Le condizioni delle carceri e la civiltà di un Paese di Tito Lucrezio Rizzo L’Opinione, 24 luglio 2021 “La civiltà di un Paese è data dalle condizioni delle sue carceri” (Voltaire). Il nucleo primario di ogni sistema penale va colto in comportamenti avvertiti come forti disvalori dalla coscienza degli uomini di ogni tempo, di ogni luogo, di ogni convinzione religiosa o laica (quali, ad esempio, il ledere l’incolumità, la libertà o la proprietà dell’individuo): si tratta dunque di violazioni arrecate a dei diritti naturali. Un nucleo più ampio è costituito, con carattere mutevole, dalle norme atte a reprimere comportamenti lesivi dell’ordine sociale ed economico conseguito da una collettività in un momento storico ben determinato (per esempio, nel recente passato, in Italia era vietata l’esportazione di capitali all’estero). Ciò appare coerente con l’evoluzione delle finalità di base di un sistema che, nel XX secolo erano essenzialmente conservative, vale a dire di tutela dell’ordine morale, economico e sociale esistente; nei tempi presenti, invece, in linea con la tendenza evolutiva dell’intero assetto normativo, esse sono propulsive, poiché anche il diritto penale coopera all’ascesa sociale e civile della collettività. Dalla sintesi delle varie correnti di pensiero nacque la formula dell’articolo 27 della Costituzione, terzo comma: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, il quale ultimo valore è posposto a quello punitivo. La concezione retributiva della pena è integrata dalla prevenzione speciale che viene attuata attraverso due metodi: il sistema del “doppio binario” (presente nel codice Rocco, risalente al 1930), che dispone al fianco delle pene tradizionali fissate in relazione alla gravità del reato, delle misure di sicurezza indeterminate nel tempo, per i delinquenti ritenuti socialmente pericolosi, destinate a durare finché non muta la prognosi circa la pericolosità del soggetto. Così come la personalizzazione della pena, nel caso dei delinquenti che destano maggior allarme sociale, può avvenire tramite le richiamate misure, per converso - nel caso di soggetti che appaiano maggiormente recettivi in una prospettiva di recupero sociale - è stato inserito il principio di flessibilità delle modalità attuative della pena, che pur essendo doverosamente predeterminata, può nei casi particolari essere oggetto di una sorta di adattamento sartoriale alla personalità del singolo reo, attraverso un apposito percorso riadattativo - trattamentale. Nascono da tale esigenza le sanzioni sostitutive, che consentono di applicare misure limitative della libertà personale (libertà controllata, semidetenzione, affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà), meno costrittive della reclusione e che, non comportando un totale sradicamento, rendono più facile il riadattamento sociale del reo. Dalla stessa logica nascono gli istituti giuridici della liberazione anticipata e dei permessi premio, riconosciuti dall’ordinamento penitenziario. È a far data dagli anni ‘70 che il principio rieducativo assurgerà a valore fondante di varie riforme legislative ordinarie; mentre nella stessa Corte costituzionale si veniva affermando il riconoscimento del richiamato principio, vuoi in materia di misure di sicurezza (sentenza 167/1972), vuoi in materia di libertà condizionale (sentenza 204/1974), al qual ultimo riguardo essa statuì che “in virtù del disposto costituzionale sullo scopo della pena, sorge per il condannato il diritto al riesame della pena in corso di esecuzione, al fine di accertare se la quantità di pena espiata, abbia o meno realizzato positivamente il proprio fine rieducativo”. Dopo la nota riforma dell’ordinamento penitenziario, avviata con la Legge 354/1975, il carcere venne considerato, alla luce dell’articolo 2 della Costituzione - con un’interpretazione a nostro avviso alquanto ardita, ma significativa dell’evoluzione della dottrina e della giurisprudenza verso la preminenza delle finalità rieducative - come una “formazione sociale” dove il recluso deve poter estrinsecare la sua personalità, compatibilmente con il suo peculiare status. Negli anni 80 il giudice costituzionale attribuì al principio rieducativo il “criterio finalistico principale” anche per gli ergastolani, per cui con sentenza 274/1983 statuì che “la possibilità di ottenere una riduzione della pena (…) incentiva e stimola nel soggetto la sua attiva collaborazione all’opera di rieducazione. Finalità, questa, che il vigente ordinamento penitenziario persegue per tutti i condannati a pena detentiva, compresi gli ergastolani”. Il che, a nostro avviso, potrebbe considerarsi già esaustivo della richiesta -periodicamente ricorrente - di abolire l’ergastolo a livello legislativo: ciò potrebbe rivelarsi controproducente proprio rispetto alla finalità rieducativa, poiché l’anticipazione del fine pena in tempi più o meno ravvicinati, deve essere frutto non di un’indiscriminata - e quindi iniqua - benevolenza verso gli autori dei misfatti più gravi, ma di un premio meritato con la collaborazione operosa dei diretti interessati, a segno di quel ravvedimento in cui si sostanzia la finalità recuperativa oggetto di previsione costituzionale. Le norme cardine previste nella Costituzione italiana in specie sono gli articoli 25 e il richiamato 27. Il primo trova il suo precedente specifico nell’Illuminismo ed in particolare nel pensiero di Ludwig Feuerbach, redattore ultimo della formula sintetica nullum crimen, nulla poena sine lege. È l’articolo 25 della Costituzione, secondo e terzo comma, dunque, a sancire la riserva assoluta di legge in tema di norme incriminatrici e delle relative sanzioni “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso. Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza, se non nei casi previsti dalla legge”. Il Trattato istitutivo della Costituzione europea (2004), ha recepito l’articolo 49 della Carta europea dei Diritti, che testualmente recita: “Nessuno può essere condannato per un’azione o un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o il diritto internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al momento in cui il reato è stato commesso. Se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima. Il presente articolo non osta al giudizio e alla condanna di una persona colpevole di un’azione o di un’omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali riconosciuti da tutte le nazioni. Le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato”. Oggi le norme comunitarie direttamente applicabili prevalgono su quelle interne eventualmente con esse dissonanti, se operano in bonam partem a vantaggio del reo, mentre non possono operare contro di lui, in ossequio al più generale principio garantistico e di civiltà giuridica, noto come favor rei. Altro principio di civiltà giuridica è quello di cui all’articolo 27 della Costituzione, che testualmente dispone: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”. La richiamata previsione costituzionale della presunzione di innocenza sino ad una condanna definitiva è sempre più frequentemente disattesa, da quando la “comunicazione giudiziaria”, nata come strumento di garanzia per l’indagato, è divenuta un mezzo di gogna mediatica a suo danno. Oggi detta gogna è anticipata ed amplificata dall’abominio perpetrato a mezzo stampa e tramite strumenti di comunicazione vari, con la diffusione della notizia dello stato di “inquisito”, in cui chiunque nel corso della vita può incorrere, anche per un solo giorno, a propria insaputa. In spreto alla Costituzione, ma prima ancora alla logica, al buon senso, alla buona fede ed alla ragionevolezza, coloro che ricoprono cariche pubbliche o che comunque hanno notorietà nello sport, nello spettacolo, nella politica… possono divenire quindi prede incolpevoli della pubblica esecrazione, con la non desiderabile notorietà di titoli da prima pagina; mentre alla loro successiva accertata innocenza, non viene accordata alcuna pubblicità, salvo - nella migliore delle ipotesi -quella di un trafiletto di ultima pagina. Purtroppo il sacrosanto principio della definitività della condanna a garanzia di qualsivoglia imputato, fu stravolto con una serie di sofismi dalla Legge Severino detta “anticorruzione”, con il successivo avallo della Corte costituzionale in tema di incandidabilità dei Pubblici amministratori sottoposti a determinati processi, pur in assenza di condanna irrevocabile. La Corte aveva argomentato che la permanenza in carica di chi fosse stato condannato anche in via non definitiva per determinati reati che offendevano la Pubblica amministrazione “(poteva) comunque incidere sugli interessi costituzionali protetti dall’art. 97, secondo comma, della Costituzione, che affida al legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici in modo che siano garantiti il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione, e dall’articolo 54, secondo comma, della Costituzione, che impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche “il dovere di adempierle con disciplina ed onore”“. Sicché il bilanciamento dei valori coinvolti effettuato dal Legislatore “non si appalesa (va) irragionevole, essendo esso fondato essenzialmente sul sospetto di inquinamento o, quanto meno, di perdita dell’immagine degli apparati pubblici, che può derivare dalla permanenza in carica del consigliere eletto, che abbia riportato una condanna, anche se non definitiva, per i delitti indicati e sulla constatazione del venir meno di un requisito soggettivo essenziale per la permanenza dell’eletto nell’organo elettivo”. Non possiamo esimerci dal notare conclusivamente, che ove anche si accettasse la natura di provvedimento cautelare per quello della sospensione dalla carica di amministratore locale, permangono due macroscopici rilievi critici: 1) l’evocata indegnità morale evocata dalla Consulta, così come dal Consiglio di Stato, dovrebbe vieppiù essere ostativa per i membri del Parlamento nazionale, come di quello europeo, essendo essi latori di istanze collettive di livello ben più alto rispetto a quelle di cui sono espressivi gli amministratori degli enti territoriali; 2) la misura cautelare, nel caso di specie, sarebbe comunque anomala, in quanto non prevista tra quelle contemplate nell’elenco contenuto nella parte prima, libro quarto, del Codice di procedura penale, con doveroso carattere di tassatività e di esaustività. Nel caso -viceversa - di condanna in via definitiva, un segno di progresso della nostra civiltà giuridica si era profilato con la riforma dell’ordinamento penitenziario, mediante il Decreto legislativo attuativo della Legge delega sulla riforma della giustizia penale (legge 23 giugno 2017, numero 103), mirante - per un verso - a diminuire il sovraffollamento nelle carceri, e - per altro verso - a rendere prioritarie delle misure alternative alla reclusione, potenziando il reinserimento sociale del detenuto “per arginare il fenomeno della recidiva”. A fronte di tutto ciò, tuttavia la situazione si è aggravata non solo statisticamente (risultano recluse 53.637 persone - il 31 per cento in attesa di giudizio - contro una capienza regolamentare di 50.779 posti), ma anche per la violenza di alcune mele marce della polizia penitenziaria, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Lì il 6 aprile 2020 venne effettuato un pestaggio indiscriminato e violento da taluni appartenenti a tale Corpo ai danni dei reclusi, definito dal Gip Sergio Enea “ignobile mattanza”. Si trattò di gratuita violenza a freddo, che aveva colpito i detenuti, ma aveva anche ferito l’immagine dell’intera Polizia penitenziaria, con conseguenti provvedimenti di sospensione nei confronti anche del reggente pro tempore di Santa Maria Capua Vetere e del vicedirettore. La Guardasigilli Marta Cartabia - in piena sintonia con il premier Mario Draghi - parlandone alla Camera, ha espresso la più ferma condanna per l’accaduto, evidenziando la cronicità dei problemi degli istituti penitenziari, affinché non si ripetano atti di violenza né contro i detenuti, né contro gli agenti della penitenziaria. “Il carcere - ha detto - è lo specchio della nostra società. Ed è un pezzo di Repubblica, che non possiamo rimuovere dallo sguardo e dalle coscienze”. La ministra ha affermato la necessità di far luce su quanto accaduto nelle carceri italiane nell’ultimo anno, a cominciare dalle rivolte dei detenuti e dalle conseguenti azioni poste in essere dagli operatori penitenziari, per cui è stata costituita una commissione ispettiva interna. “Chi è in un carcere - ha soggiunto- è nelle mani dello Stato. E dai rappresentanti di quello Stato deve sapere di poter essere trattato nel rispetto di tutte le garanzie”. Se le responsabilità penali sono sempre e solo individuali e non possono ricadere sull’intero corpo dell’Amministrazione penitenziaria - ha affermato l’oratrice - le responsabilità “politiche” dell’accaduto risiedono anche nella disattenzione con cui per anni si è lasciato che peggiorassero le condizioni di chi si trovava in carcere e di chi in carcere ogni giorno lavorava. Nel carcere in questione manca l’acqua corrente ed il sovraffollamento complica ancor di più la quotidianità, per cui l’intervento di ampliamento era da tempo previsto in un’area verde non attrezzata, e fino ad oggi non utilizzata, non solo per nuovi posti letto, ma anche per gli spazi tratta mentali. Tra le innovazioni programmate vi è anche una capillare videosorveglianza, a garanzia di tutti, all’interno dei 190 istituti penitenziari italiani contestualmente al reclutamento di nuovo personale nella Polizia penitenziaria, in atto molto sottodimensionato anche rispetto al normale turn over. La Polizia penitenziaria oltre all’esercizio della tradizionale funzione della vigilanza e della custodia, ha anche il compito - evidenziato dalla Cartabia - di accompagnare il detenuto nel percorso rieducativo, come previsto dalla Costituzione, per cui deve essere formata continuativamente, onde scongiurare nuovi episodi di violenza. La violenza di cui si discorre, è avvenuta - vogliamo ricordarlo - nel Paese definito “culla del diritto”, per aver dato origine al diritto romano. E non solo: esso ha dato i natali a Cesare Beccaria, che nel 1764 intraprese una battaglia di civiltà di risonanza internazionale contro la pena di morte, con il conseguente impegno degli Stati italiani preunitari non solo a bandirla dal proprio territorio, ma affinché l’abolizione della condanna capitale diventasse patrimonio di tutta l’umanità. Non era certo il capestro a rattenere i potenziali rei dal delinquere, bensì la certezza e la celerità della sanzione, che - affermava acutamente il Beccaria - deve essere mite, ma ineluttabile nella compiutezza della sua esecuzione. Voltaire e Beccaria ci osservano, e con loro la comunità dei Paesi civili che guardano all’Italia ancora come culla del diritto: non deludiamoli! Cartabia: “Pena ed educazione, binomio inscindibile soprattutto per i minorenni” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 luglio 2021 “Negli istituti penali per minorenni l’educazione è tutto. Se è vero che nella nostra Costituzione, pena ed educazione sono sempre un binomio inscindibile, ciò è ancor più vero quando la pena riguarda ragazze e ragazzi minorenni o giovani adulti”. Lo ha detto la ministra della Giustizia Marta Cartabia, intervenendo tramite video collegamento in un convengo dove sono stati presentati 10 progetti dalla Fondazione Francesca Rava e dal Tribunale per i minorenni di Milano nella sede di via Leopardi. Tra le iniziative c’è la ristrutturazione della palestra, degli spogliatoi e del sistema idrico del Beccaria così come la creazione nella struttura penale di laboratori d’arte e arte-terapia. Sono poi previste attività di imbiancatura degli spazi interni dell’Istituto, allenamenti e torneo di calcio, corsi di primo soccorso sanitario e uso del defibrillatore, corsi in collaborazione con sommozzatori e incursori Comsubin della Marina Militare, corsi di informatica, corsi di educazione finanziaria e al risparmio, corsi sul cyber- bullismo e rischi della Rete in collaborazione con la polizia postale e delle comunicazioni e infine un progetto “accoglienza educante” presso l’Ussm di Milano in collaborazione con il Politecnico. “I progetti realizzati - ha aggiunto la guardasigilli - con la collaborazione tra la Fondazione Francesca Rava, Tribunale per i Minorenni di Milano e Centro per la Giustizia Minorile della Lombardia, dimostrano la capacità di guardare al diritto attraverso le relazioni”. Ha sottolineato invece Maria Carlo Gatto, presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano: “Questi progetti, oggi presentati con la Fondazione Francesca Rava sono la dimostrazione che è possibile rafforzare la relazione tra dentro e fuori, tra istituto penale minorile e territorio. Diventa anche un modo di ideare e gestire nuove opportunità di scambio e momenti di dialogo tra il carcere minorile e la città, per acquisire la consapevolezza che quel che avviene dentro riguarda tutti coloro che sono fuori: noi ed il nostro futuro”. Ha aggiunto Mariavittoria Rava, presidente della Fondazione Francesca Rava: “Con i nostri dieci progetti che nel frattempo sono aumentati grazie a nuove alleanze, puntiamo alla formazione e al trasferimento di skills pratici e teorici, che possano arricchire il curriculum dei ragazzi nel tempo sospeso della pena o durante la detenzione”. Santa Maria Capua Vetere. Non è garantismo a corrente alternata, ma esigenza di verità di Maria Brucale* Il Domani, 24 luglio 2021 Non si può non salutare con favore la diffusione delle immagini del pestaggio in carcere, di un orrore che si consuma da sempre nei luoghi del buio e dell’indifferenza dove segregare ed isolare quello che nessuno vuol vedere. Si è assuefatti a un’informazione che si nutre di ogni aspetto cruento, pruriginoso, scandaloso, scabroso. Il gossip del dolore e delle disgrazie altrui non si ferma davanti a nulla. E mentre gli indagati trovano pubblicati atti ancora segreti, immagini, intercettazioni, talvolta addirittura prima di essere a conoscenza di un accertamento a loro carico, prima che i loro difensori abbiano accesso al materiale indiziario, gli sciacalli della sofferenza intervistano madri cui è stato