Rieducazione in carcere, vale 35 cent su 154 euro di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 27 luglio 2021 Se il carcere valesse la pena. Ogni detenuto “costa” allo Stato 154 euro al giorno, di cui solo 6 per mantenerlo. E appena 35 cent vengono usati per la “rieducazione” prevista dalla Costituzione. (In)efficacia del sistema nel libro degli economisti Giordano-Salvato-Sangiovanni. Tutti ormai diventati esperti di vaccini, tutti a confrontare l’efficacia dell’uno o dell’altro soppesando la copertura rispetto alla recidiva variante Covid di turno. Giusto. Eppure lo stesso razionale approccio chissà perché non viene naturale applicarlo all’evidenza statistica del mondo delle carceri, dove lascia totalmente indifferenti il fatto che chi espia la pena tutta e solo in carcere torni a delinquere nel 68 per cento dei casi, contro il 19 per cento di chi invece la sconta in parte in misure alternative al carcere. Tutti ormai attentissimi a non sprecare un euro dei miliardi del recovery fund, e a spaccare giustamente il capello in quattro su ogni programmato impiego di quel denaro. Eppure nessuno che invece si chieda se, visti i risultati di recidiva, abbia senso spendere ogni giorno in media 154 euro per un detenuto se la quota che va alla sua rieducazione è appena 35 centesimi, se persino la parte che va al suo mantenimento è 6 euro e 37 centesimi, e se solo 4 detenuti su 100 hanno la chance di avviarsi a un lavoro “vero” e cioè non alle dipendenze stesse dell’amministrazione carceraria ma per committenze o cooperative esterne. Una qualche controprova che forse la convenienza sociale (in termini di maggiore sicurezza per la collettività) dovrebbe spingere a modificare il modello di esecuzione della pena c’è, e la si trova guardando ad alcune esperienze straniere, come quelle - osserva Filippo Giordano, professore di economia aziendale alla Lumsa di Roma e di imprenditorialità sociale alla Bocconi di Milano - non solo della Norvegia ma anche di Germania o Spagna, esperienze “che dimostrano come sia effettivamente possibile contrastare la recidiva attraverso una maggiore apertura ai programmi riabilitativi e una gestione del sistema penitenziario caratterizzato da un modello di management che consideri i detenuti come fruitori di un servizio” il cui scopo sia “conciliare sicurezza e rieducazione”. È da questa “prospettiva manageriale” che il volume Il Carcere. Assetti istituzionali e organizzativi, scritto da Filippo Giordano, Carlo Salvato e Edoardo Sangiovanni (docenti e ricercatori di management delle università Bocconi e Lumsa) vorrebbe essere “il primo libro scritto in Italia ad adottare un approccio economico-aziendale e di management allo studio del carcere”. Nel raccogliere i risultati di un percorso di 4 anni di ricerca attraverso interviste nelle carceri milanesi di Bollate, Opera e San Vittore, il volume edito da Egea - che ha una prefazione di Marta Cartabia, prima donna a presiedere la Corte Costituzionale e ora ministro della Giustizia, e due inquadramenti del bocconiano economista aziendale Vittorio Coda e del provveditore all’amministrazione penitenziaria per la Lombardia, Pietro Buffa - mette a fuoco quanto sia cruciale allineare lo scopo che si vuole raggiungere dall’esecuzione della pena (sicurezza e rieducazione), i modelli organizzativi e i comportamenti individuali. E se si considera che il libro è stato scritto ovviamente prima dell’emergere dei fatti di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile 2020, di gravità tale da dover essere istituzionalmente sanati il 14 luglio scorso dall’inedita visita in carcere del presidente del Consiglio Mario Draghi con il ministro della Giustizia Cartabia, colpisce come gli autori insistessero già sul fatto che la qualità delle interazioni detenuto-agente sia non solo “fondamentale per il benessere organizzativo e la qualità della vita degli operatori, ma anche il veicolo principale per portare a compimento la riabilitazione dei detenuti”, in quanto “l’atteggiamento degli agenti è uno dei principali elementi che influenzano il benessere dei detenuti, il clima che si crea all’interno dell’organizzazione e il grado di bontà che caratterizza la gestione di un carcere. Le ricerche dimostrano come il modo in cui il personale di prima linea usa la propria autorità ha un profondo impatto sull’esperienza del detenuto, inclusi livelli di ordine, sicurezza, stress e suicidio”. E non a caso in Paesi con minor tassi di recidiva la maggior parte dell’organico impiegato nell’attività di custodia “non porta armi e viene formato attraverso corsi specializzati che toccano anche temi di psicologia e sociologia”. È interessante notare che tra gli studiosi della materia ci sono anche posizioni che, come quelle di Livio Ferrari, Giuseppe Mosconi e Massimo Pavarini in “Perché abolire il carcere”. Le ragioni di “No Prison” (Apogeo), non nascondono “un’esplicita insofferenza per il riformismo penitenziario” e ritengono invece di “porre la questione della necessità di riproporre lo spirito e le tesi dell’abolizionismo carcerario”, nell’assunto di base che “preliminarmente si debba mettere in questione e poi contestare la cultura della pena che è ancora oggi vincolata all’imperativo del castigo legale come duplicatore di violenza e dolore”. Per il manifesto “No Prison”, infatti, “affermare che attraverso il castigo legale, cioè attraverso la sofferenza e il dolore, si possano perseguire finalità di inclusione sociale è inaccettabile logicamente quanto impossibile materialmente”. Ma entrambi i punti di vista convergono sulla fondamentale importanza della “partecipazione dei reclusi alla vita dell’istituto, attraverso varie forme riconducibili anche - rimarca Giordano - alla fattispecie della partecipazione democratica”: nell’ottica cioè “di responsabilizzare i detenuti e metterli nella condizione di riprendere il controllo della propria vita”, una volta terminato di scontare la propria pena. Le prigioni di oggi? Sono più illegali di quanto sarebbe la loro abolizione di Luigi Pagano* Corriere della Sera, 27 luglio 2021 E sempre più studiosi sposano la tesi “No prison”: il “castigo” da solo non serve. Un argomento come il carcere meriterebbe di essere affrontato in seduta permanente da parte del Parlamento sino a che non si trovasse una soluzione al problema. Perché di problema si tratta e anche scottante, come sottolineò l’allora presidente Giorgio Napolitano quando l’Italia venne condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamento inumano e degradante. Lo è anche perché il carcere - a onta di quello che dovrebbe essere, ovvero il luogo di una pena che non riduca l’uomo a un oggetto e si adoperi per il suo reinserimento sociale - sbandiera pubblicamente i propri fallimenti. Il riferimento è non solo agli eventi emersi poche settimane fa - e parlo naturalmente della brutale aggressione subita dai detenuti a Santa Maria Capua Vetere preceduta, giova ricordarlo, dalla morte di quattordici persone durante le rivolte del 2020: altra circostanza terribile, immediatamente rimossa dalla coscienza collettiva - ma alle statistiche che indicano un tasso di recidiva post carceraria stabilizzatasi intorno all’80 per cento. È chiaro che qualunque persona con un minimo di buon senso si preoccuperebbe eccome davanti a questi bei risultati. Primo, perché per ottenerli si spendono molti milioni di euro. Secondo, perché la giustificazione che si dà a questo fallimentare sottrarre una porzione di vita a delle persone - condannati ma anche imputati - consiste nel rifugiarsi nel “ma lo prevede la legge” o in un “vabbè, ma quale alternativa si propone?”. Ora, a prescindere dal fatto che la legge principale dello Stato, la Costituzione, non precisa in nessun modo quale sia il “tipo di pena” da adottare, e ciò significa che se il carcere fosse perfino abolito del tutto nessuno potrebbe gridare all’incostituzionalità, il punto è che la legge di riforma penitenziaria, varata oltre 45 anni fa, immaginava una detenzione ben diversa da quella attuale. Formulata secondo i principi dettati dalla Costituzione, per qualsiasi pena il legislatore avesse deciso. Per questo dico oggi che pensare di abolire il carcere potrà anche essere, forse, una visione utopica. Ma questa era l’obiezione che veniva fatta anche a chi voleva abolire la forca o la decapitazione. Decidere di riportare il carcere o le pene a ciò che la legge aveva stabilito è una cosa che sarebbe perfettamente alla portata degli uomini. Ma pochi la prendono sul serio. Di conseguenza il carcere vive per quello che dovrebbe essere, nel bene o nel male, ma quello che è non piace a nessuno. Immagino men che meno ai detenuti costretti, mentre la politica rimugina sui suoi dubbi, a vivere in carceri sovraffollate, a vedersi negati i diritti, a sentirsi defraudati della loro dignità umana quantunque siano colpevoli. E a sentirsi dire, da parte di chi la legge non l’applica, di essere stati condannati per averla infranta. Questione urgente e scottante, si diceva. Ma temo che dopo la ventata di indignazione per i fatti ricordati poco fa, in realtà già distanti nella memoria dell’opinione pubblica, a insistere per portare avanti le riforme con la ministra Cartabia rimarranno anche questa volta in pochi. Quanto sarei felice se un giorno mi sentissi dire di aver sbagliato completamente questa previsione. *Vice-capo Dap 2012-2015 Carceri, la riforma che non può attendere di Guido Ruotolo terzogiornale.it, 27 luglio 2021 Due commissioni stanno indagando sui fatti accaduti nel marzo 2020 a Santa Maria Capua Vetere e in altri ventidue istituti penitenziari. Ma non bisogna soltanto individuare e punire i colpevoli: la vera emergenza è il deserto di professionalità all’interno delle prigioni, che devono essere riqualificate con figure in grado di sostenere mediante il dialogo i rapporti con i detenuti. “Se davvero il governo vuole correre ai ripari per sanare quel lazzaretto e quella palestra di violenza che sono le carceri avrà bisogno di risorse per dare vita a un new deal del sistema penitenziario”. Lavora al ministero della Giustizia, è un tecnico, e ha le idee chiare sulla partita che si sta giocando nelle carceri. Non era mai accaduto che il presidente del Consiglio, accompagnato dal ministro della Giustizia, si recasse in un carcere, quello di Santa Maria Capua Vetere, al centro di una inchiesta giudiziaria che ha svelato - con i video e le chat - la “deviazione” degli apparati preposti “all’ordine, disciplina e sicurezza”, cioè il corpo della Polizia Penitenziaria. Scene di violenza inaccettabile, pestaggi di detenuti, rappresaglie e tanto dolore hanno portato la magistratura a emettere una cinquantina di misure cautelari. Il premier Draghi è rimasto colpito e le sue parole hanno lasciato il segno: “Non può esserci giustizia dove c’è abuso, non può esserci rieducazione dove c’è sopruso. Il sistema va riformato”. Ma in che direzione si deve andare? La guardasigilli Marta Cartabia ha dato qualche indicazione: “Più fondi, più impegno per la formazione permanente”. Naturalmente adesso bisogna anche ricostruire i fatti che sono accaduti all’indomani delle rivolte in ventidue istituti penitenziari nel marzo del 2020, nel pieno della pandemia da Covid-19. La commissione ispettiva che deve indagare su Santa Maria Capua Vetere è già a buon punto, dopo aver ricevuto dalla procura della Repubblica gli atti della inchiesta penale. Muove i suoi primi passi, invece, la commissione ispettiva presieduta dall’ex procuratore generale di Caltanissetta, Sergio Lari, che dovrà indagare sui fatti accaduti negli altri istituti penitenziari, sempre nel marzo del 2020, per capire le cause stesse delle rivolte. E analizzare i comportamenti adottati dagli operatori penitenziari al fine di ristabilire l’ordine e la sicurezza. Per la verità c’è stata una falsa partenza, perché uno dei componenti della commissione è stato “congelato”. Riccardo Secci, comandante del corpo di polizia penitenziaria del carcere di Lecce è stato invitato a mettersi da parte perché aveva espresso solidarietà umana sui social al provveditore regionale della Campania, Antonio Fullone, indagato dalla procura di Santa Maria Capua Vetere per la mattanza nel carcere. Colpisce il lavoro fatto da “Antigone”, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti, che segue diciotto processi in corso su episodi di torture o violenze nei confronti dei detenuti. Tra questi processi ve ne sono due che riguardano due detenuti lasciati morire per l’assenza di adeguate cure mediche. Si tratta di episodi accaduti negli ultimi dieci anni. Cinque dei nove imputati sono stati condannati per la morte di un carcerato, Alfredo Liotta, che soffriva di anoressia, e che si era ridotto a pesare quaranta chili. Liotta è morto nel luglio del 2012 nel carcere di Siracusa. Un altro medico della casa circondariale di Pordenone è sotto processo per la morte di Stefano Borriello, 29 anni, per una infezione polmonare non curata. Spesso i pm chiedono l’archiviazione degli indagati che riguardano il personale delle carceri, e spesso è il procuratore generale che impone la contestazione dei reati agli indagati stessi con l’avocazione del processo. Ivrea, Monza, San Gimignano, Torino, il carcere di Opera di Milano. L’8 marzo del 2020, la rivolta nel carcere di Modena si trasforma in una tragedia. Nove detenuti muoiono per “intossicazione da farmaci”. Durante la rivolta avrebbero assaltato la farmacia del carcere sottraendo diversi preparati. Al di là dell’archiviazione del processo, l’episodio di Modena è emblematico della situazione carceraria. Esistono tante “piccole” Santa Maria Capua Vetere - come Melfi e Pavia - che adesso la commissione ispettiva dovrà analizzare con attenzione. Sarebbe un errore se la commissione ispettiva e lo stesso governo si soffermassero soltanto sulle “deviazioni” del corpo della Penitenziaria, che pure si sono verificate, sono accertate e sono da sanzionare. Il timore che alcuni nell’amministrazione penitenziaria sollevano è che la commissione si riduca a individuare i “colpevoli”, senza approfondire le cause della patologia del sistema. La vera emergenza delle carceri è il deserto di umanità e di professionalità al loro interno. Se si vuole rompere il circuito di confronto-scontro tra detenuti e agenti di Polizia Penitenziaria si devono ripopolare le carceri con figure in grado di sostenere mediante il dialogo i rapporti con i detenuti. Insomma, bisogna riequilibrare le presenze nelle carceri con educatori, mediatori, negoziatori, assistenti sociali. Non si può accettare che quei pochi assistenti sociali, che hanno la funzione di rieducatori, stacchino il lavoro alle ore 14. Dalle due del pomeriggio alle otto del mattino i “rieducatori” dei detenuti sono gli agenti di custodia. Ecco il circuito virtuoso che si deve attivare nelle carceri: formazione e assunzioni. Mancano persino gli impiegati che potrebbero svolgere una funzione sociale nel carcere. Se un detenuto non può cambiare nemmeno un vaglia per la spesa, diventerà scontroso e la tensione salirà. Pestaggi in carcere, indaga anche chi guidò la catena di comando di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 luglio 2021 Marco Bonfiglioli, il dirigente del provveditorato regionale che dispose e coordinò il trasferimento dei detenuti dal carcere Sant’Anna dopo le rivolte, fa parte della commissione istituita su impulso della ministra Cartabia. Il 22 luglio scorso, su spinta della ministra della Giustizia Marta Cartabia, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha istituito una commissione per far luce sui comportamenti adottati dagli operatori penitenziari per ristabilire l’ordine e la sicurezza. Parliamo delle segnalazioni riguardanti i presunti pestaggi avvenuti in diverse carceri italiane. Marco Bonfiglioli dispose e coordinò il trasferimento dei detenuti da Modena - Nel pool è presente anche Marco Bonfiglioli, il dirigente del provveditorato regionale che dispose e coordinò il trasferimento dei detenuti dal carcere Sant’Anna di Modena, tra i quali quelli che morirono durante il viaggio, o all’arrivo, verso le altre carceri. La commissione del Dap è una indagine interna per verificare le irregolarità - Non è un dettaglio da poco, perché se da una parte c’è stata un’archiviazione del procedimento relativo alla morte di otto persone detenute del carcere modenese avvenuta all’indomani delle rivolte del marzo 2020, dall’altra rimane ancora in piedi la nona morte: quello del detenuto Salvatore Piscitelli, morto ad Ascoli durante il trasferimento. In ogni caso, anche se c’è stata un’archiviazione nei confronti degli altri detenuti morti, la commissione istituita dal Dap è una indagine interna, quella del ministero della Giustizia, che ha la possibilità di verificare le irregolarità al di là dei procedimenti giudiziari. I trasferimenti rimangono il nodo cruciale della vicenda - Il fatto che tra i componenti della commissione istituita dal Dap ci sia il dirigente Bonfiglioli, il provveditore che coordinò il trasferimento, espone il pool al rischio di non essere super partes. Ciò non significa assolutamente che sia