Riforma della giustizia, Draghi e Cartabia aprono a Conte: nessuno stop ai processi di mafia di Liana Milella La Repubblica, 26 luglio 2021 Dal governo disponibilità sulla proposta del leader del Movimento 5S. Sarà eliminato il termine di prescrizione sui delitti dei clan e dei terroristi. Si può fare. I processi di mafia e terrorismo potranno durare tutto il tempo che serve. Per la Guardasigilli Marta Cartabia e per il premier Mario Draghi questo è possibile. I reati di mafia, come chiede il presidente di M5S Giuseppe Conte, possono uscire dalla gabbia della improcedibilità. E con loro anche quelli di terrorismo. Per questi gravissimi delitti, che comportano l’aver sposato una fede contrapposta a quella della democrazia italiana, e che segnano, una volta commessi, non solo la vita del singolo, ma la credibilità stessa dello Stato, non può valere lo stop al processo solo perché i tempi sono scaduti. Tenendo conto che già adesso tutti i dibattimenti in cui figurano imputati detenuti hanno una corsia preferenziale rispetto agli altri. E che, naturalmente, i reati puniti con l’ergastolo sono già improcedibili. Così come sono imprescrittibili da sempre. Dunque Via Arenula, ma anche palazzo Chigi, considerano con attenzione e sono disponibili ad accogliere quanto chiede il neo presidente del M5S ed ex premier Conte. E lo fa anche il Pd di Enrico Letta perché, appunto, si tratta di una richiesta che non si identifica come una “bandierina”, ma di un’esigenza reale per garantire la tenuta democratica dello Stato. Un processo, con un estortore di mafia alla sbarra, non può andare in fumo. Una richiesta che può essere accolta, come ragiona la responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando, perché reati gravissimi come quelli commessi dalla mafia “richiedono maggiore elasticità e anche più tempo proprio per la loro complessità”. Repubblica scopre che la Guardasigilli Marta Cartabia, anche se non è a Roma, trascorre un weekend di contatti, di ascolto e di riflessioni. La ministra si concentra sulle criticità emerse nella riforma, com’era stato già anticipato nella conferenza stampa a palazzo Chigi dopo il consiglio dei ministri di giovedì sera. Quello in cui Draghi ha annunciato di aver ottenuto da tutti i ministri, compresi quelli del Movimento, l’autorizzazione a porre la questione di fiducia. La richiesta di Conte è sul tavolo, e riguarda la necessaria protezione per tutti i processi di mafia. Ma che cosa succede in via Arenula dopo questa richiesta? Nella sua riforma - è il ragionamento della ministra in queste ore - è già prevista l’improcedibilità per i reati puniti con l’ergastolo, quindi per gli omicidi di mafia, e comunque, poiché spesso si tratta di dibattimenti con imputati detenuti, come ricorda anche il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, essi hanno già una priorità. Ma di sicuro, via Arenula e palazzo Chigi sarebbero favorevoli all’estensione di ulteriori garanzie per i processi per mafia e terrorismo, in linea con il nostro ordinamento, che già prevede regole specifiche per questo tipo di reati. In sostanza, secondo via Arenula, il diverso trattamento per i reati di mafia è del tutto comprensibile. Non si tratta di un’eccezione. Nella storia della dottrina giuridica italiana, questo tipo di reati, per la loro estrema gravità, è sempre stato soggetto di un trattamento speciale. Quindi oggi, mentre vengono cambiate radicalmente le regole del nostro sistema processuale, è logico pensare di poter escludere tutti i reati di mafia e terrorismo dal meccanismo della improcedibilità. E quindi, su questo punto, non vi è alcuna contrarietà sia da via Arenula sia da palazzo Chigi. Si tratta di un via libera importante che può cambiare radicalmente il cammino della riforma penale. Nonché la prospettiva concreta delle due prossime settimane di lavori parlamentari. Perché da oggi e fino a giovedì la riforma sarà ancora in commissione Giustizia alla Camera, ma venerdì 30 dovrà approdare in aula. E stavolta non sono ammessi rinvii, com’è avvenuto a ridosso del 23 luglio, anche perché incombe la fiducia e la richiesta perentoria di Draghi, ma anche di Enrico Letta, di votare subito prima della pausa estiva. Ma se si raggiunge un accordo, e in commissione cadono gli emendamenti che potrebbero portare all’ostruzionismo - 1.631 di cui oltre 900 di M5S - la questione può essere risolta. Potrebbe imputarsi Forza Italia che ha chiesto di allargare il perimetro della riforma per giustificare i suoi emendamenti sull’abuso d’ufficio. E Renzi che ieri provocava il Pd chiedendogli di “scegliere se inseguire l’irresponsabilità di Conte o scegliere Draghi”. Ma la via di andare in aula senza un voto in commissione è di fatto tecnicamente impraticabile, perché si dovrebbero ipotizzare addirittura tre o quattro fiducie perché votare su un unico testo è impossibile. Il Pd ha garantito il lodo Serracchiani, fino al 2024 tre anni per l’Appello anziché solo due. E adesso da Cartabia arriva l’apertura su mafia chiesto da Conte. Giustizia, i nodi da sciogliere di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 26 luglio 2021 Per la riforma in Aula si annunzia il voto di fiducia, ma si teme che qualcosa non funzioni. Caro direttore, nel Consiglio dei ministri del 22 luglio si è discussa la riforma della giustizia (in aula il 30 luglio). Si annunzia il voto di fiducia, ma si teme che qualcosa non funzioni, per cui si apre a miglioramenti di carattere tecnico; sul nuovo testo si chiederà una nuova fiducia. Significa ammettere che nel progetto di riforma vi sono delle falle; e che sono seri gli allarmi, prima snobbati, sui tanti processi che possono andare in fumo, anche importanti, anche di mafia. Il vero nodo da sciogliere è la prescrizione, che forse ha innescato (Giovanni Bianconi, Corriere del 23 luglio) una lotta politica che prescinde dal merito. Ipotesi convincente, altrimenti non avrebbero senso le contorsioni con cui si chiede la fiducia per un testo ancora da correggere in vista di una nuova fiducia. Tanto più che il Governo non propone fin da subito i miglioramenti che ritiene utili. Del resto, che si tratti di una questione più simbolica che reale lo prova il fatto che in realtà non c’è nessuna fretta di cancellare la legge Bonafede del 1° gennaio 2020, casus belli e obiettivo fra i principali della riforma Cartabia. Lo ammette con sincero pragmatismo la relazione Lattanzi (presidente della Commissione istituita dalla ministra), là dove afferma che “dal punto di vista tecnico non vi sono ragioni che rendono urgente” rivedere la Bonafede, posto che i suoi effetti “si produrranno a partire dal 2025 per le contravvenzioni e dal 2027 per i delitti”. E per favore non si dica che lo vuole l’Europa, perché l’erogazione dei fondi (che servono come l’ossigeno ai malati di Covid) è subordinata allo sveltimento del processo al netto della disciplina della prescrizione, per altro promossa dal Greco (Gruppo europeo contro la corruzione) nella versione tanto vituperata dai “garantisti” nostrani. Attenzione poi agli effetti controproducenti, nel senso che se si appiattisce sulla prescrizione il dibattito generale sulla giustizia, ecco il rischio di offuscare quel che di buono c’è nella riforma Cartabia, comunicando soltanto sensazioni di sfacelo o di crollo. A rischio di annoiare, ritorniamo quindi al merito del problema. La riforma Bonafede ha allineato il nostro sistema a quello degli altri Paesi civili, introducendo un blocco definitivo della prescrizione con la sentenza di primo grado dove prima c’erano solo sospensioni temporanee. L’obiettivo era anche cancellare uno scempio costituzionale. Fulvio Aurora, segretario della Aiea (Associazione italiana esposti amianto, settore in cui la prescrizione cancella migliaia di morti) osserva che si parla di tempi della giustizia ma non abbastanza del fatto che “i poveracci spesso vengono processati e condannati velocemente, mentre chi può pagarsi buoni avvocati e consulenti può contare spesso sulla prescrizione dei processi”. In altre parole, coesistono due processi distinti a seconda del censo e dello status sociale degli indagati. Una discriminazione ingiusta che non indigna i garantisti “à la carte”. Favorita proprio dalla prescrizione che non si interrompe mai e perciò spinge ad “allungare il brodo” finché il decorso del tempo non si sostituisce al giudizio. La riforma Bonafede ha provato ad eliminare questo sfregio al principio della legge eguale per tutti, attirandosi però una caterva di accuse catastrofiste, sintetizzabili nella tesi che il blocco della prescrizione creerebbe l’inaccettabile nuova categoria dell’imputato a vita. Un’ipotesi tutta da verificare e quanto meno esagerata, perché si basa su un presupposto assurdo, e cioè che dopo la sentenza di primo grado i palazzi di giustizia cessino del tutto di funzionare! Sta di fatto che la riforma Cartabia, volendo innovare, conferma il blocco della prescrizione con la sentenza di primo grado, per poi pentirsene e cancellarlo: se l’appello non si conclude entro due anni, tutto il processo va in fumo come avveniva con la prescrizione, che però adesso (et voilà) si chiama “improcedibilità”. Con varchi offerti all’impunità dei colpevoli, mentre l’innocente può perdere ogni opportunità di essere riconosciuto tale e alle vittime non resta che sentirsi dire “abbiamo scherzato”. Un salto nel buio rilevato da autorevoli giuristi, di fatto ufficialmente ammesso dal Governo nel momento in cui si preconizzano non si sa quali aggiustamenti. Mentre risulta evidente che i processi non si velocizzano per decreto, perché le sentenze non sono bulloni da produrre a cottimo. Giustizia. La riforma che elimina gli alibi dei tribunali di Carlo Nordio Il Messaggero, 26 luglio 2021 Com’era prevedibile, il progetto di riforma della ministra Cartabia ha provocato una rapsodia di critiche di una parte della magistratura, che ha agitato lo spettro dell’impunità di terroristi e mafiosi. La sesta commissione del Csm, a maggioranza, ha sparato a zero sulla improcedibilità dei giudizi troppo lunghi, ed è stata giustamente bacchettata da Mattarella che l’ha considerata quantomeno intempestiva. Gli avvocati, dal canto loro, hanno accusato il progetto di eccessiva timidezza. Senofane diceva che ognuno si dipinge gli dei a propria immagine, e che se un triangolo potesse pensare descriverebbe Dio fatto a triangolo. I pm e i difensori vedono la realtà giudiziaria attraverso la lente deformante dei propri pregiudizi. In realtà, come abbiamo già scritto, questa riforma costituisce il minimo sindacale per ottenere gli aiuti dall’Europa. La lentezza della nostra giustizia è intollerabile non solo dal punto vista etico e normativo, ma soprattutto da quello economico. La sciagurata legge voluta da Bonafede l’avrebbe resa eterna, e l’Europa non l’avrebbe tollerata. Con un colpo di genio Cartabia, non potendo cancellare questo mostro della prescrizione senza umiliare i grillini, è intervenuta sul binario parallelo. Formalmente il mostro rimane, ma è reso innocuo: se infatti entro un termine ragionevole non arriva la sentenza, il processo si estingue. Chapeau. Questo non significa che il progetto del governo sia risolutivo. La lunghezza dei processi penali ha infatti un’unica madre: la sproporzione tra i mezzi e i fini, tra le risorse disponibili e i reati perseguire. Questi ultimi sono un numero enorme, e spesso riflettono comportamenti che potrebbero esser sanzionati senza scomodare i tribunali. Purtroppo, anche se tutti auspicano una loro riduzione, quando si arriva al dunque il legislatore - vedi la legge Zan - sa solo crearne di nuovi. Per di più esiste il vincolo dell’obbligatorietà dell’azione penale, che costituisce non solo una contraddizione con il sistema accusatorio, ma un pretesto per alcuni pm per inventarsi indagini lunghe e costose che non approdano a nulla. Ma quando si è prospettato di monitorare questo rapporto tra risorse impiegate e risultai ottenuti, gli stessi pm hanno protestato ritenendosi vulnerati e offesi nella propria autonoma. Diciamo la verità: per la parte più vociferante delle toghe le cose vanno bene come sono, e se vanno male è colpa del governo che non dà abbastanza soldi e degli avvocati che la tirano per le lunghe. Ora per la prima volta, un ministro della Giustizia ha alzato il velo dell’ipocrisia: lo status quo - ha detto Cartabia - non è un’opzione sul tavolo. E Draghi ha annunciato che porrà la fiducia. Ma la reazione stizzita del sindacato dei magistrati non è motivata solo dalla preoccupazione per l’esito dei processi. Se così fosse, questa stessa Associazione sosterrebbe le riforme essenziali, come quella di valutare i pm che sottraggono risorse enormi per imbastire indagini fasulle. Una delle ragioni di questa opposizione risiede nel timore che si elimini il loro alibi tradizionale, che cioè la lentezza dipende da tutto fuorché da loro. Invece numerosi studi hanno dimostrato, e la stessa Cartabia l’ha ricordato, che a parità di condizioni alcuni Uffici impiegano metà tempo rispetto ad altri per definire una causa. E questo non dipende solo dal groviglio di leggi e dalla pletora di reati, ma anche dall’incapacità di gestione da parte dei giudici. Non è del tutto colpa loro: in magistratura si entra dopo prove severissime che comprendono tutto lo scibile giuridico, ma mancano due esami fondamentali: quello psichiatrico, o almeno psicoattitudinale, e quello di analisi dei tempi e metodi di gestione: cioè la capacità di valutazione delle risorse disponibili in rapporto al target prefissato, al fine di programmare il lavoro secondo criteri di razionalità ed economia. Mentre oggi un giudice può essere, e spesso è, un ottimo giurista, che tuttavia difetta di quelle doti cosiddette manageriali senza le quali un ufficio collassa. E poiché spesso la direzione di quest’ultimo è assegnata non ai magistrati più efficienti ma ai meglio raccomandati, secondo il noto sistema Palamara, la durata dei processi dipende anche dalla pessima scelta fatta ieri da quello stesso Csm che oggi si oppone alla riforma. Anche questo dunque è un merito del progetto Cartabia. Non sarà risolutivo, perché i problemi della giustizia penale sono così sedimentati da esigere una rivoluzione copernicana: ma è un importante esempio di coraggio innovativo. Come quello di Neil Armstrong sulla Luna: un piccolo passo verso una giustizia giusta, ma un balzo enorme nella giusta direzione. L’enigma Cartabia di Giorgio Meletti Il Domani, 26 luglio 2021 Messa alla prova del quotidiano esercizio del potere, Marta Cartabia, ministra della Giustizia dal 13 febbraio scorso, si è infilata in un tale dedalo di contraddizioni e balbettii da incarnare il fallimento di un audace esperimento: partita ciellina, non è riuscita a diventare gesuita per meglio servire le sue ambizioni politiche. Nel 1975, quando la futura presidente della Corte costituzionale aveva appena compiuto 12 anni, il fondatore di Comunione e liberazione don Luigi Giussani dette una spiegazione profetica della distanza tra il suo movimento e il mondo gesuita, due modi opposti di vivere il cattolicesimo: “Oggi al volontarismo individualista dei gesuiti va forse sostituita una visione comunionale della vita. C’è oggi bisogno di una dimensione comunitaria dell’esistenza”. Diconsi gesuiti gli appartenenti alla Compagnia di Gesù, fondata 500 anni fa da sant’Ignazio di Loyola. Al contrario dei ciellini, i gesuiti praticano il proselitismo. Per manifestare la propria appartenenza il gesuita fa seguire alla sua firma la sigla S. J. (societas Jesus), come un secondo cognome. Per complesse ragioni storiche, gesuita è usato anche come sinonimo di ipocrita, indica in modo dispregiativo un’attitudine a giocare con le parole per convincere. Papa Francesco è gesuita e tipicamente alterna ragionamenti gesuiticamente ambigui su temi critici come l’aborto o la libertà sessuale a prese di posizione nette sulle disuguaglianze e sulle ingiustizie del capitalismo. Il presidente del Consiglio Mario Draghi è di formazione gesuita e tipicamente alterna enigmatici silenzi a esternazioni tonanti. Giovedì scorso ha dato una lezione al leader della Lega Matteo Salvini: “L’appello a non vaccinarsi è un appello a morire”, ha detto, dimostrando che se c’è da fare a botte a favore di telecamere sa menare più forte del sovranista chiacchierone. Cartabia, animata da un’ambizione talmente dissimulata da risultare plateale, sembra aver acquisito solo la parte ipocrita del gesuitismo. Messa alla prova dello scontro politico, balbetta. Accusata di fare il gioco dei delinquenti con la sua riforma della giustizia, ondeggia, smussa, precisa, come se fosse convinta che non far arrabbiare nessuno sia la strada maestra per diventare la prima presidente della Repubblica donna. Si dichiara “ispirata al bilanciamento” tra le due esigenze di fare giustizia e garantire i diritti degli imputati. “Quando si parla di giustizia”, dice, “ritengo che l’equilibrio sia una virtù, non un demerito”. E qui sembra risuonare la voce di Nanni Moretti: “Cartabia, di’ qualcosa di sinistra, di’ qualcosa di destra, di’ qualcosa!”