Ciambiello a Cartabia: “La commissione Dap? E chi controlla i controllori” di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 luglio 2021 Santa Maria Capua Vetere e le carceri delle rivolte 2020: il Garante campano boccia la scelta della ministra. La denuncia della senatrice 5S Leone che chiede di rimuovere la direttrice Palmieri. Nubi scure all’orizzonte, per la ministra Cartabia, anche sul fronte di Santa Maria Capua Vetere e degli altri carceri dove durante il primo lockdown sono morti alcuni reclusi (13 in tutto). Da un lato il Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, che le scrive per sottolineare quanto è sotto gli occhi di tutti: la Commissione ispettiva istituita dal Dap “per fare luce sull’origine delle rivolte dei detenuti avvenute negli istituti nel marzo 2020, sui comportamenti adottati dagli operatori penitenziari per ristabilire l’ordine e la sicurezza, e su eventuali condotte irregolari o illegittime poste in essere”, porta in sé ciò che in altri casi si potrebbe prospettare come un “conflitto di interessi”. Dall’altro lato la senatrice del M5S Cinzia Leone che chiede la rimozione della direttrice di S.M. Capua Vetere, Elisabetta Palmieri, dopo la brutta scoperta fatta durante una recente visita. La senatrice ha annunciato un’interrogazione urgente a Cartabia per sapere “come sia possibile che Armando Schiavo, ex poliziotto in pensione, compagno della direttrice Palmieri, giri liberamente per il carcere, facendo le veci de facto di chi dovrebbe invece dirigere la struttura”. Una notizia appresa di persona durante una visita nella quale la senatrice 5S sarebbe stata accompagnata dall’uomo presentatole esattamente in quella veste. “La direttrice - prosegue Leone - dovrebbe essere sostituita e permettere il pieno ripristino delle normali funzioni di direzione, nel luogo che ha conosciuto la sospensione della democrazia e della Costituzione. Dopo tutta la cieca violenza, dopo la coraggiosa inchiesta della Procura di riferimento che ha scoperchiato anche il depistaggio messo in atto dagli agenti coinvolti, mi chiedo come sia possibile che Cartabia non abbia ancora messo mano profondamente all’amministrazione del carcere”. D’altronde, sembra che Cartabia faccia davvero fatica a far voltare pagina al Dap, in termini di trasparenza: “Quis custodiet ipsos custodes? (chi sorveglierà i sorveglianti stessi?)”, chiede Ciambriello. Come già scritto dal manifesto, oltre al presidente Sergio Lazi in Commissione siederanno l’ex direttrice del carcere di Sant’Anna di Modena, Casella, il direttore di San Vittore, Siciliano, la dirigente Ufficio detenuti e trattamento del ministero di Giustizia, Valenzi, il comandante di Rebibbia, Ardini, e quello di Lecce, Secci. E, ricorda il Garante campano, “Bonfiglioli (dirigente del Provveditorato Emilia Romagna e Marche), che dispose e coordinò il trasferimento dei detenuti da Modena dopo le rivolte”. Mancano, sottolinea quindi Ciambriello, “figure professionalmente deputate alla vigilanza sull’esecuzione penale, come Magistrati di sorveglianza e Garanti, nonché figure “terze” (presidenti di associazioni di diritti, Camere penali, ecc.)”. Capaci cioè “di uno sguardo multiplo e riassuntivo, con un profilo non artefatto e un ruolo di osservatori super partes”. Nel pool del Dap “saranno evitate incompatibilità”. Ma per Ciambriello mancano figure “terze” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 luglio 2021 Dopo il nostro articolo la precisazione del ministero della Giustizia sulla commissione che dovrà occuparsi dei presunti pestaggi. Il garante campano Ciambriello chiede che l’organismo venga integrato. Dopo l’articolo de Il Dubbio, nel quale è stato fatto notare un potenziale conflitto di interesse che riguarda soprattutto uno dei componenti della commissione istituita dal Dap per occuparsi delle indagini interne relativi ai presunti pestaggi che riguardano diverse carceri, il ministero della Giustizia ci ha risposto portandoci a conoscenza un elemento ulteriore che potrebbe risolvere questa criticità. Il ministero fa sapere che si organizzeranno sotto-gruppi - I sei componenti - come indicato nel provvedimento di composizione - “potranno operare in appositi sotto-gruppi, tenuto anche conto di eventuali fattori di incompatibilità territoriale”. Per questo, il ministero fa sapere che sarà quindi cura direttamente del presidente della Commissione organizzare questi sotto-gruppi anche in modo da evitare “qualsiasi incompatibilità territoriale”. Importante, quindi, l’organizzazione dei sotto gruppi per evitare i potenziali conflitti di interesse. Ma, secondo il garante regionale della Campania Samuele Ciambriello, fondamentale per aver fatto emergere la mattanza avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, nella commissione nata su spinta della guardasigilli mancherebbero figure “terze” capaci di uno sguardo multiplo e riassuntivo, con un profilo non artefatto e un ruolo di osservatori super partes. Il garante campano ha inviato una lettera alla ministra Cartabia - Sono osservazioni che Ciambriello ha inviato alla ministra Marta Cartabia tramite una lettera, dove sottolinea che la composizione della Commissione, proposta dal Dap, a prima vista, appare monca poiché in essa è assente la “componente sociale e di garanzia”. Il garante regionale osserva che, in particolare, “non sembra adeguata ad assicurare il secondo e terzo punto del suo mandato, vale a dire indagare sui comportamenti del personale e su eventuali condotte illecite, giacché dovrebbe valere anche qui - pur nella massima fiducia nell’istituzione e negli operatori - la massima di Giovenale: Quis custodiet ipsos custodes? (chi sorveglierà i sorveglianti stessi?)”. Il presidente della Commissione Sergio Lari, ex procuratore generale della Corte d’Appello di Caltanissetta, sarà infatti affiancato da Rosalba Casella (ex direttrice del carcere di Sant’Anna di Modena), Giacinto Siciliano (direttore di San Vittore), Francesca Valenzi (dirigente Ufficio detenuti e trattamento del ministero di Giustizia), Luigi Ardini (comandante del carcere romano di Rebibbia), Riccardo Secci (comandante del carcere di Lecce) e Marco Bonfiglioli (dirigente del Provveditorato Emilia Romagna e Marche) che - come ha notiziato Il Dubbio - dispose e coordinò il trasferimento dei detenuti da Modena dopo le rivolte. Ciambriello: “Sarebbero maggiormente garantiti e gestibili i risultati” - “Vale a dire tutte figure interne all’Amministrazione, la cui obiettività e competenza, ovviamente, non si vuole mettere in discussione, ma - scrive il Garante Ciambriello rivolgendosi alla ministra della Giustizia - certamente la Commissione, e i suoi futuri risultati, sarebbero maggiormente garantiti e gestibili se nella stessa fossero inserite figure professionalmente deputate alla vigilanza sull’esecuzione penale, come Magistrati di sorveglianza e Garanti, nonché figure “terze” (presidenti di associazioni di diritti, Camere penali, ecc.)”. Il Garante ricorda che la ministra Cartabia, durante la sua relazione alla Camera sui pestaggi avvenuti il 6 aprile a Santa Maria Capua Vetere, tra le altre cose ha detto che: “Occorre un’indagine ampia, perché si conosca quello che è successo in tutte le carceri, nell’ultimo anno dove la pandemia ha esasperato tutti”. Proprio su questa scia il Garante Ciambriello si augura imparzialità, sensibilità della ministra, affinché si possa arrivare a integrare la commissione “con figure di terzietà capaci di uno sguardo multiplo e riassuntivo, con un profilo non artefatto e un ruolo di osservatori super partes”. “Chiedo giustizia per mio padre, il primo morto di Covid in carcere” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 luglio 2021 Antonio Ribecco era detenuto a Voghera, il figlio scrive alla ministra Giustizia Marta Cartabia perché si faccia chiarezza sulla vicenda. È stato per quindici giorni con febbre e sintomi chiari di Covid 19 con un caso già confermato all’interno del carcere di Voghera il 7 marzo del 2020. Si chiamava Antonio Ribecco ed è stato il primo detenuto morto per Covid durante la prima ondata di marzo scorso, nella quale si sarebbero sottovalutati i sintomi, non rispettato l’utilizzo dei dispositivi e come se non bastasse, quando è morto, i familiari sono venuti a saperlo per caso. Un episodio poco chiaro, che tuttora non trova risposte. È accaduto nel carcere di Voghera e Il Dubbio diede la notizia senza però citare il nome. I famigliari seppero che si trattava del padre tramite i parenti di un altro detenuto. Non solo. Il figlio Antonio ha denunciato il fatto che non sono stati avvisati al momento del ricovero né quando è stato trasferito in terapia intensiva. Ma c’è molto di più, tanto che il 3 giugno 2020, il deputato Roberto Giachetti di Italia Viva, su segnalazione di Rita Bernardini del Partito Radicale, ha presentato un’interrogazione parlamentare sul caso. Una interrogazione fatta all’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che è rimasta però senza risposta. Per questo motivo, Antonio Ribecco, il figlio del primo detenuto morto per Covid, questi giorni ha inviato una lettera alla guardasigilli Marta Cartabia per avere risposte. “Le voglio raccontare che mio padre è stato abbandonato alla sua malattia e ad oggi ci troviamo totalmente sperduti di fronte a delle indagini che vanno a rilento e delle testimonianze che fanno rabbrividire”, scrive Antonio alla ministra. Racconta che molti detenuti della VII sezione del carcere di Voghera, hanno sporto volontariamente querela in quel periodo, per denunciare quanto stava accadendo nell’istituto, ovvero presunti comportamenti omissivi e negligenti nei confronti del padre. “Molti ci hanno raccontato che non è stata presa in considerazione la sua malattia - denuncia il figlio di Ribecco nella lettera - ed anche dopo proteste ed evidenti sintomi di sofferenza, mio padre non è stato visitato tempestivamente da un medico, nonostante esplicite richieste; l’agente di polizia penitenziaria che ha assistito al diniego di visita, avrebbe fatto un esposto in sezione contro la condotta del medico”. Altri detenuti hanno raccontato ai famigliari di Ribecco che non sarebbero stati forniti i dispositivi per prevenire il contagio. “E ovviamente - prosegue la lettera -, visto il sovraffollamento di oltre il 180%, non era consentita la distanza di sicurezza, dichiarando tutti che la direttrice avrebbe imposto il non uso delle mascherine per non creare allarmismo, nonostante il 07/03/2020 fosse stato ricoverato il cappellano del carcere per coronavirus”. I famigliari denunciano anche il fatto che nei confronti di suo padre, detenuto in attesa di giudizio, non fosse stata rispettata la territorialità della pena. Sono umbri. Al carcere di Spoleto e Terni c’era posto, ma l’hanno mandato a Voghera, a 500 chilometri da casa. Da Voghera, Ribecco ha presentato ulteriore richiesta al Dap per essere trasferito più vicino alla famiglia. Ma nulla da fare. “Ora non chiedo compassione - precisa il figlio di Ribecco rivolgendosi alla ministra - chiedo giustizia per i comportamenti disumani e degradanti che hanno portato alla morte mio padre, persona giovane ed in piena salute, sapevano che il cappellano aveva contatti con mio padre e sapevano che si poteva trattare di coronavirus perché mio padre era da 15 giorni che lamentava febbre, dolori e difficoltà a respirare. Se solo si sarebbe intervenuto tempestivamente, forse oggi sarebbe ancora con noi”. Antonio, il figlio di Ribecco, sottolinea che il referto della positività del padre è del 15 marzo 2020, e che anche qui avrebbero tardato due giorni per comunicarlo ed intervenire, “mettendo a rischio la sua vita e quella di altre tre persone che condividevano la cella con lui in nove metri quadri - prosegue sempre Antonio -, due delle quali risultate positive, oltre a tutte le persone della VII sezione che frequentavano gli stessi ambienti”. La lettera conclude che non si tratta solo di detenuti e detenute, “ma anche di tutti gli agenti di polizia penitenza e di tutte le persone che convivono nell’istituto”. Giustizia, fumata bianca: ecco il lodo Conte-Draghi di Errico Novi Il Dubbio, 28 luglio 2021 Domani il via libera dei ministri al nuovo testo sul penale scritto con Cartabia, subito il voto in commissione, poi la fiducia in Aula. Andata. Dopo tre anni di tormenti sulla prescrizione, ci volevano Mario Draghi e Marta Cartabia per sciogliere il groviglio della riforma penale. Ieri Giuseppe Conte, altro protagonista dell’accordo, ha ottenuto dai deputati 5 Stelle il via libera sul nuovo lodo concordato col governo. Nel pomeriggio il premier e la guardasigilli hanno perfezionato il testo a Palazzo Chigi, in modo che entro giovedì sera la commissione Giustizia di Montecitorio possa votarlo e consegnare l’intero ddl penale all’Aula. In ogni caso l’intesa fra esecutivo e pentastellati prevede che vengano esclusi dall’improcedibilità per durata eccessiva i reati di mafia, oltre a quelli di terrorismo. Mentre per la corruzioneè confermato il termine più ampio sia in appello (3 anni) che in Cassazione (un anno e mezzo) “Viene recepita la nostra concezione della giustizia”, spiega al Dubbio il deputato M5S Gianfranco Di Sarno dopo la riunione con Conte. Tutto è reso possibile dal doppio altolà inflitto ieri a Forza Italia, che chiedeva di inserire nella riforma penale anche correttivi “sostanziali” su abuso d’ufficio e altri reati contro la Pa: prima il presidente della Camera Fico ha respinto il ricorso azzurro contro l’inammissibilità delle modifiche, poi la commissione Giustizia ha bocciato, a maggioranza, la “domanda di riserva” avanzata dai berlusconiani: allargare il perimetro dell’intero ddl. E alla fine la soluzione arriva. Con una carambola millimetrica ma arriva. Già domani Mario Draghi e Marta Cartabia potrebbero portare in Consiglio dei ministri un nuovo “maxiemendamento” sul ddl penale, modificato, rispetto al testo di inizio luglio, solo in un punto: l’esclusione della improcedibilità per tutti i reati di mafia (e di terrorismo). Sarà confermata un’altra modifica sollecitata dal Movimento 5 Stelle ma in realtà già presente nella proposta Cartabia di venti giorni fa: la concessione di un tempo maggiore (tre anni in appello, un anno e 6 mesi in Cassazione) per i reati contro la Pa. E la lunga partita sul processo dovrebbe finire così, con un’ultima incognita sulle fattispecie da destinare al potenziale “fine processo mai”: i grillini chiedono in modo chiaro che vengano lasciati liberi da tagliole anche i reati minori commessi in un contesto mafioso. Come spiega al Dubbio un deputato che rappresenta il Movimento in commissione Giustizia, Gianfranco Di Sarno, “noi intendiamo veder accolte le richieste di quei magistrati che rischiano la loro vita sul campo”. Nicola Gratteri e Federico Cafiero de Raho non fanno distinzione: anche l’aggravante contestata a un rapinatore deve far scattare il processo no limits, altrimenti salta il potere investigativo che proprio nei “pesci piccoli” trova la sua forza. Dettagli non secondari, certo. Ma Draghi e Cartabia hanno vinto. Sul piano politico portano a casa un risultato notevole. Ci arrivano in una giornata che vede disputare molte partite parallele. A Palazzo Chigi, presidente del Consiglio e ministra della Giustizia si vedono in mattinata e poi di nuovo nel pomeriggio per definire il testo, rassicurati dall’esito della riunione fra Giuseppe Conte e i deputati del Movimento. Il predecessore di Draghi a Palazzo Chigi, appunto, gioca la sua sfida più difficile: nell’incontro mattutino, definisce una volta per tutte la linea con i rappresentanti grillini alla Camera. Sempre alla Camera si chiude a favore del governo l’altro fronte aperto sulla riforma penale: prima il presidente Roberto Fico respinge il ricorso proposto da Forza Italia contro l’inammissibilità degli emendamenti azzurri su abuso d’ufficio e corruzione, poi la commissione Giustizia boccia a maggioranza la “domanda di riserva” avanzata dai berlusconiani, ossia allargare la materia stessa del ddl penale. Oltre a FI, votano a favore solo Lega e Fratelli d’Italia: in tutto fanno 19 voti, contro i 25 degli altri. Si schierano contro il pressing berlusconiano non solo M5S, Pd e Leu, ma anche Azione e Italia viva. “Si è creata una maggioranza giustizialista”, commenta amaro l’azzurro Pierantonio Zanettin. Disinnescata l’ultima mina, da oggi inizia la corsa a rotta di collo in commissione: due giorni per sciropparsi i 400 emendamenti sopravvissuti alla selezione dei partiti. Entro domani sera si dovrebbe votare il mandato ai relatori, Franco Vazio del Pd e Giulia Sarti del Movimento, sempre domani in Consiglio dei ministri via libera politico all’emendamento Cartabia nuova versione, senza le tagliole per mafia e terrorismo. A quel punto servirà un testo governativo riformulato in commissione. A meno di volersi presentare venerdì in Aula col vecchio ddl Bonafede e porre la fiducia non solo sull’intera riforma ma anche su una mezza dozzina di spezzoni ricavati dall’emendamento Cartabia. Facile, no? Hanno vinto Draghi e la guardasigilli, c’è poco da dire. Non perché l’intesa sia tecnicamente il top, ma s’è comunque trovato in 5 mesi il bandolo di una matassa aggrovigliata da inizio legislatura. Ha vinto anche Giuseppe Conte? Lo si capirà la settimana prossima, a partire dal 4 agosto, quando si voterà sulla piattaforma Rousseau: l’incoronazione dell’Avvocato a presidente 5 Stelle dovrà reggere all’accordo sul penale. Ma intanto sì, Conte è riuscito a condurre alla mediazione almeno il gruppo pentastellato di Montecitorio. Di Sarno, parlamentare eletto in Campania e, soprattutto, anche lui di professione avvocato, spiega ancora: “Noi abbiamo chiesto di escludere tutti i reati di mafia, oltre che il terrorismo, dalla improcedibilità, anche le fattispecie non punibili con l’ergastolo. Inclusi i processi per reati minori, se all’imputato si contesta anche il concorso esterno o l’aggravante mafiosa”. È appunto la norma necessaria, come ricordato sopra, a procuratori come Gratteri. “Sulla corruzione abbiamo chiesto che ci sia più tempo, 3 amni in appello e un anno e mezzo in Cassazione, prima che i processi si estinguano”. E se la formulazione in arrivo da Palazzo Chigi escludesse i reati minori di contesto mafioso? “Noi abbiamo avanzato richieste chiare”, risponde Di Sarno, “la tutela dei magistrati antimafia è una priorità assoluta”. Quadro definito. Anche se resta il rischio di possibili effetti distorsivi: le Procure potrebbero usare il contesto mafioso per mettere spalle al muro i piccoli criminali periferici al clan. Tra i vittoriosi del “turno di finale”, nella lunga partita sul processo, c’è anche il Partito democratico. “Abbiamo respinto, insieme col