responsabile dei fatti accaduti, ma se si vuole fare una indagine serena, forse sarebbe opportuno tenere fuori dal pool la catena di comando che operò in quei terribili e difficili giorni. I trasferimenti disposti dal provveditorato rimangono il nodo cruciale. Secondo l’avvocata di Antigone Simona Filippi alcuni detenuti barcollavano, non stavano in piedi. “Secondo noi non si poteva procedere a quei trasferimenti che invece avvennero”, ha spiegato l’avvocata Filippi. Sulla morte di Salvatore Piscitelli è stata aperta un’inchiesta - Alcuni detenuti arrivarono a destinazione già deceduti, altri durante il viaggio, altri ancora morirono una volta giunti nella nuova cella. C’è appunto il caso di Salvatore Piscitelli sulla cui morte è stata aperta un’inchiesta dopo la denuncia di alcuni suoi compagni trasferiti anch’essi dal Sant’Anna di Modena. Secondo questi detenuti, Piscitelli era stato picchiato e stava malissimo a causa delle sostanze assunte. A più riprese, sempre secondo la loro testimonianza, fu richiesto l’intervento degli agenti penitenziari e quindi del medico senza che avvenisse nulla. Fino a che non venne, semplicemente, constatato il decesso. La commissione dovrà riferire entro sei mesi dalla prima riunione - Come detto, la commissione è stata costituita giovedì scorso con un apposito provvedimento firmato dal Capo del Dap, Bernardo Petralia, e dal suo vice, Roberto Tartaglia. Alla Commissione viene richiesto di procedere agli accertamenti e ai controlli necessari, con il supporto dell’Ufficio attività ispettiva del Dipartimento, “con un metodo di lavoro collegialmente organizzato, strutturato, coerente e omogeneo per tutti gli istituti interessati” e di riferire ai vertici del Dap entro 6 mesi dalla prima riunione. La commissione sarà presieduta dal magistrato Sergio Lari, ex Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Caltanissetta e oggi in quiescenza, individuato - come si legge nel documento del Dap - per la sua “lunga e comprovata esperienza e capacità” alla direzione di un importante ufficio inquirente. L’ex procuratore Lari sarà coadiuvato da 6 componenti, scelti - si legge nella nota del ministero della Giustizia - “fra operatori penitenziari di lunga e comprovata esperienza e capacità professionale”. Ovvero Rosalba Casella, Giacinto Siciliano, Francesca Valenzi, Luigi Ardini, Riccardo Secci e Marco Bonfiglioli. Quest’ultimo, del quale non si mette in dubbio l’esperienza e la capacità professionale, essendo appunto il provveditore che dispose e coordinò il trasferimento dei detenuti del carcere di Modena, potrebbe risultare inopportuno. La commissione dovrà far luce sull’origine delle rivolte del marzo 2020 - La commissione nasce anche con lo scopo di fare luce sull’origine delle rivolte dei detenuti avvenute negli istituti nel marzo 2020. Per quello non serve scomodare vari retro-pensieri. La causa viene da lontano: un sistema penitenziario che, con la pandemia, ha messo a nudo tutta la sua fragilità preesistente. Le dietrologie (si parlava di regia unica per ottenere benefici, una sorta di riedizione della “trattativa Stato-mafia”), invece, servono per mettere sotto il tappeto le complessità. Ma non sarebbe la prima volta. Il carcere delle violenze a gestione famigliare. Ma la direttrice resta di Nello Trocchia Il Domani, 27 luglio 2021 Nella serie di errori e omissioni della direttrice se ne aggiunge un altro che imbarazza anche i vertici dell’amministrazione penitenziaria. Ha fatto accompagnare Cinzia Leone, una senatrice della repubblica, in visita al carcere, da Armando Schiavo, ex agente della guardia penitenziaria, presentato come suo compagno ed erroneamente identificato alla fine del tour conoscitivo come “autista della senatrice”. Perché la direttrice, non indagata e non presente il giorno 6 aprile, ma che ha creduto alla tesi dei depistatori e ha detto che Lamine Hakimi era morto perché “strafatto”, è rimasta al suo posto? A questa domanda la ministra Cartabia non ha mai risposto. Elisabetta Palmieri è la direttrice del carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere dal 2017. Nonostante gli errori commessi in occasione del violento pestaggio del 6 aprile 2020 - a cominciare dalla difesa della catena di comando responsabile delle violenze e del successivo depistaggio - è rimasta al suo posto. Per la ministra Marta Cartabia è inamovibile. E lo scorso 13 luglio, quando la Guardasigilli e il presidente del Consiglio Mario Draghi hanno visitato il carcere, Palmieri era lì, in prima fila a presenziare. Nei giorni scorsi, invece, quando nell’istituto è arrivata la senatrice del M5s, Cinzia Leone, ha trovato ad accompagnarla Armando Schiavo, ex agente della Guardia penitenziaria, presentato come compagno della direttrice ed erroneamente identificato alla fine del tour come “autista della senatrice”. L’esponente della maggioranza è inferocita. “La direttrice è fragile in ragione della sua malattia, ma quel carcere mostra una gestione opaca dove il dominus sembra Schiavo che ha mediato il mio incontro con la direttrice e anche la successiva visita. La ministra la sostituisca subito, non è accettabile un carcere a conduzione familiare”, dice Leone che da tempo si occupa di condizione carceraria. Quando erano state pubblicate lo scorso autunno, Palmieri aveva definito le nostre inchieste come “articolacci”. Aveva parlato di olio bollente, spranghe, bastoni che i detenuti aveva utilizzato nelle proteste che avevano preceduto l’”orribile mattanza”. Aveva raccontato che il magistrato di sorveglianza, Marco Puglia, era stato trattato malissimo dai carcerati contraddicendo le dichiarazioni rilasciate da lui stesso. Aveva detto che Lamine Hakimi, il giovane algerino morto abbandonato da tutti un mese dopo il pestaggio degli agenti di polizia penitenziaria, era morto perché voleva “strafarsi”. Insomma, aveva creduto senza alcun dubbio alla versione di chi stava mettendo in atto il depistaggio. Il nome della direttrice non è presente tra quelli dei 117 indagati per le violenze e le torture commesse il 6 aprile 2020. Lei quel giorno era assente per malattia, ma ha comunque difeso i colleghi escludendo che si trattasse di un pestaggio. Dopo gli arresti che hanno dimostrato la fondatezza delle denunce dei detenuti, in molti si aspettavano un passo indietro o, perlomeno, la sua sostituzione. Invece non è accaduto nulla. Anzi qualcosa è successo. Il 13 luglio, accogliendo la ministra Cartabia e il primo ministro Draghi, la direttrice ha parlato di una “giornata speciale”. Eppure tutto era già noto e pubblico da tempo. Non c’era niente di “speciale”. Semmai tutto quello che è accaduto nelle ultime settimane poteva accadere molto prima. Resta quindi senza risposta la sesta delle 13 domande che abbiamo rivolto a Cartabia: perché la direttrice che ha creduto alla tesi dei depistatori è rimasta al suo posto? Nessuna risposta nemmeno su un’altra grande questione: il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è informato sulla situazione all’interno dell’istituto di pena? Secondo alcune fonti penitenziarie il carcere è in una situazione a dir poco emergenziale. I responsabili della struttura non entrano nei reparti, in alcuni casi è mancata la fornitura mensile ai detenuti. Durante una giornata in cui mancava l’acqua, le bottigliette sostitutive sono state consegnate solo grazie all’intervento di agenti arrivati dall’esterno. Un detenuto è rimasto per giorni senza la necessaria visita psichiatrica e a placare le sue proteste hanno provveduto gli agenti del gruppo mobile arrivato da Roma. “Alcuni reclusi dell’alta sicurezza non avevano mai visto la direttrice prima di un incontro di qualche mese fa”, racconta una fonte all’interno del mondo carcerario campano. Insomma l’impressione è che l’istituto sia senza guida, senza organizzazione. Il compagno e la senatrice - Ora Palmieri è sotto accusa per quanto accaduto alla senatrice Leone. Arrivata in visita al carcere, l’esponente del M5s è stata accompagnata da un uomo indicato dalla direzione. Leone, due collaboratici, il garante Emanuela Belcuore e il misterioso Cicerone hanno visitato prima il reparto Senna e poi il reparto Nilo, quello dove si è compiuto il pestaggio di stato. Alla fine della visita sul foglio con i nominativi dei presenti è comparso il nome di Armando Schiavo con la dicitura “autista”. A quel punto la senatrice ha dichiarato di non avere l’autista e ha chiesto l’identità del soggetto. Dopo un imbarazzato silenzio, la commissaria davanti alle insistenze di Lego, ha detto che si trattava del compagno della direttrice, ex rappresentante della polizia penitenziaria in pensione da qualche anno. Schiavo era presente anche durante la visita di Draghi e Cartabia e viene inquadrato, dice la direzione del carcere, come articolo 17: volontario. Ma c’è dell’altro, dalle carte dell’inchiesta sul pestaggio del 6 aprile 2020 emerge che il numero di cellulare in uso alla direttrice è intestato proprio a Schiavo. “Ci sono relazioni agli atti che giustificano tutto il mio operato inviate agli organi superiori”, dice Palmieri che non vuole aggiungere altro. Ora la ministra che non l’ha rimossa dovrà rispondere anche sul carcere a gestione famigliare. Giustizia, Draghi e Cartabia mediano ma ora si impunta Forza Italia di Liana Milella La Repubblica, 27 luglio 2021 La ministra porta al premier una bozza della norma chiesta dai 5Stelle per garantire la conclusione di tutti i processi di mafia. Fi insiste per inserire modifiche su abuso d’ufficio e corruzione. Il team Draghi-Cartabia scandisce le mosse sulla giustizia per portare a casa la riforma del processo penale. Da oggi a venerdì, quando è previsto l’approdo in aula alla Camera, il percorso sarà irto di ostacoli. Non se lo nascondo il premier e la ministra della Giustizia negli oltre 60 minuti di colloquio a palazzo Chigi. Entrambi hanno “trattato” per tutta la giornata con i grillini di Giuseppe Conte da una parte, ma anche con Forza Italia dall’altra. Perché i fronti aperti sulla giustizia non solo più uno solo, le aperte contrarietà di M5S sulla riforma, ma due. Si è aggiunta la fortissima pressione del partito di Berlusconi che vuole cambiare le regole dell’abuso d’ufficio, “per tutelare i sindaci e gli amministratori pubblici” come dice il coordinatore Antonio Tajani. Ma anche per modificare le figure del pubblico ufficiale e dell’incaricato di pubblico servizio, con un’immediata ricaduta su tutti i reati di corruzione. Al punto che, alla Camera, si è aperta la “caccia a quale processo” (magari dello stesso leader di Fi Berlusconi) potrebbe essere favorito da una modifica del codice penale che si applicherebbe ai dibattimenti in corso. Cartabia mette sul tavolo preoccupazioni e passi avanti. La Guardasigilli porta la prima bozza del possibile emendamento da presentare al neo leader di M5S. Se Giuseppe Conte chiede di garantire la conclusione del processo per tutti i reati di mafia, la via è quella di cambiare il comma 8 dell’articolo 14 della riforma, laddove è indicato che i reati da ergastolo non rientrano tra quelli che devono rispettare le regole dell’improcedibilità. Ecco l’emendamento che assegnerebbe una vittoria a Conte. In quel comma, spiega Cartabia, rientrano i reati di mafia, dall’estorsione al voto di scambio, ma anche altri reati gravi che verrebbero graziati. È un lavoro difficile, su cui si stanno misurando i tecnici della Giustizia e di palazzo Chigi. Cartabia sa che da M5S arrivano altre richieste, spostare la data da cui parte il conteggio per i processi d’Appello, nonché quella dell’entrata in vigore per i reati gravi. Oggi Conte incontra i deputati M5S, e sul tavolo ci sarà se l’accordo è una vittoria o una sconfitta. Fiducia compresa. Draghi e Cartabia sanno bene però che nel centrodestra c’è allarme per le modifiche. Ritenute una concessione eccessiva e immotivata. Di mattina sbuffa Maria Elena Boschi, ma a sera Renzi dice che Iv voterà la fiducia su “tutto ciò che ci porta lontano dalla riforma Bonafede”. Ma Enrico Costa di Azione twitta che “non è credibile il ritorno al fine processo mai”, mentre Giulia Bongiorno, la plenipotenziaria di Salvini, dice “vogliamo leggere ogni minima modifica, non firmiamo nulla a occhi chiusi”. Forza Italia è in subbuglio. Ma un Draghi dialogante ripete a Cartabia che la riforma va chiusa i primi di agosto. La fiducia è a disposizione. La proposta del Pd sull’entrata in vigore - il lodo Serracchiani - è accettabile. Il Csm, come annuncia il vice presidente David Ermini, darà il suo parere prima del voto. Ma adesso a Draghi e Cartabia sono giunti i segnali di “guerra” su abuso d’ufficio e corruzione. Il fronte aperto a sorpresa da Fi che unisce centrodestra e renziani. Il protagonista della battaglia è Pierantonio Zanettin, avvocato, ex laico del Csm, capogruppo in commissione Giustizia, e pure cognato del noto avvocato Franco Coppi. È sua Zanettin la mina sulla riforma. Tre emendamenti riscrivono le regole dell’abuso d’ufficio, non esiste se il fatto commesso è “tenue”, ma soprattutto la definizione di pubblico ufficiale e di incaricato di pubblico servizio, le figure chiave per tutti i reati di corruzione. Martedì 20 luglio Zanettin li presenta. Il presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni di M5S venerdì li dichiara inammissibili. Lui rincorre al presidente della Camera Roberto Fico. Il plico arriva ieri. Oggi la decisione. Zanettin chiede che il “perimetro” della riforma si allarghi a questi reati. Cartabia condivide con Draghi il timore che ciò blocchi la legge. Fico deciderà oggi se il ricorso di Zanettin è ammissibile. Ieri sera ha detto: “Sulla riforma, dialogando, si può trovare un punto di caduta”. Sulla giustizia Conte si piega, ora Forza Italia vuole un risarcimento di Daniela Preziosi e Lisa Di Giuseppe Il Domani, 27 luglio 2021 La trattativa governo-Cinque stelle sulla riforma dei tempi della giustizia penale fa passi avanti. Si tratta e non è detto che vada tutto liscio. Ieri la ministra Marta Cartabia ha incontrato il presidente Mario Draghi a palazzo Chigi. Martedì mattina Giuseppe Conte dovrebbe essere alla Camera a rassicurare i suoi. Lunedì pomeriggio fonti pentastellate di Montecitorio facevano sapere che l’apertura della ministra alla modifica dei tempi dell’improcedibilità per reati di mafia e terrorismo è stata molto apprezzata. “Si sta trattando, speriamo che vada bene”, viene spiegato. Da una parte Roberto Garofoli, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e i funzionari della ministra. Dall’altra l’ex premier alla sua prima vera prova da leader e da capo dei gruppi parlamentari del M5s. Ieri ha ricevuto l’aiutino del ministro Luigi Di Maio: “Sostengo il lavoro che sta portando avanti Conte e sono certo che troverà una soluzione all’altezza delle nostre aspirazioni”. Poche parole, ma indispensabili a calmare i parlamentari. Però nella maggioranza resta maretta: Forza Italia e la Lega sono sempre più irritate da quello che considerano un cedimento al populismo giudiziario dei grillini da parte della ministra. In realtà non è così, o non precisamente. Gli emendamenti, approvati in consiglio dei ministri sul nuovo sistema di prescrizione e di improcedibilità già prevedevano un trattamento particolare per i reati puniti con l’ergastolo, quindi non soggetti al regime di improcedibilità. Non solo, processi di questo tipo vengono trattati con priorità già dall’ordinamento. Ma alcune voci dall’interno del ministero della Giustizia ammettono che la riforma “innovativa” e che ha subito trovato buona stampa, conteneva, ed è un eufemismo, qualche “sbavatura”. La ministra se ne è accorta ascoltando l’ampio spettro delle critiche provenienti dal mondo della magistratura. Qualche indispensabile correzione sarebbe attesa anche dal Colle. Il lodo Conte - Il nuovo testo che dovrebbe essere approvato dalla commissione entro la settimana, per poi andare in aula ed essere licenziato con un voto di fiducia, troverà il modo tenere fuori dall’improcedibilità, probabilmente grazie a una norma transitoria, anche altri processi “pesanti”. Tra gli emendamenti proposti dal Pd (il lodo Serracchiani, ovvero l’”atterraggio morbido” della riforma, “l’appello allungato di tre anni anziché due per tutti i reati permettere agli investimenti sul sistema-giustizia di produrre effetti”) e quelli di Leu (il lodo proposto da Federico Conte di Leu, ovvero nella fase di appello, in caso di condanna in primo grado la proroga del termine per reati di grave allarme sociale, inclusi quelli di corruzione con concussione, raddoppiata due anni in più, più altri due se necessario) una soluzione viene considerata a portata di mano. Ma in realtà ieri in commissione Giustizia della Camera tutto si è rimesso in movimento. Nell’ufficio di presidenza, chi teme un fallimento dell’approvazione della riforma prima dell’estate - che è quasi sinonimo del fallimento tout court, visto che si tratta di una riforma indispensabile per il Pnrr - racconta della sensazione di svuotare il mare con una conchiglia. Da una parte si fa un passo avanti, e la valanga di emendamenti presentati, in gran parte dei grillini, diventano