La morte di Hafedh e dei suoi compagni: quando lo Stato non tutela i detenuti di Luigi Manconi La Stampa, 25 luglio 2021 A Modena nove carcerati morirono per overdose durante la rivolta del 2020. La foto ritrae una tomba nel cimitero di Ganaceto, una frazione di 321 anime del Comune di Modena. Si vede la terra smossa che ricopre una bara tumulata di recente e delimita il perimetro di una tomba che appare improvvisata. Conficcata nella terra, un’asta non alta che porta inchiodato un cartello sul quale sono scritti un nome e alcune date. Sulla sommità di questo precario cippo, un piccolo mazzo di fiori composto da alcune margherite e da qualche dente di leone. Sotto il tumulo, le spoglie mortali di Hafedh Chouchane riposano in quello che è una sorta di cimitero musulmano, dove la comunità islamica del territorio seppellisce i propri morti. Non è dato sapere chi abbia assistito alla sepoltura e, nemmeno, se qualcuno effettivamente fosse presente. A un anno di distanza dalla morte di Hafedh, avvenuta l’8 marzo del 2020 nel carcere modenese di Sant’Anna, il suo avvocato, Luca Sebastiani, un trentatreenne di Fabriano, viene finalmente a sapere dove si trova sepolto il corpo e si reca a Ganaceto: “Su richiesta dei familiari - questo il racconto del legale - ho fatto una foto per far conoscere le condizioni della tomba. Speravo di trovare dei fiori nei pressi del cimitero, ma alcuni passanti mi hanno detto che non c’era nulla nell’arco di diversi chilometri. Così, anche per rendere la foto un po’ più decente agli occhi della famiglia, ho raccolto i fiori spontanei cresciuti lì intorno; li ho legati in qualche modo e li ho inseriti nell’asta che sorregge la targhetta con il nome. Finora non ho mostrato ad alcuno la foto, ma i suoi familiari mi hanno chiesto di renderla pubblica per esprimere così la loro sofferenza per non aver potuto partecipare al rito funebre; e per non essere riusciti a rimpatriare il corpo di Hafedh, sepolto a migliaia di chilometri da dove è nato”. Ma torniamo a quell’8 marzo. È una domenica mattina quando i carcerati apprendono che tra loro si registrano uno o più casi di contagio da coronavirus. La notizia precipita in un istituto dove, rispetto a una capienza massima di 370 posti, la popolazione reclusa conta 546 unità. E in un ambiente particolarmente fragile sotto il profilo psicologico: ogni giorno, l’infermeria prepara circa 1000 somministrazioni di ansiolitici per stati di agitazione e panico e terapie per la tossicodipendenza. In questa situazione così congestionata e suscettibile di crisi emotive, i reclusi “sono stati lasciati nelle già precarie condizioni di igiene cui erano sottoposti prima, senza l’ausilio di dispositivi medici, a condividere le celle, in assenza della messa in sicurezza per eventuale contagio” (dall’opposizione dell’avvocato Sebastiani contro l’archiviazione dell’indagine sulla morte del suo assistito). Questo mentre vengono sospesi i colloqui con i familiari e si diffonde l’inquietudine. È in tale scenario che “alle ore 13.15 circa - secondo un rapporto del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - nelle fasi di immissione dei detenuti ai cortili” si verifica un tentativo di evasione, tempestivamente contenuto dai poliziotti, utilizzando anche “autovetture e altri mezzi blindati”. Nel frattempo, un gruppo di detenuti riesce ad accedere all’area sanitaria. È qui che si trovano i medicinali, quali il metadone e altri oppioidi, utilizzati nell’assistenza ai tossicomani. Va da sé che simili farmaci costituiscono un bene estremamente prezioso e ambito, che richiede la massima attenzione nella custodia e nell’utilizzo, dal momento che il suo uso improprio può avere conseguenze letali. Ne discende la domanda: quei farmaci erano effettivamente posti al riparo da eventuali tentativi di appropriazione? Secondo la Procura, la custodia veniva garantita “in maniera irreprensibile e inappuntabile”, ma - ad avviso dell’avvocato Sebastiani - “appare di poca utilità avere una cassaforte molto difficile da scassinare se poi si nascondono le chiavi della stessa all’interno di una cassetta non sufficientemente sicura” e facilmente reperibile e apribile. E non è nemmeno certo che quelle chiavi fossero state riportate all’interno della cassetta. Fatto sta che almeno nove detenuti assumono il metadone finendo in overdose, determinando così la propria morte. Questi i loro nomi: Hafedh Chouchane, Lofti Ben Masmia, Ali Bakili, Erial Ahmadi, Slim Agrebi, Abdellah Rouan, Ghazi Hadidi, Arthur Isuzu, Salvatore Piscitelli. Noto, incidentalmente, che 4 di essi si trovavano in attesa di giudizio. E che, altrettanti, sono morti durante o dopo il trasferimento in altre carceri. Non solo: c’è un altro dato controverso che può risultare determinante. Secondo la ricostruzione della Procura e del Gip, Hafedh è stato consegnato ancora in vita da detenuti non identificati nelle mani degli agenti, nei pressi del passo carraio interno del carcere, alle ore 19.30. Benché il Comandante della Polizia penitenziaria abbia affermato che gli era stato prestato soccorso prontamente, il medico ha dichiarato di non aver potuto far altro che constatarne la morte: ma giusto 50 minuti dopo. Nonostante che il 118 si trovasse a poche decine di metri da quel passo carraio. D’altra parte, secondo le deposizioni di alcuni detenuti, Hafedh, assunto il metadone intorno alle 13,30 e collassato già un’ora dopo, veniva trasportato dai compagni là dove si trovavano gli agenti della penitenziaria: e vi sarebbe rimasto per molte ore, senza la minima assistenza. Questa ricostruzione sembra confermata dalle risultanze medico-legali, secondo le quali la presenza del metadone nei reni proverebbe che la sostanza fosse stata assunta molto tempo prima. Nonostante tutto questo, il Gip ha disposto l’archiviazione. Da qui il ricorso davanti alla Corte Europea dei Diritti Umani. Ma la questione della custodia del metadone ne contiene un’altra, ancora più rilevante. E richiama la responsabilità degli apparati dello Stato per la custodia di chi si trovi prigioniero, sottoposto a osservazione, controllo e vigilanza. La privazione della libertà incide a tal punto sull’autonomia dell’individuo da limitarne gravemente la capacità di proteggersi da sé. Tale funzione, di conseguenza, viene assunta dallo Stato. Quando questa tutela non viene garantita o si rivela inadeguata, è lo Stato (il carcere) che ne deve rispondere. L’archiviazione dell’indagine per la morte di Hafedh e dei suoi compagni significa propriamente questo: nessuno risponderà di quella strage. Il motivo è semplice e crudele: quelle morti non contano in quanto sono “leggere come piume”. Eppure, la vita di Hafedh avrebbe potuto prendere un’altra piega. Fino al 2006, vive a Mahdia, sulla costa a sud di Tunisi, con i genitori entrambi disoccupati, due fratelli pescatori e due sorelle. Poi, la decisione di raggiungere l’Italia. Come migliaia e migliaia di suoi simili lavora come bracciante agricolo nelle campagne siciliane. In seguito si trasferisce a Brescia, dove trova un’occupazione precaria nei servizi di ristorazione. Una vita in nero e un lavoro in nero. In tali condizioni, il passaggio alla micro-criminalità si propone come una tentazione cui non è facile resistere. Il mercato delle sostanze stupefacenti offre una grande quantità di “opportunità lavorative” al livello più basso. Quello che viene definito “piccolo spaccio” costituisce un sub-mercato illegale dove operano persone che vivono ai margini, in stato di semiclandestinità, dipendenti - in tutti i sensi - dalla circolazione delle droghe. Non a caso, Hafedh era tossicodipendente, seguito dal Sert e detenuto in esecuzione di due condanne definitive, che pure gli avrebbero consentito di tornare in libertà dopo appena alcune settimane da quel marzo del 2020. Non poteva accadere prima, perché Hafedh, come gran parte degli stranieri, non era in grado di beneficiare di misure alternative in quanto privo di un domicilio adeguato. Il suo domicilio era la cella: ed è qui che ha trovato la morte. E appena otto chilometri più oltre, un rilievo sul terreno che segnala la sua tomba e, se hanno resistito, alcuni denti di leone. Così il Parlamento affossa la legge per identificare i poliziotti violenti di Nello Trocchia Il Domani, 25 luglio 2021 Dopo il pestaggio di Santa Maria Capa Vetere. I disegni di legge presentate alla Camera dei deputati sono due, presentate dal deputato Riccardo Magi (+Europa) e da Giuditta Pini (Pd), ma giacciono in commissione affari costituzionale da due anni e mezzo alla camera dei Deputati. “Il casco di protezione indossato dal personale delle forze di polizia deve riportare sui due lati e sulla parte posteriore un codice alfanumerico che consenta l’identificazione dell’operatore che lo indossa”, recita l’articolo 2 della proposta di legge, firmata da Giuditta Pini, che chiede l’introduzione dei codici identificativi per le forze dell’ordine impegnate nei servizi di ordine pubblico. Le proposte sono due, presentate dal deputato Riccardo Magi (+Europa) e da Giuditta Pini (Pd), ma giacciono in commissione affari costituzionali da due anni e mezzo alla camera dei Deputati. Quando sono state presentate anche Forza italia, con il deputato Paolo Sisto, oggi sottosegretario alla giustizia con delega alle carceri, ha manifestato la profonda contrarietà a questa ipotesi. Contrarietà che si aggiunge a quella di Lega e Fratelli d’Italia. Domani ha lanciato una petizione per chiedere l’introduzione dei codici identificativi, firmata da quasi 40 mila persone, ma la ministra della Giustizia Marta Cartabia non ha mai risposto sul tema. Il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere ‘Francesco Uccella c’è stato un pestaggio di stato con circa 300 poliziotti penitenziari che, per oltre 4 ore, hanno massacrato di botte i detenuti del reparto Nilo, che ospita prevalentemente tossicodipendenti e anche una sezione destinata a chi ha problemi mentali. A fine giugno il giudice Sergio Enea ha disposto 52 misure cautelari su richiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere. Uno degli agenti non aveva fatto nulla, era assente quel giorno, è stato scarcerato pochi dopo l’esecuzione della misura. C’era stato un errore nell’identificazione. Se ci fosse stato il codice quell’errore non sarebbe stato commesso. Così come se fosse stata in vigore la legge Pini-Magi non ci sarebbero ancora decine di poliziotti penitenziari picchiatori che sono ancora da identificare. Il 6 aprile, infatti, molti agenti, appartenenti ai gruppi operativi di supporto, sono entrati nell’istituto muniti di casco rendendo complicata l’identificazione da parte dell’autorità giudiziaria. “Non c’è la volontà politica di approvarla, c’è bisogno che il Partito democratico o altri partiti la individuino come priorità e ne chiedano la calendarizzazione nella conferenza dei capigruppo”, dice Magi. È cambiato qualcosa dopo la visione dei video che descrivono le violenze contro detenuti inermi, ripetutamente picchiati, fatti inginocchiare e umiliati? La ministra Cartabia continua a ripetere che le direttrici lungo le quali muoversi sono formazione, strutture e sovraffollamento. E i partiti? Dalle destre l’opposizione è netta. “Noi siamo contrari al codice identificativo per le forze dell’ordine. Comunque se il Partito democratico volesse calendarizzare questa proposta potrebbe farlo in ogni momento”, dice Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d’Italia. Ogni forza politica ha la possibilità, in base alla consistenza numerica, di portare all’attenzione dell’aula le proposte di legge che ritiene prioritarie. Serracchiani guida il gruppo dei democratici alla camera dei Deputati. “Le dico che non lo so, non abbiamo parlato del calendario dei prossimi mesi”. Lei come capogruppo si prende un impegno su un tema così importante? “Sono il capogruppo di un gruppo, ne parlo con il gruppo”, risponde Serracchiani. Ma lei personalmente che ne pensa? “Non abbiamo preso alcuna decisione e non ho visto quella proposta di legge, non le saprei dire”. Lei è favorevole all’introduzione del codice identificativo? “Non mi faccia l’interrogatorio”. Insistiamo citando Genova 2001, Santa Maria Capua Vetere 2020. “Non abbiamo affrontato la questione, quando affronteremo la questione ne riparliamo”, conclude Serracchiani. Davide Crippa, capogruppo del M5s, è ancora più sbrigativo. Quando gli diciamo che si tratta della questione dell’introduzione del codice identificativo risponde: “No, no, mi sto occupando di altri temi. Ora sono con delle persone”. Sono lontani i tempi, anno 2014, quando il fondatore Beppe Grillo proponeva e sosteneva convintamente il codice identificativo con tanto di post sul blog. Una proposta quella di introdurre i codici identificativi che viene presentata in ogni legislatura e ha sempre lo stesso esito: nullo. Esiste, invece, nella maggior parte dei paesi dell’Unione europea, nel 2012 il parlamento europeo aveva anche esortato gli stati membri a introdurre un codice identificativo per le forze dell’ordine. Amnesty International Italia da anni ne chiede l’approvazione, da quando 20 anni fa a Genova manifestanti, giornalisti e cittadini furono massacrati di botte da agenti delle forze dell’ordine. Anche in quell’occasione vinse l’impunità. A chi obietta che la proposta mette in pericolo gli uomini e le donne che ogni giorno contrastano la criminalità organizzata la risposta è molto semplice: il codice identificativo non viene adoperato nelle operazioni contro le mafie. Il codice esiste in quasi tutta Europa, in Italia no e nessuno ha voglia di introdurlo nonostante Genova e nonostante l’orribile mattanza di Santa Maria Capua Vetere. Riforma della giustizia. Attraversare la linea d’ombra di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 25 luglio 2021 Un governo italiano ha per la prima volta, da trent’anni a questa parte, l’opportunità di sottrarsi alla tutela della magistratura in materia di politica giudiziaria. L’occasione è forse irripetibile. A causa della congiuntura generata dalla pandemia, che ha incrinato equilibri cristallizzati tra poteri e istituzioni, un governo italiano ha per la prima volta, da trent’anni a questa parte, l’opportunità di sottrarsi alla tutela della magistratura in materia di politica giudiziaria. E di attuare, o almeno di incardinare davvero, ciò che da decenni è una sorta di araba fenice del discorso pubblico: la riforma della giustizia. Si tratta di un compito immane, tante sono le stratificazioni ideologiche e le resistenze corporative. Ma ce lo assegna l’Europa, senza girarci troppo attorno, come sostanziale condizionalità per i miliardi del Recovery Plan:tra i vari obiettivi, ridurre di un quarto nei prossimi cinque anni i tempi del processo penale e, segnatamente, quelli dell’appello, gravato da una media di 850 giorni contro uno standard Ue di 104. Più volte siamo stati bacchettati dalla Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo, per la lunghezza dei dibattimenti che contraddice anche il nostro dettato costituzionale sulla durata ragionevole del processo. Al lavoro da marzo, Marta Cartabia ha ascoltato e riascoltato in via Arenula tutti i protagonisti di questo grande psicodramma collettivo (magistrati e avvocati, dotti e sapienti d’ogni ordine e grado) per mettere a punto un testo che è passato l’8 luglio in Consiglio dei ministri (con l’accordo dei grillini) e che ora dovrebbe arrivare al primo vaglio parlamentare. Inutile dire che tra le molte voci- dall’ufficio del processo alla giustizia riparativa fino ai filtri deflattivi - la vera materia di scontro del provvedimento sta nelle modifiche sulla prescrizione, gravemente menomata dalla riforma del ministro pentastellato Bonafede nel 2019. Sul punto, le componenti della maggioranza che sostiene l’esecutivo di Mario Draghi divergono vistosamente. Appena giunti a un faticoso compromesso, i falchi del Movimento Cinque Stelle, raccolti attorno all’ex premier Conte e ai suoi non troppo nascosti impulsi revanscisti, hanno provato a rimettere tutto in discussione tramite novecento e passa emendamenti che riporterebbero in alto mare la riforma, facendo saltare la tempistica europea. La ministra Cartabia è stata costretta a spiegare che “lo status quo non è un’opzione sul tavolo” (traducendo: cambiare bisogna, piaccia o meno). Ha anche dovuto specificare che i processi per mafia o terrorismo, con pena l’ergastolo, non salteranno e non saranno “soggetti a improcedibilità”, contrariamente a quanto paventato da alcuni procuratori di primo piano richiamati a dire la loro dalla Commissione giustizia della Camera, con tempistica politicamente indicativa. In Italia “sarà più conveniente delinquere”, si è spinto ad affermare uno tra i nostri più autorevoli magistrati, da anni esposto nella lotta alla ‘ndrangheta e dunque meritevole di ascolto e rispetto. È verosimile si arrivi a qualche limatura cosmetica che consenta a ciascuno di rivendicare, se non un successo, almeno una “non sconfitta” presso il proprio elettorato. Ma qui non è tanto in ballo la tagliola dei due anni sull’appello e uno sulla Cassazione, non gli allarmi sul processo per il Ponte Morandi che si vanificherebbe o sui grandi processi alle cosche che svanirebbero (la legge si applica ai reati commessi dal 2020, dunque tali timori non appaiono fondati). E neppure conta granché, ora, stabilire quanto buonsenso vi sia nell’idea di un regime transitorio che permetta di rafforzare gli uffici con le necessarie assunzioni (ventimila!) prima di andare a pieno ritmo. Per quanto alte e nobili, si tratta di tecnicalità quando in gioco c’è un principio: talmente importante da giustificare la questione di fiducia alla Camera poiché, una volta riaperta davvero la trattativa, sarebbe assai difficile richiudere il vaso di Pandora. Nessuna visione di parte può imporsi sull’interesse