprio sostegno sulla giustizia, il leader. Non è gratis, ovviamente. Ottiene in cambio una frenata sul capitolo delle misure anti-Covid. Certo, entro giovedì prossimo si interverrà sulla scuola. Ma forse non con la nettezza che preferirebbe l’ex banchiere centrale. E forse rimandando alla seconda metà di agosto alcuni interventi sul green pass e i trasporti. Il colloquio con Salvini si svolge al mattino, a Palazzo Chigi. Arriva dopo giorni di tensione fortissima. La stroncatura di Draghi sui vaccini ha segnato dolorosamente l’ex ministro dell’Interno, che si è vaccinato - dopo mesi in cui ha dribblato la questione - all’indomani dello schiaffo del presidente del Consiglio. L’ex vicepremier gialloverde se ne lamenta, in presenza del capo del governo. Fa presente che il suo atteggiamento dialogante sulla giustizia era stato ricambiato con una risposta durissima in conferenza stampa, culminata nel passaggio: “L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire”. Draghi non è tipo da rinnegare una posizione. Non lo fa neanche stavolta, perché ritiene imprescindibile la campagna vaccinale. E spiega al leghista che la durezza è solo figlia dell’esigenza che la corsa all’immunizzazione non rallenti. Ricuce, in fretta. E concede a Salvini più di qualcosa, ribadendo che la Lega resta un tassello di maggioranza da includere nelle decisioni. Accetta dunque di prendere tempo e rallentare sulle misure contro la pandemia. Fosse per Draghi, non ci sarebbe motivo di attendere. Posticipare anche solo di pochi giorni l’intervento sulla scuola è uno scenario che avrebbe evitato. Accetta comunque di rimandare. E lo fa per una ragione, prima di tutto: bisogna chiudere prima il capitolo della giustizia, che sembra aver inceppato ogni altra mediazione nella maggioranza. Anche sul ddl concorrenza si sono visti gli effetti, nelle ultime ore, con veti incrociati frutto di guerriglia politica più che di appunti sul merito della questione. Portare a casa la riforma Cartabia, dunque, diventa prioritario. E farlo senza arrivare alla fiducia, che resta comunque l’arma finale, risulta la strada migliore per evitare problemi ulteriori. Non è un percorso facile. Draghi sa bene che nelle ultime ore la Lega si è schierata al fianco di Forza Italia, in una pericolosa “asta degli emendamenti” tra il Movimento e il centrodestra. Salvini si offre come garante, allora. Propone di mediare. E il premier accetta di concedere altri giorni sulla scuola, dribblando la pericolosa saldatura tra il mondo della scuola e la pressione politica di Lega e 5S, ostili all’obbligo vaccinale. Parliamo di pochi giorni, perché l’intervento dovrebbe essere varato al massimo giovedì in consiglio dei ministri. L’obbligo vaccinale resta la soluzione più semplice, e anche la preferita di Draghi, di Roberto Speranza, del Pd e anche di Forza Italia. Ma la Lega frena. I sindacati tentennano. E dunque, si fa spazio un’altra corrente di pensiero, che era stata scartata nei giorni scorsi: imporre l’obbligo, ma con un meccanismo “progressivo”. Si chiederebbe al personale docente di vaccinarsi, ma immaginando un meccanismo sanzionatorio a più livelli (come già per il personale sanitario). E dunque, prima richiamo, poi trasferimento, infine sospensione. A questo, si aggiungerebbe un altro distinguo: l’imposizione potrebbe valere solo per i professori, a strettissimo contatto con gli studenti, e non per il resto del personale scolastico. Ma c’è di più. C’è anche chi spinge per un ulteriore distinzione, citando i dati in possesso del governo. Indicano una profonda divaricazione tra Regioni. Quelle davvero indietro sono Sicilia, Sardegna, Calabria e Liguria. Sulle altre, si ritiene che il prossimo mese porterà a superare ovunque la soglia del 90%. Come risolvere il ritardo di chi invece arranca? Si ipotizza una soglia da valutare a livello regionale o addirittura provinciale (in Liguria, ad esempio, Genova ha molti vaccinati, mentre il resto delle province no). Per chi è sotto soglia, scatterebbe l’obbligo. Praticabile? Costituzionale? Non è detto. Per questo, resta in piedi l’ipotesi dell’obbligo nazionale. Ma il cantiere delle decisioni rimane aperto. Giustizia, un asse istituzionale per arginare l’incognita del Movimento di Massimo Franco Corriere della Sera, 29 luglio 2021 Tra veti e mediazioni con i 5 Stelle prende corpo (forse) un compromesso sulla riforma Cartabia. Ritenere che non ci siano passi avanti sulla giustizia è poco credibile. E ipotizzare un rinvio della riforma lo è ancora meno. Il premier Mario Draghi si aspetta una risposta dal M5S entro le prossime ore: confida che vada in aula già domani, e sia approvata la prossima settimana. Nelle trattative della maggioranza si inseriscono le parole dette ieri dal capo dello Stato, Sergio Mattarella: ascolto, mediazione, ma poi “decisioni chiare e efficaci, rispettando gli impegni assunti”. Risuonano a conferma di un asse più che solido tra Quirinale e Palazzo Chigi. Le strategie dei due palazzi sembrano sovrapporsi, rafforzandosi reciprocamente. D’altronde, per quanto riguarda il centrodestra le resistenze emerse negli ultimi giorni, quasi di rimbalzo dopo le richieste grilline, appaiono superate. Se qualcuno immaginava di utilizzare la riforma della Guardasigilli, Marta Cartabia per tentare vecchi giochi, il pericolo è svanito. Ieri il capo della Lega, Matteo Salvini, è andato da Draghi. E alla fine del colloquio ha fatto sapere di essere pronto a “accettare le proposte del premier, non del M5S”. Come dire che se Draghi opta per qualche modifica, il Carroccio la voterà: a patto che non sia spacciata dai grillini per una delle loro “bandierine”. Il grumo delle resistenze si concentra tuttora nelle file del Movimento. E la lunga mediazione del leader in pectore Giuseppe Conte tra deputati e senatori, al momento non lo ha sciolto: tanto che le sue oscillazioni tra chi sostiene il governo e chi gli si oppone con virulenza rischiano di farlo apparire non come un mediatore ma come un artista del rinvio. D’altronde, si trova in una posizione non facile. Deve barcamenarsi tra orfani del suo esecutivo e “governisti” decisi a sostenere comunque Draghi. E questo su un tema dirimente come la giustizia, coi Cinque Stelle che hanno la maggioranza relativa dei parlamentari. La fama di antipatizzante di Draghi, che Conte si è lasciato cucire addosso da quando è uscito da Palazzo Chigi, non lo aiuta. Quanti nel M5S gli suggeriscono la rottura col governo sperano di fare leva sui suoi risentimenti. Ma si tratta di un gioco ad alto rischio, che potrebbe finire per formalizzare la spaccatura del grillismo. Anche perché la ministra Cartabia ha incontrato più volte sia il premier, sia la maggioranza: un segnale di disponibilità a qualche ritocco, tenendo ferma la votazione unanime del Consiglio dei ministri sulla riforma e sulla richiesta di fiducia al Parlamento. Il tema è quanto di pregiudiziale e quanto di sincero contengano le controproposte del M5S; e fino a che punto a Conte sarà permesso di tirare la corda nella trattativa: non solo da Draghi e dagli alleati, decisi a andare fino in fondo, ma dagli stessi ministri grillini. Il rinvio a oggi della riunione della Commissione parlamentare sulla giustizia marca un altro passaggio contrastato ma che probabilmente prepara il compromesso. E le parole di ieri del presidente della Repubblica contribuiscono a richiamare tutti i partiti al senso di responsabilità: a un “dovere morale e civile” che riguarda sia le vaccinazioni, sia le altre sfide che si hanno davanti. Per un M5S che, nelle intenzioni di Conte, dovrebbe accreditarsi come una forza moderata, mostrarsi subalterno alle sue componenti più estremiste sarebbe una contraddizione stridente. Il Csm boccia la riforma Cartabia e invoca la depenalizzazione di Simona Musco Il Dubbio, 29 luglio 2021 Critiche alla norma sull’improcedibilità e sulla sulla possibilità, per il Parlamento, di definire dei criteri di priorità nella trattazione degli affari: “A rischio il rapporto tra poteri”. “Rilevanti e drammatiche potrebbero essere le ricadute pratiche” della nuova prescrizione, che prevede l’improcedibilità, “in ragione della rilevante situazione di criticità di molte delle Corti d’appello italiane”. È questo l’allarme contenuto nel parere sulla riforma del processo penale elaborato sesta commissione del Consiglio superiore della magistratura e che sarà giovedì all’esame del plenum. Un parere diviso in due parti, la prima delle quali si concentra proprio sul punto più discusso dalla riforma, oggetto di fibrillazioni interne all’esecutivo, soprattutto per la difesa strenua, da parte del M5S, della norma blocca- prescrizione voluta da Alfonso Bonafede. La riforma, secondo la sesta Commissione, “presenta numerosi profili di criticità”, dal momento che l’improcedibilità entrerebbe in frizione, in primo luogo, “con il principio di obbligatorietà dell’azione penale”, rappresentando una “ingiustificata e irrazionale rinuncia dello Stato al dovere di accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità sul piano penale, rispetto ad un reato certamente non estinto”. Insomma, nonostante “la persistente obbligatorietà dell’azione penale”, la stessa non potrebbe più essere esercitata. Ma la norma, secondo il Csm, violerebbe anche il principio di uguaglianza. E per spiegarlo, la Commissione tira fuori un esempio paradossale. Supponendo che il giudizio di primo grado di un processo per fatti puniti con pene elevate “sia durato dieci anni e che la sentenza sia intervenuta prima della prescrizione del reato - si legge nel parere - la causa di improcedibilità non si avvererebbe se il giudizio di appello fosse, comunque, definito in due anni e quello di Cassazione entro un anno: dunque, un processo durato tredici anni si potrebbe concludere, comunque, con una condanna definitiva”. Dall’altra parte, nel caso in cui, per lo stesso fatto, il processo di primo grado fosse definito in pochi mesi, una durata in appello superiore ai due anni comporterebbe l’improcedibilità dell’azione, con la conseguenza che “un processo durato poco più di due anni dovrebbe essere definito senza accertamento del fatto e con una sentenza di non doversi procedere”. Conseguenze “palesemente irragionevoli”, secondo il Csm, che determinerebbero “una sperequata attuazione concreta del diritto alla ragionevole durata del processo”. Ma anche l’eccezione prevista per i delitti puniti con l’ergastolo rischia, secondo la Commissione, “di creare notevoli inconvenienti sul piano pratico”. L’assenza di un termine per la definizione del giudizio di secondo grado, data la situazione drammatica di alcune Corti d’appello, “porterebbe, infatti, in specie se l’imputato non fosse detenuto, a postergare la trattazione di questi giudizi oltre il termine di due anni, con l’eventualità, in caso di esclusione della sussistenza di una delle aggravanti che determinano la pena dell’ergastolo, di dover poi dichiarare l’improcedibilità dell’azione penale”. I dati parlano chiaro: in almeno 10 Corti d’appello su 29 (stando ai dati pre- covid), il disposition time supera i due anni. I tempi medi registrati negli ultimi anni per un processo d’appello oscillano, dunque, tra i quattro e i cinque anni, motivo per cui, secondo Palazzo dei Marescialli, “la previsione di un termine di durata pari a due anni (uno nel giudizio di Cassazione), prorogabile solo in casi determinati e per tempo breve, finirebbe per non essere allineata neppure con il dato reale”. Tre anni in appello, stando al parere, sarebbero dunque una soluzione più coerente, con possibilità di proroga di due anni “in modo da allineare la previsione normativa al dato reale registrato in molte realtà giudiziarie territoriali”. Insomma, se proprio risulta necessario contingentare i tempi dell’appello, meglio farlo rimanendo fedeli alla media attuale, pur se drammaticamente superiore a quella europea. Anche perché per migliorare la situazione, secondo il Csm, sarebbe necessario intervenire aumentando il personale amministrativo e togato, migliorando l’edilizia giudiziaria, l’informatizzazione degli uffici e attraverso un’azione di deflazione della materia penale con “una razionale opera di depenalizzazione”, pena una estremizzazione delle difficoltà di uffici già in sofferenza. L’improcedibilità, secondo il Csm, produrrà anche un altro effetto: l’aumento del numero delle impugnazioni, “con conseguente aggravio del carico di lavoro degli uffici giudiziari di secondo grado e di legittimità”. Critiche anche sulla cosiddetta “discovery coatta” in caso di mancato esercizio dell’azione penale o di mancata richiesta di archiviazione entro tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini preliminari ordinarie e di sei mesi per i casi più complessi. Un rimedio che, agli occhi dei consiglieri del Csm, “sembra non velocizzare la conclusione della fase in questione, né garantire maggiormente l’indagato e la persona offesa e rischia inoltre di incidere in maniera assai consistente sulle scelte del pubblico ministero, sino a vanificare l’esito di sforzi investigativi impegnativi”. Così come arriva il niet sulla possibilità, per il Parlamento, di definire dei criteri di priorità nella trattazione degli affari. Ciò, secondo il Csm, rischia infatti di sbilanciare “l’attuale assetto dei rapporti tra i poteri dello Stato”, in quanto il potere legislativo potrebbe così “orientare” la funzione giudiziaria sulla base dei valori delle maggioranze politiche del momento. Ciò che conta, invece, è “la condizione oggettiva dell’ufficio e della realtà criminale insistente nel territorio ove esso si colloca”. E così facendo, i criteri di priorità, “da mero strumento di organizzazione dell’attività interna degli uffici requirenti, diventeranno una modalità per orientare la funzione giurisdizionale verso il conseguimento di specifici obiettivi di politica criminale”. La riforma abolisce norme da ancien regime, come l’eliminazione della prescrizione di Giuseppe Gargani Il Dubbio, 29 luglio 2021 Nessuno poteva immaginare che negli anni 2000 si potesse ancora discettare sul problema della libertà, sui suoi inevitabili limiti, riferiti ai singoli individui, necessari per esaltare la libertà di tutti, avendo la Costituzione risolto questi problemi recuperando la cultura filosofica dell’800 e del 900 e le battaglie politiche per l’affermazione dei