circa 400 “segnalati” (quelli considerati importanti dalle forze politiche). Dall’altra però arriva un altro stop. Fratelli d’Italia, che si è vista respingere dal presidente della commissione gli emendamenti sul ridimensionamento del reato dell’abuso d’ufficio, fa ricorso al presidente della Camera Roberto Fico. E Forza Italia, di concerto, chiede l’allargamento del perimetro degli emendamenti. Forza Italia minaccia - Attaccano divisi, colpiscono uniti. Per il Pd è solo “fuffa”: il reato di abuso di ufficio è già stato svuotato, e soprattutto la riforma riguarda i tempi della giustizia. Fico promette “una valutazione squisitamente tecnica”. L’ufficio di presidenza della commissione è aggiornato a stamattina. Ma se gli emendamenti fossero di nuovo respinti Forza Italia, FdI e anche Lega, con toni più sfumati, avvertono che non voteranno la riforma. Del resto l’allargamento del perimetro del testo si vota in commissione, dove i due schieramenti sono sul filo. Ma se passasse, significherebbe ricominciare daccapo: istruttoria, audizioni, emendamenti. “L’ampliamento del perimetro è una boiata perché così si va a settembre. Lega e FI si assumeranno la responsabilità di andare contro il governo”, sbotta Alfredo Bazoli, capogruppo Pd in commissione. “Così non si rispetta l’impegno posto dal presidente Draghi di chiudere entro l’estate”. C’è anche una guerra nella guerra. Quella di Pd contro Iv, e viceversa. Bazoli se la prende anche con la poca chiarezza di Italia viva, che a sua volta si scatena contro l’ostruzionismo dei Cinque stelle e l’accondiscendenza dei dem. Forza Italia, dinanzi all’eventualità che i grillini possano sbandierare la vittoria di un emendamento firmato dall’ex ministro Bonafede, quello su cui è andato a casa il governo Conte, minacciano sfracelli. Le opposte bandierine rischiano di mandare tutto all’aria. Ma se le destre non sanno come uscire dall’angolo, anche per i Cinque stelle non sarà un pranzo di gala. La settimana durissima di Conte è cominciata ieri. Il futuro presidente del Movimento, che dovrebbe essere incoronato nel voto del 2-3 agosto, resta stretto fra la linea dura di Draghi, la necessità di segnare una presenza nella maggioranza, i malumori nei gruppi parlamentari e anche quello degli elettori. La sfida sulla riforma Cartabia ha già effetti nefasti sugli eletti: mentre lui e i membri della commissione Giustizia cercano di trovare un accordo, i gruppi sono percorsi da continue tensioni. Da settimane, dopo il voto di fiducia dato obtorto collo al decreto Sostegni bis, una buona parte dei deputati grillini si è sentita tradita e quindi guarda con un certo malumore al nuovo corso del Movimento. “La semplificazione delle norme ambientali contenuta in quel testo andava contro i nostri principi”, dice Giovanni Vianello, tarantino, che ha detto no al provvedimento e poi si è anche rifiutato di votare la fiducia immediatamente successiva. “Ormai siamo una replica della Dc, con la differenza che i democristiani queste cose le sapevano fare ed erano radicati sul territorio. Noi neanche quello”. Ma il grosso guaio è sulla riforma Cartabia: nei giorni scorsi in quasi trenta si sono detti pronti a negare la fiducia se il provvedimento non cambia in profondità. Le aperture del governo non sono ancora considerate abbastanza: anche le voci più moderate nel Movimento avvertono che limitarsi a un’eccezione per quei reati significherebbe non contemplare per esempio tutte le varianti aggravate che hanno dato origine a numerosi maxiprocessi in corso in tutto il paese. È complicato anche solo immaginare un punto di caduta che non apra crepe. Tra oggi e giovedì Conte riceverà i parlamentari, divisi per commissione, per discutere incombenze, linee di programma e, naturalmente, la riforma della giustizia. Il fatto che nel pomeriggio di ieri sia sceso in campo anche un nome di rilievo come Di Maio, che raramente si espone su questioni interne del Movimento, dà la misura di quanto forte sia lo scontento. Di qui la necessità di una rassicurazione: “Serve unità interna, perché stiamo giocando tutti la stessa partita e stiamo remando tutti verso la stessa direzione. Scontri interni rischiano solo di allontanarci dai problemi del paese e indeboliscono il Movimento, dunque lavoriamo insieme, dialoghiamo e pensiamo a trovare soluzioni” Resta il sospetto che alla fine quel che porterà a casa Conte dalla sua mediazione, qualunque cosa sia, possa bastare. Nelle ultime settimane i Cinque stelle sono andati troppo vicino a uno scontro interno insanabile tra i leader e il fondatore. Che infatti ha evitato di entrare nel dibattito per non creare ulteriori tensioni. Il ricordo dello scontro con Grillo, con il conseguente pericolo “fine di mondo” è ancora molto vicino, nessuno vuole tornare in quella situazione. Comunque vada, gli eletti si preparano a celebrare il successo del loro nuovo leader alla sua prima crociata, e poi a dare il via libera al testo. Riforma, sulla via della trattativa di Andrea Colombo Il Manifesto, 27 luglio 2021 Giustizia. Ma rimangono molti ostacoli. “Colloquio preliminare” tra premier e guardasigilli a palazzo Chigi. La commissione screma gli emendamenti azzurri portandoli da 2 mila a 400. Il percorso della riforma della giustizia parte nel caos e si arresta subito. Colpa di Fi che, spalleggiata dalla Lega, insiste per allargare il campo d’azione all’abuso d’ufficio, anche se con la giustizia penale di cui qui si parla non c’entra niente, trattandosi di diritto sostanziale. Dunque gli emendamenti azzurri in materia vengono dichiarati inammissibili dal presidente 5S della commissione Giustizia Perantoni ma i forzisti non ci stanno. Con una mano presentano ricorso contro l’inammissibilità al presidente Fico con l’altra chiedono di votare un “ampliamento” della materia trattata. Se Fico, come è probabile, confermerà l’inammissibilità, si dovrà votare sull’ampliamento e la posizione di Iv è incerta. Ma il punto è che comunque il governo non potrebbe ignorare il problema posto da un partito della maggioranza e c’è chi paventa uno slittamento dei tempi dell’approvazione sino a settembre. La riunione dell’Ufficio di presidenza della commissione fa appena in tempo a scremare i circa 2 mila emendamenti portandoli a 400, poi si aggiorna a stamattina mentre premier e guardasigilli si incontrano per fare il punto sulla situazione in quello che palazzo Chigi definisce “un colloquio preliminare”. Sin qui la scena. Dietro le apparenze però la situazione è più complessa. Per tutto il giorno si moltiplicano voci su una trattativa serrata di Conte con Draghi e Cartabia che sarebbe a un centimetro dalla conclusione positiva. A sbloccare la situazione sarebbe la proposta dell’ex premier di escludere dal rischio di improcedibilità i reati di mafia. Mossa azzardata che dovrebbe poi passare sotto le forche caudine della Consulta, senza alcuna garanzia di passarle. Ma intanto la trattativa politica sarebbe sbloccata. Di Maio si espone: “Sostengo Conte. Bisogna lavorare per evitare che i responsabili di reati gravi come quelli di mafia restino impuniti”. Nell’entourage dell’ex premier si allargano di più: “Stiamo aspettando di vedere il testo del governo”. Il Governo, cioè palazzo Chigi, smentisce. Nega ogni trattativa separata. Esclude che arrivi un testo prima della fine dei lavori della commissione e dell’approdo in aula, venerdì prossimo. Non significa che i colloqui, più o meno diretti, non ci siano. Ma nella situazione delicatissima che si è creata ammettere una trattativa specifica con i 5S significherebbe far saltare tutto. L’offensiva di Fi infatti risponde a due esigenze diverse: quella di mettere anche la propria firma in una riforma nella quale sin qui gli azzurri hanno avuto poca voce in capitolo ma anche e anzi soprattutto quella di “riequilibrare” il peso di Conte, ricordando a Draghi che in campo non ci sono solo i 5S. Anche Iv, del resto, rimane al coperto perché aspetta di capire quale sia il punto di caduta a cui mira il governo. Cioè, fuor di metafora, quanto Draghi e Cartabia intendano concedere a Conte e al suo Movimento. L’equilibrio tra le opposte tendenze interne alla maggioranza è una delle incognite che andranno chiarite e sciolte nei prossimi giorni. L’altra è cosa voglia davvero il Movimento. La Spazza-corrotti aveva equiparato i reati contro la Pa e quelli di mafia, e proprio questo è il non detto del tentativo di mediazione. I 5S parlano di mafia ma probabilmente alludono anche alla corruzione. Il governo, l’ala destra della maggioranza e neppure il Pd sono però disposti a un arretramento che significherebbe rimangiarsi l’improcedibilità. Il Pd insiste comunque sulla propria proposta di norma transitoria per allungare i tempi sino a tutto il 2024. In ogni caso il governo non ha intenzione di arrivare oltre la pausa estiva. Se lo scontro tra le due anime della maggioranza o l’irrigidimento dei 5S sulla corruzione bloccheranno tutto, Draghi procederà d’autorità con la fiducia. Il voto comunque arriverà prima del parere del Csm sul complesso della riforma. Dopo la richiesta di Mattarella di posticipare la riunione per discutere dell’intero testo e non solo della prescrizione, sul quale si era già espressa in modo molto critico la sesta commissione del Consiglio, il plenum è stato convocato per il 5 agosto. A quel punto, con l’accordo o con la forzatura di una fiducia al buio, la partita a Montecitorio dovrebbe essersi conclusa. Riforma Cartabia, si tenga conto delle parole di Mattarella in tema di mafia di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 27 luglio 2021 Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha compiuto ottant’anni. Unanimi sono stati, nei messaggi augurali, i convinti apprezzamenti per la sua figura e la sua opera. Parole ricorrenti: equilibrio, saggezza, autorevolezza, tutela incessante dei principi costituzionali, senso dello Stato e profilo morale alti. In sostanza, una guida forte riconosciuta come tale ben al di là delle formule di circostanza. Questo Mattarella è lo stesso che il 23 maggio scorso nell’aula bunker del tribunale di Palermo ha pronunziato un intervento non rituale articolato su due principali passaggi. Primo: “La mafia esiste tutt’ora, non è stata definitivamente eliminata”, nonostante “i grandi successi ottenuti” sul piano repressivo e su quello della diffusione di una coscienza non più succube dei disvalori mafiosi. Secondo: “O si sta contro la mafia o si è complici dei mafiosi”. Parole lucide e ferme, che devono valere come riferimento sicuro e imprescindibile. Sempre. Proiettandole anche sul dibattito in corso in tema di riforma della giustizia. In particolare sull’allarme circa i rischi che la nuova disciplina della prescrizione (alias improcedibilità) potrebbe comportare per la cancellazione di migliaia di processi relativi a delitti di mafia. Allarmi che ben si possono definire certezze se si considera che provengono anche da magistrati come Cafiero de Raho e Gratteri, la cui competenza e affidabilità sono di tutta evidenza. E allora: per semplice dovere di coerenza con la valutazione di guida forte del paese da tutti espressa nei confronti del presidente Mattarella, che per favore si tenga concretamente conto delle sue indicazioni in tema di mafia nel discutere se introdurre aggiustamenti “tecnici” alla riforma Cartabia. Tanto più che le entusiastiche e sacrosante parole augurali sopra ricordate sono tratte dal messaggio del premier Draghi. La tipica tolleranza italiana per i crimini commessi dalla classe dirigente di Andrea Lorenzo Capussela Il Domani, 27 luglio 2021 Si parla di impunità, a proposito della prescrizione, ma circolano pochi dati. Ne discuterò alcuni sui crimini economici e finanziari, come la corruzione o il falso in bilancio. Reati scelti non perché siano necessariamente più gravi di altri, ma perché la loro diffusione colpisce la fiducia nella politica e nei mercati, e perché i loro protagonisti sono tipicamente parte delle categorie - politici, imprenditori, amministratori pubblici - che più influenzano le scelte politiche delle nazioni. Il confronto - Da decenni la Banca mondiale elabora stime sulla diffusione della corruzione. Il suo indicatore ordina le nazioni secondo una scala che va da 2,5 a -2,5. Nel 2019 il livello assegnato a un paese particolarmente virtuoso, la Finlandia, era 2,15. Il livello della Francia, dove gli scandali non sono ignoti, era 1,30. Quello dell’Italia 0,24. Non conosco simili stime per gli altri reati economici e finanziari, ma suppongo che la situazione non sia molto diversa. Del resto, l’indicatore del rispetto della legge disegna un quadro simile: Finlandia 2,02; Francia 1,41; Italia 0,28. Questi dati non vanno presi alla lettera, ma resta utile fissare gli ordini di grandezza che ci restituiscono. In Italia la corruzione sarebbe nove volte più diffusa che in Finlandia (2,15/0,24 = 8,9), e oltre cinque volte più che in Francia (1,30/0,24 = 5,4). Lì, invece, la diffusione sarebbe meno che doppia rispetto alla Finlandia (2,15/1,30 = 1,7). Il Consiglio d’Europa pubblica annualmente i dati sulla popolazione carceraria. Secondo l’ultima rilevazione, riferita al 31 gennaio 2020, le persone che scontavano in carcere una condanna definitiva per reati economici e finanziari erano 136 in Finlandia, 2.601 in Francia, e 418 in Italia. In rapporto alla popolazione, quindi, per questi reati c’era un carcerato ogni 40.625 residenti in Finlandia, uno ogni 25.797 in Francia, uno ogni 144.126 in Italia. Ciò significa che in Finlandia il numero dei carcerati per questi reati era oltre il triplo che in Italia (144.126/40.625 = 3,5), e in Francia oltre il quintuplo (144.126/25.797 = 5,6). E la ragione non è una diversa propensione a ricorrere al carcere, perché rispetto alla generalità dei reati l’Italia imprigiona più di entrambe queste nazioni. I carcerati con condanna definitiva per reati di droga, in particolare, sono quasi il doppio che in Francia e quasi il triplo che in Finlandia. Esclusa questa spiegazione, combino la comparazione con quella sulla frequenza dei reati. Se in Italia i crimini economici e finanziari sono nove volte più diffusi che in Finlandia, ma i carcerati per questi reati sono meno di un terzo, in rapporto alla popolazione, ne consegue che verso di essi l’Italia è oltre trenta volte più tollerante della Finlandia (8,9x3,5 = 31,1). Il rapporto con la Francia è pressoché uguale (5,4x5,6 = 30,2). Francia e Finlandia sono in equilibrio, infatti: la prima è più corrotta della seconda (1,7 volte di più) ma anche il numero dei carcerati è maggiore (di 1,6 volte). Tolleranti - Queste cifre, ripeto, non devono essere prese alla lettera. Non solo per le limitazioni e la scarsezza degli indicatori, ma anche perché i confini cronologici e geografici della comparazione dovrebbero essere allargati. Ma almeno una cosa si può dire, alla luce dell’equilibrio esistente tra Francia e Finlandia e dello squilibrio tra l’Italia ed entrambe. Noi siamo singolarmente tolleranti verso i crimini tipici della classe dirigente, che infatti pare più incline a violare la legge che altrove. E che il divario sia di tre, di dieci, o addirittura di trenta conta relativamente poco: l’effetto sullo sviluppo civile ed economico è comunque pesante, per le ragioni che ho detto. La prescrizione è certo una causa di impunità, soprattutto per questi reati. Ma il problema di fondo, quanto alla riforma della giustizia, è immaginare sanzioni al tempo stesso civili - ossia rispettose della pari dignità delle persone, e temo che in Italia il carcere non lo sia quasi mai - e dissuasive. Questo è un tema non meno urgente dell’efficienza e dei tempi della giustizia, ma è meno discusso. Una ragione, presumo, è che questi sono i reati tipici della classe dirigente, nella quale la solidarietà interna sembra spesso prevalere sulla cura dell’interesse generale. Quindi è dalla società che deve venire la spinta per affrontare il problema. Ma se anche ciò non avvenisse, converrà tenere presente questi dati nel valutare il dibattito che ora si svolge attorno alla riforma della giustizia. Riforma della magistratura onoraria: doppio regime per i nuovi ingressi e chi è già in servizio di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 27 luglio 2021 Pubblicata la Relazione della Commissione Castelli. La Ministra della Giustizia Cartabia effettuerà le sue valutazioni e una sua sintesi. Pronta la Relazione finale sulla magistratura onoraria. Presieduta da Claudio Castelli, Presidente della Corte d’Appello di Brescia, la Commissione è stata costituita presso il Ministero della Giustizia con Dm del 23 aprile 2021, mentre i lavori sono iniziati il 7 maggio e si sono conclusi dopo 40 riunioni. Le conclusioni sono ora al vaglio della Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che effettuerà “le sue valutazioni e una sua sintesi”. La scelta di prendere come base il Dlgs n.116/2017, spiega la Relazione, deriva dal fatto che tale normativa “è stato il primo tentativo organico di dare una disciplina alla magistratura onoraria”. Mentre è addirittura “superfluo” rappresentare “l’estrema difficoltà di intervenire” in una materia