generale. Ed è difficile non vedere come qui l’interesse generale sia velocizzare il sistema e non perdere il treno europeo, pena la bancarotta del Paese. Questi e non altri sono i termini della questione. Dai quali discendono, sarebbe ipocrita nasconderselo, conseguenze certo assai rilevanti. La prima e la più storica delle quali sarebbe la fine della repubblica delle toghe, nata negli anni di Tangentopoli e, sia pure con assai alterne vicende nell’era berlusconiana, mai tramontata davvero nella sua capacità di influenzare la vita pubblica dell’Italia. Intendiamoci: il testo che qui è in ballo non esaurisce l’intera questione, dalla quale è impossibile espungere temi (in parte oggetto di campagna referendaria) come una vera responsabilità civile dei giudici, un’autentica separazione delle carriere, la riforma del Csm, l’obbligatorietà dell’azione penale in bilico tra nobile principio e ipocrita finzione. Ma la svolta sarebbe clamorosa, portando con sé il fardello di una grande responsabilità: perché la supplenza esercitata dalla magistratura ha quale primo colpevole proprio una politica spesso indegna della nostra Costituzione, incapace di riformarsi, e un Parlamento non di rado prigioniero dell’irrilevanza; le procure ipertrofiche hanno semplicemente occupato uno spazio lasciato vuoto da partiti screditati, leader senza onore, uomini pubblici a libro paga di interessi particolari. Siamo dunque di fronte a un cambiamento auspicabile e temibile al tempo stesso, al passaggio di una linea d’ombra del quale la nostra politica deve infine mostrarsi meritevole, senza più un tutore togato da invocare quale garanzia di rispettabilità nelle urne, salvo scagliarlo contro gli avversari o dolersi a posteriori della sua invadenza. È tempo di diventare adulti. Che un premier non politico divenga poi il mallevadore del tanto vagheggiato primato della politica potrebbe configurarsi come uno di quei fortunati paradossi di un Paese sempre capace di salvarsi a un passo dal burrone. Riforma della giustizia, le condizioni di Conte: via i reati di mafia o fiducia a rischio di Liana Milella La Repubblica, 25 luglio 2021 Il leader dei 5 Stelle hafatto avere a Cartabiale sue contro-proposte. Dal Pd, Letta fiducioso: importante che si voti prima della pausa estiva. La mafia è lo spartiacque di Giuseppe Conte sulla riforma della giustizia. “O tutti i reati di mafia vedono arrivare la fine del processo oppure anche la fiducia sulla riforma della giustizia diventa a rischio” è il ragionamento dell’ex premier e ora presidente di M5S. Prendere o lasciare, perché sulla mafia non si scherza. E non è neppure lontanamente pensabile che un processo per una estorsione di mafia possa finire nel baratro dei processi improcedibili. Quelli che non vedono la fine. Che si chiudono senza una sentenza. Lasciando, quindi, il mafioso libero di tornare a vessare un povero commerciante. Neppure immaginabile la reazione che un fatto del genere provocherebbe in un paese di mafia dove un commerciante rischia la vita per dire no all’esattore del pizzo. Sarebbe il segnale di uno Stato debole. Che lascia i cittadini in balia di Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra. Inaccettabile per M5S. Per seguire il ragionamento che Conte fa con i suoi, “nessun processo di mafia deve finire nel nulla”. In un sabato in cui solo apparentemente la trattativa sulla riforma della giustizia sembra ferma, in realtà si muove un tassello determinante nel confronto tra M5S e palazzo Chigi. Perché Conte mette un paletto dal quale, per dirla sinteticamente, “non si torna più indietro”. Perché, appunto, nell’Italia delle stragi di mafia, nell’Italia dove sono morti per mano della mafia giudici come Falcone e Borsellino, non è pensabile che un solo reato di mafia vada in fumo. Né i parlamentari di M5S possono accettarlo. Conte riflette con i suoi e nello stesso tempo tranquillizza chi, dentro M5S, è preoccupato. M5S non potrà chiudere un occhio sulla mafia, né potrà accettare che un solo reato di mafia, quindi non solo gli omicidi che già sono imprescrittibili e improcedibili, ma anche tutti gli altri, non veda alla fine una sentenza. Sul tavolo del premier Mario Draghi - che dopo il Consiglio dei ministri di giovedì sera aveva pronunciato parole secche sulla fiducia - Conte mette una condizione imprescindibile per lui e per tutto M5S: inserire tutti i reati di mafia nella lista di quelli che devono vedere la fine del processo. Altrimenti, è il messaggio politico di Conte, “anche la fiducia diventa a rischio”. Una fiducia sul cui esito non ha dubbi il segretario del Pd Enrico Letta, “fiducioso sul fatto che il voto troverà una maggioranza unita”. Ma l’importante, dice ancora Letta, è che “un voto prima della pausa estiva approvi la riforma”. I giochi si faranno a partire da lunedì, con i 1.631 emendamenti ancora intonsi sul tavolo della commissione Giustizia presieduta da Mario Perantoni di M5S dove incombe pure la richiesta del forzista Pierantonio Zanettin di cambiare l’abuso d’ufficio e di riaprire il “perimetro” della legge. Ma l’esito stesso della commissione dipende dalle interlocuzioni tra Draghi, Cartabia e Conte. Se sui reati di mafia si trova un’intesa, anche i 931 emendamenti di M5S potrebbe ridursi drasticamente. L’appello di Cartabia: cari avvocati, aiutatemi a riformare questa giustizia disastrata di Simona Musco Il Dubbio, 25 luglio 2021 Il discorso della ministra alla sessione ulteriore del XXXIV Congresso nazionale forense: “C’è un diritto, sopra tutti gli altri, per il quale l’Italia è stata vergognosamente condannata 1202 volte per la sua violazione ed è quello alla ragionevole durata del processo. La Cedu ci ha condannati per un numero doppio al secondo in classifica che è la Turchia”. “Una giustizia troppo lenta e incerta è un debole baluardo nella prevenzione della corruzione. C’è un diritto, sopra tutti gli altri, per il quale l’Italia è stata vergognosamente condannata 1202 volte per la sua violazione ed è quello alla ragionevole durata del processo. La Cedu ci ha condannati per un numero doppio al secondo in classifica che è la Turchia, che ha avuto 608 condanne. Possiamo noi permetterci questo triste primato?”. La ministra della Giustizia Marta Cartabia manda un messaggio chiaro e preciso ai detrattori della riforma. A chi, in questi giorni, rimpiange il blocco della prescrizione voluto dal suo predecessore, Alfonso Bonafede, tema che più di ogni altro ha fatto fibrillare l’esecutivo. E lo fa chiedendo la collaborazione dell’avvocatura riunita a congresso, della quale riconosce “l’importanza” nel corretto funzionamento della giustizia e anche nella sua riforma. Quello della Guardasigilli è un discorso appassionato. Un discorso con il quale difende il disegno di legge che a breve arriverà in aula e ricorda di aver messo mano ad una situazione frutto di decenni di “distrazione”, un passato paragonato ad un cassetto vecchio nel quale tocca mettere ordine. “Sappiamo che fare disturba, suscita dibattito - ha evidenziato -. Ma non ci tiriamo indietro da questo ingrato compito di mettere mano alla giustizia sotto tutti gli aspetti”. L’ingrato compito è anche mettere tutti d’accordo. Compito difficile, se non impossibile, ma che non può essere affrontato “con uno sguardo unilaterale”. La prima parte del tentativo consiste nel toccare con mano i problemi e, quindi, visitare le carceri e le Corti d’Appello, vedere in prima persona fin dove arriva il degrado della giustizia. E partire da lì per trovare soluzioni condivisibili da tutti. “La pandemia ha inserito una frattura storica - ha spiegato la ministra -, i problemi sono atavici. Abbiamo aperto questo cassetto e abbiamo trovato problemi gravissimi sull’edilizia, grande difficoltà nell’ammodernamento e nella digitalizzazione, gravissime carenze di tutto il personale, magistrati, funzionari amministrativi, cancellieri, tecnici. Oggi si parla tantissimo della giustizia e molte voci critiche si sono liberate in tutte le direzioni. Le ascoltiamo tutte, ma perché si sono liberate adesso? Forse perché abbiamo aperto quel cassetto e abbiamo tirato fuori tutti quegli oggetti vecchi che in questo momento creano disordine, ma che ci auspichiamo possano diventare un nuovo inizio. Siamo su un crinale, verso un’eredità che abbiamo trovato faticosa, gravemente carente, gravemente inaccettabile sotto vari profili. Stiamo lavorando per il riordino, ma non si può fare dalla sera alla mattina”. Cartabia ha assicurato attenzione sulla digitalizzazione e, dunque, una risoluzione di quei problemi che bloccano periodicamente il processo telematico. E lo stesso vale per le risorse umane che scontano “un depauperamento inaccettabile”. La soluzione è stata rimettere in moto i concorsi e uno nuovo verrà bandito a settembre. Perché l’ufficio del processo è sì un supporto, “ma non potrà mai sostituire l’attività del giudice”. Di roba da riordinare ce n’è tanta, dunque. Ma per la prima volta, ha sottolineato Cartabia, ci sono dei fondi, dopo troppi anni in cui si è pensato che la giustizia fosse un servizio a costo zero. “Non può esserlo”, ha ribadito la ministra, che ha ricordato come “un Paese e una democrazia moderni non possono funzionare senza una giustizia che funziona”. In Europa l’Italia è un osservato speciale ed insieme alla frammentazione burocratica, la lentezza della giustizia è un fattore che scoraggia gli investimenti. “Una giustizia che non funziona è un fattore di depressione per l’economia”, ha evidenziato. Al centro del dibattito pubblico ora c’è, di certo, il processo penale. E Cartabia ha voluto ricordare la centralità della dignità, raccontando la storia di un docente dell’Università Federico II, assolto definitivamente dopo un processo per corruzione durato 20 anni. “Quel docente si era rivolto al rettore chiedendo di poter, almeno per una volta, fare lezione davanti ai suoi studenti - ha raccontato -. Cosa voleva dire quel gesto? Era il desiderio di recuperare una reputazione, una dignità. È vero che il nostro ordinamento prevede un ristoro per l’eccessiva durata del processo. Ma di fronte a questo cosa può valere il ristoro economico? Per quel professore, per le migliaia di imputati che subiscono queste lungaggini bisogna che agiamo e ci mettiamo in condizione di non arrivare a queste patologie”. La riforma è stata oggetto di richiesta di un voto di fiducia, ma ciò non esclude aggiustamenti tecnici sui punti che hanno destato maggiore preoccupazione, ha assicurato. “Non smetto di ascoltare, non smetto di seguire e vagliare attentamente tutte le ragioni esposte”, ha chiarito Cartabia. E lo stesso vale per il processo civile, dove i problemi di durata sono ancora più accentuati. L’obiettivo, in cinque anni, è di abbattere del 40% i tempi. “So che ci sono alcune preoccupazioni che mi sono state ribadite - ha sottolineato la ministra. Non posso non rinnovare a ciascuno dei 240mila avvocati italiani l’invito di farsi carico con me della responsabilità di provare ad arrivare a quella meta. Non mi sottraggo alle mie responsabilità, sono dure, ma ho bisogno di ciascuno di voi e non posso farcela portando da sola un’ipotesi che deve affrontare questi problemi che derivano da decenni di disattenzione”. Due sono le fondamentali preoccupazioni: una riguarda le sanzioni per le cosiddette cause temerarie, rispetto alle quali Cartabia ha parlato di “equivoco”, in quanto la norma sarebbe stata introdotta per limitare la discrezionalità del giudice rispetto ad una norma “che già esisteva, ma sono pronta a toglierla”. Più delicata, invece, la questione delle fasi introduttive: “Abbiamo chiesto di concentrare nella prima udienza il grosso dell’attività processuale anticipando le preclusioni per le richieste istruttorie delle parti. So che questo richiede uno sforzo enorme agli avvocati, ma anche al giudice, che dovendo arrivare a una prima udienza preparato non può semplicemente utilizzare quell’occasione per disporre quei rinvii che poi magari vanno al 2023. Perciò guardate a quella proposta anche come aspetto benefico che può avere un effetto sollecitatorio nei confronti del giudice”, ha sottolineato. “Nessuno vuole comprimere e tantomeno elidere i diritti dei cittadini - ha aggiunto -. Io ho una formazione da costituzionalista e sono naturalmente incline a un’attenzione alle garanzie. Quello che vi viene proposto è non di cancellare i diritti delle parti e i diritti di difesa, ma di esercitarli in un modo diverso, in cui la prima parte del giudizio sia una parte significativa e non sia una fase dilatoria”. Ma le criticità possono essere risolte e “c’è uno spazio di lavoro” che consentirà di valutare anche le proposte dell’avvocatura, ha assicurato. “Sapete di avere al ministero non soltanto qualcuno che vi ascolta - ha concluso - ma anche qualcuno che stima e tiene in altissima considerazione l’apporto che l’avvocatura dà al buon funzionamento della giustizia, alleati comuni per quell’obiettivo comune che tutti vogliamo raggiungere”. Una chiosa che conta anche il lapsus di aver confuso l’avvocatura con la magistratura, sintomo, forse, del pressing al quale le toghe hanno sottoposto la Guardasigilli nelle ultime settimane. Non scherziamo con la prescrizione di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 25 luglio 2021 La prescrizione dei reati è divenuta terreno di discussione in ambito politico, non solo per la fase in cui si trova la relativa riforma (Parlamento, dopo la deliberazione del Consiglio dei ministri), ma anche per i facili e contrapposti slogan che permettono all’una e all’altra forza politica di sventolare bandierine identitarie. Il livello del dibattito, quando semplicemente non è adeguato alla serietà del tema, è ora offeso dal prevalere di considerazioni puramente politiche sui tempi e modi di risoluzione del garbuglio in cui il governo si è cacciato. Il governo e la sua eterogenea maggioranza -anche profondamente, ma senza averne la parvenza- stanno cercando di modificare gli effetti della legge che va sotto il nome del ministro Bonafede (di eliminazione della prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado). All’esito dei lavori della Commissione ministeriale Lattanzi, la soluzione adottata e portata in Consiglio dei ministri, come base di successivi affrettati interventi per consentire ai ministri 5Stelle di approvarla, consiste nell’aggiungere al decorso dei termini di prescrizione del reato, una specie di prescrizione del processo che conduce alla improcedibilità se il processo non si conclude entro due anni in appello e poi un anno in Cassazione. Quei termini sono allungati per certi reati (come la corruzione), ma definiti in astratto, senza considerazione della maggiore o minore gravità del fatto in concreto e della complessità dei processi che, caso per caso, li riguardano. Basta pensare a un processo per corruzione, che può vedere imputato chi è stato fotografato o sorpreso con la mazzetta in mano oppure un altro con uno o più imputati in una articolata vicenda di passaggi di denaro all’estero con difficili perizie finanziarie e necessità di collaborazione di stati esteri. E il giudizio della Corte europea dei diritti umani cui si pretende di richiamarsi, conformemente a ciò che suggerisce il buon senso, segue certo qualche automatismo nel definire i tempi ragionevoli, ma considera sempre le circostanze (complessità, interessi in gioco, ecc.) che rendono possibili tempi più brevi o giustificano tempi più lunghi. In più il meccanismo adottato assegna un’importanza determinante all’operare delle Corti di appello, diverse delle quali sono ora ben lontane dal livello di efficienza richiesto per rimanere nei termini che la legge dovrebbe fissare. La conseguenza è che un imputato condannato in primo grado potrebbe facilmente vedere vanificata la sua sentenza con una sopravvenuta improcedibilità in appello, che lascerebbe senza risposta la domanda sulla innocenza o colpevolezza. E così un imputato assolto in primo grado con una sentenza appellata dal pubblico ministero. Se nei due anni non sopravvenisse la sentenza della Corte d’appello, la sentenza di assoluzione cadrebbe nel nulla della improcedibilità che colpirebbe il processo (anche se si prevede che l’imputato possa rinunciare allo scattare della improcedibilità). Il tutto mentre il reato in sé non è prescritto. Non prescritto, ma non giudicabile! Le conseguenze negative sono facilmente immaginabili sulla posizione dell’imputato e su quella delle parti offese: queste ultime costrette a sopportare una loro nuova corvée giudiziaria per ottenere soddisfazione. La massa di processi che, particolarmente nelle Corti di appello, costituiscono l’enorme arretrato che connota la realtà italiana (rendendo improponibili esempi di legislazioni che operano in paesi che conoscono una ordinaria, sollecita giustizia), con il nuovo sistema proposto dal governo ancor più di ciò che già avviene, renderebbe inevitabile la scelta di quali processi trattare nei due anni e quali gettare nella improcedibilità. Gravissimo impegno e potere rimesso in capo ai presidenti delle Corti (o della loro cancelleria), con buona pace degli idolatri della obbligatorietà della azione penale e della indipendenza della magistratura, anche qui impropriamente richiamate. L’esigenza di ragionevole durata dei processi fissata dalla Convenzione europea dei diritti umani e dalla norma costituzionale che ne è derivata, stabilisce il corrispondente diritto per le parti processuali. Si ignora però che quel diritto, una volta iniziato il processo, richiede, in tempi ragionevoli e non standardizzabili di anni fissi, una decisione nel merito, non una cessazione del processo per incapacità dello stato di concluderlo. È così prevedibile che con gli effetti della riforma l’Italia riporterà condanne da parte della Corte europea dei diritti umani, non più per la durata dei