M5S e altre forze, il tentativo di affossare la riforma della giustizia”, dice al Dubbio il capogruppo dem in commissione Alfredo Bazoli. “Speriamo che l’ostruzionismo della destra finisca qui, che ora si proceda davvero ad approvare una riforma attesa dal Paese e dall’Europa. Anche se”, non nega il parlamentare Pd, “sul piano procedurale permangono problemi di non poco conto. Un unico maxiemendamento in Aula sarebbe vietato dei regolamenti d Montecitorio: perciò, piuttosto che aggirare il divieto con emendamenti spezzettati, e fiducie separate su ognuno, credo che l’esecutivo potrebbe riformulare in commissione il primo emendamento Cartabia, in modo che da venirne fuori con un testo aggiornato all’ultima intesa”. Dopo tante contorsioni sul merito, il minimo è che l’iter ne uscisse accartocciato come un’utilitaria dopo un sinistro. Ma dopo tre anni, cosa volete che sia? Giustizia, l’asse Pd-M5s blocca i berlusconiani. Conte nicchia sulla fiducia di Marika Ikonomu Il Domani, 28 luglio 2021 La commissione Giustizia della Camera ieri ha bocciato la proposta del centrodestra di ampliare il perimetro della riforma sulla giustizia all’abuso d’ufficio. Hanno votato in blocco Partito democratico, Movimento 5 stelle e Leu, respingendo i tre emendamenti proposti dal capogruppo di Forza Italia Pierantonio Zanettin con 25 voti contrari e 19 a favore, e con l’astensione di Maurizio Lupi. A favore degli emendamenti, oltre a Fi, Lega e Fratelli d’Italia. Mentre Azione e +Europa hanno votato contro le richieste del centrodestra perché avrebbe “comportato una pesante dilazione dei tempi di approvazione della legge”, ha spiegato il deputato Enrico Costa. La commissione ha votato anche le proposte di ampliamento del perimetro di Alternativa c’è, il gruppo degli ex parlamentari fuoriusciti dal movimento, respinte con 23 voti contrari e 21 favorevoli. “Anche loro hanno il dichiarato proposito di affossare la riforma”, ha commentato il deputato Federico Conte (Leu), membro della commissione. Conte sottolinea che dalla commissione è emerso un dato politico importante: “Con il voto compatto di Leu, Pd e M5s contro l’ampliamento del perimetro dei temi, che avrebbe rinviato sine die la discussione, abbiamo salvato la riforma Cartabia dal tentativo del centrodestra, che ha ritrovato l’unità con Fratelli d’Italia, di affossarla. Ora usiamo tutto il tempo possibile per costruire la migliore mediazione sulle proposte in campo e andiamo all’approvazione della riforma nei tempi indicati dal Governo per mantenere gli impegni assunti con l’Unione europea per la realizzazione del Pnrr”. Antonio Tajani, vicepresidente del Partito popolare europeo e vicepresidente e coordinatore unico di Forza Italia, accusa l’asse Pd-M5s di essere giustizialista: “Quando, come oggi, si decide sulla giustizia il centrodestra è unito. Ma si ricostituisce anche un asse giustizialista guidato da Pd e M5s. Bloccare gli emendamenti sulla pubblica amministrazione danneggerà sindaci e amministratori pubblici ingolfando i tribunali”, ha scritto in un tweet. Sulla stessa linea il capogruppo di Fi alla Camera, Roberto Occhiuto, che ha ribadito l’impegno del centrodestra sul tema del garantismo. Il capogruppo del Pd in commissione Giustizia, Alfredo Bazoli, ha risposto a Tajani sottolineando di aver salvato la riforma: “Oggi appare molto più chiaro chi sostiene lealmente il governo Draghi e chi un po’ meno”. Dal canto suo il governo sta lavorando per chiudere questa partita prima della pausa estiva perché la riforma è indispensabile per l’attuazione del Pnrr. La ministra della Giustizia Marta Cartabia ieri è tornata a palazzo Chigi, dove continuano le interlocuzioni con il premier sulla riforma del processo penale: al vaglio le modifiche richieste dal M5s, e sostenute dal Partito democratico, su cui la ministra ha mostrato apertura. I cinque stelle chiedono che i processi sui reati di mafia e terrorismo non siano colpiti dall’improcedibilità se superano i termini previsti dalla riforma per il secondo e il terzo grado. La votazione sull’ampliamento ha portato anche a dissidi all’interno di Forza Italia. La deputata forzista e magistrato Giusi Bartolozzi è passata al gruppo Misto: la diatriba è iniziata quando ha deciso di votare contro gli emendamenti proposti dal suo partito, che ha risposto nominandola capogruppo in commissione Affari costituzionali, rimuovendola di fatto dalla commissione Giustizia per impedirle il voto. Forza Italia aveva deciso di portare avanti gli emendamenti nonostante la decisione del presidente della Camera Roberto Fico, che ieri mattina aveva dichiarato inammissibili gli emendamenti, presentati dal capogruppo di Forza Italia Pierantonio Zanettin, per estraneità della materia, confermando la posizione del presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni (M5s). Le istanze presentate dal centrodestra negli ultimi giorni, sui reati della pubblica amministrazione, chiedendo di allargare il perimetro della riforma anche all’abuso d’ufficio, alla definizione di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio, avrebbero impedito l’arrivo in aula della riforma il 30 luglio, posticipandola dopo la pausa estiva. Intanto Giuseppe Conte, in qualità di nuovo leader del movimento, ha incontrato alla Camera alcuni deputati del M5s per parlare della riforma: “Abbiamo fatto delle osservazioni critiche, condivise da buona parte degli addetti ai lavori e dei magistrati, non per soddisfare un’esigenza ideologica o politica del M5s ma per rendere più efficiente ed equo il sistema giustizia”, ha detto l’ex premier. “Non voglio neppure considerare l’ipotesi in cui non venga modificato il testo” di riforma del processo penale, ha continuato Conte, che non si sbilancia sul voto di fiducia. Il presidente della commissione Giustizia Perantoni chiede al governo e a tutti i gruppi di arrivare a una mediazione entro il 29, perché sia garantito il rispetto del calendario. “Il tempo che abbiamo deve essere dedicato alle questioni rimaste sul tappeto”, ha detto Federico Conte (Leu), riferendosi ai 400 emendamenti presentati, molti del M5s. Riforma Cartabia, la trattativa accelera. Forse il testo domani in Cdm di Andrea Colombo Il Manifesto, 28 luglio 2021 La cornice è definita: l’improcedibilità non scatterà per i reati di mafia e terrorismo. Per evitare i voti di fiducia, un emendamento del governo in commissione. Alla Camera, per la prima tornata del giro di consultazioni sulla riforma della giustizia, Conte cala la carta più pesante: “Senza modifiche, per il M5S sarebbe difficile votare la fiducia”. Posizione nota, ma è la prima volta che il futuro leader dei 5S lo dice apertamente, senza possibilità di smentita. L’unica a farlo, sinora, era stata la ministra Dadone ma solo per correggersi subito dopo. Quali modifiche? Conte cita tra settori per i quali dovrebbe essere esclusa l’improcedibilità: “Mafia, terrorismo e corruzione”. Ripete la lista nel corso della riunione. All’uscita però, con i cronisti, abbassa i toni. Nessuna allusione alla possibilità di negare la fiducia: “Fare minacce non è nel mio stile” e comunque “non voglio nemmeno considerare l’ipotesi che il testo non venga migliorato”. Le aree nevralgiche però sono ora ridotte a mafia e terrorismo. Il senso della trattativa in corso è tutto qui. Subito dopo la riunione di Conte a Montecitorio, Draghi e la ministra Cartabia si incontrano di nuovo a palazzo Chigi, poi la palla passa al sottosegretario Garofolo che sta materialmente buttando giù il testo che il Cdm dovrà approvare, probabilmente già giovedì. I tempi sono strettissimi. Con i regolamenti della Camera l’unica via per evitare il calvario di 4 o 5 voti di fiducia in Aula è che sia la commissione ad approvare preventivamente un emendamento del governo che modifica il testo sulla improcedibilità. La riforma sarà in Aula venerdì. La quadra dovrebbe quindi essere auspicabilmente trovata entro domani sera. La cornice è definita. Per i reati di mafia e terrorismo anche non punibili con l’ergastolo non scatterà l’improcedibilità. I nodi ancora da sciogliere riguardano i particolari concreti. Due gli irrisolti principali. Il primo riguarda i reati contro la Pa. I 5S vorrebbero che l’improcedibilità venisse esclusa anche per questi casi. Hanno pochissime probabilità di farcela. Significherebbe quasi cancellare la riforma in materia di prescrizione. L’ala destra della maggioranza non lo accetterebbe, lo stesso Pd è contrario. Ma la parola magica che per i 5S, gli eletti e soprattutto gli elettori, fa la differenza tra vittoria e sconfitta è proprio “corruzione”. Neppure sui “reati di mafia” c’è ancora intesa. Conte mira a una interpretazione estensiva: non solo i boss e gli imputati ai sensi del 416bis ma anche quelli minori e i concorsi esterni. Il governo, almeno per ora, sembra fermo sul limitare lo stralcio dell’improcedibilità al 416bis ma le prossime ore saranno anche da questo punto di vista decisive. La pressione sui 5S del Fatto, che è a tutti gli effetti una voce interna al Movimento e anche molto ascoltata, ma soprattutto della magistratura, saranno, e anzi già sono martellanti. Il Csm è deciso a far sentire la sua voce prima del voto della Camera. Mattarella aveva chiesto che il plenum convocato per domani non si pronunciasse dal momento che la VI commissione aveva espresso il parere da sottoporre al plenum solo su un segmento della riforma, la prescrizione. La data del prossimo plenum però è il 5 agosto, a voto della Camera già avvenuto. Così la VI commissione ha preso la rincorsa, ha esaminato in tempi record l’intera riforma ed espresso il suo parere fortemente negativo non solo sulla prescrizione ma su altri 3 o 4 punti giudicati “critici”. Il parere sulla Cartabia è stato quindi inserito nell’odg aggiunto del plenum di domani. Ieri, infine, si è sbloccata la situazione nella commissione Giustizia in merito alla richiesta di Fi di aggiungere l’abuso d’ufficio, che riguarda non il diritto penale ma quello sostanziale, agli emendamenti. Il presidente Fico ha confermato l’inammissibilità degli emendamenti decisa dal presidente della commissione Perantoni proprio perché esterni al perimetro in discussione. Fi ha chiesto di conseguenza di votare l’ampliamento del perimetro, ma la proposta è stata respinta con 25 voti contro 19. Si è schierato contro la richiesta azzurra anche il gruppo di Toti, sul quale aveva probabilmente esercitato qualche pressione anche palazzo Chigi, e la deputata Giusi Bartolozzi, dopo aver votato in dissenso, è passata dal gruppo di Fi al Misto. Hanno sfiorato il colpaccio gli ex 5S di Alternativa c’è, che volevano allargare il perimetro all’intero processo penale allo scopo dichiarato di bloccare “la controriforma”. Non ce l’hanno fatta per appena 2 voti: 23 contro 21. Riforma della giustizia, fallisce il blitz dei forzisti per l’ultimo salva-Silvio di Liana Milella La Repubblica, 28 luglio 2021 Il capogruppo in commissione Giustizia Zanettin presenta un emendamento che avrebbe potuto aiutare il Cavaliere nel processo Rubyter. Ma viene bocciato. La deputata azzurra aveva annuncato il suo no ed era stata trasferita alla Affari Costituzionali. Lascia il gruppo e passa al Misto. Sembrava archiviata per sempre la stagione delle leggi ad personam per Silvio Berlusconi. Per salvarlo dai suoi processi. Stagione chiusa con la fine della sua vita da premier. E invece eccola rispuntare adesso quando lui è tuttora leader di Forza Italia e gli incombono addosso i dibattimenti del Rubyter. Sorpresa, certo. Tant’è che per quasi una settimana nessuno si accorge che siamo di nuovo daccapo. Forse per colpa di quella montagna di emendamenti - ben 1.631 - che grava sulla riforma del processo penale. Perché è lì che si cela la proposta malandrina. A firmarla è Pierantonio Zanettin, il capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia, ex membro laico del Csm, ma anche genero del noto avvocato Franco Coppi avendone sposato la figlia. E Coppi è pure l’avvocato di Berlusconi. Zanettin firma i tre emendamenti che non solo mandano in pezzi la maggioranza, ma costringono Forza Italia a una reprimenda senza appello nei confronti di Giusi Bartolozzi, toga prestata alla politica, per tre anni deputata battagliera sulla giustizia in linea con il suo partito. E ieri, nel giro di una mezz’ora, cacciata via perché si è permessa di dire che non avrebbe votato a favore della norma. Già, la norma. La parola chiave è “specifici poteri”. Si gioca tutta su queste due parole la norma ad personam che avrebbe potuto cambiare, se fosse passata, la storia dei processi di Berlusconi per corruzione in atti giudiziari. Quelli “figli” del processo Ruby. Tre processi in corso tra Milano, Siena e Roma. Nei quali i testimoni, cioè le famose ragazze delle feste di Arcore che sarebbero state pagate per cambiare la versione dei fatti, rivestono la qualifica di “pubblici ufficiali” in quanto sono dei testi. Se - per legge - cambiano le attribuzioni per queste figure, allora cambia anche il destino del processo. E se entra in vigore nel codice una norma più favorevole rispetto a quelle esistenti, per legge entra in vigore subito. I tre emendamenti - alle pagine 157, 158 e 163 del fascicolo sulla riforma penale - riguardano, il primo, l’abuso d’ufficio, ridotto a reato da tenuità del fatto per liberare i sindaci dalla cosiddetta “paura della firma”, difficoltà segnalata anche da Draghi. Ma poi ci sono le altre due proposte. Riguardano le figure dell’incaricato di pubblico servizio e del pubblico ufficiale, cioè le figure chiave per tutti i reati di corruzione. La norma Zanettin prevede un netto ridimensionamento. Perché negli emendamenti è scritto che “sono pubblici ufficiali coloro i quali esercitano specifici poteri conferiti dalla legge esplicando una funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa”. Attenzione alla parola “specifici poteri”. Laddove il testo in vigore dice che “sono pubblici ufficiali coloro che esercitano una funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa”. La modifica riguarda sia il pubblico ufficiale che l’incaricato di pubblico servizio. La riduzione del “perimetro” è evidente. Una modifica che cambia la storia dei processi in cui i testimoni, come nel caso dei dibattimenti di Berlusconi, rivestono la qualifica di pubblico ufficiale proprio in quanto testimoni, e non per uno “specifico potere” conferito dalla legge. Il cambio mette in crisi anche il reato contestato, la corruzione in atti giudiziari, che potrebbe trasformarsi in un reato minore come l’ostacolo alla giustizia, con pene inferiori e un tempo di prescrizione più ravvicinato. Alla procura di Milano, quando leggono l’emendamento, restano basiti. Il tam tam sugli emendamenti di Zanettin esplode quando lui insiste per votarli. Nei corridoi della Camera si raccolgono molte indiscrezioni, tra le quali che a spingere sarebbe stato anche Gianni Letta. E che la sua voce sarebbe giunta fino a palazzo Chigi. I vertici del gruppo reagiscono imbizzarriti quando la deputata Bartolozzi fa sapere che lei non voterà l’emendamento. Dopo un’ora scopre, dal suo cellulare, che è stata convocata per la prossima riunione della commissione Affari costituzionali. Di cui non fa parte. Si sorprende. È accaduto che, a sua insaputa, Bartolozzi è stata mandata via dalla Giustizia con il contentino di nominarla capogruppo. Lei non ci sta e sbatte la porta di Forza Italia. Va nel gruppo Misto. Ma Forza Italia, 25 a 19, perde lo stesso la battaglia del salva-Berlusconi. I vantaggi, oltre le parole. Il dibattito sulla riforma della giustizia di Luciano Violante La Repubblica, 28 luglio 2021 La polemica sulla riforma del processo penale si è incentrata sulla prescrizione e, in particolare, sulla durata dei processi in appello, per i quali appare insufficiente il termine di due anni previsto dal progetto. È opportuno abbandonare i toni esasperati e guardare tanto ai dati quanto alle norme, sapendo che tutto può essere migliorato, ma in un clima fondato sulla verità. Le prestazioni degli uffici giudiziari non sono omogenee sul territorio. I dati più attendibili sono quelli del 2020, l’anno antecedente alla pandemia. Nel 2020 si sono prescritti in complesso 85.000 processi mentre nel 2011 se ne erano prescritti 120.000. Nelle sole Corti d’Appello se ne erano prescritti 28.000 nel 2017 e se ne sono prescritti 21.000 nel 2020. La riduzione è frutto di un impegno di magistrati e cancellieri che va giustamente riconosciuto; tuttavia i numeri restano preoccupanti. Non si può non intervenire. Circa la metà delle prescrizioni in Corte d’Appello si sono verificate a Roma (23%), Napoli (16%) e Bologna (10%). Nelle stesse tre Corti d’Appello si concentra il 60% delle pendenze ultra-biennali, rispettivamente 26%, 28%, 8%. Inoltre un processo d’appello a Napoli si esaurisce in 2031 giorni, a Reggio Calabria in 1645 giorni, a Catania in 1247 giorni, a Roma in 1142 giorni. Esempi virtuosi tra le grandi Corti d’Appello sono Milano (335 giorni), e Palermo (445 giorni). Questa rassegna dimostra che molti problemi non dipendono dalle norme, ma da questioni amministrative, che vanno dalla organizzazione degli uffici alla piena funzionalità degli organici. Sarebbe forse opportuno prevedere un differimento dell’entrata in vigore di questa parte della riforma per individuare, soprattutto nelle sedi in crisi, specifiche esigenze e nuove modalità organizzative. L’articolo 15bis della riforma prevede la istituzione, con decreto del Ministro, di un Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio della efficienza della giustizia penale, dotato di strumenti adeguati a svolgere le sue funzioni. La veste legislativa conferirebbe più autorevolezza. Ma, se non erro, non è necessaria una legge; potrebbe essere sufficiente un decreto del Ministro per far entrare rapidamente in funzione questo organismo, individuare le principali cause dei ritardi, proporre i rimedi più efficaci. Del Comitato dovrebbero far parte non solo magistrati, professori e avvocati, ma anche funzionari delle cancellerie e delle segreterie che conoscono meglio di altri le “viscere” della macchina giudiziaria. La concentrazione del dibattito sulla prescrizione ha fatto passare in secondo piano le norme che ridurranno il carico di lavoro e consentiranno una maggiore speditezza. La nuova disciplina delle notificazioni eviterà molte delle attuali lungaggini e la riforma del processo in assenza, si tratta di molte migliaia di casi, permetterà di non lasciare eternamente sospesi questi processi, senza pregiudicare i diritti dell’imputato. Le norme in materia di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, sulla celere definizione dei processi di appello, sull’aumento dei casi di perseguibilità a