. Così Draghi, seduto accanto a lei in conferenza stampa, ha dato una lezione anche a lei: “Nessuno vuole sacche di impunità, bene processi rapidi e tutti i colpevoli puniti, è bene mettere in chiaro da che parte stiamo”. Draghi sa che per vincere la corsa al Quirinale deve distribuire un giusto numero di cazzotti, stando solo attento a rimanere sempre al centro del ring. Cartabia crede che basti rimanere al centro del ring, immobile e silenziosa per non far innervosire nessuno. Mercoledì scorso, riferendo alla Camera sul pestaggio dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere avvenuto il 6 aprile 2020, la ministra della Giustizia ha parlato come un’opinionista a un talk show, cioè con vaghe considerazioni su materie ignote, attenta solo a non urtare nessuna sensibilità politica e quella della polizia penitenziaria. Il 28 giugno sono scattati numerosi arresti tra le guardie carcerarie coinvolte nella “mattanza” e la ministra ha reagito rinnovando “la fiducia nel corpo della Polizia penitenziaria, restando in attesa di un pronto accertamento dei gravi fatti contestati”. Ha impiegato tre settimane per presentarsi in parlamento dove avrebbe dovuto dire che cosa era accaduto in quel carcere 15 mesi prima e, soprattutto, se i gravi fatti contestati fossero eccezionali o ricorrenti. Invece ha ammesso di non sapere niente. Le sarebbe bastato leggere gli articoli di Nello Trocchia su Domani. Il 6 aprile 2020 avviene il pestaggio. L’8 aprile il garante dei detenuti presenta denuncia alla procura della Repubblica. Il 10 aprile vengono sequestrati dalla magistratura i video che più di un anno dopo faranno inorridire la ministra. A giugno 2020 vengono emessi i primi 57 avvisi di garanzia, poi saliti a 117. Un anno dopo Cartabia si sorprende e si interroga: “Mi chiedo come sia possibile che siano accaduti fatti così gravi e di grande turbamento per tutti. Desidero rinnovare la mia vicinanza a tutto il personale delle carceri italiane”. In parlamento resta ambigua: “È nostro dovere riflettere sulla contingenza, e sulle cause profonde, che hanno portato un anno fa a un uso così smisurato e insensato della forza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere”. Siamo sicuri che il dovere di un ministro della Giustizia, mentre le carceri scoppiano, sia di riflettere? E su che cosa? Quali cause profonde, se non una profonda e diffusa aberrazione culturale, spingono una falange di 300 guardie carcerarie a compiere una spedizione punitiva in un carcere dove non c’è alcuna rivolta? Ci sono colpevoli e vittime, ragioni e torti? O c’è solo un insondabile dramma sociale di fronte al quale la responsabile politica sa solo invitarci a riflettere con lei? Insomma, da che parte sta Cartabia? Chi governa le carceri, tecnico o non tecnico, deve dirlo. Invece non lo sa neppure lei da che parte sta, e non per colpa sua. In quella notevole intervista pubblicata 46 anni fa da Massimo Fini sul settimanale l’Europeo, Giussani insisteva sull’unità politica dei cattolici, cioè sulla fedeltà alla Democrazia cristiana. Quella era la casa dei cattolici, come c’era la casa dei comunisti, quella dei laici e liberali, dei neofascisti eccetera. Quasi mezzo secolo dopo la Dc non esiste più come non esistono più i partiti radicati nella società, quelli che consentivano e al tempo stesso obbligavano chiunque a incanalare le proprie ambizioni in quella “dimensione comunitaria dell’esistenza”. Adesso sono tutti uguali e dialogano, si confrontano, oppure si insultano ma sempre a titolo personale. Perciò Cartabia è a pieno titolo un eroe dei nostri tempi, al pari di Matteo Renzi, Matteo Salvini e Giuseppe Conte: sono figli di nessuno, non hanno scuola né maestri, non hanno una comunità politica o sociale di riferimento e danno la scalata al potere armati esclusivamente della propria abilità a tirare i dadi. Con una ulteriore distinzione. I due Mattei, saltando la gavetta comunitaria, si propongono fin da piccoli come leader politici. Cartabia, come il suo circa coetaneo Conte, segue un più riservato cursus accademico fino al momento in cui alcune circostanze favorevoli la inducono a pensare che sia arrivato il momento di giocarsela mettendo in campo la propria cultura giuridica, la capacità di comunicare in modo tattico e le proprie relazioni in attesa dell’incoronazione. Una corsa solitaria, un’avventura da freelance del potere che mai don Giussani avrebbe immaginato. Esattamente dieci anni fa la professoressa Cartabia, docente di Diritto costituzionale alla non centralissima (per la materia) università di Milano-Bicocca, pesca un jolly pazzesco. Il 21 agosto 2011 al meeting di Rimini di Cl incontra per la prima volta Giorgio Napolitano. Dodici giorni dopo il presidente della Repubblica la nomina giudice costituzionale. A soli 48 anni Cartabia è la terza donna su 110 giudici che si sono succeduti dal 1955, una degli otto (sempre su 110) nominati prima dei 50 anni. Napolitano le dice che vuole vedere rappresentate dentro quella istituzione tutte le anime e tutte le culture. “La mia voce, secondo lui, era chiaramente identificabile ed era una voce mancante”, racconta la prescelta. Non che mancasse la voce di Comunione e liberazione, perché non sarebbe stata degna di Napolitano una lottizzazione così rozza, ma insomma era quella la voce riconoscibile, quella, per capirci, secondo la quale i genitori di Eluana Englaro non avevano diritto di lasciarla morire e gli omosessuali non possono sposarsi. Quella è la cultura che la accomuna al suo grande maestro, il celebre giurista Joseph Weiler, da sempre vicino all’Italia e a Cl, che in uno dei Meeting la conosce, la apprezza e se la porta a studiare in America. Weiler è anche molto amico del presidente italiano, forse gli ha parlato lui della brillante costituzionalista milanese: “Ho sempre pensato che Giorgio Napolitano fosse un grand’uomo. Ho una ragione in più per pensarlo: questa scelta”. Ed è quello il momento magico. Nell’autunno del 2011 tramonta il governo Berlusconi, Mario Monti si insedia a Palazzo Chigi e Mario Draghi diventa presidente della Banca centrale europea. Si apre una nuova stagione politica e Cartabia converte la propria identità dalla fervente appartenenza ciellina alla ferrea determinazione di non pagare alcun prezzo politico a questa appartenenza. Non bisogna dimenticare che il 13 marzo 2013 Angelo Scola, vescovo di Milano appartenente a Comunione e liberazione che molti davano per già eletto papa al posto di Joseph Ratzinger, è stato bocciato dai cardinali italiani e sbaragliato dal gesuita argentino Jorge Bergoglio. E vi immaginate una ciellina al Quirinale, nel palazzo dal quale Vittorio Emanuele II sloggiò Pio IX a cannonate? Così la vita precedente di Cartabia viene meticolosamente cancellata, al punto da alienarle la simpatia di molti ciellini sinceri. Pensate che mai un giornale italiano ha pubblicato il nome di suo marito Giovanni Maria Grava, per diversi anni tesoriere di Cl. Il fatto più significativo accade nell’agosto 2019, durante la crisi del governo Conte innescata da Matteo Salvini al Papeete. Prima che torni in sella l’avvocato del popolo, comincia a circolare il nome di Cartabia come premier dell’inedito governo Pd-M5s. La giurista ciellina, se non sai che è ciellina, sta bene su tutto come il beige. Il quotidiano La Verità ironizza, in un trafiletto, sul fatto che a tessere le lodi della giudice costituzionale sia sceso in campo un politologo gesuita. E nota che il Corriere della Sera minimizzi il problema definendola “in passato vicina agli ambienti di Comunione e liberazione”, quando è notoriamente amica e tuttora consigliera del presidente di Cl Julián Carrón. Si chiede l’autore Gustavo Bialetti se Cartabia “alle assemblee dei responsabili di Cl in Val d’Aosta ci va per raccogliere funghi”. Pronta arriva la replica. Gesuitica. Il Corriere della Sera pubblica una dichiarazione della giudice costituzionale quantomeno strana, rilasciata dalla Val d’Aosta, sì, ma “al rientro da una gita sulla vetta del Gran Paradiso”: “È stata una bellissima giornata, sono con la mia famiglia. Questa gita era programmata da due anni, non c’è stato alcun tempismo particolare”. Non una parola di più. Però almeno si capisce che Cartabia pianifica a lungo termine anche le passeggiate in montagna, figuriamoci la carriera. Sicuramente all’assemblea dei responsabili di Cl in Val d’Aosta aveva partecipato nel 2010, un anno prima della folgorazione di Napolitano, con un discorso battagliero basato sulla sua esperienza all’Università di New York: “Mentre l’Europa sembra ancora terreno di battaglia per lo smantellamento della civiltà cristiana che ancora resiste, la cosa che più colpisce a New York è che il progetto sembra compiuto”. Il ragionamento si sviluppa: “Provo a spiegarmi così: considerando il clima culturale generale, la civiltà dopo Cristo, senza Cristo in cui viviamo, che ha così evidentemente in odio la cristianità, io, come credo molti tra noi, avevo in mente una immagine del potere come di qualcosa di esterno a noi che sostanzialmente ci perseguita”. Ma in America c’è piena libertà religiosa, quindi il potere non è contro Cristo ma si insinua direttamente nella mente dei cristiani. Cartabia ricorda che lo stesso Giussani “descrive il potere come qualcosa che ci penetra addosso e così (...) iniziamo a correre dietro a denaro, successo e potere, dentro e fuori del movimento”. Analisi e racconto proseguono: in America non manca certo “la dimensione religiosa nella vita delle persone, ma, per quel che ho potuto vedere, si tratta di una religiosità invisibile e inincidente, (...) nessuno osa vivere appieno la propria dimensione religiosa come forma della vita intera”. Dopo aver analizzato questa sottile forma di nicodemismo 2.0 (il fariseo Nicodemo proclamava la sua fede in Cristo solo di notte), nello stesso discorso Cartabia annuncia quasi profeticamente di aver già scelto di inseguire successo e potere: “La situazione “di frontiera” in cui mi trovavo mi ha anche fatto cambiare completamente il metodo di lavoro: mi sono accorta subito che la contrapposizione polemica non mi avrebbe portata da nessuna parte e neppure la pura apologetica della posizione cattolica. (...) Se avessi solo “attaccato”, liquidando sbrigativamente la cultura maggioritaria, mettendomi in “eroica” polemica, credo che nessuno mi avrebbe neppure ascoltata”. Il metodo Cartabia per dieci anni funziona alla perfezione. Lo aiuta essere donna (è lei che lo dice, un giornalista maschio non si permetterebbe mai) e saper tessere le relazioni. Non entra mai in conflitto su niente con nessuno. Piace al Pd, secondo l’antica tradizione di una certa sinistra che si sente figa apprezzando persone di destra. Costruisce un bel rapporto con il giudice costituzionale Sergio Mattarella, un cattolico vicinissimo al suo concittadino palermitano Bartolomeo Sorge, per decenni faro dei gesuiti italiani. Alloggiano nella foresteria della Consulta e spesso lui la invita a pranzo. Mette a frutto abilmente il grande privilegio dei costituzionalisti: dovendo per mestiere bilanciare i grandi princìpi condivisi che reggono la società, se la possono sempre cavare con i “ma anche”. Un costituzionalista insigne dirà che il diritto alla legittima difesa è sacro, ma anche, non è che puoi sparare a uno perché ti ha sputato. Opinerà che i processi non possono durare troppo, ma anche, non è che se la macchina della giustizia è lenta mandi liberi ladri e assassini. Frasi così se ne possono generare all’infinito e tutte evidenzieranno la saggezza di chi le pronuncia. Fino a che non arriva l’appuntamento inderogabile con la realtà, con la necessità di decidere qualcosa. Si chiama politica e le sue difficoltà vengono spesso sottovalutate dai dilettanti e dagli ambiziosi. Cartabia dovrebbe farselo spiegare proprio da Mattarella. Come tutti i democristiani di vecchia scuola (il segretario del Pd Enrico Letta è stato l’ultimo prima dell’implosione) inizia giovanissimo la carriera politica, condotta in parallelo con quella accademica, costituzionalista anche lui. Sceglie la politica come attività prevalente dopo la morte di suo fratello Piersanti, presidente della regione Sicilia ucciso dalla mafia nel 1980. Rimane sempre fedele a un’identità riconoscibile, appartiene alla sinistra Dc e non si sottrae quando c’è da battagliare. Quando viene eletto presidente della Repubblica, cioè garante di tutto, pronuncia parole sempre misurate. Ma, avendo cultura politica, se decide di dire qualcosa tutti capiscono. Alla prova della politica, Cartabia ha faticato parecchio a trasformarsi da opinionista a deciditrice, seminando dubbi sulle sue effettive capacità di ricoprire gli incarichi al vertice delle istituzioni per i quali in molti l’hanno frettolosamente considerata predestinata. Prendete il caso di Maurizio Di Marzio, 61 anni, di cui Cartabia ha ottenuto l’arresto una settimana fa a Parigi. Militante delle Brigate rosse, è stato arrestato la prima volta nel 1982 ed era considerato dagli inquirenti, a 22 anni, un terrorista “di un certo rilievo”. Processato e condannato, ha trovato riparo in Francia dove da una trentina d’anni gestisce un ristorante, assistito dalla cosiddetta dottrina Mitterrand. I complicati calcoli della giustizia italiana danno indicazioni controverse, forse deve ancora scontare qualche