diritti fondamentali. Non solo in un periodo di pandemia ma nell’epoca moderna ogni cittadino è responsabile della salvezza e della libertà dell’altro. Inoltre nessuno poteva immaginare che sui problemi della giustizia e della magistratura ci fossero ancora oggi cultori del diritto che affiancano i pm nella critica spietata che essi fanno alla riforma proposta dalla ministra della Giustizia per difendere il loro anomalo potere che vogliono senza limiti e con un processo senza scadenze. Il procuratore Gratteri, che è stato ascoltato dal Parlamento, sa bene che la lunghezza dei processi dipende dai pm quando portano avanti indagini che finiscono nel nulla! La cultura dunque non aiuta alla comprensione dei fenomeni, ma alimenta le paure e offusca la politica approfittando dell’emergenza sanitaria che dovrebbe determinare invece una maggiore solidarietà nella comunità civile. Se un filosofo come Giorgio Agamben, che mi dicono essere molto influente, arriva a dirci che il “Green pass discrimina ingiustamente ed esclude dalla vita sociale quanti rifiutano di vaccinarsi”, vuol dire che tutte le battaglie combattute per conquistare, non gli egoismi individuali, ma la libertà di tutti non sono più valide e non sono più istruttive. L’individualismo sfrenato ferma il progresso della umanità. Sul problema della giustizia la situazione è ancora più complicata se un cultore del diritto come Giuseppe Conte si aggiunge al coro di quelli che dicono che con la riforma Cartabia “saltano” i processi e in particolare, per sollecitare le mozioni dell’opinione pubblica, dicono che salta il processo del ponte Morandi di Genova: siamo a una demagogia sfrenata e bugiarda insopportabile. Mettiamo le cose in ordine. La ministra della Giustizia ha presentato sostanziali emendamenti allo sciagurato disegno di legge del ministro Bonafede: non si tratta di una riforma che sconvolge o cambia la giustizia e la magistratura come sarebbe doveroso per le istituzioni, ma un inizio coraggioso che vuole far recuperare il prestigio e il ruolo dello Stato nel processo penale rispetto alla pretesa punitiva e vendicativa che ha caratterizzato la propaganda degli ultimi anni del Movimento 5Stelle e della Lega. Questa cattiva propaganda ha fatto crescere un populismo dannoso per la comunità civile e per le istituzioni. Oggi siamo in grado di verificare, dopo tre anni dalle elezioni del 2018, che tutto quello che è stato detto, che è stato promesso e, ahimè, anche realizzato in Parlamento non è più è vero, e deve essere in ogni caso modificato per ristabilire un equilibrio e una normalità: il governo Draghi è benemerito perché ha dato inizio a un’altra storia. Orbene le norme proposte dal governo in materia di giustizia fanno riferimento a quelle programmatiche della Costituzione e sono tradotte in norme per cambiare il ruolo del giudice che non può essere più colui che stabilisce burocraticamente le sanzioni previste dal codice, ma deve diventare il dominus del processo che tiene conto della tenuità del fatto, della riparazione dei danni da parte dell’imputato, che non condanna al carcere se il reato non suscita allarme, che valuta le misure alternative, il potenziamento della messa alla prova, che valuta l’area della non punibilità dei fatti di lieve entità insieme l’ampliamento dei riti alternativi. Insomma una “giustizia riparativa” come è stato detto che dovrebbe costituire un monito per l’opinione pubblica che la pena serve per rieducare, e non per relegare il colpevole fuori dalla società. Questa è la mitezza del diritto e il ruolo prestigioso dello Stato, queste le conquiste moderne da Beccaria e da Filangieri in poi dimenticate nell’ultimo periodo da una classe dirigente sprovveduta e senza cultura istituzionale. La riforma contiene tante cose positive ma la polemica si appunta soltanto sul problema delle prescrizioni. La durata del processo nell’epoca moderna è fondamentale per l’efficienza democratica e la convivenza civile e dunque deve essere “ragionevole” non illimitata. Stabilire tempi precisi significa potenziare il ruolo del giudice. Il disegno di legge del precedente governo risolveva il problema eliminando la prescrizione, condannando il processo a una durata illimitata. Erano proposte oscurantiste, da acien regime e sono state modificate in un rapporto trasparente con la richiesta dei cittadini. I quali devono rendersi conto che il magistrato non deve operare un controllo di legalità, come promuovere indagini alla ricerca di possibili reati, ma deve reprimere la illegalità che è funzione completamente diversa. Se il magistrato deve controllare la legalità diventa giudice “etico”, una patologia grave per la democrazia. Con la riforma Cartabia siamo ad un primo passo: il referendum farà il resto. Personalmente ritengo che in una Repubblica parlamentare è il legislatore che deve fare le riforme: ma siccome quelle della giustizia non si sono potute fare perché ogni nuova proposta è stata considerata “un attentato all’autonomia e indipendenza della magistratura”, allora con il referendum sono i cittadini che debbono prendere coscienza che il problema della giustizia è il primo problema della democrazia. Così la prescrizione mascherata da “improcedibilità” mette a rischio le garanzie processuali di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 29 luglio 2021 La riforma della Giustizia si rende assolutamente necessaria, non solo per i giustamente pressanti inviti dell’Unione Europea, ma anche per semplici ragioni domestiche che attengono al miglioramento di un servizio per l’appunto quello della Giustizia, che ad oggi presenta molteplici criticità affrontate a soli colpi di scure. Le criticità, dovute ai tagli applicati ad un servizio essenziale come quello dell’amministrazione della Giustizia, hanno disvelato tutte le criticità della pandemia. Nonostante tutti gli aspetti negativi, l’emergenza sanitaria ha avuto anche il merito di renderci consapevoli di quelle che sono le lacune ora non più procrastinabili. La riforma è complessa: costituita da moltissimi emendamenti, a commento dei quali sono intervenute autorevoli figure tra i quali: Marcello Daniele, Paolo Ferrua, Renzo Orlandi, Adolfo Scalfati, infine, Giorgio Spangher, i quali hanno sollevato condivisibili perplessità in ordine al tema più discusso e controverso della riforma: la prescrizione. All’articolo 14 del d.d.l. A.C. 2435 viene confermata la regola introdotta con la l. n. 3/2019, ai sensi della quale con la sentenza di primo grado, sia essa di assoluzione che di condanna, opera il blocco della prescrizione. Si legge nel nuovo art. 161 bis c.p. (Cessazione del corso della prescrizione): “Il corso della prescrizione cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado”. Lo scrivente ha già avuto modo di discuterne ampiamente, anche su queste stesse pagine, e pertanto ci si limiterà a rilevare come la previsione così configurata, seppur da contestualizzare alla luce di tutte le nuove modifiche, continua a non ritenersi accoglibile perché fonda questa le proprie ragioni su un presupposto errato che vede nella prescrizione il problema della mancata definizione dei processi, più che un sintomo di un problema endemico dello stesso, causato da anni di non curanza del settore Giustizia da parte delle Istituzioni. Il successivo articolo 14-bis sulla improcedibilità per superamento dei termini di durata dei giudizi di impugnazione statuisce che, al fine di assicurare tempi certi e ragionevoli ai giudizi di impugnazione, la mancata definizione processuale entro il termine di due anni, e del giudizio di cassazione entro il termine di un anno, costituiscano cause di improcedibilità dell’azione penale. Una rischiosa trasformazione dell’Istituto della prescrizione, che maschera la stessa in un termine di natura meramente processuale, col venir meno di tutta la tutela fornita dalla natura sostanziale dell’Istituto, con il rischio che sospensioni come quelle accordate per affrontare l’emergenza Covid lo scorso anno divengano sempre ammissibili, senza che vi si possa opporre alcuna argomentazione che fondi le proprie ragioni su diritti costituzionalmente garantiti. Non solo, alla luce delle modifiche di cui all’art. 12 comma 3, lett. b) AC. 2435, laddove si prevede che i termini massimi di durata dei vari gradi di giudizio possano essere stabiliti in misura diversa dal Consiglio superiore della magistratura, sentito il Ministro della giustizia, con cadenza biennale in relazione a ciascun ufficio e tenuto conto delle pendenze, delle sopravvenienze, della natura dei procedimenti e della loro complessità, delle risorse disponibili e degli ulteriori dati risultanti dai programmi di gestione redatti dai capi degli uffici giudiziari, sposta ulteriormente il piano della disciplina della prescrizione da un livello di rango costituzionale sostanziale, ad un livello meramente procedurale che, a parere di chi scrive, non può essere accettato. Ancora, è il caso di far presente che una recente pronuncia della Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 83, c. IX, del d.l. n. 18/2020, convertito, con modificazioni, nella L. 24 aprile 2020, n. 27, nella parte in cui prevede la sospensione del corso della prescrizione per il tempo in cui i procedimenti penali sono rinviati ai sensi del precedente c. VII, lettera g), e in ogni caso, non oltre il 30 giugno 2020. La norma, censurata, prevedendo una regola di sospensione del termine prescrizionale che viene rimessa alla discrezionalità e alle necessità delle misure organizzative del capo dell’ufficio giudiziario non può essere considerata un’ipotesi riconducibile a quelle previste in seno all’art. 159 del Codice penale. Alla luce di quanto sopra, ci si chiede, pertanto, come sarà giustificabile l’Istituto dell’improcedibilità a breve sottoposto al voto delle Camere, anche e soprattutto considerando che tali termini prescrizionali saranno sottoposti a modifiche biennali secondo quanto ritenuto opportuno dal CSM, avuto a riguardo le esigenze di ciascun ufficio. Il risultato, pertanto, sarà quello di avere da un lato la classica prescrizione processuale, così come l’abbiamo conosciuta, che verrà interrotta a seguito della sentenza di primo grado, sia questa di assoluzione e condanna e, dall’altra, una prescrizione di carattere procedurale che potrà variare nel corso degli anni. L’improcedibilità, così studiata, è confliggente con il diritto sostanziale sotto plurimi punti di vista. In primis, il coordinamento teorico giuridico con l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.), nella parte in cui questa verrà interrotta da un criterio di carattere processuale. Il problema qui evidenziato da esponenti della dottrina, tra cui i succitati, presenta profili simili a quelli sin ora discussi: il dispiegamento degli effetti di una norma di carattere meramente procedurale su Istituti costituzionalmente disciplinati. Il processo non può estinguersi per una mera decorrenza dei termini, senza che sia estinto anche il reato, ovvero previa una modifica dell’art. 112 Cost. sull’obbligatorietà dell’azione penale. Non è ammissibile che il processo venga meno, senza che sia venuto meno anche il reato, per l’ovvia lesione che deriverebbe al succitato articolo. L’empasse è evidente: se il perseguimento del reato è obbligatorio ex art. 112 Cost., di conseguenza non è ammissibile che una mera improcedibilità paralizzi l’azione dell’Accusa, essendo il reato non ancora estinto in virtù dell’integrale decorrenza della prescrizione di natura sostanziale. Minor preoccupazione desta il coordinamento con la disciplina dell’azione civile. All’uopo, infatti, la riforma, all’art. 578 c.p.p., se emendato, prevede che in caso di condanna alle restituzioni o al risarcimento del danno in favore della parte civile, seguita da una declaratoria di improcedibilità, il giudice d’appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione, rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado d’appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale. In ultimo, ma non meno importante, è l’ulteriore difficoltà di giustificare la sostanziale introduzione, seppur indirettamente, nel nostro ordinamento, di una reformatio in peius. Con grande attenzione ed esperienza rilevano i professori succitati che la sentenza di improcedibilità, intervenente eventualmente in appello, comporterà una sostanziale reformatio in peius della precedente assoluzione emessa dal Giudice di prime cure, vedendosi l’imputato costretto a vedersi sì assolto, ma per l’intervenuta improcedibilità e non già per assoluzione a seguito di accertamento dei fatti, ovvero per estinzione del reato. Tra i vari aspetti qui esaminati quest’ultimo appare tra quelli più critici, in quanto va a scalfire un ulteriore aspetto di carattere costituzionale e, pertanto, inviolabile del nostro ordinamento. La bocciatura giunge anche dallo stesso CSM, preoccupato che termini di procedibilità così brevi impediscano la trattazione di un gran numero di processi, nonché aggravino ulteriormente le Corti d’Appello, essendo prevedibile che molte saranno le difese che decideranno di percorrere la via del secondo o terzo grado di giudizio come previsto per legge. Fulvio Gigliotti, componente del CSM, attentamente rileva che i tempi medi della Giustizia in secondo grado sono di gran lunga superiori ai due anni, arrivando anche a 4-5 anni nelle Corti meno virtuose. Una discussione maggiormente approfondita attorno alla riforma è doverosa. Considerate le richieste che giungono dalle sedi europee e la fretta di ottenere lo sblocco definitivo dei fondi del Recovery Fund, non si può accettare che principi basilari del nostro ordinamento, cristallizzati da lustri di curata Giurisprudenza, si vedano capovolti per eccessiva premura. Come osservava l’indimenticato Goethe, è il caso di procedere senza fretta, ma senza sosta. La tentata violenza sessuale non è esclusa dall’assenza di contatto corporeo di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2021 Pienamente possibile la consumazione del reato di violenza sessuale, attraverso l’uso esclusivo dei social, da parte di chi coarti la volontà della vittima richiedendole l’invio di un video in cui la si veda praticare atti sessuali di autoerotismo sotto la minaccia di diffondere ad altri la foto osé, già ricevuta e magari pure ottenuta