processi, ma per la loro non conclusione con una decisione nel merito. E così avverrà in sede di Unione Europea: essa lamenta che le prescrizioni di reati riguardanti i suoi interessi finanziari rendono inefficace la necessaria repressione delle violazioni delle norme europee. La denunzia delle carenze italiane si trasferirà immediatamente sugli effetti della nuova normativa. Non più per le troppe prescrizioni, ma per le troppe improcedibilità. Perché ovviamente il problema è la lentezza dei processi: le prescrizioni ne sono la conseguenza. La Commissione Lattanzi aveva sì articolato l’ipotesi su cui le forze politiche si sono poi confrontate, ma aveva preferito una soluzione diversa, coerente con le categorie tradizionali italiane che qualificano l’istituto della prescrizione. Essa prevedeva rilevanti modifiche alla disciplina della prescrizione, tali da privilegiare nei tempi la trattazione in appello dei processi per reati prossimi alla prescrizione (così impedendola) e sollecitare la conclusione nel merito anche degli altri, nei termini previsti come ragionevoli. Il tutto considerando le diversità operative derivanti dal diverso carico delle corti. Ma tale proposta è stata subito abbandonata. Il terreno del lavorio politico è stato cercato altrove. Ora si dice che sono possibili ulteriori “aggiustamenti tecnici”. Ma poi -senza perder tempo- si va alla decisione. Peccato. Sarebbe ancora possibile una sana resipiscenza. L’altra soluzione, che la Commissione Lattanzi aveva proposto, è ancora sul tavolo, con la forza della sua serietà. Giuseppe Santalucia: “I magistrati difendono la giustizia. Legittimo criticare la prescrizione” di Francesco Grignetti La Stampa, 25 luglio 2021 Il presidente dell’Anm: serve una norma transitoria per smaltire l’arretrato. I magistrati italiani sono davvero in allarme. La riforma Cartabia nella parte della prescrizione processuale, ora chiamata “improcedibilità”, non li convince perché la trovano poco aderente alla realtà degli uffici giudiziari. Temono che porterà a una ecatombe di procedimenti se non faranno i necessari correttivi. E Giuseppe Santalucia, il presidente dell’associazione nazionale magistrati, pur con toni dialoganti, non fa sconti: “Se resta così come è, non è una previsione ragionevole né sostenibile”. Perché il timore dei magistrati è che un gran numero di procedimenti finirà nel nulla. E in loro prevale il pessimismo di chi vede nella giustizia una macchina ancora in forte difficoltà, non l’ottimismo di chi immagina una ripartenza a razzo nonostante la coda della pandemia. Santalucia, partiamo dall’accusa politica che vi fanno: non volete le riforme per partito preso. Dice anzi Luciano Violante che l’ondata dei vostri no “rischia di aggravare la crisi di legittimazione della magistratura”. Che cosa risponde? “In questo caso più che mai, noi abbiamo detto che la magistratura auspica le riforme e che non siamo certo contro la velocizzazione dei processi. Ci mancherebbe. Però non possiamo non vedere che la riforma del governo, intendo la parte sulla improcedibilità, non è realistica. Non tiene conto della cruda realtà dei nostri uffici giudiziari. Non basta scrivere sulla carta che i processi di appello vanno celebrati entro due anni. Non ci si può riuscire se le principali corti d’appello d’Italia sono sommerse di arretrato e largamente in ritardo su questa tabella di marcia”. Tutto sbagliato, allora? “No, non tutto. Ma ci rammarichiamo che alcune buone idee della commissione Lattanzi siano rimaste nel cassetto. Sempre per restare al processo d’appello, aveva un senso l’idea di cambiarlo. Per dirla semplicemente, si pensava di passare da una critica libera (come è) a una critica vincolata, ovvero il ricorrente avrebbe potuto dolersi per un catalogo di vizi predeterminato dalla legge, e i giudici dell’appello si sarebbero limitati a esaminare quelli. Invece il processo d’appello spesso è una ripetizione tendenzialmente completa del primo grado. Ma così non se ne esce. Perché le corti di appello, come sono strutturate in Italia, rappresentano una inevitabile strozzatura. Si pensi che a fronte di 140 tribunali, le corti di appello sono 26. Immaginatele come corsie di un’autostrada: c’è molto traffico; ovviamente, al restringimento si forma la coda”. Lei conosce bene l’obiezione. Con quel tipo di processo di appello, si ledono i diritti della difesa... “Non era così per l’illustre commissione Lattanzi. Non lo è per me. Visto che il primo grado è totalmente libero, nessun diritto viene leso se l’appello non è la sua replica”. Dice il governo: le cose comunque cambieranno perché stiamo per investire i miliardi Ue. Arriveranno strutture, personale, computer... “Ne siamo lieti. Finalmente una riforma che non è a costo zero. Sono decenni che la giustizia è considerata una cenerentola. È per colpa dei tagli se ci sono vuoti paurosi nell’organico. Si pensi che per vent’anni, fino alla stagione dell’ex ministro Andrea Orlando, non si era più assunto un cancelliere. Ma c’è un ma. Tutti questi investimenti sono annunciati, non realizzati”. Infatti un’ipotesi a cui si lavora è una norma transitoria, per dare tempo alla macchina della giustizia di ripartire grazie a questi massicci investimenti; e solo dopo qualche anno far scattare le tagliole del processo a tempo. Vi convince? “Una norma transitoria del genere è assolutamente indispensabile. Il governo si prenda due, tre, anche quattro anni per fare tutto quello che si deve per velocizzare il sistema, sapendo che questa scommessa di accelerare i tempi non può essere vinta domani mattina. E a quel punto, dati statistici alla mano, con saggezza, si decida sul tempo da concedere alle fasi del processo. Al momento, il paradosso è che i rinforzi arriveranno più in là, però la tagliola sui tempi sarebbe immediatamente esecutiva. Va quantomeno rovesciata la scansione”. Altro tema di trattativa nella maggioranza, l’elenco dei reati da tutelare più di altri. I grillini puntano ai cosiddetti reati di mafia... “Guardi, sono più che perplesso quando si procede per elenchi. Innanzitutto c’è il rischio di perdere di vista qualche reato grave. Non si riesce mai a fare una lista esaustiva, salvo metterceli tutti, ma non può essere il caso. E poi va considerato che nei reati di mafia, in genere l’imputato è anche detenuto. E quindi già è prevista una priorità di trattazione. Con la logica della lista, se permane la strozzatura di cui parlavamo, finirà che ci saranno reati di serie A che saranno portati a sentenza, e tantissimi reati di serie B che inevitabilmente finiranno in coda e saranno destinati a morire. Reati comunque seri, con parti civili che attendono giustizia, e che hanno richiesto soldi e fatica dello Stato, prima dagli organi investigativi, poi dai giudici. Basterà un giorno di ritardo, e quel processo si estinguerà. Non mi pare proprio una soluzione ragionevole”. In conclusione, lei non è contrario al principio che il processo abbia un tempo determinato... “Il principio va benissimo, ma nella concreta attuazione deve essere sostenibile. Nessuno può pensare, credo, che la magistratura non voglia tempi certi e aggiungo veloci per il processo. Ma devono essere ragionevoli. E chiunque si rende conto che con questa proposta del governo, ciò non è e non sarà. La Cassazione stessa, che sulla carta è in linea con i tempi prefigurati dal governo, si trova ora in affanno per il Covid. È andata in sofferenza. E ora deve recuperare. Ma qualche ritardo ci sarà per forza. E allora, può succedere sempre qualcosa, una qualsiasi evenienza, e se in Cassazione si sfora di una settimana accadrà che si perderanno due gradi di giudizio”. La vostra proposta? “Al termine di una congrua fase transitoria, concedere termini più ampi, oppure affidare al giudice la decisione”. Cascini: “Con la riforma della giustizia salta la metà dei processi. Il Csm deve poter valutare” di Liana Milella La Repubblica, 25 luglio 2021 L’ex pm di Mafia Capitale: Un paradosso se il governo dovesse porre la fiducia in Aula sulle nuove norme senza prima ascoltare noi”. Che succede al Csm consigliere Giuseppe Cascini? Lei è della sinistra di Area. Siete contro la legge Cartabia? “Il Csm ha formulato alcuni rilievi sul nuovo istituto dell’improcedibilità per le gravi conseguenze sulla funzionalità del sistema giudiziario che potrebbe derivare dall’approvazione di queste norme”. Però Mattarella ha fermato il vostro parere critico… “Il presidente non ha fatto questo, ma ha chiesto al Csm di fare un parere sull’intera riforma e non solo sull’improcedibilità”. La ministra Cartabia l’aveva chiesto su tutto, perché la riforma è complessa... “In verità la richiesta della ministra è pervenuta dopo il voto sul parere dato dalla sesta commissione. Trattandosi di un segnale importante di attenzione e di ascolto del Consiglio riteniamo giusto aderire all’invito del presidente ad estendere il parere all’intera riforma. Mi auguro però che questo segnale di attenzione non venga contraddetto dai passi successivi del governo”. In che senso? “Se, come si legge, il governo dovesse porre la questione di fiducia sul testo prima di consentire al Csm di esprimere il suo parere, l’effetto paradossale di questo segnale di attenzione sarebbe quello di sottrarre alla conoscenza del Parlamento e dell’opinione pubblica il contenuto del parere sull’improcedibilità che la commissione ha già elaborato”. Senta, parliamoci chiaro, lei sta dicendo che c’è il rischio che il Csm non approvi il parere prima che ci sia il voto alla Camera? “Se si chiede al Csm un parere su una riforma articolata e complessa il giorno 22 luglio si deve poi consentire allo stesso Csm di fornire il suo contributo. La questione di fiducia posta il 30 luglio renderebbe impossibile farlo”. A via Arenula dicono che non si può giudicare solo l’improcedibilità senza considerare tutti gli altri interventi... “Le preoccupazioni finora espresse dal Csm sull’improcedibilità tengono conto di tutte le altre innovazioni contenute nella proposta”. Ammetterà che il presidente della sesta commissione Gigliotti è un laico di M5S, e che a favore siete stati voi di Area e Ardita che la pensa come Di Matteo, mentre il laico di Fi e la Micciché di Mi si sono astenuti. Forse era il parere solo di una parte? “Non credo sia così. In realtà il giudizio critico è ampiamente condiviso e prescinde dagli schieramenti. Mi pare che le differenze in commissione siano state su questioni di dettaglio”. Lei la pensa come chi - Di Matteo, Gratteri, Cafiero - prevede la catastrofe dei processi? “Io non amo i toni da battaglia. Ma sono convinto che il Consiglio abbia il dovere di dire con chiarezza quali saranno le conseguenze di queste norme sui processi”. E quali saranno? “È un fatto matematico. Se oggi nella maggior parte delle corti di Appello italiane i processi durano in media più di due anni, se il tempo per trasmettere gli atti in Cassazione oscilla tra i sei i e gli otto mesi, è evidente che la metà dei processi pendenti rischierebbe di finire in fumo”. Insomma, saremmo di nuovo al processo breve di Berlusconi? Però il paragone non regge, perché Cartabia non è l’ex premier, e non fa leggi per i suoi processi... “Guardi, io non ho mai giudicato le persone e le loro intenzioni, e mi limito a valutare i provvedimenti adottati. L’Italia è l’unico paese al mondo in cui il processo penale non ha solo due alternative, l’assoluzione o la condanna dell’imputato, ma anche una terza via, la morte per prescrizione. Questo istituto, comunque lo si voglia chiamare, ha effetti nefasti sul sistema. Nessun imputato ha interesse a ricorrere ai riti alternativi se può puntare alla prescrizione. E tutti gli imputati avranno interesse a fare Appello per cercare di guadagnare l’improcedibilità. Questo tipo di riforme producono l’effetto contrario rispetto a quello dichiarato”. Però Cartabia non ha fatto che ripetere che nella sua riforma c’è una visione diversa del processo. Innanzitutto più controllo del gip sul pm e un imputato che ha di fronte vie diverse dai tre gradi di giudizio. “Molte proposte della riforma vanno nella giusta direzione. Alcune presentano problemi seri, ma dev’essere chiaro che nella situazione data anche con quelle modifiche il processo penale oggi non è in grado di garantire quei tempi. Se migliaia di processi vanno al macero ogni discussione diventa oziosa”. Lei avrebbe un “lodo” da proporre al governo? “Di soluzioni ragionevoli ed equilibrate sulla prescrizione ce ne sono molte, dalla legge Orlando alle proposte della commissione Lattanzi. Ma dev’essere chiaro che cambiare le norme della prescrizione non serve per accorciare i processi”. Però questi processi vanno in prescrizione anche oggi, addirittura il 65% in fase di indagini preliminari. E poi c’è l’arretrato mostruoso di alcune corti di Appello... “La prescrizione è una grave patologia del sistema che dipende dal numero abnorme di affari penali che gravano sugli uffici. Tagliare i tempi di prescrizione o inserirne di nuovi a livello processuale non cura la malattia ma aggrava le conseguenze per il malato e ne accelera il decesso. Servono depenalizzazione, pene alternative, riduzione dell’Appello e del ricorso in Cassazione, investimenti sul personale e sulla innovazione. Sono queste le cose di cui la giustizia ha bisogno”. Un Paese a mano armata. Chi strumentalizza la paura di Gianluca Di Feo La Repubblica, 25 luglio 2021 Mio padre aveva sempre la pistola. Quando uscivamo di sera, infilava nei pantaloni una Beretta 22 come quella di Massimo Adriatici: “leggera e precisa”, la definiva. Ma ogni volta che notava i miei occhi di bambino osservare quella semiautomatica, mi ripeteva: “Non possedere mai un’arma. C’è sempre un momento estremo in cui puoi venire accecato dall’ira o dal dolore e perdere il controllo. Basta un attimo. Se premi il grilletto, rovini due vite: quella di chi colpisci e la tua”. Mio padre aveva sempre la pistola perché era un ufficiale dei carabinieri. E quelli erano gli Anni di Piombo, quando nelle strade d’Italia i conflitti a fuoco non erano un’eccezione. Oggi le statistiche riconoscono al nostro Paese un numero di omicidi tra i più bassi d’Europa e anche le rapine sono in calo costante. Eppure c’è chi ritiene che sia giusto girare per i bar con il colpo in canna, come faceva l’assessore leghista di Voghera. O che sia normale che un pediatra abbia un revolver alla cintura, come sostiene Luca Bernardo, il candidato sindaco del centrodestra a Milano. Non è un caso. Da anni la Lega ha impugnato una cultura delle armi estranea alla nostra tradizione, facendone strumento di campagna politica. Nei governi dell’era berlusconiana ha spinto per una militarizzazione dell’ordine pubblico, arrivando a dotare i vigili urbani di mitra e riot gun come se i borghi padani si fossero trasformati nei sobborghi più spietati di Detroit. Poi, con Giuseppe Conte premier e con il sostegno dei 5Stelle, ha allargato a dismisura i confini della legittima difesa, consentendo così l’uso di pistole e doppiette anche soltanto in presenza di “grave turbamento”. Quella legge 36 del 2019 è stata un colpo a bruciapelo sui principi della nostra civiltà giuridica, che aveva sempre delegato ai corpi di polizia l’uso della forza e imposto una proporzionalità tra reazione e minaccia. Ora non più. Adesso il principio è: “Mi hai spaventato? Allora posso spararti”. Un’equazione, questa sì, terrificante. La stessa sostenuta davanti al giudice dalla difesa dell’assessore Adriatici. Dopo il 2019 è arrivato il Covid. E la pandemia non ci ha reso migliori: la paura è entrata ancora più in profondità nella nostra psiche. Molti nell’angoscia per l’isolamento e nell’incertezza sul futuro hanno risposto comprando una pistola. Maria Novella De Luca ha descritto su queste pagine come nel 2020 le autorizzazioni di porto d’armi siano aumentate del 10 per cento. Già nei tre anni precedenti altre 400 mila persone avevano preso la licenza di tiro sportivo, che consente di tenere dentro casa Beretta, Glock, Smith & Wesson e persino fucili d’assalto all’americana, seppure a colpo singolo. Questa reazione di massa è asimmetrica rispetto alla realtà. È vero: esiste un senso di insicurezza crescente in città e campagne, che non nasce però da aggressioni pistolere o banditi col kalashnikov. Gli italiani sono spaventati per furti e scippi, per le piazze lasciate affondare nel degrado (fate un giro di notte intorno alla Stazione Termini), per le periferie abbandonate a se stesse e per le villette di provincia bersagliate dai ladri. Guasti sociali e reati quasi mai a mano armata, che non si risolvono ostentando un mitra. Ma lo sfruttamento della paura è sempre stato una prerogativa della Lega, che ha saputo ingigantirla e cavalcarla, presentando la pistola come la grande panacea. Mentre le derive securitarie delle vecchie destre portavano a invocare “legge e ordine”, quella salviniana è populista e predica la giustizia fai da te, usando come testimonial sindaci e assessori con la pistola: assurgono al ruolo di sceriffi - come loro, quelli del West erano eletti dalla cittadinanza - pronti a intervenire dove le istituzioni non arrivano, dimenticando di essere loro stessi parte delle istituzioni. Come altro definire le ronde notturne di Massimo Adriatici nelle piazze di Voghera? Missioni personali di uno che il gip ha definito pericoloso per “l’attitudine a porre in essere reazioni sovradimensionate nel caso in cui si trovi in situazione di criticità”. Parole che sembrano il ritratto di un pericolo pubblico, col proiettile in canna e il grilletto leggero. Il suo avvocato, Gabriele Pipicelli, sostiene che sia in corso una “vergognosa strumentalizzazione politica di una disgrazia”. Dimentica che da anni è la Lega a strumentalizzare il tema della legittima difesa, dimentica gli interventi ossessivi di Salvini su questo argomento. E non comprende che