Dopo la rabbia, ora un cambio di passo sulle carceri di Cristina Ornano* huffingtonpost.it, 23 luglio 2021 Serve una forte azione culturale e pedagogica che formi in modo permanente gli operatori di Polizia penitenziaria. Il Premier Draghi e la Guardasigilli Cartabia hanno promesso un radicale cambiamento di passo nelle politiche in materia di pena e di carcere. Auspichiamo che alle parole seguano i fatti e che dopo la giusta indignazione seguita ai gravi fatti di Santa Maria Capua Vetere, queste violenze e queste torture non siano rassegnate alla memoria collettiva come un episodio eccezionale, del quale si sono resi responsabili le ormai così bollate “mele marce” e che come tale sia un unicum destinato a non ripetersi. Le doverose ispezioni ministeriali, i processi e la punizione dei responsabili delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, sono certo necessari, ma non basteranno a impedire che fatti del genere si ripetano. Perché se non si agisce sulle condizioni di disagio di tutte le persone che vivono e lavorano in carcere, è altamente probabile che la risposta a situazioni di tensione e conflitti possa ancora essere la violenza. Occorre oggi che la politica dia prova di quel coraggio e di quella lungimiranza che purtroppo mancò in occasione dell’approvazione della Riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018, la quale, se recepita, avrebbe già realizzato molti degli interventi e delle misure di cui oggi si afferma da tanti la necessità e l’urgenza quale soluzione ai problemi del carcere. Occorre mettere in campo una strategia per la prevenzione e il contrasto della violenza in carcere, attraverso azioni strutturali e multilivello, per affrontare i nodi del sovraffollamento carcerario, della qualità e quantità del trattamento e dell’offerta educativa e risocializzativa, della formazione, culturale, anzitutto, della polizia penitenziaria. È quest’ultimo un tema negletto e che è invece parte essenziale della soluzione al problema della sicurezza delle persone detenute. La gestione delle complesse dinamiche relazionali che la forzata convivenza in carcere determina, richiederebbe competenze e formazione multidisciplinari che aiutino a interpretare e agire le relazioni di potere secondo logiche di servizio e cultura della legalità. Il cambio di passo impone, insieme agli altri necessari interventi, anche una forte azione culturale e pedagogica che educhi e formi in modo permanente gli operatori della Polizia penitenziaria, fornendo loro quel bagaglio di conoscenze e competenze che li mettano in condizioni di affrontare le complessità del loro importante e delicato compiti, rendendoli più consapevoli, e perciò più forti, interpreti dello Stato di diritto, delle garanzie e della democrazia. *Magistrato e presidente di Area Democratica per la Giustizia Luigi Zanda: “Altro che riforma, le carceri vanno svuotate” di Umberto De Giovannangeli Il Riformista, 23 luglio 2021 Ai temi della sicurezza e della giustizia ha dedicato una parte della sua vita. Figlio di Efisio Zanda Loy (capo della polizia dal 1973 al 1975), portavoce di Francesco Cossiga al Ministero dell’Interno (1976-1978) ed alla Presidenza del Consiglio dei ministri con il primo e secondo governo Cossiga (1979-1980), il senatore Luigi Zanda, rieletto in questa legislatura a Palazzo Madama, dal marzo 2013 al marzo 2018 è stato presidente del Gruppo del Partito democratico al Senato. Con Il Riformista, Zanda affronta un tema caldo: quello della giustizia. La riforma della giustizia. Qual è la posta in gioco? La giustizia è uno dei cardini di quel cambiamento di cui l’Italia ha bisogno e che si è impegnata a realizzare quando Governo e Parlamento hanno approvato il Pnrr. È uno dei pilastri più delicati e credo che abbia fatto bene il Governo a iniziare subito con la riforma del processo penale. Gli emendamenti Cartabia vanno in questa direzione. Sul Corriere della Sera, in un articolo sul braccio di ferro tra il presidente del Consiglio Mario Draghi e il suo predecessore a Palazzo Chigi, nonché leader, più o meno solido, dei 5 Stelle, Giuseppe Conte, Francesco Verderami ha scritto di “muro”, Draghi, contro un “muretto”, Conte. È un braccio di ferro vero tra un muro e un muretto? Francamente non lo so. Mi sembra chiaro che gli emendamenti Cartabia sono il frutto di un grande lavoro di ascolto, durato molti mesi, di gruppi parlamentari e delle forze politiche. Ed hanno come obiettivo, che io credo sia stato raggiunto, la messa a sistema di