spontaneamente. L’iniziale invio di una propria foto nuda non esclude l’assenza di consenso a ulteriori e successive richieste del medesimo tenore agite appunto attraverso la minaccia dell’invio on line ad altri. La volontà di non vedere postata ad amici e conoscenti la propria foto intima è sufficiente a integrare quella lesione dell’autodeterminazione sessuale della vittima, che appunto cede ad altre richieste di invio di foto proprio e solo per scongiurare l’avverarsi della minaccia. La richiesta - infine - di auto-filmarsi durante la masturbazione e inviare il video all’autore della minaccia se non viene eseguita è violenza sessuale nella forma tentata. La Corte di Cassazione - con la sentenza n. 29581/2021 - ha perciò confermato la condanna per il tentativo del reato previsto dall’articolo 609 bis del Codice penale, nei confronti del ricorrente che contestava l’avvenuta o tentata invasione del corpo altrui perché non aveva mai né toccato né incontrato la vittima delle minacce. Infatti, è ormai orientamento diffuso intravedere la violenza sessuale nell’invasione della sfera dell’autodeterminazione della vittima non solo a subire, ma anche a praticare atti sessuali che comunque ne coinvolgano la corporeità. Siamo ben al di là del vecchio concetto di congiungimento carnale violento o abusivo o fraudolento. Concezione di per sé restrittiva della sfera sessuale e ulteriormente superata soprattutto dagli attuali fenomeni di comunicazione invasiva e diffusiva realizzata attraverso i mezzi telematici così spesso infarciti di contenuti a sfondo sessuale. Nel caso concreto la Cassazione ha ritenuto irrilevante che la minore oggetto delle richieste -di un astuto ladro di profili di suoi amici e di terzi - non avesse ceduto all’ultima richiesta di quest’ultimo, ma si fosse recata alla Polizia per denunciarlo. Da ciò dice la Cassazione non si può desumere l’assenza di un perdurante stato di angoscia in una ragazzina oggetto di continue e risalenti richieste di invio di messaggi e immagini relative alle sue parti intime e all’intera sua corporeità, pur in assenza del soddisfacimento strettamente sessuale del molestatore anche se nascosto da plurime identità, ma individuato come essere sempre lui dalla stessa vittima. Ciò che rileva non è il piacere sessuale raggiunto o solo perseguito dall’autore del reato, ma è la violenza subita dalla vittima che si sente costretta a compiere atti involgenti la propria sfera sessuale. Applicazione della pena su richiesta, consenso non revocabile se c’è stato l’accordo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 29 luglio 2021 Lo ha stabilito la III Sezione penale della Cassazione, sentenza n. 25590 depositata ieri. No alla revoca del consenso nell’applicazione della pena su richiesta una volta raggiunto l’accordo col Pm. L’articolo 446, co. 5, cod. proc. pen. (Richiesta di applicazione della pena e consenso), allorché afferma che “il giudice, se ritiene opportuno verificare la volontarietà della richiesta o del consenso, dispone la comparizione dell’imputato”, infatti si riferisce alla verifica dell’eventuale sussistenza di un vizio del consenso. Dunque “non attiene e non consente” la revoca del consenso stesso. Lo ha stabilito la III Sezione penale della Cassazione, sentenza n. 25590 depositata oggi (segnalata per il Massimario), dichiarando inammissibile il ricorso di un uomo condannato per favoreggiamento della prostituzione. L’imputato infatti dopo la notifica del decreto di giudizio immediato scelse di definire il processo con i riti alternativi, rinunciando così al processo ordinario ma poi, a seguito dell’accordo col Pm, nell’udienza fissata dal Gip per la decisione revocò il consenso al patteggiamento. Per la Suprema corte dunque va affermato che: “la notifica del decreto di giudizio immediato, che contiene l’indicazione che il processo potrà giungere alla definizione mediante il patteggiamento e la successiva formulazione dell’istanza da parte del procuratore speciale, a cui è stata conferita, come nel caso in esame, specifica procura speciale per la definizione del processo ex 444 cod. proc. pen. o con altri riti alternativi, consente di ritenere che la volontà dell’imputato si sia correttamente formata ed espressa”. Del resto, prosegue la decisione, nel ricorso non si prospetta l’esistenza di un vizio della volontà ma piuttosto il “ripensamento dell’imputato sul percorso intrapreso per essere giudicato con il rito ordinario”. In tema di patteggiamento, prosegue la Corte, quanto alla revocabilità del consenso, la giurisprudenza è ormai costante nell’affermare che l’accordo tra l’imputato e il Pm costituisce un negozio giuridico processuale recettizio che, una volta pervenuto a conoscenza dell’altra parte e quando questa abbia dato il proprio consenso, diviene irrevocabile e non è suscettibile di modifica per iniziativa unilaterale dell’altra (Cass n. 48900/2015, che ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’imputato avverso la sentenza ex art. 444, cod. proc. pen., che aveva recepito l’accordo raggiunto dal P.M. e il precedente difensore munito di procura speciale, successivamente revocato dall’imputato). Nello stesso senso si è affermato (Cass. n. 12195/2019) in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti che “l’accordo tra l’imputato e il Pm costituisce un negozio giuridico processuale recettizio che, quando entrambe le parti abbiano manifestato il proprio consenso con le dichiarazioni congiunte di volontà, diviene irrevocabile e non può essere modificato per iniziativa unilaterale di una parte, determinando effetti non reversibili nel procedimento (qui la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso inteso a far valere la contrarietà alla scelta del rito espressa dall’imputata nell’udienza celebrata dopo il perfezionamento dell’accordo). Infine, nella sentenza “Rinaldi” (n. 55124/2016) si è ritenuto “abnorme”, in quanto determina “un’indebita regressione del procedimento”, l’ordinanza del Tribunale che dispone la restituzione degli atti al giudice dell’udienza preliminare, il quale, ritenendo erroneamente revocabile il consenso all’applicazione della pena da parte dell’imputato, prima della ratifica dell’accordo da parte del giudice, aveva disposto il rinvio a giudizio. La medesima decisione ha altresì rilevato che l’articolo 447 comma 3 cod. proc. pen. prevede che “durante il termine fissato dal giudice per esprimere il consenso o il dissenso sulla richiesta, quest’ultima non è revocabile sicché sarebbe illogico ritenere che, una volta raggiunto l’accordo, la richiesta possa invece essere revocata”. Sbaglia infine il ricorrente ad invocare l’applicazione dell’articolo 99 comma 2 cod. proc, pen. (“L’imputato può togliere effetto, con espressa dichiarazione contraria, all’atto compiuto dal difensore prima che, in relazione all’atto stesso, sia intervenuto un provvedimento del giudice”), in quanto nel caso in esame “dopo l’accordo è intervenuto il provvedimento del giudice, che è consistito nella fissazione dell’udienza per la definizione del processo”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Violenze in carcere: i due comandanti si accusano a vicenda di Raffaele Sardo La Repubblica, 29 luglio 2021 Tra i due comandanti il colpevole è sempre l’altro. È la tesi che ieri mattina hanno sostenuto davanti al Tribunale del Riesame di Napoli i legali di Gaetano Manganelli e Pasquale Colucci, rispettivamente comandante del carcere di Santa Maria Capua Vetere e comandante del carcere napoletano di Secondigliano, ma Colucci era anche comandante del “Gruppo di Supporto agli Interventi”, che il 6 aprile del 2020 ha dato vita ad “un’orribile mattanza” (come scrive il gip) nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. A essere messa in discussione è innanzitutto la catena di comando che quel giorno, per quel che ha scritto il gip nell’ordinanza che ha portato a 52 misure nei confronti di agenti e dirigenti penitenziari, non ha assolutamente funzionato. Giuseppe Stellato, legale di Gaetano Manganelli, attualmente ai domiciliari, dice: “Il nostro assistito non ha partecipato, né disposto, né tollerato la perquisizione, ma soprattutto le modalità della stessa. Perché in questo processo il tema non è che si sia fatta la perquisizione straordinaria, che era un’azione assolutamente possibile, e secondo me anche legittima. Il problema è di come è stata fatta. Manganelli nei pestaggi non c’è. Non era presente, ma addirittura la catena di comando della perquisizione passa attraverso il direttore del Dap e il responsabile dell’Unità di sicurezza, cioè Pasquale Colucci, Istituita ad hoc per la vicenda di Santa Maria. Per me la catena di comando, parte da Fullone e finisce a Colucci”. Per la Procura era presente l’aggiunto, Alessandro Milita, il quale ha sostenuto che le chat allegate anche nell’ordinanza, sono chiare: Manganelli sapeva che c’era la perquisizione e ha indicato anche i reparti in cui farla. “Certo, sapeva, ma non ha dato indicazione agli agenti di esercitare violenza nei confronti dei detenuti. Il problema - ha obiettato ancora l’avvocato Giuseppe Stellato - non è la perquisizione, ma la modalità esecutiva e chi l’ha voluta”. L’avvocato ha chiesto la scarcerazione per mancanza di gravi indizi di colpevolezza. L’avvocato Domenico Scarpone, che con Carlo De Benedictis difende Pasquale Colucci, anche lui ai domiciliari, ha innanzitutto impugnato il provvedimento sia dal punto di vista dei gravi indizi di colpevolezza che delle esigenze cautelari, chiedendo l’annullamento dell’ordinanza. “Abbiamo fatto un discorso per ciascun capo di imputazione che viene ascritto a Colucci - spiega il legale. Colucci risponde per la stragrande maggioranza dei capi di imputazione sebbene non abbia messo materialmente in essere atti violenti nei confronti dei detenuti”. La tesi del gip è che lui aveva il potere di impedire ai suoi uomini di usare violenza nei confronti dei detenuti. “In realtà Colucci - ha sostenuto il legale - è arrivato ad operazione già cominciata”. E a proposito delle responsabilità sulla catena di comando, il legale ha esposto la sua tesi: “All’interno del carcere è il comandante che è responsabile, ovvero Manganelli. Tanto è vero che il giorno prima, il 5 aprile 2020, quando c’era in atto una contestazione da parte dei detenuti, è arrivato il nucleo esterno, ma il comandante ha ritenuto di non farli entrare perché stava gestendo lui la protesta”. Ora si aspettano le determinazioni del Riesame, che ha tempo per emettere il provvedimento fino al 29 luglio. Intanto il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, ha scritto al ministro della Giustizia, Marta Cartabia, chiedendo di integrare la Commissione ispettiva istituita dal Dap “per fare luce sull’origine delle rivolte dei detenuti avvenute negli istituti” composta da sole figure interne all’Amministrazione penitenziaria. Ciambriello ha chiesto di “integrarla con figure di terzietà capaci di uno sguardo multiplo e riassuntivo, con un profilo non artefatto e un ruolo di osservatori super partes”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Per la direttrice avviata la procedura di revoca dell’incarico di Francesca Del Boca Corriere della Sera, 29 luglio 2021 Arriva il procedimento di revoca dell’incarico nei confronti di Elisabetta Palmieri, direttrice del carcere di Santa Maria Capua Vetere, per “anomala condotta”. Aveva consentito al compagno di accompagnare una senatrice negli incontri con i detenuti. Anomala condotta. È questa l’accusa che viene rivolta a Elisabetta Palmieri, direttrice della Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere “Francesco Uccella”, il carcere dove nei mesi scorsi sono state accertate numerose violenze ai danni dei detenuti. Ma non è questa la motivazione della revoca alla direttrice: secondo fonti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, a esserle imputata è un’”anomala condotta” per aver consentito al compagno, soggetto estraneo e autorizzato a frequentare esclusivamente il laboratorio di pasticceria all’interno del carcere per finalità rieducative, di presenziare alla visita in istituto della senatrice Cinzia Leone (M5S) e di accompagnarla negli incontri con i detenuti. Il provvedimento è stato emesso dopo la valutazione da parte del Dap di atti dell’istituto penitenziario e della magistratura di sorveglianza. La senatrice: “Grave stortura” - Intanto è arrivato prontamente anche il commento della senatrice Cinzia Leone. “Durante la mia visita il compagno della direttrice Palmieri, senza autorizzazione specifica, mi aveva guidato nella struttura penitenziaria e nei diversi padiglioni. Una vicenda incredibile, in quello che dovrebbe essere il carcere più attenzionato d’Italia dopo il violento e immotivato pestaggio a danno dei detenuti avvenuto nell’aprile del 2020 e scoperto solo recentemente. Una grave stortura, mi auguro che sia il primo concreto passo per il ripristino della legalità”. Confermati i domiciliari - Il Tribunale del Riesame di Napoli hapoi confermato gli arresti domiciliari per gli ufficiali della Polizia penitenziaria Gaetano Manganelli e Pasquale Colucci, accusati di essere tra gli organizzatori della perquisizione straordinaria al carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020. Manganelli era allora comandante degli agenti nell’istituto casertano, mentre Colucci era a capo della polizia penitenziaria nel carcere napoletano di Secondigliano e soprattutto comandante del “Gruppo di Supporto agli Interventi”, una sorta di “squadra speciale” istituita durante la pandemia dall’allora Provveditore regionale alle carceri Antonio Fullone (indagato e sospeso dal servizio) e inviata alla casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere per una retata. Una spedizione punitiva. La vicenda - Il 6 aprile del 2020 l’Italia si trova in lockdown, provata dalla pandemia e da misure sempre più restrittive. Quel giorno circa 300 persone, tra agenti ed esterni, secondo la magistratura organizzarono “perquisizioni arbitrarie e abusi di autorità” nei confronti di alcuni detenuti che avevano protestato per chiedere più tutele contro il rischio contagio: in carcere, dove da mesi si verifica una rivolta al giorno, si è verificato un caso di positività al Covid. Fu una mattanza, con decine di detenuti picchiati e sottoposti a vere e proprie torture, testimoniata