ucciso un figlio per esibire le sue lacrime, lo struggimento feroce, il lutto incurabile. E gli avvocati alzano barricate e usano le loro armi spuntate per resistere ad una violenza mediatica che si consuma quotidianamente travolgendo la dignità degli accusati, il diritto a non diventare simboli del male anche in mancanza di una verifica processuale, a non perdere la propria identità sociale, a non vedere deturpata la propria immagine, compromessa la propria serenità familiare. La divulgazione dei video del pestaggio - Ma c’è qualcosa di profondamente diverso nella divulgazione dei video di Santa Maria Capua Vetere. Certo, i volti degli accusati avrebbero dovuto essere oscurati, (i pochi visibili e non celati dai caschi delle tenute antisommossa) perché l’interesse pubblico non si sofferma stavolta sui singoli indagati. Non punta alla responsabilità di ognuno per individuare ed additare un soggetto, per stigmatizzarne l’operato, per anticipare una sentenza di condanna perché nell’orribile e ingiustificabile mattanza non c’è in azione un pugno di uomini ma un branco organizzato e feroce, espressione di una responsabilità collettiva e compatta, di un sentire comune e diffuso che nel carcere non vede persone da reintegrare ma bersagli da brutalizzare, una umanità minore piegata alla logica del più forte, non uomini custoditi ma cose, numeri, oggetti su cui sfogare il malessere della condizione di guardiani, di un vivere mesto, di una società incapace di gestire le diseguaglianze, dell’insoddisfazione di ognuno, delle frustrazioni e, a monte, di una concezione del potere che non riconosce l’abuso nella prevaricazione di chi è debole, vulnerabile, incapace di difendersi. Le immagini non possono mentire, mostrano i reclusi accucciati a terra, immobili, spalle al muro, movimentati dallo squadrone che spinge tutti in un angolo e giù botte con i manganelli, alla cieca, su persone di ogni età, di ogni condizione fisica che non possono proteggersi, che a mani nude tentano di riparare i loro volti. Intanto qualcuno prende un bastone di legno che fa più male, che più fa paura, ferisce, piega, umilia. È una mattanza che non trova nessuna legittimazione nelle rivolte pregresse, che arriva dopo, quando ogni cosa è ferma, quando non c’è nulla da contenere o da temere. Nessuna aggressione da impedire o agitazione da sedare, nessuna violenza da evitare. Si vuole solo punire. Colpire con durezza e con rabbia, imporre la legge del più forte, imprimere sulla carne dei ristretti una lezione indelebile, annichilirli. E allora non si può non salutare con favore la diffusione di quelle immagini del male, di un orrore che si consuma da sempre nei luoghi del buio e dell’indifferenza dove segregare ed isolare quello che nessuno vuol vedere. Silenzi e omertà - Il carcere è una realtà complessa, faticosa, dolorosa. Le atroci violenze consumate ai danni di detenuti inermi, anche anziani e malati, hanno scoperchiato il vaso di Pandora, costretto tanti a vedere con i propri occhi ciò che tutti sapevano ma in pochi avrebbero ammesso. Un silenzio colato di omertà e spirito di corpo che trae le proprie radici in una concezione di Stato autoritario e punitivo, nel diritto penale del nemico. Occorre un deciso cambio di passo non solo riguardo alla pena ma all’intero sistema valoriale dell’azione statale e della comunicazione. Parlare di Stato di Diritto e di Giustizia rendendo tutti attori protagonisti, rifuggendo radicalmente le contrapposizioni tra buoni e cattivi, tra vittime e carnefici, tra guardie e ladri. Ricercare ed esprimere sentimenti di giustizia sociale mai vindice in cui ognuno è individuo, portatore della stessa dignità, fallibilità, fragilità, inclinazione all’errore e al recupero del sé. Trovare il coraggio di guardare con onestà a ciò che è, a ciò che è stato, al male che ha prodotto riconoscendone la genesi in un sentire collettivo scaturito da insicurezze sociali profonde che trovano facile e mediocre conforto in risposte ed impeti securitari. Un governo icasticamente rappresentato da ministri in divisa, ha solo raccolto il seme dell’odio già ampiamente germogliato e ne ha fatto bandiera ma il problema è assai più radicato e certamente preesistente. La riforma Penitenziaria è stata lasciata in un cassetto dal governo Gentiloni mosso dalla consapevolezza che un carcere che non sia inumano e degradante non lo vuole (quasi) nessuno, che parlare di pena umana e riabilitante non porta voti, anzi! Che la pancia del popolino incattivito da un malessere sociale sempre più ampio e diffuso trova ristoro nell’individuare un cattivo da punire e nel vederlo soffrire il più possibile. La violenza e l’abuso di autorità nelle carceri ci sono da sempre e da sempre trovano generale accettazione quando non esplicito compiacimento e condivisione in quel bisogno di ferire chi è facile additare come nemico. I video dell’orrore hanno solo mostrato qualcosa che c’è, che c’era e che non può, non deve esserci più. Il carcere sia un posto aperto, controllabile, esca dal buio. Dalla disapprovazione corale di una brutalità senza senso, si alzi un’onda di cambiamento nella direzione della Stato di Diritto. Gli agenti di polizia penitenziaria abbiano dei codici che li rendano sempre identificabili ma anche condizioni di vita migliori, stipendi adeguati, siano protetti da una condizione insopportabile di stress. Le scuole di formazione insegnino loro l’anima costituzionale della pena che certamente contiene una punizione, come lo è tragicamente la privazione della libertà, ma è soprattutto restituzione in società, tensione al reinserimento, vocazione al diritto all’oblio. Si investa sugli educatori, sui mediatori culturali, sulle comunità esterne, sugli Icam, sulle opportunità lavorative di formazione che proiettino al futuro. Si bandisca il linguaggio della violenza: “spazza-corrotti, salvaladri, certezza della pena (nella sua lettura punitiva e di neutralizzazione del detenuto nota ai più), il tintinnio di manette, le forche, le ruspe, marcire in galera, buttare la chiave”. Tutte espressioni orribili, figlie di un celodurismo nocivo che si contrappone sprezzante ai valori costituzionali della libertà, della responsabilità individuale, della tensione risocializzante di ogni pena, dell’umanità in tutte le sue declinazioni. *Avvocata del foro di Roma, componente del Direttivo di Nessuno Tocchi Il valore e la capacità di Nicolò Amato, a capo del Dap per dieci anni di Francesco Damato Il Dubbio, 24 luglio 2021 Con Nicolò Amato, magistrato e poi avvocato di lunghissimo corso, professore universitario di filosofia del diritto, autore di un lunghissimo elenco di libri e saggi scientifici, appena spentosi serenamente a 88 anni nella sua abitazione vicino Roma, è scomparso l’ultimo capo degno di questo nome di quello che conosciamo come Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. In particolare, egli fu capace in dieci lunghissimi e terribili anni, fra il 1983 e il 1993, di fare della “complessità” congenita della realtà carceraria “un mix progettuale efficace”. Lo ha riconosciuto in un’intervista al manifesto il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. “Capacità - ha precisato - che, mi spiace dirlo, non ho più trovato successivamente”. Eppure a un così straordinario servitore dello Stato capitò negli ultimi mesi della sua direzione del Dipartimento penitenziario, tra febbraio e giugno del 1993, la paradossale avventura di essere contestato per la sua fermezza in un documento anonimo inviato come una circolare dai vertici mafiosi a quelli dello Stato e persino al Papa, in cui se ne reclamava la testa, e di essere rimosso dall’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso con la formale promozione a rappresentante dell’Italia nel comitato europeo per la prevenzione della tortura. Ci fu un sadismo involontario - spero per la memoria di Conso in quella destinazione perché di tortura puzzò subito proprio quella decisione. Dalla quale l’orgoglioso e valente magistrato, che aveva seguito vicende terroristiche complesse come il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e l’attentato a Giovanni Paolo II, si sfilò a beneficio della professione e dell’ordine forense. Dove ha lasciato il segno ancor più che nella magistratura prodigandosi per una Giustizia, con la maiuscola, davvero giusta, secondo uno slogan dei radicali. Difensore, fra gli altri, dell’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi, egli scrisse sui processi del cliente ed amico dall’epilogo scontato con quel titolo così eloquente - “Bettino Craxi dunque colpevole” - un libro che a rileggerlo dopo tanti anni dalle condanne e dalla morte del leader socialista, la pelle spesso si accappona ancora. È un libro privo di accanimento verso gli ex colleghi magistrati lasciatisi trascinare praticamente dalla piazza, qualche volta persino in buona fede. Ma sono risultati devastanti i suoi effetti sulla giustizia. Della cui gestione l’autore si mostra via via più angosciato, incredulo di fronte anche a quella enormità della latitanza contestata a Craxi persino dalla Cassazione, nonostante egli avesse lasciato l’Italia con tanto di passaporto valido, regolarmente e non fuggendo. Ma la latitanza doveva servire a demonizzare ulteriormente l’immagine dell’uomo e la memoria, anche dopo la morte. Penso che il libro di Nicolò Amato non fosse stato estraneo alle considerazioni maturate al Quirinale da Giorgio Napolitano in occasione del decimo anniversario della morte di Craxi. Alla cui vedova, fra le critiche e gli insulti dei soliti giustizieri, l’allora capo dello Stato ebbe il buon senso e il coraggio di mandare, su carta intestata della Presidenza della Repubblica, un messaggio per riconoscere “la severità senza uguali” praticata dalla magistratura contro l’ex presidente del Consiglio. “Senza uguali” significa arbitrariamente, ingiustamente, se ha ancora un senso “la legge uguale per tutti” che è stampata o scolpita sulle pareti delle aule nei tribunali. Per tornare all’esperienza di capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria contestato per la sua durezza dalla mafia - e rimosso da un ministro della Giustizia finito poi sotto inchiesta giudiziaria per avere disposto, dopo l’allontanamento di Nicolò Amato, l’allentamento del cosiddetto carcere duro dei detenuti di mafia, nella presunzione, dichiarò ai magistrati, di ridurre la tensione nella quale erano maturate le stragi mafiose di quei tempi - va detto con tutta onestà che il guardasigilli non si mosse nel pieno della sua autonomia. Di come e con chi sostituire il capo dell’amministrazione penitenziaria si occupò personalmente l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro parlandone col capo dei cappellani delle carceri. Nicolò Amato avrebbe avuto più di una ragione per accusare Scalfaro di interferenza. Ma glielo impedì forse il suo senso dello Stato, lamentandosi genericamente solo di “qualcuno” che di fatto raccolse, esaudì e quant’altro la richiesta di decapitazione avanzata dalla mafia. A ciascuno il suo stile. Quello di Amato era di rispettare comunque le istituzioni, al servizio delle quali aveva lavorato, pur avendone subito alla fine un torto immeritato. Non mi sembra proprio lo stile - scusatemi lo sconfinamento nelle cronache politiche e giudiziarie di questi giorni - di quei servitori in toga dello Stato che stanno sommergendo di accuse e persino di insulti uomini e donne di governo che legittimamente, nell’esercizio delle loro funzioni, sono alle prese con la riforma del processo penale imposta da vecchi e nuovi mali della Giustizia. E fra i nuovi mali si deve purtroppo annoverare la mancata riforma del processo per la quale si era invece impegnato il primo governo di Giuseppe Conte introducendo come una supposta in una legge sulla corruzione la fine della prescrizione con l’esaurimento del primo grado di giudizio. Per cui, a legislazione lasciata invariata dal secondo governo Conte, persino all’assolto con sentenza impugnata dall’accusa per reati compiuti dal primo giorno di gennaio dell’anno scorso potrebbe accadere di rimanere imputato a vita. È rimasta infatti appesa solo alle parole - niente di più - la “ragionevole durata” del processo, di ogni grado, sancita Giustizia, Draghi congela la trattativa. Tensione tra i 5 Stelle di Tommaso Ciriaco e Liana Milella La Repubblica, 24 luglio 2021 Dadone minaccia le dimissioni dei ministri grillini, poi frena. Conte: “Noi lavoriamo a una mediazione”. Il Colle al Csm: parere su tutta la riforma. Il tempo stringe, ma adesso il governo non è più disponibile a inseguire i Cinque Stelle sulla giustizia. Fallita venerdì una mediazione che sembrava a un passo dal successo- e andata in frantumi la trattativa portata avanti telefonicamente fino a ieri con Giuseppe Conte - Mario Draghi non intende arretrare. Non accetterà giochetti, né rinvii. Le comunicazioni non sono interrotte, ma appaiono congelate. Un modo come un altro per lanciare un segnale all’avvocato, ma soprattutto ai falchi 5S, che va tradotto così: un’intesa su modifiche tecniche è possibile, ma l’onere di una proposta digeribile dalle altre forze politiche è a questo punto nelle mani dei 5S. Se non saranno capaci di prendere un’iniziativa, l’esecutivo porrà la fiducia appena il testo approderà in Aula. Conte soffre la difficoltà di questa fase. “Stiamo lavorando ad una mediazione” promette. Ma in privato non nega che senza passi avanti i grillini potrebbero concedersi mani libere in Aula. E d’altra parte è il giorno delle minacce. La ministra Fabiana Dadone non esclude il ritiro della delegazione 5S dal governo. “Senza miglioramenti - dice - è una cosa da valutare insieme al leader”. Poco dopo, la corregge il collega grillino Stefano Patuanelli, parlando di possibili “miglioramenti” alla riforma. Contro ogni strappo è anche Luigi Di Maio: “Conte troverà una soluzione, in questa fase non si può mettere a rischio la stabilità”. Dadone, a sera, fa marcia indietro. Resta il rischio, concreto, che la fiducia inneschi un voto contrario di una ventina di parlamentari 5S. Ma che cosa propongono i 5S? Innanzitutto che l’improcedibilità non entri in vigore subito, ma slitti di tre anni - al 2024 - per dare modo alle corti di Appello di smaltire l’arretrato e far entrare in servizio nuovo personale. E poi di agire sui reati. Quelli di mafia e quelli indicati dallo stesso Csm come a rischio: inquinamento, disastro ambientale e ferroviario, crollo di costruzioni o altri disastri dolosi, omicidio colposo in materia sanitaria o per la mancata prevenzione per gli infortuni sul lavoro. Il Movimento vorrebbe estendere la platea delle fattispecie “protette” da quella che giudica la tagliola dell’improcedibilità. Non sono dettagli. E sembrano allontanare un’intesa. Draghi si è impegnato con l’Europa per la riforma. Ha incassato il via libera di tutti i ministri, Dadone compresa. Il Pd continua a mediare, con Enrico Letta che crede in un accordo e assicura che “il governo non scricchiola”. Ma è evidente che il premier, dopo aver messo in campo la ministra Marta Cartabia e il suo sottosegretario alla Presidenza Roberto Garofoli per trattare, non intende accettare stravolgimenti. E questo perché sa bene che le altre forze politiche rilancerebbero con nuove richieste di modifica. Un’avvisaglia si è avuta ieri in commissione Giustizia, dove il presidente 5S Mario Perantoni ha dichiarato inammissibili tre emendamenti del forzista Pierantonio Zanettin sull’abuso d’ufficio. Lui, per ripicca, ha chiesto di allargare il perimetro della legge. Norma ad personam? Zanettin nega e parla di una proposta per “introdurre l’esercizio di uno specifico potere conferito dalla legge, eliminando il riferimento generico al semplice esercizio di una pubblica funzione”. Tutto rinviato a lunedì, comunque, per una settimana che si annuncia complessa. Un’intesa, infatti, va trovata in sette giorni, entro il 30 luglio, quando è previsto l’approdo in Aula. Per allora, le opzioni resteranno due: un accordo su emendamenti condivisi, o la fiducia sul testo originario. Un ultimo dato, infine. Ieri Draghi ha evitato uno scoglio. Sergio Mattarella, nelle vesti di presidente del Csm, ha chiesto al suo vice David Ermini di non inserire nel dibattito in plenum di mercoledì il parere molto critico votato in commissione, perché riguarda solo l’improcedibilità e non tutta la riforma, come Cartabia ha reclamato giusto l’altro ieri. Togati e laici vogliono comunque votare, in un plenum straordinario da tenere tra il 2 e il 3 agosto, Proprio quando la riforma sarà in aula alla Camera. Sulla giustizia M5S allo sbando, Draghi mette in crisi Conte di Giulia Merlo Il Domani, 24 luglio 2021 Il neo leader del Movimento è stato smentito dal premier: salito a palazzo Chigi per sbattere i pugni sulla prescrizione, non ha incassato nulla. I parlamentari tentati dal no alla fiducia. Il ddl penale, il testo che contiene la modifica alla legge sulla prescrizione voluta dall’ex ministro Alfonso Bonafede, è una riforma sostanzialmente blindata. Il presidente del Consiglio Mario Draghi se ne è assicurato, incassando ben due fiducie all’unanimità del Consiglio dei ministri: ci sarà spazio per degli “aggiustamenti tecnici” ma nulla più. Al massimo qualche apertura su dettagli che permettano a Giuseppe Conte di avere almeno qualche argomento per tentare di ammansire i gruppi parlamentari sulle barricate. All’indomani dell’annuncio sulla fiducia, le tensioni nel partito sono scoppiate in tutta la loro violenza. La ministra grillina alle Politiche giovanili, Fabiana Dadone, ha addirittura ipotizzato la dimissione dei ministri nel caso non si trovi una sintesi soddisfacente: “È un’ipotesi che sicuramente si dovrebbe valutare, ma parlandone prima con Conte”. Una battuta che ha incendiato il dibattito e che ha dato anche la dimensione di quanto il Movimento sia diviso e frastornato. Quasi contemporaneamente, infatti, un altro ministro grillino considerato fedelissimo dell’avvocato di Volturara Appula come Stefano Patuanelli aveva parlato di “ottimismo” e di una discussione che “sta conducendo verso un accordo per migliorare il testo del ddl”. Quale sia la verità, tra le sirene che invitano Conte a uscire dall’esecutivo e la fiducia nella dialettica parlamentare, rimane oscuro agli