anno di pena, forse è già tutto prescritto. Cartabia nega di avere “sete di vendetta”, piuttosto è “sete di chiarezza e di reale possibilità di conciliazione”. In realtà la chiarezza è stata fatta decenni fa con sentenze dei tribunali italiani. Cartabia giustamente sostiene che senza prescrizione uno rischia di rimanere imputato per tutta la vita, una cosa brutta. E ancora fa scandalo, giustamente, l’arresto ingiusto di Enzo Tortora. Ma quando Tortora fu arrestato Di Marzio era già sotto processo. E Cartabia ancora lo vuole trascinare in carcere? Attenzione: non è un problema di esecuzione della pena, come dice la ministra, in Francia è in corso da 30 anni un processo infinito sull’estradizione di Di Marzio. Cartabia vuole far scontare a un ultrasessantenne spiccioli di carcere per reati commessi 40 anni fa, facendo finta di non sapere che la richiesta di estradizione è pendente davanti ai tribunali francesi da 30 anni. E che nel 1994 la Corte d’appello di Parigi rimise in libertà Di Marzio “alla luce della lontananza dei fatti, della lunghezza della procedura italiana, della lunghezza prevedibile della procedura d’estradizione”. Non è questione di punti di vista, ma di contraddizioni. Visto che Cartabia dice di ispirarsi alla nobile figura dell’arcivescovo (gesuita) di Milano Carlo Maria Martini (“Nessuno uccida la speranza, neppure del criminale più feroce”), viene il sospetto che l’accanimento contro gli ex giovani terroristi invecchiati in Francia non si ispiri tanto a sete di chiarezza e riconciliazione, quanto alla ricerca del consenso di aree politiche che potrebbero risultare decisive fra sei mesi nell’elezione del successore di Mattarella. Se la fine giurista milanese avesse frequentato la politica fin da giovane e qualcuno non l’avesse illusa che il sistema politico italiano fosse pronto a spalancare le porte a creature aliene che girano senza targa, saprebbe che i professionisti della politica certe sgrammaticature fingono per educazione di non vederle, ma non le dimenticano. Così ostili in nome del popolo (disprezzando le persone reali) di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 26 luglio 2021 Le posizioni dei 5 Stelle sui procedimenti giudiziari e della destra sull’immunizzazione: al fondo un’identica avversione per le condizioni che consentono a una società di essere libera. Apparentemente non hanno nulla in comune la volontà dei 5 Stelle, affiancati da certi settori della magistratura, di difendere l’imprescrittibilità dei procedimenti giudiziari e la campagna della destra contro l’obbligatorietà dei vaccini. Eppure, al fondo, si scopre un’identica ostilità per le condizioni che consentono a una società di essere libera, un’identica incomprensione di come si possa alimentare un regime di libertà. Non è solo colpa dei politici suddetti, sia chiaro. È, indubbiamente, un effetto del meccanismo democratico: quei politici rappresentano (al peggio o al meglio, giudicate voi) settori della società che nutrono la stessa ostilità e la stessa incomprensione. A un primo sguardo, fra la visione forcaiola della giustizia (“vale la presunzione di colpevolezza e pertanto un imputato può benissimo rimanere tale a vita”) e la visione pseudo-libertaria (“sui vaccini fate un po’ come ve pare”) non c’è punto di contatto. Se l’ideale di società della prima sembra corrispondere a un immenso carcere nel quale condannati e detenuti in attesa di giudizio stiano tutti insieme ammassati e con l’obbligo del silenzio, l’ideale di società dei secondi sembra quello di una grande stanza affollata da gente che strepita e si lancia addosso uova, ortaggi e qualunque cosa a disposizione. Il problema è che tanto il primo quanto il secondo ideale non hanno nulla a che spartire con una società libera. Detto in modo più realistico, si può sostenere che, anche se una società autenticamente libera non è mai esistita (e forse non esisterà mai), le due suddette visioni fanno a pugni con i tentativi - più o meno riusciti in giro per il mondo occidentale - di creare o mantenere condizioni che per lo meno si avvicinino a quelle di una società libera. Partiamo dai campioni della “libertà dal vaccino”. Persino loro dovrebbero essere in grado di capire che la libertà dell’uno finisce dove comincia la libertà dell’altro. Dovrebbero capire che le persone che non si vaccinano mettono a rischio altre persone. O dobbiamo aspettarci che, per coerenza, propongano anche di eliminare l’obbligo (liberticida?) di assicurare i veicoli in circolazione? E dunque perché tanto accanimento sui vaccini? La risposta probabilmente è che costoro hanno individuato un interessante bacino elettorale in quella parte - purtroppo, a quanto pare, piuttosto estesa - di nostri concittadini che si è bevuta l’una o l’altra delle teorie del complotto circolanti, persone che, non sapendone nulla, non avendo nessuna preparazione che li metta al riparo dalle bufale raccattate in rete, disprezzano gli scienziati, pensano che la scienza, come l’informazione, sia al servizio delle multinazionali, della Cia, dell’Uomo Nero. Le recenti manifestazioni di piazza dei più esagitati fra loro sono, temo, solo la punta dell’iceberg. Chi li corteggia e li vezzeggia contribuisce a indebolire le condizioni su cui si regge una società libera (o ciò che vi si avvicina). Teorie del complotto, rifiuto della scienza, se si diffondono, finiscono per inceppare i meccanismi di una tale società, la quale vive di delicati equilibri, e, nello specifico, di fiducia nella competenza di chi ne sa più di noi e della necessità di raccordare sapienza e rappresentanza democratica. La scienza è fallibile? Certo che lo è. Per definizione. Ma l’alternativa alla scienza fallibile è solo l’ignoranza, la superstizione. Anche il più addestrato dei piloti può commettere un errore ma persino il no vax preferisce che a guidare l’aereo su cui vola sia un pilota addestrato piuttosto che un avvocato, un sarto o un medico che non abbiano mai visto prima i comandi di un aereo. In una società libera non si rifiuta a priori la competenza. Si accetta che sia la politica rappresentativa, ascoltati i competenti, a trovare la sintesi migliore che tuteli la libertà (e in questo caso anche la salute) dei cittadini. Anche i campioni della presunzione di colpevolezza per chiunque risulti indagato o imputato (l’imprescrittibilità ne è una conseguenza) hanno in uggia la libertà e gli equilibri su cui si regge. In una società libera la giustizia deve contemperare l’esigenza di tutelare le vittime e di salvaguardare i diritti degli accusati. Habeas corpus, presunzione di non colpevolezza, limiti temporali alla durata dei procedimenti giudiziari e altri istituti collegati, sono stati costruiti nel tempo per salvaguardare quei diritti. I suddetti campioni, se volessero davvero, come ipocritamente affermano, tutelare le vittime, non dovrebbero calpestare i diritti di indagati e accusati. Dovrebbero chiedere processi rapidi (ossia il contrario di ciò che accade in Italia). Perché è proprio la lunghezza dei procedimenti giudiziari ciò che impedisce di rispettare i diritti delle vittime. L’incomprensione di cosa sia una società libera, tanto nel caso dei campioni della libertà dal vaccino che in quello dei campioni dell’imprescrittibilità dei procedimenti giudiziari, sembra derivare, plausibilmente, da ciò che questi due gruppi hanno in comune: essi adorano lo stesso dio, si inginocchiano davanti a una divinità che chiamano “Popolo”. Per inciso, la comune appartenenza religiosa rende assai probabile che fra i seguaci del clan dell’imprescrittibilità ci siano anche parecchi no vax (“uno vale uno”, eccetera). Per assumere certe posizioni è necessaria una buona dose di disprezzo, o di mancanza di rispetto, per le persone in carne ed ossa, per i singoli individui che possono essere contagiati dal no vax (fuori di testa) di passaggio o perseguitati a vita dalla macchina giudiziaria. Da dove deriva tale disprezzo? Probabilmente dal fatto che i suddetti gruppi pensano al popolo come se fosse un’entità reale, la quale per giunta, proprio come fa ciascuno di noi, “pensa”, “desidera”, “vuole”. Se il popolo è così inteso e si assume che esso conti assai più dei singoli individui, spetta allora a chi si è autoproclamato interprete della sua volontà agire di conseguenza. E pazienza se, per realizzare tale volontà, si passa come rulli compressori sui corpi e sulle vite delle singole persone. Se non che, il popolo come loro lo intendono non esiste, è un’astrazione. Essendo inesistente non ha bisogno di avvocati né di tribuni. Esistono invece le persone, gli individui. Essi vivono meglio o peggio, e anche più o meno liberi, a seconda che certe condizioni siano vigenti e rispettate oppure no. Giustizia, ancora malumori tra i 5Stelle, ma lo “strappo” si allontana di Davide Varì Il Dubbio, 26 luglio 2021 Non sarà la riforma della giustizia a mettere a rischio il governo. A scandagliare fonti parlamentari del Movimento 5 Stelle emerge, questo sì, un diffuso malpancismo sui punti che riguardano la prescrizione, ma anche la consapevolezza che non ci sono le condizioni per lanciare “aut aut”. D’altra parte anche la ministra delle Politiche Giovanili, Fabiana Dadone, ha aggiustato la mira rispetto alle dichiarazioni in cui parlava esplicitamente di dimissioni dei ministri M5s dal governo, se non si fosse trovata la quadra nella maggioranza. “Sono stata fraintesa, non è nel mio stile minacciare alcunché”, ha dichiarato. Il punto è che l’autorizzazione a porre la fiducia sulla riforma, chiesta e ottenuta dal premier Draghi al Consiglio dei ministri, ha ribaltato il tavolo delle trattative, mettendo in difficoltà gli eletti Cinque Stelle. Che continuano, nella stragrande maggioranza a dirsi contrari alle nuove norme sulla prescrizione, ma fra i quali sono pochi quelli che arriverebbero all’estrema ratio di sfiduciare il governo. “Non si vedono barricate in allestimento”, spiega una fonte parlamentare M5s bene informata: “Sono dieci, forse 15 gli eletti che non voterebbero la fiducia. Non di più”. A riportare i Cinque Stelle a più miti consigli sarebbe stata la mossa di Draghi sulla fiducia, dunque. Ma non solo. Ha pesato, spiegano ancora fonti parlamentari Cinque Stelle, anche la posizione del Partito Democratico. “La riforma della Giustizia è fondamentale per riuscire a finalizzare bene tutti i fondi europei del Pnrr”, dice il segretario del Pd Enrico Letta: “Noi abbiamo fatto in queste ore il lavoro necessario, e lo continueremo nelle prossime ore e nei prossimi giorni, per trovare i necessari aggiustamenti per arrivare a un’intesa la più larga possibile. Dopodiché il governo credo che metterà la fiducia perché è importante che questo provvedimento arrivi a un’approvazione della Camera prima della pausa estiva. È fondamentale perché noi dobbiamo dare all’Europa, che ci ha dato tantissimi soldi, la dimostrazione che siamo seri nel fare le riforme. Se non facessimo una riforma della Giustizia, credo che sarebbe una mancanza di serietà assoluta. Dobbiamo impegnarci in questa direzione”. In ogni caso, Letta si mostra tranquillo, dice che “il governo non scricchiola” e sottolinea che “di fronte a passaggi complicati” come quello della riforma della giustizia, “è naturale che ci siano delle discussioni”. Il Partito democratico plaude, quindi, a una riforma “coraggiosa e innovativa” che “affronta questioni irrisolte da tempo”, dice la capogruppo alla Camera. Non ci si nasconde, certo, che sul tema della improcedibilità “serve un intervento”, ma da qui a evocare dimissioni di massa ce ne passa: “Credo che in questa fase ci voglia calma ma anche la consapevolezza che siamo a uno snodo epocale”. Il terzo e, forse, decisivo elemento ad aver raffreddato gli animi dei Cinque Stelle è stato quello del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che in una lettera inviata al vicepresidente del Csm, David Ermini, ha invitato a rallentare e ripensare l’iter del parere-stroncatura sulla riforma, il cui approdo al plenum del Csm era previsto per la prossima settimana. Per il Capo dello Stato, il Consiglio deve pronunciarsi sull’impianto complessivo della riforma Cartabia e non sulla sola improcedibilità. Nonostante questo, pronosticano fonti parlamentari del Pd, i malumori e le fibrillazioni nella maggioranza non finiranno con il voto sulla riforma: la tesi è che alla base delle dure prese di posizione dei Cinque Stelle - ma anche della Lega e d’Italia Viva - ci siano le imminenti elezioni d’autunno nei comuni. Non si spiegherebbe altrimenti perché mai “dopo aver taciuto in Consiglio dei Ministri sull’autorizzazione a porre la questione di fiducia” sulla riforma della Giustizia, “il Movimento arrivi a parlare d’ipotesi dimissioni”. Colle, Csm e governo: gli incroci pericolosi della riforma penale di Antonella Rampino Il Dubbio, 26 luglio 2021 Ma cosa penserà Mattarella del Csm che ha appena espresso contrarietà alle linee-guida della riforma Cartabia? Cosa ne penserà chi svolge tra l’altro la funzione di presidente del Csm, e oltretutto notoriamente nutre stima e pratica il dialogo con l’attuale Guardasigilli, sin da quando sedevano nel medesimo Collegio di giudici costituzionali? La domanda sorge per così dire spontanea, esattamente come parte non piccola della pubblica opinione si attendeva un monito dal presidente del Consiglio che stigmatizzasse i no-vax che si annidano e fan proselitismo anti-vaccinale proprio dai banchi del governo. Ma nel caso del Quirinale tutto è più complesso, per il ruolo di equilibrio istituzionale insito in quella funzione, oltre che per la delicatezza della materia. In poche parole, se è possibile e anzi altamente probabile che Sergio Mattarella faccia comprendere il suo pensiero circa l’indifferibilità di una riforma della giustizia cui del resto l’Europa ha condizionato l’erogazione dei vitali fondi Recovery, non ci si può invece attendere una esplicita presa di posizione a caldo. Soprattutto, non su un pronunciamento di una Commissione dell’organo di autogoverno della magistratura. L’occasione per capire - o meglio: provare a decifrare - gli orientamenti del Quirinale è del resto dietro l’angolo: mercoledì prossimo è in agenda la “cerimonia del Ventaglio”, l’annuale incontro con i rappresentanti dell’Associazione Stampa Parlamentare. Si tratta di uno dei due discorsi eminentemente e strettamente politici che il Capo dello Stato rivolge alla nazione e alla comunità delle istituzioni e dei partiti. Il motivo per il quale non è prevedibile - e nemmeno auspicabile che il Quirinale commenti, nemmeno in via informale, un pronunciamento del Csm risiede nel fatto che il capo dello Stato ha anche la funzione di presidente del Csm proprio perché fossero garantite al massimo livello possibile l’indipendenza e l’autonomia (che non son sinonimi) della magistratura dagli altri poteri, e cioè dal Parlamento e dal Governo. Sergio Mattarella dunque, anche nei panni di presidente del Csm, svolge un ruolo ed adempie un dovere cardine dell’alta carica che ricopre: punto di equilibrio tra i poteri istituzionali. E, d’altro canto, non solo la “bocciatura” della riforma Cartabia è stata l’altro giorno operata non dal plenum del Csm (che il Capo dello Stato presiede, quando