su cui oltre alle “oscillazioni normative” (dal giudice della terza età al magistrato semiprofessionale), si è creato un “forte contenzioso sia sindacale che giudiziario”, fino alla recentissima messa in mora dell’Italia nella procedura di infrazione Europea del 15 luglio scorso che ha “inevitabilmente costretto la Commissione ad una rivisitazione del contenuto degli elaborati”. La scelta è quella di abbandonare il cottimo che “se può avere avuto elementi positivi sotto il profilo della produttività, ha anche facilitato distorsioni”. Nel futuro, poi, la magistratura onoraria deve restare a termine e investire soltanto una parte del tempo di lavoro del professionista (9 gg al mese). Ma l’elemento “più complesso da affrontare”, secondo la Relazione, è la “distinzione di status” tra magistrati di nuovo reclutamento e magistrati già in servizio, una distinzione che è stata “ulteriormente accentuata”. È infatti emerso che l’età media di un magistrato onorario è di 55 anni (59 per i giudici di pace, 55 per i g.o.t., 53 per i v.p.o., 58 per i giudici ausiliari in Appello). Non solo, ancor più rilevante è il dato della durata delle funzioni onorarie: poco più di 15 anni in media (19 anni per i giudici di pace, 15 per i v.p.o. e 12 per i g.o.t.). La riforma dovrà dunque muoversi in due diverse direzioni: tener conto di chi è già in servizio; e regolare l’assetto della magistratura onoraria del futuro favorendo l’accesso delle professionalità più giovani ma vietando la reiterazione dei contratti. La funzione di giudice onorario dovrà essere sempre di più un passaggio nella carriera del professionista legale. Magistrati in servizio - La Relazione delinea un nuovo trattamento dei magistrati in servizio da più quadrienni per assicurare loro la conservazione dell’incarico in corso sino al conseguimento dell’età pensionabile (sino al limite massimo anagrafico incrementato da sessantotto a settanta anni, uniformandolo a quello dei magistrati professionali). E nell’intento di giungere a un regime di compenso “unitario e adeguato”, la Commissione ha ritenuto “appropriato” un importo dell’indennità “non inferiore a 2.200 euro mensili netti (per 12 mensilità) per i magistrati onorari in servizio che abbiano scelto la fascia di maggiore impegno”. “Tale valore - spiega la Relazione - è stato ricavato facendo una comparazione con gli stipendi netti e lordi di alcune figure di responsabilità e prestigio dell’Amministrazione giudiziaria e con quello del magistrato di prima nomina”. “È sicuramente vero - prosegue - che tutte le professioni comparate (funzionario, direttore, magistrato in tirocinio) riguardano attività esclusive ed a tempo pieno, ma oltre ad avere le maggiori garanzie del rapporto di lavoro pubblico e concernente l’attività dei magistrati onorari attività giurisdizionale e non amministrativa, va chiaramente detto che l’attuale trattamento che si propone tiene conto del lavoro pregresso prestato e che tale regime favorevole vuole essere anche a compensazione di esso”. Previdenza - Molto delicata poi la questione della tutela previdenziale. Data per pacifica, salvo che per i lavoratori dipendenti e per gli avvocati, l’iscrizione alla Gestione Separata INPS, per la Commissione, occorrerà verificare se tale iscrizione deve avvenire con le modalità di versamento della contribuzione previste per i lavoratori autonomi, e quindi con una contribuzione (allo stato del 25,98%) interamente a carico dell’iscritto o con le modalità previste a carico dei collaboratori che prevedono una contribuzione del 34,23 % di cui 2/3 vengono pagati dal committente e 1/3 dal collaboratore. Ciò non vale, peraltro, per i giudici onorari iscritti all’albo degli avvocati, che restano iscritti alla Cassa forense, e per i quali, quindi, i compensi percepiti come giudici onorari vanno a confluire nel coacervo dei compensi professionali, sui quali è commisurato il 15% di contributo soggettivo che gli avvocati sono tenuti a versare, in aggiunta al contributo integrativo del 4% riversato sui committenti. Reclutamento - Una prima scelta, prosegue la Relazione, è già effettuata dal legislatore con l’art.11 Dl 9 giugno 2021 n. 80: privilegiare per la magistratura onoraria i giovani che avranno compiuto l’esperienza del funzionariato come addetti all’ufficio per il processo. A questa categoria in via gradata seguono quelle già delineate dal Dlgs n.116/2017, ovvero avvocati o notai con almeno due anni di professione o coloro che hanno concluso i tirocini formativi. Altro titolo di preferenza che viene aggiunto, peraltro in fondo, è l’aver riportato il Diploma delle scuole di specializzazione per le professioni legali che valorizza sempre i giovani che abbiano riportato una preparazione particolarmente qualificata. L’unico titolo di preferenza che è stato eliminato è l’esercizio pregresso di funzioni giudiziarie onorarie. Tale esclusione si fonda sulla necessità di evitare che si ricreino forme di precariato Bandi - L’articolo 6 già prevede che il CSM debba provvedere ad individuare e pubblicare i posti ad anni alterni anche sulla base delle vacanze previste nei 12 mesi successivi. Il bando verrebbe emanato direttamente dal CSM e gestito dallo stesso fino alla redazione della graduatoria e all’ammissione al tirocinio. L’indennità - La proposta di un’indennità fissa onnicomprensiva poi “pare quella che può dare migliori risultati, sempre se accompagnata da adeguate verifiche continuative”. La somma indicata nel Dlgs n. 116/2017, € 16.140,00, tuttavia, “anche qualora venisse aumentata della parte variabile originariamente prevista ovvero del 15 o del 30%, arriverebbe a somme comunque molto limitate (€ 18.561,00 o € 20.982) e scarsamente appetibili per giovani laureati qualificati o per giovani avvocati che vogliono intraprendere questa esperienza professionale”. Si tratterebbe di fatto di una indennità netta di € 1.100,00 al mese (per dodici mensilità). L’opinione della Commissione è che se si vogliono coinvolgere persone di qualità sia necessario riqualificare tale somma. Assegnazione dei procedimenti civili e penali ai giudici onorari di pace nei tribunali - La Commissione ha affrontato poi il tema dell’utilizzo dei g.o.p. nei Tribunali. Il fil rouge lungo il quale si sono svolti i lavori è stato quello di garantire l’efficientamento degli uffici giudiziari che, così come per i magistrati onorari già in servizio, richiede la presenza anche della componente onoraria di nuova nomina nel settore penale. Le persistenti criticità evidenziate dai Presidenti di Tribunale e legate alle periodiche vacanze di organico ed ai carichi giudiziari, hanno consigliato di eliminare le preclusioni rigide di cui all’art. 11, autentica “norma capestro” che rende sostanzialmente quasi impossibile il ricorso al g.o.p., anche perché ancorate a valori statistici medi di difficile acquisizione. Omicidio di Voghera, armarsi non è un diritto di Carlo Galli La Repubblica, 27 luglio 2021 La giustizia “fai da te” sembra ammiccare alle paure diffuse nella società ma in fondo è una resa davanti alla sfida di ricostruire le strutture pubbliche di una vita associata civile e democratica. “La difesa è sempre legittima”. Sembra che non ci sia nulla di più ovvio di questo principio, enunciato da Salvini a commento e giustificazione della vicenda di Voghera, che ha visto un extracomunitario ucciso da un assessore leghista, che ne era stato aggredito. E invece, anche al di là della valutazione dell’evento specifico, che spetta evidentemente alla magistratura, alcune considerazioni possono fare comprendere quanti problemi politici siano impliciti in quelle parole. Al di là del fatto che la difesa può comportare un eccesso, proprio in quanto è affidata a una valutazione soggettiva, il punto è che il modello politico italiano ed europeo si fonda precisamente sul disarmo dei cittadini, sulla pacificazione dei conflitti e sull’attribuzione allo Stato del monopolio della violenza legittima: all’interno affidata alle forze di polizia, all’esterno alle forze armate. È nella dimensione pubblica, impersonale, formale, giuridica, oggettiva, che vengono tutelati i diritti individuali, le ragioni soggettive. Lo Stato moderno fonda la propria legittimità originaria sullo scambio fra protezione pubblica (della vita, della proprietà) e ubbidienza privata, sulla base delle leggi. In quest’ottica, il possesso di armi da parte dei privati o è segno di grave disobbedienza, ossia di criminalità, o è visto come un’eccezione, che richiede giustificazioni speciali e permessi particolari, controllati e concessi dallo Stato. Non è certo un diritto, quindi. Il diritto, in quest’ambito, sta dalla parte dello Stato, non del cittadino. E l’autodifesa armata è in ogni caso un evento raro, da indagare con sospetto. Se fosse qualcosa di ovvio, di quotidiano, di normale, ciò significherebbe che l’efficienza e la legittimità dello Stato sono in crisi: che la società sta regredendo verso la giungla in cui ognuno è giudice di se stesso, che sta ritornando a quello stato di natura per fuggire il quale si è creato lo Stato. E in tal caso sarebbe compito di una forza politica responsabile, all’altezza di un ruolo di governo, non certo accentuare il fenomeno, aggravandolo col legittimare l’autodifesa, come una pratica naturale. Al contrario, si tratterebbe di restaurare l’imperio della legge, di affermare non la sconfitta dello Stato ma la sua autorevolezza, di ristabilire le condizioni di una ragionevole sicurezza - che, tra l’altro, vanno ben al di là dell’ordine pubblico, e che si estendono anche alla sicurezza sociale e lavorativa (oltre che sanitaria) -. E ciò è tanto più vero nel caso di una forza politica di destra, il cui programma di “legge e ordine” non dovrebbe potersi rovesciare in “arbitrio e disordine”, in una tutt’altro che rassicurante incertezza e in una diffusa insicurezza. Si dirà che in quest’ambito, come in altri, la Lega interpreta la propria natura di destra secondo un modello americano, nel quale si mescolano Trump e National Rifle Association, la potente associazione dei produttori di armi da fuoco, ovviamente più che favorevole alla detenzione privata delle medesime. Ma proprio qui sta il problema. La Costituzione degli Stati Uniti protegge, con il secondo emendamento, il diritto dei singoli di portare armi; un diritto che anche di recente la Corte suprema ha affermato essere di pari rango rispetto alla libertà di religione e di parola. La politica, negli Usa, non disarma i cittadini. Il modello politico a cui si ispira è quello repubblicano del popolo in armi, un popolo in grado di difendere in prima persona la propria esistenza e la propria libertà - la guerra di indipendenza ha segnato profondamente la concezione americana della politica. Un modello, quello americano, davvero affascinante, al quale, nonostante i molti gravi problemi cui dà origine, gli Usa non intendono rinunciare - al più, è realistico pensare che quel diritto possa essere ulteriormente regolamentato, non certo abolito. Un modello politico del tutto peculiare, quindi, e perciò inapplicabile in Europa, dove la politica con le sue istituzioni è stata pensata e organizzata come strumento per superare le guerre civili. Importarlo nel nostro contesto costituzionale, nella nostra civiltà giuridica, significa non avere la percezione storica e intellettuale della genesi e delle esigenze della nostra politica. E significa quindi collocarsi al di sotto delle esigenze di uno Stato democratico, i cui problemi non possono certo essere risolti con una populistica e privatistica giustizia “fai da te”, che sembra ammiccare alle paure diffuse nella società ma che in fondo è una resa davanti alla sfida di ricostruire le strutture pubbliche di una vita associata civile e democratica. In cui i cittadini abbiano il diritto di vivere sicuri senza portare le armi. Nuove Br, “Lioce irriducibile”: confermato il carcere duro di Nicoletta Tempera La Nazione, 27 luglio 2021 La Cassazione ha respinto il ricorso della brigatista, all’ergastolo per l’omicidio di Marco Biagi: “Può riallacciare rapporti con militanti”. La pericolosità di Nadia Desdemona Lioce non è venuta meno in 18 anni di carcere. E non è per questo plausibile, per la brigatista assassina di Marco Biagi, un regime diverso dal 41 bis, in quanto è “attuale e concreta” la possibilità che la leader delle Nuove Br riallacci legami “con l’ambiente malavitoso”. Una possibilità “che non potrebbe essere adeguatamente fronteggiata con il regime carcerario ordinario”. La Cassazione motiva così il rigetto del ricorso presentato dall’avvocato Carla Serra, legale della brigatista, contro la sentenza del tribunale di Sorveglianza di Roma che a novembre 2020 aveva avallato il provvedimento ministeriale per la proroga della detenzione della Lioce in regime di massima sicurezza al carcere dell’Aquila, dove sta scontando l’ergastolo per gli omicidi del giuslavorista Marco Biagi, ammazzato in via Valdonica, sotto casa sua, la sera del 19 marzo 2002, del consulente del ministero del Lavoro Massimo D’Antona e dell’agente della Polfer Emanuele Petri, ucciso in treno per sottrarsi a un controllo dei documenti. Quell’omicidio, il 2 marzo 2003, segnerà la fine della latitanza della Lioce e l’inizio della sua vita dietro le sbarre. La Cassazione, in merito alla posizione della sessantunenne foggiana, al suo ruolo di “irriducibile” leader delle Nuove Br - Partito Comunista Combattente, elenca nel dettaglio, e fa propri, i motivi che hanno spinto il Tribunale di Sorveglianza a mantenere per la detenuta il regime di 41 bis. Un regime che “mira a contenere la pericolosità di singoli detenuti, proiettata anche all’esterno del carcere, in particolare impedendo i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali anche di tipo terroristico tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà”, spiega la Cassazione che sottolinea come “la motivazione adottata” dal Tribunale romano, “ha congruamente illustrato la posizione apicale assunta dalla ricorrente quale capo carismatico dell’organizzazione ‘Brigate Rosse - Partito Comunista Combattente’ (...) secondo quanto già giudizialmente accertato nonché la sua posizione di ‘irriducibile’, mantenuta ferma in costanza del lungo periodo di detenzione, anche sottoscrivendo comunicati che ribadiscono l’attualità della lotta armata apprezzati dai militanti sia fuori che all’interno delle carceri”. Rendendo concreto, in questo modo, “il rischio che la detenuta, in caso di ammissione al regime penitenziario ordinario e del conseguenziale allentamento dei controlli, riallacci, sfruttando il prestigio criminale acquisito, i rapporti con i militanti in stato di libertà, (peraltro riproponendo una condotta già tenuta in passato)”. Conclusioni a cui la Suprema Corte arriva in considerazione delle condotte poste in essere in questi anni di detenzione dalla Lioce e dalle risultanze investigative, sottolineando, ad esempio, “il trattenimento di missive scambiate con il Morandi (Roberto, uomo di fiducia della Lioce attivo su Firenze, complice nel delitto Biagi, ndr) ed altri brigatisti contenenti espliciti riferimenti alla riorganizzazione del gruppo terroristico e al supporto di altre organizzazione internazionali nella radicata convinzione della necessità di portare avanti la lotta armata contro le istituzioni dello Stato, pur nel mutato contesto sociale”. E poi elencando le manifestazioni “di sostegno e di supporto alle Brigate Rosse da parte degli ambienti più oltranzisti e di fiancheggiatori del terrorismo armato”, rivolte in questi anni alla Lioce e da lei apprezzate. La Cassazione, rigettando il ricorso, ha anche condannato la brigatista al pagamento delle spese legali e di un’ammenda da 3mila euro. Sanremo (Im). Detenuto di 49 anni si suicida in cella di Giulio Gavino La Stampa, 27 luglio 2021 Un detenuto italiano, di 49 anni, recluso nel carcere di Sanremo, presso la sezione “Sex Offender”, si è impiccato la scorsa notte. L’uomo era stato condannato per più estorsioni aggravate ed era accusato di una lunga serie di truffe agli anziani. Proprio per quest’ultimo motivo era stato associato a questa specifica sezione, che non comprende soltanto chi ha commesso reati a sfondo sessuale nei confronti di donne. Stando a quanto ricostruito, l’uomo si sarebbe tolto la vita con un lenzuolo legato alla grata del bagno. È stato un agente, durante un’ispezione delle celle ad accorgersi che l’uomo non era a letto, mentre gli altri detenuti dormivano. “Nulla da fare per il detenuto, che ha deciso di evadere la scorsa notte dalla vita terrena - afferma il segretario regionale della Uil Polizia Penitenziaria, Fabio Pagani - malgrado gli immediati soccorsi della polizia penitenziaria e del personale sanitario”. Perugia. Si spara in carcere, in fin di vita agente della penitenziaria La Nazione, 27 luglio 2021 Dramma a Capanne. Agente della polizia penitenziaria si è sparato con la pistola d’ordinanza nel carcere di Capanne e ora è in fin di vita. A denunciare il fatto è Fabrizio Bonino, segretario del Sappe, sindacato della penitenziaria. “Al secondo piano della caserma di Perugia Capanne stamattina, erano