stessi Cinque stelle. Certo è che il fronte dei ministri, che è stato colto alla sprovvista e si è piegato per la seconda volta alle pressioni di Draghi, è sempre più scollato da quello dei parlamentari: almeno una trentina di eletti sarebbe pronta a votare contro la riforma Cartabia e, secondo gli oltranzisti, i numeri potrebbero aumentare se la trattativa non raggiungesse una mediazione soddisfacente. Proprio questo complica non poco la posizione del leader: la sconfitta di Conte risulta - almeno sulla carta e agli occhi dei più scettici sulla sua capacità di leadership - tanto più cocente perché era stato proprio lui a salire a palazzo Chigi per fare la voce grossa con Draghi e reclamare modifiche al testo. Il risultato, invece, è stata una apertura a modifiche vincolata all’accordo con tutta la maggioranza, e nessuna concessione specifica. Anzi l’unico elemento che sembrava essere stato incassato, il fatto di non mettere la fiducia in parlamento, è stato smentito: il 30 luglio si voterà il ddl penale senza ulteriori dilazioni per rispettare la roadmap europea, con o senza l’appoggio dei Cinque stelle. Anche la minaccia del non voto su cui Conte poteva far leva, infatti, è già stata neutralizzata da Draghi, che ha detto in modo chiaro che la fiducia si chiede appunto su provvedimenti in cui le distanze politiche tra alleati di maggioranza sono risultate “incolmabili”. Tradotto: il premier è pronto ad affrontare il semestre bianco facendo affidamento su maggioranze variabili. Se politicamente la posizione di Conte è molto complicata, la sua partita non è ancora persa. L’asse con il segretario del Pd Enrico Letta è salda e i dem si sono posti come forza di mediazione con la ministra Marta Cartabia per limare il ddl, rassicurati proprio dalla presenza del nuovo capo politico. Chi lo conosce e conosce la sua storia, infatti, sa che Conte è tutt’altro che un giustizialista: avvocato e professore di diritto, proveniente dallo studio di Guido Alpa, da sempre garantista convinto, è cresciuto da un mondo in cui la mediazione è sempre la miglior strategia. Anzi, in molti si erano stupiti nel vederlo salire sulle barricate in difesa dello stop alla prescrizione e avevano colto in quel posizionamento una pura scelta politica dettata dalla necessità di contrapporsi a Luigi Di Maio, che aveva parlato di “deideologizzazione” della giustizia. Ora, è il ragionamento del Pd, proprio il fatto che la trattativa sia in mano a Conte dovrebbe essere garanzia che una sintesi si troverà, perché in lui non ci sono vere preclusioni culturali e ideologiche a nulla del contenuto del ddl penale. Tuttavia quello della giustizia è il suo primo vero banco di prova da leader, necessario per affermarsi sia all’interno del Movimento che agli occhi degli alleati, portando i suoi a un compromesso politico che l’implosione del Movimento e lo scontro definitivo tra governisti e malpancisti. Nel frattempo, è certo che a ora il primo sconfitto della scelta di Draghi è l’ex guardasigilli Alfonso Bonafede: suo è il nome sulla riforma della prescrizione, che adesso verrà sostituita - passasse in parlamento - da quella ideata dalla nuova ministra Cartabia. È stato lui a soffiare sul fuoco dell’ira dei colleghi e che più convintamente era pronto a far saltare ogni accordo. Eppure, sembra essere rimasto solo. Tra i più infuocati antagonisti di Cartabia c’erano il suo ex sottosegretario, Vittorio Ferraresi, e Giulia Sarti: entrambi pronti a fare “le barricate” fino a qualche settimana fa, nei giorni scorsi hanno abbassato i toni, parlando di “spirito costruttivo nel dialogo in commissione”. L’interrogativo, ora, è capire se la mediazione già imbastita - norma transitoria per l’entrata in vigore della nuova prescrizione e allungamento a tre anni per l’appello e 18 mesi per la cassazione - basti a placare gli animi nel Movimento. L’onere di far digerire il ddl penale ai suoi spetta a Conte, che così potrebbe completare la mutazione del Movimento in partito, moderato e alleato col Pd. Giustizia, Conte non vuole rompere. Ma senza modifiche al testo il voto di fiducia è un rebus di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 24 luglio 2021 Chi era al Consiglio dei ministri: nessuno dei grillini ha fiatato. Però ci sarebbero almeno trenta parlamentari pronti a strappare. “Nessuno ha fiatato...”. Davanti a Mario Draghi e alla sua determinazione ad approvare in fretta la riforma della giustizia, il via libera dei ministri alla richiesta del premier di autorizzare il voto di fiducia era stato unanime e immediato. “Nessuno ha fiatato”, racconta chi giovedì vi ha preso parte. Sì convinto da Di Maio, Patuanelli, D’Incà e anche da Fabiana Dadone, che ieri in tv ha rischiato di terremotare il governo e tranciare di netto il filo dei rapporti tra Draghi e Giuseppe Conte. Per qualche ora la nave dell’esecutivo di unità nazionale ha ballato e l’alleanza con il Pd è stata messa a durissima prova, finché la ministra ha cambiato rotta: “Le mie parole sono state pompate”. Quando anche Conte le ha chiesto di rettificare pubblicamente, Dadone ha affidato ai social una nota alla camomilla per placare gli animi e confermare la fiducia al governo. D’altronde le cronache raccontano che c’era anche Fabiana Dadone a Palazzo Chigi quando, l’8 luglio scorso, Draghi parlò al telefono con Beppe Grillo e ottenne il sì al testo Cartabia, che fu poi approvato dal quartetto di ministri pentastellati. A Palazzo Chigi il caso Dadone è stato derubricato a semplice “fraintendimento” e la mediazione di Draghi con Conte, per arrivare al “consenso necessario sul provvedimento” che molto sta a cuore al premier, continua. Ma con fatica, perché Draghi non intende cedere. Il capo de governo fortissimamente vuole che la riforma del processo penale sia approvata entro la prossima settimana e che gli aggiustamenti invocati dal M5S non stravolgano l’impianto. Giovedì è stato lo stesso Draghi a spiegare a Conte al telefono quanto alto sia il rischio di minare il (fragile) accordo raggiunto con tutti i partiti. L’uscita di Dadone ha svelato gli umori in casa 5 Stelle, anche dopo la conferenza stampa in cui il premier ha aperto ad “aggiustamenti tecnici”. Una trentina di deputati del Movimento sarebbero pronti allo strappo sulla riforma Cartabia e c’è chi dice che i malpancisti siano “molti, molti di più”. Il sì dei ministri all’ipotesi fiducia ha spiazzato e irritato tanti parlamentari, che rivedono il film di due settimane fa, quando la squadra di governo sconfessò la riforma con cui l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede aveva stoppato la prescrizione. E adesso? Toccherà a Conte, che ieri ha passato la giornata a Montecitorio, provare a riportare la calma nei gruppi parlamentari, divisi tra gli irrequieti che premono per rompere e i governisti che guardano a Luigi Di Maio. L’avvocato e quasi presidente del M5S assicura di non aver cambiato idea, tra i suoi piani non c’è quello di portare i gruppi fuori dalla maggioranza e di aprire la crisi di governo. Ma il voto di fiducia per il Movimento è una strettoia vera e il leader, prima che il 30 luglio il testo arrivi in aula alla Camera, si aspetta “un segnale” da Palazzo Chigi. Guai a parlare di bandierine da sventolare, ma Conte punta a ottenere, dalla triangolazione con Draghi e Cartabia, modifiche concrete al testo presentato dalla Guardasigilli. Un senatore contiano la spiega così: “Se il governo pone la questione di fiducia sulla riforma così com’è uscita dal Consiglio dei ministri, noi non possiamo votarla. Sia il premier che la ministra della Giustizia hanno ammesso che non funziona, perché c’è un problema sull’improcedibilità”. Giorni fa nel “cordiale” faccia a faccia con il presidente Draghi, il predecessore aveva confermato l’impegno a sostenere le riforme, ma ora Conte si aspetta che l’ex capo della Bce trovi il modo di sciogliere il nodo politico e di merito. “Questa legge non può far svanire nel nulla centinaia, migliaia di processi”, è lo slogan del giurista pugliese. La preoccupazione dei magistrati, dal Csm all’Anm, è anche quella di Conte, che nelle riunioni riservate rilancia l’allarme sul “rischio impunità” e chiede che gli “aggiustamenti tecnici” promessi da Draghi non siano semplici ritocchi d’immagine: i tempi della prescrizione devono essere allungati e l’entrata in vigore deve essere spostata in avanti. Richieste di gran lunga più pesanti di quelle che Draghi è disposto a concedere. Giustizia, il Csm rinvia il parere dopo le osservazioni del Colle di Marco Conti Il Messaggero, 24 luglio 2021 Anche nel giorno del suo 80esimo compleanno Sergio Mattarella non si è risparmiato e ha infilato un paio di “rampogne”. La prima, in ordine di tempo, ha coinvolto l’attuale Consiglio Superiore della Magistratura. Il Csm, a suo tempo composto con il “metodo Palamara” è costretto ad aggiustare il tiro e il calendario. Ovvero, a seguito della richiesta della Guardasigilli ha diritto di esprimere un parere sull’intera riforma del processo penale e non su un unico aspetto. Non lo sapeva, forse, il presidente pentastellato della Sesta commissione Fulvio Gigliotti o voleva solo portarsi avanti con il lavoro, visto che in tutta fretta ha fatto votare una sonora stroncatura degli articoli che azzerano il “fine processo mai” voluto da Alfonso Bonafede. Tocca al vicepresidente del plenum David Ermini spiegare in un comunicato che il parere “reso limitatamente all’istituto dell’improcedibilità dell’azione penale, approvato ieri dalla Sesta commissione non è stato inserito nell’ordine del giorno ordinario del prossimo plenum per consentire al Csm di esprimersi sull’intera riforma del processo penale”. In questo modo il vicepresidente Ermini recepisce le indicazioni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella “contenute nell’assenso all’ordine del giorno ordinario predisposto per il plenum”. Appuntamento quindi il 28 luglio quando il Csm potrebbe riunirsi per dare un parere sulla riforma complessiva e non solo sul tassello più indigesto ad una parte della magistratura. Se ne riparlerà quindi tra qualche giorno, anche se il parere di Palazzo dei Marescialli è solo consultivo e il giudizio sulla riforma del M5S è noto come è nota la difficoltà che ha il Movimento a trovare al suo interno una sintesi in grado di non farlo saltare al momento del voto in Aula. L’altra “rampogna” di Sergio Mattarella è indirizzata a governo e Parlamento, anche se l’obbiettivo principale sembra essere soprattutto quest’ultimo che continua ad “inzeppare” leggi e decreti con materie non omogenee. Oggetto dell’avvertimento il “Sostegni-bis”, che diventa legge con le modifiche apportate dal Parlamento. Basta però, è il succo dell’ultimatum quirinalizio, con le norme “fuori tema”, l’eccessivo ricorso alla decretazione d’urgenza, con i provvedimenti che confluiscono in altri provvedimenti e con i decreti che diventano omnibus e che, tra aggiunte, commi e revisioni, perdono di vista il loro intento originario. “Il testo che mi è stato trasmesso contiene 393 commi aggiuntivi, rispetto ai 479 originari”, spiega il Capo dello Stato che mostra di non avere intenzione di cambiare passo anche nell’imminente arrivo del semestre bianco. La lettera è stata inviata ai presidenti delle Camere e a Mario Draghi ed in effetti tra le modifiche introdotte ve ne sono alcune curiose “non riconducibili all’esigenza di contrastare l’epidemia e fronteggiare l’emergenza” o “appaiono del tutto estranee” al provvedimento. È il caso, ad esempio, del contributo al settore dei treni storici della Fondazione FS Italiane, della riorganizzazione del sistema camerale della Regione siciliana o delle norme per l’autonomia dell’Istituto nazionale di Geofisica. Per Mattarella “inserimenti di norme con queste modalità, oltre ad alterare la natura della legge di conversione, recano pregiudizio alla qualità della legislazione, possono determinare incertezze interpretative, sovrapposizione di interventi, provocando complicazioni per la vita dei cittadini e delle imprese nonché una crescita non ordinata e poco efficiente della spesa pubblica”. Quindi “valuterò l’eventuale ricorso alla facoltà prevista dall’articolo 74 della Costituzione”. Non è la prima volta che dal Quirinale partono avvisi del genere al Parlamento, ma sembra l’ultima almeno per quanto riguarda il Settennato di Sergio Mattarella. Anche perché tale caos normativo sarebbe stato comprensibile nel momento di picco della pandemia, ma non certo ora. Ma non c’è solo la prescrizione di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 24 luglio 2021 Prosegue il dibattito-scontro sulla prescrizione con posizioni apparentemente inconciliabili al punto che il presidente del Consiglio Draghi preannuncia che sarà posta la questione di fiducia sul testo che risulterà da “miglioramenti di carattere tecnico”. Come è noto della prescrizione tratta uno dei 18 emendamenti della “riforma Cartabia” al disegno di Legge AC 2435, la “riforma Bonafede”. Non si parla oggi degli altri 17 emendamenti che recepiscono comunque molte (purtroppo non tutte) delle innovative proposte della commissione Lattanzi dirette ad incidere alla radice sui tempi dei processi: meno dibattimenti e tempi più brevi per i casi in cui il processo è veramente necessario, snellimento delle procedure senza nessun sacrificio per le garanzie di difesa. Ma tant’è, parliamo di prescrizione. Non è osservazione originale, ma banale buon senso, quanto scrivevo su questo giornale l’11 luglio “Sono le regole del processo che devono individuare il punto di equilibrio tra fondamentali e irrinunciabili garanzie di difesa e l’obbiettivo che il processo si concluda il più celermente possibile”. La ragionevolezza avrebbe imposto di tornare alla “riforma Orlando”, stroncata, prima ancora che potessero esserne sperimentati gli effetti, con la forzatura del blocco della prescrizione dopo il giudizio di primo grado. Ma vi sono le ragioni della politica più forti della razionalità. I giuristi hanno discusso e discuteranno sulla soluzione proposta dalla riforma Cartabia, con l’ardito mix tra prescrizione sostanziale e prescrizione processuale. Non proprio l’ideale, ma questo è il punto di mediazione raggiunto dalle ragioni della politica. In sintesi un tempo di due anni per il processo di appello e di un anno per il processo in cassazione, con prolungamenti per i reati di criminalità organizzata e di corruzione e imprescrittibilità per i reati puniti con l’ergastolo. Ma non appena asciugato l’inchiostro sul testo dell’emendamento sono stati pubblicati i dati sui tempi attuali di durata dei processi. La cassazione è forse in grado di rispettare il termine di un anno. Per le corti di appello, se la maggioranza virtuosa non pone problemi, per le corti di Roma, Napoli (non proprio marginali) e anche Venezia e alcune altre, questi termini non sono raggiungibili in tempi brevi, nonostante ogni misura organizzativa attuata. che per produrre effetti concreti richiede ovviamente del tempo. Gli irriducibili della “prescrizione mai” non hanno neanche avuto la necessità di considerarli per condurre la loro crociata, ma penso che in molti si saranno chiesti se quei dati, pubblici e da tempo noti, siano stati letti dai tecnici del ministero che hanno scritto l’emendamento. Fiat iustitia et pereat mundus: vadano in prescrizione i procedimenti accumulatisi nelle Corti di appello meno virtuose. Una (opinabile) scelta possibile con assunzione di responsabilità da parte del decisore politico. Ma sembra che così non sia stato e che oggi ci appresti a quelli pudicamente definiti “miglioramenti di carattere tecnico”. Non ho bisogno di ritornare sul rifiuto del “fine processo mai”, ma è tempo che il legislatore si misuri con i duri dati della realtà. I termini di due anni e un anno non stanno scritti in modo indelebile da nessuna parte, ma sono la ricerca di un punto di equilibrio. “Si sbaglio mi corrigerete” chiedeva Papa Wojtyla. Anche il ministero della giustizia può riaggiustare il tiro dopo aver letto i dati che aveva trascurato. L’obbiettivo di ridurre drasticamente, del 25%, i tempi del processo penale può essere ragionevolmente raggiunto prendendosi per un periodo limitato un margine in più. Tre anni piuttosto che due per l’appello e uno e mezzo per la cassazione per i prossimi tre anni. Nel frattempo ci si impegna per l’attuazione delle misure organizzative messe in cantiere: ufficio per il processo, assunzioni di magistrati e personale amministrativo. L’intendance suivra, una sottovalutazione pagata a caro prezzo da Napoleone. Nella decorrenza da fissare per il processo di appello, non si può partire dalla data del deposito della sentenza di primo grado, ma occorre considerare i tempi tecnici di trasmissione del fascicolo dai tribunali alle corti di appello, novanta giorni oggi nei casi migliori. Il “Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale” opportunamente introdotto con l’art 15 bis se non vorrà essere un orpello, dovrà, per così dire, stare con il fiato sul collo delle Corti di appello più lente. Il “fine processo mai”, che vogliamo rifiutare, si potrà ragionevolmente contrastare correggendo gli errori di valutazione con “miglioramenti tecnici” del tipo di quelli indicati, per evitare l’effetto boomerang che un numero rilevante di prescrizioni in appello determinerebbe su tutto il pregevole impianto della “riforma Cartabia”. Prescrizione e processi di mafia: anatomia di una menzogna di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 24 luglio 2021 Vorrei in poche parole spiegare perché l’allarme sulla riforma della prescrizione che cancellerebbe i processi di mafia sia del tutto lontano dalla realtà. Innanzitutto, chiariamo di cosa stiamo parlando. Ci si riferisce prevalentemente a processi incentrati sulla contestazione di un reato associativo (416 bis c.p., associazione per delinquere di stampo mafioso) e dei c.d. “reati-fine” di quella associazione, che descrivono l’attività criminale in concreto addebitata a quella cosca in un dato contesto temporale. I più diffusi sono il traffico di stupefacenti (in assoluta prevalenza), le estorsioni, l’usura, il riciclaggio e l’autoriciclaggio, ma anche - seppure in misura molto minore - reati finanziari e contro la pubblica amministrazione. Ovviamente, non