querela permetteranno di concentrare la macchina giudiziaria sui reati di maggior allarme sociale, mafia, terrorismo e corruzione. Forse le stesse norme sulla prescrizione non sono state valutate attentamente: non si è tenuto conto, ad esempio, dei numerosi casi di sospensione del decorso della prescrizione, né della proroga dei termini massimi sino ad un anno, con ordinanza del giudice, per il caso di procedimenti complessi per reati gravi. Non a caso il capo dello Stato aveva chiesto al Csm di valutare l’intera proposta e non solo l’articolo sulla prescrizione. Questa riforma non è solo un banco di prova per il governo. Lo è anche per la magistratura le cui capacità di decisione sono fortemente valorizzate. La magistratura deve scegliere. Può arroccarsi a difesa dell’esistente, ascoltando le suggestioni di chi vuole utilizzarla come testa d’ariete contro il governo. Oppure può utilizzare le sue straordinarie competenze per essere parte attiva e costruttiva del processo di riforma. La seconda strada la aiuterebbe a superare le imbarazzanti diatribe interne e a ricostruire un rapporto di fiducia con i cittadini. La riforma della prescrizione e le aspettative irrealistiche di Cartabia di Giacomo Costa Il Domani, 28 luglio 2021 Con la legge numero 3 del 9 febbraio 2019, il governo Conte I ha introdotto il blocco della prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado. Un provvedimento che poteva forse bastare a sé stesso, in quanto una delle cause della lunghezza dei processi, rimproverataci da lungo tempo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, è l’affollamento dei processi di appello e cassazione, che non ha pari in alcuno altro paese dell’Unione europea. Un fenomeno, questo, dovuto proprio al tentativo, che spesso riesce, di arrivare alla prescrizione. La riforma Bonafede - È facile constatare che nell’assetto legislativo precedente alla legge del 2019 conveniva sempre agli imputati inoltrarsi nei gradi di giudizio. Di qui l’affollamento. Tuttavia il ministro Alfonso Bonafede ha deciso di attaccare anche le altre cause e il 13 marzo 2020 ha promosso un disegno di legge delega per “assicurare la celere definizione dei giudizi di impugnazione” (in appello e cassazione), che alcuni hanno ritenuto una condizione necessaria per impedire che il blocco della prescrizione causasse un indefinito allungamento, invece che un’abbreviazione, dei processi. A tutt’oggi tale disegno di legge giace impantanato in commissione Giustizia alla Camera. La “riforma Cartabia” assume la forma di una raffica di emendamenti a tale disegno di legge. Il suo scopo principale è di abrogare la legge del 9 febbraio 2019, ossia, di reintrodurre, cambiandole nome, la prescrizione, in una forma piuttosto drastica: dei termini di massima durata per i giudizi di appello e cassazione, oltrepassati i quali il procedimento si estingue senza alcun esito. Questo può sembrare mettere il carro davanti ai buoi: prima si affrontano le cause, poi si vedranno gli effetti. Ma in un certo senso non lo è. I processi troppo lenti decadono, trascinando con sé nel nulla anche l’esito del processo di primo grado, e chi si è visto si è visto: doloroso, ammettono compunti alcuni, ma necessario. Necessario a cosa? Qui entra in ballo il governo Draghi. Draghi e il suo governo - L’Unione europea è disposta ad assisterci finanziariamente nei nostri tentativi di rendere agibile il sistema giudiziario, sia civile che penale. E per erogare i fondi vuole vedere dei risultati. Per quanto riguarda il penale, vuole una riduzione del 25 per cento nei tempi dei giudizi. È sembrato a molti che contenendo il processo di appello in due anni, e quello in cassazione in un anno, tale abbattimento dei tempi sia possibile. Dunque il tentativo, tutto italiano, di reintrodurre l’amata prescrizione che consentiva a tutti i potenti sonni tranquilli assume una dimensione europea: come non solo la ministra Marta Cartabia ma persino un magistrato serio e rigoroso come Armando Spataro hanno sostenuto, “ce lo chiede l’Europa”. Ma come si può soddisfare l’Europa? In realtà la Commissione non potrà verificare in due o tre anni il raggiungimento dell’obiettivo della riduzione del 25 per cento nella durata media dei processi penali. C’è bisogno di un segnale sostitutivo che indichi la nostra volontà di fare sul serio. Ossia possiamo offrire al posto del risultato l’impegno a conseguirlo. Ma potrà essere costituito dalle gabbie temporali previste dalla Cartabia se sono basate su aspettative irrealistiche sui tempi dei processi e sulla quota di processi che sfumerebbero sotto i nostri occhi? Su questo negli ultimi giorni sono intervenuti dei magistrati seri e altamente competenti, a suggerire dei valori allarmanti e inaccettabili per queste percentuali, di cui Cartabia non offre alcuna stima. Non servirebbe allora la dichiarazione dell’introduzione di queste gabbie temporali solo a renderci ridicoli agli occhi di tutti? La ministra Cartabia ha recentemente ricordato che la prescrizione di un processo era odiosa: più della sua “improcedibilità”? Il fatto è che il carro non può essere lasciato in permanenza davanti ai buoi. C’è un notevole consenso tra gli esperti, studiosi e magistrati, sulle cose da fare, e alcune sono elencate anche da Spataro in un suo articolo del 12 luglio sulla Stampa. In estrema sintesi, vanno rimosse le circostanze che rendono appellarsi una strategia dominante, che conviene cioè in ogni caso: ad esempio la norma secondo cui l’appellante non può ottenere una sentenza più sfavorevole di quella di primo grado. E vanno rese più stringenti le condizioni di appellabilità: ad esempio prevedendo per l’inappellabilità il difetto di specificità argomentativa ma anche la manifesta illogicità. Se questo basterà a frenare la corsa all’improcedibilità, che causerebbe nuova improcedibilità, nessuno può saperlo. Si potrebbe, per dimostrarci seri, presentare all’Ue anche un buon piano di spesa. L’Unione non potrebbe aiutarci a colmare il nostro deficit di organico (di magistrati e personale coadiuvante) perché queste sarebbero spese permanenti inevitabilmente a carico del bilancio dello stato, ma a compiere degli investimenti una tantum nelle strutture informatiche e nelle procedure digitali. Nei giorni passati molti hanno ipotizzato che la ministra Cartabia avesse previsto un regime transitorio e non volesse scoprirsi. Ma sembra che l’ineffabile titolare del ministero della Giustizia non ci avesse pensato affatto. Tuttavia pare che nelle ultime ore anche lei abbia ammesso ciò che il magistrato Luca Testaroli aveva qualche giorno fa espresso così bene: “Una riforma andrebbe fatta in relazione alle risorse che si hanno, non viceversa”. Sarebbe ora disposta ad ammettere un regime transitorio, in modo che possano essere realizzate le condizioni alle quali le sue tagliole non taglino più. La riforma Cartabia non risolve i problemi, anzi è piena di contraddizioni di Paolo Maddalena* Il Fatto Quotidiano, 28 luglio 2021 Il progetto di riforma sulla giustizia, che non piace neppure a chi l’ha redatto (la ministra Marta Cartabia, che si è trovata nella necessità di mettere assieme le più svariate proposte provenienti dai partiti), a mio avviso non risolve affatto i problemi della giustizia, anzi è piena di contraddizioni, di norme incostituzionali e anche di qualche errore di grammatica giuridica. Quanto al noto problema della prescrizione, che il ministro Bonafede vuole che sia senza termine, si dà ragione a quest’ultimo e si prescrive che “il corso della prescrizione cessa definitivamente con la pronuncia della sentenza di primo grado”. Tuttavia, per assicurare tempi certi e ragionevoli al giudizio, si prescrive altresì che la “mancata definizione del giudizio di Appello entro il termine di due anni (dalla sentenza di primo grado), e del giudizio di Cassazione entro il termine di un anno (dalla sentenza di secondo grado), costituiscono cause di improcedibilità dell’azione penale”. Come agevolmente si nota, il principio della non decorrenza dei termini della prescrizione dopo la sentenza di primo grado è assurdamente contraddetto da questa seconda norma che considera “improcedibile” l’azione entro il termine di due anni dalla sentenza di primo grado, se si tratta di Appello, e entro il termine di un anno dalla sentenza di Appello, se si tratta del giudizio di Cassazione. Insomma, prima si afferma e subito dopo si nega. E lo si fa mediante un errore di grammatica giuridica. Infatti, mentre la prescrizione, che è istituto sostanziale che riguarda il reato in sé, non si verifica, l’azione penale, e cioè un istituto processuale, diventa “improcedibile”, se la sentenza di Appello non è emessa entro due anni dalla sentenza di primo grado e se la sentenza di Cassazione non è emessa entro un anno dalla sentenza di Appello. Un obbrobrio giuridico. Ma c’è di più. Chi conosce i carichi della Corte d’appello e ancor più i carichi della Corte di Cassazione sa bene che questi termini non potranno mai essere rispettati. In tal modo, nel pieno rispetto delle teorie berlusconiane, si ottiene il risultato (che si voleva evitare con il blocco dei termini di prescrizione) di farla fare franca a chi ha commesso i delitti più gravi. Proprio un bel risultato! Il provvedimento adottato è comunque, a mio sommesso avviso, contrario all’art. 111 della Costituzione, il quale vuole che “la giurisdizione si attua mediante giusto processo regolato dalla legge”: vuole cioè che il processo si svolga in tempi ragionevoli, ma non vuole assolutamente che “non si attui”. Altro dato inaccettabile è quello che in pratica prelude all’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, prevedendosi in questo disegno che gli Uffici del pubblico ministero individuino “criteri di priorità trasparenti e predeterminati” da indicare “nei progetti organizzativi delle Procure della Repubblica”, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili. Certamente è importante dare precedenza alle notizie di reato concernenti delitti più gravi, sia in se stessi sia per l’allarme sociale che suscitino, ma quello che è impossibile sancire è che restino reati non perseguiti, come si ricava dal riferimento alle limitazioni derivanti dalle scarse risorse disponibili. A questo proposito ha perfettamente ragione il Procuratore della Repubblica di Catanzaro Gratteri, quando dice che la vera riforma risolutiva è una sola: quella di dotare gli uffici giudiziari, i cui ruoli da tempo presentano vuoti inimmaginabili, di più magistrati, più personale addetto e maggiori strumenti meccanici e telematici. Anche questa disposizione mi sembra in contrasto con la Costituzione, e cioè con gli artt. 3 e 101 Cost., stabilendo l’art. 101 Cost. che “la giustizia è amministrata in nome del popolo” e stabilendo l’art., 3 Cost., che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge”. Altro aspetto preoccupante di questa disposizione è il fatto che i criteri di priorità di cui si parla devono essere stabiliti dagli uffici del pubblico ministero “nell’ambito dei criteri generali indicati con legge del Parlamento”. Non può sfuggire che, così facendo, si dà un colpo all’indipendenza della magistratura e si aprono le porte alla possibilità che certi reati commessi da politici non rientrino tra quelli da perseguire. Anche questa parte della riforma presenta, a mio avviso, profili di incostituzionalità per violazione del citato art. 101 della Costituzione, il quale nell’affermare che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge”, ribadisce il principio della separazione dei poteri e esclude che “la legge”, che il magistrato deve applicare, possa poi intervenire nello svolgimento della funzione giurisdizionale. In conclusione, una riforma che può certamente far comodo alle multinazionali, alla finanza e a quanti illecitamente, o mediante le micidiali privatizzazioni, si impossessano del nostro patrimonio pubblico, ma che certamente ha un costo enorme in termini di sicurezza e di attesa di giustizia da parte del popolo italiano. *Vice Presidente Emerito della Corte Costituzionale La riforma ha obiettivi giusti. Ma così la giustizia muore di Francesco Curcio* Il Domani, 28 luglio 2021 Senza modifiche il testo della Cartabia causerà danni non tanto ai magistrati, ma al diritto dei cittadini alla verità giudiziaria. Una soluzione per accorciare i tempi del processo è quella di limitare l’appello solo ai reati più gravi. In questi giorni, fra non poche tensioni e contrapposizioni, si sta affrontando in parlamento la riforma della Giustizia proposta dal ministro Marta Cartabia, che ha lo scopo dichiarato di rendere i tempi della giustizia italiana, finalmente, compatibili con quelli di un paese europeo evoluto. Del resto, è proprio l’Europa a chiedercelo per accedere ai finanziamenti del Recovery fund. Sarebbe un’occasione storica per risolvere un problema incancrenito da decenni, che ci pone agli ultimi posti al mondo, non solo in Europa, nella classifica della efficienza della Giustizia. La legge di riforma governativa, su questa questione, è animata da ottime intenzioni. Si pone degli obbiettivi giusti, da tutti condivisi e cioè concludere gli appelli in due anni ed i ricorsi in cassazione in un anno. Ma ha un limite evidente: non individua un percorso adeguato che consenta di raggiungere gli obbiettivi che si prefigge. Oggi questi tempi, specie i due anni per concludere il giudizio di appello, con la procedura ed i mezzi dati, sono del tutto irrealistici, specie nelle sedi giudiziarie più grandi. E un ulteriore problema che pone la riforma è che, a fronte della previsione di questi tempi serrati, in sé del tutto condivisibili, ma allo stato inattuabili, è prevista, in caso di un loro mancato rispetto, la sanzione della improcedibilità che, in buona sostanza, altro non è che la cancellazione del processo e quindi del reato per decorso del tempo. E tale sanzione si abbatte non - come scioccamente pensa certa corrente di pensiero - sulla magistratura, ma sulla collettività, e sulle vittime dei reati, anche gravissimi, che con la dichiarazione di improcedibilità non avranno giustizia in una percentuale altissima di casi. È mia convinzione, invece, che i problemi si risolvono non con roboanti previsioni programmatiche, ma capendo, in primo luogo, da dove nascono. E allora la prima domanda che dobbiamo porci, è la seguente: qual è la causa della lentezza dei nostri processi? Soltanto dopo avere chiarito ciò, possiamo prevedere i rimedi e le messe a punto. E solo poi, si potranno mettere tutti i “paletti” necessari, fino a prevedere, per i casi patologici, sia la estinzione per improcedibilità dei processi sia - ove necessario - una sanzione per i giudici negligenti e ritardatari. Prevedere termini così rigorosi, senza però modificare i percorsi dei processi, senza velocizzare le regole, eliminando passaggi superflui, significa solo - come è stato osservato - mandare al macero decine di migliaia di procedimenti frustrando il diritto alla giustizia ed alla verità, delle vittime e della collettività. Ragionare sui dati - Ragionando, allora, sui dati, senza pregiudizi, risulta che il problema della lentezza dei processi non risiede né nella scarsa produttività di giudici italiani - che sulla base delle statistiche europee sono, mediamente, fra quelli che emettono più sentenze - né nello scarso di numero di magistrati (che in Italia, sono perfettamente nella media europea, Germania a parte). Dunque ciò che frena il nostro sistema è altro: cioè il percorso processuale, evidentemente troppo rigido, lungo e tortuoso, per arrivare ad una sentenza definitiva. Dobbiamo allora confrontare queste nostre regole processuale con quelle vigenti negli altri paesi europei, tenendo conto altresì della Costituzione e degli accordi internazionali a cui ci siamo vincolati, per verificare dove si annidano le nostre anomalie e quindi lentezze processuali. Limiterò le mie osservazioni a due aspetti del processo che ritengo essenziali per la sua velocizzazione. E si badi, parlo di riforme a costo zero in quanto non necessitano di alcun intervento sulla macchina giudiziaria, né sui mezzi e sui fondi a sua disposizione. Il primo aspetto riguarda i processi in primo grado: per recuperare efficienza, sarebbe di enorme giovamento eliminare la regola oggi vigente in base alla quale, basta che un giudice del tribunale cambi durante il processo (a causa di un trasferimento, di una maternità, di una malattia) che questo deve ricominciare daccapo. Lascio al buon senso di tutti la valutazione di questa regola, che appare la quintessenza del nostro autolesionismo istituzionale, segnalando, tuttavia, che decine di migliaia di processi si sono dovuti ripetere più volte per questa ragione ed evidenziando altresì che neanche la Corte Costituzionale ritiene tale regola vigente indispensabile e necessaria. Il secondo aspetto riguarda i giudizi di appello: è questo il vero nodo della questione giustizia italiana. Non a caso è proprio in appello che si verificano la maggiore parte delle prescrizioni dovute alla “lentezza” del processo. Il motivo è presto detto: il nostro sistema prevede una possibilità sostanzialmente illimitata di appello ed altrettanto illimitata di ricorso in cassazione. Dunque in Italia abbiamo tre gradi di giudizio per tutto, per qualsiasi reato: dall’omicidio alla corruzione, fino al piccolo abuso edilizio. E tutti i condannati, giustamente, per qualsiasi reato anche di minimo rilievo, fanno prima appello e poi ricorso in Cassazione, sperando di procrastinare i tempi o di lucrare una prescrizione. Questo meccanismo ha determinato, ad esempio, che presso le Corti appello di Roma e Napoli pendano attualmente oltre 55.000 procedimenti ciascuna. In ciascuna di queste Corti lavorano al settore penale un numero significativo di Magistrati, intorno ai 60/65. Attualmente di media ognuno di questi Magistrati produce circa 250 sentenze all’anno. Quindi, moltissime. Tuttavia per eliminare l’arretrato e stare al passo con i processi sopravvenuti, ciascun magistrato di queste Corti dovrebbe decidere (e scrivere) circa 900 sentenze all’anno. E siccome questo è semplicemente impossibile, con la nuova regola cartabiana della improcedibilità, si determinerà certamente la morte di decine di migliaia di processi, non essendo possibile chiudere in due anni tutti i procedimenti pendenti e quelli che via via, con le attuali regole, affluiranno presso le corti di appello. E così per garantire tutti, anche chi non ne ha bisogno, finiamo con il non garantire nessuno. Usare la Costituzione - Sul punto è da dire, in primo luogo che la nostra Costituzione non prevede tre gradi di giudizio come “obbligatori”, ma solo due: primo grado e Cassazione. Quanto agli accordi