circa le 8,10, un assistente capo coordinatore della Polizia Penitenziaria ha tentato un gesto estremo sparandosi con l’arma d’ordinanza. Immediatamente sono intervenuti i medici dell’area sanitaria dell’Istituto ed i colleghi tutti: è stata chiamata l’ambulanza. Dopo una Tac, sembrerebbe avere gravi danni a fegato, reni e polmoni ed è in procinto di essere operato: la speranza ovviamente è che si possa salvare” “È una notizia agghiacciante, che sconvolge tutti noi - aggiunge Donato Capece, segretario nazionale Sappe - dall’inizio dell’anno ci sono stati ben quattro suicidi nelle fila del Corpo di Polizia Penitenziaria, nel 2020 furono 6 i poliziotti penitenziari che si sono tolti la vita ed erano stati 11 nel 2019. Numeri sconvolgenti. Rovigo. “Nessun sovraffollamento dietro le sbarre” Il Resto del Carlino, 27 luglio 2021 Sopralluogo della consigliera regionale Cestari nella struttura penitenziaria: “Ci sono 190 detenuti a fronte di 300 posti”. Poco più di 190 detenuti a fronte di una potenziale capienza di 300. Una situazione certamente controcorrente quella del carcere cittadino. Qui ieri mattina si è svolto il sopralluogo della consigliera regionale Laura Cestari. La consigliera regionale di Liga Veneta per Salvini Premier ha fatto tappa alla struttura in via Vittorio Bachelet ieri mattina dopo aver già illustrato nel corso della settimana scorsa in aula a Palazzo Ferro Fini, sede della Regione, la relazione sull’attività 2017-2020 del garante regionale per i diritti alla persona. Cestari è stata ricevuta dal direttore Tazio Bianchi, dal comandante Sara Milani e dal capo dell’area educativa Monica Motta. La consigliera ha potuto toccare con mano la situazione dell’istituto polesano che, numeri alla mano, rappresenta un’eccezione nel panorama carcerario regionale ed italiano. A fronte infatti di una capienza regolamentare di 208 unità e una tollerabile di 306, i detenuti presenti ad oggi sono ‘solo’ 193, 90 dei quali in regime di cosiddetta alta sicurezza (81 italiani e 9 stranieri) e 103 in media sicurezza (32 italiani e 71 stranieri), con 112 ingressi dal primo gennaio scorso (59 da altri istituti) e 128 uscite (15 da altri istituti). La delegazione, nel breve tour, ha potuto visionare tutti gli ambienti della struttura. A loro si è unito anche il garante provinciale Guido Pietropoli. Soddisfazione al termine del sopralluogo da parte della Cestari che ha così commentato: “Rovigo rappresenta una situazione assai positiva sia a livello regionale che nazionale, non essendo al momento interessata dal problema cronico del sovraffollamento che pure nel Veneto fa registrare un totale di 2287 detenuti su una capienza regolamentare di 1908 posti. Al di là dei numeri, il ruolo delle istituzioni, quindi anche la Regione e del garante che essa esprime (si è insediato Mario Caramel in sostituzione di Mirella Gallinaro) resta quello di organi vigilanti. La pandemia ha riportato al centro del dibattito la questione della detenzione e il delicato equilibrio che esiste tra certezza della pena, rieducazione e dignità della condizione carceraria”. Grosseto. Il carcere di via Saffi non è sovraffollato di Pierluigi Sposato Il Tirreno, 27 luglio 2021 Ci sono 25 detenuti “ma non si deve abbassare la guardia”. Don Enzo: “Indispensabili comunque spazi di vivibilità”. Sono tutti d’accordo: la situazione del carcere di via Saffi è più che soddisfacente. Ma non basta, non bisogna abbassare la guardia. Né adesso né nel nuovo carcere che dovrà vedere la luce (ma non c’è ancora una data) alla ex caserma Barbetti di via Senese. Dei problemi della detenzione, anche e soprattutto a livello nazionale, si è parlato nei giorni scorsi nella diretta video di Radio Radicale che ha avuto luogo dall’esterno di via Saffi e alla quale hanno partecipato Rita Bernardini (Partito Radicale e “Nessuno tocchi Caino”), Francesca Scopelliti (“Fondazione internazionale per la giustizia Enzo Tortora”), l’avvocato Massimiliano Arcioni (presidente Camera penale di Grosseto) e don Enzo Capitani (cappellano del carcere). Un “memento” al quale ciascuno ha portato il proprio contributo, anche scritto, parallelamente all’iniziativa di raccolta firme sul referendum giustizia. “In carcere - dice don Enzo, sacerdote da trenta anni in via Saffi - la situazione dal punto di vista umano è eccellente. La struttura è piccola e, soprattutto, gli agenti della polizia penitenziaria sono disponibili a camminare accanto ai detenuti. Anche il settore educativo attivo nel carcere cerca di recuperare e superare le carenze strutturali. Cosa vuole dire? Vuol dire che in via Saffi manca uno spazio di vivibilità esterna alle celle. C’è un terrazzo con il calcio balilla, troppo poco”. E quindi isola felice ma... “Ma comunque un nuovo carcere serve - dice don Enzo - per migliorare ancora le condizioni umane. Occorre sviluppare la parte rieducativa, sennò quella lì - dice indicando l’ingresso - è soltanto una porta girevole, in cui chi esce è purtroppo destinato a rientrare. Serve una svolta”. Don Enzo cappellano da trenta anni: differenze notate? “Il carcere è uno spaccato della città. Nei primi anni Ottanta qui c’erano soprattutto i tossicodipendenti. Poi, qualche anno fa, ci sono state in contemporanea quattro persone accusate di omicidio: una situazione che è apparsa immediatamente anomala. Io dico che, nel quadro più generale del pianeta giustizia, questa periferia deve essere portata al centro”. Attualmente ci sono 25 detenuti, principalmente persone in attesa di giudizio. “Servono strutture moderne e dignitose - è il parere di Arcioni - Questa è una struttura non in sovraffollamento ma fatiscente, anche se l’amministrazione si impegna a tenerla dignitosa, soprattutto per i detenuti”. In ambito nazionale, il presidente ha rilevato “l’esasperata ricerca del consenso elettorale”, un giustizialismo “che ha svegliato i peggiori istinti di vendetta”. Il dibattito in diretta, anche con domande degli ascoltatori arrivate via Whatsapp a Bernardini (che ha elogiato la ministra Cartabia per le recenti iniziative), ha riguardato temi più generali. “Dai tempi di Enzo - ha tra l’altro detto Scopelliti, che di Tortora era stata compagna - purtroppo non è cambiato nulla”. Milano. Cartabia firma protocollo per valorizzare “la cultura della restituzione” di Antonella Barone gnewsonline.it, 27 luglio 2021 Un protocollo che prevede di impegnare i detenuti nella tutela del verde pubblico e di acquisire competenze utili per reinserirsi nel mondo del lavoro. È questo lo scopo dell’accordo firmato oggi presso la Prefettura di Milano dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, insieme al capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (DAP) Bernardo Petralia e con il sindaco di Milano Giuseppe Sala alla presenza del prefetto Renato Saccone. Una promozione diretta all’attività di cura e manutenzione di aree verdi, parchi e giardini con il coinvolgimento di persone detenute. “L’unione fa la forza - volontari al servizio di una Milano più verde e più bella” è infatti il progetto a cui afferisce il protocollo che, avvalendosi di soggetti volontari nelle attività di tutela del patrimonio urbano, ha già restituito all’uso sicuro da parte della cittadinanza ampie aree del Parco Porto di Mare e altri analoghi contesti urbani, alcuni dei quali, come il boschetto di Rogoredo, tristemente noti per essere una piazza di spaccio di sostanze stupefacenti. Le persone detenute che accetteranno di svolgere attività formativa inizialmente a titolo di volontariato ma in una prospettiva professionalizzante, secondo quanto consentito dall’art.20 ter dell’ordinamento penitenziario, saranno inserite in una rete costituita da volontari e operatori del terzo settore. Nel testo dell’accordo si evidenzia come l’impegno nella tutela e nel recupero del patrimonio pubblico rappresenti per le persone detenute un’esperienza a forte contenuto sociale e, nel contempo, valorizzi la “cultura della restituzione”, vale a dire la riparazione indiretta dei danni provocati dalla commissione dei reati. “A oggi sono 130 sono i protocolli già firmati in tutta Italia con sperimentazioni notate a livello internazionale, dato che le Nazioni unite hanno preso come modello il nostro protocollo e portato in altri paesi come in Messico. Questo è l’autentico volto dell’amministrazione penitenziaria, questo è il volto in cui vogliamo riconoscerci e di cui siamo tutti orgogliosi”: ha commentato la ministra Marta Cartabia intervenendo in Prefettura - “Lo sappiamo, e lo sa bene chi ci vive e lavora - ha aggiunto - quanto quest’ultimo anno sia stato particolarmente difficile per il carcere ma non possiamo solo inseguire le emergenze ma occorre progettare a lungo termine. Bisogna prevenire e guardare con prospettiva lunga e questo protocollo ha questo grande merito”. E mentre la ministra parlava dei protocolli raggiunti, il capo Dap Bernardo Petralia ha anche aggiunto che “I 130 i protocolli d’intesa con enti e istituzioni italiane che impegnano i detenuti in lavori di utilità pubblica diventeranno 140 entro il prossimo mese” specificando come siano state già programmate la sottoscrizioni dall’Ufficio Centrale Lavoro Detenuti del Dap, struttura a cui si deve la creazione di un vero e proprio modello di lavoro carcerario, apprezzato dalle Nazioni Unite e già adottato in Messico. Per la Guardasigilli si tratta di “un evento importante e positivo che celebra una rinascita iniziata da anni che vede un percorso alle spalle e uno proiettato in avanti: un punto di arrivo e di partenza. Numerosi detenuti di Opera saranno formati e poi impegnati nella manutenzione del verde di un’area tristemente famosa a Milano e oltre come le piu’ grandi piazze di spaccio in Italia: da luogo di degrado diventa un bene comune”. Il protocollo, sperimentale e di durata triennale, prevede che il percorso di formazione teorico sia seguito da una fase on the job da svolgersi nel Parco Porto di Mare e nei quartieri di Rogoredo e Santa Giulia. Manutenzione e conservazione del verde pubblico, pulizia di aree degradate, piantumazione di nuove specie arboree, valorizzazione della flora e della fauna locale sono tra le principali materie dell’attività formativa. Al termine del percorso i corsisti detenuti che avranno superato la prova di apprendimento teorico-pratica svolgeranno un periodo di tirocinio e una borsa lavoro. Insieme ai firmatari dell’accordo, sono intervenuti alla cerimonia Giovanna Di Rosa, Presidente del tribunale di sorveglianza di Milano, Luisa Toeschi, presidente Italia Nostra, Sezione Milano Nord, e Giuseppe Scabioli, presidente dell’Associazione Giacche Verdi Lombardia. Milano. Boschetto di Rogoredo, i detenuti di Opera si prenderanno cura del verde di Simone Bianchin La Repubblica, 27 luglio 2021 In prefettura firmato il protocollo con la ministra della Giustizia Marta Cartabia: “C’è ancora da fare, lo spaccio si è spostato, ma questi sono segnali di speranza”. Venti detenuti del carcere di Opera si prenderanno cura della manutenzione del boschetto di Rogoredo, l’area alla periferia Sud di Milano diventata nota come il ‘boschetto della droga’ - saranno formati per farlo e si aggiungeranno ai volontari già operativi per la riqualificazione dell’area verde naturale. L’intesa è stata firmata oggi in Prefettura alla presenza della ministra della Giustizia Marta Cartabia che ha sottoscritto con il prefetto Renato Saccone, il capo dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia, il sindaco di Milano Beppe Sala e associazioni che hanno contribuito alla rinascita del parco, come Italia Nostra, il protocollo che stabilisce, in maniera sperimentale e per tre anni (con borse-lavoro e tirocini) la promozione di attività di cura e manutenzione di aree verdi, parchi e giardini da parte di massimo 20 detenuti per ciascuno dei tre anni per un percorso di riscatto collettivo già in atto, anche in carcere a Opera dove funzionano le attività di scuderia e cura dei cavalli gestite dalle Giubbe Verdi. “Sono lavoratori particolarmente motivati - ha detto la ministra della Giustizia - e il loro coinvolgimento mette in rilievo due aspetti del tempo della pena: la formazione e il lavoro, per fare sì che sia l’occasione per una seconda possibilità”. L’ex boschetto della droga, nella sua parte più ampia dal lato di via sant’Arialdo, tra Rogoredo e Porto di Mare, famoso per essere stato a lungo una delle più grandi piazze di spaccio e consumo di stupefacenti in Italia, da luogo di degrado - definito “un limbo di spettri tra siringhe e sguardi vitrei” da un padre che lì era andato a riprendersi suo figlio - oggi è luogo frequentato da runner e ciclisti e diventa “un bene comune fruibile da tutta la comunità”, ha detto Marta Cartabia: “Celebriamo una rinascita che è già iniziata da anni anche se l’emergenza non è sconfitta e lo spaccio si sposta”, come avviene dall’altro lato dei binari del treno, dove permane l’attività di vendita e consumo di stupefacenti. “Mi piace pensare - ha aggiunto la ministra - che il protocollo abbia un valore simbolico di speranza e rinascita per i troppi ragazzi che vengono risucchiati in quell’abisso. Il mercato della droga cambia caratteristiche e contesti e non svanisce, anche perché è sempre alimentato dal business della criminalità organizzata”. “Siamo intervenuti tutti insieme perché Milano ha qualcosa in più, a volte”, ha detto il sindaco Beppe Sala: “Il boschetto di Rogoredo era diventato un simbolo negativo che ha rappresentato una sfida alla città. Ora i tossicodipendenti si sono spostati lungo i binari e noi interverremo, con pazienza cercheremo di mettere mano alla cosa. La detenzione deve essere rieducazione e reinserimento: a Milano stiamo facendo la nostra parte, abbiamo dimostrato la volontà di farlo e io ci credo in particolare”. I detenuti del carcere di Bollate, ha aggiunto Sala, erano già stati impiegati a turno, in duecento, nei lavori per l’allestimento di Expo 2015, “e ha funzionato in maniera incredibile. Poi nel 2017 all’Idroscalo avevamo detenuti di Opera e Bollate che si erano occupati di quello di cui si occuperanno a Rogoredo, ovvero la manutenzione del verde”. Per il prefetto di Milano Renato Saccone, “è stato smantellato il mercato più importante ma ci sono rivoli che vanno controllati e perseguiti, però ora il parco è fruibile da tutti in piena sicurezza”. L’intesa (denominata ‘L’unione fa la forza - volontari al servizio di una Milano più verde e più bella’), come sottolinea la presidente del tribunale di Sorveglianza di Milano, Giovanna Di Rosa, porterà alla formazione di venti detenuti in tre anni, che daranno una mano per dare un nuovo vestito alla città: il protocollo rappresenta “una boccata d’ossigeno per le carceri milanesi che potrà restituire dignità attraverso il lavoro”. Torino. Una guida “fumetto” per far conoscere il Garante dei detenuti ai minori di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 27 luglio 2021 Come far conoscere la figura della Garante dei diritti delle persone private della libertà ai giovani detenuti del Ferrante Apporti? A questa domanda, venerdì 23 luglio, le componenti dell’Ufficio della Garante istituito presso il Comune di Torino in collaborazione con Simona Vernaglione, direttrice dell’Istituto penale minorile, hanno risposto presentando ai ragazzi ospiti dell’Istituto, un depliant illustrativo della figura e del ruolo di garanzia dell’organismo di tutela. La “graphic novel”, il fumetto come lo chiameremmo noi in Italia, è stato realizzato da Francesca Bonetto, civilista che ha prestato servizio nell’ufficio del Garante del capoluogo piemontese, ed è costituita da cinque parti all’interno delle quali il “giovane detenuto, protagonista, viene accompagnato nei suoi dubbi e nelle sue incertezze da un’ape che risponde instancabile alle domande”, invitandolo a contattare chi è chiamato a proteggere quei diritti, perché, spiega, i “diritti che non sono un premio ma vanno garantiti, sempre e comunque”. Monica Cristina Gallo, la Garante, a proposito delle visite al Ferrante Aporti, racconta con soddisfazione di aver “riscontrato un clima disteso, collaborativo e di grande attenzione nei confronti degli ospiti”. L’istituto, dopo l’inevitabile periodo di chiusura determinato dalla pandemia, sta iniziando a riprendere le attività scolastiche e formative, i laboratori, i corsi e tutti i progetti che possono aiutare i ragazzi a superare le difficoltà. Termoli (Cb). Incontro sul tema “Carcere, un punto fermo e una svolta” con il capo del Dap termolionline.it, 27 luglio 2021 Carcere, prima volta in Molise del Capo del Dap Bernardo Petralia e dell’Ispettore generale dei Cappellani delle Carceri don Raffaele Grimaldi. La visita, promossa dall’Ispettorato Generale dei Cappellani delle carceri italiane, in collaborazione con l’associazione Liberi nell’Arte (circolo Acli aps), Ucsi Molise, OdG Molise e Aiart Molise, avrà luogo giovedì, 29 luglio 2021 e sarà declinata in due momenti: Istituzionale e Pastorale al mattino (Carcere di Campobasso), Culturale e di Formazione (Circolo Sannitico -Sala Fratianni) nel pomeriggio. L’incontro della giornata dal tema “Carcere, un punto fermo