l’uccisione di Youns El Boussettaoui è una questione politica, che deve fare aprire gli occhi a tutti sulla barbarie che stiamo accettando. Che deve spingere il Parlamento a discutere e smuovere tutte le forze democratiche a mobilitarsi per abrogare la legge 36/2019 salviniana. Anche a costo di un referendum, che chieda agli italiani se vogliono o meno un Paese a mano armata. Le maglie larghe dell’ordinamento sul porto d’armi di Giulia Merlo Il Domani, 25 luglio 2021 Le regole per ottenere il permesso sono vaghe e non vietano di girare con armi cariche. Attualmente in Italia esistono tre tipi di licenze per possedere armi: la licenza di porto d’arma lunga per tiro al volo; la licenza di porto di fucile per la caccia e la licenza di porto d’armi per difesa personale. Quest’ultima licenza dà diritto, a differenza delle due che permettono il “trasporto”, anche a portare con sè ovunque l’arma anche carica, visto il silenzio della norma che non specifica come debba essere detenuta la pistola. La sparatoria avvenuta a Voghera, durante la quale l’assessore leghista Massimo Adriatici ha ucciso - “per errore” secondo i primi rilievi - il trentanovenne marocchino Youns El Boussetai, solleva dubbi sulle regole per la detenzione di armi da fuoco. Adriatici, infatti, girava per il centro della cittadina con una pistola carica nella fondina, che impugnava ed era armata nel momento in cui il colpo è partito accidentalmente. Attualmente in Italia esistono tre tipi di licenze per possedere armi: la licenza di porto d’arma lunga per tiro al volo (utilizzata per lo sport come il tiro al piattello); la licenza di porto di fucile per la caccia e la licenza di porto d’armi per difesa personale. Secondo i dati Censis 2017, in Italia ci sono un milione e 400 mila licenze (cresciute del 20 per cento rispetto al 2014), il 94 per cento delle quali è per caccia e sport. I possessori di licenza per difesa personale, quindi, sono circa 85 mila persone. Le prime due licenze sono valide per cinque anni e danno il diritto, oltre che a possedere armi, anche di trasportarle fino a luogo di utilizzo, smontate e non cariche. Munizioni e armi, tuttavia, devono essere registrate e dichiarate. Adriatici invece ha il terzo tipo di licenza, quella di porto d’armi per difesa personale. Si tratta di quella più difficile da ottenere ed è normata - anche se in modo piuttosto generico - dall’articolo 42 del testo unico della legge di pubblica sicurezza del 1931. Questa licenza dà diritto, a differenza delle due che permettono il “trasporto”, anche a portare con sè ovunque l’arma anche carica, visto il silenzio della norma che non specifica come debba essere detenuta la pistola. L’unica previsione riguarda i luoghi dove anche chi ha il porto d’armi non può andare armato: mezzi pubblici, manifestazioni e seggi elettorali. Anche in questo caso la licenza dura cinque anni, ma va rinnovata annualmente. Inoltre, almeno secondo le previsioni, il rilascio di questa licenza da parte del prefetto dovrebbe essere motivato da ragioni che giustifichino la necessità di difesa personale. Nella prassi, viene concessa soprattutto a guardie giurate, portavalori e commercianti che hann accesso a quantità di denaro (come i gioiellieri) e infine persone che, per l’attività professionale che svolgono, possono essere minacciate (ad esempio gli ufficiali giudiziari, imprenditori ma anche avvocati e magistrati che hanno subito minacce). Le ragioni di necessità vanno documentate e sulla base della loro fondatezza il prefetto concede la licenza, sempre che il richiedente non abbia precedenti penali e che presenti il certificato di idoneità psico-fisica. Nel caso di Adriatici, agente della polizia per 16 anni e oggi avvocato e assessore comunale, l’interrogativo sono attuali le necessità concrete di difesa personale che hanno giustificato il rilascio della licenza. La proposta di legge - Vista la carenza di norme recenti che disciplinino e rendano meno aleatori i parametri per ottenere il porto d’armi per difesa personale, nelle settimane scorse il Partito democratico ha presentato una proposta di legge a prima firma di Walter Verini e dovrebbe essere calendarizzato. La concomitanza con il caso di cronaca di Voghera è casuale, tuttavia mette in luce il problema della concessione delle licenze. Il pdl, infatti, ha l’obiettivo di rendere più stringenti i controlli sulla detenzione di armi e per il rilascio delle licenze per difesa personale, “per evitare una diffusione incontrollata di armi” - si legge nella scheda introduttiva - visto l’aumento sia di omicidi consumati in ambiente domestico sia di suicidi con armi regolarmente detenute. Le disposizioni prevedono che alla richiesta per il porto d’armi venga allegato un certificato di idoneità psicofisica rilasciato da una commissione medica e che la licenza venga revocata in caso di segni di disturbi psico-comportamentali. Inoltre, si prevede il monitoraggio sulla vendita e la detenzione di armi, con l’obbligo di comunicazione contestuale (ora è mensile). Inoltre, è previsto l’obbligo di comunicazione del possesso di arma oltre che ai familiari anche ai conviventi e ai partner ed ex partner, a relazione conclusa. La vera zona grigia in cui la discrezionalità è totalmente demandata al prefetto, tuttavia, riguarda la possibilità di girare armati in luoghi pubblici per i privati cittadini che non facciano parte delle forze dell’ordine o svolgano compiti di sicurezza e vigilanza. Scompare più di un minore al giorno: “I numeri sono tornati a crescere” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 25 luglio 2021 In sei mesi sono fuggiti e non sono stati ancora ritrovati 336 ragazzi italiani: quasi il 90% lo fa volontariamente. Di stranieri ne spariscono 15 al giorno: è l’immigrazione irregolare. Ogni giorno in Italia scompare un minorenne. Anzi di più: 1,86, denuncia la statistica; una media che si avvicina a due sparizioni quotidiane. Parliamo di quelli che non vengono ritrovati, perché gli scomparsi tornati a casa grazie alle ricerche o per loro volontà sono molti di più. Ma ricompaiono, per l’appunto, e dunque preoccupano meno; a differenza di quelli che non si riesce a rintracciare nel giro di qualche giorno, settimana o mese, di cui difficilmente si riavrà notizia: 336 in sei mesi. E parliamo solo di ragazzini italiani; quelli stranieri che spariscono definitivamente sono un numero molto più alto: 2.649, dal 1° gennaio al 30 giugno 2021, quasi 15 al giorno. Si tratta però di cifre legata all’immigrazione irregolare, per la quale il nostro Paese è terra di approdo e transito verso altre destinazioni. Questi dati sono contenuti nel rapporto sul primo semestre di quest’anno redatto dal Commissario straordinario del governo per le persone scomparse, da cui risulta che superata la fase dell’immobilismo forzato legata all’emergenza Covid, il fenomeno degli scomparsi è tornato a crescere. “Si continuano a registrare numeri rilevanti, che rendono ancora più necessarie le misure di prevenzione adottate e l’affinamento delle tecniche di ricerca”, avverte il prefetto Silvana Riccio, commissario straordinario. Il totale delle scomparse denunciate in Italia, nei primi sei mesi del 2021 è di 7.947 persone; nello stesso periodo del 2020 (fortemente condizionato dal lockdown) erano 5.004, e nel 2019 7.026. Dunque una tendenza al rialzo, anche in confronto al periodo pre-Covid. Delle persone che hanno fatto perdere le proprie tracce quest’anno, più della metà (4.019) sono ancora da ritrovare, mentre nel 2020 erano solo 24 per cento, e nel 2.019 il 20 per cento. Un aumento legato alla prevalenza di scomparsi stranieri: il 56 per cento nel 2021, mentre nel 2020 erano il 44 per cento e nel 2019 il 45 per cento. Tornando agli italiani, del totale di 3.467 scomparsi, 694 (il 20 per cento) sono ancora da ritrovare. Poco più del dieci per cento sono persone oltre i 65 anni d’età (276, di cui 78 ancora da ritrovare) e 1.503 hanno meno di 18 anni; di 336 s’è persa ogni traccia; è il numero da cui derivano i “quasi due” ragazzini scomparsi al giorno. Tra le motivazioni delle sparizioni dei minorenni, la stragrande maggioranza (quasi il 90 per cento) è classificata come allontanamento volontario. Le altre quote sono divise tra ragioni non conosciute, fughe da case-famiglia, possibili disturbi psicologici, sottrazione da coniuge o altro congiunto, e possibili vittime di reato: soltanto due, entrambi ancora da ritrovare. Non ci sono evidenze per collegare queste scomparse a fenomeni come la tratta di essere umani, lo sfruttamento della prostituzione minorile o il commercio di organi, ma quei traffici esistono e nessuno è in grado di escludere connessioni. Se dai minorenni si passa alle altre fasce di popolazione la percentuale degli “allontanamenti volontari” resta quella più alta, ma crescono (soprattutto nella fascia degli ultra-sessantacinquenni), anche le motivazioni legate a possibili disturbi psicologici, che superano il 10 per cento del totale. I dati raccolti dal Commissario di governo (che esiste dal 2007) arrivano dalle prefetture e dalla Direzione centrale della polizia criminale, e il prefetto Riccio ha cominciato a elaborarli in collaborazione con altri organismi: dal ministero della Famiglia alle università, passando per l’Istituto di statistica e la commissione parlamentare su Infanzia e adolescenza, per cercare di capire le cause e prevenire le sparizioni. Legate evidentemente, soprattutto per gli italiani, a situazioni di disagio e disturbo psicologico. È presumibile che molti dei non ritrovati siano andati a rimpinguare quel popolo di invisibili che vive di vagabondaggio ed espedienti nelle grandi città. Il commissario aveva individuato all’interno del sito internet wikihow, che suggerisce soluzioni a qualsiasi problema, una sessione intitolata “come scappare di casa”, segnalata alla polizia postale e oscurata dopo aver raggiunto il numero-record di 267.000 visualizzazioni. Ma ci sono anche suicidi e disgrazie rimaste senza prove, e qualche traccia s’è cominciata a cercare nel registro dei cadaveri non identificati. Ce ne sono oltre mille, e solo in qualche decina di casi, dal 2007, si è riusciti ad attribuirle persone ufficialmente scomparse. Che la maggior parte delle sparizioni di stranieri sia legata ai flussi migratori diretti verso altri Paesi è dimostrato, oltre che dai numeri, dalle regioni in cui si sono concentrate le denunce. Dei 4.480 stranieri spariti dall’Italia nel primo semestre, i non ritrovati sono 3.325, oltre il 74 per cento; in gran parte “minori non accompagnati”. Spariti nel maggior numero dei casi dalla Sicilia e dal Friuli Venezia Giulia, cioè dai centri di accoglienza dove approdano migranti provenienti dal Nord Africa (principalmente Tunisia) o dall’Asia centrale (principalmente Afghanistan). Il commissario Riccio - che per le ricerche ha avviato contatti e adottato protocolli con i Vigili del fuoco, Guardia di finanza, Esercito, Protezione civile e altre istituzioni - mette in luce “la peculiarità del fenomeno della scomparsa di cittadini stranieri, soprattutto minori di età”, per il quale “è necessario un approfondimento sulle possibili iniziative da assumere, e a tale riguardo sono allo studio alcune iniziative da intraprendere”. Santa Maria Capua Vetere. Dietrofront del Dap: i detenuti si possono avvicinare alle famiglie di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 25 luglio 2021 Erano stati allontanati dal carcere di Santa Maria Capua Vetere a scopo precauzionale, cioè per evitare qualsiasi contatto con gli agenti di polizia penitenziaria che avevano denunciato in seguito ai pestaggi del 6 aprile 2020: una scelta che aveva fatto gridare alla violazione del diritto di difesa e del principio di territorialità della pena. Ora, però, quei 42 detenuti potranno chiedere di essere ricollocati in un penitenziario più vicino a quello finito al centro dell’inchiesta condotta dalla Procura sammaritana e nel quale erano rinchiusi fino a qualche settimana fa. La svolta è arrivata ieri, nel corso di un vertice tra i garanti dei detenuti e il reggente dell’amministrazione penitenziaria regionale Carmelo Cantone. Già nelle prossime ore i 42 detenuti, recentemente sparpagliati in 23 diversi penitenziari di cui alcuni distanti anche 700 chilometri dalla Campania, potranno presentare la domanda di trasferimento per motivi familiari indicando tre strutture più vicine alla nostra regione. Sarà poi il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) a vagliare le istanze d’intesa con la Procura di Santa Maria Capua Vetere, titolare del fascicolo sui fatti dell’aprile 2020, che aveva segnalato la necessità di allontanare i detenuti dalla casa circondariale in provincia di Caserta. La decisione è importante perché ripristina, almeno parzialmente, i diritti dei 42 carcerati. All’indomani della notifica delle misure cautelari a 52 tra poliziotti e funzionari coinvolti nei pestaggi di aprile 2020, era stata la Procura di Santa Maria Capua Vetere a suggerire il trasferimento dei 42 detenuti che avevano segnalato alle autorità le angherie subìte. Con una decisione senza precedenti, il Dap aveva “spalmato” gli ospiti della casa circondariale casertana in 23 istituti in tutta Italia: Sollicciano, Modena, Ivrea, Palmi, Forlì, Palermo, Reggio Calabria, La Spezia, Terni e Castrovillari, solo per citarne alcuni. In questo modo, una decisione adottata per tutelare i detenuti si era trasformata per questi ultimi in una seconda punizione. Già, perché essere trasferiti a 700 chilometri di distanza, per molti carcerati, significa rinunciare ai colloqui con i familiari, per giunta proprio nel momento in cui l’attenuarsi dell’emergenza Covid aveva reso nuovamente possibili gli incontri. Non solo: un allontanamento così netto e repentino rende più difficile anche il confronto con gli avvocati. Insomma, il danno oltre la beffa: dopo essere stati vittime dei pestaggi, quei 42 detenuti erano stati costretti a sopportare anche la lesione del diritto di difesa e di quel principio che tutela gli affetti di chi finisce dietro le sbarre. “Quei trasferimenti andavano organizzati con più umanità e ragionevolezza - sottolinea Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti che ieri ha incontrato il rappresentante del Dap insieme con il collega napoletano Pietro Ioia e la casertana Emanuela Belcuore - Ora siamo comunque riconoscenti all’amministrazione penitenziaria che, consentendo a quelle 42 persone di presentare domanda di avvicinamento, fa emergere la prospettiva di un carcere più umano e in linea con i dettami della nostra Costituzione”. L’importante risultato ottenuto al termine dell’incontro di ieri, però, non basta. I garanti puntano a una svolta culturale che porti a concepire il carcere come luogo non solo di custodia, ma anche di accudimento e di accompagnamento dei detenuti verso il pieno riscatto personale e sociale. Ecco perché, nei prossimi giorni, Ciambriello, Ioia e Belcuore incontreranno Bernardo Petralia, capo del Dap che ieri non ha potuto prendere parte all’incontro negli uffici del Provveditorato campano dell’amministrazione penitenziaria. “Con la protesta successiva ai trasferimenti - sottolinea Ciambriello - siamo riusciti ad arginare l’onda di emotività che ha spinto qualcuno ad adottare decisioni sconsiderate. Adesso la gestione non solo di quei 42 detenuti di Santa Maria Capua Vetere, ma dell’intero sistema penitenziario deve tornare sul binario della ragionevolezza. Non possiamo più assistere ad amnesie, vendette o ritorsioni ai danni dei detenuti, ma dobbiamo agire tutti secondo la Costituzione e il senso di umanità”. Modena. Rivolta in carcere. È nel pool della Cartabia ma era anche a S. Anna di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 25 luglio 2021 Il caso del dirigente regionale Bonfiglioli che indagherà su cosa accadde nell’istituto di Modena, dov’era presente. Anche Marco Bonfiglioli, dirigente del Provveditorato Emilia Romagna e Marche, è nella commissione ispettiva istituita dal Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) per far luce “dall’interno” sulle rivolte del marzo e aprile 2020 e sui tredici detenuti morti, nove dei quali di Modena. Ed è proprio la figura di Bonfiglioli ad apparire già in possibile conflitto d’interesse: quello che oggi è membro in commissione è lo stesso dirigente che, stando alle carte della richiesta di archiviazione della Procura, il giorno della rivolta era in carcere a Modena per organizzare i trasferimenti dei detenuti. Compresi i quattro deceduti durante il trasporto o in altre carceri. Il rischio è che si trovi a indagare sul suo operato. Tra i membri designati anche Rosalba Casella, fino al 2017 direttrice di Sant’Anna, che ha una lunga conoscenza di prima mano e approfondita della nostra struttura carceraria. La commissione annunciata dal ministro Marta Cartabia prevede infatti la presenza di un magistrato, tre direttori, due comandanti e due dirigenti. La commissione sarà presieduta da un magistrato: Sergio Lari, ex procuratore generale della Corte d’Appello di Caltanissetta. Il coordinamento delle indagini è affidato al capo del Dap Petralia e al suo vice Tartaglia. Sono stati previsti sei mesi di tempo per completare i lavori e il rapporto finale. Un atto che avviene a un anno e mezzo dalle rivolte e dai morti, dopo che il precedente ministro Alfonso Bonafede si era limitato a dare risposte evasive al Parlamento. La commissione voluta dall’attuale ministro di Grazia e Giustizia ha lo scopo preciso di verificare se sono stati compiuti abusi o violenze da pare degli agenti di polizia penitenziaria o di altro personale penitenziario nel corso delle rivolte e soprattutto dopo, quando - secondo alcuni esposti presentati da detenuti - sarebbero avvenuti pestaggi e atti di violenza e sopraffazione verso detenuti inermi, molti dei quali