internazionali da noi sottoscritti, quello pertinente al nostro caso è l’art 2 del 7° protocollo aggiuntivo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che, non solo, prevede come necessari solo due gradi di giudizio, ma, espressamente, prevede che per i reati meno gravi non sia obbligatorio neanche il secondo grado di giudizio. Ebbene da noi, pur mantenendo per i casi “seri” non due, come pure prevede la Convenzione e come prevede la Costituzione, ma ben tre gradi di giudizio, per risolvere il problema della lunghezza esasperante dei processi sarebbe sufficiente seguire le regole non di uno Stato forcaiolo o autoritario, ma quelle della Convenzione Europea detta a tutela dell’imputato, che consente di eliminare l’appello per tutti i reati di minore gravità (che sono proprio quelli che ingolfano le nostre Corti). Rimanendo a tutela del condannato, comunque, l’impugnazione della sentenza in Cassazione. Ciò consentirebbe al nostro sistema di recuperare l’efficienza che gli consentirebbe di metabolizzare senza danni anche la regola della improcedibilità. Gli appelli così sarebbero più che dimezzati e, comunque, di un numero tale da consentire una trattazione di tutti i casi di rilievo in tempi accettabili. Sicuramente in due anni. Ed è agevole, poi, redigere un elenco di tali reati “meno gravi” - che non richiedono la celebrazione dell’appello - potendo questo elenco coincidere con tutti i reati puniti con pena non superiore a 4 anni, per i quali lo stesso legislatore, considerandoli tali, ha previsto, come sanzione, misure alternative alla pena detentiva o addirittura la loro estinzione con messa alla prova. Esempio Norvegia - Concludo con un esempio che sicuramente sarà apprezzato dalla nostra ministra della Giustizia, che giustamente porta ad esempio i paesi garantisti che praticano un diritto penale “mite”. Tutto ciò ci porterebbe a un sistema di appelli e ricorsi perfettamente in linea con gli standard europei, lasciando finalmente in soffitta meccanismi obsoleti e farraginosi. Pochi mesi fa mi trovavo a parlare delle lentezze del nostro sistema processuale con un collega, procuratore della città di Bergen in Norvegia: sentendo quello che gli spiegavo sul nostro sistema delle impugnazioni delle sentenze, rimase sconcertato. Mi spiegò che da loro, in Norvegia - e cioè in uno dei paesi più civili di Europa, con un sistema di garanzie molto più avanzato del nostro - dopo un processo di primo grado che offre all’imputato tutte le garanzie, viene ammesso all’appello una percentuale di processi che oscillava fra il 5 e 10 per cento delle sentenze in primo grado. Possiamo, allora, davvero pensare di potere continuare ad avere un sistema processuale che consentendo una illimitata possibilità di ricorsi, neppure i civilissimi e ricchi norvegesi ritengono sostenibile e praticabile? Penso proprio di no. Ed allora, come diceva Michele Apicella, protagonista di “Bianca” di Nanni Moretti: continuiamo così, facciamoci del male. *Procuratore capo di Potenza Autolesionismi a destra sulla giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 28 luglio 2021 Va riconosciuto che ci voleva dell’impegno, e non poco, per riuscire a trasformare i grillini nei pretoriani involontari di Marta Cartabia. Eppure, a Lega e Forza Italia quest’impresa è riuscita. E così ieri, in commissione, quando il centrodestra di governo ha portato in votazione la richiesta di ampliamento del perimetro della riforma della giustizia per includervi anche la depenalizzazione dell’abuso d’ufficio, è spettato al fronte rossogiallo, insieme a Leu e ai totiani di Coraggio Italia, schierarsi a difesa del disegno della Guardasigilli. E non che non vi fossero buone ragioni, nelle scelte di Forza Italia. Specie nel metodo. Perché, dopo settimane trascorse con l’intero Parlamento a osservare passivo la mediazione tra il governo e il M5s, e con Via Arenula e Palazzo Chigi costretti ad assecondare almeno in parte i capricci delle truppe di Giuseppe Conte su prescrizione e improcedibilità, era fisiologico che anche altri partiti chiedessero un riconoscimento politico, pretendendo l’accoglimento delle proprie proposte. Solo che, a essere pragmatici, la strategia azzurra era scriteriata: perché ampliare il disegno di legge avrebbe consentito al M5s di pretendere un rinvio a settembre della discussione di un provvedimento rispetto al quale il tempo non è una variabile marginale, visti gli impegni presi con l’Ue. E così, su un passaggio che avrebbe dovuto mettere alla prova la tenuta grillina (e su cui in effetti ancora si cerca una soluzione che segni la fine della gazzarra a cinque stelle), è stata FI a entrare in subbuglio. Prima i suoi deputati hanno tentato di indurre Tajani al ripensamento, piegandosi poi alle volontà del leader con l’animo di chi obbedisce senza convinzione. Poi, di fronte all’ammutinamento di Giusi Bartolozzi (“io questa cosa non la voto”), l’hanno trasferita in commissione Affari costituzionali. E lei ha annunciato per tutta risposta il suo passaggio al Misto. Un capolavoro di tattica. Ma i magistrati devono augurarsi anche il giudizio degli avvocati di Paolo Borgna Avvenire, 28 luglio 2021 L’ipotesi referendaria già in Parlamento come emendamento alla proposta Cartabia “Epensino i magistrati che i migliori e più coscienti giudici della loro capacità, della loro laboriosità, della loro educazione, della loro rettitudine, saranno pur sempre gli avvocati, che li possono seguire, talora inavvertitamente, in tutte le loro manifestazioni, meditate e istintive, essendo queste ultime anche meglio indicative”. Era il 1956 quando Domenico Riccardo Peretti Griva, giudice del vecchio Piemonte ormai in pensione, scriveva queste parole, rivolgendosi a colleghi più giovani di lui, culturalmente cresciuti nel clima corporativo del ventennio, che guardavano con brontolona supponenza verso l’avvocatura, intimamente convinti della “superiorità della propria intelligenza e della propria cultura giuridica”. Sono trascorsi sessantacinque anni, sono molto cambiate le culture e la provenienza sociale dei magistrati di oggi, ma non ne è cambiata la diffidenza verso qualunque giudizio, sulla loro professionalità, esterno alla corporazione. Al contrario, tale diffidenza sembra essersi irrigidita, a seguito di un arroccamento che da quarant’anni ha ormai abituato due generazioni di magistrati a un clima di cittadella assediata, che forse è servito per difendere la propria indipendenza ma non ha consentito di tirare la testa fuori dalle mura circondate e di fare qualche passo avanti. Questo spiega la diffusa (per fortuna, non unanime) contrarietà dei magistrati alla proposta, oggetto di uno dei referendum sulla giustizia promosso dai radicali e appoggiato dalla Lega, ma anche di un emendamento alla proposta Cartabia in discussione in Parlamento, di riconoscere ai membri laici (avvocati e professori universitari) già presenti nei consigli giudiziari il diritto di voto anche sulle deliberazioni che riguardano la valutazione professionale dei magistrati. Sino a oggi, infatti, tali membri ‘laici’ possono votare soltanto su questioni di natura organizzativa. L’estensione proposta immetterebbe dunque pienamente avvocati e professori nel cosiddetto ‘autogoverno locale’ della magistratura, redendolo un po’ meno asfittico e autoreferenziale. È una proposta minima e nient’affatto nuova. La presenza a pieno titolo di ‘laici’ (non solo avvocati ma anche membri eletti dai Consigli provinciali o regionali) è una vecchia proposta della sinistra. Che fu formalizzata la prima volta in un progetto di legge del 1965 (primo firmatario Vittorio Martuscelli, magistrato eletto alla Camera nelle fila del Psi); e poi ripreso da proposte di Magistratura democratica e, nel 1980, dal professore Vittorio Grevi. Ad un certo punto, questa proposta viene abbandonata e sempre più spesso osteggiata come un rischio per l’indipendenza dei magistrati. Perché, si dice, è pericoloso affidare la valutazione di professionalità di un magistrato a un avvocato a cui magari il giorno prima quel magistrato ha dato torto in un processo. È un’obiezione che prova troppo. Non solo perché gli avvocati nei consigli giudiziari sono, comunque, una minoranza. E dunque, se uno di loro portasse in quel consesso un atteggiamento di inimicizia verso un singolo magistrato, sarebbe facilmente battuto. Ma anche perché questo rischio esiste, in misura uguale, per i pubblici ministeri che, eletti in un consiglio giudiziario, da sempre esprimono voti e pareri sui giudici dello stesso distretto. Perché non dovrebbe esistere il rischio che un pm in un consiglio giudiziario possa esprimere un parere negativo sul giudice che in un processo importante non ha accolto il suo impianto accusatorio? Siamo sinceri: chi non vede questo rischio e parla invece soltanto del pericolo all’indipendenza di cui gli avvocati sarebbero portatori pensa che giudici e pubblici ministeri non siano capaci (a differenza degli avvocati) di queste misere ripicche in quanto i magistrati sono moralmente superiori. Ancora una volta, come denunciava Calamandrei, certi magistrati rischiano di farsi accecare da “una specie di albagia professionale, la quale si rifiuta di credere che possano esservi avvocati pronti a servir la giustizia per solo amore di essa e non per cupidigia di guadagno”. A questi magistrati bisognerebbe ricordare l’invettiva di Dante su Firenze: l’orgoglio di sé può essere causa della propria decadenza. O più prosaicamente bisognerebbe ogni tanto rileggere una chat estrapolata dallo smartphone di Luca Palamara. È il 17 ottobre 2017. Un pm di Milano, membro del direttivo dell’Associazione nazionale magistrati, conversa con Palamara (pm eletto al Csm) e, parlando di una certa collega giudice, dice: “Se riuscite a fottere la *** sarebbe un bel colpo”. Bisognerebbe, ogni tanto, rileggersi questa prosa: per capire dove alberga, oggi, il pericolo per l’indipendenza della magistratura. Tagliare le leggi inutili: ecco la vera riforma che serve alla giustizia di Paolo Itri Il Riformista, 28 luglio 2021 Secondo il Poligrafico dello Stato, gli atti normativi pubblicati in Gazzetta Ufficiale sono circa 111mila (il dato è ampiamente sottostimato, in quanto non tiene conto delle legislazioni regionali). La bulimia del legislatore si traduce in una enorme quantità di leggi e spesso queste leggi, proprio perché così numerose e complicate, entrano in contraddizione con altre leggi e con altre norme, fino a creare un coacervo inestricabile anche per i più esperti giuristi. A volte leggere o interpretare un testo di legge è un’opera faticosissima. Non vi è comma o articolo di legge che non rinvii a un diverso comma di un altro articolo di una ulteriore legge e così via, fino a quando, a forza di rinvii su rinvii, non si finisce per dimenticare da dove si è iniziato e che cosa si stesse cercando. Il risultato è che spesso il significato di una norma è talmente criptico da risultare incomprensibile anche agli addetti ai lavori. Bizantinismi di ogni genere e incertezze interpretative finiscono per alimentare la libidine di burocrati e azzeccagarbugli, con grave danno per la certezza del diritto e la prevedibilità delle sentenze. La complessità della macchina burocratica nel nostro Paese è tale da non poter essere affrontata con un unico intervento riformatore, poiché riformare la giustizia in Italia significa dover affrontare complesse questioni normative, ma prima di tutto culturali, sociali e finanche psicologiche. La prima domanda che ci si dovrebbe pertanto porre è la seguente: ma siamo proprio certi che tutte queste leggi siano veramente utili e necessarie? Partiamo da un dato di fondo. Secondo i dati Istat, dal 1992 al 2020 gli indennizzati per ingiusta detenzione sono stati circa 30mila, con una spesa a carico del contribuente pari a 870 milioni di euro. La media annua dei risarcimenti liquidati supera i 27 milioni di euro, anche se nel solo 2020 ne sono stati spesi quasi 37 (record assoluto). Ma quali sono le cause di una situazione così grave? E perché la politica - che pure in tutti questi anni non ha mai esitato a intervenire a gamba tesa sul processo penale ogni qualvolta se ne è presentato il pretesto - non vuole o non è in grado di risolvere il problema? Lo spiega bene per noi uno dei più grandi scrittori del Novecento, Franz Kafka, nel suo capolavoro Il Processo, scritto tra il 1914 e il 1915, attraverso l’angosciante storia del protagonista, Joseph K. Quest’ultimo è un impiegato bancario che, trovatosi coinvolto in un processo per quello che si illude sia un semplice malinteso, tenta inizialmente di affrontare il problema con la logica del buon senso e il sano pragmatismo che gli derivano dal suo lavoro. Ben presto, però, si troverà ad affrontare una macchina processuale infernale, i cui insondabili e oscuri meccanismi finiranno per travolgerlo fino alla morte. Ecco allora che la burocrazia, l’ipertrofia normativa e il panpenalismo - in una parola, la mancanza di regole semplici, trasparenti e comprensibili - diventano uno strumento di potere in mano alle classi dominanti e ai “sacerdoti” del diritto. Non sarà un caso se, in tempi di pandemia e dpcm - in un’epoca cioè in cui l’Autorità sanitaria avverte particolarmente la necessità di disciplinare ogni più minuto aspetto della vita quotidiana dell’individuo -, si sia osservata una particolare propensione del legislatore (o di chi per esso) a emanare norme “per elenchi” di condotte, laddove la pretesa di imporre ai cittadini finanche il colore dei calzini da indossare non ha prodotto che ulteriori incertezze interpretative e ancor minore chiarezza. Più o meno lo stesso fenomeno che è alla base della “paura della firma” che assale il pubblico ufficiale quando, al momento di siglare un atto del suo ufficio, cerca di districarsi tra ingarbugliati coacervi di norme, alla ricerca dell’interpretazione più corretta e meno foriera di indesiderate complicanze giudiziarie. La Cedu bacchetta l’Italia: “abuso di intercettazioni e perquisizioni per Contrada” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 luglio 2021 La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha bacchettato il governo italiano per l’utilizzo sproporzionato delle intercettazioni e perquisizioni nei confronti dell’ex 007 Bruno Contrada, nonostante non fosse indagato. Una comunicazione, da parte della Cedu, giunta in merito al ricorso presentato nel 2019 da Contrada, assistito dagli avvocati Stefano Giordano e Marina Silvia Mori. Il ricorso trae origine dalle plurime perquisizioni e intercettazioni poste in essere dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria e dalla Procura Generale di Palermo nei confronti di Contrada a partire dal 2017, senza peraltro che egli fosse formalmente sottoposto a indagini preliminari. La Corte Europea ha chiesto al governo italiano di fornire risposta ad alcuni specifici quesiti, riguardanti la chiarezza e la precisione della legge italiana in materia di perquisizioni e intercettazioni; la necessità e la proporzionalità delle attività investigative svolte nel caso concreto; nonché la sussistenza nell’ordinamento interno di strumenti processuali idonei a contestare quelle attività. “Per la prima volta - dichiara l’avvocato. Stefano Giordano - la Corte Europea punta il dito contro quello che - non a torto - è stato definito come abuso delle intercettazioni e degli “atti a sorpresa” da parte dell’Autorità giudiziaria”. L’avvocato Giordano, sottolinea che nel nostro ordinamento, infatti, visto il sistema legislativo assolutamente lacunoso, chiunque può essere sottoposto a intercettazioni e a perquisizioni, anche se non è mai stato lontanamente sospettato di avere commesso un reato. “Ci auguriamo pertanto che la Corte, ultimo presidio di legalità internazionale, possa contribuire ad aprire una pagina nuova su alcuni istituti che, così come di fatto applicati dall’Autorità giudiziaria, rappresentano la forma più inquietante dell’autoritarismo statale”, spiega sempre l’avvocato Giordano. Nello stesso tempo, ci tiene a sottolineare che questa battaglia “non è solo a tutela di Contrada, uomo di Stato che ha subìto pesanti vessazioni da parte di quello stesso Stato che ha servito; ma è a tutela della legalità e delle libertà individuali di tutti”. Ricordiamo che tre sono state le perquisizioni effettuate nel giro di breve tempo a Bruno Contrada. L’ultima, risolta con l’ennesimo nulla di fatto, risale al 29 giugno del 2018. Documenti sequestrati? Un album fotografico con foto della Polizia di Stato, alcuni atti processuali pubblici, degli appunti per una bozza di lettera da inviare al magistrato Nino Di Matteo per alcuni chiarimenti. La perquisizione era stata disposta dalla Procura generale di Palermo. Le altre due precedenti, avvenute nel giro di pochi giorni, erano state disposte dalla Procura antimafia di Reggio Calabria nel quadro di indagini su fatti di mafia e di ‘ ndrangheta risalenti agli anni Novanta. In particolare, su un presunto rapporto di Contrada con Giovanni Aiello, risalente a circa 40 anni fa, quando dirigeva la squadra Mobile di Palermo, dal 1973 al 1976. Un rapporto, di fatto, mai dimostrato. L’ex agente Giovanni Aiello, meglio conosciuto come “faccia da mostro” è morto di crepacuore qualche anno fa, era considerato una sorta di “anima nera” che, a parere dei magistrati - o meglio secondo un teorema però rimasto senza prove - sarebbe stato dietro a ogni strage di mafia degli ultimi decenni. Eppure non è mai stato inquisito, ogni indagine è stata puntualmente archiviata. Ma “faccia da mostro” rimane. Guai a dire il contrario nonostante l’evidenza delle indagini, altrimenti si viene tacciati di “depistaggio”. Uno Stato di Diritto calpestato. Il decreto della Procura generale di Palermo - titolari il Pg Roberto Scarpinato e i sostituti Domenico Gozzo e Umberto De Giglio - aveva disposto la perquisizione non solo della attuale abitazione di Contrada, ma anche di altri due immobili, perché - scriveva la Procura - “esiste fondato motivo di ritenere, sempre sulla base di elementi acquisiti in questo procedimento, che Contrada abbia ancora la disponibilità di documenti”. L’ordinanza è legata all’indagine - i pm palermitani avevano chiesto l’archiviazione, respinta dal gip, e subito dopo la procura generale di Palermo aveva avocato l’inchiesta - relativa al duplice omicidio dell’agente Nino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, conclusasi con una recente sentenza di condanna all’ergastolo nei confronti del boss Nino Madonia. “Contrada - aveva denunciato l’avvocato Giordano - continua a essere periodicamente sottoposto ad atti invasivi della sua vita personale e del suo domicilio (perquisizioni, intercettazioni), senza che a suo