e una svolta, ovvero, il carcere per uno sviluppo della sostenibilità sociale, si inserisce nell’ambito della presentazione del libro (prima assoluta) “La voce di Dio dietro le sbarre” di Raffaele Grimaldi (prefazione don Luigi Ciotti- postfazione Andrea Riccardi) attorno alla quale ruoterà, nel pomeriggio, la formazione giornalistica (giornalismo e carcere). Al mattino, a partire dalle ore 10:00, accoglienza e visita dei due ospiti nella Casa Circondariale e di Reclusione di Campobasso che si concluderà con la Santa Messa, nella cappella del carcere, presieduta da don Raffaele Grimaldi alla presenza della direzione, del personale, dei volontari e dei detenuti. Nel pomeriggio, alle ore 16.00, presso il Circolo Sannitico di Campobasso, si terrà la presentazione del libro alla presenza delle massime autorità Istituzionali, giudiziarie e penitenziarie, di polizia penitenziaria, del garante dei diritti della persona, della direzione del carcere di Campobasso, dell’Ordine dei giornalisti del Molise e della Stampa Cattolica. Tra gli interventi, ci sarà anche la testimonianza di un detenuto. L’evento si configura come momento di formazione giornalistica con l’attribuzione di 6 crediti formativi deontologici e crediti formativi attributi anche dall’ordine degli avvocati. Per la normativa vigente anti covid-19 il numero dei posti sarà ridotto, pertanto, l’evento sarà trasmesso anche in diretta sulla pagina Facebook Liberi nell’Arte. Particolarmente significativo sarà l’incedere degli interventi che permetteranno una disseminazione e un confronto tra gli operatori del settore e l’universo giornalistico molto attento alle tematiche carcerarie a partire dalla Carta di Milano fino alle problematiche attuali, in questa particolare congiuntura riformistica legata alle dinamiche scaturite dall’emergenza pandemica. In particolare, il libro (Tau Editrice) composto da 13 capitoli con prefazione di don Luigi Ciotti e postfazione di Andrea Riccardi è uno strumento di accompagnamento pastorale nella realtà dei cappellani e degli operatori penitenziari “tessitori di giustizia” al servizio nelle carceri. Misericordia, missione e dialogo, sono - secondo l’ispettore don Grimaldi - le direttrici che indicano il contrastante accompagnamento lungo il cammino negli Istituti di detenzione. Una “difficile missione” che si caratterizza all’interno della scelta pastorale nella vita intramuraria. Le domande che si concretizzano in questo ambito così delicato sono incentrate sulla presenza della Misericordia a cui il cappellano dice sì, diventando missionario nella comunità penitenziaria cogliendo linfa dall’appartenenza alla comunità guidata dal vescovo. In questo ambito il cappellano - ribadisce don Grimaldi - è chiamato a essere servo di tutti soprattutto in questo tempo che è stato sferzato dal diradamento dei rapporti sociali. Molti si sono sentiti “incarcerati”, in pochi hanno colto questa dinamica per mettersi nei panni di chi vive il dramma della prigionia. Nella prefazione di don Luigi Ciotti è ribadito il senso di questa crisi a cui il sacerdote, come uomo di testimonianza, e il cappellano come uomo di speranza cerca di rispondere in un ruolo di dialogo aperto a tutti. Toccante e significativo è il titolo scelto per questo /vademecum/ della Misericordia vissuta e sperimentata nelle carceri: La voce di Dio dietro le sbarre, a ribadire la presenza missionaria degli operatori negli Istituti Penitenziari. Nella postfazione Andrea Riccardi esorta a riflettere sull’essere “ambasciatori di Misericordia”. Il cappellano deve essere luce che rischiara nella condanna per diradare la disperazione che investe il detenuto. Modena. Trasparenze, il teatro-carcere mette in scena la nuova Odissea Il Resto del Carlino, 27 luglio 2021 Da oggi a venerdì, a Modena, il festival Trasparenze offre una panoramica su spettacoli e attività delle compagnie che operano negli Istituti della regione con Teatro carcere. Oggi alle 16 debutta ‘Odissea’ progetto biennale del Teatro dei Venti, che mette in relazione le carceri di Modena e Castelfranco Emilia, con repliche il 28, 29 e 30 luglio. Ingresso riservato agli spettatori autorizzati. Odissea è il risultato finale del lavoro svolto all’interno delle strutture carcerarie e in sala prove tra riunioni e discussioni a distanza, prove da remoto e riprese video in teatro. Un viaggio diventato sfida che prende finalmente forma dopo oltre due anni di ricerca, prove e confronto. La sfida consiste nell’attraversare insieme agli spettatori tutti i luoghi che hanno reso possibile la creazione, luoghi distanti e che abitualmente non comunicano tra loro: l’edificio teatrale, la città e le carceri stesse. Nella stessa giornata alle 21.30 al Teatro dei Segni in via San Giovanni Bosco 150, il Teatro del Pratello, porta in scena “Padre, guardami! secondo studio”, esito di un lungo laboratorio con un gruppo di ragazzi in carico ai servizi della giustizia minorile. Rappresenta la penultima tappa del progetto ‘Padri e Figli’ una polifonia di voci di figli che chiamano, confortano, urlano, rincorrono padri sperduti, tanto sordi quanto fragili. Con i ragazzi della Compagina del Pratello e Giorgia Ferrari; drammaturgia di Paolo Billi; è una produzione Teatro del Pratello e Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna. Firenze. Rap come ponte tra carcere e città, ecco “Sbarre Mic check” gonews.it, 27 luglio 2021 Il rap per dare un megafono a chi voce non ce l’ha: si terrà giovedì 29 luglio il secondo appuntamento di “Stream Talks - flussi d’arte tra carcere e città”, eventi sul delicato tema del rapporto tra arte e legalità della compagnia Interazioni Elementari, guidata da Claudio Suzzi. In diretta social dall’Istituto Penale per i Minorenni “G. Meucci” di Firenze, in programma alle ore 16.00 ‘Sbarre Mic check’, protagonisti i ragazzi che partecipano al laboratorio rap in carcere della Cooperativa CAT che dal 2007 usa la musica come forma espressiva per elaborare idee e far sentire la propria voce. Il rap è strumento di espressione, possibilità di comunicare in maniera semplice e diretta: bastano un microfono, una cassa e una base per tradurre in modo immediato l’urgenza di farsi ascoltare e capire. L’evento sarà trasmesso sui canali social della compagnia (@interazioni.elementari). La performance sarà introdotta da Claudio Suzzi, direttore artistico della compagnia Interazioni Elementari, Daniele Bertusi della Cooperativa CAT che presenterà il laboratorio per dare poi voce ai ragazzi con le interviste a cui seguirà il concerto vero e proprio. Dopo il live, ci sarà spazio per un dibattito condotto da Sara Corradini di CAT a cui interverranno altri ospiti. Grazie ai due operatori coinvolti (un educatore ed un tecnico musicale), il laboratorio si sviluppa sul doppio binario, da una parte la musica, con la trasmissione di competenza tecniche nella creazione musicale, e dall’altra l’interazione fra pari: i membri della crew si scambiano esperienze e competenze, collaborano e crescono, come individui e come gruppo. “La cultura dell’hip hop da quasi 50 anni favorisce il superamento degli spaccati della provenienza geografica, nazionale e internazionale in un mondo che non ha barriere di sorta, a parte quelle della cella. Ma dalla cella si può uscire, migliori e insieme. - dicono gli operatori di CAT - Attraverso uno sforzo positivo nel quale ognuno può imparare dall’altro, dove si capisce l’importanza del saper aspettare e saper ascoltare, in armonia, esercitando concentrazione, cura, calma, continuità e perseveranza. Il rap è un antidoto alla frustrazione”. Il rap è strumento espressivo ed educativo unico, e sperimentato dalla CAT con successo da una ventina di anni in vari contesti, dai servizi educativi di strada ai centri giovani, ma anche e soprattutto in un contesto chiuso e ‘totalizzante’ come il carcere. Oltre alll’Istituto penitenziario per minori (IPM Meucci) di Firenze, viene portato avanti anche nell’Istituto Mario Gozzini, finanziato dalla Regione Toscana-Settore spettacolo, dal 2014. “Stream Talks - flussi d’arte tra carcere e città” della compagnia Interazioni Elementari cerca di creare un ponte tra carcere e città, dentro e fuori, due luoghi che vengono uniti grazie al digitale. Il prossimo appuntamento in programma, incentrato sull’arte urbana, si terrà il 16 settembre e vedrà la partecipazione dell’artista Clet Abraham, ospite alla presentazione del laboratorio di arteterapia condotto dall’Associazione di Promozione Sociale Progress all’interno dell’Istituto. Fino a dicembre poi, si terranno incontri, laboratori, spettacoli in cui giovani attori detenuti entreranno in contatto con il mondo esterno, grazie alla diretta streaming dal carcere minorile di Firenze; viceversa, la città potrà toccare con mano l’attività all’interno dell’I.P.M. Meucci di Firenze. L’iniziativa nasce con l’intento di educare e formare i giovani ospiti dell’istituto penitenziario ai mestieri dello spettacolo, con particolare attenzione alla formazione dell’attore. Il teatro risponde quindi a due bisogni fondamentali del carcere minorile: comunicare con l’esterno, in un’ottica di superamento dei pregiudizi e delle differenze, e lavorare quotidianamente per imparare un mestiere in grado di aprire strade future. Per tutto il periodo, saranno svolti percorsi di orientamento e formazione nel campo dei mestieri dello spettacolo. A chiusura del percorso, che sarà svelato nei prossimi mesi, il debutto della nuova produzione “One Man Jail - Le prigioni della mente”, per la regia di Suzzi, in cui i giovani attori detenuti, pur senza uscire dal carcere, avranno la possibilità di recitare in un vero teatro, in modo tale da presentare al pubblico il risultato del lavoro artistico svolto dal gruppo durante l’anno. “Streaming Theater: un ponte tra carcere e città”, ha vinto il bando Giovani al Centro nell’ambito del programma GiovaniSì, il progetto della Regione Toscana per l’autonomia dei giovani ed è sostenuto finanziariamente dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri - Ministero delle Politiche Giovanili, dal Ministero Della Giustizia - Dipartimento Giustizia Minorile di Comunità, dal Comune di Firenze, dalla Fondazione CR Firenze e dall’azienda Publiacqua S.p.A. attraverso il proprio Bando Cultura 2020. Importante presenza è quella del Media Sponsor: Linkem S.p.A. Tutte le attività della Compagnia Interazioni Elementari sono sostenute dall’Istituto Penale per i Minorenni “G. Meucci” di Firenze, di cui si ringrazia la Direttrice Antonella Bianco, gli educatori dell’Area Tecnica Pedagogica e tutto il Corpo di Polizia penitenziaria. Caso Samantha: “Diffondiamo il bio-testamento, o resta il calvario di un processo” di Maria Novella De Luca La Repubblica, 27 luglio 2021 Dopo l’appello dei genitori della ragazza di Feltre per interrompere le cure alla figlia in stato vegetativo, parlano Englaro, Cappato e D’Avack. “Giusto rispettare la volontà di Samy”. “Mi vengono i brividi al pensiero di ciò che dovranno affrontare i genitori di Samantha. È l’inizio di un inferno. Rivivo passo dopo passo il mio calvario con Eluana. Oggi c’è una legge, è vero, lo dobbiamo, anche, a Eluana. Ma senza una volontà scritta l’unica speranza per Samantha è che magistrati più umani di quelli che ho incontrato nel mio disperato cammino, accolgano la ricostruzione delle sue volontà fatta dai genitori”. Beppino Englaro è turbato e addolorato e non lo nasconde. Le analogie della vicenda di Samantha D’Incà, la ragazza trentenne di Feltre in stato vegetativo dopo un semplice intervento ortopedico, con la tragedia di sua figlia Eluana, sono tante, simili e tristi allo stesso modo. (A 22 anni, nel 1992, Eluana, studentessa universitaria, rimase in coma dopo un grave incidente stradale. Aveva sempre dichiarato di non voler vivere in uno stato di dipendenza e di incoscienza). La differenza tra i giorni di Eluana e i nostri giorni è però la presenza di una legge, la numero 219 del 2017. Grazie infatti all’implacabile battaglia di Beppino Englaro per dare dignità ad Eluana, a cui furono sospese la nutrizione e l’idratazione dopo 17 anni di processi e contro-processi, oggi in Italia abbiamo una legge sulle “Dat”, ossia le disposizioni anticipate di trattamento. Ognuno di noi, quando è ancora nella piena facoltà di sè, può attraverso un testamento biologico dichiarare a quali terapie vorrà essere sottoposto, nel caso si trovasse in uno stato in cui non riuscisse più ad esprimere le proprie volontà. Una conquista, una legge di civiltà, che prevede, ad esempio, anche la cessazione della nutrizione e idratazione artificiale. Ossia quelle terapie che oggi all’ospedale di Feltre tengono in vita Samantha D’Incà. Terapie che i genitori chiedono di interrompere perchè, affermano, mai Samy avrebbe voluto vivere in questo stato di incoscienza e dipendenza. Già, ma Samantha, come il 90 per cento degli italiani un testamento biologico non l’ha mai depositato. E cosa accade allora? C’è una speranza, uno spiraglio della legge? Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, cui si deve l’attivismo instancabile che ha portato alla legge sul fine vita, afferma che al di là della legge sulle “Dat” esiste la concreta possibilità di far rispettare le volontà di Samantha. “Il fine vita è una buona legge, ma per essere applicata deve esistere un testamento biologico. È il presupposto su cui si fonda, non è una carenza. In mancanza di questo non è impossibile però interrompere i trattamenti, esattamente come è avvenuto per Eluana Englaro”. Certo, Giorgio e Genzianella, genitori di Samantha dovranno “affrontare un processo, è naturale che lo Stato verifichi che quella fosse la volontà della ragazza”. Ma basandosi sull’articolo 32 della Costituzione, “nessuno può essere obbligato a un trattamento sanitario, la legge non può violare il rispetto della persona”, secondo Cappato è possibile che per Samantha arrivi, in via giudiziaria, la fine delle sofferenze. Il cuore del problema che la storia di Samy ci spinge brutalmente davanti agli occhi è però un altro: la totale mancanza di informazione in Italia della legge sul biotestamento. “È una legge sepolta, gli italiani non ne sanno nulla, non sanno dove si compilano i moduli, dove si depositano, cosa sono le Dat. Un colpevole silenzio delle istituzioni che porta a casi drammatici come quello di Samantha”. Un silenzio che circonda oggi, denuncia Marco Cappato, anche la battaglia referendaria per l’eutanasia, per la quale si devono raccogliere cinquecentomila firme. “Abbiamo le file ovunque davanti ai nostri banchetti, ma nessuno ci ha invitati in televisione a parlarne. Non è boicottaggio anche questo?”