dalle telecamere di sorveglianza interne all’istituto. Pugni, calci, schiaffi, insulti e umiliazioni di ogni genere come camminare sulle ginocchia o strisciare. Confermate le altre misure cautelari - I giudici hanno inoltre confermato le misure cautelari emesse dal Gip Sergio Enea il 28 giugno scorso anche per tutti i ventisei funzionari della penitenziaria e sottoufficiali presenti quel giorno. Taranto. È troppo umana con i detenuti, sospesa la direttrice del carcere di Aldo Torchiaro Il Riformista, 29 luglio 2021 Succede tutto all’improvviso, o forse no. Ieri il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, ha sospeso dalle funzioni di direttrice del carcere di Taranto, Stefania Baldassarri. Il provvedimento è stato adottato - a quanto si apprende da fonti dell’amministrazione - sulla scorta di un’informativa della Dda di Lecce, secondo la quale la direttrice sarebbe coinvolta in condotte irregolari nell’interesse di un detenuto, presente nello stesso istituto penitenziario, indagato per il reato di 416 bis, l’associazione a delinquere di tipo mafioso. La direttrice Stefania Baldassarri cade dalle nuvole, come pure chi la conosce più da vicino. Baldassarri dirige da anni una delle strutture detentive più affollate e difficili, con un modello di gestione che coinvolge i detenuti in programmi di rieducazione civica. Ma ieri come un fulmine a ciel sereno da via Arenula le comunicano la sospensione per “Condotte irregolari”. Cosa sarebbe successo? È stata intercettata una conversazione in un bar cittadino. Lei entra per un caffè. I ragazzi che lavorano lì le chiedono se fosse il direttore del carcere. È lei stessa a raccontarlo: “Ho risposto di sì, mi è stato chiesto come stavano i detenuti Romano, Buscicchio e Cicala; ho detto che stavano come possono stare i detenuti in custodia cautelare. Mi è stato chiesto cosa facessero tutto il giorno, ho detto quello che solitamente fanno in genere tutti i detenuti”. “Mi è stato chiesto - ha aggiunto Baldassarri - se potevo portare loro i saluti, ho detto che purtroppo in direttore si occupa di altro che portare i saluti. Mi è stato chiesto cosa potessero fare e ho detto che il modo per manifestare la loro vicinanza era quello di scrivere. Il bar - ha concluso - è stato riaperto, perché dissequestrato, non comprendo i motivi per cui mortificare l’aspettativa di gente che stava lavorando e che nulla aveva a che fare col procedimento penale del detenuto”. Una normale conversazione che arriva però alle orecchie della Dda di Lecce e diventa il volano di un infamante sospetto: avrebbe in qualche ipotetico modo agevolato il boss della mala tarantina Michele Cicala, stando a quanto si legge sull’atto che ne determina la sospensione. Bernardo Petralia firma il provvedimento su cui verga: “Il dirigente pubblico deve informare ogni condotta a criteri di correttezza” ed aggiunge: “la citata condotta è disciplinarmente rilevante”. Di cosa parliamo? Avrebbe suggerito, rispondendo a uno sconosciuto, di poter indirizzare una lettera di saluti al detenuto. L’episodio non è recentissimo, tanto che Michele Cicala è stato nel frattempo assegnato ai domiciliari, per decreto del magistrato di sorveglianza. Ci risulta tutto previsto dalle norme e dai regolamenti, la corrispondenza privata nelle carceri esiste - al netto dei controlli - ed è difficile leggere in tale circostanza la malafede che il Dap sembra imputare alla direttrice Baldassarri. Che non si dà pace: “Non mi aspettavo un provvedimento del genere, sono ancora incredula, smarrita, sgomenta”. Ed aggiunge: “Leggendo le motivazioni non riesco proprio a comprendere quale sarebbe il disvalore in questo caso disciplinare. Tengo a precisare che non sono indagata e non ho ricevuto alcun avviso di garanzia”. Baldassarri è molto nota in città e durante il Covid ha chiesto ai detenuti di rendersi parte attiva, cucendo migliaia di mascherine. Con l’Associazione Antigone ha promosso una serie di incontri sul tema della salute nelle carceri ed era stata tra le più ferme a condannare, in una recente intervista a un giornale locale, le gravissime violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. “È una delle più brave direttrici che abbia mai conosciuto, la conosco da anni e ha sempre agito in modo esemplare. Tra l’altro le hanno dato la direzione della casa circondariale tra le più difficili d’Italia, quella di Taranto che è notoriamente sovraffollata”, dice Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino. Stessa opinione da parte del sindacato presente nella casa circondariale che ha emesso una nota. “Conosciamo la direttrice del carcere di Taranto e il suo operato e per questo diciamo che non ha mai dato adito ad alcun sospetto”, scrive il segretario generale Uil-pa penitenziaria, Gennarino De Fazio. “Abbiamo massima fiducia negli organi inquirenti e nel capo del Dap”, aggiunge. “Ci sarà un contraddittorio che darà la possibilità alla direttrice di chiarire la propria posizione”. A Taranto intanto c’è chi pensa ai malumori di qualcuno cui la direttrice andava stretta. Stefania Baldassarri era stata individuata, proprio per la particolare dedizione al sociale, come candidata sindaca nel 2017 a capo della lista civica Nuovo Coraggio, su cui converse il centrodestra. La popolarità era accresciuta di recente quando, lo scorso 2 giugno, su proposta del presidente del Consiglio Mario Draghi le era stato conferito il titolo di Cavaliere al merito della Repubblica. Adesso arriverà il ricorso, preannunciato ieri, “da presentare quanto prima”, come conferma l’interessata. Nel ricorso si potrebbe ricordare che l’ordinamento, allo stato attuale, non ha ancora messo al bando il reato di umanità. Milano. La Cgil: “Sì al lavoro dei detenuti, ma deve essere retribuito” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 luglio 2021 Protocollo tra Prefettura, Comune di Milano e Ministero per l’utilizzo dei reclusi del carcere di Opera. Qualche giorno fa c’è stato un protocollo di intesa tra la Prefettura, il comune di Milano e ministero della Giustizia per l’utilizzo di persone detenute, del carcere di Opera, nell’attività di cura e manutenzione del boschetto di Rogoredo. Un protocollo che proviene dall’iniziativa “mi riscatto per” ideata dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e poi man mano estesa in diversi comuni d’Italia. Ma la Cgil di Milano, assieme all’Osservatorio carcere, non ci sta, perché appunto si parla di attività svolte da detenuti volontari e che questi verranno impiegati come manutentori del verde per pulire il parco. In sostanza si lascia intendere che l’attività di cura e manutenzione verrà svolta attraverso il lavoro volontario. Ma il protocollo, in virtù anche di un confronto con la Cgil e l’Osservatorio carcere e territorio, dice qualcosa di diverso: “L’obiettivo del progetto è realizzare un percorso formativo e di orientamento al lavoro volto a sviluppare le competenze che sono necessarie per poter svolgere la mansione di operatore del verde. Il percorso si svolgerà attraverso una parte di formazione teorica e una successiva parte di formazione on the job. I detenuti che supereranno una prova di apprendimento teorico e pratico svolgeranno un periodo di tirocinio o di borsa lavoro”. Spiega la Cgil tramite un comunicato: “Si parla quindi di formazione e orientamento al lavoro, attraverso l’utilizzo dei tirocini, e un ruolo chiave dell’amministrazione nella definizione delle modalità di questi due percorsi. Non si parla di volontariato. Siamo d’accordo con il Sindaco Sala quando, citando la Costituzione, dice che la detenzione deve essere rieducazione e reinserimento. Siamo altrettanto convinti che il lavoro volontario non vada in questa direzione. Riteniamo infatti che questo sia figlio di una visione e di un pensiero che deve essere superato e che vede nel lavoro penitenziario un carattere espiatorio e risarcitorio”. I sindacalisti della Cgil, sottolineano che sono d’accordo con la Presidente del Tribunale di Sorveglianza Di Rosa quando dice che l’obiettivo del protocollo deve essere quello di restituire dignità ai detenuti attraverso il lavoro. “Il lavoro che restituisce dignità - sottolinea la Cgil - è quello riconosciuto, tutelato, retribuito. Da Milano siamo convinti debba partire un messaggio chiaro. Un messaggio che dica a tutto il paese che sul lavoro penitenziario è necessario investire, che è fondamentale garantire percorsi di orientamento al lavoro e di formazione a tutti i detenuti, che bisogna dare piena attuazione alla Legge Smuraglia, che serve un grande lavoro culturale che racconti di come i percorsi lavorativi che garantiscono dignità, diritti e autonomia sono un valore per la persona detenuta e hanno un valore per tutta la collettività”. Per questo motivo, come osserva sempre il sindacato, il ruolo dell’amministrazione comunale è centrale nel garantire percorsi formativi di qualità e nel favorire processi che portino alla creazione di posti di lavoro, sia valorizzando la collaborazione con la cooperazione sociale, sia sfruttando la futura presa in carico della gestione del verde pubblico. “Per queste ragioni nei prossimi mesi saremo parte attiva per monitorare la realizzazione del protocollo tra Comune e ministero della Giustizia, affinché questo metta realmente al centro la dignità della formazione e del lavoro delle persone”, conclude la Cgil. Milano. Due esposti contro il Cpr: ipotesi di torture e abusi d’ufficio di Giansandro Merli Il Manifesto, 29 luglio 2021 La denuncia. Dopo la visita di una delegazione composta dai senatori Gregorio De Falco (gruppo misto) e Simona Nocerino (5 Stelle) con esperti della rete “Mai più lager-No ai Cpr”. Nello schermo della videosorveglianza interna un uomo in un cortile si fa dei tagli su tronco e braccia, mentre in un corridoio vicino agenti anti-sommossa si preparano a intervenire. La sequenza è avvenuta nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Milano, ma riflette la quotidianità anche degli altri Cpr. Ne abbiamo notizia solo perché è stata vista dalla delegazione composta dai senatori Gregorio De Falco (gruppo misto) e Simona Nocerino (5 Stelle) che, con esperti della rete “Mai più lager-No ai Cpr”, è entrata nella struttura il 5 e 6 giugno scorsi. Quei fotogrammi aprono il rapporto Delle pene senza delitti. Istantanea del Cpr di Milano, reso pubblico ieri contestualmente alla presentazione di due esposti presso la Procura del capoluogo lombardo. Il primo ipotizza il reato di lesioni e tortura aggravata in concorso per dei pestaggi che, secondo le testimonianze dei reclusi, sarebbero avvenuti nel centro il 25 maggio 2021. Una “smazzoliata” nelle parole di un dipendente dell’ente gestore. Il secondo verte sul rifiuto di atti d’ufficio e chiede il sequestro preventivo del centro per l’indisponibilità di accesso alle cure sanitarie specialistiche. Le ragioni di accuse così gravi sono contenute nelle 90 pagine del rapporto, che disegnano i contorni di una struttura degna di un film horror. Nel Cpr i reclusi abusano di psicofarmaci, ingeriscono cibo avariato, possono chiamare gli operatori solo prendendo a calci una porta, tentano il suicidio o si infliggono continuamente dei danni fisici. Una “struttura inutile e costosa” che nella metà dei casi fallisce perfino nel suo obiettivo di rimpatriare le persone (nel 2020: 2.232 rimpatri su 4.387 detenzioni in tutti i Cpr). “La questione da porsi è se una società civile possa tollerare un prezzo così alto, in termini di lesioni di diritti e dignità della persona, ma anche economico, per un’azione che in definitiva ha più un fine politico-simbolico che concretamente operativo”, chiede il rapporto. Rieti. Pronta a partire la Rems: garantirà le cure a detenuti con disturbi psichiatrici rietilife.com, 29 luglio 2021 “Siamo pronti a partire con la nuova Rems di Rieti, dopo l’accordo fra Regione Lazio, Prefettura di Rieti e Asl di Rieti. Siamo in attesa dell’ok da parte del Gabinetto del Ministro dell’Interno, a cui è stato trasmesso il verbale del Comitato provinciale per l’Ordine e la Sicurezza pubblica. Questo è l’annuncio fatto oggi durante la riunione promossa dal Garante dei Detenuti del Lazio, Stefano Anastasìa, con il presidente del Garante Nazionale dei Detenuti Prof. Mauro Palma e con il Capo del Dap Dott. Dino Petralia”: Lo dichiara l’Assessore alla Sanità e Integrazione Sociosanitaria, Alessio D’Amato. La Rems o Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza sarà ospitata in una struttura presente nell’area dell’ex ospedale psichiatrico di via del Terminillo, accanto all’Hospice “San Francesco”. Si occuperà di soggetti sottoposti a detenzione affetti da disturbi psichiatrici. Molfetta (Ba). Una tavola rotonda sulle carceri per ricordare Guglielmo Minervini molfettalive.it, 29 luglio 2021 “Senza sbarre: tra tutela delle vittime e giustizia riparativa” è il titolo del secondo evento annuale della Fondazione Guglielmo Minervini a cinque anni dalla scomparsa di Guglielmo Minervini. Siamo tutti chiamati alla sbarra, domenica 1 agosto alle ore 20:00, ad interrogarci sul sistema penale carcero-centrico italiano. Per la Fondazione non è stato l’ennesimo fatto di cronaca, verificatosi in una delle tante carceri d’Italia, a dettare il tema di quest’anno per l’evento dell’estate. L’idea del grido - senza sbarre - viene da lontano, come lontane sono le risposte a tante domande che la Politica stenta ad articolare. Una vera riforma della Giustizia passa obbligatoriamente da un nuovo modello di sistema di detenzione coerente con l’articolo 27 della Costituzione, la pena come rieducazione del condannato, non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Siamo tutti disorientati e frastornati delle tante voci sul tema: - le vittime hanno perso la vita, va buttata via la chiave della cella; - la vivibilità in carcere registra condizioni di emergenza ora più che mai acutizzata dal Covid-19; - la prigione la patiscono in molti, detenuti, poliziotti, magistrati, famiglie, società; - il discredito sulle effettive possibilità di abbassare i tassi di recidiva; - lo scetticismo tangibile sui successi derivanti dal lavoro intracarcerario - extracarcerario. In questa complessità affronteremo il tema di quest’anno con i protagonisti dentro e fuori la realtà carceraria ma anche dentro e fuori la Comunità di Accoglienza presso la Masseria di San