non delega a farlo il suo vice), ma è stata espressa per 4 voti su 6 dalla Sesta Commissione. Quella che ha come materie di competenza il contrasto alle organizzazioni mafiose e terroristiche, e che ha evidentemente raccolto e fatte proprie le obiezioni sollevate solo ventiquattr’ore prima - in audizione parlamentare- dal procuratore nazionale Antimafia e dal procuratore in prima linea contro la ‘ndrangheta. Se si considera poi che tra le funzioni costituzionalmente attribuite al Csm vi è proprio l’esprimere pareri sui disegni di legge governativi che riguardano l’amministrazione e io funzionamento della giustizia, è facile comprendere che quel pronunciamento della Sesta commissione, visto dal Quirinale, è solo una delle molteplici crune d’ago dalle quali la riforma Cartabia dovrà passare. E forse, si valuta dal Colle, dati i rapporti di forza in Parlamento dove il partito di maggioranza relativa è notoriamente sugli spalti, nemmeno la più perigliosa. Caiazza: “Sui processi per mafia si fa il gioco delle tre carte. Imputati sempre detenuti” di Francesco Grignetti La Stampa, 26 luglio 2021 Parla il presidente delle Camere penali. Sono “preoccupati e delusi”, gli avvocati penalisti. La riforma Cartabia secondo loro ha tradito molte attese. Per colpa dei veti incrociati tra partiti, alla fine mancano alcuni tasselli importanti. Considerano il ritorno della prescrizione una grande conquista, ma sono perplessi al pari dei magistrati sul meccanismo concreto. E così, Giandomenico Caiazza, presidente dell’Unione camere penali, dice: “Se è vero che arriveranno i denari, questo solo conterà. Perché se i tempi sono lenti, è anche perché i vuoti d’organico sono paurosi”. In che senso, più che sulle norme, voi siete attenti agli investimenti? “Perché la riforma, se consideriamo le premesse della commissione Lattanzi, si è molto scolorita lungo il cammino. Ma se davvero arriveranno i rinforzi promessi, il nuovo personale di cancelleria, gli investimenti sugli edifici e sull’infrastruttura digitale, allora certi tempi morti potranno essere superati. Questa è la vera scommessa. Se infatti occorrono mesi, o addirittura anni, per lo spostamento di un fascicolo da un tribunale a una Corte di Appello, ciò accade perché manca letteralmente il personale. Le cancellerie hanno vuoti del 50 per cento”. Che cosa vi attendevate e invece non c’è nella riforma? “Una seria spinta sui riti alternativi. Si sono persi per strada, credo per via dei veti leghisti. Il concetto di premialità come incentivo ai patteggiamenti, che pure è l’unico modo per deflazionare sul serio la massa dei processi, e quindi velocizzare, per i leghisti non è spendibile. Anche la riscrittura dell’udienza preliminare si è persa in gran parte per strada: si è passati dalla “previsione di condanna” a una generica “prognosi”. Diciamo pure che si è scolorita”. E il meccanismo della nuova prescrizione processuale, detta della improcedibilità? “Un’innovazione giuridica di cui non si sentiva la necessità. Peraltro nemmeno era tra le bozze della commissione dei saggi. Di sicuro non è una nostra proposta; noi avremmo preferito il meccanismo della legge Orlando, con le sospensioni da riconteggiare in caso di sforamento dei tempi, che faceva da pungolo per il giudice, e non rappresentava una morte del procedimento. È comparsa all’improvviso, perché bisognava accontentare i grillini, arroccati a difesa della riforma Bonafede. Unica consolazione: quantomeno si supera quel mostro giuridico, che avrebbe avuto l’effetto di ritardare ancor di più i processi”. Antonio Balsamo: “Buona riforma, in Canada ha funzionato. Ma servono soldi e magistrati” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 26 luglio 2021 Il presidente del Tribunale di Palermo: “Non vedo profili di incostituzionalità nelle proposte del leader 5S. Ma questo vale anche per altri casi di particolare complessità”. “È una riforma importante quella di cui stiamo discutendo in questi giorni - dice il neo presidente del tribunale di Palermo Antonio Balsamo - ma non si può pensare di fissare un termine dopo il quale il processo si estingue senza avere prima apprestato tutti i mezzi e le risorse per celebrare i processi entro i termini previsti”. Quali punti della riforma consentiranno un’accelerazione dei tempi della giustizia? “Il filtro più rigoroso che verrà assegnato al giudice delle indagini preliminari credo che sarà un forte fattore di deflazione dei processi. Come accade in tutti i paesi che adottano il rito accusatorio il dibattimento è l’eccezione. L’ampliamento dei casi di citazione diretta a giudizio è un altro fattore importante. Di grande rilievo è poi il capitolo relativo alla cosiddetta giustizia riparativa, in accoglimento di una direttiva europea: è previsto l’accesso ai programmi di giustizia riparativa in tutte le fasi del procedimento”. Giustizia riparativa, ovvero quel percorso che porta l’autore del reato a rimediare alle conseguenze della sua condotta. “Le forme di giustizia riparativa sono un grande impegno per dare speranza, contemporaneamente ai colpevoli e alle vittime dei reati. Mi è piaciuto molto un riferimento fatto dalla ministra Cartabia al congresso delle Nazioni Unite a Kyoto, nel marzo scorso: citò il motto della polizia penitenziaria, garantire la speranza è il nostro compito. Proprio perché noi crediamo che sia indispensabile diffondere speranza sono necessarie delle riforme di carattere organizzativo con un ampliamento del numero dei giudici, che ci ponga in linea con l’Europa, come ha chiesto l’avvocatura al congresso nazionale forense. La richiesta dell’avvocatura di portare il numero dei magistrati togati a 16.500 va presa in attenta considerazione. E poi c’è da tenere in considerazione la sperimentazione fatta in Canada, dove questo tipo di riforma è stato attuato”. Cosa è emerso da quella esperienza? “Dopo un anno dall’avvio della riforma, solo 61 processi sono saltati nello stato del Quebec perché oltre il termine massimo previsto. In Italia, il numero potrebbe essere enormemente superiore. Ma c’è un altro dato da tener presente: il governo del Quebec ha stabilito uno stanziamento di 175 milioni di dollari canadesi per nuovi magistrati, cancellieri e aule di udienze. Un investimento di 118 milioni di euro. Un dato che ci deve far riflettere. A Palermo, dove mi sono insediato da qualche giorno ho trovato colleghi grandemente motivati, come nei giorni drammatici del post stragi, ma è necessario sostenere questo impegno straordinario con un investimento altrettanto importante. Dobbiamo fare ogni sforzo per scongiurare il rischio che siano deluse le aspettative di giustizia delle vittime e le aspettative di sicurezza de i cittadini”. Il governo ha confermato gli investimenti, ma i magistrati impegnati sul fronte della lotta alla mafia hanno espresso riserve. “Vedo delle grosse criticità nella riforma non solo per i processi di mafia, ma anche per tutti quelli che comportano una notevole complessità negli accertamenti: penso ai dibattimenti per le morti sul lavoro, o per i disastri ambientali”. L’ex presidente Conte ha ipotizzato di tenere fuori dalla riforma i reati di mafia. “Non vedo profili di incostituzionalità in questa proposta. Ma ripeto il problema potrebbe crearsi anche per altri tipi di processi, dunque credo sia necessario pensare a dei correttivi, come la ministra Cartabia ha già annunciato. Ho molto apprezzato la citazione che la ministra ha fatto di Giovanni Falcone all’ultima sessione della commissione delle Nazioni unite per la prevenzione della criminalità, a Vienna. Falcone riteneva che si dovesse passare ad una fase di intensa e leale collaborazione fra i poteri dello Stato. Con questo spirito, è essenziale che il legislatore ascolti la magistratura e l’avvocatura, facendo una previsione realistica degli effetti delle riforme, e predisponendo tutti i rimedi”. Quali correttivi potrebbero essere fatti al capitolo della riforma riguardante i tempi del processo? “Si potrebbe pensare a una sospensione dei termini di durata massima del processo di appello o di cassazione in tutti i casi di particolare complessità del giudizio. Un’altra soluzione sarebbe quella di pensare a una decorrenza del termine di durata massima del giudizio di appello dal momento in cui la corte effettivamente riceve gli atti. Perché, talvolta, come ha ricordato Matteo Frasca, presidente della corte d’appello di Palermo che è virtuosa per tempi di durata dei processi, possono esserci dei casi in cui ad esempio il giudice di primo grado ha impiegato molto per scrivere la sentenza, oppure possono esserci state difficoltà con le notifiche. E il giudice di appello non ha il controllo di queste situazioni. Ma resta prioritario il tema delle risorse, come ribadito dal commissario europeo per la giustizia”. Quale aspetto mette in rilievo nella sua analisi? “Il rapporto annuale della commissione europea sottolinea che il numero dei giudici italiani resta uno dei più bassi nell’ambito dei paesi dell’Unione europea”. Cassese: “Ora basta coi magistrati che giudicano se stessi: il tetto vi cadrà addosso” di Luca Fazzo Il Giornale, 26 luglio 2021 Il costituzionalista avverte: “Va tolta al Csm la funzione disciplinare, serve un organo terzo”. Alla fine, a decidere sul putiferio in corso nel palazzo di giustizia di Milano sarà il Consiglio superiore della magistratura: giudici che giudicano se stessi, una sezione disciplinare dove spesso sembrano contare più le appartenenze di correnti che i torti e le ragioni. Ma è venuto il momento di togliere al Csm la funzione disciplinare: sarebbe una svolta epocale, e a proporla è Sabino Cassese, uno dei più importanti costituzionalisti italiani. Che intanto avverte i Procuratori: attenzione, il tetto vi sta per crollare sulla testa. Professore, a Milano più di metà di una procura insorge in difesa di un pm di cui il capo della stessa Procura ha chiesto l’allontanamento. È un caso senza precedenti. Fin dove si possono spingere i poteri del capo di un ufficio inquirente? I pm non sono liberi per legge? “L’articolo 107 della Costituzione dispone che il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario. Questo vuol dire che le garanzie del pubblico ministero non sono direttamente stabilite dalla Costituzione ma vengono stabilite dalla legge. In secondo luogo, le garanzie di indipendenza necessarie per gli organi giudicanti non sono simili a quelle necessarie per gli organi dell’accusa, le cui decisioni sono comunque sottoposte al giudizio della magistratura giudicante. Le implicazioni di queste due premesse mi paiono chiare”. Storari ha consegnato i verbali di Amara a Davigo sostenendo che di fatto gli veniva impedito di indagare. Ma in base alla Costituzione l’azione penale non sarebbe obbligatoria? “Non conosco gli atti e ho una conoscenza sommaria dei fatti, come noti attraverso la stampa. I verbali erano atti riservati della procura e non dovevano circolare. A giudicare Storari, di cui il pg della Cassazione ha chiesto il trasferimento cautelare da Milano e dalle funzioni, sarà lo stesso Consiglio superiore della magistratura di cui fanno parte consiglieri il cui nome compare negli stessi verbali di Amara. Come si esce da questo cortocircuito? “In casi di questo tipo, i principi del diritto richiedono un obbligo di astensione di tutte le persone che abbiano conflitti di interessi”. Non sarebbe il momento di portare la funzione disciplinare fuori dal Consiglio della magistratura, in modo da impedire che a giudicare siano a volte i colleghi di corrente degli accusati? “La funzione disciplinare dovrebbe essere comunque rimessa ad un organismo terzo, per assicurare indipendenza e imparzialità non solo rispetto al poter esecutivo, ma anche nei confronti del corpo della magistratura. Al di là di ciascuno dei singoli passaggi di questa vicenda, due considerazioni generali vanno fatte. La prima è che la declinazione dell’indipendenza in termini di autogoverno è stata errata fin dall’inizio (e duole dire che fu Lodovico Mortara a parlarne per primo, ancor prima della Costituzione). La seconda è che sarebbe consigliabile un maggior self-restraint del corpo dei procuratori, per salvaguardare l’ordine giudiziario, che altrimenti corre il rischio di vedersi precipitare il tetto addosso”. Davigo aveva il diritto di ricevere quei verbali informalmente? “Non so se si possa parlare di un diritto di ricevere, mentre mi sembra abbastanza chiaro che vi era un obbligo di riservatezza di colui che ha consegnato”. Se la Giustizia è contro un fiore di Giusi Fasano Corriere della Sera, 26 luglio 2021 Tempo ed energia del legale, del pm, del giudice, dei testimoni, dei cancellieri. Tutto per i fiori che un padre ha portato sulle macerie che hanno sepolto e ucciso suo figlio. Un fascicolo penale, un decreto penale di condanna per 4.550 euro, l’opposizione al decreto, il processo davanti al giudice, il pubblico ministero che mette assieme “documentazione varia”, la lista dei testimoni da sentire da una parte e dall’altra, la sentenza di assoluzione e - adesso - le motivazioni del verdetto: “Non doversi procedere per particolare tenuità del fatto”. Tempo ed energia del legale, del pm, del giudice, dei testimoni, dei cancellieri... Tutto questo - tenetevi forte - per i fiori che un padre ha portato sulle macerie che hanno sepolto e ucciso suo figlio. È stato il 21 maggio del 2018 e quelle macerie erano sotto sequestro perché scena di un crimine. Erano i resti dell’hotel Rigopiano, raso al suolo da una valanga il 18 gennaio del 2017: 29 morti e fra loro anche Stefano Feniello, 28 anni, figlio adorato di Alessio e Maria. Il giorno di Pasquetta del 2018 Alessio e Maria vedono in tivù e sui social gruppi di escursionisti che oltrepassano i sigilli ed entrano laddove a loro è sempre stato negato. Selfie, pallone, picnic, oggetti portati via come souvenir... “Allora siamo andati lassù a portare i fiori come gesto di risarcimento verso i morti per la vergogna di quella Pasquetta”, dice Alessio. Che però quel giorno trovò i carabinieri a vigilare davanti ai sigilli. Il brigadiere provò a fermarli ma “l’imputato si oppose con veemenza e la sua reazione - dice il militare al giudice - in quel frangente era comprensibile. Ho accompagnato la moglie a portare i fiori sulle macerie e l’ho riaccompagnata fuori con l’imputato che nel frattempo si era tranquillizzato”. Domanda: era proprio necessario mandare avanti un procedimento del genere? La procura di Pescara ha chiesto e ottenuto per lei l’archiviazione per la tenuità del fatto. Non poteva fare lo stesso anche per lui invece di imbastire un processo e chiedere tre mesi di reclusione e 100 euro di multa? La giudice, Marina Valente, l’ha assolto spiegando che sì, è vero, si sarà pur trattato “astrattamente” di violazione dei sigilli, ma il reato è stato generato da un “da profonda prostrazione e rabbia conseguente alla morte del figlio” e “l’azione non appare certo sintomatica di una particolare pericolosità”. Lui voleva solo “vedere il luogo in cui ha perso la vita il figlio e sistemare un fiore sulla sua “tomba”. Ecco. Come dice il brigadiere: comprensibile. Purtroppo non a tutti. Napoli. Aurelio ha il cancro e fa chemioterapia, per lo Stato deve morire