consideriamo nemmeno le contestazioni di fatti omicidiari, sottratti ad ogni forma di prescrizione. Orbene, da sempre questi procedimenti penali, ovunque celebrati ed ancor più in quei distretti giudiziari pertinenti ai territori dove quella criminalità opera con particolare intensità, sono celebrati con connotazione di assoluta priorità. Già il solo fatto di attribuire a questi procedimenti il valore medio dei tempi di celebrazione dei processi nei singoli distretti, costituisce una rappresentazione manipolata della realtà. Se a Napoli, per richiamare un esempio in questi giorni costantemente evocato, i tempi medi di definizione dei giudizi di appello supera i quattro anni, è corretto riferire questo tempo medio anche ai “processi di mafia”? È questo ciò che accade realmente a Napoli o in analoghe realtà giudiziarie? Sarebbe indispensabile, invece che agitare numeri a casaccio, dare una risposta statistica a questa banale domanda, visto che l’allarme è stato lanciato con riferimento specifico a quel tipo di processi e di imputazioni. Credo sia un dato agevolmente acquisibile dal Dipartimento statistico del Ministero di Giustizia presso tutte le Corti di Appello di interesse. La esperienza forense ci consente già di affermare con cognizione di causa che non è così. E ciò non solo per la indiscussa natura prioritaria della trattazione di quei processi, ma ancor di più per la ovvia ragione che essi sono in larghissima percentuale a carico di imputati in stato di custodia cautelare. Come tutti ben sappiamo, sono i termini di custodia cautelare a governare i tempi di trattazione e di definizione di questi processi. Nessuna Corte di Appello versa nelle condizioni di non riuscire a celebrare questi giudizi prima dello spirare del termine custodiale di fase, almeno per gli imputati e per le imputazioni principali. Possiamo anzi dire che è proprio la trattazione prioritaria di questa categoria di processi, imposta dai termini cautelari di fase, a determinare i gravi ritardi di trattazione dei tanti altri che qui per comodità vogliamo definire “ordinari”. Il termine custodiale in appello per questo genere di reati non è inferiore ad un anno e sei mesi, termine peraltro agevolmente prorogabile (evito noiosi tecnicismi) ben oltre i due anni. La prescrizione processuale voluta dagli emendamenti del Governo prevede un termine fino a tre anni per celebrare questi processi di appello. Aggiungo che questa assoluta priorità di trattazione vale anche nei pochi casi di imputati a piede libero. L’esempio delle sentenze Cosentino e D’Alò è ancora una volta un caso di manipolazione della verità. Quei processi di appello sono stati celebrati a tanta distanza dal fatto proprio perché gli imputati erano a piede libero, nessuna prescrizione maturava e dunque nessuna urgenza premeva. State non certi ma certissimi che, vigente questa riforma, quei due processi sarebbero stati definiti entro il termine di maturazione della prescrizione. Se poi magari qualcuno proverà pure a chiedersi se appartenga alle regole di un Paese civile essere giudicati in appello a decenni dai fatti, ancorché di supposta matrice mafiosa, sarà sempre troppo tardi. Dunque questa è la modesta proposta che mi permetto di suggerire: un rapido accertamento statistico da parte del Ministero non sui tempi medi dei processi di appello, ma sui tempi medi di celebrazione dei “processi di mafia”; e vediamo chi sta raccontando la verità, e chi agita fantasmi, per continuare a tenere la Politica ed il Parlamento nella condizione di sovranità limitata nella quale è umiliata da ormai oltre 25 anni. Giustizia di destra e politica sotto anestesia di Massimo Villone Il Manifesto, 24 luglio 2021 Riforma della giustizia. Che in Italia ci sia una giustizia troppo lenta non c’è dubbio alcuno. Bisogna intervenire. Ma come? Come era nelle previsioni, è stata annunciata la questione di fiducia sulla riforma della giustizia. Quindi sul dibattito parlamentare calerà la mannaia, per porre argine al fiume degli emendamenti. Tenendo conto della disponibilità manifestata per qualche modifica, possiamo aspettarci un emendamento governativo, e i prossimi giorni ci diranno se sarà maxi, midi o mini. In ogni caso, è l’ennesimo schiaffo a un parlamento già esanime. La ministra Cartabia insiste che la riforma è passata in consiglio senza obiezione alcuna. Ribadisce che la proposta era stata oggetto di ampio confronto e discussione, e concordata con tutti. Ovviamente, le crediamo. Ma vorremmo proprio sapere con chi ha discusso e concordato. Come vorremmo sapere se chi ha votato in consiglio dei ministri aveva letto le carte. Che in Italia ci sia una giustizia troppo lenta non c’è dubbio alcuno. Bisogna intervenire. Ma come? Certo, una pressione viene dall’Europa, che però non chiede questa o quella soluzione tecnica, ma soltanto una giustizia più efficiente e rapida, come vogliamo tutti. Quindi la responsabilità del che fare rimane tutta presso la politica italiana. E rimangono domande che fin qui non hanno avuto risposte adeguate. È vero o no che con la formulazione attuale della proposta un gran numero di processi andranno al macero? Quanti, e dove? È vero o no che il limite per i reati commessi prima del 2020 non regge? È vero o no che potrebbe comunque cadere in Corte costituzionale? È vero o no che numerose Corti di appello non sono in grado di reggere l’urto della riforma? Quali? È vero o no che non ci si può attendere risultati epocali da un ufficio del processo popolato di giovani alle prime armi da formare e per di più assunti a tempo determinato? È vero o no che, se pure contribuissero a smaltire l’arretrato, al termine del contratto quell’arretrato ricomincerebbe a crescere? È vero o no che tale infausto esito si eviterebbe solo con progetti pronti e risorse immediatamente disponibili - che invece mancano - per il rafforzamento degli organici dei magistrati e del personale e per le strutture? È vero o no che una maggiore rapidità ed efficienza del processo penale richiederebbe un deciso intervento anche sulla capacità investigativa che ne è la premessa, in termini di personale qualificato e di disponibilità di tecnologie avanzate? Infine, è vero o no che si vuole insistere su norme di sicura incostituzionalità come l’indicazione con legge di priorità per l’azione penale da parte del pubblico ministero? Per il significato di principio e gli effetti potenziali, è un punto almeno grave quanto il contenuto disomogeneo dei decreti-legge, l’abuso di emendamenti e maxi-emendamenti e l’inserimento di norme non urgenti fortemente - e giustamente - censurati da Mattarella. La magistratura ha mostrato qualche esitazione, probabilmente per il clima particolarmente sfavorevole determinato dalla vicenda Palamara, e ora confermato dall’attacco referendario. Ma da ultimo la sesta commissione del Consiglio superiore della magistratura ha dato sull’improcedibilità un parere fortemente negativo, che peraltro la Cartabia non aveva chiesto. La ministra chiede ora che il Csm si pronunci su tutti gli emendamenti. Il corto circuito con l’accelerazione posta dalla questione di fiducia potrebbe rendere impossibile il parere in tempo utile. Che sia o meno una mossa dilatoria della ministra conta poco. Il parere della sesta commissione rimane, e anche l’Associazione nazionale magistrati ha manifestato un fermo dissenso. E la politica? La tentata riforma “epocale” di Berlusconi e Alfano nel 2011 - cui questa somiglia non poco - destò opposizioni ben più nette e decise. Così, aspettiamo di sapere quali sono le - piccole? - modifiche necessarie per il Pd. Come aspettiamo che sia sciolto il mistero M5S. E ci preoccupa molto che Conte sia di mestiere - per quel che sappiamo - un civilista. Potrà chiarire alla Cartabia che in grandissima parte i processi di mafia non hanno a che fare con l’ergastolo? Comunque sia, sulle riforme un segno politico c’è sempre. E per quanto ci riguarda è decisiva la valutazione di Salvini. Si è da ultimo speso per l’assessore sceriffo di Voghera. Non dubitiamo che chiederebbe la più dura condanna per il poveraccio che rubasse per fame una mela al supermercato. Da par suo, sulla riforma ha dichiarato che non toccherebbe una parola. Questa è una riforma di destra nata da una politica sotto anestesia per Covid e governo istituzionale. Ermini: “Un’intesa con le toghe è possibile, ma i partiti rinuncino alle bandierine” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 24 luglio 2021 Il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura: “Non mi piacciono i toni catastrofisti”. Dice David Ermini, vicepresidente del Csm, che “bisogna cogliere, in positivo, l’opportunità che emerge anche dalle parole del presidente del Consiglio e della ministra della Giustizia. Lavorare sulle soluzioni possibili, con spirito di leale collaborazione”. Che cosa pensa della bozza di parere del Csm con dure critiche alla riforma? “Ho letto la bozza della commissione, ascolterò il dibattito in plenum. Senza entrare nel dettaglio degli argomenti, credo sia innegabile la diffusa preoccupazione, non solo dei membri togati, sulla sostenibilità del meccanismo dell’improcedibilità sulla base dei carichi di lavoro delle corti d’appello. Molte non reggerebbero l’urto, a parità di risorse e personale”. Condivide i timori per i processi di mafia? “Gli appelli di magistrati come il procuratore nazionale antimafia meritano ascolto. La specificità dei processi di mafia va considerata. Allungare i termini processuali solo per gli omicidi non è risolutivo”. Si è parlato, da parte delle toghe, di sicurezza nazionale in pericolo, incentivo a delinquere, pericolo per la democrazia. Esagerazioni? “Non mi piacciono i catastrofismi. E preferirei che non si dimenticasse mai il doveroso rispetto della volontà del Parlamento”. Sta mancando? Al Csm non è stato gradito che la ministra non abbia chiesto il parere sulla riforma. “In realtà l’ha chiesto, in extremis. La ministra ha sempre manifestato attenzione e rispetto per il Csm. C’è un dato obiettivo: i nostri tempi spesso sono incompatibili con quelli della politica”. In che senso? “Quando ero parlamentare, ricordo che arrivavano pareri del Csm su testi nel frattempo già approvati. Anche oggi: la commissione ha lavorato sul testo uscito dal Consiglio dei ministri. È possibile che sopraggiungeranno ulteriori modifiche al testo. Dunque sarebbe opportuno dedicarsi soprattutto alle questioni generali”. Lei pensa che il testo del governo sarà modificato? “Non spetta a me dirlo. Ma credo che l’interpretazione più corretta, nonché istituzionalmente positiva, del discorso del presidente del Consiglio sia nel senso di auspicare modifiche condivise per consolidare il consenso sulla riforma, ponendo però un limite temporale di una settimana. Uno spazio, anche se stretto, c’è”. Quanto stretto? “Intervenire in modo condiviso su un meccanismo innovativo come l’improcedibilità richiede una convergenza politica non semplice, ma che occorre ricercare”. Più insidiosi gli ostacoli tecnici o politici? “A mio avviso politici. La riforma della giustizia è come un’Olimpiade, deve far cessare le guerre tra e nei partiti. Altrimenti non si può fare. Se i partiti non rinunciano alle bandierine in un clima di pacificazione, non basta un anno per trovare l’accordo. Altro che una settimana”. Soluzioni possibili? “Spettano al Parlamento. Mi pare promettente il lavoro su una maggiore diluizione dei tempi di entrata in vigore dell’improcedibilità e su una più adeguata individuazione dei tempi in appello e Cassazione con corretto computo degli stessi, escludendo quelli di “attraversamento” tra uffici, che talvolta superano i sei mesi”. Così, però, i due anni possono crescere a dismisura. Tanto rumore per nulla. “Capisco l’obiezione: così si vanifica la certezza dei tempi processuali. Ma occorre tenere conto dell’oggettività dei dati statistici cui disponiamo”. Manca nella magistratura la giusta attenzione al principio costituzionale di ragionevole durata del processo? “La prescrizione è una patologia, un pregio della riforma è valorizzare la ragionevole durata come diritto di ogni cittadino, vittima o imputato che sia. Dovrebbe stare a cuore a tutti. Anche se fare presto non significa automaticamente fare bene. Occorre ricercare e individuare un adeguato bilanciamento tra questi massimi principi in gioco. Lavoro niente affatto semplice”. Sui meccanismi alternativi al processo tradizionale la riforma è prudente: troppo? “La direzione è giusta, il passo non troppo lungo. Ma, anche per la mia esperienza precedente, so bene che in Italia tutto ciò che si traduce in un’alternativa alla detenzione o che comporta uno sconto di pena diventa difficile da far digerire a una parte dell’opinione pubblica. Su questi temi, i partiti sono in campagna elettorale permanente. E infatti si parla molto di norme processuali, poco di risorse, investimenti, assunzioni. Cose non meno importanti, per migliorare il servizio giustizia”. Il Csm che può fare? “Faremo di tutto per adeguarci. Alcuni posti per corti d’appello in sofferenza sono già stati banditi. Mi auguro che non si ripeta quanto accaduto in un passato non lontano, con posti rimasti privi di copertura”. Tra un anno finisce il suo tormentato mandato al Csm: la magistratura sta meglio o peggio di quando è iniziato? “In questi anni la magistratura ha toccato il fondo. Ma ha reagito. E non ha nascosto la polvere sotto il tappeto. Ha fatto autocritica. I problemi sono diventati opportunità, si è capita la distinzione tra consenso interno, malato, e fiducia dei cittadini, sana. La sezione disciplinare del Csm non ha mai lavorato come in questo periodo. Dipingere novemila magistrati come artefici e vittime di un sistema di intrallazzi e il Csm come una Suburra è non solo mistificatorio, ma anche pericoloso. A chi conviene una magistratura nell’angolo?”. Ha letto il libro di Renzi? Su di lei va giù duro. “Preferirei non parlare di libri che si occupano di me, per lo più in modo distorto e offensivo. Me lo sono imposto per il rispetto dell’istituzione che rappresento, anche mordendomi la lingua”. A proposito delle famose cene romane, a cui anche lei partecipava? “La storia è diversa, verrà il tempo di scriverla. In ogni caso, non riesco a capire come possa sfuggire la differenza tra l’elezione del vicepresidente del Csm, che necessita per volontà costituzionale di un accordo tra magistratura e politica, e la scelta di un procuratore della Repubblica, in una procedura amministrativa concorsuale per titoli”. Sfugge per caso o perché? “Si ignora o si disconosce che la lealtà verso le istituzioni è incompatibile con ogni forma di asservimento”. “Questa riforma è una follia. Nei fatti sarà un’amnistia” di Antonio Massari Il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2021 Intervista a Sebastiano Ardita, Consigliere Csm. L’ennesima bocciatura della riforma Cartabia arriva da Sebastiano Ardita, consigliere del Csm (corrente Autonomia e Indipendenza), ex pm antimafia e direttore generale dell’ufficio detenuti, tra il responsabile dell’attuazione del regime carcerario più duro, il “41bis”. Ardita, qual è la criticità principale della riforma? C’è un equivoco di fondo: gli obiettivi sono importanti e condivisibili, ma i mezzi sono inadeguati, addirittura contraddittori rispetto agli scopi. Partiamo dalla lunghezza dei processi, tema legato alla prescrizione. Non basta dichiarare l’intenzione di accorciare i tempi, perché i tempi sono legati agli adempimenti e, se non si riducono gli adempimenti, è impensabile che i tempi si accorcino. La riforma prevede - salvo proroghe di un anno o di 6 mesi per processi complessi e reati gravi - la durata massima di due anni per l’appello e un anno per la Cassazione. Cosa non va? Poiché la tempistica non è legata allo snellimento degli adempimenti ed è dettata dall’alto, pena l’improcedibilità dall’appello in poi, e poiché già sappiamo che non potrà essere rispettata, nei fatti diventa un’amnistia. È una follia. Manderemmo in fumo il lavoro giudiziario a caso, senza alcun criterio razionale, slegato sia dalla gravità sia dalla vetustà dei processi. Un processo per un piccolo spacciatore che dura 10 anni in primo grado e 2 anni in appello (in totale 12) non verrebbe colpito da nessuna sanzione. Quello per un grosso trafficante di droga che dura 3 anni, di cui sei mesi in primo grado e 2 e mezzo in appello, diventa improcedibile. Qual è il significato strategico di questa amnistia random? Lei intravede un’incidenza negativa su reati di mafia e corruzione? Qualunque forma criminale organizzata ottiene un beneficio da un sistema processuale inefficiente. Se non bastasse, quando la giustizia dello Stato non funziona, è proprio quella della mafia ad attivarsi. Anche i fenomeni di corruzione sono più difficili da contrastare, se bisogna fare i conti col pallottoliere delle improcedibilità. C’è comunque necessità di una riforma? In quale direzione? E perché? C’è bisogno di una riforma radicale della giustizia penale. Una riforma che renda il rito penale non semplice, ma semplicissimo. Un processo allo stato degli atti, raccolti dal pm e dalla difesa, con pari dignità di prova. Una motivazione semplificata delle sentenze. Un regime di sanzioni diversificato, rispetto al quale il carcere sia una soluzione minoritaria, da adottare obbligatoriamente per soggetti pericolosi. Chi vuole un rito ordinario, lungo, orale, se viene condannato andrà incontro a un altro registro di sanzioni, molto più gravi. Allo stesso trattamento - al rischio di un aggravamento - dev’essere sottoposto chi appella una sentenza. I processi diminuirebbero. E sarebbero più agili. Ne sono certo. Della riforma cosa salva? Le pene alternative, la messa alla prova e la giustizia riparativa per i condannati. Ma senza nessuna esperienza, formazione e cultura di controllo delle pene alternative al carcere, non possono funzionare. Anzi, completerebbero il disastro di un sistema penale inefficiente. Ritengo assurdo che non esista un progetto sulle carceri, che investa sugli operatori e comprenda le ragioni del disagio dei detenuti, dell’indisciplina interna, delle rivolte del marzo scorso e del modo illegale con cui è stato riportato l’ordine interno. Ma vedo solo parole. Nessun fatto concreto. La fiducia degli italiani nella magistratura è ai minimi storici. Perché? È bassa perché, a dispetto dell’operato onesto e proficuo dei singoli, la magistratura appare come una struttura di potere organizzata e gelosa delle sue prerogative. La sua rappresentanza, che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza, s’è trasformata nel potere che gestisce l’autonomia. La crisi delle altre istituzioni l’ha reso il più stabile e duraturo dei poteri, il governo più strutturato e meno disponibile al cambiamento. Il rimedio? Nessun sistema di potere si sopprime da sé: l’unica speranza è una modifica legislativa che mantenga (o restituisca) indipendenza e autonomia ai magistrati e spazzi via questo modello reazionario di autogoverno. Basterebbe introdurre anche una tantum il sorteggio dei componenti del Csm. Ma gli altri poteri non ci pensano neanche. O le altre istituzioni ritengono questo potere così forte da temerne le reazioni, oppure pensano a una riforma radicale che porti via sia il potere dell’élite sia l’autonomia dei magistrati. Prospettive entrambe preoccupanti. Ho detto la verità sul G8 di Genova al Tg1 e hanno preferito non mandarmi in onda di Paolo Farinella* Il Fatto Quotidiano, 24 luglio 2021 Domenica 18 luglio 2021, intorno alle ore 16:00 mi chiama un amico per chiedermi se può dare il mio numero di cellulare a una giornalista del Tg1 Rai che vorrebbe intervistare un prete di Genova per i fatti del G8. Dopo poco più di un’ora mi chiama la giornalista: “Il mio nome è X Y e sono a Genova per un servizio. Potremmo vederci domani (19/07) per una intervista che vorremmo mandare sul Tg1 della Rai?”