estranei o passivi alle rivolte. Si tratta di un atto in più, quello annunciato dal ministro in Parlamento, che si muoverà parallelamente alla ricostruzione penale in corso ad opera delle singole procure interessate. E a proposito delle indagini giudiziarie, a Modena si avvicina la data per la fissazione del reclamo presentato dall’associazione Antigone contro l’archiviazione decisa dal gip Andrea Romito sul filone di indagini riservato esclusivamente agli otto morti (il nono, Salvatore Sasà Piscitelli, è trattato dalla Procura di Ascoli). Brescia. Covid e carceri, a Canton Mombello le celle scoppiano di Federica Pacella Il Giorno, 25 luglio 2021 La pandemia ha bloccato i trasferimenti dei detenuti tra le carceri, aggravando il sovraffollamento. Il blocco dei trasferimenti causa Covid inasprisce i problemi cronici delle carceri: così gli istituti penitenziari bresciani tornano a essere sovraffollati. “La situazione è preoccupante in tutta la Lombardia. Brescia non è tra le province messe meglio”, spiega Luisa Ravagnani, garante dei diritti delle persone private della libertà a Brescia. Secondo i dati del ministero della Giustizia aggiornati al 30 giugno, in Lombardia, a fronte di una capienza regolamentare di 6.139 ci sono 7.745 detenuti, con uno scarto di +1.606 che rappresenta più della metà del sovraffollamento nazionale (2.858). A Brescia, nella casa circondariale ‘Nerio Fischione’ Canton Mombello si contano 378 presenti a fronte di una capienza regolamentare di 189; meglio va nella casa di reclusione di Verziano, 97 detenuti rispetto ai 71 previsti. “Il blocco di trasferimenti da istituto a istituto non ha aiutato a ridurre i numeri. Ora personale e detenuti sono vaccinati, ci aspettiamo che si arrivi ai trasferimenti in istituti più idonei e di spostamenti di chi, da tempo, lo chiede”. Questo dovrebbe incidere su sovraffollamento e problematiche connesse, esasperate dalle temperature estive. “C’è una carenza permanente di frigoriferi, che vengono donati per lo più da Comune ed associazioni di volontariato. Dovrebbe però essere lo Stato a porre le condizioni per vivere in modo dignitoso”. Di fatto sono ferme anche molte delle attività che in questi anni sono state messe in campo per favorire il valore rieducativo della pena, grazie ad amministrazione penitenziaria, istituzioni e mondo del volontariato. “Non c’è più il blocco delle attività - evidenzia Ravagnani - ma di fatto si è riattivato un 10% di quello che c’era prima. Ci sono volontari che non hanno finito il ciclo vaccinale, altri che chiedono maggiore cautela. C’è ancora un grosso vuoto, non ascrivibile all’amministrazione penitenziaria, ma alla situazione contingente”. Per ridurre il sovraffollamento, Ravagnani, insieme agli altri garanti, vede nella liberazione anticipata speciale (sconto di pena di 75 giorni, anziché di 45, in determinate circostanze) una soluzione subito applicabile. “Sarebbe anche un modo corretto di riconoscere ai detenuti di aver vissuto in uno stato di deprivazione creato dalla pandemia”. Per Brescia, tuttavia, la soluzione vera sarà la realizzazione di un nuovo carcere, di cui si parla da anni. “Ci crederò quando lo vedrò. Come garanti abbiamo chiesto che non si pensi al carcere sempre e solo come costruzione di nuovi istituti - premette Ravagnani - ma qui a Brescia è indispensabile”. Modena. Teatro-carcere, si apre martedì 27 luglio “Trasparenze Festival” bologna2000.com, 25 luglio 2021 Dal 27 al 30 luglio, a Modena, Trasparenze di Teatro Carcere offre una panoramica su spettacoli e attività delle compagnie che operano negli Istituti della regione: Teatro del Pratello (Bologna), Teatro Nucleo (Ferrara), Associazione Con…Tatto (Forlì), Cooperativa Le Mani Parlanti (Parma), Lady Godiva Teatro (Ravenna), MaMiMo - Teatro Piccolo Orologio (Reggio Emilia) e Teatro dei Venti (Modena e Castelfranco Emilia), compagnia organizzatrice del Festival e membro fondatore del Coordinamento. Martedì 27 luglio alle 16.00 debutta “Odissea” progetto biennale del Teatro dei Venti (solo per spettatori autorizzati), che mette in relazione le Carceri di Modena e Castelfranco Emilia, con repliche il 28, 29 e 30 luglio. Ingresso riservato agli spettatori autorizzati. Odissea è il risultato finale del lavoro svolto all’interno delle strutture carcerarie e in sala prove tra riunioni e discussioni a distanza, prove da remoto e riprese video in teatro. Un viaggio diventato sfida che prende finalmente forma dopo oltre due anni di ricerca, prove e confronto. La sfida consiste nell’attraversare insieme agli spettatori tutti i luoghi che hanno reso possibile la creazione, luoghi distanti e che abitualmente non comunicano tra loro: l’edificio teatrale, la città e le carceri. Si attraverseranno infatti con un bus navetta le Carceri di Modena e Castelfranco Emilia. Teatro del Pratello (Bologna) - Nella stessa giornata alle ore 21.30 presso il Teatro dei Segni in Via San Giovanni Bosco 150, il Teatro del Pratello, porta in scena “PADRE, GUARDAMI! secondo studio”, esito di un lungo laboratorio con un gruppo di ragazzi in carico ai Servizi della Giustizia Minorile. Rappresenta la penultima tappa del progetto “Padri e Figli” una polifonia di voci di figli che chiamano, confortano, urlano, rincorrono padri sperduti, padri che si nascondono, tanto sordi quanto fragili. Con i ragazzi della Compagina del Pratello e Giorgia Ferrari; drammaturgia di Paolo Billi; con le cure di Paolo Billi, Elvio Pereira De Assunçao e Viviana Venga; una produzione Teatro del Pratello e Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna Il Teatro del Pratello lavora da oltre vent’anni con progetti di teatro carcere, rivolti sia a minori che ad adulti, detenuti o con misure alternative. A Bologna, all’interno dell’Istituto Penale Minorile e con i ragazzi dell’Area Penale Esterna, cura laboratori continuativi durante tutto l’anno e produce spettacoli teatrali aperti alla cittadinanza, dentro l’Istituto e presso teatri cittadini. Questa esperienza, considerata “buona pratica”, è stata trasferita anche all’IPM Femminile di Pontremoli, dove le giovani detenute sono protagoniste ogni anno di uno spettacolo ospitato al Teatro della Rosa. Dal 2008 è in corso il progetto Esperimento di Teatro alla Dozza, alla Casa Circondariale di Bologna, che coinvolge oggi le detenute della sezione femminile. Realizza sul territorio progetti di teatro civile e teatro comunità e gestisce a Bologna lo spazio PraT Teatri Comunità. Associazione Con…Tatto (Forlì) - A seguire, va in scena il reading “Lettere dalla Tempesta”, a cura di Associazione Con…tatto, che porta in scena il progetto epistolare ispirato all’opera Shakespeariana, con la lettura degli scritti dei detenuti della Casa Circondariale di Forlì. A cura di Sabina Spazzoli e Michela Gorini in collaborazione con la compagnia “Malocchi & Profumi”. Attraverso la scrittura epistolare i protagonisti dell’opera del Bardo si raccontano, ripercorrono le relazioni familiari e cosa significhi sopravvivere alla tempesta, relegati nello spazio dell’isola, una prigione senza sbarre, ma dove il mare è una porta di ferro chiusa a doppia mandata, in un tempo che resterà nella memoria per sempre. L’associazione “Con…tatto” opera all’interno della Casa Circondariale di Forlì dal 2006 e cura diverse attività a favore dei detenuti e delle loro famiglie; dal 2010 ha preso in carico il Laboratorio teatrale, svolto nel tempo presso le tre sezioni (maschile, femminile e protetti). Laboratorio che a partire dal 2014 è portato avanti in collaborazione con il Liceo Classico “Vincenzo Monti” di Cesena. Biglietto unico per la serata: 4 euro. Info e prenotazioni: 345 6018277 - biglietteria@trasparenzefestival.it Il concerto - La serata del 27 luglio si conclude con il concerto di Prim, alle ore 22.30, gratuito con prenotazione obbligatoria. Voce e chitarra Irene Pignatti, tastiera e chitarra Matteo Mugoni, basso e synth Davide Severi, batteria e pad Diego Davolio. Prim è un progetto musicale nato nel 2019 da Irene Pignatti, cantautrice modenese con influenze sull’indie pop britannico. Durante gli anni è entrata in contatto con diversi generi, ma il suo stile è stato formato da artisti come Daughter, The 1975, The Japanese House e The Neighbourhood. Prim rilascia il suo primo singolo “Cheap Wine” a fine aprile 2020, brano scritto e registrato da lei stessa in casa durante il primo periodo di quarantena. Prim e il suo gruppo debuttano col primo EP composto da cinque brani, intitolato “Before You Leave”, uscito il 2 ottobre 2020 per l’etichetta italo-americana We Were Never Being Boring Collective e disponibile all’ascolto su tutte le piattaforme streaming. Il Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna - Il Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna lavora per costruire una rete tra le realtà teatrali che operano nelle carceri della regione, favorendone la visibilità e le interazioni con il territorio. Costituitosi in associazione nel marzo 2011, nell’aprile dello stesso anno ha firmato un documento d’intesa sull’attività di Teatro in Carcere con la Regione Emilia-Romagna e il Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria, rinnovato periodicamente, un Protocollo d’Intesa che coinvolge tre Assessorati Regionali (Cultura, Welfare, Formazione) e il Centro Giustizia Minorile Emilia Romagna e Marche, per le attività teatrali con minori e giovani adulti in carico ai Servizi di Giustizia Minorile. Gli appuntamenti con gli eventi del Coordinamento Teatro Carcere Emilia Romagna proseguono fino al 30 luglio. Successivamente il Festival si sposta a Gombola con un programma di spettacoli, concerti e incontri per vivere il territorio da Spettatori Residenti. Prezzi dei biglietti e aggiornamenti sul sito: www.trasparenzefestival.it. Info e prenotazioni: 3456018277 - biglietteria@trasparenzefestival.it. Firenze. “La scritta che buca”, il progetto alla Casa circondariale Mario Gozzini di Rita Salvadei artemagazine.it, 25 luglio 2021 Un murale realizzato con il coinvolgimento degli stessi detenuti, che “buca” metaforicamente il muro del carcere. Visibile anche dalla parte della città, l’opera è un’ideale trasposizione artistica di un percorso di “redenzione”, di rinascita e di costruzione di nuove progettualità di vita. Lo scorso 15 luglio è stato inaugurato, alla Casa circondariale Mario Gozzini di Sollicciano, il progetto “La scritta che buca”, un murale frutto di un processo partecipativo che, sia nell’ideazione che nella realizzazione, ha visto coinvolti attivamente, insieme a C.A.T. Cooperativa Sociale e all’Associazione Culturale Toscana Elektro Domestik Force, gli stessi detenuti del carcere. A raccontare la nascita, lo sviluppo e la realizzazione dell’opera è Nico “Löpez” Bruchi, che dal 2003 è parte dell’Associazione e, insieme a Marco Milaneschi, ha firmato il progetto. Ci racconti in poche parole come e con quale scopo nasce l’Associazione Elektro Domestik Force? EDFcrew è un progetto che nasce nel 2003 dall’incontro con Niccolò Giannini e Daniele Orlandi. All’epoca abbiamo deciso di fare un’esperienza nel mondo dei graffiti, quasi in maniera giocosa e senza alcuna pretesa. Successivamente è nata una vera e propria passione, non solo per i graffiti in sé, ma per il viaggiare e lo stare insieme. All’inizio dipingevamo esclusivamente muri illegali, in seguito ci siamo mossi per cercare di regolarizzare il nostro lavoro, in maniera più professionale. Abbiamo quindi iniziato ad essere “ospiti” di muri altrui, allenando prima di tutto l’empatia e la nostra capacità di adattamento, accorgendoci anche che il nostro era un percorso molto centrato sugli aspetti più sociali del mondo del graffissimo. Coltivando la nostra amicizia abbiamo, dunque, deciso di dare vita a un’organizzazione più strutturata. Da un punto di vista pratico come vi siete organizzati, che tipologia di lavori realizzate e con quali realtà vi interfacciate? Abbiamo deciso di mixare la nostra esperienza e le nostre capacità a un tipo di organizzazione più professionale, appunto, come poteva essere quella del mondo del teatro, dal quale provengo. È nata un’associazione che con il tempo si è espansa e attualmente conta 11 membri, con una serie di figure che si occupano della progettazione, degli aspetti burocratici e logistici e anche del recupero fondi. Ci sono poi collaboratori e soci che fanno un grandissimo lavoro di incoraggiamento nei nostri confronti. Ci muoviamo in Italia e anche in buona parte dell’Europa con le finalità classiche del mondo dell’Urban Art, ma anche con una maggiore attenzione verso gli aspetti sociali. Per noi è fondamentale lo scambio di opinioni, il coinvolgimento, la compartecipazione, la coprogettazione. Tendiamo quindi a metterci per un momento quasi in secondo piano, per cercare di far emergere le esigenze e le volontà del luogo, del quartiere in cui andiamo ad operare. Ci organizziamo facendo cene, coinvolgendo le associazioni di quartiere, i cosiddetti “social brokers”, ovvero persone che ci aiutano ad entrare nella dinamica del luogo. Nasce in questo modo ogni nostro progetto. Lavoriamo principalmente per scuole, ospedali, carceri, ambienti pubblici di tipo sociale, luoghi in cui passano molte persone. Il progetto per il carcere Gozzini come ha avuto origine? Siamo stati invitati dalla Facoltà di Architettura dell’Università di Firenze e dalla Direttrice del carcere a fare una valutazione sul muro della facciata esterna, per capire se fosse effettivamente possibile realizzare qualcosa. Da un primo sopralluogo è nato uno scambio immediato, sono stati poi coinvolti una serie di partner come la cooperativa CAT di Firenze, che da molti anni lavora in carcere, per cui ci ha introdotti e guidati in un ambiente che è sicuramente più complesso di altri. Ne è nato uno scambio molto proficuo e attivo con i detenuti. I lavori sono stati invece finanziati dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, insieme al Comune, col quale collaboriamo da molti anni. Il murale che avete realizzato presenta una narrazione molto articolata e ricca di simbologie, puoi spiegarlo? Questo progetto è stato realizzato con i detenuti del braccio di fine pena del carcere Gozzini. Si tratta di detenuti a cui mancano pochi anni da scontare. Nella fase progettuale ci siamo confrontati con loro cercando di capire, innanzi tutto, se considerassero utile questa iniziativa. Per molti non lo era. Per altri, invece il progetto poteva rappresentare un aiuto anche per le loro famiglie e in particolare i bambini, che trascorrono molte ore di fronte a quel muro in attesa dei colloqui. La richiesta dei detenuti coinvolti è stata principalmente quella di realizzare un murale molto colorato e con un look adeguato ai bambini. Per quanto riguarda i contenuti sono uscite tantissime idee, che noi abbiamo cercato di accorpare, dandogli un senso. Il risultato è stato un’immagine che esprime il desiderio di redenzione, metaforicamente interpretata con la distruzione del “sé” per la costruzione di nuovi “sé” e di nuove opportunità. Il percorso narrativo prende avvio da un uomo fatto di mattoni che si sta sgretolando. Abbiamo deciso di giocare sul modulo del rettangolo, partendo dalla forma del mattone. In seguito allo sgretolamento i mattoni si trasformano in assi di legno che vengono utilizzati per costruire una nave che trasporta i detenuti sulla sabbia di un deserto, mirando verso un faro che si trova su una scogliera. Questo faro è anche una bilancia, che simboleggia l’equilibrio, la giustizia, ma anche la saggezza. Si tratta di un’immagine ispirata a una poesia di Giovanni Farina, uno dei capi dell’Anonima Sequestri, rinchiuso nel carcere Gozzini, che ci ha dedicato una bellissima poesia in cui scrive: “La libertà è un miraggio”. Ci siamo dunque immaginati questa nave che viaggia tra visioni oniriche e miraggi. Il viaggio trova la sua fine quando si arriva a una Torre di legno, fatta con le stesse assi della nave, in un paesaggio naturale, molto toscano. La torre è per eccellenza il simbolo della saggezza e della ricostruzione. Le assi della nave assumono un nuovo ruolo edificante. Pensi che l’Urban Art abbia sempre un ruolo sociale e possa essere l’arte del futuro? Noi ci definiamo artisti sociali, ma siamo fuori dall’etichetta di urban artist, perché non ci rappresenta. Credo che l’arte in generale abbia un mega ruolo sociale, non solo l’arte urbana. L’arte è assolutamente essenziale. Lo è ai fini sociali, perché riesce a far sognare le persone, a farle uscire dagli schemi. L’arte offre la possibilità di andare oltre, di far uscire dai confini della vita, per immaginare un mondo anche fuori dalle regole, dai problemi, questo sia nel bene che nel male. Per quanto riguarda l’arte urbana credo sia in una fase di crescita. A un certo punto avrà magari un declino, come spesso accade per tutte le correnti artistiche e culturali. Attualmente ha un ruolo sociale, parlare attraverso i muri è importante. C’è una frase molto bella che dice: “muri bianchi, popoli muti”. Credo che sia molto vera. Noi in questo momento stiamo decorando delle sale di ospedali e stiamo lavorando insieme ai medici e al personale ospedaliero per realizzare ambienti che, in qualche maniera, possano aiutare sia i pazienti che i familiari. Lo stesso vale per i plessi scolastici. Migliorare un ambiente scolastico esteticamente può sembrare banale, ma in realtà fa la differenza per i ragazzi. Essere circondati da un ambiente bello è stimolante e incoraggiante. Il ruolo sociale dell’Urban art io lo vedo in questa direzione, come miglioramento estetico, quindi vitale per certi luoghi. A quali altri progetti state lavorando? Stiamo lavorando a diversi progetti. Il prossimo per l’ex cinema di Castelfranco di sotto, un paesino molto vicino alla nostra sede di Pontedera. Poi realizzeremo un progetto per un altro braccio del carcere di