. Per Lorenzo D’Avack, presidente del Comitato per la Bioetica è invece all’interno della legge che esiste la strada per far rispettare le volontà non scritte. “L’articolo 9 prevede che si possa agire in nome di minori o di persone incapaci, attraverso un rappresentante legale. E nei casi dove è acclarata la sofferenza, la giurisprudenza va verso l’autorizzazione allo stop delle cure, come dimostra la Consulta su di Dj Fabo. Credo che i genitori di Samantha possano legittimamente ottenere ciò che Samantha desiderava”. Lotta al caporalato: svolta-modello per 50 braccianti. E la nostra spesa può aiutarne altri di Peppe Aquaro Corriere della Sera, 27 luglio 2021 La decisione dell’Associazione internazionale per il contrasto al fenomeno dello sfruttamento. Cinquanta lavoratori extracomunitari saranno assunti nell’azienda agricola Prima Bio di Rignano Garganico “Ai nostri braccianti, se permettete: stavolta pensiamo noi”. Suona più o meno così la decisione di No Cap, l’associazione internazionale per il contrasto al caporalato e allo sfruttamento del lavoro, di selezionare i cinquanta braccianti extra-comunitari che saranno assunti dall’azienda agricola Prima Bio, di Rignano Garganico, nel Foggiano, con un regolare contratto stagionale, per la raccolta di pomodori nella stagione 2021-22. L’iniziativa rappresenta un passaggio importante dell’accordo stipulato un paio d’anni fa tra il gruppo Megamark di Trani, a cui fanno capo ben 500 supermercati nel Mezzogiorno, e No Cap, l’associazione fondata nel 2017 dall’ingegnere camerunense Yvan Sagnet, arrivato in Italia, a Torino, per studiare (si laureerà nel 2013), e trasferitosi in Puglia, nelle campagne di Nardò, per lavorare e mangiare. Si devono all’ingegnere 36enne: la presa di coscienza dei braccianti sfruttati, il primo processo in Europa nei confronti dei presunti caporali e imprenditori agricoli e, soprattutto, l’introduzione in Italia del reato di caporalato. Da allora, Sagnet ed i suoi collaboratori sono riusciti a mettere su la prima filiera bio-etica contro il caporalato. I cinquanta braccianti alloggeranno nel villaggio Don Bosco (gestito dalla comunità Emmaus, fondata alla fine degli anni ‘70 da sacerdoti salesiani illuminati, tra i quali don Nicola Palmisano), e avranno una paga di 70 euro lordi al giorno per sei ore e mezzo di lavoro; oltre ad essere accompagnati, gratuitamente, nei campi del Gargano. “Anche i cittadini possono fare la loro parte, scegliendo di comprare prodotti etici e permettendo quindi a modelli virtuosi di crescere nel tempo”, ricorda Sagnet. A proposito di filiera etica, il raccolto sarà poi trasformato da Prima Bio in passate di pomodoro biologico con marchio di qualità etico “Iamme”, e distribuite nei supermercati del Gruppo Megamark, che si è fatto carico delle 500 borracce termiche distribuite in questi giorni di caldo torrido ai lavoratori della rete No Cap in Puglia, Basilicata, Sicilia, Calabria e Campania. Cristian Filippo, il malato arrestato per la cura con la cannabis di Roberto Saviano Corriere della Sera, 27 luglio 2021 Cristian vive in Calabria, dove la cannabis terapeutica legale non c’è. Così l’ha coltivata: il paradosso di rischiare la condanna per non essersi rivolto al mercato clandestino. È come se lo Stato tutelasse il traffico mafioso, dicendo: fuma, ma rifornisciti dallo spacciatore. Accade che ci sia un rimedio efficace per mitigare i dolori lancinanti che la fibromialgia genera e che questo rimedio sia una terapia a base di cannabis. La fibromialgia ti dà un dolore lancinante quando ti muovi, è come se ogni volta i tendini stessero per spezzarsi il tuo corpo ti diventa nemico per trovare pace dovresti uscire dai muscoli che vestono le tue ossa. L’insonnia e gli stati d’ansia sono continui. Prescrivere la cannabis medica in Italia è assolutamente legale da ben 14 anni, ma rintracciarla in Calabria è pressoché impossibile. Si tratta, infatti, di una delle tre Regioni (insieme a Molise e Valle d’Aosta) a non aver approvato un provvedimento per erogarla a carico del servizio sanitario regionale, per cui le due o tre farmacie che la forniscono lo fanno a costi che la gran parte dei pazienti non può affrontare. Cristian Filippo ha 24 anni e soffre di fibromialgia vive a Paola un comune in provincia di Cosenza, i dolori sono fortissimi, non danno tregua quando decide di coltivare due piante di cannabis per poter accedere a un consumo sicuro e non dover rivolgersi al mercato clandestino gestito dai narcos calabresi. Accade che il 6 giugno 2019 i carabinieri di Paola sentono un fortissimo odore di marjuana uscire dalla casa di Cristian, citofonano e senza nessuna forma di ostruzionismo sono stati fatti entrare. Nell’abitazione hanno trovato due piantine di canapa e strumenti rudimentali, per coltivare la cannabis, conservare le piante essiccate e pesare il prodotto per controllare le assunzioni che deve prendere (per mitigare il dolore) in preciso dosaggio. I carabinieri iniziano a ipotizzare che il ragazzo coltivasse cannabis per venderla e così arriva l’accusa di spaccio. Cristian Filippo è stato imputato di aver “illecitamente coltivato e detenuto una sostanza stupefacente per cessione a terzi o comunque per un uso non esclusivamente personale”. Arrestato all’inizio di giugno 2019, Filippo è stato costretto ai domiciliari per un mese. Dopo i domiciliari, per il giovane è stato disposto l’obbligo di dimora nel Comune di Paola, lo scorso 10 giugno 2021 si è tenuta la prima udienza dibattimentale, ma il processo è stato rinviato a marzo 2022. Può davvero accadere che in una regione dove il traffico di cannabis sia una delle arterie di guadagno più prolifiche della ndrangheta un ragazzo che rifiuta di finanziare il narcotraffico e coltiva due piantine per curare la propria gravissima patologia venga arrestato e rischi sino a 6 anni di carcere? Se Cristian avesse comprato l’erba da un pusher non sarebbe finito nelle mani di una giustizia che pare proprio aver sbagliato il suo bersaglio. Difficilmente se ne sarebbero accorti. E se pure fosse accaduto - come accade a circa 50 mila persone ogni anno di essere fermato dopo aver comprato erba o hashish - avrebbe rischiato una multa, al massimo il ritiro del passaporto o della patente, avrebbe rischiato di affrontare un percorso ai servizi per le tossicodipendenze, ma non avrebbe di certo rischiato il carcere. Qui è il paradosso, accade che il mercato mafioso lo avrebbe messo al riparo dall’arresto che provando a tradurre la dinamica è come se lo Stato tutelasse il mercato mafioso, dicendo: fuma pure, l’importante è che tu ti rifornisca solo dallo spacciatore perché se coltivi finisci in carcere. Quello che è accaduto a Cristian Filippo è davvero paradossale in una narcoterra: la Calabria. Secondo l’ultima relazione della Direzione nazionale antimafia la ‘ndrangheta è l’organizzazione criminale leader in Italia e in Europa nel traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Negli ultimi anni l’organizzazione criminale calabrese si è specializzata, anche grazie all’ottimo clima, nella coltivazione di cannabis: un terzo della cannabis “made in Italy” è prodotta proprio in Calabria. Sarebbe stato facilissimo per Cristian trovare la via illegale per procurarsi cannabis ma dopo la diagnosi del suo male e la prescrizione medica lui avrebbe diritto alla cannabis terapeutica legale, ma chiedete ai malati oncologici, chiedete a tutti coloro che soffrono di sclerosi multipla, di SLA, di dolori neuropatici, di glaucoma se, dopo 14 anni da una legge che la consente, riescono trovarla. Le difficoltà di questo stallo derivano innanzitutto dalla scarsa produzione nazionale: affidata a un unico ente, lo Stabilimento chimico farmaceutico militare di Firenze, raggiunge circa 240 kg annui. Una quantità irrisoria ben lontana dai 2000 kg stimati per il fabbisogno del nostro paese. Il resto viene importata, soprattutto da Canada e Olanda. Ma questo ha dei costi, richiede tempo, e se qualcosa va storto - come spesso accade - bisogna aspettare. E aspettare vuol dire tenersi i propri dolori. Così facendo lo Stato costringe i malati a due strade o rifornirsi dai pusher o coltivare in proprio. La relazione tecnica - condotta dal Lass di Vibo Valentia - ha dato prova che la sostanza rinvenuta a casa del ragazzo, ha riscontrato una media di principio attivo che varia dallo 0,32 allo 2,38, per un totale di 45,3 dosi medie ricavabili. Per la malattia che affligge il giovane, solitamente viene prescritto un grammo al giorno di cannabis medica, il quantitativo rinvenuto nella sua abitazione gli sarebbe quindi bastato per poco più di un mese di terapia. La storia di Cristian, oggi assistito dall’associazione Meglio Legale, così come la storia di Walter De Benedetto - malato di artrite reumatoide finito a processo per aver coltivato le sue piante di cannabis e infine assolto dal tribunale di Arezzo - così come le storie di troppi altri malati finiti a processo, o lasciati soffrire dimostrano che nel nostro paese la guerra alla droga punta ai deboli, ai disperati, ai malati. Non è una guerra contro il narcotraffico ma contro gli studenti nelle scuole, gli imprenditori della cannabis light, i semplici consumatori. È una guerra alle persone tossicodipendenti, che in carcere sono una su quattro e appunto, a chi ha patologie che la cannabis riuscirebbe a mitigare. Aprire un dibattito serio e responsabile sul tema della legalizzazione della cannabis serve, perciò, anche a far cadere un tabù che finora è costato a moltissimi cittadini, mentre ha fatto soltanto guadagnare soldi e potere alle mafie. Nutrire il mondo con i diritti umani di Carlo Petrini La Stampa, 27 luglio 2021 La trasformazione di tutto il sistema alimentare è un’esigenza indilazionabile. Questa è la premessa con cui è iniziato ieri a Roma il pre vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari. Un cambiamento che esige riflessioni e mutamenti profondi adeguati a contrastare le sfide che abbiamo dinanzi. Sfide che riguardano il sistema ambientale, la vita delle nostre comunità e la salvaguardia degli ecosistemi, che allo stato attuale sono severamente compromessi. Da questo punto di vista, i sistemi alimentari giocano senz’altro un ruolo determinante. Approfittare di un vertice internazionale per affrontare queste tematiche è senz’altro un segnale forte e virtuoso. Tuttavia, se questo appuntamento non ha la capacità di mettere in luce alcune priorità che sono assolutamente fondamentali, allora rischia di essere un appuntamento non sufficientemente utile per la trasformazione di cui necessitiamo. È importante dunque mettere alcuni punti fermi affinché i risvolti di questo appuntamento siano positivi e portino a un concreto cambio delle politiche alimentari globali e dei sistemi che da esse dipendono. Vorrei quindi soffermarmi su tre aspetti che a mio modo di vedere non possono più essere rimandati e che hanno bisogno di trovare spazio all’interno dell’agenda del vertice. Il primo è l’esigenza non di uscire dagli imperativi che ci impone un’economia, a mio modo di vedere, profondamente lesiva nei confronti della qualità dell’ambiente e dei rapporti sociali. Un’economia basata sull’egemonia della crescita, del profitto e del capitale finanziario. Affermare che debba esistere come punto di riferimento l’interesse pubblico, e con esso la priorità dei beni comuni e dei beni relazionali, è una condizione preliminare per affrontare queste sfide. Non possiamo vincerle se non c’è un cambio radicale dei paradigmi economici e finanziari che hanno contribuito a creare l’attuale situazione drammatica in cui ci troviamo a vivere. Il secondo punto è la riaffermazione non solo di principio, ma di sostanza, della centralità dei titolari dei diritti umani. Nel settore alimentare si manifestano tutt’ora gravi forme di sfruttamento, addirittura paragonabili a schiavitù, che non possono essere tollerate nel Ventunesimo secolo. Una centralità che diventa fondamentale per avviare qualsiasi discussione, al punto tale che deve essere sottoscritta da tutti come impegno decisivo per la trasformazione dell’intero sistema. In questo contesto, titolari di diritto sono senza dubbio le donne: l’uguaglianza di genere deve essere affermata in maniera decisa per il ruolo stesso che le donne storicamente hanno avuto e hanno nella produzione di alimenti e nella garanzia della sicurezza e della sovranità alimentare dei popoli. Questi elementi devono essere messi in cima all’agenda del cambiamento, perché in assenza di essi viene meno la possibilità di una vera trasformazione. Per concludere, questa grande sfida si può vincere esclusivamente lasciando spazi di autonomia governativa a livello locale. Perché è proprio nelle realtà di prossimità che si gioca la capacità di incidere sul cambiamento, di rafforzare i legami che noi tutti dobbiamo stabilire con le organizzazioni di base, le realtà di volontariato e le persone che dedicano la loro vita a promuovere un sistema alimentare in armonia con la natura. A livello locale le politiche possono diventare realtà. Questo non significa non avere una visione globale e non sentirsi parte di un progetto generale, ma il progetto generale può solo marciare sulle gambe di milioni di persone che portano avanti nei territori in cui vivono questa transizione ambiziosa e utile. Per tutti questi motivi, io mi schiero al fianco delle oltre 300 organizzazioni della società civile di tutto il mondo che in questi giorni, in concomitanza con l’avvio del pre vertice sui sistemi alimentari di Roma, stanno realizzando con coraggio e grande spirito di solidarietà un evento parallelo a quello ufficiale. Un evento che non esclude il dialogo, anzi lo porta avanti e lo apre a tutti. Per essere efficace, infatti, il dialogo deve essere inclusivo e non rivolto ai soliti privilegiati di un sistema economico e finanziario che è responsabile dell’attuale disastro in cui ci troviamo a vivere. Il dialogo e la condivisione sono elementi che possono realizzare la trasformazione del sistema alimentare di cui abbiamo bisogno. E aggiungo, che consentono il raggiungimento degli obiettivi che tutti noi dobbiamo perseguire, non solo per la salubrità del nostro sistema ambientale, ma anche per la giustizia sociale e la convivenza tra i popoli. Solo così creeremo un sistema che garantisce la sovranità alimentare e pone fine al problema della malnutrizione in tutte le forme; specialmente in quella più disumana di coloro che ancora oggi muoiono di fame. Caos in Tunisia: il presidente licenzia il premier e sospende il parlamento di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 27 luglio 2021 “Non è un golpe, misure necessarie per salvare il paese” ha detto il capo dello stato, sceso in piazza tra i manifestanti. Disordini con feriti davanti alla sede dell’assemblea. Coprifuoco notturno fino al 27 agosto, con divieto di assembramenti di più di tre persone. Si aggrava la crisi politica in Tunisia, travolta da una grave crisi economica e da un’ondata di contagi di Covid. Il presidente della repubblica Kais Saied ha destituito il primo ministro Hichem Mechichi e sospeso i lavori del parlamento per trenta giorni. “Non è un colpo di stato, verranno prese misure necessarie per salvare il Paese” ha detto Saied, sceso in strada tra la folla per le strade della capitale. Il presidente ha anche decretato il coprifuoco a partire da questa sera dalle 19 alle 6 del mattino fino al 27 agosto 2021. Vietati anche gli spostamenti tra le città al di fuori degli orari di coprifuoco, salvo necessità. Proibiti gli assembramenti di più di tre persone nei luoghi e spazi pubblici. Saied ha disposto anche la sospensione del lavoro nelle amministrazioni centrali per due giorni a partire da domani per poter consentire ai dirigenti l’organizzazione del lavoro a distanza dei propri agenti. Il presidente ha motivato la sospensione, per un mese, con l’articolo 80 della Costituzione. Il ricorso a queste norme sarebbe permesso nel caso di pericolo imminente per il Paese. Saied ha detto che nominerà un nuovo capo di governo nei prossimi giorni. Ci sono stati scontri e arresti ma una parte della classe politica denuncia il golpe: “È un colpo di Stato contro la rivoluzione”, ha accusato il partito islamista moderato Ennahda. Immediata la replica di Saied, per il quale “chi parla di colpo di Stato dovrebbe leggere la Costituzione o tornare al primo anno di scuola elementare, io sono stato paziente e ho sofferto con il popolo tunisino”. Saied ha nominato un suo fedelissimo al vertice del ministero dell’interno; altrettanto sarebbe intenzionato a fare per i dipartimenti della difesa e della giustizia. Una nota del Parlamento invece ritiene che tutte le decisioni assunte da Saied siano nulle alla luce della Costituzione del Paese. La crisi si sta trasformando in un braccio di ferro istituzionale: il presidente del parlamento Rachid Gannouchi si rifiuta di accettare la destituzione e resta davanti alla sede dell’assemblea, secondo quanto riferiscono le radio locali. Vengono segnalati disordini, tra opposte fazioni, proprio all’esterno del parlamento. Ci sono alcuni feriti. In tarda mattinata l’esercito è stato schierato davanti alle principali sedi politiche. Anche la sede a Tunisi della tv araba Al Jazeera è stata presa d’assalto da reparti della polizia; il personale, secondo una nota della stessa tv, è stato costretto a lasciare il lavoro. Anche ai dipendenti è stato impedito di entrare. Gannouchi ha detto che il Parlamento non è stato consultato e ha paragonato la decisione del presidente della repubblica “a un colpo di Stato”. La Tunisia è alle prese con la sua più grave situazione dal 2011, anno delle cosiddette “primavere arabe”. Il partito di governo Ennahda, di orientamento islamico moderato, non è riuscito a fronteggiare né la crisi economica, né la pandemia che nel Paese ha fatto oltre 18.000 morti. A questa situazione è legata la ripresa degli sbarchi di cittadini tunisini in Italia (oltre il 40% degli arrivi nel 2020) che sta proseguendo da oltre un anno. L’anno scorso sono stati circa 14.000 contro i 3.600 del 2019. Nei giorni scorsi c’erano state numerose manifestazioni di protesta in piazza ed erano state chieste le dimissioni del governo. Vengono segnalati assalti in diverse città del Paese a sedi del partito Ennahda. La Tunisia dalla piazza ai palazzi: governo e parlamento sospesi di Matteo Garavoglia Il Manifesto, 27 luglio 2021 Nord Africa. Dopo le ingenti manifestazioni di domenica, il presidente Saied dichiara l’emergenza e si arroga i poteri dello Stato. Nella “giornata della rabbia” in diverse città prese d’assalto le sedi dell’islamista Ennahda che parla di colpo di stato. 