Vittore. Don Riccardo Agresti, insieme ad Angela Covelli presenteranno il libro - una vita a metà, con le riflessioni a più voci del dott. Renato Nitti, Procuratore della Repubblica di Trani, di Maria Turtur, Fondazione Guglielmo Minervini, e del dott. Gigi Cazzato, protagonista movimento dell’Ulivo-Puglia. Introdurrà la serata Lino Renna. Il gruppo di musica popolare dei Soballera animerà la Festa dell’Estate. Firenze. Oggi un webinar in memoria di Alessandro Margara societadellaragione.it, 29 luglio 2021 “L’ergastolo ostativo è incostituzionale: dalle pronunce delle Corti alla prova della politica”, giovedì 29 luglio 2021, ore 15.00. Nel quinto anniversario dalla scomparsa di Alessandro Margara, come di consuetudine ormai, la Fondazione Giovanni Michelucci, La Società della ragione e l’Associazione Volontariato Penitenziario, nell’ambito dell’Archivio Sandro Margara, fondato nel luglio 2020, promuovono per giovedì 29 luglio alle ore 15.00 il Webinar dal titolo: L’ergastolo ostativo è incostituzionale: dalle pronunce delle Corti alla prova della politica. Quest’anno appare fondamentale discutere la recente pronuncia della Corte costituzionale che con l’Ordinanza 97/2021 si è espressa ritenendo l’ergastolo ostativo incompatibile con la Costituzione e concedendo al Parlamento un anno di tempo per approntare una nuova disciplina in materia. La Corte, pur individuando già, di fatto, il profilo di incostituzionalità, utilizza la tecnica del rinvio passando la parola alla politica. La Corte rinvia il giudizio, quindi, al 10 maggio 2022, ritenendo preminente un riassetto normativo, data la complessità e la delicatezza della questione, già oggetto di interventi da parte della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Si riapre, dunque, un percorso che segue un dibattito ormai lungo ed articolato, cui lo stesso Alessandro Margara ha molto contribuito, e che deve oggi essere sostenuto nel segno del definitivo superamento degli ergastoli. La questione è da cogliersi oggi sia nell’ambito di una perdurante pandemia che condiziona, oltre alla quotidianità di ciascuno, la politica e gli assetti nazionali, sia all’interno di un sistema penitenziario che, dall’inizio dell’emergenza sanitaria, ha mostrato grande fragilità, lasciando emergere, tra rivolte, violenze, chiusure ed incertezze, fatti gravissimi come quelli accaduti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile 2020 che, recentemente, lo stesso Ministro della giustizia Cartabia non ha esitato a definire “una violenza a freddo […] una ferita gravissima alla dignità della persona che è la pietra angolare della convivenza civile”. Il webinar, in programma dalle ore 15.00 di giovedì 29 luglio 2021, sarà dunque introdotto da Grazia Zuffa, cui seguirà una presentazione delle attività promosse dall’Archivio Sandro Margara a cura di Saverio Migliori. A seguire Franco Corleone coordinerà il dibattito sul tema “L’ergastolo tra illegittimità e adeguamento costituzionale” al quale interverranno Andrea Pugiotto con “Contro gli ergastoli” e Franco Maisto con un contributo su “L’attualità del pensiero di Margara”. A seguire sono previsti gli interventi di Stefano Anastasia, Riccardo De Vito, Giuseppe Fanfani, Antonietta Fiorillo, Corrado Marcetti, Mauro Palma ed Emilio Santoro. Il webinar proseguirà con un dibattito a più voci al quale hanno confermato la partecipazione: Ignazio Becchi, Marcello Bortolato, Silvia Botti, Carla Cappelli, Beniamino Deidda, Serena Franchi, Patrizia Meringolo, Massimo Niro, Mariella Orsi, Katia Poneti, Susanna Rollino, Massimiliano Signorini e Antonio Vallini. Per partecipare al webinar è obbligatoria l’iscrizione gratuita tramite il link: https://www.societadellaragione.it/margara. Per informazioni: fondazione@michelucci.it. Il Webinar è reso possibile grazie alla media partnership di FuoriLuogo.it. Per contatti: Ufficio stampa - Leonardo Fiorentini - 3493222792. Volterra (Pi). Nuova “fuga teatrale” dal carcere, torna in scena la Compagnia della Fortezza di Rodolfo di Giammarco La Repubblica, 29 luglio 2021 Con ritardo causa pandemia, i detenuti-attori presentano “Naturae - La valle dell’annientamento”. E intanto matura l’ipotesi di un teatro stabile. Sessantotto detenuti attori, più sei performer esterni (4 donne e due uomini), più Armando Punzo presentissimo regista e drammaturgo, stanno mettendo in scena in questi giorni ancora una volta una fuga di massa dalla Fortezza Medicea / Carcere di Volterra. Una fuga mentale, artistica, poetica. Mentre le case di reclusione italiane possono persino rivelarsi luoghi di tortura, da anni la Compagnia della Fortezza ideata e diretta da Punzo a Volterra col contributo liberatorio di chi sconta pene detentive, garantisce con la scena la creazione di un altro mondo, una ricerca almeno progettuale della felicità. Adesso, con ritardo dovuto alla pandemia, è in programma fino all’1 il terzo quadro di Naturae - La valle dell’annientamento cui assistiamo dalle afose ore 3 del pomeriggio in poi nell’abbacinante cortile del carcere, bianco come una salina. L’utilizzo diffuso e sempre più elaborato di poliedri, di parallelepipedi di varie dimensioni, suggerisce fin dall’inizio un regime scenografico dell’esistenza che ha un qualche dna in comune con Escher, con Mondrian, o col modularismo di Sol LeWitt, ma non sfugge che tutti questi monoliti cavi, quando non diventano librerie alla Borges, sono anche elementi che incapsulano, che racchiudono esseri umani. Sagome che, quando non destinate a recitare la parte di atletici macchinisti, sono figure internate, ingabbiate e però lentamente col compito di sporgersi, e guadagnare l’esterno, non senza un significato di affrancazione umana e simbolica da uno status. Sfornano una letteratura dei sensi, i corpi gessati, sudati, voluminosi e genettiani di tutta la folta troupe, indossanti fedelmente costumi d’altri tempi e d’altri spettacoli di Punzo e della Compagnia, chi con gorgiera, chi con modanature statuarie, chi con valigia, chi con copricapi o aste d’alto fusto, spesso con un vaiolo rosso sangue che può ricordare il Teatro dell’Orgia e del Mistero di Hermann Nitsch. Il lavoro testimoniato fin qui parrebbe un manifesto di stupori trasmessi da un’architettura in moto, da infiniti mutamenti di visioni, un repertorio di transito perché al prossimo incontro il ciclo si chiuda, senonché per buona parte del tempo si scioglie nell’aria (o con riconoscibili interventi di singoli) un profondo e riflessivo distillato verbale, un poema misterico da rinviarsi a un processo di pensieri di Punzo. Slanci tesi a decostruire, a sottrarsi, a espandersi, con impulso verso cose che ‘non avvennero mai ma sono sempre’, alla ricerca di una nuova mitologia, ridisegnando spazio, linee, lontananze. Si resta avvinti, calmi, privi di emozioni teatrali tradizionali, davanti a questo rito sospeso, col dignitoso sfilare di stranieri in patria, di persone che battono insistentemente porte fissate nel vuoto, con volto magrittiano fasciato, con specchi in cui noi pubblico siamo costretti a rifletterci. E Punzo dirige quest’orchestra umana con agili bracciate, e tutti sono seri e necessari, e forse matura l’ipotesi d’uno Stabile a Volterra, chissà. Enti non profit, co-progettazione e Next Generation Eu. La grande leva del Terzo Settore di Leonardo Becchetti Avvenire, 29 luglio 2021 Nel corso degli ultimi mesi un ruolo decisivo per curare e attenuare le ferite della pandemia stato giocato nel nostro Paese dal Terzo settore - ovvero da quell’insieme di enti e organizzazioni che si pone uno scopo socialmente meritorio e opera in settori come quelli di salute, assistenza, mense dei poveri, riduzione dello spreco, formazione permanente, parità di genere, cultura, sport, cooperazione internazionale attraverso modalità organizzative sempre nuove che oggi includono tra le molteplici forme organizzative le fondazioni comunità, le cooperative di comunità e le cooperative sociali. L’importanza dell’operato del Terzo settore non è forse ancora compresa appieno dall’opinione pubblica. Nel corso degli ultimi decenni è invece progressivamente cresciuto e si è consolidato il consenso tra gli economisti sul ruolo fondamentale del ‘capitale sociale’ come collante e precondizione per lo sviluppo e la coesione sociale. Studi e ricerche hanno ‘identificato’ la capacità di dare e ricevere fiducia, la reciprocità, il senso civico, la disponibilità a pagare per i beni pubblici come le sue componenti chiave e si sono domandati se e in che modo fosse possibile ‘produrre’ o accrescere questa risorsa fondamentale. Questo dibattito ci aiuta a comprendere da una prospettiva nuova il ruolo e il valore di tali organizzazioni. Gli enti di Terzo settore infatti non sono soltanto la risposta più prossima e celere ai bisogni emergenti della società, ma - nel loro operare attraverso il tempo e le energie donate da dipendenti e volontari - alimentano e costruiscono quel capitale sociale che è prerequisito fondamentale per lo sviluppo economico e sociale. La complementarietà tra lavoro del Terzo settore e dinamiche sociali e produttive italiane può essere verificata da molteplici esempi. Per farne solo uno, la ricca e variegata schiera di organizzazioni volontarie che si propongono di valorizzare attrattori culturali e paesaggistici dei diversi territori producono un beneficio indiretto per tutto il settore produttivo (turistico, agroalimentare, della ristorazione, alberghiero, dei trasporti) i cui profitti dipendono dall’attrattività del territorio stesso. Le parole chiave per lo sviluppo futuro del settore e per la creazione di una partnership creativa con le istituzioni e con le imprese profit sono generatività, impatto, ibridazione e co-progettazione. L’innovazione del Terzo settore punta infatti a una crescita di capacità di creare impatto sociale e ambientale combinandola con la creazione di valore economico e mettendo al centro della propria azione la promozione della dignità della persona. Anche una recente sentenza della Corte Costituzionale sostiene la rivoluzione della coprogettazione. Gli enti di Terzo settore non sono solo potenziali vincitori di bandi costruiti dalla pubblica amministrazione ma per le loro competenze, conoscenza dei problemi del territorio e sensibilità sociale possono concorrere con l’amministrazione alla definizione delle politiche sociali. Nella motivazione della sentenza, la Corte Costituzionale giustifica questa scelta affermando che “gli enti di Terzo settore, in quanto rappresentativi della ‘società solidale’, del resto, spesso costituiscono sul territorio una rete capillare di vicinanza e solidarietà, sensibile in tempo reale alle esigenze che provengono dal tessuto sociale, e sono quindi in grado di mettere a disposizione dell’ente pubblico sia preziosi dati informativi (altrimenti conseguibili in tempi più lunghi e con costi organizzativi a proprio carico), sia un’importante capacità organizzativa e di intervento: ciò che produce spesso effetti positivi, sia in termini di risparmio di risorse che di aumento della qualità dei servizi e delle prestazioni erogate a favore della ‘società del bisogno’“. Next Generation Eu riconosce questo valore e destina 11,17 miliardi a infrastrutture sociali, famiglie, comunità e Terzo settore. Le parole chiave del piano sono deistituzionalizzazione, domiciliarità, progetti personalizzati. Si sarebbe potuto investire meglio e di più sostenendo con incentivi l’innovazione sociale e la costruzione di reti e partenariati che moltiplicano capacità e qualità d’intervento del Terzo settore. Si deve puntare con lucidità ed efficacia su realtà che è una grande risorsa per l’Italia. Anche e soprattutto nello scenario attuale non può essere persa l’occasione di puntare in modo sempre più efficace al grande traguardo di promuovere dignità e sviluppo della persona mettendo al centro la relazione di cura che è il vero motore dell’energia necessaria a ogni vera ripresa e della ricchezza di senso del vivere. Scuola, è caos sulla Dad. Decisione sui vaccini ai docenti rimandata di Davide Maria De Luca Il Domani, 29 luglio 2021 Il governo ha ribadito ancora una volta la sua assoluta volontà di non utilizzare la didattica a distanza dopo la ripresa delle lezioni. Ma il mondo della scuola accusa: mancano gli investimenti in sicurezza e non c’è chiarezza sulle regole di sicurezza. Cosa dovranno fare gli studenti vaccinati se sarà individuato un contagiato nella propria classe? Come devo regolarsi i presidi per trovare nuovi spazi che assicurino il distanziamento? Come sarà gestito il problema dell’affollamento dei mezzi pubblici negli orari di ingresso e uscita? Per intervenire su molti di questi aspetti è ormai troppo tardi, ma per alcuni il governo dovrebbe affrettarsi a prendere una decisione, dicono presidi e sindacati degli insegnanti. Altrimenti, si rischia una “terza ondata di dad”, come ha detto ieri Mario Rusconi, segretario del sindacato dei presidi romani Anp. Nel frattempo, il governo ha deciso di rimandare a data da destinarsi la decisione sull’obbligo di vaccino per il personale scolastico. L’obbligo è stato richiesto da presidi e da una parte della maggioranza, ma è visto con scetticismo dai sindacati e contestato dalla Lega. Caos dad - La priorità politica del governo, ribadita da tutti i componenti della maggioranza è evitare la didattica a distanza ad ogni costo. “Il nostro obiettivo è la riapertura in presenza a settembre”, ha ripetuto ieri il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, durante l’incontro con i sindacati della scuola e poi in un video appello pubblicato sulle pagine social del ministro. Ma i sindacati sono delusi dagli interventi del governo. Ieri la Flc-Cgil, il sindacato docenti della Cgil, ha ricordato che mentre l’anno scorso erano stati stanziati 1.850 milioni di euro per assumere personale aggiuntivo (in particolare i collaboratori scolastici necessari a gestire i protocolli di sicurezza) sono stati ridotti a 350 milioni. Piano scuola - Ma i punti dolenti denunciati da presidi e docenti sono tanti. L’assenza di pianificazione centrale per aiutare gli istituti scolastici a trovare nuovi spazi che permettano di mantenere il distanziamento. Il mancato potenziamento del trasporto pubblico. La mancanza di investimenti in impianti di condizionamento, che avrebbero ridotto molto il rischio di