Sollicciano. Carolina Crescentini al Giffoni Film Festival: “Non dimenticare i ragazzi in carcere” ansa.it, 25 luglio 2021 Il legame tra Carolina Crescentini e il Giffoni Film Festival, dove torna per la terza volta fra i protagonisti degli incontri con i ragazzi, passa ora anche attraverso il suo lavoro più recente. “Ero sul set della seconda stagione della serie “Mare fuori”, per Rai2, e un assistente alla regia mi ha ricordato che ci eravamo già incontrati dieci anni prima al festival dove lui era giurato”, ricorda con l’Ansa l’attrice, che ritornerà anche nei panni di Corinna nella quarta stagione della serie cult Boris, “un personaggio che amo, e mi diverte moltissimo, ci sono dentro molte cose che ho vissuto e subito. Boris non è fiction, è un documentario - aggiunge ironica - ci sono dei set così”. Invece in Mare fuori 2 che ha debuttato in autunno con la prima stagione in piena pandemia, l’attrice torna nei panni di uno dei personaggi più intensi della sua carriera, Paola Vinci, direttrice dell’Istituto di Pena Minorile di Napoli: “La lavorazione è andata benissimo, abbiamo due nuovi registi, Milena Cocozza (con cui l’attrice ha già girato il thriller horror soprannaturale Letto n.6) e Ivan Silvestrini (Monolith) “che conosco da quando avevo 19 anni, andavamo a scuola insieme”. Anche stavolta “c’è stata una fusione totale con i ragazzi e nel cast ce ne sono di nuovi. Amo lavorare con loro, per la loro verità, imprevedibilità e il confronto umano che nasce”. Il tema della riabilitazione in carcere è di particolare attualità, dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere: “Noi avevamo mostrato la prima serie a Nisida e loro ci avevano detto che le nostre guardie erano più buone delle loro… Questa è una storia che vogliamo raccontare perché sono luoghi e persone che non devono essere dimenticati. Il carcere dovrebbe essere un luogo di passaggio dove imparare anche delle nozioni e delle regole”. Sempre nei mesi di pandemia ha debuttato su Rai1, La bambina che non voleva cantare, film tv di Costanza Quatriglio: Crescentini interpretava la mamma di Nada, una performance per la quale ha ottenuto la sua quinta candidatura ai Nastri d’argento (vinto nel 2011 per 20 sigarette e Boris - Il film). “Questo è stato un anno molto doloroso ma mi sono anche sentita da un altro lato una miracolata, perché non ho mai smesso di lavorare tranne un mese a gennaio. Ti sentivi anche in colpa, perché tanta gente invece non sapeva dove sbattere la testa. Molti altri settori sono stati massacrati da questi mesi e ancora lo sono, come la musica. Ad esempio alcuni giorni fa ero a Pistoia per un concerto, ed eravamo tutti distanziati, non ci si poteva alzare e chi lo faceva veniva fatto uscire. Il giorno dopo ci sono stati i festeggiamenti per la vittoria dell’Italia gli Europei. Allora ti senti presa in giro”. L’attrice. che sarà a Taormina per ricevere il Nations Award, tornerà in autunno su Rai1 con la nuova stagione de I bastardi di Pizzofalcone e al cinema con due commedie Per tutta la vita di Paolo Costella, su una serie di coppie sposate che scoprono nullo il loro matrimonio (“viene da chiederti cosa faresti in quella situazione”) e il terzo capitolo della saga di Massimiliano Bruno sui criminali che viaggiano nel tempo, Finché c’è crimine c’è speranza. Sei una buona o cattiva nella storia? “Direi abbastanza buona…”, conclude sorridendo. La decisione giuridica a prova di algoritmo di Teresa Numerico Il Manifesto, 25 luglio 2021 Tempi presenti. Riflessioni intorno al libro “La giustizia digitale. Determinismo tecnologico e libertà” di Antoine Garapon e Jean Lasségue, uscito per Il Mulino. Nel volume gli autori mettono in guardia sulla possibilità di un nuovo regime normativo: per esempio, il codice del software con i suoi sacerdoti tecnici, al posto del testo di legge. La delega alla macchina è una tentazione dei nostri tempi e il mondo della giustizia non fa eccezione. Ne parlano Antoine Garapon e Jean Lasségue nel libro La giustizia digitale. Determinismo tecnologico e libertà (Il Mulino, pp. 279, euro 28), volume intenso, denso e complesso. L’operazione editoriale è completata dalla bella prefazione di Maria Rosaria Ferrarese, che introduce l’edizione italiana, facendo il punto sulle questioni scottanti e ineludibili poste dal famoso giurista Garapon, supportato dall’epistemologo Lasségue che compendia il lavoro con un approfondimento sulla rivoluzione grafica. Il libro si apre con un’analisi del passaggio dalla scrittura a stampa a quella digitale, una nuova testualità di natura logica. Impossibile restituire la ricchezza delle argomentazioni presenti nel volume, ma è appassionante analizzare alcuni dei nodi argomentativi più sfidanti. La digitalizzazione di tutte le informazioni disponibili, comprese quelle di carattere giuridico - sia come leggi scritte, sia come giurisprudenza - è condizionata all’assunto sistemico che sia possibile riprodurre tutto quello che è necessario per ricostruire la capacità di decisione giuridica, nel contesto informatico. La scrittura digitale, cioè, sarebbe un nuovo tipo di scrittura che porta alle estreme conseguenze la rivoluzione grammaticale delle lingue alfabetiche, nelle quali ciò che viene riprodotto è il singolo suono e non la rappresentazione del significato, come invece avviene in quelle ideografiche. La scrittura digitale eliminerebbe qualsiasi dimensione simbolica dal proprio funzionamento, riferendosi esclusivamente alla capacità di manipolare simboli definiti univocamente, attraverso l’uso di regole fissate, finite e inequivocabili. Le lingue naturali, comprese quelle alfabetiche, mantengono relazioni plurali tra significanti e significati. Tale collegamento permette a una parola di avere correlazioni anche ambivalenti e stratificate con i suoi significati variabili e di manifestare una dimensione metaforica e simbolica per veicolare il senso complesso di un concetto o di un oggetto, a cui il significante associa il proprio carattere materiale. La rivoluzione informatica invece rinuncerebbe completamente al rapporto con questa dimensione simbolica per concentrarsi esclusivamente sulle possibilità della manipolazione dei caratteri senza riferimento. Il mondo esterno - confuso e molteplice - che fa capolino nella lingua naturale, nella sua ricchezza, nella sua dinamicità collettiva, sarebbe completamente tagliato fuori dalla rivoluzione digitale, che si impone per il suo carattere privo di riferimento all’esterno, sul quale però non rinuncia a intervenire. Il progetto della giustizia digitale, analizzato nel volume, sembra voler salvare i giudizi dall’umanità con il suo carattere soggettivo e parziale. La giustizia predittiva, infatti, si propone di annettere il diritto a causa della sua capacità di contenere in sé tutta la giurisprudenza e di valutare i comportamenti umani, attribuendo loro la possibilità di costituire un’anticipazione di eventi futuri. Come suggeriva Hannah Arendt in Vita Activa (1958), la scienza moderna si è sviluppata ponendo la ragione scientifica fuori dal mondo sensibile che si sforzava di comprendere e imponendo la rinuncia all’affidabilità dei sensi e della percezione rispetto alle tecniche di misurazione dei fenomeni fisici. Allo stesso modo, la scienza dei dati vuole fare a meno della ragione umana: la certezza scientifica dell’analisi dei dati non dipende dai singoli individui, ma dalla possibilità di incorporare le loro capacità cognitive nel complesso sistema algoritmico che esercita l’interpretazione. Talvolta gli autori immaginano la morte del simbolico, rispetto all’avvento della rivoluzione digitale, ma in realtà si tratta di uno spostamento, che anche loro a tratti riconoscono, parlando del mito della delega alla macchina. Il simbolico non è morto, ma alla macchina - incaricata di sostituire le nostre decisioni, non solo giuridiche - si attribuisce maggiore affidabilità ed efficienza, perché si nutre del riconoscimento di una nuova istanza di verità e fiducia, dovuta alla sua potenza artificiale. Un mito è costituito di simboli e di una triangolazione con un’autorità capace di fondare un nuovo regime normativo: per esempio il codice del software, coi suoi sacerdoti tecnici, al posto del testo di legge. Se il processo arrivasse alle sue estreme conseguenze si interromperebbero le interpretazioni, proprie della funzione giuridica, perché nel codice informatico non ci sono parole. La ricerca di correlazioni tra dati, sostituita all’ermeneutica, giuridica e non, usa gli algoritmi come prassi, senza spiegazione, senza responsabilità e senza contraddittorio. La dimensione simbolica del rituale giuridico e della decisione del giudice verrebbe sostituita da un sistema che riorganizza la vita collettiva. L’elisione del simbolico prelude, secondo gli autori, a una eliminazione ancora più problematica: quella della politica, da loro identificata, forse con troppa leggerezza, con lo stato. La politica fatta di decisioni prese a partire da scelte degli individui che, proprio in virtù della loro soggettività e per essere situati in un contesto, determinano l’agire in situazioni di incertezza e rendono possibile la convivenza, l’opposizione e la critica. Che succede se lo sguardo sulla società avviene fuori dallo spazio e non è attribuito a una soggettività giuridica che si assume la responsabilità delle scelte? Nessuno lo sa. Gli autori descrivono un mondo in mutamento in cui vecchia legittimità giuridica e nuova giustizia digitale coesistono. L’invito è a elaborare strategie su come incorporare il software nel diritto senza abdicare alla logica della testualità, del rituale e dell’incarnazione. Uno dei pregi decisivi del volume è la chiara definizione di un campo comune di lotta tra diritto e tecnologia: è in atto lo scontro su quali attori abbiano la legittimità di governare la società. Il processo è in corso, anche se talvolta le argomentazioni adottate adombrano una pericolosa soglia deterministica, che ipotizza l’avvento incontrollabile di un nuovo sistema. C’è ancora spazio per l’agire politico, per la vita activa di Arendt, ma non c’è molto tempo. Le scelte sull’uso della tecnologia sono l’orizzonte più politico del presente. La velenosa demagogia negazionista di Massimo Giannini La Stampa, 25 luglio 2021 Di fronte alle piazze anarcoidi e destrorse che urlano a vanvera “libertà”, le parole pronunciate da Mario Draghi dopo l’ultimo Consiglio dei ministri segnano un confine etico, politico, democratico del nostro tempo. Dire “chi invita a non vaccinarsi invita a morire” non è solo una messa in mora per chi, come Matteo Salvini, ha finora beatamente flirtato con il mondo no-vax. È anche una scossa alle coscienze di chi, per incompetenza o per diffidenza, ha ascoltato il canto delle sirene complottiste e ha preferito rifugiarsi nel limbo agnostico dell’attesa. Il premier inchioda i partiti alle loro responsabilità. E chiama gli italiani a una scelta di campo. Dopo un anno e mezzo di battaglia contro il virus dovremmo averlo capito: il vaccino è vita, il non-vaccino è morte. Fisica, civica, economica. Per questo la stagione degli opportunismi elettorali e degli equilibrismi lessicali è finita. O si sta di qua, o si sta di là. O si sta con quelle piazze, o si condannano senza appello. L’operazione-verità dà qualche frutto. Ma non è abbastanza. Sul fronte politico si registra un’evoluzione. Le due destre, che cercano consensi danzando sotto il vulcano della pandemia, si avvicinano a Canossa. Salvini fa la prima dose, sia pure “auto-certificandosi” con un Qr-Code mentre beve un cappuccino. Meloni annuncia che la farà, sia pure tuonando contro il “terrore draghiano”. Sul fronte sociale si nota una polarizzazione. Da una parte c’è una spinta a vaccinarsi in una maggioranza silenziosa di indecisi, che adesso è finalmente in coda davanti agli hub. Dall’altra c’è una spinta a mobilitarsi in una minoranza rumorosa di irriducibili, che torna a berciare pericolosamente nelle piazze da Torino a Palermo. Sappiamo bene quale delle due spinte sia più propulsiva: la prima può far ripartire il Paese, la seconda lo può affossare. In ogni senso. Lo prova il nuovo leader dei ribelli Ugo Mattei, intellettuale della Rive Gauche, già allievo di Rodotà e amico di Zagrebelski, che oggi pontifica contro la “dittatura sanitaria” insieme ai capetti neofascisti di Forza Nuova come ieri “Nuto Revelli combatteva a fianco di Edgardo Sogno”. Icastica conferma del perfetto Teorema-Odifreddi: da “No-Vax, No-Pass, No-Mask” a “No-Brain” il passo è davvero breve. La tesi che considera l’invito a non vaccinarsi equivalente a un invito a morire non ha solo fondamento politico, ma anche scientifico. Giuseppe Remuzzi, direttore del Mario Negri, spiega che oggi esistono “due epidemie”: quella dei vaccinati che è paragonabile a un’influenza, e quella dei non vaccinati che è un’infezione potenzialmente letale. Lo dicono tutti i responsabili delle terapie intensive, dal Sacco di Milano al Weill Cornell di New York: il 97 per cento dei ricoverati per Covid non è vaccinato. Dovrebbe essere pacifico, ma non lo è ancora. Per questo serve il Green Pass obbligatorio, e per questo il nostro giornale ne sostiene la necessità senza se e senza ma. Siamo ben consapevoli delle contraddizioni con le quali ci siamo arrivati, e lo diciamo al governo con serena chiarezza. Lamentarsi ancora per gli assembramenti, dopo aver consentito alle folle entusiaste di festeggiare la vittoria degli azzurri agli Europei per le strade di Roma, è quasi grottesco. Accusare ancora le regioni che obiettano o le discoteche che protestano, dopo aver ceduto con disonore le armi dell’ordine pubblico nell’impropria “Trattativa Stato-Bonucci”, è quasi offensivo. Ma adesso dobbiamo guardare avanti. Il passaporto vaccinale ci consente di convivere con un virus mutato ma depotenziato grazie all’immunizzazione crescente della popolazione, e di vivere in più sicurezza la nostra vita di sempre, fatta di socializzazione e di scambio. Al bar o al ristorante, al cinema o a teatro, in piscina o in palestra. Persino in ufficio o in fabbrica (l’idea di un Pass per accedere anche ai luoghi di lavoro, sia pure mal veicolata da Confindustria, è tutt’altro che insensata). È davvero ora di sfatare il luogo comune sul quale riposa la becera propaganda dei #No-Paura-Day e la truce narrazione politica che la cavalca. Per me non ci sarebbe nulla di scandaloso se il vaccino anti-Covid fosse obbligatorio per tutti: in Italia non ne abbiamo già dodici? Ma qui nessuno “insegue i ragazzi con la siringa in mano” né cuce la stella di David sulla giacca dei renitenti. Al contrario. Qui si fa fatica a imporre l’obbligo persino ai medici e agli insegnanti (questo sì, uno scandalo insopportabile). E ora, proprio per non imporre altri obblighi vaccinali, l’Italia sceglie il modello francese. E fa bene, perché il Green Pass non viola alcuna libertà: semmai la protegge. Certifica il mio status: sono immune perché vaccinato. Dunque mi garantisce di fruire pienamente della mia libertà, senza minacciare la salute degli altri. Anche chi rifiuta l’obbligo esercita ugualmente il suo diritto alla libertà: rifiuta vaccino e Green Pass. Ma in questo modo sceglie legittimamente uno status diverso dal mio, dal quale derivano però alcune ovvie limitazioni. Banalizzando: è la stessa logica della patente di guida. Puoi scegliere liberamente di non prenderla. Ma se non la prendi, non puoi guidare una macchina. Scegli il tuo status, ne accetti le conseguenze. Semplice, lineare. C’è qualcuno che grida alla “dittatura automobilistica”, per questo? Non risulta. La stessa risposta si può dare a chi boccia il Green Pass perché considera impossibile fare i controlli. Abbiamo forse la certezza che tutti gli automobilisti che circolano sulle nostre strade posseggano effettivamente la patente? No, non ce l’abbiamo. Eppure nessuno si sogna di dire che se non li controlliamo uno per uno allora tanto vale abolire la patente. Il patto che lo Stato sottoscrive con i cittadini, e che i cittadini sottoscrivono tra loro, si basa sulla fiducia reciproca. Che può essere tradita, ma resta l’essenza di ogni sistema democratico. Anche per questo la battaglia sul Green Pass dice molto di noi e della condizione del Paese. Come scrive Donatella Di Cesare, e come dimostra la grancassa No-Pass dell’estrema destra, ormai si profila una divaricazione sempre più netta tra una politica della responsabilità, che ha a cuore la democrazia e perciò è in grado di parlare di “obbligo”, e una politica che, scherzando col fuoco del “liberi tutti” e avallando l’ideologia dell’Ego Sovrano, ha evidentemente mire sfasciste. Di fronte a un agente patogeno che non arretra, a un indice di trasmissibilità che sale ai livelli di cinque mesi fa, non possono esserci esitazioni. Per ragioni sanitarie, ma anche finanziarie. L’Economist avverte che la Variante Delta è la vera minaccia per la ripresa americana, molto più dell’inflazione al 5,4 per cento. Il Financial Times segnala i pericoli di una “Whiplash Economy” nei Paesi Ocse: più accelera la Variante Delta, più rallenta il tasso di crescita. Le Monde indica la Variante Delta come fattore di incertezza che costringerà gli Stati a regimi economici da “Long Covid”. In questo scenario critico, quello che dobbiamo temere è il lockdown, non il Green Pass. Per questo gli sgangherati “libertadores” che strillano nelle piazze italiane sbagliano Tiranno. Loro lo fanno per ignoranza. Chi li istiga per un pugno di voti lo fa per calcolo. Difficile dire quale sia il male peggiore. Scuola. L’ideologia è il nodo da tagliare di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 25 luglio 2021 Serve una svolta culturale che colpisca la prima responsabile della crisi in cui la scuola è sprofondata. Una delle principali cause della decadenza italiana è stata la catastrofe educativa