carico risulti essere pendente alcun procedimento penale”. Per questo motivo è stato introdotto un nuovo ricorso avanti la Cedu per denunciare l’illegittimità sul piano convenzionale di una normativa (come quella italiana) che consente alla Pubblica Autorità di sottoporre indiscriminatamente ad atti invasivi della vita personale e del domicilio (quali perquisizioni, sequestri e intercettazioni) soggetti che non siano parte (né in veste di indagato, né in quella di persona offesa) di un procedimento penale e che si trovano per di più privati, in tal modo, delle garanzie che le norme interne e convenzionali pongono a tutela di chi sia formalmente accusato di un reato. Ricorso accolto e ora la Cedu ha chiesto spiegazioni al governo attraverso diversi quesiti. Lombardia. Borse lavoro e corsi per i detenuti in campo contro il Covid La Repubblica, 28 luglio 2021 Dal Consiglio regionale un riconoscimento ai tanti impegnati nelle infermerie dei penitenziari durante l’emergenza. Nei mesi più bui dell’emergenza Covid anche i detenuti spesso si sono arruolati nell’esercito di chi era impegnato in prima linea per combattere quella lunga guerra silenziosa contro il virus. In tanti hanno lavorato nelle infermerie delle carceri lombarde. Un impegno che oggi il Consiglio regionale riconosce: l’aula del Pirellone ha approvato lo stanziamento di 48 borse lavoro dedicate a loro. Il Covid ha portato la Lombardia in trincea, e quello era un fronte che non distingueva il dentro e il fuori, le carceri sono state in pericolo e solo di recente è stato raggiunto il traguardo dei contagi zero in tutti i penitenziari della regione. Da qui l’idea di dare un riconoscimento anche all’impegno di chi si è speso per assistere i malati, ma anche di farlo diventare un’opportunità di formazione. Il Consiglio regionale infatti ha approvato ieri, durante una sessione della maratona sul bilancio, una proposta di Più Europa/Radicali a firma Michele Usuelli. Un emendamento e un ordine del giorno prevedono l’accesso a corsi gratuiti per avere la qualifica di operatore sociosanitario (Oss) o di ausiliario socioassistenziale (Asa) per i detenuti meritevoli che nelle infermerie hanno sviluppato spesso competenze di buon livello, a parere dei medici penitenziari. Il testo approvato prevede uno stanziamento di 120mila euro per finanziare la formazione professionale necessaria ai detenuti per conseguire le due qualifiche professionali oggi molto ricercate nel mercato del lavoro. Per le 19 carceri lombarde, sono state stanziate 48 borse lavoro, 24 per Oss e 24 per Asa. Non l’unica novità che arriva dalla maratona in aula sul bilancio regionale. Sempre in ambito carcerario, è stato approvato un ordine del giorno Lega/+Europa Radicali per iniziative che vogliono migliorare la qualità di vita degli ospiti e la condizione lavorativa del personale sociosanitario all’interno di quelli che un tempo si chiamavano manicomi criminali e oggi sono diventati Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. In Lombardia l’unica struttura di questo tipo si trova a Castiglione delle Stiviere. Accanto a tanto buon lavoro svolto, si riscontrano alcune criticità come le liste d’attesa molto lunghe, personale medico composto soltanto da psichiatri, spazi non adeguati, visite dei familiari possibili solo di un’ora alla settimana. L’ordine del giorno ha quindi impegnato la giunta a confrontarsi con il governo sulle norme che regolano il sistema delle Rems e ad avviare interventi, anche sperimentali, per arrivare a superare queste criticità. Infine, ancora sul fronte Covid, il Consiglio ha approvato un ordine del giorno che chiede di riaprire le discoteche, impegnando la giunta a stipulare un accordo con governo e Cts per l’organizzazione di “eventi trial sperimentali”. Con il tracciamento per studiare nei seguenti 15 giorni se l’evento abbia sviluppato o meno focolai di contagio. Prove di spirito bipartisan anche al Pirellone. E “siamo soddisfatti del lavoro complessivo svolto insieme alla maggioranza e alla giunta”, ha dichiarato Usuelli. “In particolare per la prima volta ci è capitato di interfacciarci con gli assessori Rizzoli e Guidesi, ricevendo attenzione e ascolto. Ho pertanto ritenuto, pur rimanendo fermamente all’opposizione, di voler dare un segnale di riconoscimento per questo lavoro sulle cose concrete votando l’astensione all’assestamento di Bilancio”. Emilia Romagna. Altri due bimbi detenuti con le mamme nelle carceri regionali cronacabianca.eu, 28 luglio 2021 Appello Garavini-Marighelli: applicare normativa in materia. La legge 62 del 21 aprile 2011 prevede l’istituzione di case famiglia protette, per evitare del tutto l’ingresso dei bambini in carcere. Nei giorni scorsi sono entrati in un istituto penitenziario della nostra regione due bambini di 7 e di 17 mesi con le loro mamme: una per scontare una pena di venti giorni, l’altra per un provvedimento di custodia cautelare. “Si continua ad assumere decisioni e a valutare situazioni senza tenere ben presenti le esigenze specifiche dei bambini connesse alla loro crescita, i diritti sanciti da norme internazionali e nazionali, in particolare l’interesse superiore del fanciullo che, come indicato dall’articolo 3 della Convenzione Onu, deve orientare tutte le scelte relative alle persone di minore età”, hanno rimarcato i una nota la Garante per l’infanzia e l’adolescenza, Clede Maria Garavini, il Garante dei detenuti, Marcello Marighelli. “Anche nelle carceri della nostra regione- specificano poi i due garanti- alcuni bambini continuano a essere presenti e trascorrono periodi più o meno lunghi, assieme alle loro mamme, in spazi ristretti, poveri e disfunzionali: limitati nei movimenti, nelle possibilità di sviluppo, a contatto con un mondo adulto, con un’organizzazione e con un sistema di relazioni che non aiutano ad allenare le competenze e a favorire l’evoluzione nei diversi ambiti”. “Il silenzio delle istituzioni preposte a modificare la situazione, l’assenza di azioni concrete e di passi significativi in direzione di quanto, peraltro, indicato dalla normativa in materia (la legge 62 del 21 aprile 2011 prevede l’istituzione di case famiglia protette, per evitare del tutto l’ingresso dei bambini in carcere) ci porta a evidenziare il permanere delle condizioni di forte disagio in cui vivono alcuni bambini della nostra regione. Sollecitiamo, quindi, gli interventi necessari in applicazione, appunto, di quanto già stabilito dall’apposita legislazione”. Così Garavini e Marighelli, che concludono il loro intervento con un appello accorato. Sanremo (Im). Aveva 49 anni, si è tolto la vita in cella di Rossella Grasso Il Riformista, 28 luglio 2021 “Vincenzo morto suicida, ci aveva già provato ma lo hanno lasciato solo”, la denuncia disperata dei fratelli. Vincenzo Sigigliano, originario di Secondigliano, Napoli, aveva 49 anni ed è l’ennesima vittima del carcere. Ha deciso di porre fine alla sua vita impiccandosi ad un lenzuolo attaccato alle grate della sua cella a Sanremo. “Da mesi ci diceva di continuo al telefono ‘non ce la faccio più, non sto bene’. A Sanremo ci stava da 5 mesi e 4 giorni fa aveva già tentato il suicidio. La penitenziaria si è limitata a spostarlo di padiglione e lo ha messo in quello dei ‘sex offender’. Lui era in carcere per truffe, faceva il ‘pacco del sale’. Perché lo avevano messo lì? Ma soprattutto perché quando si è impiccato non era piantonato?”. A denunciare questa situazione sono i fratelli di Vincenzo, Salvatore e Antonio Sigigliano. Vincenzo lascia due figli piccoli, altri tre più grandi e un nipotino appena nato. Aveva una pena breve: 7 anni di cui due già scontati. I due fratelli hanno denunciato l’accaduto ai carabinieri di Secondigliano. “Intendo presentare tale denuncia per eventuali responsabilità penali nei confronti del personale della Penitenziaria effettivo nella casa di reclusione di Sanremo per i fatti che L’Autorità giudiziaria competente intenderà ravvisare in merito - recita la denuncia sporta da Salvatore - Ho il fondato motivo di ritenere che lo stesso non sia stato piantonato da terze persone per scongiurare il terribile evento”. “Lo stesso nel corso di colloqui telefonici avvenuti negli ultimi giorni con i nostri familiari manifestava un grande senso di insofferenza ripetendoci spesso la frase ‘non ce la faccio più’ non sto bene’. Oltre al fatto che lo stesso presumibilmente ha tentato il suicidio già altre volte negli ultimi giorni, appare a mio avviso impossibile che il personale preposto alla sua vigilanza non abbia predisposto un servizio di osservazione nei confronti di Vincenzo per evitare il suo suicidio - continua la denuncia - Inoltre trovo assurdo che abbiano recluso mio fratello a 900 km da Napoli non permettendoci di effettuare i colloqui con lui, circostanze che avrebbero sicuramente aiutato la sua situazione psicofisica, e trovo altrettanto grave il fatto che Vincenzo, che era recluso per reati contro il patrimonio era di stanza nel padiglione riservato ai sex offender di quella casa di reclusione”. E chiedono all’Autorità di Imperia di fare luce sulla vicenda. I due fratelli al Riformista raccontano però anche dell’altro, non riportato nella denuncia. “Vincenzo soffriva per questa condanna relativa a reati di 20 anni fa - racconta Salvatore - Fu arrestato in Messico due anni fa e portato a Rebibbia. Durante una visita medica evase. Fu ripreso e da quel momento per lui non c’è stata pace: doveva pagare per quella evasione”. I due fratelli raccontano che è stato trasferito prima a Monza, poi a Opera e infine a Sanremo. “Chiedeva di continuo di essere avvicinato a Napoli per poter rivedere la sua famiglia, soprattutto nostra mamma. Ma niente, veniva solo trasferito in altri carceri - continua Vincenzo - Negli ultimi giorni sarebbe dovuta arrivare anche l’istanza di trasferimento a Civitavecchia dove è detenuto anche nostro padre. C’era quasi ma non gli hanno detto niente e lui si è suicidato”. “Abbiamo il sospetto che le guardie non lo trattassero bene - continua il racconto Vincenzo - da quando era evaso ci diceva sempre che si sentiva maltrattato. Se lui non stava già bene, tanto che ha tentato il suicidio per cui lo avrebbero trasferito di padiglione, perché non ci hanno chiamato? Perché non lo hanno fatto tranquillizzare dalla sua famiglia? Gli avranno solo dato medicine che lo avranno buttato ancora più giù. A questo si aggiunge che ci ha raccontato che lui chiedeva aiuto alle guardie ma loro non rispondevano”. “Quando è entrato in carcere stava bene, era lucido, mai avuto problemi - dice con rabbia Antonio, l’altro fratello - Poi è andato tutto sempre peggio finché lo hanno spostato nel padiglione dei sex offender dove non sarebbe mai dovuto stare. Questo ha ulteriormente aggravato la sua sofferenza”. Antonio racconta che si trovava in carcere a Opera quando ci sono state le rivolte allo scoppiare della pandemia. “Lui non volle partecipare perché aveva una pena piccola da scontare e non voleva avere altri problemi - continua Vincenzo - e questo gli altri detenuti glielo fecero pagare dandogli filo da torcere. In questa situazione le guardie non hanno mai provato a tutelarlo allontanandolo dagli altri detenuti coinvolti. Addirittura quando lo hanno trasferito in un altro carcere con lui c’era anche uno dei detenuti che lo accusava di non aver partecipato alle rivolte: così avrebbe potuto avvisare anche i nuovi compagni di cella di quello che Vincenzo non aveva voluto fare insieme agli altri”. Fossombrone (Pu). Detenuto di 45 anni si impicca in carcere cronacaflegrea.it, 28 luglio 2021 È stato trovato morto nella sua cella nel carcere di Fossombrone dove era detenuto il puteolano Massimiliano Testa, 45 anni, nativo del Rione Toiano. L’uomo si sarebbe suicidato impiccandosi con un lenzuolo. A ritrovarlo senza vita gli agenti della Polizia penitenziaria. Detto “o sciacallo” Massimiliano Testa era affiliato al clan di Gaetano Beneduce ed era ritenuto uno degli uomini più vicini al boss. Fu arrestato nel 2008 e nel 2010 fu destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere insieme ad altri 81 affiliati ai clan Longobardi e Beneduce nell’ambito dell’operazione “Penelope”. Sono ancora ignote le motivazioni che lo hanno spinto all’estremo gesto. Ferrara. Manca ancora il progetto per il nuovo padiglione del carcere estense.com, 28 luglio 2021 I detenuti sono 331 a fronte di una capienza regolamentare di 244 e una tollerabile di 462. Due nuovi corsi in attivazione a breve - uno di pittura e uno di lavorazione della ceramica - in un contesto di non sovraffollamento e di una struttura Covid-free. Questo è lo stato del carcere di Ferrara, secondo quanto ha raccontato il garante dei detenuti Francesco Cacciola, nel corso di una commissione consiliare richiesta dal Partito Democratico e tenutasi martedì pomeriggio, a seguito sia delle cronache delle ultime settimane (che raccontano di proteste anche violente) che dell’annuncio da parte del ministro della Giustizia Cartabia alla Camera dei Deputati della costruzione di un nuovo padiglione all’Arginone, “per il quale manca però ancora il progetto”, che dovrebbe dare alloggio ad altre 80 persone. “Quanto successo recentemente, con riferimento ai fatti di cronaca, ci preoccupa e rende necessario un momento di riflessione”, spiega Cacciola, che invece sulla questione del padiglione racconta di come “da quanto mi è dato sapere, manca ancora il progetto, anche se qui a Ferrara un nuovo padiglione andrebbe nella misura di deflazione dell’affollamento, anche se ci troviamo in una posizione intermedia: i detenuti sono 331 a fronte di una capienza regolamentare di 244 e una tollerabile di 462”. Sul fronte pandemico, invece, “la vaccinazione ha raggiunto livelli massimi del 90% circa, con 315 detenuti vaccinati, di pari passo con la vaccinazione del personale che si attesta intorno all’80%. A parte qualche caso di positività poi rivelatosi infondato, il carcere di Ferrara è Covid-free e i detenuti hanno risposto in maniera composta”, continua Cacciola. Per quanto riguarda la ‘sua’ struttura (Cacciola, prima di diventare garante dei detenuti è stato per anni direttore della casa circondariale estense, ndr), il virus è praticamente archiviato: “I corsi sono in generale ripresi e sono stati fatti gli esami per l’attività scolastica, i colloqui sono in via generale assicurati: due mensili de visu, più altri quattro in aggiunta via Skype, che diventano due per chi ha reati ostativi. Anche nel lavoro non si è fermato niente, il carcere ha continuato a regime facendo registrare un numero di lavoranti simile a quello pre-pandemico”. Non tutto però scorre senza polemiche, in primo luogo per quanto riguarda la costruzione della nuova ala del carcere, fin qui solamente annunciata, che il Pd spiega non essere il metodo per risolvere il sovraffollamento. “Il progetto ha quasi dieci anni perché all’epoca la politica si oppose. Ci sono stati momenti nei quali i 244 posti della casa circondariale sono stati occupati con oltre 500 presenze: aumentare i posti non vuol dire aumentare i comfort delle persone detenute, perché queste poi aumentano e il problema si ripropone”, dice Colaiacovo - che per quanto riguarda la concessione di permessi premio durante il periodo pandemico, rallentati a causa della pandemia poiché, nelle parole del garante, “al rientro non c’erano abbastanza spazi per la quarantena, era una cosa nota a tutte le autorità e ha provocato il rallentamento di quello che era l’andazzo delle cose così come era sempre stato fatto”. Alle richieste, su questo, dei consiglieri del Colaiacovo e Baraldi è direttamente l’assessore ai servizi sociali Cristina Coletti a rispondere: “C’è stato un bando nel quale le associazioni potevano partecipare a un progetto, previa lettera di sostegno da parte delle amministrazioni. Il dato è che arrivò una sola richiesta di sostegno a un progetto che però l’amministrazione non ha potuto valutare né essere tempestiva, in quanto si trattava di un bando arrivato il venerdì in scadenza il lunedì”. Belluno. “Pochi agenti e ala psichiatrica aperta”. Sciopero in carcere Corriere del Veneto, 28 luglio 2021 Sciopero al carcere di Baldenich. Ad incrociare le braccia, ieri, sono stati gli agenti di polizia penitenziaria, raccolti sotto le sigle sindacali Cisl Fns, Fsa Cnpp, Cgil Fppp, Sappe, Uspp e Osapp. Due le questioni che hanno spinto alla mobilitazione. Ad iniziare dalla mancata chiusura della sezione psichiatrica del carcere, così come previsto da una delibera di Giunta regionale che nel giugno 2019 ne aveva disposto lo spostamento. La sezione, spiegano i sindacati, “è caratterizzata da una forte carenza strutturale e deve anche scontare la mancanza di risorse da parte dell’Usl Dolomiti (in carcere a Belluno, infatti, presta servizio uno psichiatra in libera professione)”. “Tutto ciò proseguono i sindacati - comporta gravi difficoltà nella gestione dei pazienti e consente il verificarsi di numerosi eventi critici che mettono a repentaglio l’incolumità psicofisica del personale di Polizia Penitenziaria, di tutte le figure che operano all’interno della sezione psichiatrica e degli stessi “pazienti detenuti”. L’ultimo spiacevole episodio, capitato qualche settimana fa, è sfociato nell’aggressione ai danni di un medico di continuità assistenziale che ha dovuto ricorrere alle cure del Pronto Soccorso”. C’è poi il tema, annoso, della mancanza di personale. Che per i sindacati non è stata mitigata con le nuove assunzioni, con conseguenti ripercussioni sui turni degli operatori, sempre più massacranti. Solidale il senatore Luca De Carlo, che parla di “protesta fondata”: “Da anni denunciamo una situazione insostenibile ma ad oggi non si è ancora visto niente”. Per ottenere risposte De Carlo ha chiesto di incontrare il nuovo Provveditore delle carceri del Triveneto. Cuneo. Il Garante regionale: “Vanno attivate le serre didattiche interne al carcere” La Stampa, 28 luglio 2021 “Il nuovo Garante dei detenuti di Cuneo, Alberto Valmaggia, si troverà a svolgere un compito delicato in una fase non semplice. I garanti sanno che la tutela dei detenuti e di chi lavora in carcere è sia un precetto costituzionale sia un interesse concreto di tutti i cittadini, consapevoli che anche il carcere è un “servizio pubblico” che deve essere efficiente e trasparente, nei costi e nei risultati”. Lo dice il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, che a Cuneo ha incontrato il nuovo garante cittadino, Valmaggia, nominato da pochi giorni. Ancora Mellano: “Avere come garante un ex sindaco di un capoluogo ed un ex assessore regionale è un ottimo segnale. Inoltre Valmaggia conosce il carcere anche come professore: si era occupato delle serre, che ora devono ritornare a essere usate. La