contagio in classe tramite aerosol. Infine, l’assenza di regole chiare su come comportarsi in caso di contagi in classe: gli studenti vaccinati dovranno andare in quarantena come tutti gli altri? Parte delle risposte a queste domande dovrebbe essere contenuta nel piano sicurezza sulla scuola, discusso in questi giorni con i sindacati e che domani dovrebbe essere approvato dalla conferenza stato regioni. Il piano, però, almeno al momento, si limita a fotografare l’attuale situazione e punta ad evitare la dad ad ogni costo. Ad esempio, per quelle scuole dove non si riesce a mantenere il distanziamento, il piano stabilisce che non sarà più necessario ricorrere alla didattica a distanza. Vaccinazioni - Senza risorse, né tempo per far gli investimenti richiesti dai sindacati, il governo, una parte dei presidi e delle forze di maggioranza insistono sulla vaccinazione obbligatoria al personale scolastico, o almeno una qualche forma di green pass, per ridurre i rischi di focolai nelle scuole. Ma di fronte alla contrarietà della Lega (ieri Matteo Salvini si è incontrato con il presidente del Consiglio Mario Draghi), l’irrigidimento delle posizioni del Movimento 5 Stelle e lo scetticismo dei sindacati, il governo ha deciso di rimandare la decisione, forse a dopo il 20 agosto, quando si spera che le regioni saranno in grado di fornire il numero reale di insegnanti vaccinati. Le statistiche utilizzate in questi giorni, 85 per cento del personale scolastico vaccinato, sono infatti ferme allo scorso aprile, quando per decisione del governo è stata soppressa la corsia preferenziale a loro dedicata. Da allora, insegnanti e altro personale si sono vaccinati in base all’età e nessuno ha pensato che sarebbe stato utile trovare un modo di continuare a monitorare il loro tasso di vaccinazione. Resta aperta invece la questione delle vaccinazioni agli studenti. Tra i 12 e i 19 anni solo il 30 per cento dei circa 4,5 milioni di studenti è stato vaccinato. Il ritmo delle somministrazioni in questa fascia d’età è leggermente cresciuto negli ultimi giorni (siamo a più di 45mila dosi in 24 ore). Di questo passo sembra possibile raggiungibile l’obiettivo annunciato dal commissario all’emergenza Covid-19 Francesco Figliuolo di vaccinare il 60 per cento degli studenti entro i primi dieci giorni di settembre. Molto dipenderà dalle ferie e se gli attuali ritmi di vaccinazione saranno mantenuti per oltre un mese. Anche così, però, gran parte degli studenti avrà ricevuto solo la prima dose e resteranno comunque quasi metà di ragazzi non vaccinati. La Francia - Per una coincidenza, ieri il governo francese ha presentato il suo piano scuola e il confronto con la situazione italiana è piuttosto impietoso. Il ministero guidato da Jean-Michel Blanquer ha già stabilito che i vaccinati non dovranno andare in quarantena, ha riservato 600mila tamponi a settimana per la popolazione studentesca e prevede di portare a circa 7mila il numero di centri vaccinali nei pressi di scuole medie e superiori, per facilitare la vaccinazione degli studenti. Il tasso di vaccinazione degli studenti francesi è simile a quello italiano, circa 30 per cento. Mentre sembra piuttosto inferiore quello degli insegnanti, 80 per cento. Per il momento, nel paese non si discute di obbligo vaccinale per il personale scolastico. I dannati del lavoro, inchiesta sul caporalato in Italia di Carlo Bonini La Repubblica, 29 luglio 2021 Sono bruciati vivi come torce, mentre provavano a riscaldarsi. Annegati come animali stremati dalla sete, precipitando nei pozzi su cui si erano sporti nella speranza di trovare acqua. Sono stramazzati in terra, all’improvviso, come frutti maturi di un albero incolto, uccisi dalla fatica. Ad alcuni, il cuore è esploso, perché infartuato da eroina e antidepressivi somministrati come anestetico alla fatica. Vivono accanto a noi. Nelle campagne del Piemonte, nelle vigne del Veneto. Nelle industrie lombarde. Nelle campagne a pochi chilometri da Roma. Nelle terre d’oro della Puglia. Quelle, ad esempio, di cui, qualche giorno fa, Chiara Ferragni ha postato una foto sui suoi social, mostrando un vassoio di panzerotti in mano. Non lontano da lì, Camara, 27 anni, era morto di troppo lavoro. Li chiamano “lavoratori stagionali dell’agricoltura”. Sono donne e uomini italiani e stranieri. Hanno dai 18 ai 60 anni. Sono diversi tra loro. Eppure, tutti uguali. Con il loro lavoro ci danno da mangiare. E noi non riusciamo neppure a dargli da bere. Li paghiamo anche due euro per ogni ora di lavoro, con 40 gradi all’ombra, con la testa piegata verso terra dall’alba al tramonto. Ingrassano i guadagni della grande distribuzione. Di etichette di primo livello dell’agroalimentare. Di loro si sente spesso parlare in tavoli tecnici, protocolli. Accade che, ciclicamente, guadagnino un po’ di indignazione. Eppure, in questi anni, è cambiato poco. Quasi niente. Loro restano dei dannati. Numeri - C’è un documento di 36 pagine, approvato il 12 maggio scorso dalle commissioni Lavoro e Agricoltura della Camera dei deputati alla fine di tre anni di inchiesta sul “caporalato in agricoltura”, i cui numeri e sostanza non richiedono aggettivi. In Italia - le stime sono della Flai, la Federazione dei lavoratori agricoli della Cgil - ci sono 200mila “vulnerabili” in agricoltura. Che non significa “lavoratori irregolari”. Ma uomini e donne sottoposti a regimi di semi schiavitù: non liberi, cioè, di prendere decisioni autonome sul luogo di lavoro. E vessati, fisicamente e psicologicamente, dai loro padroni. Guadagnano dai 25 ai 30 euro al giorno, per giornate che possono arrivare anche a 12 ore di lavoro consecutive, se si considera il trasporto. Il che significa, per alcuni, due euro l’ora. Il costo non è però soltanto degli sfruttati. Ma anche della comunità. “Si stima - si legge nel documento - che l’economia sommersa in agricoltura abbia raggiunto il 12,3 per cento dell’economia totale”. Il che significa che il volume complessivo d’affari delle agromafie raggiungerebbe 24,5 miliardi”. 24,5 miliardi. “Biggie” non sa nemmeno come si scrive 24,5 miliardi. Terra - A Biggie hanno spento la luce. A sinistra. Ma non sono riusciti a spegnergli il cuore. D’altronde non deve essere facile. Perché Biggie - il suo nome è Sinayayogo Boubakarè e ha 29 anni - ha un cuore che ha vissuto molte cose. Un viaggio dal Mali all’Italia. A piedi, prima. Su un bus sgangherato, poi. E quindi su un barcone, che per due volte ha rischiato di affondare. Salvato da una barca di brava gente e portato, dopo aver aspettato qualche giorno al largo, fino al porto di Catania. Biggie oggi ha la maglietta rossa. Rossa come il suo occhio sinistro, pieno di sangue, che con fatica riesce ad aprire. Che cura ogni giorno con pazienza e speranza. Anche se i medici gli hanno detto che sarà difficile, forse impossibile, restituire quel pezzo di luce alla vita di Biggie. Quello che gli è stato tolto alla fine dello scorso aprile. Biggie è un grande e grosso ragazzo del Mali che da qualche anno vive in Italia. Prima in Campania, poi in provincia di Foggia. È arrivato inseguendo il sogno di una vita migliore. E ha trovato quella che qui nessuno vuole fare: lavoratore stagionale nelle campagne, appunto. “Prima i negri” è scritto su un cartello a due chilometri dall’ingresso di Torretta Antonacci, uno dei ghetti del Gran Tavoliere delle Puglie. Ed è una cinica verità. Seppur non esatta. Perché in questi campi, non vengono soltanto prima i neri. Ci sono anche i bianchi, bulgari e rumeni. I disperati italiani. Ecco, qui vengono prima gli ultimi. Bisognerebbe cambiare il cartello. Biggie campa da tre anni con la schiena piegata verso il basso. E quando la alza lo fa per caricare cassette pesantissime su qualche mezzo a motore. Raccoglie tutto quello che c’è da raccogliere: pomodori, soprattutto. Asparagi. Uva no, perché le sue mani sono troppo grandi per gli acini. “Posso fare il vino”. Ride. Biggie è un lavoratore regolare. È in attesa di permesso di soggiorno e, nel frattempo, lavora con un contratto per un’azienda agricola di Foggia. Lo descrivono tutti come “un buono”. A dispetto di quella sue mole che incute rispetto fisico. Di sicuro, parla poco ma in modo chiaro. E così quando ha cominciato a lavorare ha pensato di aggiungere anche un surplus di impegno alla fatica del campo. Proteggere i più deboli. Biggie, insomma, è anche un sindacalista. Lavora con la Cgil. E dicono che sia anche molto bravo. Come tanti, tantissimi, vive in uno dei ghetti tra Foggia e San Severo. Posti strani. E non solo e non tanto per le condizioni di vita a cui sono costretti migliaia di persone (fino a cinquemila, nelle campagne del foggiano). Strani perché luoghi dai diritti sospesi. Perché ufficialmente non esistono, o non dovrebbero esistere. E invece non solo sono lì, ma somigliano per numeri ed estensione a città vere. Degli enormi Lego del degrado: al posto dei mattoni le lamiere, invece dei pozzi e delle cisterne, fusti sporchi di olio. Eppure ci sono bar, il parrucchiere, persino night. Vivono in case che somigliano alle loro la vite: ci sono, ma non esistono. Ebbene, cosa sarebbe accaduto in una qualsiasi città italiana se le case improvvisamente si fossero incendiate, e gli abitanti fossero morti? Ecco, negli ultimi due anni, nel ghetto di Foggia, sono morte sei persone. Bruciate vive. Uccise dalle esalazioni delle fiamme. Ne avrebbero dovuto parlare tutti. E invece mai nessun silenzio è stato così forte. Biggie in quella sera di fine dell’aprile scorso, era andato a fare una visita al Gran Ghetto, pochi chilometri dalla sua baracca. Aveva incontrato degli amici. Bevuto un bicchiere. Era in auto. E stava rientrando, con altre tre persone, a casa. “Ho sentito un rumore: boom!”. A Biggie avevano sparato. Chi erano? Delinquenti ha stabilito la procura di Foggia. Che sono fuggiti. Dunque, delinquenti ignoti. Non cercavano Biggie ma cercavano i neri da punire. E il perché va cercato in quello che era accaduto la sera precedente. Tre malviventi avevano provato a rubare il gasolio che serve ad alimentare l’impianto di illuminazione del centro di accoglienza. Erano stati scoperti. Ed era stata chiamata la polizia. Uno dei ladri era stato fermato, gli altri erano fuggiti. I malviventi erano italiani. I denuncianti, migranti stranieri (e pensate quanto sarebbe stata diversa la storia se i passaporti fossero stati invertiti). In ogni caso: il giorno dopo, i ladri hanno deciso che i conti dovevano essere regolati. E così sono andati fuori dal ghetto. E hanno deciso di sparare al primo che passava. Biggie si è trovato nel posto sbagliato nel momento sbagliato. La pallottola ha mandato in frantumi il lunotto posteriore dell’auto, a bordo della quale viaggiava. Schegge di vetro sono finite nel suo occhio sinistro. E, nonostante lo straordinario lavoro dei medici, ci sono al momento pochissime possibilità che quell’occhio torni a vedere. “Io spero che accada. Ma quei vetri non possono aver cambiato niente. I miei amici hanno fatto benissimo a denunciare. Lo farei ancora oggi. L’Italia è il paese che mi ha accolto con le braccia aperte. Vorrei restare qui. Vorrei che non mi cacciasse nessuno. Voglio lavorare in campagna, mi piace. Con i miei diritti. Voglio non avere più paura del mio futuro. Dopo tutto quello che è stata la mia vita, non possono farmi paura dei pezzi di vetro”. Già, “Che vuoi fa’?” A parlare, intercettato dai carabinieri del Nas, è un medico di Sabaudia, Sandro Cuccurullo, arrestato due mesi fa con l’accusa di aver prescritto centinaia di farmaci ad azione dopante ai sikh che si rompono la schiena nelle aziende agricole all’ombra del promontorio del Circeo. Dietro questa conversazione c’è però la prova di un vecchio sospetto: i lavoratori dei campi si drogano per sopportare meglio la fatica. E alla fine capita che qualcuno di loro ci resti. L’inchiesta, che i carabinieri hanno chiamato “No Pain”, ha portato per la prima volta la Procura di Latina ad accusare anche un camice bianco di favorire il doping tra i cittadini di nazionalità indiana presenti nell’agro pontino. Quei lavoratori, che compongono larga parte della comunità indiana presente in terra pontina, la seconda più numerosa d’Italia, da tempo del resto fanno uso di farmaci e droghe per cercare di sopportare la fatica nelle campagne. Le centinaia di aziende agricole presenti tra Aprilia e il sud pontino, la maggior parte concentrate tra Sabaudia, San Felice Circeo e Pontinia, vanno avanti grazie a quegli uomini che, partiti dal Punjab alla ricerca di un lavoro per sostenere le loro famiglie, si sono trasformati in nuovi schiavi. Costretti a lavorare anche 12 ore al giorno nei campi, tutti i giorni, in cambio di circa 4,55 euro l’ora, mentre il contratto ne prevede 9 per lavorare la metà del tempo, i sikh hanno iniziato a utilizzare oppio, eroina, metanfetamine e antispastici. Il sistema di sfruttamento a sud di Roma è tale che i nordafricani da tempo hanno mollato e al loro posto, alla fine degli anni ‘80, sono arrivati gli indiani, cresciuti di numero negli anni ‘90 e fino a circa otto anni fa, quando gli arrivi dall’India sono diminuiti e quella comunità è ulteriormente aumentata soltanto per via delle nascite e dei ricongiungimenti familiari. Attualmente, i dati ufficiali parlano di circa 15mila persone ma, aggiungendo quanti sono privi di permesso di soggiorno e i bengalesi e i pakistani, che lavorano sempre nelle aziende agricole della zona, si arriva a 25-30mila persone. “Nella totale indifferenza dei possibili effetti delle sue stesse condotte delittuose, ha continuato a prescrivere in assenza di presupposti terapeutici e sanitari, il farmaco stupefacente Depalgos 20 mg compresse in favore di numerosissimi pazienti indiani, al solo fine di agevolarli nella faticosa attività lavorativa nei campi agricoli”, ha scritto il gip del Tribunale di Latina, Giuseppe Molfese, nell’ordinanza con cui ha fatto mettere in carcere il medico di base Cuccurullo e con cui ha sospeso per un anno dalla professione pure la farmacista Clorinda Camporeale. Gli investigatori, in un anno di indagini, hanno monitorato mille ricette del farmaco ad azione stupefacente fatte a 222 pazienti di nazionalità indiana. Droghe dirette in particolare ai sikh che vivono a Bella Farnia, frazione di Sabaudia, dove nei mesi scorsi era scattata la zona rossa per i troppi casi di Covid tra i