. Dico di sì e mi chiede di che cosa voglio parlare, “così per avere un’idea”. Rispondo che io c’ero, ho visto e vissuto tante cose e, a distanza di anni, dopo molte sentenze in tribunale, compresa l’ultima del 18/07 della Corte di Giustizia Europea che ha respinto il ricorso dei militi che le si sono rivolti, possiamo forse capire il senso di quanto successo. Non fu impreparazione o incapacità, ma l’assalto armato e le conseguenti macellerie e torture furono una decisione politica di appropriazione dello Stato da parte di un governo - al tempo governo Berlusconi, Bossi e il fascista Fini - per vedere fino a che punto si poteva spingere per eliminare la Democrazia e lo Stato di Diritto, orpelli senza valore. Si volle la guerra e ci fu la guerra di uno Stato contro i propri cittadini migliori, usando corpi dello Stato per impedire l’esercizio di diritti sacrosanti. Chi salvò la Democrazia fu Carlo Giuliani che, morendo, bloccò il processo dissoluto e mise paura. Aggiunsi che, oggi, a distanza di vent’anni, bisogna scegliere tra una rievocazione romantica, farcita da luoghi comuni, imposta dal calendario, o fare memoria nel contesto di quello che successe allora. Non solo, oggi si devono collocare quei fatti nel contesto di quanto accadde “dopo”, perché oggi viviamo le conseguenze visibili di quei giorni che non sono finiti, perché Giustizia non è stata fatta, ma è stata volutamente negata. Non si possono non ricordare, oggi, le sentenze dei tribunali che hanno sancito la trattativa con la Mafia e accertato i rapporti di Dell’Utri per conto di Berlusconi con essa, e fare due più due non solo è lecito, ma forse anche doveroso. Genova fu teatro di prova generale. Non fu sospesa la Democrazia, fu massacrata, perché la stessa sera, il governo al completo prese le difese dei poliziotti, carabinieri e soldati traditori, arrivando anche a promuoverli nei mesi e negli anni successivi. Poi aggiunsi alcuni particolari di cui fui testimone e conclusi che oggi vivo in Italia, ma rifiuto lo Stato che torturò e macellò il suo popolo migliore, abolendo la Costituzione. La giornalista ascolta in silenzio e alla fine, come se fosse liberata, mi dice: “Devo sentire la redazione per valutare che taglio dare al pezzo, semmai la chiamo più tardi”. Ho risposto “Ok”, sapendo che non avrebbe chiamato perché ho sentito in lei la paura per le cose che avrei detto. Alle ore 18:11 mi arriva un WhatsApp che trascrivo: “Sono X Y del Tg1. Per domani mattina per il momento nulla, perché non abbiamo ancora deciso il taglio. La ringrazio comunque della disponibilità e mi salvo il suo numero”. Io rispondo: “Immaginavo. Grazie a lei”. Mi sono chiesto quale taglio potesse avere un servizio volante del Tg1 di qualche minuto, a Genova, nel ventennale della macelleria e tortura del G8 del 2001, se non quello di immedesimarsi col clima di allora, dando voce non ad esagitati gratuiti o professionisti, ma uomini e donne, ormai vecchi, ma protagonisti viventi e dolenti di quel tempo buio che più buio non si può. Se il Tg1 arriva a censurare anche la storia, magari per non turbare gli equilibri o i propri referenti politici, è segno che la lottizzazione e la libertà del servizio pubblico sono una chimera e il servizio pubblico è un vero servizievole ossequio ai privati, sul quale non si può dire la verità, anche sancita da sentenze di tribunale. Purtroppo, non capita solo al Tg1, ma anche alla “stampa”, asservita al governo dell’ammucchiata e con la scusa di eventuali querele, nonostante si citino sentenze passate in giudicato virgolettate, ha ancora la deferenza dei “servi volontari” che s’impegnano con ardore a essere servi dei loro padroni diretti e acquisiti e ci riescono molto bene e senza sforzo alcuno. Alla luce di questo, bisognerebbe semplicemente abolire il servizio ex-pubblico Rai e non pagare più il canone che è una gabella medievale ingiusta e vessatoria a beneficio di un sistema che ritiene B. “uno statista” e parte integrante del governo, questo sì, dei “peggiori”. Ho ancora negli occhi la scena proprio del Tg1 con il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, che col volto atterrito parla alla nazione e - fatto inaudito nella storia della Repubblica - accanto a lui Berlusconi in assetto di circostanza che si vide di botto smontare il giocattolino del suo successo, misto alla paura che vi potesse essere una insurrezione popolare. Passi per il Presidente Ciampi che rappresenta il Popolo Sovrano per imperativo costituzionale, ma che c’entrava Berlusconi che rappresentava solo il governo? Ancora una volta volle appropriarsi di un sentimento che da solo non poteva avere e rubò la scena al titolare di Diritto. Come sempre, come suo costume. Quella sera gli andarono di traverso anche i limoni finti che fece legare alle piante ornamentali fuori stagione, falsi anche quelli, ma il seguito, programmato dalle “forze del disordine organizzato”, non fu da meno a Bolzaneto o alla Diaz o dovunque vi fosse un assetto democratico da scoraggiare e da tortura. Una vendetta degna dei colonnelli argentini o cileni, o dell’Isis a cui abbiamo fatto scuola, con maestri e insegnanti di prim’ordine. *Sacerdote Caso Voghera, la difesa dell’assessore Adriatici: “Ero confuso, non ricordo” di Andrea Galli Corriere della Sera, 24 luglio 2021 I legali di Adriatici: via i domiciliari. Oggi decide il gip. La versione ufficiale nulla aggiunge anzi forse toglie, perché mancando ancora un video sulla fase dello sparo, le parole di Massimo Adriatici messe a verbale davanti al gip (“Ero confuso, non ricordo quegli attimi”) lasciano sospesi i misteri sulla dinamica balistica, e dunque sulle azioni e le eventuali responsabilità. Alle 22.30 di martedì in piazza Meardi, all’esterno del bar “Ligure”, il 39enne Youns El Boussettaoui, cittadino marocchino, era stato ferito mortalmente da un proiettile esploso dalla pistola dell’assessore leghista alla Sicurezza. Una pistola con il colpo in canna e senza sicura essendo quella l’abitudine di Adriatici nelle ronde serali da “sceriffo”, una nomea nella quale il diretto interessato “non si riconosce”, ha ribadito l’avvocato Gabriele Pipicelli che auspica la cessazione dei domiciliari per l’assistito. Se quella sera è stata l’ultima uscita di Adriatici con l’amata calibro 22, in quanto come raccontano al Corriere fonti del Comune di Voghera la Prefettura è intenzionata a non rinnovare il porto d’armi, in oltre due ore di domande del gip Maria Cristina Lapi, che oggi si pronuncerà sull’accusa (eccesso colposo di legittima difesa) e per appunto sulla misura (l’impossibilità di uscire dall’appartamento in pieno centro), Adriatici, in camicia, giacca e volto terreo, ha escluso ogni addebito. Non era andato in piazza Meardi per “puntare” l’immigrato, non aveva conti in sospeso e vendette da saldare, non coltivava la minima intenzione di assassinarlo. La mossa del giudice, che si è presa l’intero tempo a disposizione fino all’ultimo minuto possibile, conferma la delicatezza tecnica del caso, senza menzionare la sua esasperata deriva politica. In una contrapposizione e in una narrazione che finge di non vedere, e anzi altera, i dati di cronaca fin qui assemblati dagli investigatori per cristallizzare lo scenario. In ordine sparso: Adriatici si ergeva a tutore dell’ordine pretendendo di consigliare a poliziotti e carabinieri cosa fare; all’esterno del bar “Ligure”, anziché chiamare come ogni comune cittadino il 112 ha telefonato a un fisso del commissariato; della pistola col colpo in canna e senza sicura abbiamo detto, e il fatto che quel calibro sia piccolo, spesso non letale, è una giustificazione che non regge; quanto a El Boussettaoui, era un pluripregiudicato che aveva disatteso due ordini di lasciare l’Italia, aveva problemi mentali e drammatiche difficoltà esistenziali, molestava i passanti masturbandosi e orinando in luoghi pubblici, e inveendo contro chiunque per strada, minorenni compresi; infine, e lo diranno o meno i risultati degli esami tossicologici, forse martedì era indebolito e alterato da alcolici oppure droghe, e non essendo armato non rappresentava una minaccia. O forse al contrario sì, e moltissimo, a cominciare dalla violenza del colpo a mano aperta sferrato contro Adriatici dopo che quest’ultimo aveva estratto la pistola per convincerlo (ma a quale titolo?) a darsi una calmata: nelle fasi successive all’arresto per omicidio volontario, saputo del decesso in ospedale di Boussettaoui l’assessore aveva avuto un mancamento. Trasferito a sua volta al pronto soccorso, i medici avevano constatato la pesantezza di quella botta ricevuta, ed escoriazioni sul corpo in conseguenza della successiva caduta a terra, come si vede nell’unico filmato recuperato da una telecamera. Di frequente, i vertici delle forze dell’ordine avevano avvisato la sindaca Laura Garlaschelli dei pericoli rappresentati dal suo assessore, di quelle ronde, della convinzione di dover governare da solo Voghera, della pretesa di trasformare la cittadina in una battaglia perfino contro i barboni, che voleva far sloggiare, ma lei non aveva voluto o potuto togliergli l’incarico che comprendeva, oltre alla Sicurezza, la Polizia locale e l’Osservatorio sull’immigrazione. Immigrato il morto, immigrati i testimoni concordi nella versione che, insieme ai frame di quella telecamera che riprendono il colpo in faccia, avevano convinto la Procura a escludere l’omicidio e confermare la decisione, con l’avviso però al gip del rischio di una reiterazione di Adriatici. È in programma oggi pomeriggio alle 16 in piazza Meardi una manifestazione delle comunità marocchine e di alcune associazioni fra cui la rete antifascista e Nsi-Noi siamo idee con Bahija, la sorella di Youns El Boussetaoui. “Giustizia per Musta - la sicurezza è per tutti” è il claim scelto per il presidio convocato proprio nella piazza in cui il 38enne è stato ucciso. Il sindaco Paola Garlaschelli, che dall’ottobre del 2020 guida una giunta di centrodestra, ha scritto ai commercianti della piazza e delle zone limitrofe invitandoli a “prestare ogni opportuna attenzione” e suggerendo di “valutare l’eventuale chiusura della propria attività”. Caso Voghera. La procura si scusa con la difesa di Youns di Giuliano Santoro Il Manifesto, 24 luglio 2021 Il Pm dispose l’autopsia senza sentire i familiari della vittima. “Fatto inaudito”, protestano i legali. Oggi la decisione del Gip. A Voghera è stata la giornata dell’interrogatorio di Massimo Adriatici di fronte al Gip Maria Cristina Lapi. L’assessore leghista è stato ascoltato per circa tre ore in mattinata. I suoi legali lo descrivono come “affranto e distrutto”, sostengono che l’assessore si è attivato perché Youns El Boussetaoui “aveva avuto comportamenti violenti e scagliato una bottiglia”. Adriatici, raccontano a Voghera in queste ore, da tempo aveva caratterizzato la sua carica aggirandosi per le vie considerate a “rischio degrado” con la pistola in tasca. Una scelta vistosa e direttamente collegata alla ricerca di consenso che aveva creato imbarazzi quando non disguidi diplomatici con alcuni esponenti delle forze dell’ordine. La decisione del magistrato è prevista per quest’oggi. Il pubblico ministero Vincenzo Valli ha chiesto che Adriatici rimanga agli arresti domiciliari perché, sostiene, c’è il rischio che inquini le prove e perché potrebbe ripetere il reato. Il che è in contraddizione con l’ipotesi di reato formulata dagli stessi inquirenti nelle prime ore successive all’assassino di El Boussetaoui: eccesso colposo in legittima difesa. Se pure l’eccesso colposo configura una fattispecie di reato, è il ragionamento dei difensori della famiglia della vittima, questo implica una circostanza specifica: la minaccia alla persona e della relativa difesa seppure sproporzionata di fronte al pericolo. Ma questo è un fatto che difficilmente potrebbe reiterarsi. Come si spiega? “Questa contraddizione logica - è la valutazione dell’avvocata Daniela Piazza - è l’effetto di quello che è avvenuto nei giorni scorsi”. In altre parole, il clima intorno al caso sarebbe cambiato. Dapprima, e la circostanza sarebbe ulteriore elemento di allarme se confermata, sembrava di trovarsi di fronte a un senza fissa dimora figlio di nessuno. Questo pregiudizio utilizzato come alibi per la superficialità con la quale è stato affrontato il caso suona come un’aggravante non da poco. Spiegherebbe ad esempio il fatto, che i difensori di El Boussetaoui considerano gravissimo e inaudito, che sul corpo dell’uomo sia stata eseguita l’autopsia senza che ne venisse informata la famiglia o i legali stessi. Sono cinque anni che difendo El Boussetaoui per reati minori, bagatellari - racconta ancora Piazza - L’ho fatto col gratuito patrocinio, il che significa che per il tribunale di Pavia sarebbe stato semplicissimo risalire ai miei contatti”. E invece è successo che i membri della famiglia di El Boussetaoui hanno scoperto della morte di Youns soltanto perché Piazza ha letto per caso la notizia mercoledì mattina e li ha avvisati. Nessuno ha avuto l’accortezza di fare un piccolo accertamento per risalire ai parenti della vittima: padre in Italia, a Novara, un fratello in Svizzera e una sorella in Francia. Il pm Valli ha dovuto scusarsi per aver disposto l’esame sul cadavere senza che vi partecipasse un perito di parte. Fatto insolito ma non riparativo rispetto al danno arrecato al confronto tra le parti. La difesa proverà a recuperare qualcosa, anche se nulla sostituisce la partecipazione diretta al momento dell’autopsia, grazie all’intervento del dottor Galeazzi, medico legale nominato dalla difesa che nelle prossime ore potrà osservare la salma per provare a ricostruire la dinamica dell’uccisione. Ma, dicevamo, forse proprio l’intervento dei familiari e degli avvocati ha consentito che il clima attorno al caso mutasse. Dal momento in cui la vittima è uscita dall’anonimato, come se un anonimo meritasse una giustizia minore, l’atteggiamento degli inquirenti pare essere cambiato. Così potrebbe spiegarsi la discrepanza tra la prima ipotesi di reato e la richiesta di custodia cautelare che il Gip sta valutando. Tuttavia, l’avvocata Piazza lamenta che non appena ha cominciato a occuparsi della vicenda ha raccolto alcune testimonianze ma che ha trovato un muro di gomma presso i carabinieri che hanno in mano il fascicolo. “Eppure - spiega ancora Piazza - il codice consente alle parti di condurre indagini autonome e depositare testimonianze”. Tutto adesso finirà in procura. Responsabilità dei magistrati, nessun automatismo per il Pg dopo la caduta del filtro di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2021 Lo ha chiarito la Corte costituzionale, sentenza n. 169 depositata oggi, dichiarando non fondata la questione sollevata dal Giudice istruttore di Salerno perché basata su di una interpretazione erronea della norma. In tema di responsabilità dei magistrati per danni causati nello svolgimento delle funzioni, la Corte costituzionale ha chiarito che non è corretta l’interpretazione, fatta propria dal giudice rimettente, secondo cui dopo l’eliminazione del filtro di ammissibilità e la soppressione del termine di due mesi dalla comunicazione, il Pg della Cassazione sia tenuto immancabilmente ad esercitare l’azione disciplinare non appena abbia notizia della pendenza di un giudizio risarcitorio. “Benché supportata, in apparenza, dalla lettera della disposizione censurata, tale conclusione - spiega la Consulta - è da escludere sulla base di un’interpretazione sistematica che tenga conto della ratio della riforma di cui alla legge n. 18 del 2015”. Per cui il giudice delle leggi, sentenza n. 169 depositata oggi, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 9, comma 1, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), come modificato dall’articolo 6, comma 1, della legge 27 febbraio 2015, n. 18 (Disciplina della responsabilità civile dei magistrati), sollevate, in riferimento agli articoli 3, 101, secondo comma, 104, primo comma, e 108 della Costituzione, dal Giudice istruttore del Tribunale ordinario di Salerno. Invece, prosegue la decisione, il rimettente, pur nell’attuale assenza di una espressa indicazione in tal senso, ricava non implausibilmente dal disposto della norma censurata l’obbligo, per il giudice investito dell’azione di risarcimento di danni cagionati da magistrati ordinari nell’esercizio delle loro funzioni, di rimettere copia degli atti al Pg presso la Corte di cassazione. Infatti, la trasmissione degli atti dei giudizi risarcitori “assicura al Procuratore generale presso la Corte di cassazione una ‘finestra conoscitiva’ - non lasciata alla sola iniziativa, meramente eventuale, delle parti interessate - riguardo alle condotte dei magistrati che si assumono aver prodotto danni ingiusti con dolo o colpa grave, ovvero per effetto di denegata giustizia”. Il giudice a quo, invece, per la Corte non può essere seguito allorché ulteriormente suppone l’immediata obbligatorietà dell’azione. “Già prima di tale riforma - allorquando la disposizione denunciata collegava l’obbligo di esercizio dell’azione disciplinare alla dichiarazione di ammissibilità della domanda risarcitoria - si era ritenuto - prosegue la decisione - necessario coordinare tale previsione con il nuovo assetto della responsabilità disciplinare dei magistrati introdotto dal d.lgs. n. 109 del 2006: traendosi da ciò la conclusione per cui la comunicazione dell’avvenuto superamento del filtro di ammissibilità non imponeva, per ciò solo, di avviare l’azione disciplinare, in difetto di una condotta classificabile nel catalogo degli illeciti stabilito dal citato decreto legislativo”. Ciò, sia per una ragione procedurale, legata al fatto che il nuovo sistema contempla una fase cosiddetta predisciplinare di valutazione della natura “circostanziata” dell’addebito disciplinare e della plausibilità dell’incolpazione, in difetto della quale è prevista; sia per una ragione sostanziale, connessa alla circostanza che il principio di legalità e tassatività dell’illecito disciplinare impedisce che si possa promuovere un’azione disciplinare per un fatto - quale che ne sia la fonte di informazione - che non vi rientra. “Tale indirizzo appare a maggior ragione giustificato dopo la caduta del filtro di ammissibilità, conseguente alla legge n. 18 del 2015”. Mentre per quanto può desumersi dai lavori parlamentari, la soppressione, nell’articolo 9, comma 1, della legge n. 117 del 1988, dell’inciso “entro due mesi dalla comunicazione di cui al comma 5 dell’articolo 5” è stata suggerita da una mera esigenza di coordinamento con l’avvenuta abrogazione dell’intero articolo 5, senza che essa sia stata accompagnata da alcuna volontà di innovare al sistema della responsabilità disciplinare. Nemmeno consta alcun indice di una eventuale volontà legislativa di innovare al principio di autonomia dell’azione disciplinare rispetto all’azione civile di danno. “In quest’ottica, va escluso che la legge di riforma della responsabilità civile dei magistrati abbia mutato, anche solo pro parte, la struttura del sistema di giustizia disciplinare: sicché, in sostanza, per quanto attiene a tale sistema, è la legge n. 117 del 1988 a dover essere armonizzata con l’assetto del d.lgs. n. 109 del 2006, e non viceversa”. È giocoforza, di conseguenza, concludere che i presupposti per l’esercizio, sia pure obbligatorio, dell’azione disciplinare non sono stati rivisitati dalla modifica della legge n. 117 del 1988. Da un lato, dunque, il promovimento di tale azione richiede, comunque sia, l’acquisizione della notizia circostanziata di un fatto riconducibile ad una delle ipotesi tipiche previste dalla legge, e non può fondarsi sulla semplice notizia della pendenza di una causa risarcitoria; dall’altro lato, ove pure la domanda risarcitoria presenti le caratteristiche di una “notizia circostanziata” di illecito disciplinare, ciò non esclude la necessità di svolgere accertamenti predisciplinari, intesi a verificare che quella notizia abbia una qualche consistenza. In definitiva, una volta escluso l’ipotizzato indefettibile esercizio dell’azione disciplinare per la mera proposizione della domanda risarcitoria, l’obbligo di trasmissione degli atti alla Procura generale, che il rimettente plausibilmente reputa insito nel disposto della norma censurata, si rivela “innocuo” per i valori costituzionali evocati. “Viene meno, di conseguenza, il timore che il meccanismo possa essere maliziosamente utilizzato da soggetti interessati al fine di incidere sull’indipendenza e sulla serenità di giudizio del magistrato”. Prigione ai giornalisti, la Consulta mette ordine tra i principi di Giovanna Corrias Lucente Il Domani, 24 luglio 2021 La sentenza della corte risolve il conflitto tra tutela della libertà di espressione e diritto alla reputazione, ma non trascura i casi in cui il giornalista che diffama non pone in essere la funzione di c.d. “cane da guardia” della democrazia, ma all’inverso costituisce un pericolo per essa. Anticipata dal comunicato, successivo alla camera di consiglio del 22 giugno scorso, la Consulta deposita la sentenza n. 150 del 2021 destinata a risolvere uno dei punti nevralgici del conflitto fra tutela della libertà di espressione e diritto all’onore ed alla reputazione, che orbitava intorno alla previsione dell’art. 13 della legge sulla stampa. Tale norma, introdotta nel 1948, prevedeva la pena della reclusione da uno a sei anni nel caso di diffamazione con il mezzo della stampa aggravata dall’attribuzione del fatto determinato. Va rilevato che si trattava di una aggravante e, dunque, nella massima parte dei casi il suo operare veniva paralizzato dalla concessione delle attenuanti generiche che consentiva di applicare la diversa pena alternativa (o multa o reclusione di molto inferiore) prevista dall’art. 595, co. 3. È per questo che, per anni, il problema del carcere ai giornalisti non si era posto come tema di vivo interesse. Infatti, dopo una risalente condanna al carcere per Guareschi che, se ben ricordo, decise di non proporre appello e di far sì che la sentenza venisse eseguita, il tema è sorto all’attenzione delle cronache, soprattutto con le sentenze a carico di Sallusti e Belpietro. In entrambi i casi, decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo avevano poi condannato l’Italia. Una riforma difficile - Ormai una riforma era imposta, ma complessa da costruire, per la delicatezza della materia e la necessità di trovare un punto di equilibrio nella tutela di beni in conflitto: libertà di stampa ed onore e reputazione; v’è a dire che entrambi hanno rango costituzionale ed entrambi appaiono fondamentali per garantire la democrazia. La Consulta, investita da due ordinanze dei Tribunali di Bari e Salerno, non aveva trascurato l’estrema rilevanza e complessità della questione e, con l’ordinanza del 2020 n. 132 del giugno scorso, aveva ritenuto necessaria e una rimeditazione della normativa, giudicando opportuno “in uno spirito di leale collaborazione istituzionale e nel rispetto dei limiti delle proprie attribuzioni” rinviare di un anno la decisione, per consentire al legislatore di approntare una nuova disciplina. In altri termini, la Corte non aveva ritenuto scelta privilegiata la declaratoria di illegittimità della norma (cioè, la sua amputazione dal sistema), ma aveva ritenuto più adeguata una modifica della disciplina per coordinarla con i principi fissati dalla Giustizia europea e, in parre, dalla giurisprudenza nazionale. Nell’inerzia del legislatore, trascorso il termine dato, la Consulta ha ripreso in mano la materia. La sentenza della Consulta - La motivazione della sentenza n. 150 si articola in sintetiche e lucide fasi. In premessa, ritiene che norme (come l’art. 13 per la stampa e l’art. 30 della Legge n. 233 del 1990 sulle radiotelevisioni, che lo richiama) poiché prevedono, come la reclusione come pena congiunta alla multa, non siano compatibili con il diritto di libera manifestazione del pensiero, riconosciuto. Dal lato dei principi, affermano che tale sanzione è incompatibile con l’esigenza di non dissuadere, per effetto del timore della sanzione, la generalità dei giornalisti dall’esercitare la propria essenziale funzione di controllo sui poteri pubblici, la cui rilevanza è a cuore alla Corte europea. Mitigano questo assunto, con l’immediata osservazione che la pena detentiva non può, su questo fondamento, essere espunta dal sistema totalmente; merita di restare per i casi di diffamazione più gravi. Ciò deciso, restava da prender posizione sull’art. 595 comma terzo del codice penale che prevedeva la reclusione, tuttavia in alternativa alla multa, per il caso di diffamazione con il mezzo della stampa od altro mezzo di pubblicità, ma era ormai inapplicato dall’epoca di introduzione dell’art. 13 della legge sulla stampa, norma speciale. Invece di espungere anche questa norma dal sistema, la Consulta opportunamente rammenta che anche la reputazione personale è un bene di rango costituzionale ed inviolabile. Testualmente riporta “aggressioni illegittime a tale diritto attraverso la stampa, la radio e televisione, testate giornalistiche online, siti Internet e social network, etc, possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime, precisando che i danni possono essere amplificati dalla tecnologia che consente di reperire anche tutte le diffamazioni compiute in danno di una persona anche a distanza di anni e senza certosine ricerche di archivio. Chi si sia trovato ad affrontare tali situazioni sa quanto possano essere dolorose. Il bilanciamento - Il potenziale dannoso e la rilevanza del bene leso impongono alla Corte di operare un bilanciamento tra le contrapposte esigenze di tutela. Non si può, dunque, conclude la Consulta, espungere in assoluto la pena detentiva. Nel percorso argomentativo, ricorre alla Core europea la quale, in numerose decisioni, aveva affermato che la detenzione può essere prevista per i casi di eccezionale gravità. Se gli esempi dell’organo sovranazionale riguardano i discorsi d’odio e di incitamento alla violenza, la Consulta opportunamente aggiunge che il requisito dell’eccezionalità pertiene, anche e per esempio, a campagne di disinformazione condotte attraverso i media, connotate dalla propalazione di addebiti gravemente lesivi della reputazione e con il dolo dell’autore. In tali casi infatti, secondo la Corte costituzionale, chi diffama non pone in essere la funzione di c.d. “cane da guardia” della democrazia, ma all’inverso costituisce un pericolo per essa: a titolo esemplificativo, potrebbe ricorrere alla menzogna per screditare un avversario politico con conseguenze distorsive sulle elezioni. Se ben circoscritta, afferma la Consulta a casi analoghi a quelli ipotizzati, la previsione della pena detentiva non produce alcuna intimidazione verso l’esercizio della professione giornalistica e del suo fine nella democrazia. Tale statuizione dovrà fungere da criterio interpretativo per i Giudici nella scelta della pena da applicare. In conclusione ed in questa cornice ben delineata, la Corte costituzionale stabilisce di dichiarare inammissibili l’art. 13 della legge sulla stampa e l’art. 30, comma 4 della legge n. 223 del 1990 (che rinviava alla prima norma), mantenendo nell’ordinamento l’art. 595 comma terzo che prevede in alternativa pene pecuniaria e detentiva, dettando i criteri, applicati i quali, potrà irrogarsi la pena detentiva. Omicidio, premeditazione non esclusa dal disturbo narcisistico che non determina infermità di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 24 luglio 2021 Il delitto passionale aggravato, punito con l’ergastolo, non può essere attenuato dalla confessione di chi non ha scampo. Il disturbo borderline di tipo narcisistico non integra il vizio di mente dell’autore di un omicidio passionale, che resta pienamente responsabile del delitto commesso. I disturbi della personalità possono “azzerare” la capacità di intendere e volere solo quando determinano una vera e propria infermità dovuta a malattia mentale. Non basta quindi al riconoscimento del vizio mentale dell’assassino far rilevare le sue problematiche caratteriali e le distorsioni del comportamento, neanche dando risalto al vissuto doloroso familiare che ha determinato in lui un deficit intellettivo e una personalità narcisistica. Come spiega la Cassazione, con la sentenza n. 28964/2021, rigettando il primo motivo di ricorso contro l’attribuita premeditazione dell’omicidio volontario. La Cassazione ha riconfermato la sussistenza della premeditazione anche di fronte alla tesi difensiva dell’aver agito in stato d’ira a seguito del rifiuto della vittima di riprendere la relazione amorosa con il ricorrente. Infatti, il rifiuto era già stato espresso ed era perciò noto a colui che si era già determinato a uccidere se questo fosse stato rinnovato in occasione dell’ultimo fatale incontro tra i due. Si tratta di un’ipotesi di dolo condizionato da un evento futuro, che nulla toglie alla premeditazione anzi la conferma. Neanche l’eventuale ampio lasso di tempo tra la determinazione a uccidere e il verificarsi dell’evento rappresentato come occasione per agire spezza il nesso della premeditazione. Il ricorso è stato rigettato anche sul punto del mancato riconoscimento delle attenuanti generiche. Infatti, spiega la Cassazione che non si può dare rilevanza alla confessione dell’omicida che si reca in Questura per costituirsi se questo avviene dopo diverse ore e dopo essersi consigliato con alcuni familiari addivenendo alla semplice e piana convinzione di non avere alternativa. Ciò che depone - tra l’altro - per una piena coscienza in opposizione all’affermato vizio di mente e soprattutto di una sincera spinta alla confessione. Precisa la Cassazione che il riconoscimento delle attenuanti generiche si fonda su plurimi elementi e che basta la ricorrenza o meno di uno solo di essi per negarle con espressa motivazione del giudice. Neanche la contestazione della pena dell’ergastolo è stata accolta dalla Cassazione che ha rilevato come sia stata ampiamente provata la condotta di continue molestie poi sfociate nell’assassinio della donna. La sentenza di legittimità conferma la riconosciuta aggravante del reato di omicidio che il codice penale sanziona con il carcere “a vita”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). I Garanti chiedono il riavvicinamento dei carcerati trasferiti di Raffaele Sardo La Repubblica, 24 luglio 2021 Il Provveditore Cantone ha comunicato che il Dipartimento di amministrazione penitenziaria ha dato l’indicazione che i detenuti, su scelta volontaria, possono formulare e presentare una richiesta di trasferimento per avvicinamento familiare. Nuovo incontro stamani tra i tre garanti dei detenuti, Samuele Ciambriello (Garante regionale), Pietro Ioia (garante città di Napoli) e Emanuela Belcuore (Garante della provincia di Caserta) con il Provveditore campano reggente dell’amministrazione penitenziaria Carmelo Cantone, per discutere nuovamente del trasferimento dei 42 detenuti dal reparto Nilo (quello delle violenze) dal carcere di Santa Maria C.V. L’incontro era stato chiesto dai tre garanti direttamente al capo del Dap, Bernardo Petralia, il quale, però, ha delegato Cantone, perché impedito da altri appuntamenti di natura istituzionale. I detenuti sono stati trasferiti nei giorni scorsi in 23 istituti penitenziari diversi, ma tutti fuori regione, da Sollicciano, Modena, Ivrea, Palmi, Forlì, Palermo, Reggio Calabria, La Spezia, Terni, Castrovillari ed altri. Il Provveditore Cantone ha comunicato che il Dipartimento di amministrazione penitenziaria ha dato l’indicazione che i detenuti, su scelta volontaria, possono formulare e presentare una richiesta di trasferimento per avvicinamento familiare indicando 3 carceri più vicine alla Regione Campania, in seguito alla quale il DAP verificherà, d’intesa con la Procura, che ne aveva segnalato i trasferimenti, la fattibilità dell’accoglimento della richiesta. Anche se la Procura sulla scelta dei luoghi in cui sono stati trasferiti i detenuti non c’entra proprio nulla. In realtà la Procura aveva segnalato solo la necessità di allontanare da santa Maria Capua Vetere i detenuti vittime delle violenze del 6 aprile 2020, molti dei quali hanno anche denunciato gli agenti penitenziari. “Credo che sarebbe stato più opportuno organizzare i trasferimenti diversamente - dice Il Garante regionale Samuele Ciambriello - con più umanità, più realismo, più ragionevolezza, ma sono comunque grato al DAP dell’incontro di stamattina, dal quale è emersa una strada da percorrere per il concreto avvicinamento dei detenuti. Una prospettiva di avvicinamento tra il carcere così com’è e come dovrebbe essere”. Benevento. Suicidio in carcere di Salvatore Luongo, chiesta l’archiviazione ilcaudino.it, 24 luglio 2021 Secondo il Gip non sussistono elementi per far pensare a qualcosa di diverso dal suicidio. Samuele Ciambriello ha attivato tutte le procedure per fare chiarezza sul suicidio di Salvatore Luongo, di anni 22, avvenuto in data 20.10.2020, nell’Istituto Penitenziario di Benevento. Ricordiamo che Ciambriello ricopre il ruolo di Garante per i diritti dei detenuti della Regione Campania. Ciambriello comunica di seguire con la massima attenzione il caso al fine di far luce sulle reali cause della morte del detenuto. Secondo la Procura della Repubblica competente, sarebbe avvenuto per effetto di un gesto personale. IL Garante Samuele Ciambriello, nello specifico, ha inviato una lettera alla Procura della Repubblica di Benevento. Lo ha fatto per far emergere una ricostruzione realistica dei fatti che hanno indotto il giovane detenuto all’ estremo gesto contro la propria persona. Questo anche in considerazione dell’autopsia effettuata” ed il Procuratore della Repubblica di Benevento, Dott. Aldo Policastro, a tal uopo, ha comunicato quanto segue. “È stata avanzata richiesta di archiviazione al giudice per le indagini preliminari di Benevento. Secondo il giudice per le indagini preliminari non sussiste alcun dubbio in ordine alla genesi suicidaria del decesso in oggetto, non essendo emersi altri profili di responsabilità penalmente rilevante”. Salvatore, originario di Melito, in provincia di Napoli, si trovava al Penitenziario di Benevento da circa una settimana. Proveniva dal Penitenziario di Andria. La dichiarazione di Ciambriello - “Per dovere di cronaca, di giustizia, e di verità - dice Samuele Ciambriello - comunico, che tale ennesimo drammatico episodio fa emergere nuovamente il disagio quotidiano e le disumane e gravi condizioni di vita dei detenuti. Si tratta di situazioni che in qualità di Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale denuncio quotidianamente. Non si può continuare a morire di carcere, in carcere, così conclude Samuele Ciambriello. Da tempo Ciambriello si batte per trovare un’alternativa al carcere soprattutto per quei reati considerati minori. Gli istituti di pena, purtroppo, ogni giorno che passa