in carcere di Francesca Sabella Il Riformista, 26 luglio 2021 Ha un cancro in stato avanzato, ha perso trenta chili negli ultimi mesi, si sottopone periodicamente a chemioterapia, è una larva umana, ma per lo Stato deve morire in carcere. Aurelio Quattroluni è un detenuto di origine siciliana condannato all’ergastolo ostativo, è in prigione da più di vent’anni, oggi sta scontando la sua pena nel carcere di Secondigliano dove è recluso dal 2020. È malato, la famiglia riferisce che versa in un forte stato depressivo e che alterna scioperi della fame ad attacchi di autolesionismo. Tutto ciò, però, non basta: deve morire in cella. “Ho inviato più di sessanta pec al Tribunale di Sorveglianza di Napoli facendo richiesta di arresti domiciliari - racconta Ornella Valenti, legale di Quattroluni - Non ho mai ricevuto una risposta, se non mail nelle quali mi veniva comunicato che gli uffici non avevano ancora acquisito le informazioni necessarie. Se non i domiciliari, almeno il trasferimento vicino casa significherebbe già tanto per lui”. Il Tribunale di Catania, invece, seppure con qualche ritardo ha risposto all’avvocato Valente. “Il magistrato siciliano ha rigettato per due volte la richiesta dei domiciliari - continua Valente - una volta nel settembre del 2020 e l’altra nel febbraio di quest’anno ritenendo che le condizioni di salute del mio assistito fossero compatibili con il carcere. Ma non è così”. Dal carcere di Padova, dove era inizialmente recluso, Quattroluni fu “spedito” agli arresti domiciliari a Catania dove fu operato d’urgenza. Rimase a casa per due anni e sei mesi, quindi in regime di arresti domiciliari, per le cure necessarie. Nel mese di febbraio 2020, in seguito a un’inchiesta relativa a fatti risalenti a 25 anni prima, fu arrestato e condotto portandolo nella casa circondariale di Bicocca, a Catania. Dopo lo scoppio dell’emergenza Covid la vicenda subì uno stop, ma successivamente il Tribunale di Catania dispose di nuovo gli arresti domiciliari con scadenza a settembre 2020. Nel frattempo le istanze presentate dal suo avvocato non sono state lette e il detenuto è stato trasferito nel carcere di Secondigliano, dove si trova adesso. Pec non lette, risposte mai date all’avvocato e un uomo che seppur condannato al carcere a vita, in quel carcere rischia di morire, in aperta violazione del diritto alla salute e della sua dignità. Il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello ha incontrato recentemente Quattroluni e ha riacceso i riflettori sulla sua condizione e sulla necessità di consentirgli di essere curato, se non a casa, in una struttura attrezzata. “Aurelio è una persona malata, condannata all’ergastolo ostativo, ha un cancro, sta facendo dei cicli di chemioterapia - spiega Ciambriello - Sulle sue spalle pesano due condanne mortali: ergastolo e cancro, ma per ironia della sorte una può cancellare l’altra”. La condanna all’ergastolo non equivale alla pena di morte o, almeno, non dovrebbe. “Adesso Aurelio è pelle e ossa - sottolinea il garante - Non si tratta di essere benevoli o buonisti: sono deciso ad andare avanti per difendere il diritto alla salute e alla vita, senza la doppiezza ipocrita di chi divide i detenuti in buoni e cattivi o di chi vuole separare quelli condannati per reati ostativi da quelli che si trovano in carcere per fatti meno gravi”. Si tratta di rispettare i diritti. “Viviamo in un Paese dove il populismo penale si coniuga con il populismo politico - conclude Ciambriello - Non possiamo tollerare altre reticenze e dimenticanze sui temi del diritto, della giustizia e della detenzione”. Santa Maria Capua Vetere. Leone (M5S): “Cartabia sostituisca la direttrice del carcere” di Rossella Grasso Il Riformista, 26 luglio 2021 L’appello della senatrice grillina. “Purtroppo il carcere è diventato nel tempo una discarica sociale dove confluiscono tutti i problemi non risolti”. Ne è convinta la senatrice pentastellata Cinzia Leone che in questi giorni ha svolto approfondite visite nelle carceri campane e siciliane. Vuole vedere con i suoi occhi una situazione che al carcere di Santa Maria Capua Vetere è diventata esplosiva ma che è il campanello d’allarme per tutta la nazione. “Obiettivo di questo breve tour è quello di dar luogo a delle relazioni seguite da interrogazioni parlamentari alla Ministra Cartabia”. “In particolare ho intenzione di soffermarmi su quanto è successo a Santa Maria Capua Vetere durante la mia visita - prosegue la senatrice - C’era un uomo ignoto con noi che mi ha accompagnato nel reparto delle donne (reparto Senna, massima sicurezza, Ndr). Al termine della visita ho scoperto che avevano scritto che era il mio autista ma io non lo conoscevo. Ho chiesto ai presenti chi fosse questo Armando Schiavo che mi accompagnava ma nessuno mi rispondeva, è sceso un silenzio imbarazzante. Poi mi hanno detto che era il compagno della direttrice. Questo episodio merita un’attenta riflessione: È imbarazzante che a seguito dei fatti accaduti tutt’ora serpeggia uno strato di opacità in questa struttura carceraria”. Per la senatrice si è trattato di un episodio “gravissimo, farò anche interrogazione già martedì con un intervento di fine seduta. Fatto, ancor più che gravissimo, in cui emerge all’indomani della visita della ministra Cartabia e del presidente Draghi. Una presenza non autorizzata giuridicamente ad accompagnare una senatrice della repubblica in una ispezione ed all’uscita constatare che all’ingresso era stato scritto ‘autista della senatrice Armando Schiavo’, ma io non sapevo chi fosse”. “Ritengo che la ministra tempestivamente provveda a far sì che la direttrice, la quale si è presentata come ammalata, con accanto il compagno ex poliziotto che faceva gli onori di casa fin dove non c’erano le telecamere, ad una sostituzione della stessa poiché è un carcere che necessita di essere seguito con molta forza e responsabilità, serietà e trasparenza che ad oggi sembra venir meno. Nel momento in cui i vice direttori sono stati sostituiti perchè non sostituire anche lei? Forse non ha la serenità anche fisica per ricoprire quel ruolo. Bisognerà fare chiarezza sul ruolo di Armando Schiavo all’interno del carcere”. La garante dei detenuti della provincia di Caserta, Emanuela Belcuore, per garbo, aveva avvisato il giorno prima della visita della Senatrice Cinzia Leone. “La Direttrice Palmieri ci ha accolto nel suo ufficio ma non ha proseguito il giro nei reparti”. Al termine ha ricevuto dalla stessa una telefonata che sottolineava che il signor Schiavo fosse un ‘Articolo 17’, cioè un volontario del carcere. “Resta che non era l’autista della Senatrice, come precedentemente scritto nell’elenco dei visitatori - ha detto Belcuore - gli articoli 17 sono preposti a fare attività per i detenuti. Com’è possibile che, abbia accompagnato una Senatrice della Repubblica mentre altre associazioni lamentano difficoltà a entrare in carcere per realizzare attività con i detenuti? Trovo imbarazzante che alla domanda della Leone ‘Chi è quest’uomo che mi ha accompagnata?’ venga risposto da un commissario che è il compagno della direttrice, ex appartenente al corpo della polizia penitenziaria in pensione e non una persona che fa il volontario nel carcere. È stata un’altra occasione mancata per rilevare le positività e le criticità del carcere”. In una visita durata diversi giorni, accompagnata dai garanti dei detenuti di Napoli, Pietro Ioia e di Caserta, Emanuela Belcuore, Leone ha visitato le carceri di Santa Maria Capua Vetere, Poggioreale e Secondigliano. Ha trascorso molte ore all’interno di quelle carceri e si è fatta una idea chiara. “In realtà ci vorrebbe un colpo di ali e con fantasia per percorrere la strada delle pene alternative al carcere e si necessita che lo stato si riappropri del suo alto compito rieducativo e riabilitativo soprattutto all’ interno delle strutture penitenziarie”, ha detto al termine delle visite. “Il governo Monti con la sua esigenza di austerity - ha continuato - ha fatto sì che tanti piccoli carceri fossero chiusi e che ha dato come effetto quello di far convergere un numero eccessivo di persone in uniche megastrutture che se meglio rispondono al principio di economicità, di certo rischiano di fare passare in secondo piano le esigenze delle persone”. Leone ha guardato con i suoi occhi e toccato con mano la situazione. “Queste strutture che spesso sono ospitate in edifici del secolo scorso o addirittura di un paio di secoli fa spesso non sono per nulla rispondenti alle esigenze attuali - ha detto - La sofferenza della popolazione carceraria è dimostrata oltre che dalle frequenti proteste, molte delle quali condotte in modo pacifico e non violento come il digiuno o la sospensione di terapie farmacologiche. Ma questa sofferenza è dimostrata dall’ alto tasso di suicidi sia tra i detenuti che tra la polizia penitenziaria che si trova oberata da compiti che in senso stretto non gli spetterebbe”. “Purtroppo il carcere è diventato nel tempo una discarica sociale dove confluiscono tutti i problemi non risolti: c’è un’elevata percentuale di detenuti con problemi psichiatrici e molti altri che per ragioni di povertà e di mancanza di alternative finisce per delinquere. Vari progetti ma attuati purtroppo in modo sporadico e spesso condotti per iniziativa di direttori penitenziari lungimiranti hanno dato prova che fornire una professione alle persone detenute contribuisce non poco a dare un’altra autorappresentazione e apre nuove prospettive ai detenuti che una volta liberi li aiuta al reinserimento nella società e li aiuta a liberarsi dallo stigma di essere stati carcerati”. “Purtroppo non avremo mai i dati certi di come una misura tanto attaccata come è il reddito di cittadinanza abbia tenuto distanti dal crimine migliaia di persone che hanno potuto provvedere alle basilari necessità proprie e dei propri familiari. Ed in cui lo stato ha dato prova di tutelare la dignità della persona e così facendo ha sottratto manovalanza alla criminalità. Questo dato purtroppo temo che rimarrà un dato nascosto”. Cosa ne pensa della riforma avviata dalla ministra Cartabia? “Per quanto riguarda la prescrizione non mi sento di pronunciarmi abbastanza perché mi fido del lavoro dei colleghi delle rispettive commissioni giustizia, ognuno ha la propria competenza. Sicuramente se hanno presentato mille emendamenti correttivi vuol dire che c’è una necessità di revisione rispetto a quella che era la nostra proposta con il ministro Alfonso Bonafede di cui ho un’immensa stima”. Gorgona (Li). Un’isola-carcere ancora attiva di Valerio Calzolaio unipd.it, 26 luglio 2021 Qualche isola-carcere è ancora attiva in Italia e nel mondo. Forse il caso più significativo nel Mediterraneo riguarda la più piccola e lontana delle isole dell’Arcipelago Toscano, Gorgona, 222 ettari appartenenti al comune di Livorno, più o meno di fronte alla città, a circa 35 chilometri dalla costa, sul mar Ligure. Si tratta di un territorio prevalentemente montuoso (massimo 255 metri sul livello del mare) e ricco di vegetazione tipica della macchia mediterranea: pineta e lecceta più in alto, esemplari di castagno e ontano nero, bassi resistenti cespugli in basso. Verso ponente la costa cade a picco nel mare, mentre a levante degrada formando tre valli terminanti con piccole deliziose cale, insenature e baie, come Cala Scirocco, dove si apre la Grotta del Bove marino, un tempo rifugio di foche monache. Gorgona ha avuto innumerevoli denominazioni nel passato, fu abitata fin dal Neolitico, frequentata da Etruschi e Romani, poi sede di monaci eremiti, che fondarono i monasteri di Santa Maria e di San Gorgonio. Nei millenni successivi la presenza umana fu connessa alle scorribande di terra e di mare in Toscana e nel Tirreno, con conseguenti edificazioni di case, torri, chiese e fortificazioni. Citata da Plinio, Namaziano e Dante, risultò comunque sempre complicato l’uso agricolo. Agli inizi dell’Ottocento, i Citti di Lugliano (Lucca) popolarono l’isola, dando origine all’attuale paese dei pescatori. È probabilmente loro lontana discendente l’unica residente oggi stabilmente abitante sull’isola, dodici mesi l’anno, Luisa Citti, 93 anni splendidamente portati, spesso intervistata, arzilla e fedele, sola e tranquilla (con i suoi gatti). Due secoli fa il granduca di Toscana inviò circa duecento contadini per coltivarla, che però fecero di necessità virtù, dedicandosi solo alla pesca. Ma, già dal 1869, inoltre, una parte dell’isola fu destinata a colonia penale all’aperto come succursale di quella di Pianosa. E isola carcere sempre è rimasta, da oltre centocinquanta anni, mai solo carcere, mai senza detenuti, un caso abbastanza raro. Il centro di Gorgona è ancora borgo di discendenti di antichi pescatori, come detto oggi quasi spopolato: una decina di famiglie, fra 60 e 130 abitanti “civili” nell’ultimo quindicennio, sono residenti ma la abitano ogni anno qualche settimana o raramente qualche mese (estivo), in vacanza. Del resto, non ci sono attività sull’isola diverse da quelle “rieducative” (articolo 27 della Costituzione italiana) seppur utili e funzionali. L’unico bar è gestito dal personale di polizia dell’amministrazione penitenziaria; come pure l’unico negozio che vende prodotti, quelli realizzati da gruppi di detenuti, per esempio pomodori e uova. Non mancano problemi. La lontananza dalla terraferma comporta disagi per tutta la popolazione umana (permanente e soprattutto transitoria, detenuta e non), disservizi e scomodità sono quelli di tante isole italiane, i collegamenti marittimi non sempre sono possibili causa le avverse condizioni del mare. La gestione e la direzione hanno sede nella distante Livorno. Il personale di polizia penitenziaria è in numero talora insufficiente quando aumentano d’improvviso i detenuti (anche 100 alcuni mesi), non sempre è accompagnato dalla famiglia e andrebbe scelto più su base volontaria. Non tutti i condannati hanno sempre lavoro sufficiente e l’intera esperienza non sembra davvero sostenuta dall’amministrazione centrale, con progetti e fondi specifici. Sul territorio di Gorgona persiste comunque in ampi spazi il carcere all’aperto, una Sezione distaccata della Casa Circondariale di Livorno (in base a un decreto dell’ottobre 2013), con la capienza di 88 detenuti (al 30.11.2017 erano 90 uomini, stranieri 46; al 30.1.2021 82 sempre solo uomini, ancora 46 stranieri), unica esperienza di colonia penale agricola ancora funzionante in Europa (vi si viene trasferiti come premio di buona condotta, con una condanna definitiva con residuo di pena non superiore a dieci anni). L’istituto è suddiviso in due sezioni prive di imponenti mura di recinzione, ognuna delle quali è praticamente autosufficiente. La prima composta da 19 stanze singole ospita detenuti con un programma di trattamento “più ampio”, nel senso che non è previsto una vigilanza di polizia fissa ma dinamica, dalle 7.00 alle 21.00, orario di chiusura delle stanze; ha un campo da bocce, il refettorio e una sorta palestra all’aperto. La seconda (Capanne) consta di 90 posti ed è dotata di campo sportivo, sala musica, sala hobby, biblioteca, palestra, aula scolastica, barbieria, oltre a cucina e refettorio. Le diramazioni di costruzione più recente si trovano