braccianti di nazionalità indiana. Un’indagine quella appena conclusa dal procuratore aggiunto Carlo Lasperanza e dal sostituto Giorgia Orlando che rappresenta una conferma, con il coinvolgimento questa volta anche di professionisti della sanità, della piaga del doping tra i sikh. Era il 2014, infatti, quando, con la coop In Migrazione, Marco Omizzolo, attualmente sociologo dell’Eurispes, realizzò il dossier “Doparsi per lavorare come schiavi”, raccogliendo testimonianze sull’uso di droghe e farmaci da parte dei braccianti al fine di sopportare la fatica. Eccone alcune. “Io lavoro 12-15 ore a raccogliere zucchine o cocomeri o con trattore per piantare altre piantine. Tutti i giorni anche la domenica. Io non credo giusto così. Troppa fatica e pochi soldi. Perché italiani non lavorano così? Dopo un po’ io e anche altri indiani troppo male a schiena, male mani, collo, anche agli occhi perché hai terra, sudore, chimici. Sempre tosse, mattina dolore troppo a schiena. Tu capisci? Ma io devo lavorare e allora prego Signore e vado ancora tutti i giorni a lavorare in campagna da padrone. Ma io uomo di carne no di ferro. Allora dopo sei-sette anni di vita così, che fare? No lavoro più? Io e amici prendiamo piccola sostanza per non sentire dolore. Prendiamo una o due volte quando pausa da lavoro. Poi andiamo a lavorare nei campi senza dolore. Io prendo per non sentire fatica e lavorare e poi prendere soldi fine mese. Altrimenti per me impossibile lavorare così tanto in campagna. Tu capisci? Troppo lavoro, troppo dolore a mani”, riferì uno dei testimoni a Omizzolo. E così altri: “Io e amici qualche volta prendiamo sostanze per lavorare. Io so che non è giusto. Ma senza sostanza io mattina no lavoro o faccio troppa fatica. Se io no lavoro, padrone no paga me e io come faccio vivere mia famiglia? Come pago affitto casa? Io voglio cambiare lavoro ma crisi e o lavori così in campagna o no lavori”. Gli stessi investigatori, iniziando a sequestrare a cittadini di nazionalità indiana carichi di oppio, inizialmente scartarono l’ipotesi che i sikh si drogassero, acquistando la sostanza stupefacente da connazionali diventati spacciatori, per riuscire a resistere allo sfruttamento. Poi però quello che era un sospetto è stato accertato dagli stessi inquirenti. I braccianti fanno ormai ricorso all’oppio, ad altre droghe e a numerosi farmaci. “Il fenomeno - assicura Omizzolo, da lungo tempo in prima linea per i diritti della comunità indiana - è esteso in tutta la provincia di Latina. A Bella Farnia, lungo le strade, si trovano pacchetti contenenti fumo o pasticche per sopportare la fatica. Sono pasticche di varia natura, alcune vere e proprie bombe chimiche, che a volte vengono portate direttamente dall’India”. Del resto, nonostante le nuove norme contro il caporalato, all’ombra del Circeo è un dramma. C’è chi è stato sorpreso a girare armato all’interno dell’azienda, sparando in aria per spingere i sikh a lavorare di più e senza sosta. Ci sono stati due imprenditori agricoli di Terracina, ora rinviati a giudizio, accusati di aver massacrato di botte un lavoratore indiano soltanto perché chiedeva mascherine e guanti con cui proteggersi dal Covid. E chi, come emerso in un’altra indagine dei carabinieri del Nas, culminata in sette arresti ad aprile, senza protezioni viene mandato a spargere nelle coltivazioni fitofarmaci pericolosi. “Gli stranieri - hanno dichiarato gli investigatori della squadra mobile tre anni fa, dopo un blitz in un’azienda di Borgo Le Ferriere, tra Latina e Nettuno - utilizzano l’oppio per la preparazione di infusi e bevande che utilizzano prima e durante i pesanti turni di lavoro nei campi per vincere la fatica ed il senso di spossamento”. La piaga del doping è iniziata circa dieci anni fa e sta andando sempre peggio. Nel 2014, sono stati arrestati i primi cittadini di nazionalità indiana trovati con valigie piene di oppio e due anni dopo sono iniziate anche le prime morti per overdose da eroina. Senza contare i suicidi. Disperati, ben 14 braccianti sikh si sono tolti la vita, alcuni impiccandosi anche nelle serre. E vi sono state nell’agro pontino anche altre 15 morti ritenute sospette, in cui si teme che alcuni giovani siano stati uccisi da un mix micidiale fatto di sfruttamento e uso di sostanze proibite. A spacciare oppio, importato direttamente dall’Asia, sono esclusivamente indiani e pakistani. Gli stessi che vendono poi metanfetamine, provenienti a quanto pare da laboratori clandestini gestiti in Campania dalla criminalità organizzata, e antispastici, ricettati da italiani che li rapinano nelle farmacie o assaltando furgoni di medicinali, soprattutto nel Centro-Sud. A far paura però è soprattutto la dimensione del fenomeno. “In base alla mia esperienza - rivela Omizzolo - a doparsi è almeno il 35-40% dei braccianti sikh. La mia è una stima, fatta però alla luce dei miei colloqui e dei miei studi e considerando che solo agli incontri che tengo con i lavoratori di nazionalità indiana solitamente su 10 braccianti 3-4 mi fanno capire che fanno uso di sostanze dopanti”. Già, “Che vuoi fa?” Fuoco - Non ha mai smesso di voler fare, Stefano Arcuri. Sono passati sei anni - era il 13 giugno del 2015 - da quando sua moglie, Paola Clemente, è crollata per terra. Morta di fatica. Mentre raccoglieva uva nelle campagne di Andria, a più di duecento chilometri da casa, San Giorgio Jonico, dove era partita all’alba. Paola lavorava per otto ore al giorno, partendo di casa alle 2 di notte e tornando non prima delle 15, per 27 euro al giorno. Poco più di 3 euro all’ora. Una schiava, o giù di lì. Sono passati sei anni e il processo al titolare dell’azienda per la quale Paola lavorava non è ancora cominciato. Nel frattempo, sono successe delle cose. La legge 199 del 2016, per esempio, la nuova legge sul caporalato è nata anche sulla spinta emotiva della morte di Paola. Ed è stato bello e importante che la storia, il nome di una bracciante di San Giorio Jonico, arrivasse fino nelle stanze del Parlamento. E contribuisse a una piccola rivoluzione. Ma, evidentemente, non basta. Non è bastato. Hanno sparato a Biggie. Sono bruciati a Rignano. Sono morti dopati i sikh di Latina. Hanno picchiato i pachistani che stampavano i libri, anche quelli in loro difesa, nella tipografia Grafica Veneta di Padova. A fine giugno, è morto Camara Fantamadi, in Salento, a pochi chilometri da dove viveva Paola. Ed è morto come Paola. Stramazzato al suolo per la fatica, mentre provava a tornare a casa in bicicletta dopo aver lavorato per ore. Stefano Arcuri non si è mai stancato: “Continuo a chiedere giustizia per mia moglie e per tutte le persone che hanno perso la vita in condizioni disumane. In questi anni è cambiato molto poco. È vero, c’è una legge contro il caporalato, come anche le ordinanze che vietano il lavoro nelle ore più calde. Ma servono i controlli, altrimenti resta tutto sulla carta”. Già, i controlli. Lo scorso anno sono state effettate dall’Ispettorato del Lavoro 3.992 controlli ad aziende agricole. 2.314 non erano in regola. Il 57.97 per cento. Più della metà. “E sono poche - dice Giovanni Mininni, segretario generale della Flasi Cgil - Sono poche perché purtroppo ancora pochi sono i controlli: la nomina del magistrato Bruno Giordano, avvenuta nei giorni scorsi, come direttore dell’Ispettorato è una notizia importante che però arriva dopo mesi di nostre denunce sul ritardo inspiegabile nella nomina. Il problema da affrontare immediatamente è che, a fronte di un aumento di reati, calano i controlli. E questo accade perché non ci sono risorse”. Nella relazione della Camera, in realtà una luce, sullo sfondo, si intravede: “Il programma nazionale di ripresa e resilienza - si legge - prevede l’assunzione di circa duemila nuovi ispettori del lavoro su un organico di circa 4.500”. Ma non basta. Dice il marito di Paola: “Servono telecamere e droni. Serve cuore e tecnologia. Perché davanti agli schiavi non si fa tutto quello che lo Stato può fare?”. “La mia battaglia non è una questione personale o familiare. È una battaglia che ci riguarda. Perché è la nostra Costituzione che ci chiede e ci obbliga a tutela re i lavoratori. Mia moglie non si sentiva bene già durante il viaggio in bus. Ed è morta perché ha avuto paura di dire che stava male. E ha avuto paura perché qualche giorno prima, non si era presentata al lavoro. Perché il fisico non reggeva. La lasciarono a casa, per punizione, per due settimane. E noi avevamo bisogno di lavorare. Lo Stato deve rompere questa legge della strada: o stati zitto e accetti quello che ti danno, oppure c’è un’altra persona in difficoltà pronta ad accettare quel lavoro per portare il pane a casa. Non è possibile”. Il marito di Paola racconta poi un altro pezzo di storia. Cruciale, per capire come funzionano le cose nei campi. “Mia moglie era assunta. Eppure lavorava a nero. Questo perché le giornate erano retribuite solo sulla carta. La pagavano per 10-15 giorni quando invece le giornate effettive erano il doppio. Ma in questo modo, in caso di controllo, tutto sarebbe stato regolare”. “La questione è fondamentale” spiega Raffaele Falcone, della Flai di Foggia, “perché in questi ultimi anni abbiamo assistito a questo fenomeno di schiavitù legale. Le giornate di lavoro vengono dichiarate alla fine del mese: le aziende, o per lo meno quelle che vogliono vivere nell’illegalità, fanno firmare regolari contratti ai dipendenti, in modo da essere tranquilli con i controlli. Ma poi dichiarano molto meno delle ore effettivamente lavorate. Così è impossibile scoprire se barano. È tutto affidato alle denunce dei lavoratori. A cui si chiede fatica. E anche coraggio”. E i datori di lavoro che fanno? È di metà luglio la notizia dell’ennesimo protocollo sottoscritto questa volta al Viminale in materia di caporalato: c’erano la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, quello del lavoro, Andrea Orlando, e dell’Agricoltura, Stefano Patuanelli. Per l’ennesima volta si è chiesto aiuto alle imprese: da tempo è stata infatti creata la Rete del lavoro agricolo di qualità, con l’attivazione di misure premianti per le imprese agricole. Un elenco di imprese agricole, in sostanza, gestito dall’Inps che rispettando regole e legislazione sociale, può godere di una serie di privilegi. Bene: su 200mila aziende agricole in Italia, se ne sono iscritte 5mila. Il 2,5 per cento. Acqua - Mentre al Viminale sottoscrivevano il protocollo, succedevano alcune cose. Una delle aziende che aveva aderito - ed esibito - alla filiera No Cap, che sta per No Caporalato, veniva beccata con gli schiavi al lavoro. Nella grande moschea di Sibi, in Mali, c’erano oltre 500 persone per l’ultimo saluto a Camara Fantamadi, morto nel giugno scorso a Cerignola (Foggia). Grazie a una sottoscrizione, erano stati raccolti i fondi per farlo tornare a casa, almeno da morto. Sulla sua bara la bandiera dell’Italia con il logo dell’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani d’Italia. Nella località ‘Tre titoli’, nelle campagne di Cerignola, il corpo di un ragazzo di colore galleggiava sul fondo di una cisterna irrigua. Si era chinato per cercare di riempire d’acqua un secchio. È scivolato. Le agenzie hanno battuto così la notizia. “Un cittadino del Togo di 29 anni è morto annegato sabato pomeriggio in un vascone irriguo in località ‘Tre Titoli’ nelle campagne di Cerignola, nel Foggiano. Stando ad una prima ricostruzione dell’accaduto lo straniero, che viveva in un casolare della zona con altri migranti, probabilmente è scivolato, e poi annegato, mentre tentava di riempire un secchio d’acqua nel vascone. Per recuperare il cadavere dal fondo del piccolo invaso artificiale sono intervenuti i sommozzatori dei vigili del Fuoco”. Nessuno, dopo, ne ha più parlato. Nessuno ha gridato. Nessuno ha chiesto scusa. Nessuna ha chiesto nemmeno il nome del “cittadino del Togo”. Si chiamava Bassiru Djumma. Raccoglieva pomodori. E aveva sete. Migranti. La protezione dei rifugiati non è delegabile di Filippo Grandi* Corriere della Sera, 29 luglio 2021 Se la Convenzione del 1951 non verrà difesa saranno milioni a pagarne il prezzo. Sono 82,4 milioni le persone strappare alle proprie case, Dobbiamo ribadire il nostro impegno. La Convenzione del 1951 sui rifugiati, fondamentale strumento giuridico internazionale a difesa di chi fugge da persecuzioni, discriminazione, guerra e violenza, e chiede asilo in un altro Paese, ha salvato innumerevoli vite. Oggi la Convenzione compie 70 anni. I critici sostengono che sia uno strumento vecchio e superato, il lascito di un’era passata. Invece è vero il contrario: se non verrà difeso e onorato, saranno milioni a pagarne il prezzo. È ormai quasi impossibile trovare un luogo al mondo che, negli ultimi settant’anni, non abbia dovuto far fronte ad almeno una crisi di rifugiati. Alla fine dell’anno scorso, il numero di persone strappate alle proprie case, rifugiati nel senso proprio del termine o “sfollati” nei propri Paesi, è arrivato a 82,4 milioni, una cifra che è più che raddoppiata nell’arco dell’ultimo decennio. Le cause e le dinamiche degli esodi sono in costante mutamento, ma l’applicazione della Convenzione sui rifugiati si è evoluta anch’essa, riflettendo questi cambiamenti. Moderna incarnazione del principio di asilo, negli ultimi 70 anni inoltre la Convenzione è stata integrata da numerosi altri strumenti legali molto importanti, intesi rafforzare i diritti di donne, bambini, persone disabili, membri della comunità Lgbtiq+ e molti altri. Alcuni governi, talvolta subendo e altre volte purtroppo incoraggiando la spinta di un populismo gretto e spesso disinformato, hanno tentato di respingere i principi che stanno alla base della Convenzione. Ma il problema non risiede certamente negli ideali o nel linguaggio espressi dalla Convenzione quanto piuttosto nell’assicurare che gli Stati, ovunque nel mondo, riflettano i suoi contenuti nella pratica. Quando, nel 1956, 200.000 ungheresi furono costretti a fuggire dopo l’invasione sovietica, quasi tutti furono accolti come rifugiati da altri Paesi nel giro di pochi mesi. Quando ho cominciato a lavorare come volontario con i rifugiati cambogiani in Thailandia, nei primi anni 80, stava per cominciare la colossale operazione di reinsediamento che avrebbe permesso a centinaia di migliaia di rifugiati indocinesi di ricostruire le proprie vite in diversi