diventano delle vere a proprie polveriere. Napoli. È un malato terminale, ormai pesa 40 chili, ma rimane in carcere a Secondigliano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 luglio 2021 Il Garante campano Samuele Ciambriello che ha visitato mercoledì Aurelio Quattroluni nel carcere di Secondigliano: “Si trova in una situazione drammatica ha metastasi in tutto il corpo e dovrebbe essere curato in ospedale”. Ridotto pelle e ossa, si trova in una condizione fisica molto grave a causa di un tumore alla prostata che oramai è sfociato in metastasi in tutto il corpo. Ma non è in detenzione ospedaliera, l’uomo è recluso nel carcere campano di Secondigliano, essendo un ergastolano ostativo. Soprattutto dopo le polemiche contro le “scarcerazioni”, che poi erano, appunto, le detenzioni domiciliari per gravi motivi di salute, lo Stato ha preferito fare a meno del rispetto del diritto alla salute. Di fatto non si è dato seguito all’articolo 32 della Costituzione che teoricamente viene prima di ogni altra esigenza punitiva. Una pena di morte lenta, quella che sta subendo l’ergastolano Aurelio Quattroluni, classe 1960. Vive da malato terminale in carcere, in barba all’articolo 27 della Costituzione che disciplina il senso di umanità che deve caratterizzare tutte le pene e la finalità rieducativa dei trattamenti imposti al condannato. Tutto questo è da leggere in combinato disposto con l’art. 3 Cedu che vieta torture e trattamenti inumani e degradanti. La visita a Secondigliano del garante campano Samuele Ciambriello - Una storia, la sua, presa in carico dal garante regionale Samuele Ciambriello che ha potuto rivederlo mercoledì scorso durante una visita al reparto T1 di Secondigliano. Una visita importante, quella effettuata dal Garante nel reparto dove sono reclusi i “fine pena mai”. Sono i dimenticati, ma ricordati solamente quando c’è bisogno di strumentalizzare. Il Garante ha così portato un po’ di luce in fondo al tunnel dell’indifferenza e della violenza, molto subdola, di uno Stato oramai arreso all’emergenzialismo quando l’emergenza non c’è. Enrico Fumia ha interrotto lo sciopero della fame - Quello stesso giorno, il garante Ciambriello è riuscito a far interrompere lo sciopero della fame intrapreso da Enrico Fumia, un caso di detenuto oncologico segnalato dall’associazione Yairaiha Onlus e riportato sulle pagine de Il Dubbio. Grazie al coordinamento con l’autorità sanitaria, il garante regionale è riuscito a fargli prenotare la chemioterapia, indispensabile per la sua sopravvivenza. Ma ritorniamo all’ergastolano Quattroluni. Una vicenda drammatica. Dal carcere di Padova dove si trovava detenuto, su decisione del magistrato fu mandato agli arresti domiciliari e operato d’urgenza presso l’ospedale “Vittorio Emanuele” di Catania per cancro alla prostata in stadio avanzato, quindi sottoposto alle terapie. Purtroppo per il cancro di cui è affetto non vi può essere guarigione.Quattroluni resta per qualche tempo agli arresti domiciliari, viene curato sia fisicamente che mentalmente perché intanto gli si sono aggiunte altre patologie molto serie. Rigettate tutte le istanze per i domiciliari per Aurelio Quattroluni - Nel mese di febbraio 2020 arrivano accuse retroattive risalenti a 25 anni fa. Lo arrestano e viene tradotto nel carcere di Catania. Arriva la pandemia e Quattroluni risulta anche positivo al Covid 19. Il tribunale di Catania dispone nuovamente gli arresti domiciliari con scadenza settembre 2020, ma la pec non viene letta in tempo utile e il detenuto viene trasferito presso il carcere di Secondigliano. L’avvocata Ornella Valenti del foro di Catania, che assiste il detenuto, si imbatte in 53 pec con allegati documenti e certificazioni. Istanze su istanze, ma prontamente rigettate. Nel frattempo il detenuto peggiora. A ciò si aggiunge la depressione, alternando scioperi della fame con attacchi di autolesionismo. Com’è detto è affetto da patologia tumorale con metastasi, è stato sottoposto al primo ciclo di chemioterapia, che si è rivelata devastante in considerazione delle sue condizioni fisiche in fase di netta degenerazione e a causa dello stato di isolamento a cui è sottoposto. È evidente lo stato di incompatibilità con il regime carcerario. Per questo l’avvocata Valenti ha presentato l’ennesima istanza, rigettata di recente dal tribunale di Catania, mentre la magistratura di sorveglianza di Napoli tarda nel pronunciarsi. È stata chiesta la detenzione domiciliare, oppure - in subordine - almeno il ricovero presso un presidio ospedaliero in modo di poter essere monitorato in maniera adeguata. Nulla da fare. Da una parte il rigetto, dall’altra il silenzio. È sottoposto a una sorveglianza particolare: un isolamento diurno - Mercoledì scorso, com’è detto, è andato a trovarlo il garante regionale Samuele Ciambriello. Riferisce a Il Dubbio che l’ha visto in condizioni gravi. “Si trova in una situazione drammatica - spiega il Garante - peserà 40 kg, ha il tumore in tutto il corpo e nonostante ciò rimane in carcere”. Ma non solo. “Continuano a tenerlo in queste gravi condizioni - prosegue il Garante -, con l’aggiunta che è stato recentemente raggiunto da un ulteriore restrizione a causa di un nuovo pentito che l’accusa di delitti commessi più di 25 anni fa”. Parliamo della sorveglianza particolare, un isolamento diurno. “C’è una possibilità di poterlo curare meglio - osserva sempre il Garante Ciambriello -, ovvero mandarlo all’ospedale oncologico di Catania dove c’è la possibilità di garantirgli una terapia adeguata. Basterebbe una detenzione ospedaliera in quel luogo, e lo avvicinerebbe anche alla famiglia”. È allo stadio terminale l’ergastolano Quattroluni. Ma rimane in carcere, a quello di Secondigliano dove il reparto clinico interno non è adeguato a garantirgli una assistenza. “Credo che stia morendo nel silenzio e nell’indifferenza”, dice con amarezza il Garante Ciambriello, il quale si è attivato mandando una lettera alla direzione sanitaria del carcere, chiedendo un report sanitario. Che intendono fare? Quali provvedimenti prenderanno per garantire il diritto alla salute del detenuto? Questo è quello che il garante Ciambriello ha chiesto. Anche perché, un medico generico del reparto T1 di Secondigliano, non può garantire una assistenza oncologica. Ci vorrebbe un ospedale, non un carcere. Bergamo. Accoglienza migranti, lo Stato non paga da un anno e mezzo: debito di 10 milioni di Armando Di Landro Corriere della Sera, 24 luglio 2021 La Caritas: così non reggiamo. Cooperative e associazioni hanno anticipato il possibile per continuare a offrire il servizio, che è ancora operativo: più di 500 persone sul territorio. Il prefetto: pronti nuovi pagamenti. Non è chiaro se le cause siano da imputare all’atavica lentezza dello Stato nei pagamenti sul territorio (nel 2014 la prefettura aveva accumulato 3 milioni di debiti solo per l’affitto dello stabile di Via Tasso) oppure alle conseguenze dell’inchiesta penale che, a partire dall’estate del 2020, ha svelato un sistema di malaffare reale o presunto risalente al 2017-2018, e già giudicato in primo grado con condanne per quanto riguarda la cooperativa Rinnovamento, della rete d’accoglienza dei richiedenti asilo. Ma i fatti sono chiari: solo a maggio e giugno di quest’anno la prefettura ha erogato alle cooperative il 50% delle risorse previste, e concordate con gli appalti, per il servizio di accoglienza di agosto, settembre, ottobre e novembre del 2019. Il resto, e cioè l’ultimo anno e otto mesi, non è ancora stato pagato. Le risorse in questione sono quelle che un tempo corrispondevano ai 35 euro al giorno per ogni migrante e che invece, da fine 2019, si traducono in rette diverse, dai 18 ai 26 euro, in base alle dimensioni del centro da gestire. Complessivamente, per tutto il sistema dell’accoglienza sul territorio bergamasco, la somma dei fondi non percepiti da dicembre 2019 e già rendicontati è pari a dieci milioni di euro. Una cifra da suddividere tra tutti gli operatori del sistema, anche la cooperativa Rinnovamento che ha ospitato migranti fino a poche settimane fa. Anche se la fetta principale riguarda l’associazione temporanea di imprese costituita da Diakonia, cooperativa Ruah e Il Pugno aperto, che stanno rischiando parecchio in termini finanziari avendo già anticipato su fornitori e personale. La questione è delicata e lo sono anche i rapporti con la prefettura. “È un periodo in cui i pagamenti si fanno solo dopo un’attenta e scrupolosa verifica, anche in relazione all’inchiesta penale, e solo dopo aver ricevuto la documentazione che le cooperative devono presentare in modo puntuale - commenta il prefetto Enrico Ricci. Le cifre variano in relazione ai mesi e ai tipi di contratto. Posso dire che ci sono i pagamenti di una serie di mensilità pronti a partire”. A intervenire, nella serata di ieri, è stato direttamente il direttore della Caritas, a cui Diakonia fa capo, don Roberto Trussardi: “Abbiamo il massimo rispetto per il prefetto e non vogliamo assolutamente fare o creare polemiche. Ma crediamo che in uno stato civile il lavoro fatto vada compensato, semplicemente questo. I fatti contemplati dall’inchiesta peraltro ricadono nel periodo 2017-2018, quella è un’altra storia. Così facciamo davvero fatica ad andare avanti e ci sono cooperative che stanno rischiando. Abbiamo scritto a molti politici bergamaschi, tutti restano basiti. Faremo in modo di muoverci ancora”. Forse il tema non ha più alcun appeal, per la politica. Ma l’accoglienza è ancora operativa. Solo nell’ultimo mese sono state ospitate da Diakonia e Ruah 37 donne, per lo più nigeriane. La recente revoca del servizio alla Rinnovamento ha portato, per esempio, a un nuovo carico di lavoro, con circa 70 nuovi ospiti. E in tutto, ancora oggi, sono più di 500 i migranti ospitati nei vari centri sul territorio: una cifra non certo indifferente se si pensa che, all’apice dell’emergenza, quando l’accoglienza era sotto i riflettori (anche politici) ogni giorno, erano circa 2.500 gli ospiti sul territorio. Il prefetto ha lasciato intendere che le verifiche sono state minuziose, a prescindere dai governi che si sono alternati: una prima stretta sul flusso dei migranti era arrivata con Marco Minniti agli Interni negli ultimi mesi del 2017. Da giugno dell’anno successivo era stato Matteo Salvini a guidare il Viminale, fino a settembre del 2019, periodo che risulta in parte pagato. Poi, con il governo giallo-rosso, la guida era passata a Luciana Lamorgese. È quindi difficile intravedere ragioni meramente politiche nei rubinetti chiusi, che sono tali da più di un anno e mezzo. Alla cooperativa Ruah si parla, con preoccupazione, di “ridimensionamento”. Tutto il sistema dell’accoglienza coinvolge più di un centinaio di operatori. Pisa. Carcere, il teatro abbatte anche il cluster di Ilenia Pistolesi La Nazione, 24 luglio 2021 Problemi di allestimento per la Compagnia della Fortezza a causa del Covid, ma lo spettacolo si farà lo stesso: “Superate le difficoltà”. “Le Entità che cerchiamo di far emergere in noi. Abitano nella loro patria, ma come stranieri, partecipano a tutto come cittadini, e tutto sopportano come forestieri; ogni terra straniera è loro patria e ogni patria è per loro terra straniera. Dimorano sulla terra - scrive Armando Punzo - ma sono cittadini del cielo. Innocenza, Armonia, Letizia, Luce, Respiro, Vento dolce, Vento luminoso, Anima, Mondo che si ritrae, Principio Speranza, Uscite dal Mondo, Il Cacciatore celeste, Il Distillatore della vita, Vita mancata, Aurora, Natura, Infinito. Per arrivare all’Annientamento in vista della più difficile delle valli, quella della Permanenza”. La Compagnia della Fortezza si prepara al debutto dello spettacolo “Naturae. La Valle dell’Annientamento”, in scena fra le mura del Maschio da domani al primo agosto dopo le terribili settimane che questo inverno hanno scatenato un potente cluster fra le celle, con i lavori dello spettacolo interrotti a marzo e ripresi a maggio. Troppo breve il tempo per realizzare il finale del grande romanzo epico e etico partito nel 2015 con le baraonde selvagge shakesperiane e le Babeli di Borghes, ed ecco che lo spettacolo sarà ancora un nuovo varco da trascendere per i protagonisti, ‘Lui e il bambino’. Ne parliamo con il regista e drammaturgo Armando Punzo. Punzo, lo spettacolo non sarà un approdo. “Sarà la possibilità di approfondire i temi che dovevamo affrontare nel finale della saga, ma sono mancati due mesi e mezzo di lavoro. È l’idea di questo lungo viaggio dell’essere umano che ci ha consegnato Shakespeare, per arrivare ai ‘personaggi-idea’ di Borghes. È un viaggio per scoprire quelle qualità che normalmente teniamo segregate in un pozzo. E il nuovo spettacolo, di fondo, è un anelito alla felicità”. Perché “La Valle dell’Annientamento”? “È un riferimento al ‘Verbo degli Uccelli’, è il distaccamento per raggiungere uno stadio di evoluzione al di sopra del bene e del male. Annientarsi per giungere alla possibilità di una felicità ed arrivare alla ‘Valle della Permanenza’, luogo dove mettere in pratica questa nuova Genesi che portiamo in scena dal 2015”. Quanto è stato arduo allestire lo spettacolo in un 2021 in cui il carcere è stato travolto dalla tempesta pandemica? “Abbiamo avuto un cluster con più di 70 ammalati, gestito all’inizio con molte difficoltà, ma con grande professionalità. Ho ritrovato un carcere come quello di 30 anni fa, ancor più chiuso, nonostante l’impegno della direzione carceraria a tenere i contatti fra detenuti e loro cari. Alcuni detenuti sono rimasti 40 giorni, anche più, in isolamento nelle loro celle. Quel che abbiamo fatto è ritrovare gli orizzonti, rinascere per dare spazio a nuovi ragionamenti. È stato come rincominciare da capo. Abbiamo adattato il nostro lavoro combattendo con questa nuova difficoltà, arrivando probabilmente a capire ancora più in fondo dove stiamo arrivando adesso”. “Pianosa - L’isola del diavolo”, di Silvia Giralucci. Riflessione profonda sul senso della pena padovaoggi.it, 24 luglio 2021 Il podcast originale della giornalista padovana andrà in onda da domenica 25 luglio su Radio 24. Da settembre poi la versione integrale sarà disponibile in abbonamento su Audible. Pianosa è un puntino al largo dell’Elba, uno scoglio piatto nel mar Tirreno che fin dall’antichità è stata una prigione, un altrove dove mandare chi era sgradito. L’isola del diavolo. Silvia Giralucci, giornalista padovana, il cui papà fu vittima del primo omicidio delle Brigate Rosse, ci capita in vacanza e rimane affascinata dal contrasto tra un luogo dal paesaggio paradisiaco e la sua storia. “Sono stata affascinata da questo luogo e non sapevo perché. Poi ho capito che era perché faceva parte della mia storia ed in questo luogo sono andata a cercare i miei fantasmi”. Il podcast “Pianosa - L’isola del diavolo” è il suo racconto del viaggio tra le storie del passato e del presente di Pianosa, storie che intrecciano la storia d’Italia e che portano a una riflessione profonda sul senso della pena. Il carcere duro lenisce il dolore delle vittime? A cosa serve davvero la pena? Che cosa succede alle persone dentro un carcere di massima sicurezza? Su Radio24 a partire da domenica 25 luglio - Disponibile in forma ridotta sulle principali piattaforme (Apple Podcast, Spotify e sul sito di Radio 24) il podcast andrà in onda nella sua versione integrale su Radio24 a partire da domenica 25 luglio, la domenica alle 20 e il sabato alle 17. Da settembre poi la versione integrale sarà disponibile in abbonamento su Audible. Cos’è stato Pianosa - Per 150 anni Pianosa è stata un carcere, colonia penale agricola e poi carcere di massima sicurezza i vertici del terrorismo rosso, e poi la cupola della mafia dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. La storia - Silvia Giralucci ritorna sugli interrogativi che l’assillano fin da bambina, e attraverso le voci di chi ha abitato Pianosa - da bambino, da detenuto, da agente, da guida turistica, da avvocato - racconta i segreti di un luogo sospeso tra inferno e paradiso, esplorando allo stesso tempo il nostro complicato rapporto con la pena. Con una guida ambientale si addentra nella zona carceraria, dove le sezioni sono rimaste in un tempo sospeso dal 1998 quando, improvvisamente, il carcere venne chiuso e l’isola abbandonata. Si trova davanti alla sezione Agrippa, dove sono stati rinchiusi anche alcuni degli assassini di suo padre, e attraverso il racconto di Franco Bonisoli, uno degli autori del rapimento di Aldo Moro, si interroga sul carcere duro e su che cosa possa portare i terroristi ad assumersi la responsabilità dei reati commessi. Nel viaggio, nel tempo e nello spazio, incontra Gaetano Murana, condannato per la strage di Paolo Borsellino, detenuto per 18 anni, di cui 16 al 41 bis la maggior parte a Pianosa, prima di essere riconosciuto completamente innocente e vittima di depistaggi; il direttore di carcere Luigi Pagano, che ha iniziato la sua carriere come vicedirettore del penitenziario di Pianosa, e che dopo una vita passata nell’amministrazione penitenziaria è convinto che il carcere andrebbe abolito, e poi Stefano Ricci, antropologo fisico che racconta il passato lontano che emerge dagli scavi di Pianosa; i detenuti in semilibertà che abitano l’isola oggi lavorando con i turisti, e i due agenti di polizia penitenziaria Claudio Cuboni e Michele Comune che da trent’anni vivono questo posto sperduto come due eremiti. Silvia Giralucci - Silvia Giralucci, è giornalista professionista dal 2001. Ha lavorato per ANSA, CNNitalia.it, il Mattino di Padova e collaborato con il Sole 24 Ore e Repubblica. È stata caporedattrice a Fabrica (Benetton group). Per Mondadori Strade Blu ha pubblicato L’inferno sono gli altri (2011). È autrice e co-regista del film documentario Sfiorando il muro (Doclab, selezione ufficiale alla Mostra del Cinema di Venezia del 2012). Si occupa di comunicazione per enti pubblici e privati. È presidente dell’associazione Casa della Memoria del Veneto. “I migranti? Non ci rubano il lavoro”, la fake news smentita dall’Eurostat di Emanuele Bonini La Stampa, 24 luglio 2021 L’ente statistico europeo: gli stranieri non rubano il lavoro, semmai se lo meritano perché più bravi dei colleghi non stranieri. “Gli stranieri ci rubano il lavoro”. È questa una delle