scuola dentro agli istituti penitenziari consente di raggiungere risultati importanti”. Alla Casa circondariale Cerialdo di Cuneo ci sono attualmente 234 detenuti 234, di cui 42 in regime di “41bis”. Gli agenti della polizia penitenziaria sono 160, a cui si aggiungono 32 operatori del Gom (gruppo operativo mobile, si occupa soltanto dei detenuti in 41bis). A inizio agosto i due garanti, cittadino e regionale, effettueranno una visita congiunta al carcere Cerialdo, insieme al direttore Francesco Frontirrè che è a capo anche del carcere di Imperia. Ancona. L’orto del carcere di Barcaglione diventa solidale anconatoday.it, 28 luglio 2021 Consegnata la verdura per le famiglie povere del capoluogo. Prima consegna al Mercato Dorico di Campagna Amica quando la direttrice della struttura carceraria Manuela Ceresani ha incontrato la presidente di Coldiretti Marche, Maria Letizia Gardoni, e l’assessore comunale ai Servizi Sociali, Emma Capogrossi Il reinserimento sociale del detenuto passa anche attraverso qualcosa di tangibile che viene restituito alla comunità. In gergo si chiama “giustizia riparativa” e ad Ancona si traduce ora con le donazioni di cibo e prodotti dell’orto coltivati dai detenuti del carcere di Barcaglione, destinati alle famiglie in difficoltà. Ieri la prima consegna al Mercato Dorico di Campagna Amica quando la direttrice della struttura carceraria Manuela Ceresani ha incontrato la presidente di Coldiretti Marche, Maria Letizia Gardoni, e l’assessore comunale ai Servizi Sociali, Emma Capogrossi, facendo scaricare sul posto mezzo quintale di ortofrutta. Qualità a chilometro zero e dall’alto valore sociale. “Mi sono avvicinato a questa attività - racconta un detenuto 35enne - e mi è piaciuta da subito perché mi permette anche di imparare un lavoro. Il prossimo febbraio finirò di scontare la mia pena e mi piacerebbe trovare un lavoro in agricoltura”. Nel carcere di Barcaglione sono circa 60 i detenuti che si occupano, in forma volontaria, dell’orto sociale. Il primo passo verso l’azienda agricola vera e propria dove si producono olio extravergine di oliva dall’oliveto, miele dalle arnie e, ultimamente, anche formaggi e latte con un gregge di 20 pecore e il caseificio interno. Ora parte del raccolto dell’orto sociale andrà alle famiglie in difficoltà. “L’orto sociale - spiega la direttrice Ceresani - è un’attività dell’istituto che con Coldiretti ha trovato una prima connessione con l’esterno. Adesso c’è questo ulteriore sviluppo di condivisione con i cittadini di Ancona. Un “restituire” del detenuto riconosciuto colpevole che con il suo lavoro rende qualcosa alla comunità”. Un progetto che Coldiretti, già impegnata nella solidarietà per dare una mano alle persone in difficoltà economiche, soprattutto nel corso della crisi pandemica (consegnati nella sola provincia di Ancona oltre 11mila chili di prodotti alimentari Made in Italy, a chilometro zero e di altissima qualità), ha subito sposato attraverso il tutor dell’orto Antonio Carletti, presidente di Federpensionati Coldiretti Ancona, che collabora con Sandro Marozzi, l’agronomo di Barcaglione. “Un progetto che è diventato un modello di riferimento per tutta la regione - ha spiegato la presidente Gardoni - la solidarietà è un aspetto sul quale continueremo a concentrarci perché l’agricoltura e il cibo sano possono essere elementi di appiglio e di fiducia per tante persone che oggi chiedono aiuto”. Plaude all’iniziativa l’assessore Capogrossi. “Nel corso della pandemia - ha detto - Coldiretti ha dimostrato attenzione e sensibilità verso le famiglie più fragili già seguite dal Comune e quello di oggi è un ulteriore tassello nella vicinanza a persone in difficoltà”. Taranto. Presunti favori a boss: sospesa la direttrice del carcere di Domenico Palmiotti Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2021 Avrebbe agevolato un detenuto, Michele Cicala, esponente di spicco della criminalità tarantina. Per questo la direttrice del carcere di Taranto, Stefania Baldassarri, è stata sospesa dall’incarico dal direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, sulla base di una informativa della Direzione distrettuale antimafia di Lecce. Il Dap contesterebbe a Baldassarri condotte irregolari che avrebbero però riguardato - a quanto si apprende - la famiglia di Cicala più che direttamente quest’ultimo. Stefania Baldassarri si sarebbe presentata in almeno due occasioni in un bar gestito dai familiari di Michele Cicala, esponente di spicco della criminalità di Taranto, attualmente ai domiciliari. Lo scrive la Guardia di Finanza nell’informativa. Baldassarri avrebbe dato alla moglie di Cicala notizie sul marito, assicurandola circa le sue condizioni di salute, dicendogli che stava bene, e invitandola a chiamarlo per “esprimergli conforto”. Il bar dove si è recata la direttrice del carcere é sotto sequestro. Nel rapporto degli investigatori si parla di “singolare e di particolare premura l’attenzione riservata dalla direttrice della Casa Circondariale di Taranto verso il detenuto Michele Cicala”. Cicala, attualmente, non è più recluso ma ai domiciliari. Il Tribunale del riesame di Lecce ha fatto cadere nei suoi confronti l’accusa di associazione mafiosa su istanza dei legali. Sul punto, però, la Procura di Lecce ha fatto ricorso in Corte di Cassazione. L’ultimo arresto di Michele Cicala - che ha già scontato una condanna per il blitz “Mediterraneo” di anni addietro, riferito ad estorsioni aggravate col metodo mafioso - risale al 12 aprile scorso quando fu coinvolto in un’operazione delle Dda di Lecce e Potenza, nonché della Guardia di Finanza e dei Carabinieri. Operazione che ha svelato una frode sui carburanti. In quell’occasione furono 26 le persone condotte in carcere, 11 sottoposte agli arresti domiciliari e altre 6 destinatarie di divieto di dimora. Nella vicenda specifica il clan Cicala, secondo la ricostruzione fatta dagli inquirenti, era alleato a quello dei Diana-Casalesi in Campania. In particolare, Cicala aveva creato una nuova compagine con legami con le componenti del clan tarantino Catapano-Leone. Questo gruppo - rilevò l’indagine - reimpiegava risorse economiche in molte attività anche commerciali, attraverso una fitta rete di prestanome, ed era aggressivo dal punto di vista militare. Cicala - emerse dal lavoro investigativo - aveva puntato particolarmente sul settore della distribuzione degli idrocarburi, perché estremamente lucroso, accordandosi con il gruppo Diana, attivo nel Vallo di Diano tra Basilicata e Campania, e sviluppando così l’attività di contrabbando. Di conseguenza, venivano vendute ingenti quantità di carburante per uso agricolo, che beneficia di agevolazioni fiscali, a persone che poi lo immettevano nel mercato normale dell’autotrazione. In base all’indagine, i proventi del traffico carburanti erano stati riciclati nell’acquisizione di bar e ristoranti. In quanto alla figura di Michele Cicala, così la descrisse la Guardia di Finanza: “Cicala in carcere ha studiato, si è migliorato, ha capito che la strada della violenza non era la più produttiva. Ha così intessuto relazioni con personaggi leciti e illeciti nel tentativo di darsi una immagine da imprenditore”. “Da tutte le attività imprenditoriali, Cicala - disse ancora la GdF lo scorso aprile - ha previsto che una parte profitti vadano alle famiglie i cui esponenti sono in carcere. Ha persino creato delle cooperative per aiutare giovani disagiati, che servivano a entrare nelle gare per gli appalti pubblici”. In quanto a Baldassarri, si è candidata a sindaco di Taranto nel 2017 per una coalizione di forze civiche e di centrodestra. Arrivò in testa al primo turno elettorale ma perse poi il ballottaggio nel confronto dello sfidante di centrosinistra Rinaldo Melucci, poi eletto sindaco di Taranto. Baldassarri è attualmente consigliere comunale di opposizione. La reazione - “No, assolutamente, mi aspettavo un provvedimento del genere, sono ancora incredula, smarrita, sgomenta”. Così Baldassarri commenta la sospensione del Dap. Leggendo le motivazioni - ha detto - non riesco proprio a comprendere quale sarebbe il disvalore in questo caso disciplinare. Tengo a precisare che non sono indagata e non ho ricevuto alcun avviso di garanzia”. “Avrei essenzialmente manifestato - ha detto Baldassarri - a chi me ne ha fatto richiesta, ovvero i ragazzi che lavorano in un bar. Mi è stato chiesto se fossi il direttore del carcere, ho risposto di sì, mi é stato chiesto come stava i detenuti Romano, Buscicchio e Cicala, ho detto che stavano come possono stare i detenuti in custodia cautelare. Mi è stato chiesto cosa facessero tutto il giorno, ho detto quello che solitamente fanno in genere tutti i detenuti”. “Mi è stato chiesto - ha aggiunto Baldassarri - se potevo portare loro i saluti, ho detto che purtroppo in direttore si occupa di altro che portare i saluti. Mi è stato chiesto cosa potessero fare e ho detto che il modo per manifestare la loro vicinanza era quello di scrivere”. “Il bar è stato riaperto, perché dissequestrato, non comprendo i motivi perché mortificare l’aspettativa di gente che stava lavorando e che nulla aveva a che fare col procedimento penale” ha detto la direttrice del carcere di Taranto. Taranto. Carceri, la direttrice sospesa: “Mai favorito boss, sono esterrefatta” di Chiara Spagnolo La Repubblica, 28 luglio 2021 “Oggi tutti paghiamo i fatti di Santa Maria Capua Vetere”. Stefania Baldassarri è accusata di condotte irregolari nell’interesse di un detenuto, il boss Michele Cicala: “Ho solo preso un caffè nel bar di sua proprietà e risposto a chi mi chiedeva come stesse”. “Ogni carcere in questo momento paga i fatti di Santa Maria Capua Vetere. Credo che la sospensione a mio carico sia immotivata. Quello che è accaduto mi lascia esterrefatta, ai limiti dello smarrimento umano più che istituzionale”: non usa mezze misure Stefania Baldassarri, direttrice sospesa del penitenziario di Taranto, per raccontare la vicenda che l’ha travolta. Vicenda grave perché ipotizza un legame tra l’istituzione penitenziaria e il boss di Taranto Michele Cicala, arrestato pochi mesi fa (e oggi ai domiciliari) per associazione mafiosa. Direttrice cosa le viene contestato? “Di essere entrata in un bar di Taranto, di proprietà di Cicala, e di aver parlato con alcuni dipendenti, che mi hanno chiesto informazioni sul detenuto. Gli ho detto che stava come tutti gli altri e che, se avessero voluto fargli sentire la loro vicinanza, avrebbero potuto scrivergli”. Sapeva che il locale è di proprietà di Cicala, non le è parso inopportuno entrarci? “È stata questione di pochi attimi, per prendere un caffè prima di andare dal parrucchiere che si trova lì di fronte. Non volevo certo parlare con quelle persone né fornire loro alcuna rassicurazione”. La Dda di Lecce, però, ha reputato questo gesto grave, al punto da renderlo noto al Dap, che l’ha sospesa. Lei è indagata? “Non che io sappia. Non ho ricevuto avvisi di garanzia né altri provvedimenti. Né sono stata chiamata per un interrogatorio”. Conosce Michele Cicala? “Come tutti i detenuti del penitenziario che dirigo. La settimana scorsa, nel corso di alcune visite istituzionali, ne ho visti almeno 500 dei 700 che ci sono attualmente”. Conosce la moglie di Cicala, che ha parlato di lei nelle intercettazioni? “No e non è lei la donna con cui ho parlato nel bar ma una dipendente. Che infatti poi ha riferito alla moglie di Cicala la mia visita. Quindi la donna ha parlato con il marito raccontando qualcosa che ha saputo de relato”. La guardia di finanza parla di “singolare e particolare premura nei confronti di Cicala”... “Considerare una premura la frase ‘scrivetegli per dargli forza’ mi sembra eccessivo. Io non ho contatti con queste persone, non gli ho rivelato notizie segrete e, soprattutto, non ho fatto loro alcun favore. Tra le intercettazioni ce ne sono altre in cui Cicala dice alla moglie che quando si è lamentato per la scarsità di colloqui, io gli ho detto che altri colloqui li avrebbe potuti autorizzare solo l’autorità giudiziaria”. Il Dap l’ha sospesa perché ritiene che ci sia un’incompatibilità con lo svolgimento della normale attività di servizio ed effetti lesivi sul prestigio e l’immagine dell’amministrazione... “Sono pronta ad affrontare il giudizio disciplinare. Sono certa di aver fatto sempre il mio dovere: da marzo 2020 ho svolto 80-100 ore di straordinario al mese, ho vissuto in carcere quasi 24 ore al giorno trascurando la mia famiglia e mia figlia. Dal 14 giugno fino a pochi giorni fa abbiamo fronteggiato un focolaio Covid che ha coinvolto 65 detenuti, con 450 quarantenati e senza dirigente sanitario. Credo che i fatti parlino da soli”. Perché ha tirato in ballo Santa Maria Capua Vetere? “Perché credo che adesso tutti pagheremo in parte per quello che è accaduto lì. Ma i magistrati devono anche sapere che durante la pandemia siamo stati lasciati completamente soli, noi, la polizia penitenziaria e i detenuti, senza neppure gli assistenti sociali. Quando si lasciano strutture totalizzanti come il carcere in queste situazioni, è sempre pericoloso”. Roma. Rebibbia, dopo le molotov rinforzata la vigilanza. E spunta la pista antagonista di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 28 luglio 2021 Digos e Nic della Penitenziaria al lavoro dopo i lanci di ordigni incendiari contro il portone e le auto di due agenti. Più passaggi fuori dal complesso. Al vaglio un aumento delle telecamere. Una vigilanza rinforzata fuori e dentro Rebibbia. Pattuglie che passano con maggiore frequenza, l’ipotesi di un’intensificazione della copertura video attorno al complesso carcerario. E il Nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria che indaga su quanto accaduto nei giorni scorsi fuori dalle mura dell’istituto di pena: il doppio lancio di bottiglie incendiarie, contro il portone d’ingresso e le auto di due agenti in servizio nel reparto femminile, insieme con una scritta su un muro in via Prenestina, all’altezza del Quarticciolo. Un messaggio anonimo che incita alla richiesta dell’amnistia, ma che fa allo stesso tempo anche riferimento esplicito all’inchiesta sui maltrattamenti subìti dai detenuti del carcere campano di Santa Maria Capua Vetere, con l’arresto di decine di agenti della Penitenziaria e polemiche roventi a tutti i livelli. Come ipotizzato anche dal Sappe, il più importante sindacato di categoria presieduto da Donato Capece, si indaga sulla matrice degli attentati a Rebibbia della settimana scorsa e di domenica notte, che hanno provocato solo danni e nessun ferito. Si seguono più piste, anche quella del movente politico, con l’azione dimostrativa di anarchici o antagonisti. Le indagini della polizia di Stato, insieme con quelle del Nic, si stanno concentrando anche su questo fronte, vista anche la mobilitazione che dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere c’è stata in tutta Italia, con decine di scritte lasciate in varie città contro la polizia penitenziaria. Ma non vengono tralasciati anche altri aspetti che potrebbero essere collegati ad altri ambienti, come quelli della malavita. Anche per questo motivo non si esclude che vengano sentite le agenti proprietarie delle auto date alle fiamme con quattro bottiglie incendiarie nel parcheggio esterno al carcere, ma riservato comunque al personale della polizia penitenziaria, per capire se abbiano in passato ricevuto minacce o comunque siano state prese di mira oppure abbiano avuto problemi di qualche genere nel corso del loro servizio. D’altra parte quanto accaduto nei giorni scorsi preoccupa molto chi lavora a Rebibbia. E per questo è stata molto apprezzata la telefonata del ministro della Giustizia Marta Cartabia per esprimere solidarietà alla responsabile della sezione femminile del carcere Alessia Rampatti e al comandante della Penitenziaria Dario Pulsinelli, e anche per sincerarsi delle condizioni delle due agenti prese di mira. “Un gesto molto bello”, aveva spiegato il responsabile dei poliziotti penitenziari di Rebibbia, mentre i sindacati di categoria, dal Sappe all’Spp, dall’Uilpa all’Fns Cisl, oltre a condannare l’ennesimo attacco al carcere di via Tiburtina, mettono in guardia sul rischio di un’escalation e di un tentativo di delegittimare la Penitenziaria. Volterra (Pi). L’archivio della Fortezza da oggi ha una casa di Ivana Zuliani Corriere Fiorentino, 28 luglio 2021 Inaugurazione del tesoro della Compagnia teatrale di Punzo, aperto agli studiosi. Fin dal primo giorno del suo laboratorio teatrale con i detenuti della Casa di reclusione di Volterra, Armando Punzo ha registrato e documentato espressioni, gesti, dialoghi ed emozioni. Era il 1988, il teatro in carcere era un’esperienza pilota per spiriti audaci e visionari. Trentatré anni dopo la Compagnia della Fortezza è la principale esperienza teatrale realizzata in ambito carcerario in Italia e nel mondo, riconosciuta a livello internazionale. La sua storia è raccontata in scatti, locandine, appunti e video raccolti nel corso degli anni e conservati nell’Archivio Storico della Compagnia della Fortezza, che da oggi prenderà ufficialmente casa (inaugurazione alle ore 18.30) nella biblioteca comunale Guarnacci di Volterra. L’archivio è dedicato ad Augusto Bianchi Rizzi, intellettuale e amico storico della Fortezza, scomparso di recente. Raccoglie quaderni di lavoro manoscritti, copioni, registrazioni sonore e video, fotografie, locandine, manifesti e programmi di sala, rassegne stampa, documenti amministrativi, che vanno dal primo laboratorio al più recente spettacolo, Naturae - la valle dell’annientamento III quadro, fino all’1 agosto alla Fortezza Medicea del Carcere di Volterra: un patrimonio di materiali su diversi supporti che costituisce una testimonianza dell’attività della Compagnia, nata come laboratorio teatrale nell’agosto del 1988, a cura dell’associazione Carte Blanche e con la direzione di Armando Punzo. Carte Blanche, con il Comune di Volterra, l’Università di Bologna e le Soprintendenze Archivistiche di Emilia Romagna e Toscana, ha avviato nel 2013 il progetto di Archivio Storico della Compagnia della Fortezza, che nel 2014 è stato dichiarato dalla Soprintendenza bene di interesse storico archivistico di particolare importanza (sottoposto quindi a tutela). L’archivio ha trovato così sede in un salone della biblioteca e sarà aperto al pubblico, a studiosi, studenti e ricercatori. Nella biblioteca volterrana verrà conservato l’archivio fisico, mentre quello in formato digitale sarà presso il Dipartimento delle Arti dell’Università di Bologna (dove è stato trasferito e avviato alla digitalizzazione). Alla Guarnacci saranno allestite due postazioni informatiche attraverso le quali sarà possibile collegarsi con accesso diretto all’archivio digitale. Per