25 luglio 2021, in Tunisia è la festa della Repubblica. Sono le 23 quando il presidente Kais Saied decide di premere il bottone rosso di emergenza congelando per almeno 30 giorni le attività parlamentari, togliendo l’immunità ai 217 deputati dell’Assemblea dei rappresentanti del popolo e arrogando su di sé i compiti dell’esecutivo. La decisione arriva dopo quella che verrà ricordata nei prossimi anni come “la giornata della rabbia”. Un vero e proprio spartiacque per il percorso di transizione democratica. La giornata di domenica ha rispecchiato sul campo le tensioni che dalla fine dell’anno scorso stanno interessando la presidenza della Repubblica da una parte e il governo di Hichem Mechichi, sostenuto in maggioranza dal partito di ispirazione islamica Ennahda, dall’altra. Fin da sabato gli accessi alle arterie principali di Tunisi erano bloccati. Il giorno dopo il paese si è risvegliato con una serie di manifestazioni che hanno coinvolto tutte le città principali dalla costa all’entroterra, a partire dalla capitale con un’ingente manifestazione di fronte al parlamento per chiedere le dimissioni dell’ormai vecchio governo. Ricostruire chi abbia convocato la cosiddetta “giornata della rabbia” è difficile. Resta il dato che migliaia di persone si sono riversate per strada, in maniera ancora più ingente rispetto ai movimenti di gennaio 2021 che hanno portato all’arresto di oltre 2mila persone. Alle immagini degli slogan protestatari e degli arresti, che ancora una volta hanno riacceso il dibattito sulla violenza della polizia, stavolta l’elemento di novità è stato l’assalto alle sedi regionali di Ennahda. Da Sousse a Tozeur a Sfax, i manifestanti hanno staccato le insegne del partito e occupato i locali della formazione islamica, partito che fin dal 2011 ha dettato l’agenda politica al paese diventando uno dei simboli principali della Tunisia odierna. Simboli che si sono manifestati anche nell’eterna crisi economica che interessa Tunisi da anni, nelle rivendicazioni sociali del 2011 mai prese in considerazione, in una gestione catastrofica dell’emergenza sanitaria di Covid-19 e in uno scontro aperto con la presidenza della Repubblica. Tutti questi elementi hanno portato al 25 luglio e alle ore successive. Quando, per esempio, nella notte tra domenica e lunedì il leader storico di Ennahda Rachid Ghannouchi ha provato in quanto presidente del parlamento a entrare nel suo ufficio al Bardo, in quel momento già presidiato dall’esercito. Gli stessi militari, inoltre, stanno assistendo da ieri agli scontri tra i sostenitori del presidente e quelli del partito islamico di fronte all’Assemblea. Nel frattempo Saied aveva già convocato i vertici delle forze armate a palazzo di Cartagine; rilasciato un comunicato con cui dichiarava l’applicazione dell’articolo 80 della Costituzione per prendere tutte le misure necessarie per fare fronte a questa “situazione eccezionale”; fatto decadere il primo ministro Mechichi, suo vecchio alleato; preso su di sé gran parte delle funzioni governative. Tra 30 giorni esatti dovrebbe essere la corte costituzionale a sentenziare l’effettivo grado di eccezionalità della situazione. Unica cosa: la corte costituzionale non esiste. Saied infine si è recato in avenue Bourguiba a Tunisi, teatro principale nel 2011 della Rivoluzione della dignità e della libertà, dove ha sede il ministero dell’Interno. Ad attenderlo un bagno di folla che ha accolto con estremo favore ciò che in molti hanno definito un chiaro “colpo di Stato”. Dalla strada - che ha anche assistito all’irruzione della polizia nei locali dell’emittente televisiva Al Jazeera - ora si è passati alle dichiarazioni di appoggio o condanna in quella che si sta trasformando in una partita a scacchi. Da una parte il fronte compatto di Ennahda, l’Ufficio del parlamento, diversi partiti di governo e opposizione, organizzazioni della società civile e molti costituzionalisti. Dall’altra i sostenitori fedeli di Saied, che nel 2019 lo hanno votato in quanto volto nuovo della politica tunisina, e il sindacato più importante del Paese, l’Ugtt, dopo diverse ore di riflessione. A dieci anni dalla cacciata di Ben Ali, la Tunisia entra nella sua fase più incerta. A cominciare da un coprifuoco nazionale dalle 19 alle 6 imposto nella tarda giornata di ieri dal capo di Stato. Tunisia. La rivoluzione dei gelsomini uccisa dal contro-Stato di Domenico Quirico La Stampa, 27 luglio 2021 Il veleno della tirannia estinta nel 2011 ha cercato di prosciugare anche il cuore della nuova fragile democrazia. Sì, è vero. C’è sempre una Tunisia da amare, piccolo tenace Paese stretto tra colossi dove ancora una volta la Storia tartaglia. Ma c’è da temere che la Tunisia da noi amata, quella dei gelsomini, della rivoluzione, di Mohamed Bouazizi, il martire con la sua carriola di verdura e di dolori, finisca con lo scomparire. Ogni anno, dieci sono armai scivolati via quasi tutti tetri, pesanti, da quei giorni memorabili, sembra portarsene via un po’. Nasce, l’altra, nei triboli, nei moti per la fame, nei colpi di mano dei politicanti: l’ultimo quello di un presidente Kaid Saied che non ha mai nascosto azzardose simpatie per la “democrazia diretta” come la chiama lui; che è, mediocremente, la vecchia cancrena araba del “raissismo”, della guida suprema, che segue l’imperativo categorico “il popolo vuole”. Che coincide con quello che vuole lui. Condizioni immutate - Sta nascendo una non so quale Tunisia ove non riusciamo a trovare il posto di ciò che abbiamo amato. Ho viaggiato da poco nelle regioni interne che nessun padre della patria o dittatore ha mai aiutato a divincolarsi dalla miseria e dall’abbandono. Dove non ti assalgono certo le turibolate di profumo dei gelsomini. Con disperazione ho scoperto che era identica a quella attraversata nella primavera di dieci anni fa. C’erano esplicite, sfrontate, tutte le condizioni che resero quasi automatica la rivoluzione, come se i gestori di quella meravigliosa eredità l’avessero conservate in serra. Le strade, qui, si infilano come cicatrici di asfalto in terre di sublime tristezza, brulicanti di rabbia delusione disincanto, popolate di poveri. E ho urtato la domanda tremenda, formulata con voce insieme aspra e stanca, a cui non so rispondere: a che serve la democrazia se ha prodotto tutto questo? Forse non è davvero fatta per noi. Una rivoluzione che non sa più far sognare, uccisa da una vana primavera, che ha prodotto uno Stato di fatto fallito e tenuto in piedi artificiosamente dagli elemosinieri internazionali non è forse una rivoluzione morta? Vien voglia di risponder sì, di rovesciare la delusione per il tradimento in una condanna senza appello, in astio e veleno. Forse è un errore. La prima cosa che dovremmo fare, subito, noi dall’altra parte del mare, è gettar via gli occhiali con cui abbiamo fatto finta di guardare, sapendo che fornivano una immagine deformata, la Tunisia in questi dieci anni: le primavere arabe son morte... e poi un sospiro, meno male che c’è la Tunisia con i diritti delle donne, la costituzione, gli islamisti illuminati, le elezioni... ci serviva per far gli occhi dolci a governanti sciagurati che venivano utili per le solite sgangherate e efferate collaborazioni anti-migranti. Di nuovo in mare - Dopo dieci anni guardate: i soldati di nuovo nelle strade, e i migranti, tunisini, che salpano sulle vecchie carriole, 13 mila solo nel 2020; parlamento e ministri cacciati, sospesi, da un infastidito tratto di penna del Palazzo di Cartagine, come ai tempi di Ben Ali e della parrucchiera. E poi il contrabbando che per i poveracci ha preso il posto della economia; e la solita burocrazia dei pascià, sterminata, incapace, accidiosa che si è gonfiata per tener buona la rabbia sociale; e un parlamento fatto di risse manesche, chiacchiere infinite, complotti ridicolmente bizantini. E “Ennadha”, il partito di ex terroristi islamici con in testa l’infido manovratore Ghannouci che si travestono da ipocriti difensori della democrazia contro il “golpe” presidenziale. Loro che molto hanno fatto per ucciderla in culla e screditarla, la democrazia, costruendo un potere di clientele e affarismo e contemporaneamente, occulto, un contro-Stato negli apparati di sicurezza pronto a gettare la maschera al momento opportuno. Attorno a questi ipocriti una miriade di partitini e camarille che sono poco più di un supporto di clientelismi e traffici nauseabondi. Ultimo arrivato l’esplicito populismo controrivoluzionario di Abir Moussi, antico caudatario di Ben Ali, che abbaia il vecchio motto del “quando c’era lui...”. Il tragico è che gli hanno dato motivo di sembrare convincente. Di non diversa stoffa il populismo del tele-milionario Nabil Karoui, il solito antipolitico che viene fuori, sotto tutte le latitudini, nel naufragio delle democrazie dei compari. Il veleno della tirannia - Come il sale un tempo sparso sul terreno delle città sconfitte perché nulla germogliasse più, il veleno della tirannia estinta nel 2011 ha cercato di prosciugare anche il cuore della nuova fragile democrazia. Sì, la democrazia nascondeva un vizio, una imperfezione che nessuno ha rimediato: gli uomini che avevano il compito di farne buon governo quotidiano non erano all’altezza. E qui forse sta la speranza: le rivoluzioni hanno corsi sotterranei, andamenti silenziosi e imprevedibili; spariscono e noi con poca fede le diamo per defunte. Dieci anni gettati via, forse, sembrano troppi. Irrimediabili. Ma se fossero, mai domati, caparbi, la premessa di un nuovo capitolo? Avenue Bourghiba è lì, come dieci anni fa: da riconquistare Iraq. La strage degli attivisti all’ombra del ritiro americano di Gabriella Colarusso La Repubblica, 27 luglio 2021 Gli Usa diminuiranno i loro soldati nel Paese a fine anno. Intanto dal 2019, quando migliaia di giovani iracheni sono scesi in piazza per chiedere riforme una lunga campagna di omicidi mirati ha falcidiato intellettuali, ricercatori, giornaliste: due giorni fa l’ultimo omicidio. Ali Karim aveva 26 anni e la “colpa” di essere figlio di Fatima Al-Bahadly, una donna che instancabilmente, da 20 anni, con il suo chador nero e il sorriso avvolgente lavora per dare alle donne di Bassora - una delle città irachene più ricche di risorse e più povere di mezzi - i diritti che spettano loro e ai ragazzini una chance di non finire arruolati nelle milizie. Ali Karim l’hanno ritrovato fuori Bassora sabato pomeriggio, ucciso con tre colpi di pistola alla testa e allo stomaco. Era scomparso 24 ore prima. Non ci sono per ora sospettati, le autorità hanno annunciato l’apertura di un’inchiesta che molti temono non arriverà a nulla, come decine di altre condotte in questi anni su attentati e omicidi di attivisti e difensori dei diritti umani iracheni. Ali al-Bayati, un parlamentare che fa parte della Commissione irachena per i diritti umani, un organismo indipendente, ha confermato all’Associated Press che Al-Bahadly “era finita nel mirino di alcuni partiti politici che l’hanno accusata di essere legata a interessi stranieri”. L’uccisione del figlio potrebbe essere legata alle attività della donna, che nel 2003, subito dopo l’invasione americana dell’Iraq, fondò a Bassora l’organizzazione non governativa Al Firdaws Society, nata con lo scopo di reintegrare nella società i bambini arruolati dalle milizie. Il lavoro dell’organizzazione si è poi esteso per includere i problemi legati all’alfabetizzazione, la risoluzione dei conflitti, la partecipazione politica delle donne e la lotta contro la violenza sulle donne. Fatima Al-Bahadly ha girato per anni nei villaggi della provincia di Bassora per costruire alleanze con i religiosi moderati e i leader tribali, far capire loro che la liberazione delle donne è la chiave della pace e della prosperità, per demilitarizzare una società che dalla caduta di Saddam è diventata ostaggio di gruppi armati e milizie legate a e sostenute dall’Iran. L’omicidio di Ali Karim è solo l’ultimo in ordine di tempo. Dal 2019, quando migliaia di giovani iracheni sono scesi in piazza per chiedere riforme, lotta alla corruzione, servizi pubblici migliori e più lavoro, circa 600 sono stati ammazzati dalle milizie sciite filo iraniane, e una lunga campagna di omicidi mirati ha falcidiato intellettuali, ricercatori, giornaliste. Ali al-Bayati dice che gli omicidi mirati finora sono 36, su 90 tentati omicidi. Bassora, insieme alla capitale Bagdad, è una delle città più colpite da questa impunita scia di sangue perché è il cuore petrolifero dell’Iraq, è ricca di risorse e prigioniera di un sistema di corruzione clientelare endemica che ha arricchito leader tribali e milizie a spese di tutta la popolazione. Dal 2018 ci sono proteste per la mancanza d’acqua, persino per la mancanza di energia elettrica, nonostante l’intera area sia letteralmente seduta su alcune delle più grandi riserve di petrolio al mondo. Fatima Al-Bahadly, premiata con il Frontline Defenders Award per il suo impegno, aveva ricevuto minacce due mesi fa, le avevano detto di lasciare Bassora, in stile mafioso. Nel 2018 era già stata accusata di fare gli interessi degli Stati Uniti perché aveva sostenuto le proteste. “Gli attivisti della società civile irachena continuano a pagare con la loro vita e con quella dei loro figli”, scrive Donatella Rovera, di Amnesty International, sul suo profilo Twitter. Un anno fa esatto a Bagdad fu ucciso in un agguato sotto casa Hisham al-Hashimi, un ricercatore e giornalista molto noto in Iraq per i suoi studi sull’Isis e sulle milizie di cui aveva denunciato la presa oppressiva e dannosa sulla società irachena. Pochi giorni fa le autorità irachene hanno arrestato un uomo, un ex tenente di polizia, che avrebbe confessato l’omicidio. Il primo ministro Mustafa Al-Kadhimi ha rivendicato l’arresto come il segno della sua capacità di tenere fede alle promesse ma la verità secondo diversi attivisti è che i mandanti e le ragioni dell’omicidio restano coperti e impuniti. Dice Raed al-Hamid, un ricercatore iracheno che si occupa di gruppi armati, ad Al Jazeera: “Al-Kadhimi non ha le forze di sicurezza in grado di affrontare le milizie. Lo ha fatto solo per dire che ha mantenuto la sua promessa il giorno in cui al-Hashimi è stato ucciso”. Intanto ieri Al-Kadhimi ha incontrato a Washington il presidente americano Joe Biden. La Casa Bianca, dopo l’Afghanistan, ha annunciato che, pur proseguendo il sostegno sul fronte dell’addestramento e dell’intelligence, entro la fine dell’anno porrà fine alle missioni di combattimento anche in Iraq e ridurrà gradualmente il numero di militari americani nel Paese, attualmente circa 2.500. Un assist importante per Al-Kadhimi, ma anche per Teheran e le milizie filo-iranaine che hanno un solo e unico punto in cima all’agenda: cacciare gli americani dal Medio Oriente. Bahrain. Il ricorso alla pena di morte è aumentato del 600 per cento in dieci anni di Riccardo Noury Il Fatto Quotidiano, 27 luglio 2021 I numeri potranno anche essere considerati bassi ma la percentuale è impressionante: secondo un rapporto congiunto dell’Istituto bahrainita per i diritti e la democrazia (Bird) e dell’ong britannica Reprieve, a partire dalla rivolta del 2011 l’uso della pena di morte da parte delle autorità del Bahrain è aumentato del 600 per cento. Negli ultimi 10 anni le condanne a morte pronunciate nei tribunali dello stato-isola del Golfo sono state 51; nel decennio precedente, ossia prima della rivolta contro il governo, erano state sette. Nell’88 per cento dei casi, le condanne a morte sono state emesse per reati di terrorismo, un concetto descritto in maniera ampia e generica dalle leggi del Bahrain, al punto che può essere applicato anche ad attività del tutto legittime e pacifiche. Nei bracci della morte del paese si trovano 26 prigionieri, quasi la metà dei quali hanno denunciato in tribunale o attraverso i loro avvocati di essere stati torturati per fargli firmare confessioni false, spesso gli unici elementi di prova su cui i giudici si sono basati per emettere le condanne alla pena capitale. Il rapporto di Bird e Reprieve è stato diffuso in occasione del primo anniversario della sentenza della Corte di cassazione che ha confermato le condanne a morte di Mohammed Ramadan e Hussain Moosa, le cui storie sono state raccontare in questo blog. Le esecuzioni sono state sei, di cui tre - le prime dal 2011 - nel 2017 e le altre tre nel 2019. Cile. Si indaghi sui vertici dei Carabineros per violazione dei diritti umani di Riccardo Noury Corriere della Sera, 27 luglio 2021 È fissata a fine luglio la chiusura delle indagini sugli attacchi dei Carabineros contro le massicce proteste che interessarono tutto il Cile nell’autunno del 2019. In quella repressione indiscriminata, un manifestante, Gustavo Gatica, perse in modo irreparabile la vista. Dopo oltre 20 mesi, secondo Amnesty International, sono stati fatti solo piccoli passi per sottoporre a indagini alti funzionari con responsabilità di comando strategico dei Carabineros e nessuno nei singoli casi. Ci sono buone ragioni, invece, per credere che l’ex direttore generale e l’allora capo per la sicurezza e l’ordine pubblico, che oggi ricopre il ruolo di direttore generale, possano avere acconsentito alla perpetrazione di atti di torture e maltrattamenti nei confronti di manifestanti. Sui terribili fatti dell’ottobre e del novembre 2019, Amnesty International aveva pubblicato un dettagliato rapporto, Occhi puntati sul Cile: violenze della polizia e responsabilità dei vertici durante il periodo di disordini sociali, in cui era giunta alla conclusione che quelle gravi violazioni dei diritti umani erano state commesse su vasta scala perché coloro che si trovavano in posizione di comando strategico non avevano adottato tutte le misure necessarie per impedirle. Nel rapporto, l’organizzazione per i diritti umani aveva ammonito anche che, per garantire la non ripetizione di eventi come quelli, non sarebbe stato solo necessario sottoporre a giudizio tutte le persone responsabili, fino ai più alti livelli, ma anche riformare radicalmente l’istituzione dei Carabineros. Entrambe le raccomandazioni restano necessarie e urgenti.