che ha colpito il Paese da almeno una trentina d’anni. Una catastrofe che ha disarticolato l’istituzione scolastica, producendo generazioni sempre meno preparate. Figuriamoci dunque se non sono d’accordo con quanto ha scritto Angelo Panebianco (Corriere del 20 luglio) invocando un sussulto di consapevolezza da parte della classe dirigente e un intervento del governo. Che dovrebbero essere entrambi mirati - egli scrive - a sottolineare l’importanza dell’istruzione ma soprattutto a mandare un segnale agli insegnanti. Un forte segnale di apprezzamento circa l’importanza pubblica della loro funzione insieme a un miglioramento della condizione economica del corpo docente e alla decisione, al tempo stesso, anche di rompere l’attuale uniformità retributiva che mortifica i migliori e ne spegne ogni energia. Ripeto: magari accadesse qualcuna di queste cose. Ma visto che a farle accadere, come scrive anche Panebianco, dovrebbe pensarci una classe dirigente, mi chiedo: ma se una tale classe dirigente davvero esistesse come mai essa ha lasciato che si producesse la catastrofe di cui sopra? La verità - che tutti rimuoviamo - è che da decenni l’Italia è un Paese privo di una classe dirigente ed è perciò che l ‘istruzione si trova nelle condizioni in cui si trova. Il ceto politico - ormai sempre più giovane - è in buona parte il frutto esso per primo del crollo educativo di cui stiamo parlando. Non a caso da almeno dieci anni in Parlamento nessuno ha fatto una proposta circa che cosa debba essere la scuola, i suoi contenuti, le sue modalità; nessuno è mai intervenuto a discuterne davvero i risultati. L’amministrazione pubblica, dal canto suo, impoverita di competenze e di competenti, nel campo dell’istruzione è stata solo la fautrice di ogni conformismo didattico e di tutte le iniziative scervellate dei vari ministri (ad esempio quella di cambiare ogni anno le modalità degli esami di licenza). Il ceto industriale, infine, tranne singoli casi che non contano, in questo come in mille altri campi non è mai stato capace di guardare al di là del proprio immediato interesse. Ai suoi occhi la scuola migliore è sempre stata quella capace di sfornare gli operai e i tecnici di cui aveva bisogno. Il resto non gli è mai interessato. Questa è nella realtà il modo in cui la classe dirigente italiana ha gestito l’istruzione del Paese. Certo, Mario Draghi è un’altra cosa, ma possiamo andare avanti facendo affidamento per qualsiasi questione sullo “zar buono”? Tanto più che nel campo della scuola quello che serve non è questo o quel provvedimento - neppure quelli ottimi indicati da Panebianco - ma una cosa completamente diversa e ben più complicata. Quel che serve è una svolta culturale che colpisca alla radice l’ideologia che è stata la prima responsabile della crisi in cui la scuola è sprofondata. Tutto ebbe inizio negli anni 60 dal proposito sacrosanto di cancellare le chiusure e i privilegi classisti di cui era imbevuto l’ordinamento scolastico tradizionale. Ma rapidamente tale proposito - per effetto dell’estremismo dei tempi e delle parti politiche che gli davano voce - si è tradotto (e corrotto) in due idee rivelatisi micidiali. La prima è stata l’idea che il classismo della scuola consistesse essenzialmente nei suoi contenuti e nei relativi modi di insegnamento e di apprendimento. Cioè nella cosiddetta cultura “borghese” e nel “nozionismo”, e dunque che, modificati o aboliti l’una o l’altra, cancellati il latino, il riassunto e le poesie “a memoria”, sarebbe stata possibile un’istruzione nuova finalmente per tutti. La seconda idea sconsiderata è consistita nel credere che l’espressione di un tale rinnovato modello d’istruzione non classista dovesse essere non già una scuola in grado di annullare gli svantaggi di partenza di molti suoi allievi com’era giusto e sacrosanto. Bensì una scuola programmaticamente “inclusiva”, cioè subordinata all’obiettivo prioritario di garantire in linea di principio il “successo formativo” di tutti i suoi allievi. Una formula suggestiva che tradotta in pratica ha finito per significare però una cosa sola: l’ovvia, benché naturalmente mai esplicita, delegittimazione di qualsiasi selezione e dei suoi strumenti. Peccato che una volta fissati questi principi, nessuno seppe poi dire quale altra cultura diversa da quella “borghese” dovesse insegnarsi e attraverso quale altro modo se non articolandola comunque in “nozioni”. Così come nessuno trovò mai il coraggio di dire che al pari di qualsiasi impresa umana anche la riuscita di un impegno educativo e del relativo apprendimento può essere misurata dal più al meno: e caso mai trovata insufficiente. In mancanza di che il senso stesso di quell’impegno svanisce e con esso pure il significato ultimo della scuola. Idee sbagliate e mancate risposte hanno aperto un drammatico vuoto d’identità nel sistema scolastico: puntualmente assecondato peraltro dalla miope volontà delle famiglie, nella maggioranza dei casi desiderose solo di avere qualcuno cui affidare per qualche ora al giorno i propri figli e di vederli promossi alla fine dell’anno. Si è avviata così una trasformazione decisiva: la funzione socialmente democratica della scuola - che consiste per l’appunto nell’istruzione obbligatoria e di qualità e nell’individuazione dei “capaci e meritevoli” attraverso l’insegnamento dei contenuti delle diverse discipline - questa funzione socialmente democratica della scuola è stata progressivamente soppiantata da una funzione ideologicamente democratica. Da molti anni pertanto la scuola sembra esistere esclusivamente per essere non solo l’ambito delle più svariate iniziative ispirate al politicamente corretto (insegnamento della Costituzione, “nave della legalità” e quant’altro fino alla recente proposta dell’onorevole Zan di far celebrare annualmente in ogni istituto una sorta di “gay pride” in formato scolastico) ma il terreno di applicazione di una serie continua di prescrizioni innovative - didattiche, pedagogiche, psicologiche, tecnologiche - che proprio per questo loro carattere, per il loro modernismo esibito, per il loro essere contro il “vecchio”, contro “ciò che si è fatto finora”, sono presentate come un frutto felice del progresso dei tempi, positive, “buone”, magari prescritte dall’”Europa” e dunque per ciò stesso inevitabilmente “democratiche” Sia chiaro: non si tratta di opporre al nuovo un assurdo passatismo. Ma di capire che queste novità - in parte anche positive se inserite in un’istituzione scolastica solidamente orientata alla propria antica vocazione educativa - hanno invece avuto e continuano ad avere un effetto solo distruttivo, definitivamente distruttivo, su una scuola da decenni bersaglio di un’ideologia che ha mirato a delegittimarla proprio in tale vocazione. È dunque tale ideologia, ostile agli insegnamenti disciplinari, all’accertamento del merito, alla selezione, che prima di ogni altra cosa il Paese deve spazzare via se vuole avere una scuola finalmente capace di accompagnarlo sulla strada della sua rinascita. Pegasus e non solo, come funziona il mercato dei virus che spiano e intercettano di Federico Marconi Il Domani, 25 luglio 2021 Presidenti, uomini delle istituzioni, politici, oppositori, giornalisti, dirigenti d’azienda. Lo spyware Pegasus ha infettato i cellulari e raccolto informazioni di circa un migliaio di persone in giro per il mondo. Tra questi anche il presidente francese Emmanuel Macron e l’ex presidente del Consiglio italiano Romano Prodi, spiati dal Marocco. È la drammatica realtà che sta venendo a galla grazie al lavoro giornalistico di 17 testate internazionali - tra cui Guardian, Washington Post, Le Monde - che stanno collaborando al “Pegasus Project”, grazie ai dati messi a disposizione da Amnesty International e Forbidden Stories. Quello che sta emergendo però “è solo la punta dell’iceberg: Pegasus è un programma vecchio di dieci anni fa, l’ho utilizzato, ora siamo molto più avanti”, come racconta a Domani un programmatore informatico di fama internazionale, che (“per ovvie ragioni”, ci dice) preferisce rimanere anonimo. Per chi lavora nel mondo dello spionaggio digitale, Pegasus è un sistema che ha già fatto il suo tempo: “Tra l’altro è semplicissimo da utilizzare, l’interfaccia è adatta anche a chi ha poca competenza. Credo fosse vendutissimo anche per questo”. Oggi circolano da tempo sistemi molto più evoluti, che spesso non hanno bisogno nemmeno di una persona che stia dietro un computer a digitare e controllare lo spyware, ma che fanno tutto da soli grazie all’intelligenza artificiale e al machine learning, l’apprendimento automatico del software. “Bisogna ricordarsi inoltre che più un programma di questo tipo è conosciuto, meno è potente: le applicazioni più moderne, molto più efficaci di Pegasus per introdursi negli apparecchi digitali che si vogliono spiare, sono avvolte da segretezza assoluta. Il problema è che molti servizi di sicurezza dei paesi occidentali non sanno nemmeno della loro esistenza”, spiega il programmatore. Proteggersi da questo tipo di intrusione è quasi impossibile. “Ci sarebbe bisogno che nessuno conoscesse il tuo numero di telefono, che al giorno d’oggi è infattibile: in un modo o nell’altro è possibile trovarlo, e anche molto facilmente”, dice il tecnico. Per questo motivo anche i più importanti rappresentanti delle istituzioni - come Macron e Prodi, appunto - diventano facili bersagli. I loro dispositivi però potrebbero essere protetti: “Esistono delle applicazioni che permettono di conoscere in tempo reale se su un dispositivo avvengono delle operazioni anomale, sintomo di un’intrusione, ma sono molto costose”. Sul mercato, ci racconta il programmatore, si trovano per cifre che vanno dai 400mila ai 5 milioni di euro. Non proprio alla portata delle tasche di un semplice cittadino. Per entrare dentro uno smartphone serve conoscere i punti deboli del suo sistema operativo e un codice che permetta di sfruttarle. Ci sono società, attive soprattutto negli Emirati Arabi, che si occupano solo di questo e le rivendono a clienti selezionati, ma anche sui mercati online del dark web, disponibili a tutti, sempre che poi si sia in grado di utilizzarle. Il costo varia dal tipo di falla. Le più care sono le “zero day”, una vulnerabilità del sistema operativo appena scovata, non conosciuta nemmeno dai programmatori che l’hanno creato. In questo caso il codice può essere utilizzato fino a che l’errore nel sistema non viene riparato. “Una volta comprati, questi codici vanno “armati”, gli va detto cosa devono fare: è come se un ladro comprasse la chiave di un appartamento da svaligiare, poi può decidere cosa, come e quanto rubare”, spiega l’hacker. Lo spione quindi può sviluppare un programma, con un’interfaccia, che può vendere o utilizzare in prima persona. Lo spyware poi può essere più o meno caro anche per altre caratteristiche. Può essere “zero click”: significa che sfruttai “buchi” del sistema operativo senza che lo spiato debba cliccare su messaggi o link fasulli. Questo è il caso degli “one click”, come il trojan che ha infettato il cellulare del magistrato Luca Palamara: il programma spia entra nel dispositivo solo dopo un intervento attivo di chi subisce l’intrusione. C’è poi la persistenza dello spyware: se questo rimane nel dispositivo sempre, anche dopo il suo spegnimento, o se in questo caso si disattiva. Ci sono molte società che le comprano, per poi rivenderle. Il costo varia per il tipo di sistema operativo, o di programma: il listino prezzi ha dei costi stellari. Da quanto ha potuto verificare Domani, un codice per uno “one click” per i sistemi operativi Windows costa 500mila euro. Lo stesso, per iOS di Apple ha un prezzo che oscilla tra 1,5 e 2 milioni di euro, ma per uno “zero click” si può arrivare fino a 5 milioni. Per Android non esiste invece un codice universale, ma se esistesse forse potrebbe venire pagato oltre i 10 milioni di euro. Esistono però dei codici per le varie versioni, con un prezzo sul mercato che varia dai 300mila a 1,5 milioni di euro. “Chi trova questi codici e chi crea i programmi per utilizzarli è sempre un passo avanti a chi cerca un modo per difendersi”, continua il programmatore. “Chiunque utilizzi qualsiasi tipo di dispositivo elettronico, oggi è un possibile target: i dati rubati possono essere utilizzati in tantissimi modi. Anche quelli delle persone comuni, non solo quelli dei Macron o dei Prodi”. Gli spyware non sono utilizzati solo da chi vuole carpire illegalmente informazioni riservate, avere accesso a chat, telefonate, immagini, localizzazione, di persone da sfruttare per trarne un qualche profitto. In Italia questi software sono utilizzati anche dalle procure e dagli investigatori nel corso delle indagini contro presunti mafiosi o corrotti. Il caso più celebre degli ultimi tempi è quello del pm ed ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara, che proprio ieri è stato rinviato a giudizio con l’accusa di corruzione dai giudici del tribunale di Perugia. Sul cellulare del magistrato, nel maggio del 2019, è stato installato un trojan “one click”: aveva aperto e cliccato su un falso link inviatogli dal suo operatore telefonico. Da quel momento, gli investigatori hanno avuto accesso a tutte le informazioni presenti sul suo smartphone: messaggi e chat di WhatsApp che hanno fatto e stanno ancora facendo tremare la magistratura italiana. Un altro caso degli ultimi anni è quello dei fratelli Giulio e Francesca Occhionero: sono stati condannati in primo grado nel 2018 a 5 e 4 anni di reclusione per aver avuto accesso a 3,5 milioni di mail di oltre 6mila persone. I due fratelli avevano preso di mira i computer di Camera e Senato, dei ministeri degli Esteri e della Giustizia, del Partito democratico, di Finmeccanica e Bankitalia. Inoltre avrebbero tentato di avere accesso alle e-mail dell’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, del suo predecessore Mario Monti, e di quello attuale - a quei tempi numero uno della Banca centrale europea - Mario Draghi. Il virus che hanno utilizzato permetteva di colpire i computer attraverso un messaggio e-mail, che poi immagazzinava le informazioni rubate in un server negli Stati Uniti. Nessuno è al sicuro. Migranti. Per la prima volta Frontex alla sbarra della Corte Ue dei Diritti dell’Uomo di Dimitri Deliolanes Il Manifesto, 25 luglio 2021 L’imputazione è grave: sul confine marittimo tra Grecia e Turchia l’organismo europeo avrebbe tradito la sua missione: salvaguardare il rispetto dei “principi europei” verso i richiedenti asilo. Per la prima volta nei 17 anni d’esistenza Frontex è imputato di fronte alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. L’imputazione è grave: sul confine marittimo tra Grecia e Turchia l’organismo europeo avrebbe tradito la sua missione: salvaguardare il rispetto dei “principi europei” verso i richiedenti asilo. Il ricorso alla Corte è stato promosso da una Ong olandese incollaborazione con l’Osservatorio Greco sugli Accordi di Helsinki e due gruppi europei di sostegno legale. Il ricorso avviene per conto degli accusatori: un minore non accompagnato e di una donna. Accusano Frontex di maltrattamenti e di respingimenti anche violenti verso la Turchia. Secondo la loro versione, i due ricorrenti erano riusciti a sbarcare più volte a Lesbos, dove erano entrati in contatto con esponenti delle strutture di solidarietà ed avevano presentato domanda di asilo. Prima ancora che la domanda fosse presa in considerazione, le forze di polizia avevano segregato loro ed altri richiedenti asilo in luoghi di detenzione, li avevano maltrattati e derubati ed alla fine, di fronte ai funzionari di Frontex, costretti a inbarcarsi su zattere trascinate verso le acque turche e lasciate là in balia delle correnti, senza cibo e senza acqua. È dal marzo del 2020 che il governo conservatore greco ha adottato verso i barconi provenienti dalle coste turche la strategia dei respingimenti, secondo l’accusa seguita anche da Frontex. Atene ha collegato i respingimenti con la provocazione intentata pochi giorni prima da Erdogan a Evros, il confine terrestre con la Grecia, dove più di 150 mila profughi e migranti si erano scontrati con polizia ed esercito greco per circa un mese. Da allora il fronte si è spostato nelle isole dell’Egeo: i pattugliatori della Guardia Costiera turca spesso accompagnano i barconi nelle acque territoriali greche e quelli greci cercano di bloccarli e di rimandali in Turchia. In questa situazione di grande rischio per i migranti ci sono state numerose denunce sulla partecipazione di Frontex alle operazioni di respingimento della Guardia Costiera e della polizia greca nelle isole dell’Egeo, che spesso si traducono in tragedie: l’ultimo naufragio è di giugno, con 11 morti. Il respingimento dei richiedenti asilo viene applicato dai poliziotti quasi automaticamente. A fine giugno due donne kurde, dirigenti del partito turco della sinistra Hdp, hanno attraversato il confine di Evros ed hanno subito chiesto asilo. Ma la polizia greca le ha consegnate alle autorità turche. La storia, tenuta nascosta, è stata resa nota dai rifugiati kurdi in Grecia. Di recente anche l’Eruroparlamento è arrivato alla conclusione che Frontex dovrebbe prendere in esame l’eventualità di sospendere le sue attività oppure di ritirarsi dal territorio greco. Frontex ora è accusata di essere venuta meno ai suoi doveri. Di difendere le leggi e le regole Ue, di impedire cioè alle autorità locali di comportarsi illegalmente. Per due esponenti dell’Osservatori Greco il ricorso alla Corte Europea è avvenuto poiché “la Grecia ha già dimostrato di non essere uno stato di diritto”. “Rivediamo i sistemi alimentari e sconfiggiamo la fame nel mondo” di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 25 luglio 2021 Alla vigilia del prevertice delle Nazioni Unite di lunedì parla Agnes Kalibata, inviata