nei pressi del piccolo villaggio, mentre quelle ottocentesche sono ubicate sulle alture dell’isola. Il lavoro può essere considerato il perno attorno al quale gira tutta l’organizzazione del carcere. Le attività, tuttavia, non sono sempre presenti e ben coordinate: vanno bene l’agricoltura (due ettari di vitigni autoctoni, una cantina di vinificazione, ulivi, ortaggi e piante aromatiche, panificazione), l’edilizia (manutenzione, ristrutturazione, carpenteria), e la gestione dei rifiuti; rispetto alla zootecnia il macello è stato chiuso (molti animali trasferiti, il terzo residuo oggetto d uno studio relazione d’intesa con l’Università Bicocca di Milano); l’acquacoltura è durata solo per circa un decennio (2001-2012) e non può essere più praticata. Sono stati ristrutturati degli edifici presenti a Cala Scirocco, nella parte sud orientale dell’isola ed è stato creato il Laboratorio di Biologia Marina e Maricoltura (Labimm), il quale oltre a svolgere attività di ricerca, è dotato di un’unità d’allevamento larvale e pre-ingrasso, che fornisce avannotti di specie pregiate (orate, spigole, ombrine), che saranno poi collocate sul mercato esterno per la vendita (oltre una piccola parte che viene naturalmente destinata al consumo interno). L’allevamento vero e proprio dei pesci avviene in gabbie off shore situate nella Cala Bellavista, e tutto ciò è accompagnato da corsi che forniscono ai detenuti la competenza necessaria per portare avanti il progetto. Alcuni detenuti sono impegnati nel gestire l’impianto e (ora) gli “impiantini” di produzione dell’energia elettrica, nelle attività di pesca sostenibile e, ormai, in lavori connessi al turismo didattico riguardante l’ambiente naturale dell’isola. La giornata “tipo” di un detenuto “incarcerato” a Gorgona prevede la sveglia alle ore 6.30 e, dopo la colazione, alle 7.30 inizia il turno lavorativo fino a mezzogiorno per la pausa pranzo. Il turno pomeridiano è dalle 14.00 alle 16.00. La restante parte della giornata viene impiegata per l’attività scolastica oppure per il tempo libero (è presente una biblioteca, una palestra, un campo da calcetto). L’istituto di Gorgona è dunque definibile “un istituto a trattamento avanzato”: il lavoro costituisce l’elemento cruciale e fondamentale del trattamento stesso, le acquisite capacità professionali garantiscono dignità, autosufficienza, autostima e aiuto economico ai familiari. Per larga parte degli ultimi trenta anni è stato responsabile del carcere un funzionario del mMinistero della Giustizia, Carlo Alberto Mazzerbo (Catania, 1957), direttore della casa di reclusione di Gorgona dal 1989 al 2005 (quando la visitai da sottosegretario insieme all’allora Presidente dell’Ente Parco dell’Arcipelago Toscano), con incarichi e missioni ad hoc su Gorgona dal 2005 al 2013, gestore del trasferimento a Livorno dal 2013 al 2015, direttore del carcere di Livorno (e quindi anche di Gorgona) dal 2019 in avanti. Il libro scritto qualche anno fa da Mazzerbo insieme al giornalista Gregorio Catalano ha diffusamente raccontato l’esperienza (“Ne vale la pena: Gorgona, una storia di detenzione, lavoro e riscatto”, Nutrimenti Roma 2013). Dal 2016 è stato firmato fra Amministrazione Comunale di Livorno, Ente Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano e direzione della Casa di Reclusione Gorgona Isola un Protocollo d’Intesa relativo alla fruizione turistico naturalistica dell’isola di Gorgona. Nel 2019 è stato riattivato un trasporto passeggeri di linea, bisettimanale. Nel 2021 Gorgona resta un’isola carcere. Potete andare a visitare l’isola di Gorgona. Yacht e crociere non possono attraccare, passeggeri e turisti sì. Il sabato e il lunedì vi è un traghetto da Livorno, servizio pubblico che parte e torna anche con un solo pagante il biglietto. Quei due giorni e pure la domenica la società che ha vinto il bando pubblico (Toscana Trekking) organizza visite guidate per massimo cento persone al giorno, anche per insegnanti e studenti. Nel 2019 ne usufruirono quasi 20.000 persone, nel 2020 (nonostante la pandemia) oltre 12.000. Il fascino sta nell’isola, bella e varia, non nell’essere carcere. Le funzioni giudiziarie semplicemente obbligano ad avere una guida esperta e competente ogni gruppo di 25 turisti. E l’ecosistema merita. In realtà, quasi tutte le isole dell’arcipelago toscano sono state utilizzate per isolamento detentivo, in tutto o in parte, prima o poi e non solo nel lontano passato: Elba (Napoleone), Capraia (in più epoche), Gorgona, Montecristo, Pianosa (in più epoche, anche romana). Il carcere di Porto Longone a Porto Azzurro (isola d’Elba) è pure ancora attivo, ma l’Elba è troppo grande per essere considerata un’isola-carcere in senso stretto con i criteri descritti nel volume, ha una superficie di circa 224 km, ovvero cento volte Gorgona. La casa di lavoro all’aperto di Capraia fu chiusa con un decreto del Ministero di Grazia e Giustizia del 27 ottobre 1986, mentre l’istituto penitenziario di Pianosa è stato definitivamente soppresso con la legge del 23 dicembre 1996 n. 652. Gorgona “resiste” come isola-carcere. Meriterebbe forse maggiore attenzione nazionale. Le isole non andavano e non vanno usate come carcere e andrebbe complessivamente ripensata ogni strutturazione detentiva. Le isole sono purtroppo state un lungo elettivo di “doppio isolamento” da millenni, in ogni mare del mondo, ovunque l’ecosistema aveva come confine acqua (anche in tanti ampi laghi e larghi fiumi). In linea di massima, tutte le isole andrebbero pensate ormai senza carceri e le vestige degli istituti penitenziari del passato andrebbero usate come museo all’aperto sulla crudeltà umana. Tuttavia, Gorgona è un caso unico, forse quello che più va incontro a un’esigenza di giustizia operosa, rieducativa e riabilitativa che dovrebbe essere praticata in ogni luogo e momento della pena detentiva. Gorgona avrebbe avuto grandi potenzialità. Possiamo e forse dobbiamo chiudere ogni isola carcere, comunque quel modo di trattare i condannati alla pena detentiva dovrebbe pur essere sperimentato (anche) da qualche altra parte! In Italia meno del tredici per cento della popolazione carceraria lavora. Il resto passa venti ore al giorno in cella, senza alcuna occupazione e senza effettiva osservanza del testo costituzionale. Discutere seriamente di Gorgona è un altro modo di affrontare collettivamente la questione dei carceri italiani, spesso incubatori di crimini, saliti a cronache pessime anche di recente, per comportamenti non confacenti delle pubbliche istituzioni o di chi lì le rappresenta, fenomeni ordinari e scandali straordinari di cui recentemente il presidente del consiglio Draghi e la ministra della giustizia Cartabia hanno detto di volersi occupare per ottenere finalmente che la detenzione sia l’inizio di un nuovo percorso di vita per chi “è stato” criminale. Firenze. Nuove attrezzature per la palestra del carcere di Sollicciano laprimapagina.it, 26 luglio 2021 Cyclette, macchine multifunzione e panche per il potenziamento muscolare ma anche palloni da calcio, racchette da tennis tavolo, cerchi per la ginnastica. Le palestre (maschile e femminile) allestite all’interno del carcere di Sollicciano dove i detenuti svolgono attività fisica nell’ambito del progetto Uisp “Sport in libertà” possono contare numerosi attrezzi in più. Sono quelli consegnati dall’assessore allo sport Cosimo Guccione e del garante dei detenuti Eros Cruccolini. Con loro c’erano la direttrice del carcere, Antonella Tuoni, e il presidente di Uisp comitato di Firenze Marco Ceccantini. “Un modo per stimolare movimento, attività sportiva e benessere psicofisico dei detenuti - ha sottolineato l’assessore Guccione - vogliamo offrire un’opportunità per favorire l’umanizzazione della pena, così come stabilisce la Costituzione. E proprio le attività ricreative, tra cui lo sport, sono considerate dal 1975, anno della riforma dell’ordinamento penitenziario, uno dei pilastri del trattamento penitenziario che dovrebbe ottenere la rieducazione del condannato”. “Attività fisica come spazio di libertà - ha aggiunto - ma anche come momento di socializzazione e convivenza, di confronto e di crescita”. Il presidente Marco Ceccantini ha ricordato come da molti anni Uisp porta avanti tutti i giorni il progetto che consente ai detenuti di svolgere attività fisica in palestra e negli spazi verdi del carcere. L’iniziativa, seppur ridotta nel periodo dell’emergenza Covid, non si è mai interrotta grazie alla presenza di un presidio sanitario interno alla casa circondariale. “Abbiamo continuato a operare in carcere in questo periodo -ha aggiunto Ceccantini- ritenendo l’attività motoria fondamentale per il benessere psicofisico delle persone recluse e soprattutto un valido contributo per superare questo difficile momento nel miglior modo possibile. Ringrazio il Comune per l’impegno nell’investire risorse, seppur limitate, per l’acquisto di nuovi macchinari al fine di sostituire quelli già esistenti, ormai obsoleti”. Quaderni di Teatro Carcere “Il nuovo attore”: presentazione a Modena al Teatro dei Venti articolo21.org, 26 luglio 2021 Nell’ambito di Trasparenze Festival, giovedì 29 luglio alle ore 21, al Teatro dei Segni di Modena si svolge la presentazione del numero monografico della rivista Quaderni di teatro carcere, dal titolo Il nuovo attore. Cristina Valenti e Laura Mariani dialogano con i registi del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna Eugenio Sideri, Vincenzo Picone, Paolo Billi, Stefano Tè, Fabio Banfo, Cecilia Di Donato e con Roberto Rinaldi, direttore responsabile di “Rumorscena”. Nel corso del terzo millennio il profilo dell’attore non professionista è sensibilmente mutato in relazione alla continuità e alla stabilità di molte esperienze. Le attitudini ingenue dei non attori si sono coniugate a competenze professionali e addestramento teatrale, producendo dimensioni inedite dell’essere attore. Il dossier monografico pubblicato nel nuovo numero di “Quaderni di Teatro Carcere”, indaga la figura del nuovo attore attraverso contributi di studiosi (Cristina Valenti, Laura Mariani, Guido Di Palma) e testimonianze di registi attivi anche al di fuori dell’ambito carcerario: Babilonia Teatri, Paolo Billi, Horacio Czertok, Nanni Garella, Alberto Grilli, Rita Maffei, Eugenio Sideri, Sabina Spazzoli, Stefano Tè, Corrado Vecchi. La parte extra-monografica ospita un focus sul teatro in carcere al tempo del Coronavirus (con contributi di Marco Bonfiglioli, Armando Punzo, Valeria Venturelli) e un caso di studio (di Giuseppe Scutellà) dedicato alla realizzazione del teatro PuntozeroBeccaria di Milano, primo teatro aperto a tutta la cittadinanza all’interno di un carcere. Completa la rivista un percorso per immagini che attraversa le esperienze dei registi del Coordinamento emiliano-romagnolo, allargando lo sguardo al di fuori delle scene ristrette, per spaziare in esperienze altre realizzate con non professionisti. “Oltre quel Muro” tour 2021 del cantante lucchese Daniele Barsotti Gazzetta di Lucca, 26 luglio 2021 Daniele Barsotti, cantante lucchese riparte con un nuovo tour che metterà in evidenza il ruolo sociale della musica e dell’essere artista. Lo spettacolo proposto da Daniele Barsotti con la sua band regalerà oltre un’ora di quella libertà che nasce spontaneamente da momenti di condivisione, di gioia legati a brani che fanno parte della nostra storia musicale. Ad accompagnare Daniele in questo percorso musicale, la Band composta da: Eva Spadoni alle testiere, Tommaso Livi alla batteria e Filippo Vannucci alle chitarre. Il progetto musicale “Oltre quel Muro” nasce dalla voglia di portare la musica all’interno delle carceri italiane, inizierà dal carcere di Sollicciano, Firenze per poi toccare strutture circondariali in varie città italiane. Il progetto nasce come strumento di riflessione, di condivisione e di sollievo in luoghi come le carceri, cupi e spesso carichi di tensioni emotive. Il tour sarà accompagnato da una costante attività di promozione, con l’obiettivo di far conoscere quanto la musica sia in grado di far star bene chi è in sofferenza. La musica può essere medicina psicologica anche per quelle persone che avendo commesso dei reati in qualche modo possono percorrere un viaggio interiore per capire e per capirsi. Il testo di alcune canzoni (C’è tempo di Fossati, La Cura di Battiato, Guardastelle di Bungaro, ma anche inediti di Daniele Barsotti), brani che hanno il potere di avviare un viaggio introspettivo al fine di migliorarsi e magari rendere la vita più serena. La cultura e la musica, come citato dal maestro Riccardo Muti, sono cibo spirituale che spetta anche e soprattutto a coloro che hanno un grande bisogno di interagire con gli altri ma non può farlo a causa del prezzo da pagare per il proprio passato. Sono un diritto irrinunciabile della persona soprattutto se questa vive una situazione di disagio. La musica può attraversare barriere e muri invalicabili: “Oltre quel muro” vuole essere tutto questo. Le prime date del Tour: 26 luglio ai campi sportivi di San Macario (con un breve recital di anteprima); 8 agosto - Agorà della Versiliana Festival, Tonfano; 21 Agosto “Oltre quel Muro” presso giardino del Teatro “I. Nieri” Ponte a Moriano. Tra doveri e libertà. Il Green Pass di Michele Ainis La Repubblica, 26 luglio 2021 Questo Green Pass è una creatura misteriosa. Non si capisce neppure se sia un consiglio o un obbligo. se serva a spronare i riottosi o viceversa a bastonarli. Qualcuno osserva che il Green Pass costituisce un requisito, non un obbligo. Altri parlano d’un obbligo indiretto. Mettiamola così: è un requisito obbligatorio. Se ne sei privo, rinunci a buona parte della tua vita sociale. Ma a sua volta l’obbligo - per essere legittimo - soggiace ad alcune condizioni, dettate dalla Carta costituzionale e dal buon senso. Primo: occorre una legge (o un decreto legge). La pretende l’articolo 32 della Costituzione, affinché una scelta così drastica venga discussa in Parlamento. E la legge dovrebbe poi riflettere un criterio di gradualità, d’applicazione progressiva e temperata, senza liste di proscrizione né diktat, giacché ogni misura sanitaria obbligatoria si situa sul crinale fra libertà e doveri. Nel caso del Green Pass, chi ne è sprovvisto perde una quota di diritti, chi lo ottiene rinuncia giocoforza alla sua privacy. Secondo: l’obbligo dev’essere esigibile. Può sembrare ovvio, invece non lo è. Quasi la metà degli italiani non ha ancora completato il ciclo vaccinale; e in 20 milioni non hanno ricevuto alcuna dose. Se corressero tutti insieme a vaccinarsi, la loro richiesta non potrebbe venire soddisfatta, perché al momento sussiste una riserva di 3,3 milioni di dosi a Rna messaggero. Senza dire degli immunodepressi o delle persone a cui per vari motivi il vaccino è sconsigliato. Terzo: l’estensione del Green Pass. Dipende dalla situazione di fatto, e dipende dai diritti in gioco. Oggi c’è un allarme, non un’emergenza assoluta (e meno male) come un anno fa, con gli ospedali saturi e centinaia di morti al giorno. Dunque è lecito comprimere un ventaglio di diritti secondari, relativi al tempo libero, come una cena al ristorante o una domenica allo stadio. Non però i diritti che la