l’inaugurazione, sarà presentata Dentro la storia video installazione fotografica di Stefano Vaja, che racconta in centinaia di immagini di scena, dietro le quinte e di vita vissuta, l’avventura di una delle più sorprendenti compagnie teatrali al mondo. Frosinone. Teatro-carcere: in scena il Macbeth frosinonetoday.it, 28 luglio 2021 Lo spettacolo si è svolto lo scorso 23 luglio grazie al laboratorio teatrale promosso dalla compagnia teatrale Errare Persona, direzione artistica Damiana Leone. Grande successo per il Macbeth dei detenuti-attori del Carcere di Frosinone Non uno spettacolo ma un momento di grande riscatto nella nuova sala teatro Si conclude con un grande successo la messa in scena del Macbeth realizzato lo scorso 23 luglio, dai detenuti-attori del carcere di Frosinone sezione Alta Sicurezza al termine di un percorso laboratoriale di teatro sociale con la compagnia Errare Persona diretta da Damiana Leone. Presenti allo spettacolo, oltre alla Direttrice del Carcere Dott.ssa Teresa Mascolo, agli operatori, gli educatori e i poliziotti, anche alcuni ospiti tra cui la Magistrata di Sorveglianza Dott.ssa Carmela Campaiola e le associazioni che contribuiscono ai lavori e ai laboratori in carcere. Di grande importanza la presenza della Regione Lazio, tramite il dirigente Daniele Tasca, che ha contribuito con i propri fondi alla realizzazione della sala teatro dove si è svolta la rappresentazione. “L’ultima battuta alla fine di questo spettacolo parla di ritrovare l’armonia, ecco confido che attività come questa, del teatro sociale in carcere, possano portare armonia anche tra i singoli, tra di voi” - commenta proprio Tasca, il primo ad intervenire alla fine dello spettacolo - “Oggi avete dato il meglio di voi agli altri, a chi assisteva a questo spettacolo. Il mio augurio è quello di guardarvi allo specchio e di ritrovarvi come esseri umani. Tutti noi, voi compresi, abbiamo bisogno di riempire i nostri animi e di essere educati, a questo serve un’attività come il teatro in carcere. Oggi tutti voi detenuti meritate il mio e il nostro rispetto”. Parole di grande ringraziamento per i detenuti come per la compagnia anche dalla Direttrice del Carcere Dott.ssa Teresa Mascolo: “Io continuo a pensare che il teatro siano davvero una forma di riscatto dentro il carcere. Grazie, sono davvero riconoscente a Damiana, alla compagnia, agli educatori e ai poliziotti che hanno permesso questi laboratori e questa bellissima rappresentazione. Speriamo che ci possano essere tante repliche e tante altre attività di questo tipo. Sono convinta che laboratori come questi debbano proseguire nel tempo”. Per la compagnia Errare Persona è un risultato importante raggiunto grazie al grande lavoro di squadra non solo del team artistico-teatrale ma anche di educatori e poliziotti del carcere che hanno tutti accolto molto positivamente il progetto “Korinem - Invisibili Teatro”. Un clima che ha favorito anche i lavori per la sala teatro che è stata inaugurata in occasione del Macbeth. “Mi unisco ai ringraziamenti della Direttrice perché abbiamo trovato un gruppo capace di accoglierci e di averci fatto realizzare questo importante progetto” - afferma Damiana Leone della compagnia Errare Persona - “Il lavoro è stato duro ma credo che lo spettacolo di oggi sia la più grande soddisfazione per tutti noi, per tutta questa comunità. Non vediamo l’ora di poter fare delle repliche e di metterci di nuovo al lavoro. A questo aggiungo anche la mia più grande felicitazione perché oggi con questo spettacolo abbiamo inaugurato una nuova sala teatro in una provincia dove i luoghi della cultura sono sempre meno. Farlo in un carcere e con dei detenuti che sono troppo spesso considerati outsider della vita culturale del Paese credo sia un fattore in più a testimonianza che laboratori come questo devono proseguire ed espandersi”. A chiudere questa importante giornata sono stati proprio loro, i detenuti-attori che, senza nascondere felicità ed emozione, hanno letto una lettera in cui si sono augurati “che questo sia solo un arrivederci a presto alle prossime iniziative, grazie davvero a Damiana e Anna che speriamo di ritrovare per continuare questo laboratorio teatrale anche nei prossimi mesi”. Per la realizzazione dello spettacolo si segnala e ringrazia la regia e direzione artistica di Damiana Leone, con la collaborazione di Anna Mingarelli, allestimento e luci Luigi Di Tofano (che ha anche coordinato i lavori per la preparazione della sala teatro insieme ai detenuti), assistente e riprese Giuseppe Treppiedi. L’egoismo dell’Unione europea frena la diffusione dei vaccini di Ugo Pagano Il Domani, 28 luglio 2021 Qualsiasi sarà al Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio, il risultato della richiesta di sospensiva dei brevetti, l’appoggio degli Stati Uniti a questa proposta ha fatto diventare la Commissione europea un isolato baluardo a difesa dei monopòli legali delle imprese farmaceutiche. In Europa si stenta a capire quanto sia profondo il rinato risentimento antitrust americano e quanto sia radicale il cambiamento delle teorie giuridiche ed economiche che sta influenzando questa svolta. La nomina di Lina Khan, voluta dalla amministrazione Biden, a presidente della Federal Trade Commission, ha avuto anche l’appoggio di numerosi senatori repubblicani che hanno evidentemente condiviso le sue opinioni, ben note negli Stati Uniti specialmente per un suo noto articolo su Amazon. In esso la Khan sosteneva che, visto che tutti vogliono stare sulle piattaforme dove sono gli altri, queste costituiscono dei monopoli naturali che vanno regolamentati in modo da permettere il loro accesso alle stesse condizioni da parte di tutti. Ai monopoli naturali si è aggiunto un rafforzamento dei monopoli legali posti a difesa della proprietà intellettuale che sta provocando negli Usa una reazione bipartisan. Secondo il nuovo approccio non basta esaminare gli effetti dei monopoli sui prezzi. Occorre anche esaminare gli effetti che la struttura del mercato ha sulle libertà degli individui. La tradizionale teoria del monopolio considera solo gli effetti negativi che esso ha per via del suo effetto sui prezzi. Restringendo l’offerta il monopolista può vendere a un prezzo più alto. Produrrà, quindi, di meno rispetto a quanto avviene in concorrenza dove le imprese non possono influenzare i prezzi. Questo non è un buon risultato per l’economia presa nel suo insieme. Se il monopolista potesse vendere a prezzi inferiori con un profitto meno elevato anche altre unità di prodotto allora starebbero meglio sia i consumatori che lo stesso monopolista. Proprio questo ragionamento portò il premio Nobel Ronald Coase a negare che il risultato dei libri di testo fosse scontato e che il prezzo di monopolio fosse necessariamente superiore a quello in concorrenza. Una volta venduta una certa quantità al prezzo che rende massimo il suo profitto il monopolista potrebbe ancora vendere delle quantità in più a un prezzo inferiore ma pur sempre superiore ai costi sostenuti. Prevedendo questo comportamento tutti gli individui potrebbero posticipare il consumo per un periodo sufficientemente lungo e pagare così il bene a un prezzo non gravato da profitti monopolistici. Se i consumatori sono in grado di aspettare il monopolista non riesce, quindi, a spuntare un prezzo superiore a quello di concorrenza. Le conclusioni di Coase, per quanto ben diverse da quelle prevalenti ora in America, anticipano l’idea che la struttura del mercato vada attentamente presa in considerazione. Il cambiamento di una pandemia - In un articolo pubblicato con Antonio Nicita il 30 gennaio sul Sole 24 Ore abbiamo sostenuto che una pandemia cambia radicalmente la struttura del mercato. Proprio Coase ci offre gli strumenti per comprendere meglio la natura di questo cambiamento. In una pandemia gli individui non sono affatto disposti ad aspettare per avere il vaccino. Questo cambia la struttura del mercato in modo opposto al caso considerato da Coase. Il monopolista può fornire la merce lentamente in modo da venderla prima ai consumatori disposti a pagare i prezzi più alti e poi gradualmente a un prezzo decrescente agli altri individui. Discriminando fra i consumatori il monopolista può far pagare a un buon numero di essi non solo di più del prezzo di concorrenza ma anche un prezzo più elevato del prezzo unico a cui venderebbe tutta la quantità prodotta il monopolista dei libri di testo. Se i consumatori non possono permettersi di rimandare il consumo del bene offerto il monopolista li può allora mettere in fila e ottenere da ognuno di essi il prezzo che è disposto a pagare. Questa fila, nel cui ordine pesa in modo determinante la ricchezza degli individui, non è però politicamente accettabile e non è stata infatti accettata nella maggioranza dei paesi. Molti stati o associazioni di stati come l’Unione europea hanno acquistato i vaccini Covid, spesso con contratti secretati, dalle ditte farmaceutiche e li hanno poi distribuiti secondo criteri eticamente accettabili come l’età, la fragilità fisica o l’esposizione al virus. All’interno di ogni singolo paese si è così evitata una fila, magari opportunamente rallentata per estrarre il massimo profitto. La distribuzione dei vaccini fra i diversi paesi è stata invece persino peggiore di quanto si potesse prevedere in teoria. I paesi più ricchi si sono accaparrati quantitativi di vaccini che vanno ben oltre il loro fabbisogno mentre in quelli più poveri sono stati spesso lasciati senza vaccino persino i lavoratori del settore sanitario. Ancora oggi le imprese farmaceutiche sembrano più interessate a produrre terze dosi per i paesi più ricchi che a vendere le prime dosi nei paesi più poveri. I brevetti - La sospensiva dei brevetti andrebbe applicata ogni volta che un bene come il vaccino Covid è urgentemente richiesto dalla popolazione. Una fornitura troppo lenta può causare morti, miseria e sviluppo di varianti. Una organizzazione che si fondi sin dall’inizio su ricerche pubbliche e mercati concorrenziali (quale per esempio già esiste nel caso della produzione del vaccino per l’influenza stagionale) presenta molti vantaggi rispetto a un sistema basato su brevetti e mercati monopolizzati, specialmente quando i virus da contrastare mutano velocemente e tutte le conoscenze vanno velocemente condivise. La posizione dell’Europa sulla sospensiva dei brevetti segnala tutta la sua incapacità di trovare delle politiche adeguate a un mondo dominato da nuovi monopoli naturali e da una eccessiva tutela della cosiddetta proprietà intellettuale. Essa esprime anche una carenza di democrazia delle istituzioni europee. Mentre sia il parlamento italiano sia quello europeo hanno preso posizione a favore della sospensiva dei brevetti la Commissione la ha inizialmente ostacolata e cerca ora di proporre una alternativa migliore per le aziende farmaceutiche ma peggiore per tutti gli altri. In alternativa alla sospensiva la Commissione propone, infatti, una facilitazione delle licenze obbligatorie già previste sin dalla istituzione del Wto. È importante capire quanto la proposta europea sia peggiore della sospensiva dei brevetti. Mentre una sospensiva dei brevetti permette non solo di produrre ma anche di importare i vaccini da tutte le parti del mondo, una licenza obbligatoria permette solo di produrlo nel proprio paese a uso esclusivo dei cittadini del paese stesso. La possibilità di licenze obbligatorie è stata (finalmente e solo da una settimana!) recepita nella legislazione italiana grazie a un emendamento al decreto semplificazione dell’ex-Ministro della Salute Giulia Grillo. Essa è certamente utile per paesi come l’Italia che in caso di emergenza sanitaria possono così autorizzare sul proprio territorio la produzione di farmaci brevettati. Tuttavia questa opportunità può essere solo sfruttata da paesi industrializzati come il nostro o da altri paesi come l’India che hanno una forte industria farmaceutica. Per gli altri paesi, incapaci di produrre i vaccini Covid, una licenza obbligatoria sarebbe del tutto inutile. Essi sarebbero costretti a continuare ad acquistarli dalle imprese che detengono i brevetti. La inadeguata proposta europea porta, forse non a caso, a una ulteriore dilazione di un provvedimento che, se preso qualche mese fa, avrebbe potuto evitare migliaia di morti. L’egoismo di una Commissione europea schierata a difesa di qualche brevetto semi-europeo non sarà facilmente dimenticato in un mondo in cui l’America riscopre le politiche antitrust e i paesi più poveri soffrono in modo drammatico le restrizioni imposte dai monopoli. Droghe. La ministra Dadone nega gli effetti sul carcere di Stefano Vecchio Il Manifesto, 28 luglio 2021 Noi di Forum Droghe e le nostre Reti ci siamo ma chiediamo che, dopo dodici anni di silenzio, la Conferenza Nazionale sulle Droghe non sia un evento pubblico rituale ma una occasione per discutere su come realizzare un cambio di rotta delle politiche sulle droghe. La Relazione al Parlamento 2021 sullo stato delle tossicodipendenze, dedica, opportunamente, molto spazio all’analisi degli effetti delle restrizioni, connesse alla pandemia, sulle diverse componenti del fenomeno. Il quadro che ne esce è che il mercato ha mantenuto la sua attività economica e suoi profitti, le persone che usano droghe sono riuscite a graduare e gestire i propri consumi controllando i rischi e a mantenere una relazione con i servizi. Sostanzialmente si confermano le tendenze degli ultimi anni sulla diffusione di modelli di uso e consumo di droghe diversificati, non più riducibili al paradigma della dipendenza. La Ministra Dadone, nella sua introduzione, concentra l’attenzione sulle “nuove tendenze” dei consumi giovanili, che nell’impatto con la pandemia mostrerebbero una realtà di “allarme e di emergenza”. E nella introduzione del Dipartimento delle Politiche Antidroga si chiarisce come il tema centrale sia “l’accelerazione imponente e generalizzata” dei “cambiamenti già in atto”. Ad una lettura attenta dei dati, in realtà appare che la pandemia abbia messo in luce piuttosto le contraddizioni storiche delle politiche sulle droghe mentre i cambiamenti in atto, che destano allarme, risultano piuttosto stabili disegnando il “nuovo” scenario di questo millennio. D’altra parte è singolare che la contraddizione più importante, quella dell’impatto sul sistema penale, non venga nemmeno presa in considerazione. Nella Relazione risulta che un terzo dei detenuti sia recluso per effetto di un articolo “costruito” ad hoc dalla legge sulle droghe, e che i tossicodipendenti sono stati gli unici che non hanno beneficiato delle misure alternative alla detenzione nel corso della pandemia. Da tempo e in particolare nel Dodicesimo Libro Bianco sulle droghe, denunciamo questo fenomeno di deportazione di migliaia di persone che dovrebbero essere curate o ritornare alla propria vita quotidiana, riducendo, tra l’altro, il sovraffollamento delle carceri. Anche nella parte dedicata ai servizi vi sono informazioni importanti che non sono state prese in considerazione. Ad esempio, opportunamente sono stati riportati gli interventi di Riduzione dei Danni e dei Rischi sottolineandone l’efficacia, ma non si è detto che ciò che ha funzionato è stato un approccio di bassa soglia, che ha coinvolto le persone, sostenuto le competenze e la responsabilizzazione. E sarebbe stato utile verificare che anche i servizi tradizionali, i SerD e le Comunità, sono riusciti a garantire le loro prestazioni, nonostante le restrizioni, in quanto hanno adottato un approccio analogo. Sulla base di questa analisi critica dei dati è possibile ripensare i modelli di intervento e dei servizi piuttosto che continuare a seguire la prospettiva usurata e stigmatizzante della dipendenza. Nella Relazione al Parlamento, se vogliamo leggerli, ci sono tutti gli elementi del fallimento dell’approccio della guerra alla droga, che non ha intaccato i grandi profitti della criminalità organizzata, che ha visto ampliare i consumi di droghe in una realtà resa rischiosa dalla illegalità, ha prodotto una incarcerazione di massa, ha aumentato i processi di stigmatizzazione e i conflitti intergenerazionali. La Ministra Dadone auspica che la Relazione al Parlamento possa rappresentare la base per un confronto “senza pregiudizi” tra “tutti gli attori coinvolti” all’interno della Conferenza Nazionale sulle Droghe. Noi di Forum Droghe e le nostre Reti ci siamo ma chiediamo che, dopo dodici anni di silenzio, la Conferenza Nazionale sulle Droghe non sia un evento pubblico rituale ma una occasione per discutere su come realizzare un cambio di rotta delle politiche sulle droghe: se mantenere il modello attuale repressivo fallimentare o se adottare una logica di governo politico e di regolazione sociale del fenomeno. Tunisia in bilico, Roma con il fiato sospeso: si teme il boom di migranti verso l’Italia di Francesco Grignetti La Stampa, 28 luglio 2021 Salta l’incontro tra Draghi e Lamorgese con il premier tunisino. A rischio l’accordo con l’Ue per gestire i flussi e il piano di rimpatri. La Tunisia da due giorni è sull’orlo del baratro, con un Parlamento e un governo esautorati dal Presidente della Repubblica. L’esercito presidia le strade e la sera vige il coprifuoco. Si moltiplicano intanto gli appelli della comunità internazionale alla stabilità, a cominciare dai massimi vertici dell’Unione europea. Già, perché se frana anche la Tunisia, si rischia un effetto domino su tutto il Nord Africa. E si teme il più facile dei contraccolpi: un fiume di persone in fuga verso la Sicilia. Al ministero dell’Interno, si osservano i fatti tunisini con particolare apprensione e si sta con il fiato sospeso. Secondo alcune stime, potrebbero essere 15mila i tunisini pronti a lasciare il loro Paese. Ma chissà, potrebbero essere anche cinque volte tanto, come accadde nel 2011 quando Roberto Maroni era ministro dell’Interno. E comunque i trend parlano chiaro: le partenze dalla Tunisia sono in crescita da mesi; ora però si rischia il boom. Il primo effetto delle scosse telluriche tunisine, s’è visto subito: a Rom oggi era previsto un bilaterale tra il premier Hichem Mechichi e Mario Draghi, a cui avrebbe fatto seguito un incontro con la ministra Luciana Lamorgese (in quanto Mechichi aveva l’interim all’Interno). Appuntamento saltato. E ora traballano le discussioni intavolate dai due governi. Lamorgese ci contava moltissimo, su questo incontro di luglio, in quanto Mechichi le era apparso finora un interlocutore ben disposto. I due si erano incontrati un paio di volte a primavera. L’ultimo incontro era stato il 20 maggio scorso; e quella volta la ministra italiana era accompagnata dalla commissaria europea agli Affari interni, Ylva Johansson. Al