speciale del segretario generale dell’Onu: “Questa è un’occasione unica”. “Con la pandemia il problema della fame nel mondo si è acuito grandemente ma non per questo dobbiamo arrenderci, anzi. Se pensiamo ai bambini e alle donne malnutriti non dobbiamo chiederci se l’obiettivo di mettere fine alla fame nel mondo entro il 2030 è raggiungibile, dobbiamo farlo e basta”. Agnes Kalibata, inviata speciale del segretario generale dell’Onu, non ha dubbi: il prevertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari che comincerà domani a Roma e il summit vero e proprio che seguirà a New York a settembre sono “un’occasione che nella vita capita solo una volta”. “Stiamo mettendo in moto - spiega - un meccanismo per aiutare i Paesi a guardare ai loro sistemi alimentari, a quello che sta funzionando e a quello che va cambiato”. Nella capitale italiana saranno messe sul tavolo duemila proposte arrivate da 400 gruppi di agricoltori, produttori e associazioni. Nata in Rwanda da piccoli agricoltori che dovettero lasciare la loro terra durante la lotta per l’indipendenza del Paese nei primi anni 60 Kalibata è cresciuta in un campo profughi in Uganda dove i suoi genitori coltivavano fagioli e allevavano mucche. Dal 2008 al 2014 è stata ministra dell’agricoltura in Rwanda ed è la presidente della Alleanza per una rivoluzione verde in Africa (Agra), un’organizzazione che ha abbracciato la tecnologia e l’innovazione nella costruzione della produzione agricola e della sicurezza alimentare nel continente. Quali sono le sue aspettative sul prevertice di domani? “Spero che i Paesi arrivino con le idee chiare su come vogliono cambiare i loro sistemi alimentari e che formino delle coalizioni tra di loro per affrontare le varie sfide. Abbiamo lavorato 18 mesi per arrivare qui, coinvolgendo migliaia di giovani agricoltori, politici, scienziati”. Pensando alle alluvioni che abbiamo appena visto in Germania quanto pensa che il nostro sistema alimentare pesi sul cambiamento climatico? “C’è un’ovvia connessione tra il cambiamento climatico e la produzione di cibo, pensiamo che il 53% dei gas serra provengono dal modo in cui produciamo il cibo ma l’agricoltura è anche vittima dell’inquinamento e del cambiamento climatico. Pensiamo soltanto all’effetto della siccità e delle alluvioni sui raccolti”. A gennaio lei ha scritto una lettera a tutti i membri delle Nazioni Unite invitandoli a riflettere su cos’è il sistema alimentare. Ci può spiegare meglio? “È molto semplice. Noi non dobbiamo più pensare al cibo come a una forma di sostentamento ma come a un cerchio che produce anche lavoro e crescita economica. Dobbiamo pensare a un sistema che possa funzionare, sfamare tutti, salvare l’ambiente e la diversità. Questo è quello che c’è in gioco”. Il Covid-19 ha peggiorato grandemente la situazione alimentare rendendo l’obiettivo di sconfiggere la fame nel mondo entro il 2030 ancora più difficile da raggiungere. “In questo senso la pandemia va considerata come un’opportunità per costruire qualcosa di migliore. È un’opportunità che arriva solo una volta nella vita. Abbiamo visto che il sistema alimentare non è in grado di reggere sotto pressione ma la fame nel mondo c’era anche prima, non l’ha creata la pandemia. Ovviamente non c’è una soluzione unica per tutti, l’importante è mettere tutti in connessione, globalmente dobbiamo creare una coscienza poi deve agire ogni Paese”. A questo proposito ogni Paese ha la sua cultura alimentare, come è possibile elaborare delle indicazioni che valgano per tutti? Non pensa che sia importante diversificare? “Ma certo i sistemi alimentari sono locali, ogni Paese deve definire come vuole cambiarli e si deve prendere la responsabilità di controllare che il sistema funzioni. Per questo ho insistito per coinvolgere i piccoli agricoltori e le comunità indigene che producono il 6-80 per centro del cibo nel mondo. L’iniziativa delle Nazioni Unite ha rilasciato 58 potenziali percorsi per affrontare gli obiettivi di sostenibilità. I gruppi, che sono stati sviluppati attraverso un processo che includeva forum pubblici e consultazioni online, includono l’idea di garantire che i piccoli agricoltori abbiano “accesso alla tecnologia agricola, input e finanziamenti … fornendo così un percorso conveniente e scalabile per aumentare la produttività agricola, oltre la semplice agricoltura di sussistenza”. Per fare una rivoluzione ci vogliono i fondi. Come verrà finanziata questa trasformazione dei sistemi alimentari? “Ovviamente serviranno degli investimenti sia pubblici che privati. Uno strumento cui penso è quello dei future bonds, molto usati nei Paesi occidentali. Questo sarà uno degli argomenti fondamentali del summit”. Entro la fine del 21mo secolo, si prevede che la popolazione mondiale raggiungerà gli 11 miliardi. A livello globale, nel 2018 una persona su tre era malnutrita, nel 2030 potrebbe essere una su due. È una corsa contro il tempo. “È un motivo in più per agire subito se non facciamo nulla peggiorerà ancora di più, questo è un problema globale. È un’opportunità che arriva solo una volta nella vita. Il numero di persone che non riesce a nutrirsi sale. nel 2021 sono stati 811 milioni”. Qual è l’importanza della tecnologia nella trasformazione dei sistemi alimentari? L’agricoltura industriale viene criticata perché ignora quella ecologica, i cibi organici e le conoscenze indigene. C’è chi teme che il summit vada in una sola direzione. Lei cosa risponde? “Non abbiamo proposto una soluzione unica, sul campo ci sono 2500 idee diverse. Noi vogliamo dare alle persone la capacità di capire il problema e la possibilità di cambiarlo. Lo scopo è mettere tutti in connessione, creare una coscienza globale e poi lasciare che ogni Paese agisca”. La strage di Utoya è stata l’avvio simbolico del suprematismo europeo di Donatella Di Cesare L’Espresso, 25 luglio 2021 L’eccidio norvegese, il 22 luglio 2011, non fu il gesto isolato di un folle nazista. Breivik è sotto ogni aspetto l’esponente della Nuova Destra che va affermandosi sempre più, dall’Ungheria all’Olanda, dall’Italia alla Repubblica Ceca. I sopravvissuti ne ricordano ancora l’orgiastica danza di annientamento. Il crepitio dell’arma automatica seguiva il ritmo trionfante di mani e occhi. Nessuno doveva sfuggire. Raffiche contro ogni singhiozzo, scariche di mitra contro ogni respiro trattenuto. Annusava ovunque le tracce delle sue vittime: nel fruscio delle foglie, nell’acqua che si muoveva tingendosi di sangue. E sparava concentrato, mentre il sorriso suggellava la furia omicida. Fiero della violenza compiuta, si è consegnato alla fine spontaneamente. Più crudele è l’esecuzione e più potente è la maestà politica. Così anche in tribunale, mano tesa, riso spudorato e proclami minacciosi, questo gelido massacratore ha potuto autocelebrarsi come il sovrano dell’orrore. Anders Behring Breivik, l’assassino di Utøya, che per anni ha pianificato minuziosamente la strage, è stato riconosciuto “sano di mente e penalmente responsabile”. Non è un folle, né uno psicopatico. E ogni aggettivo analogo, che lo escluda dalla ragione e dalla storia, rischia di ostacolare la riflessione su un atto efferato che investe il nostro presente. Anche l’etichetta “terrorista” è qui, più che mai, un termine vuoto. Sebbene abbia guardato agli attentati compiuti da islamisti e jihadisti, Breivik non ha ucciso a caso. Ha scelto, anzi, con precisione le sue vittime, ragazze e ragazzi appartenenti all’Auf, l’organizzazione giovanile del Partito laburista norvegese. Erano insieme, in quel campo estivo sull’isola, per confrontarsi sulle proprie esperienze e progettare una coabitazione nel segno dell’ospitalità. Le pareti della caffetteria e dei dormitori erano costellate di manifesti e scritte sui confini aperti e l’accoglienza. “Morite marxisti!”, così suonava la condanna, mentre venivano freddati con un colpo alla testa. Con l’oculatezza ossessiva del complottista Breivik ha cercato i colpevoli da punire nei suoi attentati di Oslo e Utøya: non i nemici potenziali, gli immigrati, i musulmani, bensì i sottomessi, i buonisti, i traditori della patria, quelli che per stoltezza o tornaconto aprono le porte all’invasione. Sono i socialdemocratici, i “multiculturalisti”, gli “immigrazionisti”, i “marxisti culturali”, i libertari di sinistra, quelli che mirano a cancellare genere e sesso, che vogliono pregiudicare l’identità. Meritano di morire. Ecco la nuova guerra civile tra “bianchi” che si profila nel cuore dell’Europa. Breivik non è un lupo solitario né un mostro isolato. E non è neppure semplicemente un “neonazista”, se con questo s’intende la mera espressione di un passato che riaffiora e che, seppure inquietante, resta passato. Le cose stanno ben diversamente. Breivik è sotto ogni aspetto l’esponente della Nuova Destra che va affermandosi sempre più nei paesi europei, dall’Ungheria all’Olanda, dall’Italia alla Repubblica Ceca. Di qui il valore emblematico della strage di Utøya, che politicamente non chiude una stagione, ma ne apre piuttosto una nuova. Sarebbe perciò miope non considerarla come l’inaugurazione simbolica del nuovo suprematismo europeo. È in quel frangente drammatico che la questione viene infatti alla luce in tutta la sua complessità e la sua virulenza. La Norvegia da cui viene Breivik è la democrazia aperta e tollerante della parità di genere e della coscienza ecologica. Come spiegare quel massacro? L’interrogativo resta insieme al trauma profondo. Perché l’assassino non è, come si usa dire, un “quisling”, un collaboratore di Hitler, come lo fu Vidkun Quisling, capo di un governo fantoccio durante l’invasione tedesca. Figlio di un’infermiera e di un’economista, Breivik è il portato di un’educazione che lui, con toni di rimprovero, ha definito “superliberale”, cioè troppo permissiva, priva di disciplina, eccessivamente femminista, in grado di effeminarlo e di corromperne l’identità. È la Norvegia che, povera e ripiegata per secoli su se stessa, è divenuta d’un tratto il secondo paese più ricco del mondo grazie al petrolio e al gas. Un cambiamento per alcuni troppo rapido. Perché dover condividere benessere e stato sociale con i rifugiati, per di più islamici? E la “purezza” di un tempo? Il volto umanitario e benevolo ha celato e cela il fastidio verso l’altro, il microrazzismo, la politica del respingimento. Breivik è figlio di tutto ciò. Basta con la “decostruzione della cultura norvegese”. Questo è il tenore del suo memoriale “2083: Una dichiarazione europea d’indipendenza”, 1508 pagine che, pur tra proclami rabbiosi e continui copia e incolla, rendono bene quella posizione politica. Il 2083, il 400° anniversario della battaglia di Vienna del 1683, quando un’alleanza cristiana respinse l’assedio turco, sarà l’anno della sconfitta definitiva dell’immigrazionismo globalista. Breivik si erge a cavaliere templare, paladino dell’Occidente puro, nemico dell’Eurabia, amico dei “cristiani sionisti”, quegli evangelici neocon, ala oltranzista dei repubblicani. Ma questo è il cristianesimo dimentico di sé e delle sue origini, mescolato a miti pagani e fondato sul rifiuto dell’altro. Così può essere riutilizzato da quella “destra degli dei” che, tra Alain de Benoist e Renaud Camus, rilancia oggi la rivoluzione conservatrice. La democrazia deve essere una etnocrazia, dove il popolo custodisce se stesso. Non si tratta di immaginarsi “al di sopra” degli altri, come facevano i nazisti, bensì di non volersi mescolare e contaminare. L’invasione tacita dell’Europa è già in atto, avallata dai globalisti, perpetrata dalle Ong. Il blocco identitario deve combattere. Il fronte è ampio e Breivik stesso menziona gli schieramenti politici, compresi quelli italiani che, a partire dalla Lega per arrivare a CasaPound, sono un modello. Certo, essere identitari e sovranisti non vuol dire innescare attentati come quello di Utøya. Ma proprio di questo si discute oggi in Europa: quanto Breivik non sia l’effetto parossistico, eppure immediato, di quella visione politica che ormai appare più diffusa e radicata della vecchia socialdemocrazia. Il signore della bancarotta che ha guidato il sacco del Libano di Vincenzo Nigro La Repubblica, 25 luglio 2021 Il governatore Riad Salameh ha distribuito per anni soldi a tutte le fazioni in lotta. Ora è sotto inchiesta mentre il Paese affonda nella crisi economica. Il Libano non è soltanto una storia di politica e di milizie, di geopolitica e di scontro fra religioni. Il Libano è soprattutto una storia di mafie. E di soldi. Di miliardi e miliardi di dollari. E allora bisogna seguire i soldi per arrivare a capire - forse - qualcosa. E come in tutte le storie di mafia c’è un uomo, il “ragioniere”, che ha gestito i conti delle mafie. Un uomo che per anni ha distribuito miliardi a tutti, sunniti, cristiani, sciiti, drusi, armeni, alawiti. E molti milioni li ha dirottati nelle casse della sua famiglia. Quest’uomo si chiama Riad Salameh, 71 anni, è il governatore della Banca centrale del Libano. Un cristiano, perché nella spartizione settaria delle cariche di governo nel Libano quel posto spetta ai cristiani. Lo ha nominato nel 1993 il sunnita Rafiq Hariri, il padre del premier incaricato Saad che si è appena dimesso. Salameh era il capo di Merrill Lynch in Libano, il banchiere che gestiva gli investimenti di Hariri padre, ucciso nel 2005 in un attentato attribuito ad Hezbollah. Da quasi 30 anni guida la cassaforte del Paese, da sempre quindi ha gestito i soldi che ha distribuito in mille modi a tutti i partiti del Libano. Salvo che ad Hezbollah, che però si finanzia con le armi e i dollari che arrivano direttamente da Teheran. Per anni Salameh è stato celebrato come un elemento di stabilità decisiva in Libano, “a source of stability” scrivevano i giornali americani. Era il salvatore. L’uomo che mentre i partiti settari erano sempre a un passo dallo scontro armato, provava a far girare i conti dello Stato. Ancora nell’autunno 2019, mentre a Beirut le banche bloccavano i conti dei cittadini (che quindi iniziavano ad assaltare le banche), lui offriva una festa ai banchieri mondiali, alla riunione annuale del Fondo monetario a Washington, con quintali di caviale e gamberi. Dal 2019, l’anno del default del Libano, tutto è cambiato. Salameh è sotto inchiesta, in Francia e in Svizzera, e sta venendo fuori di tutto. Nell’agosto dell’anno scorso, pochi giorni dopo l’esplosione del porto di Beirut, la Ong “Organized Crime an Corruption Reporting Project” pubblicava i dati delle proprietà immobiliari accumulate all’estero dalla famiglia. Sono almeno 100 milioni in palazzi e appartamenti, in Germania e Gran Bretagna, con un appartamento da 4 milioni di dollari a Hyde Park. Quell’appartamento era stato acquistato da una compagnia fantasma registrata a Panama nel 2010, ed era diventato la residenza di un figlio del governatore, Nady. Nel gennaio del 2017 la proprietà è stata girata direttamente a Nady, e la società di Panama è stata chiusa dopo 2 mesi senza altre attività. Adesso però i giudici anti-corruzione francesi e soprattutto svizzeri stanno scoprendo altro. Innanzitutto, appartamenti anche a Parigi, uno accanto alla torre Eiffel. Ma soprattutto un altro immenso tesoro che Salameh ha accatastato facendo lavorare il fratello Raja Salameh con la Banca centrale. I giudici svizzeri hanno ricostruito tutti i passaggi che la Banca del Libano ha gestito con la “Forry Associates” di Raja, in conti che vanno dalla Svizzera a Panama. La “Forry” è una società di brokeraggio finanziario che Salameh-governatore adoperava per far gestire e vendere a Salameh-fratello i bond della Banca centrale del Libano, che prima di essere giudicata inaffidabile sui mercati mondiali ha raccolto miliardi e miliardi di fondi nelle piazze finanziarie di tutto il mondo. Una piccola percentuale sui bond, un grande tesoro per i Salameh. Un altro percorso di cui si sono accorti i procuratori svizzeri è che dei 300 milioni di dollari che hanno individuato come pagati alla Forry Associates, almeno 200 sono ritornati in Libano. Per esempio, in conti della Bankmed, che è di proprietà della famiglia Hariri. Ovvero del padre che nominò Salameh nel 1993 e del figlio che è stato premier dopo di lui, e che ancora guida i sunniti in Libano. La verità su Salameh girava da anni in Libano. Il New York Times ricorda che l’ambasciatore Usa in Libano Jeffrey Feltman, oggi inviato per il Corno d’Africa, nel 2007 in un cablo di Wikileaks descriveva Salameh come “inseguito da voci di corruzione, con una attitudine al segreto e una autonomia extralegale nelle operazioni della Banca centrale”. Chi lo attacca pubblicamente adesso è il deputato sciita Jamil al Sayyed, ex capo della Sicurezza Generale (uno dei servizi del Paese). Jamil è stato in carcere per 4 anni perché coinvolto dai giudici nell’assassinio di Hariri padre. Si è fatto il carcere in silenzio, “non adopererò mai il mio archivio”, e adesso è deputato vicino ad Amal ed Hezbollah. Di Salameh dice che “lui non è più il capo della Banca centrale, è il contabile della mafia che governa il Paese: protegge loro, e loro proteggono lui per proteggere loro stessi”. Un altro che ha il coraggio di parlare di Salameh (non essendo legato a gruppi potenti come è Al Sayyed) è il giornalista Hassan Hillaik: “Salameh è il vero potere del Libano. Tutti devono qualcosa a lui. Non possono rimuoverlo. Lui è perfino nei media, nelle televisioni, dentro la Otv del presidente Aoun, nella NbnTv dello sciita Nabih Berri. Il patriarca cristiano lo difende, perché Salameh ha tutelato gli interessi della chiesa ortodossa”. Riad Salameh, il signore della bancarotta, è ancora molto potente. Anche lui, come l’ex capo dei servizi di intelligence vicino a Hezbollah, ha un archivio sterminato. Ha pagato, comprato, investito, redistribuito a tutti. È questa la vera storia del Libano: dietro ai kalashnikov ci sono i dollari.