Costituzione stessa dichiara “fondamentali”: è il caso del lavoro, così come della libertà di circolare su ogni mezzo di trasporto. Il guaio è che soffia un vento d’intolleranza, acre, nemico delle mezze misure. Da un lato, il popolo dei No vax (2 italiani su 10, stima Diamanti su Repubblica, 31 maggio), o più semplicemente di quanti aspettano che a vaccinarsi siano gli altri, tutti gli altri, così loro la scampano senza pagare dazio. Egoismo di massa, che oltretutto infrange i “doveri inderogabili di solidarietà sociale”, evocati dall’articolo 2 della Costituzione. Dall’altro lato, marciano i legionari del vaccino, sguainando il pugnale contro gli infedeli. Così, la virologa Ilaria Capua vorrebbe far pagare ai non vaccinati le cure ospedaliere. Confindustria propone d’espellerli dai luoghi di lavoro, lasciandoli perciò senza stipendio. Idem l’associazione dei presidi rispetto agli insegnanti. E intanto la Statale di Milano ha già vietato le residenze universitarie agli studenti privi del vaccino. Se l’aria che tira è questa, tanto vale stabilire la vaccinazione obbligatoria, senza troppe ipocrisie. D’altronde il governo l’ha già decisa per i medici. Ma un’ulteriore stretta è lecita soltanto se s’impennano i contagi, i ricoveri, i decessi. Qui e oggi, è stato perciò giusto lasciare fuori dal decreto i diritti fondamentali: scuola, trasporti, lavoro. Ed è invece sbagliato pretendere il Green Pass per i concorsi pubblici (benché sia già obbligatorio un tampone negativo), assimilandoli alle sagre e alle piscine, mescolando il posto fisso con lo svago. C’è infatti un unico criterio distintivo da tenere a mente; e non dipende dalla quantità di folla ospitata in uno spazio, bensì dalla qualità del diritto di volta in volta esercitato. I costituzionalisti danno il via libera: “La nostra Carta consente l’imposizione” di Alessandro Di Matteo La Stampa, 26 luglio 2021 Flick: “La salute è un interesse collettivo”. De Siervo: “Il certificato è una strada per non costringere a vaccinarsi”. Altro che “dittatura sanitaria” e Green Pass liberticidi. Conversando con alcuni dei più eminenti costituzionalisti italiani si ricava un verdetto unanime: la Costituzione consente sia l’obbligo di vaccinazione che il lasciapassare sanitario e le polemiche non hanno alcun fondamento, almeno dal punto di vista giuridico. Il dibattito sull’obbligo si sta svolgendo in modo “improprio”, secondo Giovanni Maria Flick: “È un obbligo presente nel nostro ordinamento da molto tempo, pensiamo alle vaccinazioni per la polio, il morbillo, altre malattie infettive”. Soprattutto, ricorda, “la Corte costituzionale ha ribadito che l’obbligo vaccinale è conforme alla Costituzione, ai sensi dell’articolo 16 che stabilisce che la libertà di circolazione - e quindi di socializzare - può essere limitata per ragioni di sanità, con la sola garanzia della legge”. Bisogna poi ricordare che “l’articolo 32 dice che la salute è un diritto fondamentale del singolo - di tutti i singoli! - e un interesse della collettività. Nell’esercizio del mio diritto alla salute non posso danneggiare la salute degli altri”. E l’obbligo può avere ancor più un senso “per coloro che svolgono attività a contatto con soggetti fragili”. Ma, aggiunge, anche “ragionare sul Green Pass in termini di limitazioni della libertà mi sembra sbagliato: non è un obbligo, ma una attestazione che il soggetto non è tenuto a certe cautele perché si è vaccinato. Non esiste una libertà senza limiti. Sono il primo a dire che sarebbe meglio che la gente si convincesse e non dovesse essere obbligata, e che l’informazione su questo tema evitasse le confusioni praticate in passato. E si può capire la paura di molti. Ma è come per guidare la macchina: occorre la patente. Uno dice: non la voglio perché è una limitazione! Bene, ma se viene beccato è logico che si prenda la multa”. Per Sabino Cassese “l’articolo 32 della Costituzione è chiarissimo: nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Quindi, con una legge o con altro atto con forza di legge si può disporre un trattamento sanitario obbligatorio”. Peraltro, sottolinea, la Consulta “ha stabilito limiti aggiuntivi: vi deve essere una delimitazione temporale e il trattamento sanitario obbligatorio deve rispondere a criteri di proporzionalità e di non discriminazione”. Aggiunge: “Altrettanto importante la disposizione dello stesso articolo della Costituzione secondo la quale la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Dunque, la salute di ciascuno è collegata anche a un interesse collettivo, proteggere la salute di tutti”. Insomma, perfettamente legittimo adottare misure per tutelare la salute pubblica, “la lettura degli articoli della Costituzione che ho citato mi pare chiara. Per non parlare dell’articolo 2087 del codice civile per il quale l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Ugo De Siervo, poi, non vuole sentir parlare di “libertà”. È netto: “Non c’entra niente! Come dice in modo espresso la nostra Costituzione la sanità è un ovvio interesse della singola persona, ma al tempo stesso della comunità nazionale. Quindi bisogna bilanciare le due situazioni”. E certamente la Costituzione afferma il “principio fondamentale dei diritti inviolabili dell’uomo, ma nello stesso articolo - immediatamente dopo - si parla di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Insomma, “nessuno può pensare di chiedere la tutela dei diritti se non si pone a disposizione degli interessi collettivi”. Ancor meno fondate sono le critiche al Green Pass che “in fondo è la strada per non obbligare a fare la vaccinazione. E ricordo che molti di noi hanno sul braccio le cicatrici perché obbligo vaccinazione per certe malattie”. Giornata mondiale degli anziani, Gelmini: “Risorsa preziosa, non lasciarli mai soli” Il Fatto Quotidiano, 26 luglio 2021 Ma è silenzio sulle Rsa che non aprono ai parenti. Tra pochi giorni scade l’ordinanza Speranza sulle strutture per non autosufficienti. Il comitato Orsan: “Quasi tutte la domenica sono chiuse ai parenti per mancanza di personale. È una situazione ormai insostenibile”. E prepara un esposto nei confronti del Ministero della Salute, delle Regioni e delle ATS. Dal ministro per le Pari Opportunità e la Famiglia, Elena Bonetti a quello degli Affari regionali, Maria Stella Gelmini, passando per quello della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta. È unanime il coro ministeriale di auguri ai nonni d’Italia per la prima giornata mondiale degli anziani istituita dal Papa. Che richiama ad alleanze generazionali, cure, custodia e condivisione. Ma dimentica gli anziani ospiti delle Rsa del Paese, in attesa del rinnovo della normativa sulle riaperture delle strutture che ospitano i nonni più fragili e non autosufficienti in scadenza alla fine della settimana. “Si celebra oggi la prima Giornata Mondiale dei nonni e degli anziani, istituita da Papa Francesco. Questo tempo chiede di rinnovare e rinsaldare con coraggio quell’alleanza tra generazioni che ha negli anziani e nei nonni il suo pilastro. È un giorno di condivisione e di festa che viviamo con la consapevolezza che soltanto nella cura e nella custodia reciproche costruiamo il futuro”, ha scritto su Facebook il ministro Bonetti. Mentre Brunetta ha parlato di “anello di congiunzione tra le generazioni. A loro va il riconoscimento di tutti come modello di solidarietà da preservare, soprattutto in questo periodo di emergenza sanitaria”. E Gelmini evidenzia come gli anziani siano la “risorsa preziosa per tante famiglie, a loro va il nostro grazie per quello che fanno ogni giorno. A noi l’impegno di proteggerli e non lasciarli mai soli”. “Peccato non poter accogliere l’invito del Papa a visitare i nostri cari anziani”, aveva sottolineato venerdì il comitato Open Rsa Now (Orsan) in una nota a proposito della festa odierna ricordando che “noi abbiamo i nostri cari residenti in Rsa e la domenica quasi tutte le Rsa sono chiuse ai parenti per mancanza di personale. È una situazione ormai insostenibile”. L’associazione che si sta organizzando per preparare entro il 29 luglio un esposto nei confronti del Ministero della Salute, delle Regioni e delle ATS, ricorda quindi che “a giorni scadrà l’ordinanza Speranza dell’8 maggio e ancora non ci sono notizie sul rinnovo o sul miglioramento della stessa. Chiediamo solo tre cose: che almeno un familiare dotato di green pass abbia accesso libero 7 giorni su 7 alla Rsa; che gli ospiti ricoverati non siamo sottoposti a quarantena dopo le uscite e che si obblighino le Rsa ad aumentare durata e frequenza delle visite. Speriamo che Papa Francesco ci possa sostenere con le sue preghiere”. Oltre ai parenti, a ricordare i coetanei che vivono nelle Rsa ci hanno pensato alcuni anziani della Comunità Sant’Egidio di Milano. “Noi anziani possiamo e vogliamo scegliere per le nostre vite, mentre a molti è stata negata questa possibilità. Abbiamo diritto a vivere e morire a casa nostra e quando non è possibile vogliamo stare in luoghi che siano comunità e non istituzioni, insieme alle altre generazioni. Questo è il nostro sogno”. E ancora: “Il Papa è stato molto saggio ad istituire la festa degli anziani dedicata soprattutto a quelli che non hanno una famiglia. È perciò anche la festa delle persone sole. Il Papa è una persona illuminata, anziano come noi, e ha ragione quando dice che nessuno si salva da solo”, sottolineano i firmatari, Alberto, Anna, Eugenia, Gianni, Luigia, Luisa, Maria, Pietropaolo, Wanda. La legge Zan contrappone scienze “sociali” e naturali, non destra e sinistra di Piergiorgio Odifreddi Il Domani, 26 luglio 2021 In questo momento storico la tensione tra il politicamente e lo scientificamente corretto si manifesta con evidenza nei dibattiti sulle problematiche di genere, che si palleggiano fra le contrapposte posizioni delle “scienze” sociali e delle scienze naturali. La confusione deriva in parte proprio dal pessimo andazzo di chiamare “scienza” qualunque disciplina, comprese quelle che di scientifico non hanno proprio niente: né i metodi, né le posizioni. La differenza più radicale fra le “scienze” sociali e quelle naturali sta nel fatto che le prime, che sono spesso prede e vittime del post-modernismo, tendono a rifiutare qualunque categorizzazione, comprese quelle di genere, mentre le seconde si fondano sulle categorizzazioni, comprese quelle sessuali. Il dibattito sulle categorizzazioni non è comunque una novità, ed è anzi soltanto una versione moderna della famosa disputa medievale sugli universali: i post-moderni di oggi la pensano infatti come i nominalisti di ieri, e sostengono che i termini astratti siano soltanto espressioni linguistiche (post rem), e non corrispondano a una realtà concreta (in re). Soggettività o oggettività - Nel caso dei generi, la questione degli universali si traduce nella domanda se i raggruppamenti di individui, effettuati in base a caratteristiche sessuali, siano sempre e soltanto costruzioni mentali soggettive, come pensano appunto le “scienze” sociali, o se questi raggruppamenti siano spesso reali e oggettivi, come pensano invece le scienze naturali. La questione, lungi dall’essere univoca, dipende dai linguaggi usati per formulare la domanda, e dai criteri e dai metodi adottati per fornire la risposta, che sono molto diversi nelle “scienze” sociali e nelle scienze naturali. La sociologia, ad esempio, ha facile gioco nell’ammettere di non poter distinguere i generi in base ai propri criteri, che sono mutevoli e instabili, oltre che vaghi e indefiniti, essendo basati sui comportamenti individuali e sulle relazioni sociali, che spaziano dalle abitudini sessuali all’abbigliamento. Dal canto suo, la psicologia si imbatte in difficoltà ancora maggiori quando sostiene che, per decostruire il genere, basta notare che un individuo può percepirsi in maniera diversa da come appare agli altri, e che questo è tutto ciò che conta. Questa separazione dell’essenza di una persona dai suoi accidenti costituisce un ritorno alla nozione aristotelica di sostanza, come ha giustamente osservato su Domani il 19 luglio Raffaele Alberto Ventura: sminuendo, però, il fatto che quella nozione non soltanto è ormai anacronistica, ma è stata completamente screditata dalla scienza, fin dal suo nascere. Come Ventura ricordava correttamente, la nozione di sostanza aristotelica rivela ancor oggi tutta la sua problematicità nella dottrina cattolica della transustanziazione, secondo la quale l’ostia consacrata muterebbe la propria sostanza nel corpo di Cristo, pur mantenendo invariati tutti gli attributi del pane. Non a caso la dottrina fu messa in crisi nel Seicento dal nascente atomismo scientifico, professato da Galileo nel Saggiatore (1623): addirittura, Pietro Redondi ha sostenuto in Galileo eretico (1983) che fu proprio la critica dello scienziato alla nozione aristotelica di sostanza a metterlo nei guai con la Chiesa, più che l’eliocentrismo. La difesa dell’identità di genere in base alla sua concordanza con la filosofia aristotelica, in generale, e con la nozione di sostanza, in particolare, è dunque un “rattoppo peggiore del buco”, e costituisce semmai un argomento a suo carico e colpa, invece che a suo discarico e discolpa. E incominciare a insegnare l’ideologia di gender a scuola non sarebbe meglio che continuare a insegnare il dogma della transustanziazione. Di ore di religione ce ne basta una, e sarebbe molto più sensato pensare di abolirla, invece che di raddoppiarla! Oggi gli scienziati vengono messi a tacere dai social media, invece che dal Santo Uffizio, ogni volta che si azzardano a dire che i generi “eppur ci sono”, o attirano l’attenzione sulle difficoltà di casi come quello di Bruce Jenner, invece che parlare dell’ostia consacrata. Per chi non lo conoscesse, Jenner è stato un grande decatleta, tre volte detentore del record mondiale e medaglia d’oro alle Olimpiadi di Monaco del 1976: ha sempre provato attrazione sessuale solo per le donne, ne ha sposate tre e ha avuto sei figli da loro, ma dichiara di essere mentalmente una donna. Jenner è oggi la più famosa transgender del mondo, ed è apparsa in innumerevoli programmi televisivi americani. Ma ci sono casi meno noti di donne che dicono seriamente di sentirsi gatte, e almeno una, di nome Jocelyn Wildenstein, ha effettuato una serie di costosissime operazioni chirurgiche per acquistare un’apparenza felina. I casi di Jenner e Wildenstein non differiscono tra loro dal punto di vista logico, essendo entrambi affidati unicamente alle autopercezioni dei soggetti interessati. Ma mentre molti concedono alla transgenericità almeno il beneficio del dubbio, pochi sono disposti a considerare la transpecificità un fenomeno reale, al di là della mitologia di Romolo e Remo o della letteratura di Mowgli. Forse il diverso atteggiamento deriva dal fatto che persino i post-moderni concedono alla specie umana un’oggettività che negano ai suoi generi. Ma come la pensa la scienza, a proposito del genere? Anzitutto, la morfologia esterna permette di classificarli approssimativamente sulla base degli organi genitali, come si fa nell’atto di nascita. L’anatomia fornisce criteri aggiuntivi di classificazione, che vanno dagli organi riproduttivi interni, all’ossatura e alla muscolatura: ad esempio, i medici legali e gli antropologi riescono spesso a risalire al genere di un individuo, anche a partire da piccoli frammenti del suo scheletro. Il parere della scienza - Significativamente, le classificazioni anatomiche risultano spesso sovrapponibili a quelle morfologiche: ad esempio, negli sport gli uomini e le donne competono separatamente. Dal canto suo, la biochimica permette una valutazione più sofisticata delle differenze di genere mediante la valutazione dei livelli ormonali del testosterone, del progesterone e degli estrogeni. È appunto su questi ormoni che agiscono le terapie farmacologiche per il cambiamento di sesso, e si basano i protocolli ufficiali di rilevamento dei livelli ormonali per gli atleti maschi transgender che partecipano alle competizioni femminili. È comunque alla genetica che tutte le classificazioni oggettive degli esseri viventi devono ridursi, in ultima analisi. Nelle specie sessuate il genere è determinato dai cromosomi sessuali, che nell’uomo sono di due tipi: uno neutro (X) e uno maschile (Y). I maschi hanno una copia di ciascuno (XY), e le femmine due copie di quello neutro (XX): il sesso è dunque determinato in via maschile, tramite la presenza o l’assenza del cromosoma Y, e non si può cambiare, almeno fino a quando non ci saranno terapie geniche in grado di permetterlo. Non sembra ci sia però un collegamento tra le tendenze e i comportamenti sessuali che portano alle problematiche di genere e le variazioni atipiche dei cromosomi sessuali. Ad esempio, gli individui con soli cromosomi X sono tutti femmine: normali, se ne hanno due o più, e portatrici della sindrome di Turner, se ne hanno uno solo. Analogamente, gli individui con almeno un cromosoma X e uno Y sono tutti maschi: normali, se hanno un solo cromosoma X, e portatori della sindrome di Klinefelter, altrimenti. Non ci sono invece individui con soli cromosomi Y, perché non sopravvivono. Come si vede, i problemi sollevati dalla nozione di identità di genere sono variegati, e le vaghe posizioni dei sociologi e gli psicologi si contrappongono nettamente a quelle precise dei fisiologi, degli anatomisti, dei biologi e dei genetisti. Il dibattito sulla proposta di legge Zan non è dunque una contrapposizione fra la destra e la sinistra, come tendono a presentarlo i media, ma fra le “scienze” sociali e le scienze naturali. Il che spiega come mai, anche a sinistra, molti siano a disagio con l’ideologia gender. E non sarebbe male che anche loro potessero parlarne serenamente, senza dover per forza dover dimostrare la fedeltà alla propria “squadra”, come se si trattasse soltanto di una partita di calcio giocata allo stadio, invece che di un dibattito da fare in parlamento. Marocco. Ikram resta in carcere, mentre tutti hanno paura di parlare di lei di Laura Cappon Il Domani, 26 luglio 2021 Ikram Nazih è ancora in carcere e una cappa di silenzio continua ad avvolgere la sua vicenda processuale. Condannata lo scorso 28 giugno in primo grado a 3 anni di reclusione e al pagamento di una multa per blasfemia, la studentessa italo-marocchina è rinchiusa da allora in un penitenziario di Marrakesh, in Marocco. In molti, vista la particolarità della sua situazione, speravano che venisse liberata tramite grazia presidenziale, una consuetudine che si è rinnovata il 21 luglio in occasione della Festa del sacrificio (la ricorrenza musulmana dell’Eid al-Adha). Ma la ragazza non è tra i 761 detenuti graziati da re Mohamed VI con un comunicato di rito: “In occasione dell’Eid al-Adha di quest’anno, sua maestà il Re Mohammed VI ha gentilmente concesso la sua grazia a un gruppo di persone condannate da diversi tribunali del regno”. Nonostante le speranze di famiglia e legali di Ikram, e nonostante fra i beneficiari del provvedimento ci fossero anche 14 ergastolani la cui condanna è stata commutata in una pena a termine, era nell’aria che la grazia per Ikram avrebbe rappresentato comunque un’eccezione. I nomi presenti nella lista, infatti, sono stati condannati in tutti e tre i gradi di giudizio mentre Ikram è solo al primo. Stallo diplomatico - La diplomazia italiana, intanto, continua a seguire il caso. La studentessa, nata a Vimercate e poi trasferitasi a Marsiglia dove frequenta l’università, riceve ogni settimana la visita di un rappresentante del nostro consolato. Questo particolare, tra chi ha familiarità con le autorità marocchine, è considerato un segnale di apertura evidente. Ikram, infatti, ha due passaporti ma, secondo le norme del diritto internazionale, nei casi di doppia cittadinanza come il suo non è possibile per uno dei paesi coinvolti attivare la protezione diplomatica contro l’altro. “È una vicenda complessa e molto delicata”, ripetono come un mantra, e a taccuini rigorosamente chiusi, le autorità italiane alle prese con il dossier. Lo dimostrano le accuse, basate su un post condiviso da Ikram nel 2019 su Facebook, che con un gioco di parole trasformava la sura dell’abbondanza in sura del whisky. Quel semplice clic, a insaputa della ragazza, aveva provocato una denuncia da parte di un’associazione religiosa. Denuncia presa evidentemente molto sul serio dall’autorità giudiziaria, poiché l’Islam in Marocco è uno dei tre pilastri su cui si basa la legittimità dello stato. Basso profilo - A ormai quasi un mese dalla sentenza di condanna, nessuno ha ancora troppa voglia di azzardare dichiarazioni sul caso. Il padre di Ikram, che è volato in Marocco a seguire la vicenda, non vuole parlare con la stampa, così come il rappresentante legale della ragazza. Secondo alcune fonti marocchine, la famiglia avrebbe nominato un nuovo avvocato. Il difensore d’ufficio che aveva seguito la vicenda dopo il suo primo interrogatorio del 20 giugno aveva rassicurato la giovane che la situazione si sarebbe risolta in tempi rapidi. Appena otto giorni dopo, invece, è arrivata la condanna. La ragazza era stata bloccata al suo arrivo in Marocco, dove stava andando a visitare i suoi parenti. Dopo l’interrogatorio, il processo si è svolto a Marrakesh perché è la città dove due anni fa l’associazione religiosa aveva depositato la denuncia per blasfemia nei suoi confronti. Anche la comunità musulmana italiana mantiene un basso profilo nonostante l’appello di Davide Picardo, tra i fondatori dei Giovani Musulmani d’Italia, che dopo essere stato uno dei primi a occuparsi del caso sul giornale online La Luce, aveva chiesto la grazia reale alle autorità marocchine. L’opinione maggioritaria nella comunità, anche in assenza di dichiarazioni ufficiali, è che la pena inflitta a Ikram sia eccessiva e che una multa o un periodo di lavori socialmente utili sarebbe stato sufficiente. Soprattutto per una ragazza nata in Italia che non ha mai avuto un profilo da attivista e probabilmente non immaginava conseguenze penali così pesanti per la semplice condivisione di un post. In attesa dell’appello - Il silenzio delle persone appartenenti sia alla comunità musulmana sia a quella marocchina in Italia dimostrano quanto il tema dell’oltraggio all’Islam resti altamente sensibile. Prendere posizione sul caso significa, anche a queste latitudini, correre comunque un rischio ed esporsi davanti alle autorità di Rabat. D’altronde, la maggioranza dei cittadini marocchini che vive in Italia ha ancora dei parenti nel paese, proprio come Ikram. E c’è chi, a differenza della giovane, non ha nemmeno ancora la cittadinanza italiana. Intanto, il governo italiano continua a muoversi con discrezione per ottenere la sua liberazione. Come rivelato proprio sulle pagine di questo giornale, la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha parlato del caso a porte chiuse nel viaggio ufficiale in Marocco dello scorso 16 luglio. Giovedì prossimo, in commissione esteri verrà discussa l’interrogazione parlamentare presentata dal deputato della Lega Nord, Massimiliano Capitanio. Ma per sapere quale sarà il destino di Ikram è necessario attendere sino alla fine del mese. A breve sarà calendarizzata l’udienza di appello, mentre il 30 luglio è il giorno della Festa del trono, che celebra il ventiduesimo anniversario dell’incoronazione di re Mohammed VI. Anche in quell’occasione il sovrano marocchino concederà delle grazie reali. E nonostante l’iter processuale di Ikram non sia terminato, c’è chi spera, anche tra le autorità italiane, che stavolta il suo nome possa comparire nella lista dei graziati. Tunisia, il virus ora minaccia la democrazia di Viviana Mazza Corriere della Sera, 26 luglio 2021 La pandemia sta acuendo una grave crisi del sistema istituzionale creato dopo la caduta della dittatura nel 2011. La variante Delta ha inflitto un duro colpo alla Tunisia. L’Europa aiuta la Tunisia con milioni di euro, ma nella diplomazia dei vaccini, in cui conta molto il tempismo, ha perso un’opportunità. All’inizio della pandemia, la prima a inviare vaccini qui è stata la Russia. Da giugno il Paese è stato travolto da una nuova ondata di Covid, con vaccini insufficienti (solo il 7% dei tunisini ha ricevuto due dosi), carenza di ossigeno negli ospedali e 100-200 morti al giorno (18 mila in totale su 12 milioni di abitanti, il tasso più alto in Africa). “I Paesi del mondo arabo e musulmano sono sembrati più pronti a intervenire, e solo negli ultimi dieci giorni sono arrivate le donazioni europee, che adesso hanno preso piede con invii giornalieri soprattutto nell’ambito di Covax”, spiega Youssef Cherif, direttore del Columbia Global Center di Tunisi. La Tunisia, spesso citata come l’unica storia di successo della Primavera araba, ha bisogno più che mai dell’Europa e di alleati democratici. La pandemia sta acuendo una grave crisi del sistema istituzionale creato dopo la caduta della dittatura nel 2011: al posto del partito unico c’è un triumvirato (presidente, premier e speaker del Parlamento) ma dal 2019 queste figure, che esprimono diversi circuiti di potere, sono entrate in conflitto e manca una Corte costituzionale che dirima le dispute. L’ascesa del populismo, la perdita di popolarità dei partiti tradizionali e la loro frammentazione hanno reso impossibili le riforme necessarie per risollevare l’economia, ovvero ciò che preoccupa di più i tunisini. Proteste violente sono scoppiate in diverse città ieri, festa della Repubblica, con un assalto agli uffici del partito islamico Ennahda, la principale forza in Parlamento. Il presidente Kais Saied che aveva appena dato all’esercito la gestione della pandemia, ha licenziato ieri notte il premier, sospeso il Parlamento e annunciato che lui stesso gestirà l’esecutivo con l’assistenza del nuovo premier, in quello che Ennahda definisce un golpe. La democrazia non è scontata e va sostenuta dagli alleati. Afghanistan. Gli Usa: i taleban stanno vincendo. Il Paese precipita nel caos e nell’orrore di Francesco Palmas Avvenire, 26 luglio 2021 Non è più tempo di propaganda in Afghanistan. Anche gli alti vertici militari statunitensi ammettono che la situazione è critica. Il Pentagono ha dovuto fare una parziale retromarcia e riprendere il supporto aereo ravvicinato alle truppe di Kabul nell’area di Kandahar. Il capo di stato maggiore generale Usa, Mark Milley, è molto franco: “La dinamica strategica è favorevole agli insorti, ma l’esito finale della battaglia è ancora incerto”. E ben poco sembra essere valsa a rassicurare il presidente Ashraf Ghani la telefonata ricevuta ieri da Joe Biden. Molto più pessimistiche sono infatti le valutazioni anche dell’intelligence militare del Pentagono: “Il governo di Kabul potrebbe essere rovesciato nel giro di sei mesi”. I taleban cingono ormai d’assedio 16 delle 34 capitali provinciali. Diciotto province su 34 stanno per capitolare. Molte nel nord, un tempo roccaforte dei governativi e dell’Alleanza del nord. E ieri le autorità di Kabul hanno ordinato il coprifuoco nottuno in 31 delle 34 province. Da quando Joe Biden ha annunciato il rompete le righe, gli insorti hanno triplicato il numero di distretti ghermiti. In pochi mesi, i taleban hanno espugnato 13 dei 16 distretti provinciali di Herat, abbandonata dagli italiani. Il governo di Kabul sta tentando il tutto per tutto, presidiando la città con le truppe d’élite. Diffidandone, si è risvegliato pure il signore della guerra locale, Ismail Khan, che ha chiamato a raccolta i suoi miliziani. La situazione non è migliore a Kandahar, a Kunduz, a Jawzjan, a Laghman e a Takhar, tutte in procinto di capitolare. Nonostante le smentite del ministero della Difesa di Kabul, il 90% dei posti di frontiera con il Tagikistan, l’Uzbekistan, l’Iran e il Turkmenistan sarebbe ormai in mano ai taleban, che hanno riconquistato anche tutti i passaggi strategici con il Baluchistan pachistano. Sembra che l’”Inter service intelligence” e unità speciali dell’esercito pachistano stiano supportando l’offensiva degli insorti. Ne è convinto il primo vice-presidente afghano, Amrullah Saleh, che accusa i “commando di Islamabad di inquadrare interi reparti di prima linea dei taleban”. Quando l’aviazione afghana ha tentato di appoggiare la controffensiva dei regolari a terra, intorno al valico di Spin Boldak, l’Aeronautica pachistana ha intimato di non avvicinarsi allo spazio aereo transfrontaliero, pena l’abbattimento dei velivoli. Il Pakistan ha ripreso a manovrare dietro le quinte. Non è un caso che la Russia, preoccupata dell’instabilità alle sue marche di frontiera centroasiatiche, lo stia corteggiando nuovamente. Vi ha stretto di recente un partenariato promettente. Mosca ha una sorta di accordo di Shengen con tutti i Paesi dell’Asia Centrale. Persone e merci si muovono liberamente. Un Afghanistan instabile la esporrebbe a infiltrazioni terroristiche del Daesh e a un incremento dei traffici di droga, fluenti lungo la rotta centroasiatica. Per la Russia, si sta aprendo un nuovo fronte, dopo la guerra nel Donbass, i tumulti in Bielorussia, l’escalation fra Armenia e Azerbaigian e i torbidi in Kirghizistan. Al Cremlino sospettano che gli Usa guardino con “simpatia” ai problemi frontalieri russi, forieri di dispersione di forze e di guai. I russi sono guardinghi. Hanno mobilitato l’intelligence militare del Gru, per monitorare la situazione, mentre il distretto militare centrale sta allertando intere brigate per manovrare con uzbechi, tagichi e kirghizi, tra fine luglio e inizio settembre. L’ambasciatore Zamir Kabulov, inviato speciale del presidente Putin per l’Afghanistan, sta facendo la spola fra Kabul, l’Asia Centrale, l’ufficio politico dei taleban e i suoi contatti cinesi per delineare un quadro confacente agli interessi di Mosca. La Russia non ha i mezzi per intervenire militarmente. Ma ha due basi ai confini afghani e può far sentire il suo peso. Vuole guadagnarsi una fetta nella spartizione. Le Terre rare afghane fanno gola non solo a Mosca, ma anche a Pechino, che ha già nel Pakistan un crocevia fondamentale della Via della seta. Nei piani cinesi, un Afghanistan stabilizzato significherebbe nuovi corridoi infrastrutturali e possibilità di far fruttare le concessioni minerarie già strappate a Kabul. Per alcuni, è ormai tempo di affari, anche per la Turchia, che punta a mantenere un corpo di spedizione in Afghanistan, con reparti di force protection all’aeroporto di Kabul, a dispetto delle minacce dei taleban.