argomentazioni più diffuse per chiudere la porta in faccia ai migranti, che Eurostat smentisce e derubrica nei fatti alla voce “fake-news”. L’istituto di statistica europeo corregge l’affermazione tanto usata da un certo tipo di politica: gli stranieri non rubano il lavoro, semmai se lo meritano perché più bravi dei colleghi non stranieri. Lo dicono i numeri. Nel 2020, il tasso di sovra-qualificazione dell’UE era del 41,4% per i cittadini non comunitari e del 32,3% per i cittadini di altri Stati membri dell’UE. Vuol dire che a parità di posto di lavoro, il forestiero, che sia marocchino, romeno, o bulgaro ha perlomeno una marcia in più rispetto a un italiano. “I cittadini stranieri occupati hanno maggiori probabilità dei cittadini del Paese in cui si trovano di essere troppo qualificati per il loro lavoro”, sostiene Eurostat. In Italia gli italiani rischiano dunque di non reggere la concorrenza straniera dei migranti. Anche qui i numeri non giocano a favore di chi sbandiera il patriottismo. Tra gli Stati membri dell’UE, la quota più elevata di cittadini extracomunitari sovra-qualificati è stata registrata nel 2020 in Grecia (71,6%), seguita da Italia (66,5%). Ecco che i migranti, anche extracomunitari, risultano essere una risorsa, che in quanto tale andrebbe integrata, innanzitutto nel mondo del lavoro. La politica del “prima gli italiani” andrebbe quindi applicata alla formazione professionale, così da rendere gli italiani a prova di concorrenza straniera. Ragionamento valido anche per gli altri Paesi dell’Unione europea, oggetto delle stesse dimaniche. La manodopera straniera tende a essere più efficiente e competitiva di quella nazionale ovunque. Eurostat non entra nel merito di questioni sensibili legati a immigrazione e lavoro. I dati suggeriscono da una parte la non competitività dei costi salariali e l’impossibilità di assunzione per gli stranieri. In altri termini, un lavoratore troppo qualificato costa troppo, e può quindi rimanere escluso. Ma c’è l’altra faccia della medaglia. Dall’altra parte un lavoratore straniero rischia di essere pagato meno di un collega nazionale, rispetto al quale ha più capacità. È il fenomeno del cosiddetto dumping sociale, che opera una discriminazione anche nei confronti del migrante, pagato meno di quello che meriterebbe per le capacità e le competenze che ha. Ancora, a parità di curriculum ed esperienza, lo straniero è quello che può accettare di più accordi al ribasso, e il datore di lavoro può essere attratto dalla convenienza di bravi dipendenti a costi più concorrenziali. L’Italia non deve temere solo i lavoratori extracomunitari. L’appartenenza all’UE, che non ostacola i migranti economici, in termini lavorativi costa agli italiani se si guarda al merito, quello vero. Per i cittadini di altri Stati membri dell’UE, le quote più elevate di lavoratori sovra-qualificati sono state registrate in Italia (47,8%), Cipro (47,7%) e Spagna (47,2%). Lo Stivale è il primo per maggior tasso di lavoratori anche troppo qualificati per uno stesso impiego che potrebbe ricoprire un nazionale. L’Italia non è comunque un fenomeno isolato. Al contrario, è la conferma di una tendenza generale. I lavoratori nazionali sono ovunque, nell’UE, i meno qualificati di quelli stranieri utilizzati nel mercato del lavoro con contratto regolare, secondo i dati Eurostat. Questo sembra indicare che chi si reca all’estero ha capacità da vendere, e che in realtà non è vero che “gli stranieri rubano il lavoro”. Sono semplicemente più bravi, e questo vale per i tanti italiani all’estero. Non finisce qui. Nell’Europa che dichiara guerra alla discriminazione di genere, Eurostat dice chiaramente che sulla base dei dati 2020 “le donne avevano maggiori probabilità di essere troppo qualificate rispetto agli uomini, indipendentemente dalla cittadinanza”. Un qualcosa su cui dover lavorare. Migranti. Emma Bonino: “No al rifinanziamento della guardia costiera libica” di Giovanna Casadio La Repubblica, 24 luglio 2021 “Inconcepibile che passi senza una discussione nell’Aula del Senato”. La leader di +Europa: “Come già accaduto alla Camera, il voto non può avvenire solo attraverso le commissioni Esteri e Difesa”. “Il rifinanziamento per l’addestramento della Guardia costiera libica deve coinvolgere tutti i senatori. È politicamente inconcepibile che passi con il solo via libera nelle commissioni Esteri e Difesa. Io sono e resto contraria alla collaborazione con i guardacoste libici”. Emma Bonino, ex ministra degli Esteri e commissaria Ue, senatrice e leader di +Europa, dà battaglia. Con un gruppo di senatori sta raccogliendo le firme che servono, secondo il regolamento di Palazzo Madama, per discutere in aula le missioni internazionali che hanno già avuto l’ok della Camera. Emma Bonino, lei è contraria al supporto italiano alla Guardia costiera libica, perché? “La strategia inaugurata con il memorandum Italia-Libia del 2017, proseguita con il riconoscimento della SaR (la zona di Search and Rescue) libica, con il decreto motovedette dell’estate 2018 e con queste missioni di supporto che ora si chiede di rinnovare, si regge su una finzione cui nessuno può più far finta di credere: che le autorità libiche siano in grado di salvare persone in mare garantendo il rispetto dei più basilari diritti umani. Le condizioni dei centri di detenzione, non chiamiamoli di accoglienza per favore, sono note a tutti, ne sono pieni i rapporti delle organizzazioni internazionali. Sono dei lager” Dopo il via libera della Camera, ora al Senato cosa sta succedendo? Non si vota neppure in aula? “Stiamo raccogliendo le firme necessarie, come prevede il regolamento, per portare il voto per il rifinanziamento in aula. Si tratta, in particolare per la Libia, di missioni politicamente delicate. È indispensabile coinvolgere la responsabilità di tutti i senatori”. Ma lei, ex ministra degli Esteri, profonda conoscitrice della situazione in quell’area, non ritiene che senza il presidio Libia, ci sia il caos migranti? “Già oggi siamo di fronte a un caos migranti a una grave crisi umanitaria con decine di migliaia di persone recluse in condizioni inaccettabili. Carcerieri e trafficanti sono facce della stessa medaglia. Occorre rompere questo circolo vizioso senza rimandare decisioni che vanno prese oggi, non domani”. Non si rischia di dare ancora maggiore spazio a Turchia e Russia? “Francamente non mi pare che la strategia seguita finora abbia evitato che la presenza di queste due potenze prendesse sempre più piede. Né ha favorito la stabilizzazione del Paese e tantomeno una transizione ordinata. Ora in vista delle elezioni di fine anno sarebbe importante cominciare a smantellare un sistema che ha stabilizzato più che altro gli attori principali del sistema di detenzione e di traffico degli esseri umani”. Della mediazione del Pd, di affidare cioè all’Europa dal prossimo anno l’addestramento dei guardacoste libici, cosa ne pensa? “Che non è molto chiaro cosa voglia dire. La Ue già ora co-finanzia alcune missioni, del resto l’Ue non ha proprie forze armate da impiegare e sul ruolo di Frontex nel guidare e coordinare gli interventi dei guardia coste libiche ci sono pesanti dubbi e non del tutto infondati. In ogni caso il punto è cambiare strategia e il nostro Paese deve continuare ad assumersi le proprie responsabilità, ma senza mollare su principi fondamentali e senza nascondersi dietro l’Ue”. Naufragi, arrivi di migranti, l’hot spot di Lampedusa al collasso. Come cambiare le politiche migratorie? “In estrema sintesi gli ambiti di intervento sono due: una nuova politica europea dell’asilo che passi da una modifica del Regolamento di Dublino, che includa redistribuzione obbligatoria cioè un vero vincolo di solidarietà e responsabilità per tutti gli stati membri. Nel Mediterraneo centrale andrebbe attivata una vera missione di salvataggio. In ambito nazionale c’è ancora da cambiare la legge italiana sull’immigrazione (Boss- Fini) per creare davvero quei canali legali di ingresso di cui tutti parlano e per consentire in modo permanente la regolarizzazione di chi è qui e ha concrete possibilità di inserimento lavorativo e sociale. Con Riccardo Magi abbiamo appena chiesto che alla Camera riprenda l’iter della proposta di legge “Ero Straniero”“. Draghi dovrebbe fare di più? “Draghi con la sua autorevolezza può favorire il raggiungimento di soluzioni condivise di riforma a livello europeo ma come sappiamo non è affatto facile trovare l’unanimità su questi temi. Anche in Italia può dare un contributo affinché il tema immigrazione che negli ultimi anni è stato al centro di un’enorme strumentalizzazione sia affrontato con un po’ meno di demagogia. E il Parlamento deve fare la sua parte”. Ecuador. Il presidente dichiara lo stato di emergenza dopo gli scontri nelle carceri di Ludovica Tagliaferri sicurezzainternazionale.luiss.it, 24 luglio 2021 Il presidente ecuadoriano, Guillermo Lasso, ha annunciato lo stato di emergenza nel sistema carcerario del Paese. Questa misura è stata decretata dopo i disordini verificatisi nello Stato latino-americano, mercoledì 21 luglio, che hanno causato una ventina di morti e quasi 50 feriti. Il Servizio nazionale per l’assistenza globale ai detenuti (Snai) ha riferito che, questo giovedì 22 luglio, si sono verificati nuovi incidenti a Cotopaxi e che sono stati ricatturati circa 78 evasi. Dopo che Lasso ha confermato la sostituzione del capo della Snai, il generale Edmundo Moncayo, con il colonnello Fausto Cobo, ha comunicato che sono stati istituiti controlli militari e di polizia nelle prigioni e che “il Governo si impegnerà per imporre lo stato di diritto e garantire la pace e i diritti umani” nel carcere di Latacunga e Guayaquil. “In questi tempi difficili, voglio trasmettere un messaggio di sicurezza ai nostri cittadini. Dando pieno appoggio alle nostre forze dell’ordine, vi annunciamo che il Governo ha ripristinato il pieno controllo dei due centri di privazione della libertà, dove ieri notte ci sono stati scontri tra bande”, ha affermato il presidente, sottolineando che le bande criminali che “intendono intimidire il Paese sbagliano se credono che il Governo non risponderà”. Lo scontro avvenuto nel carcere di Guayaquil ha registrato 8 detenuti morti e 3 agenti di polizia feriti, mentre la rissa nella prigione di Latacunga ha causato 41 feriti e la morte di almeno 10 detenuti, nonché danni alle aree amministrative del complesso carcerario. Nella prigione di Guayaquil sono detenuti diversi membri della banda Los Choneros, dedita all’estorsione, all’omicidio, al traffico di droga e ad altre attività criminali. Il capo banda, Jorge Luis Zambrano, noto come “Rasquiña”, aveva il controllo delle attività illecite che avvenivano nelle prigioni del Paese prima che venisse ucciso, il 28 dicembre 2020, in un centro commerciale situato nella città costiera di Manta, nella provincia di Manabí. Da quel momento, vari gruppi criminali hanno iniziato a contendersi il comando delle carceri del Paese. Il 23 febbraio, sono avvenuti scontri simultanei, considerati i più mortali degli ultimi anni. Secondo un bilancio riportato da Moncayo, le violenze avevano generato oltre 60 morti, di cui 33 a Mirador de Turi, 8 nella prigione di Cotopaxi e 21 nella Penitenciaría del Litoral, nella regione di Guayaquil. In seguito agli scontri del 23 febbraio, l’ex presidente dell’Ecuador, Lenín Moreno, aveva riferito che circa 800 poliziotti si erano mobilitati per controllare e ristabilire l’ordine all’interno delle prigioni e aveva aggiunto che il sistema carcerario nazionale si trovava in stato di emergenza. “Il Ministero della Difesa deve esercitare un maggiore e rigoroso controllo delle armi, delle munizioni e degli esplosivi nelle aree circostanti gli istituti penitenziari”, aveva evidenziato il presidente. Nel mese di aprile, nuovi scontri tra due bande di prigionieri erano avvenuti in 4 centri di detenzione nelle città di Guayaquil, Cuenca e Latacunga. Queste risse avevano provocato la morte di circa 80 detenuti e una ventina di feriti, generando un acceso dibattito sulle “presunte debolezze” delle forze di sicurezza dell’Ecuador incaricate di controllare le prigioni del Paese. Attualmente, il sistema carcerario dello Stato latino-americano ha una capacità di 29.000 detenuti in 60 strutture ma, ad oggi, contiene 38.000 prigionieri e ci sono circa 1.500 guardie a sorvegliarli. Cina. I 10 mila fantasmi di Urimqi 3 di Nicolò Delvecchio tag43.it, 24 luglio 2021 Tanti sono i detenuti uiguri e di altre minoranze rinchiusi nel carcere più grande della Cina. Uno dei centri di rieducazione che il governo di Pechino ha declassato a prigione comune. Il reportage di Ap. L’Associated Press ha ottenuto l’accesso in un centro di detenzione dello Xinjang, dove gli uiguri sono “rieducati”. I detenuti uiguri erano seduti in file tutte uguali, con le gambe incrociate nella posizione del loto e la schiena dritta, numerata ed etichettata, guardavano una tv che trasmetteva immagini sgranate in bianco e nero della storia del Partito Comunista Cinese. A riportarlo l’Associated Press, prima testata occidentale in grado di entrare in un centro di detenzione dello Xinjiang, nell’ovest del Paese. I giornalisti dell’Ap hanno visitato il centro Urumqi 3 a Dabancheng, il più grande della Cina, che si estende su 89 ettari di terreno (il doppio del Vaticano) e sarebbe in grado di ospitare fino a 10 mila prigionieri, malgrado numeri ufficiali non siano stati forniti. All’edificio, come si vede dalle immagini satellitari pubblicate dall’agenzia americana, ne sono stati aggiunti altri nel corso degli anni. La Cina, la guerra al terrore e la repressione degli uiguri - Quattro anni fa Pechino ha iniziato una dura repressione (giustificata come “guerra al terrore”) nei confronti delle minoranze cinesi per lo più musulmane, dopo attentati e accoltellamenti da parte di alcuni estremisti uiguri originari dello Xinjiang. L’aspetto più controverso di questa repressione è rappresentato proprio dai “centri di formazione professionale”, descritti dagli ex detenuti come dei brutali campi di internamento in cui si è sottoposti a violenze, torture e lavaggio del cervello per rigettare la propria cultura, e la propria religione, e imparare storia e tradizioni del Partito comunista. Più di un milione tra uiguri, kazaki e altri cinesi musulmani sono stati internati nel corso degli anni. Se però è vero che la Cina ne ha chiusi alcuni, altri sono stati semplicemente convertiti in prigioni, o strutture di custodia cautelare, come quello Urumqi 3. Ne sono stati poi costruiti altri di nuovi, come quello da 34 ettari non lontano dal campo visitato dai giornalisti dell’Ap. In questo modo, trasformandoli in classiche carceri, Pechino può “legalizzare” i centri e continuare la repressione delle minoranze rispettando la legge. Restano i motivi assolutamente arbitrari per cui la gente viene incarcerata, dal portare con sé icone religiose allo scaricare sul cellulare app non consentite, come WhatsApp. Alcuni sono stati arrestati per essere andati all’estero. Urumqi 3 era un centro di formazione, anche se Pechino lo nega - Durante il tour del campo 3, i funzionari hanno ripetutamente preso le distanze dai “centri di formazione” che Pechino afferma di aver chiuso. “Non c’era alcun collegamento tra il nostro centro di detenzione e quelli di addestramento”, ha insistito il direttore dell’Ufficio di pubblica sicurezza di Urumqi, Zhao Zhongwei. “Non ce n’è mai stato uno qui intorno”. Addirittura, i funzionari hanno anche affermato che Urumqi 3 è la prova dell’impegno della Cina per lo stato di diritto e per la riabilitazione dei condannati: ai detenuti sono forniti pasti caldi, gli viene consentito di fare esercizio fisico, sono assistiti legalmente e sono “aiutati”, attraverso videolezioni, a capire perché hanno sbagliato. I diritti sono protetti, dicono i funzionari, e solo i trasgressori devono preoccuparsi della detenzione. “Un rapporto della Bbc diceva che questo era un campo di rieducazione. Non lo è, è un centro di detenzione”, ha detto Liu Chang, un funzionario del ministero degli Esteri. Tuttavia le prove confermano che il n. 3 era davvero un campo di internamento. Un’immagine Reuters dell’ingresso, scattata nel settembre 2018, mostra che la struttura si chiamava “Centro di istruzione e formazione professionale di Urumqi”. I documenti pubblicamente disponibili raccolti da Shawn Zhang, uno studente di giurisprudenza in Canada, confermano che un centro con lo stesso nome è stato commissionato per essere costruito nella stessa posizione nel 2017. I registri mostrano anche che il colosso cinese Hengfeng Information Technology ha vinto un appalto da 11 milioni di dollari per l’allestimento del “centro di formazione” di Urumqi. La vita in un centro per uiguri - La sala di controllo del centro è tappezzata di schermi, che coprono la stanza da parete a parete e riportano ciò che avviene in ogni cella. Un altro pannello, invece, è fisso su Cctv, la tv statale mostrata ai detenuti. “Controlliamo ciò che guardano”, ha detto Zhu. “Possiamo vedere se infrangono i regolamenti, o se provano a ferirsi o uccidersi”. Ma il centro trasmette anche delle lezioni video per insegnare ai detenuti lezioni sui crimini commessi: “Bisogna far capire perché non si uccide, e perché non si ruba”. Molti detenuti, secondo i loro parenti, sono stati condannati con accuse false, e gli esperti avvertono sulla poca trasparenza del sistema legale dello Xinjiang. Sebbene la Cina renda facilmente accessibili i registri legali, quasi il 90 per cento dei casellari giudiziari nello Xinjiang non sono pubblici. I pochi disponibili mostrano che alcuni sono accusati di “terrorismo” o “separatismo” per atti che pochi considererebbero criminali, come mettere in guardia i colleghi dal guardare porno, imprecare o pregare in prigione. Alcuni uiguri sono stati obbligati a firmare confessioni per quelle che le autorità definiscono “attività terroristiche”, anche se alcuni sono stati poi rilasciati. Altri no: i rapporti della polizia ottenuti da Intercept descrivono in dettaglio il caso di otto uiguri, arrestati per aver letto testi religiosi, installato applicazioni di file sharing o semplicemente per essere “persone inaffidabili”. Sono stati condannati da due a cinque anni di “studio”.