Paesi del mondo. Oggi, risposte di tale portata sono sempre più rare. Centinaia di rifugiati continuano a intraprendere ogni giorno viaggi pericolosi e talvolta fatali, attraverso deserti, mari e montagne, ma la comunità internazionale fa fatica a unire le proprie forze per risolvere i drammi di queste persone disperate. Ancor peggio, stiamo addirittura assistendo - in alcuni Paesi - alla negazione del diritto di asilo, passando attraverso una “esternalizzazione” (per così dire) delle responsabilità dello Stato in materia di protezione di rifugiati, e delegandole ad altri Paesi. Non solo questo è legalmente e moralmente sbagliato: è anche un precedente pericoloso. Non dimentichiamo che quasi il 90% di tutti i rifugiati del mondo chiede asilo in Paesi in via di sviluppo o in quelli meno sviluppati. Sono loro che accolgono la maggioranza delle persone in fuga. E se Stati ricchi e bene organizzati rispondono a chi bussa alla propria porta erigendo muri, chiudendo le frontiere e respingendo le persone in arrivo per mare, perché altri Paesi, con meno risorse, non dovrebbero fare altrettanto? Se succedesse, sarebbe la fine del diritto d’asilo cosi come lo concepisce la Convenzione del 1951 - uno dei diritti basilari del moderno sistema giuridico internazionale. Esistono invece numerosi modi per affrontare questo problema e ridurre in maniera ordinata e legale il fenomeno delle migrazioni forzate: agire con più unità e determinazione per porre fine ai conflitti, per esempio; incoraggiare pratiche di governo democratiche, trasparenti ed efficaci; difendere e onorare i diritti umani; rispondere all’emergenza climatica. I muri e i respingimenti sono risposte superficiali che mascherano in realtà l’incapacità (o la mancanza di volontà politica) di perseguire veramente le cause profonde e reali dei movimenti di rifugiati. E così le guerre non finiscono mai, o covano sotto la cenere, o si infiammano nuovi conflitti, come vediamo in questi giorni in Afghanistan. Cambiamenti climatici e catastrofi ambientali si sommano oggi agli altri fattori che scatenano esodi forzati; e tuttavia gli Stati faticano a concordare azioni congiunte per limitare l’aumento delle temperature. Nel corso di quest’estate, il Nord America è stato devastato da ondate di caldo e roghi immensi, l’Europa centrale e la Cina sono state colpite da violente inondazioni. Le conseguenze di queste condizioni climatiche estreme, che interessano aree sempre più estese del pianeta, avranno inevitabilmente anch’esse un impatto sulle migrazioni degli esseri umani. Neppure chi è abbastanza fortunato da vivere in condizioni di relativa prosperità e stabilità sfugge ormai alle sfide globali; il trauma causato dal Covid-19 lo ha reso evidente. E anche chi pensa che la Convenzione sui Rifugiati sia irrilevante, o una seccatura, un giorno potrebbe trovarsi nella situazione di avere bisogno delle sue tutele. Certo, il quadro non è solamente negativo. Gli Stati firmatari della Convenzione sono 149, rendendola uno dei trattati internazionali più sottoscritti. La Convenzione, come numerosi altri strumenti di diritto internazionale, riflette e istituzionalizza valori universali e condivisi di altruismo, compassione e solidarietà. Questi sono i valori espressi concretamente da tutte le persone che, con sbalorditiva generosità, e ogni giorno, accolgono persone in fuga nelle proprie comunità, nei propri quartieri, nei propri villaggi: una realtà che ho toccato con mano in moltissimi Paesi del mondo. Difendere appassionatamente un trattato delle Nazioni Unite può apparire strano. Ma la Convenzione ci ricorda un fatto basilare - che la protezione dei rifugiati salva le vite di esseri umani, ed è una pietra miliare nella costruzione di un mondo più libero e giusto. La ricorrenza del suo 70° anniversario rappresenta l’occasione di ribadire il nostro impegno a conseguire quest’ideale. Rinnoviamo questa promessa. Non veniamole meno. *Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati Migranti. Save the Children: 2.040 vittime di tratta in Italia nel 2020 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 luglio 2021 Anche in Italia c’è il fenomeno dei minori vittime di tratta e sfruttamento. Parliamo dei “piccoli schiavi invisibili”, che non a caso è anche il titolo del rapporto diffuso da Save the Children in vista della Giornata Internazionale Contro la Tratta di Esseri Umani. I numeri snocciolati dall’organizzazione umanitaria sono chiari. In Italia, nel 2020 risultano in carico del sistema anti- tratta 2.040 vittime. Donne e ragazze si confermano la componente maggioritaria (1.668 vittime, pari al 81,8%), ma risultano in aumento rispetto al 2019 sia la componente maschile (330 uomini e ragazzi, pari al 16,2%) sia le persone transgender (42 vittime, pari al 2,1%). I minori sono 105, il 5,1% del totale delle persone assistite nel 2020. Sono 716, invece, le sole nuove prese in carico nel 2020, di cui 531 donne e ragazze (74,2%), 150 uomini e ragazzi (20,9%) e 35 persone transgender (4,9%). Tra le nuove prese in carico i minori rappresentano l’1% del totale, con 7 nuovi ragazzi e ragazze nel 2020, a fronte di 39 valutazioni effettuate. Rispetto alle nazionalità, la Nigeria si conferma il principale Paese di provenienza tra le vittime - adulti e minori - complessivamente assistite nel 2020 (1.475 pari al 72,3%), anche se in leggero calo rispetto al 2019 quando le vittime nigeriane prese in carico erano 1.597 (78,6%). Seguono i gruppi nazionali di Costa d’Avorio, Pakistan, Gambia e Marocco, ciascuno con 40 vittime assistite nel 2020, pari al 2% del totale. Sostanzialmente invariato rispetto al 2019 il numero di vittime assistite provenienti dalla Costa d’Avorio: una tendenza che, nonostante l’aumento dei flussi di ingresso provenienti dal Paese, si spiega con il fatto che per la maggior parte dei cittadini ivoriani, e in particolare donne e minori, l’Italia rappresenta un Paese di transito verso la Francia, cosa che non facilita la loro identificazione ed emersione. Risultano in aumento le vittime pakistane, salite da 25 (1,2%) del 2019 a 40 (2%) del 2020. Le vittime di origine romena prese in carico sono diminuite, passando dal rappresentare il 2,2% delle persone assistite nel 2019 all’1,3% del 2020. Secondo il rapporto di Save the Children, per quanto concerne le tipologie di sfruttamento, il 78,4% (1.599 persone) del totale delle vittime in carico al sistema anti- tratta nel 2020 sono state sfruttate a scopo sessuale. Lo sfruttamento lavorativo ha riguardato il 13,8% (281 vittime) del totale delle persone in carico al sistema, in aumento rispetto al 2019 quando le vittime assistite erano l’11,6% (160 in totale). Il restante 7,8% delle vittime assistite è coinvolto in altre forme di sfruttamento, tra cui l’1% delle vittime assistite è stato coinvolto in economie illegali e lo 0,6% nell’accattonaggio. Dal rapporto emerge con chiarezza anche la tragedia delle ragazze vittime di tratta e sfruttamento insieme ai loro figli: bambine e bambini generalmente molto piccoli, spesso nati proprio dagli abusi subiti dalle madri, che non solo assistono a quelle violenze ma rischiano loro stessi di finire nelle mani di sfruttatori e trafficanti, oppure di essere usati come oggetto di ricatto nei confronti delle mamme. Gravi conseguenze per madri e bambini arrivano anche dallo sfruttamento lavorativo nel settore agricolo, negli insediamenti informali isolati dai centri urbani e dai servizi. Ma la pandemia ha anche reso lo sfruttamento della prostituzione ancora più invisibile. Parliamo dello sfruttamento indoor, ovvero nei luoghi al chiuso. Ma l’indoor si interseca con l’on line. Infatti, come evidenzia Save the Children, il cyberspazio si configura sempre più anche come luogo stesso dello sfruttamento vero e proprio - in particolare di giovani donne e minori - ad esempio attraverso le live chat, replicabili innumerevoli volte e strumento, dunque, di massimizzazione dei profitti, o la condivisione di materiale foto/video. Hong Kong. Il carcere a vita per aver sventolato una bandiera nera di Giulia Pompili Il Foglio, 29 luglio 2021 Più o meno un anno fa, il 1° luglio del 2020, Tong Ying-kit ha preso la sua motocicletta, ci ha fissato sopra la bandiera nera simbolo delle proteste dei ragazzi di Hong Kong, ed è passato attraverso un checkpoint delle Forze dell’ordine - non minacciosamente come si potrebbe pensare: Tong non voleva investirli ma sarebbe passato senza fermarsi “per quattro volte” attraverso il posto di blocco. Pochi giorni dopo Tong è stato arrestato, accusato di aver violato una legge che era stata imposta da Pechino e introdotta dal governo locale di Hong Kong praticamente poche ore prima. La Legge sulla sicurezza nazionale è quella che ha trasformato nel giro di pochi mesi l’ex colonia inglese, un tempo simbolo di libertà e autonomia all’interno del territorio cinese, in un luogo per nulla diverso dal resto della Cina. Ieri Tong Ying-kit è stato ritenuto colpevole di sedizione, perché quella bandiera nera, con su scritto “Liberate Hong Kong, la Rivoluzione dei nostri giorni” è stata ritenuta un pericoloso simbolo di indipendenza, quindi da censurare. In un procedimento anomalo per la tradizione della common law a Hong Kong - ma a Hong Kong niente è più come prima, da un anno a questa parte - a Tong non è stata concessa la libertà su cauzione, ma non solo: non gli è stato concesso nemmeno un processo con una giuria, e i tre giudici che hanno deciso sulla sua colpevolezza sono stati scelti direttamente dal governo locale guidato da Carrie Lam, la fedelissima chief executive dell’ex colonia inglese, ormai una delle leader più sfiduciate dall’opinione pubblica ma che gode del sostegno incondizionato del Partito comunista cinese. La Legge sulla sicurezza prevede anche questo per chi viene perseguito per reati che riguardano il terrorismo e le richieste democratiche. Il processo contro il giovane Tong è durato quindici giorni e la sua condanna verrà decisa e resa nota nei prossimi giorni. Secondo la Legge sulla sicurezza rischia l’ergastolo. Il carcere a vita per aver “incitato altre persone a commettere la secessione”, usando un simbolo e uno slogan come se fossero armi da fuoco e bombe. L’intero dibattimento è stato caratterizzato dall’analisi storica e linguistica delle parole cinesi che significano “liberazione” e “rivoluzione”: la difesa di Tong sosteneva che lo slogan degli studenti che hanno protestato nel corso del 2019 e del 2020 era aperto a diverse interpretazioni, mentre l’accusa si è avvalsa di autorevoli storici per dimostrare che da un migliaio di anni il significato di quelle parole è sempre lo stesso, di certo sovversivo. Il vicecapo procuratore di Hong Kong Anthony Chau, pubblica accusa in numerosi casi molto mediatici di questi ultimi mesi nell’ex colonia inglese, compreso quello contro il tycoon dei media Jimmy Lai, ha detto nell’arringa finale del processo che Tong ha “deliberatamente” oltrepassato i posti di blocco della polizia e non si è fermato anche dopo i ripetuti avvertimenti, “palesemente” violando la legge e con “assoluto disprezzo per la vita umana”. La condanna di Tong Ying-kit, secondo diversi analisti, è soprattutto l’inizio di una nuova inedita giurisdizione a Hong Kong: l’ex colonia inglese sarebbe dovuta rimanere autonoma fino al 2047, come previsto dai trattati dell’handover, la riconsegna del territorio da parte del Regno Unito alla Repubblica popolare cinese nel 1997. Con più di venticinque anni di anticipo, e in palese violazione di quei trattati, Hong Kong è diventata come Shenzhen, come Shanghai, come Pechino. Eric Yan-ho Lai, fellow in Legge alla Georgetown ed esperto di diritto di Hong Kong, ha scritto ieri su Twitter che la condanna di Tong Ying-kit “segna un pericoloso precedente di processo ingiusto, data l’impostazione pre processuale dei giudici designati dall’esecutivo, l’eliminazione del processo con giuria e la custodia cautelare di un anno”. Inoltre, secondo Lai, i giudici “sono in linea con la dichiarazione del governo di Carrie Lam di un anno fa”, che sottolineava come lo slogan “Liberate Hong Kong, la Rivoluzione dei nostri giorni” fosse in violazione della legge perché sedizioso. “I giudici hanno ritenuto la guida di Tong una grave violenza e un’intimidazione con la quale ha dato seguito alla sua agenda politica, e questo implica che la guida pericolosa unita a slogan politici può essere considerata sufficiente per essere processati per terrorismo. Ultimo, ma non meno importante, i pubblici ministeri ora possono sfruttare questo verdetto per giustificare gli atti di accusa contro chi ha pronunciato quegli slogan oppure li ha mostrati su una maglietta, in violazione degli standard internazionali di libertà d’espressione”, ha scritto Lai. Per capire quanto certi simboli siano considerati ormai pericolosissimi per Pechino e per chi aderisce alla narrazione cinese, baserebbe pensare alla storia di Angus Ng Ka-long, campione di badminton di Hong Kong che la scorsa settimana ha esordito ai Giochi olimpici di Tokyo con una semplicissima maglietta nera con su scritto il suo nome, ma non la bandiera dell’ex colonia inglese. Il politico pro Pechino Nicholas Muk ha scritto sui suoi social un post violento contro l’atleta, credendo in un messaggio politico da parte di Angus Ng: le magliette nere erano quelle che indossavano i giovani manifestanti anticinesi. Angus Ng Ka-long ha poi spiegato che la politica non c’entrava niente, che si era ritrovato all’ultimo momento senza sponsor e aveva stampato lui stesso il suo nome sul retro di una maglietta di sua proprietà. Nicholas Muk ha cancellato il post, ma il clima è questo: quello in cui chiunque si macchi di essere associato ai manifestanti di Hong Kong rischia grosso, tutto. Attualmente ci sono altre sessanta persone in attesa di processo per aver violato la Legge sulla sicurezza a Hong Kong. Tra di loro ci sono diversi ex membri del parlamentino di Hong Kong. L’altro ieri, al termine dell’inatteso incontro in Cina tra il ministro degli Esteri di Pechino Wang Yi e la vicesegretaria di stato americana, Wendy Sherman, la Cina ha formalizzato alcune richieste a Washington come punto di partenza per ristabilire un dialogo tra le prime due economie del mondo. Prima richiesta: le questioni territoriali cinesi sono solo cinesi, l’America non si immischi.