termine, le due sprizzavano ottimismo. “Sono state gettate le basi di un accordo complessivo di partenariato strategico tra l’Unione europea e la Tunisia”. A questo punto, invece, al Viminale si teme che si cancellino d’un colpo tutte le promesse di un maggior impegno della Guardia costiera tunisina nel frenare le partenze illegali. Oppure che torni nel cassetto il piano di raddoppiare i voli charter per il rimpatrio dei migranti tunisini che non hanno diritto a protezione internazionale. Attualmente la Tunisia accetta al massimo 80 rimpatri a settimana. E se venisse prorogato lo stato di emergenza, forse neanche questo si farà. Peggio di tutto: il governo Mechici, soltanto un mese fa aveva accettato l’aiuto italiano nel monitoraggio elettronico delle partenze clandestine. Un progetto a cui gli italiani tenevano particolarmente, perché era l’unico modo di intervenire, senza violare alcuna sovranità. Si era parlato all’epoca di una “linea diretta dedicata” per lo scambio di informazioni sui natanti partiti dalla Tunisia tra le due polizie. Ed era stata, quella, una grossa apertura di credito da parte di Mechichi, a dispetto dell’orgoglio nazionale. Proprio questa disponibilità a fermare i flussi di migranti illegali, che Mechichi aveva concesso in cambio di un sostanzioso aiuto economico dell’Unione europea, aveva però accentuato le spaccature in sede del governo e di opinione pubblica. Esiste infatti un pezzo di società, a cui dà molto ascolto il Capo dello Stato, Kais Saied, che ritiene inaccettabile ogni limite all’emigrazione. E ora, con la mossa di defenestrare i ministri più disponibili verso l’Occidente, oltre Mechichi quello della Difesa, si giocano i destini nazionali, ma anche quelli del dialogo con gli europei. Il Covid e la conseguente crisi sanitaria ed economica hanno fatto il resto. Sicuramente a moltissimi tunisini è apparso di avere un governo di inetti. E sono quelli stessi che esultano per il decisionismo del Capo dello Stato. L’Italia è tra chi ha più da perdere se la Tunisia precipitasse nel caos. Per questo ieri la Farnesina ha fatto di tutto perché scattasse un coordinamento europeo “con gli altri Paesi Ue più interessati” come la Francia, la Germania e la Spagna. “È importante che questa situazione sia trattata con la massima attenzione a livello europeo”, ha spiegato il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. Si sono moltiplicate le telefonate attraverso le due sponde del Mediterraneo. Tra gli altri, si è fatto sentire l’Alto rappresentante dell’Ue Josep Borrel. Ricordando “il sostegno considerevole dell’Unione Europea e dei suoi Stati membri alla Tunisia, nel contesto di una crisi pandemica ed economica grave”, ha affermato che “preservare la democrazia e la stabilità del Paese sono delle priorità”. Tunisia. L’Europa non può più restare a guardare di Nathalie Tocci La Stampa, 28 luglio 2021 Crisi di crescita democratica o recrudescenza autoritaria in Tunisia? Il presidente Kais Saied rimuove il primo ministro Hichem Mechichi, sospende i lavori del Parlamento e revoca l’immunità dei deputati, appellandosi all’articolo 80 della Costituzione che prevede “misure eccezionali” in caso di “pericolo imminente”. Rachid Gannouchi, presidente del Parlamento e leader del partito islamista Ennahda grida al golpe, evocando implicitamente il colpo di Stato egiziano del 2013, che chiuse drammaticamente l’esperimento di governo islamista facendo precipitare il Paese in un nuovo e lungo inverno. Non solo Saied avrebbe interpretato in modo eccessivamente espansivo la Carta, ma soprattutto spetterebbe alla Corte costituzionale farlo. Peccato che la Corte esiste solo sulla carta, in stallo dal 2014 sulla nomina del suo presidente. Alimentando l’apparente contraddizione, le piazze, violando il coprifuoco, festeggiano. Anche l’Unione generale tunisina dei lavoratori non prende posizione netta contro il presidente. Cosa accade in Tunisia? Quel che è certo è che il vaso, colmo di scontri, fragilità, paralisi e malgoverno, è traboccato. La crisi istituzionale tra presidenza e Parlamento - il cui capo, eletto a grande maggioranza, non trovava canali per incidere sull’esecutivo - cercava una via d’uscita da mesi. La paralisi istituzionale si è evoluta di pari passo con la crisi economica, aggravata negli ultimi 18 mesi dalla pandemia. È da tempo che la Tunisia, unico baluardo rimasto dell’oramai defunta Primavera araba, inizia a perdere la speranza. Non a caso è già dal 2018 che il flusso di migranti tunisini, organizzati per lo più spontaneamente e non attraverso reti criminali come in Libia, è in costante aumento. Nel 2017 rappresentavano il 5% degli sbarchi in Italia; nel 2020 il 38%. Tanto più si oscura il cielo sul Paese quanto più i suoi giovani cercano una via di fuga. La diffusione spaventosa della pandemia negli ultimi mesi in Tunisia e la gestione catastrofica del governo Mechichi hanno paradossalmente generato la proverbiale opportunità per sbloccare una crisi strutturale. Un solo dato per rendere l’idea: su una popolazione di appena 12 milioni, 4,5 sono stati ufficialmente i contagiati nell’ultimo anno e mezzo. In un Paese in cui scarseggiano i dispositivi protettivi, ventilatori, personale medico, posti in terapia intensiva, per non parlare di vaccini, lo stallo politico e istituzionale palesemente non poteva andare avanti. Ma il dado sul futuro del Paese non è tratto. Il presidente Saied potrebbe usare la crisi per riaffermare la figura dell’uomo forte al potere. Sarebbe ingenuo escludere che la Tunisia smetta di essere quell’eccezione democratica che conferma la regola dell’autoritarismo in Nord Africa e Medio Oriente. Il Paese è già terra di rivalità regionale nell’ormai familiare scontro all’interno del mondo sunnita, tra Arabia Saudita e Emirati da un lato, e Turchia e Qatar dall’altro. Ma è altrettanto sbagliato dare per scontato che questo accada. Non solo perché è riduttivo leggere lo scontro politico e istituzionale tunisino come un conflitto tra laici e islamisti, ma anche e soprattutto perché la paralisi politica e istituzionale andava smossa, e gli eventi a cui stiamo assistendo potrebbero rappresentare una tumultuosa crisi di crescita di una fragile democrazia. La direzione che prenderà la Tunisia dipenderà non solo, ma anche da noi. Il vaso è traboccato nel Paese per via di una profonda crisi interna, acuita da tensioni regionali. Ma parte della responsabilità è nostra. L’Europa, che a voce reclama l’importanza della Tunisia come unica democrazia in Nord Africa, è stata in questo anno e mezzo di pandemia drammaticamente assente, lenta e poco reattiva. Ha lasciato che il Paese sprofondasse in una crisi profonda che non poteva prima o poi che cercare uno sbocco. E si è occupata di Tunisia quasi esclusivamente in chiave migratoria. Soffermandoci su un sintomo e ciechi rispetto alle cause, la nostra passività è involontariamente diventata parte del problema. Oggi guardiamo la Tunisia e la lente è rimasta la stessa. Finché non la cambiamo e ci occupiamo del Paese in quanto tale e non del nostro terrore dei suoi migranti, quelle migrazioni continueranno a essere una profezia annunciata. È l’intero Nordafrica che sta precipitando di Alberto Negri Il Manifesto, 28 luglio 2021 Tunisia e non solo. La democrazia non sprofonda da sola. Ha bisogno di una spinta. E non piccola. Oltre che politica e istituzionale, la crisi tunisina è economica. L’Africa che ci sta di fronte, come direbbe la storica tunisina Leila el Houssi, non ha pace. Non ne ha avuta certamente con la colonizzazione occidentale, cui sono seguiti regimi e dittature, non ce l’ha oggi a un decennio dalle primavere arabe. Anche la Tunisia della rivolta dei gelsomini, l’unica democrazia sopravvissuta a quella stagione di grandi speranze deluse, si sta sgretolando. E’ in compagnia della confinante Libia, dove dopo la caduta di Gheddafi di stabilità e progresso non se ne vede neppure l’ombra, di un’Algeria che soffre ancora la fine di Bouteflika e l’uscita tortuosa da anni di piombo con migliaia e migliaia di morti, di un Egitto che Al Sisi tiene compresso con un regime repressivo e autocratico, di un’intera regione, il Sahel, che sembra sfuggire a ogni tentativo di controllo interno e internazionale - dal Chad al Mali - e dove l’Italia si sta infilando con la missione Takouba e una base militare in Niger. La pandemia da Covid ha assestato un colpo micidiale ad alcuni di questi Paesi come Tunisia ed Egitto che con il blocco del turismo e degli investimenti stranieri si sono trovati a vivere ancora più isolati. La massima e in alcuni casi unica preoccupazione europea e occidentale è stato tentare accordi di “sicurezza” per limitare i flussi dei profughi. In fondo è stato fatto lo stesso quando sulla scena sono comparsi i jihadisti dell’Isis e Paesi come la Tunisia hanno fornito, pescando tra le file dei disoccupati e dei disperati, circa settemila reclute al Califfato. Pochi nel 2011 si sono occupati, di cosa stava significando in Nordafrica il crollo di una Libia che dava lavoro a milioni di arabi della regione: centinaia di migliaia di egiziani e tunisini che facevano i pendolari nei cantieri del raìs libico si sono trovati senza lavoro. E in molti casi di emigrazione ne avevano già fatta non poca nei cantieri italiani, spagnoli, francesi, che si erano fermati con la crisi europea. L’Africa che ci sta di fronte facciamo fatica a guardarla in faccia. Le rimesse dei migranti tenevano in piedi economie e famiglie: soltanto la Tunisia con la caduta del regime gheddafiano ha perso in un decennio 300 milioni di dollari l’anno, cifra non enorme in termini assoluti ma importantissima perché, al contrario di prestiti e aiuti internazionali, le rimesse finivano direttamente nelle tasche della gente e non in quelle di leadership incompetenti e corrotte. Non è un caso che ancora adesso a tenere in piedi le famiglie tunisine, algerine, marocchine, egiziane, sudanesi e del Sahel siano i soldi dei migranti in Europa. E non è un caso che quando la Tunisia ha cominciato a morire e vacillare sotto i colpi della variante Delta i tunisini in Francia abbiamo inviato aiuti e soldi alle Ong locali per aggirare uno stato inefficiente. E per dirla con schiettezza in Francia gli specialisti tunisini di terapia intensiva sono il doppio di quanti se ne trovino nella stessa Tunisia. Poi ci vengono a dire di aiutarli a casa loro: sono loro che già ci aiutano a casa nostra. In realtà in questo naufragio mediterraneo stanno sprofondando i migranti e interi Paesi cui chiediamo soltanto di frenare i flussi e di stare zitti e buoni mentre noi ci vacciniamo e prepariamo il rilancio con il Recovery Plan europeo. La ministra dell’Interno italiana Luciana Lamorgese e la commissaria europea per gli affari interni, Ylva Johansson, il mese scorso hanno incontrato i vertici di Tunisi promettendo più investimenti europei nel Paese nordafricano, a patto che questo fermi le partenze dei tunisini e faciliti i rimpatri. Promesse, promesse, in un Paese che anche a causa della pandemia era già nel baratro: il Pil della Tunisia ha registrato nel 2020 un calo record dell’8,8%, rispetto all’anno precedente, con la disoccupazione salita a oltre il 17%. Ma noi europei siamo generosi. L’Unione europea è pronta ad aiutare questi Paesi, anche quelli del Sahel, ma in cambio vuole più controlli in campo migratorio. E con la missione militare Takouba tra Mali, Niger e Burkina Faso, appena approvata anche dal nostro Parlamento, andiamo certamente ad aiutare questi Paesi contro i jihadisti ma anche a sorvegliare cosa fanno per frenare le rotte dei migranti e tenerseli a casa loro. Quanto ad aiutarli economicamente ci penseremo magari dopo che gli abbiamo venduto un po’ di armi. La democrazia non sprofonda da sola. Ha bisogno di una spinta. E non piccola. Oltre che politica e istituzionale, la crisi tunisina è economica: il Paese ha bisogno per non fallire di 7,2 miliardi di dollari di cui 5,8 sarebbero già impegnati per ripagare i debiti precedenti. Pericoloso, soprattutto, lo stallo nelle trattative con il Fondo monetario per ottenere un prestito da quattro miliardi di dollari, condizionato a riforme che nessun governo tunisino negli ultimi anni è stato in grado di accettare. Insomma una mano a strangolare un Paese siamo sempre pronti a darla. Confine Usa-Messico, l’Oceano è la nuova frontiera per il traffico di esseri umani e di droga di Giuseppe Sarcina Corriere della Sera, 28 luglio 2021 Terza e ultima tappa del nostro viaggio al confine californiano tra Messico e Stati Uniti: in questo tratto c’è una sola barriera di acciaio che si allunga per circa 100 metri nell’Oceano Pacifico e le organizzazioni criminali hanno intensificato i passaggi via mare. L’Oceano: terza e ultima tappa del nostro giro al confine californiano tra Messico e Stati Uniti. E’ la frontiera più nuova per il traffico di esseri umani e di droga. In questo tratto c’è una sola barriera di acciaio che si allunga per circa 100 metri nel Pacifico. Il primo progetto di recinzione risale al 1996, con Bill Clinton alla Casa Bianca. Ma ancora nel 2004 ne erano stati costruiti soltanto 14 chilometri. L’opera continuò con l’Amministrazione di George W.Bush, fino ad arrivare agli ambiziosi progetti di Donald Trump. Con l’arrivo di Joe Biden, però, i lavori si sono fermati. Abbiamo osservato più a nord, tra le montagne, un “buco” di circa 300 metri (vedere prima puntata). Qui notiamo, invece, come le vecchie lastre non siano state sostituite. Il rafforzamento delle protezioni su terra ha spinto i cartelli dei trafficanti a esplorare altri sistemi per penetrare nel territorio americano. Nella seconda puntata l’agente Shane Crottie, portavoce dell’Us Border Patrol, ha descritto le diverse tecniche di scavo, come i tunnel che sbucano nei finti magazzini. Nello stesso tempo le organizzazioni criminali hanno intensificato i passaggi via mare, usando i “panga”, piccoli pescherecci di sette-otto metri. Il 3 maggio scorso una di queste imbarcazioni è finita sugli scogli, poco lontano dalla linea divisoria tra i due Paesi. A bordo, pigiati nella stiva c’erano 32 migranti. Crottie spiega che è la norma: “per i trafficanti i migranti sono solo merce da consegnare senza troppi riguardi”. Spesso le barche fanno un giro più largo: percorrono nella notte diverse miglia in mare aperto e poi rientrano sulla costa americana, scaricando le persone in acqua. Il trasporto sui “panga” è più complicato e pericoloso. Le gang, quindi, applicano la legge di mercato: 8 mila dollari per un passaggio clandestino tra le montagne o nei tunnel; 20 mila via mare. Per il momento il traffico sembra ancora limitato, rispetto alle rotte terrestri. Tuttavia la polizia di frontiera ha arrestato nel 2020 circa 1.200 migranti, contro i 600 circa del 2019. E’ legittimo chiedersi perché le autorità messicane non controllino in modo più efficace le flottiglie dei pescatori e i porti di imbarco. L’agente Crottie, però, risponde che c’è una buona “collaborazione” con i colleghi di oltre confine. Stati Uniti. Rivelò la “guerra sporca” dei droni, 4 anni di carcere a Daniel Hale di Marina Catucci Il Manifesto, 28 luglio 2021 Il caso. Ex analista aveva divulgato materiale sulle guerre Usa in Yemen, Afghanistan e Somalia. Il tribunale della Virginia orientale ha condannato a 4 anni di carcere l’ex analista dell’intelligence Daniel Hale, arrestato il 9 maggio 2019 con l’accusa di aver divulgato informazioni riservate sulla guerra dei droni, e altre misure antiterrorismo, a un giornalista. Meno dei 50 chiesti dal Dipartimento di Giustizia, ma non per questo giustificabili. “Daniel Hale, uno dei più grandi whistleblower, è stato condannato pochi istanti fa a quattro anni di carcere. Il suo crimine è stato dire questa verità: il 90% delle persone uccise dai droni statunitensi sono astanti, non gli obiettivi previsti. Avrebbe dovuto ricevere una medaglia” così ha commentato su Twitter Edward Snowden. Hale aveva divulgato alla stampa informazioni riservate riguardo la guerra dei droni, e segreti sulle operazioni in Afghanistan, Yemen e Somalia. A marzo si era dichiarato colpevole di avere divulgato documenti riservati e aveva “accettato la responsabilità” per aver violato l’Espionage Act. Il 22 luglio scorso aveva risposto all’aggressività dei pubblici ministeri presentando una lettera di 11 pagine scritte a mano; il gesto non era una richiesta di grazia, ma era inteso a spiegare il perché delle sue azioni, raccontando quello che il whistleblower definisce il “giorno più straziante della mia vita”. Mesi dopo che l’analista era arrivato in Afghanistan nel 2012, aveva visto un’auto sfrecciare in direzione del confine con il Pakistan, l’uomo che guidava l’auto era un sospetto, membro di un gruppo che fabbricava autobombe. Un drone americano aveva sparato un missile contro l’auto in corsa, mancandola, l’auto si era fermata, l’uomo era sceso e dopo di lui era scesa una donna che aveva iniziato a tirare fuori freneticamente dall’auto qualcosa che Hale non era riuscito a vedere. Un paio di giorni dopo, l’ufficiale comandante di Hale gli disse che la donna era la moglie del sospettato, e nel retro dell’auto c’erano le loro due figlie, di 5 e 3 anni. I soldati afgani avevano scoperto le bambine in un cassonetto vicino: la più grande era morta e la più piccola era viva ma gravemente disidratata. Nella lettera depositata in tribunale il 22 luglio, Hale ha parlato della sua costante lotta con la depressione e il disturbo da stress post-traumatico derivato da ciò che aveva visto in quella che veniva definita “una guerra pulita”. Il whistleblower aveva perciò deciso di contattare un giornalista con cui aveva comunicato in precedenza. La storia di Hale ricorda molto da vicino quella di Chelsea Manning, ex militare accusato di aver trafugato decine di migliaia di documenti riservati mentre svolgeva il suo incarico di analista di intelligence durante le operazioni militari in Iraq, e di averli consegnati a WikiLeaks. Manning era stata detenuta in condizioni considerate lesive dei diritti umani, in prigione aveva tentato due volte il suicidio e il suo caso aveva fatto il giro del mondo in quanto le informazioni che aveva divulgato riguardavano l’omicidio di diversi civili disarmati da parte dell’esercito Usa. Dopo 7 anni e 4 mesi era stata scarcerata, graziata del presidente uscente Barack Obama, per poi tornare in carcere a marzo 2019 per aver rifiutato di testimoniare contro WikiLeaks davanti a un Grand jury. É uscita nuovamente di prigione il 12 marzo 2020. Il co-fondatore di WikiLeaks Julian Assange, invece, è ancora in prigione a Londra; per lui a gennaio 2021 la giustizia inglese ha negato l’estradizione in Usa poiché è a alto rischio di suicidio.