numerose posizioni anche diverse del dibattito politico. La necessità è quella di raggiungere un punto di equilibrio tra due principi costituzionali fondamentali, il dovere dello Stato di punire chi ha commesso reati e la necessità di dare al processo tempi ragionevoli. Draghi ha la responsabilità del quadro complessivo delle riforme e dei tempi della loro attuazione. Quindi è solo lui che può valutare se siano possibili correzioni minime tecniche, che non allunghino i tempi e che non modifichino di una virgola il senso politico degli emendamenti Cartabia. Secondo il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, e con lui diversi procuratori oltre l’immancabile Anm, con la riforma della prescrizione della ministra Cartabia, “il 50% dei processi sarà improcedibile”, per poi aggiungere: “Sarà più conveniente delinquere”. È un attacco frontale… Guardi, a me non piacciono le polemiche tra magistrati e politici nel corso del procedimento legislativo. Dico solo che la ragionevole durata del processo è un precetto costituzionale cui debbono, sottolineo debbono, attenersi sia il legislatore nello scrivere le leggi sia i magistrati nell’esercizio delle loro funzioni. La butto giù un po’ brutalmente: il Pd teme i referendum promossi dai Radicali e se sì, perché? Le dico la mia opinione: io credo che i referendum avranno successo. Resto dell’avviso che è sempre meglio che le riforme vengano fatte dal Parlamento, ma sulla riforma del nostro sistema giudiziario il Parlamento è in grandissimo ritardo. E le responsabilità non sono solo della politica. I referendum sono un modo molto diretto con cui i cittadini possono far sentire quali sono i loro bisogni e quali sono i loro indirizzi. Personalmente non ho ancora deciso se firmarli. Anche per una ragione di fondo: a me non piacciono tanti referendum proposti contemporaneamente. La Costituzione non vieta la presentazione di grappoli di referendum, ma l’articolo 75 nomina cinque volte il referendum e lo fa sempre al singolare. Votare tanti referendum insieme può confondere l’elettore. Nei giorni scorsi, il presidente Draghi e la ministra Cartabia si sono recati a Santa Maria Capua a Vetere. C’è chi ha storto il naso e ha avuto da eccepire per quell’atto. Lei come la vede? Gli emendamenti Cartabia sul processo penale non avrebbero senso se le nostre carceri non verranno trasformate da luoghi di abbrutimento a luoghi di rieducazione morale e civile. Tutti sappiamo quali sono gli interventi basici di cui hanno bisogno le nostre carceri: un’ampia depenalizzazione, un vasto ricorso a pene alternative, formazione professionale e di cultura costituzionale degli agenti di custodia, il cui organico deve essere sempre al completo, maggiori investimenti per migliorare le carceri. C’è però qualcosa in più da dire. Vi sono due parole che sono presenti nella nostra Costituzione ma che da molto tempo non vengono pronunciate, in Parlamento come se vi fosse un tabù o un veto da parte di chi vede il carcere soltanto come misura punitiva… Quali sono queste due parole “impronunciate”? Mi faccia premettere che oggi (ieri per chi legge, ndr) in Senato la ministra Cartabia ha pronunciato un discorso molto serio e di grande spessore sui fatti di Santa Maria Capua Vetere. In particolare, ho molto apprezzato la sua volontà di non fermarsi alla chiara condanna di singoli episodi criminali, ma andare al contesto profondo che ha favorito molti episodi di grave violenza. A partire da quelli del 2001 a Genova sino a quelle altrettanto gravi di Santa Maria Capua Vetere. Quando la ministra Cartabia ha descritto le condizioni così degradate delle carceri italiane mi ha fatto pensare all’amnistia e all’indulto. La Cartabia ha detto che il più grave problema delle carceri è il loro sovraffollamento. Come si può pensare di porre mano a qualsiasi riforma del sistema carcerario senza avere prima ridotto consistentemente il numero delle persone in carcere? Ora, all’amnistia e all’indulto vengono opposte principalmente ragioni di sicurezza pubblica. Io non sono insensibile a queste ragioni. Ho dedicato parti importanti della mia vita alla sicurezza pubblica. Dico solo questo: la messa in libertà di persone detenute per reati di lieve entità, è molto, ma molto meno pericolosa, del rischio che pochi mesi di carcere riducano una moltitudine di autori di piccoli reati a una massa di manovali nelle mani delle grandi organizzazioni criminali. Bisogna rimettere queste questioni nel dibattito politico. A sostenere il governo Draghi è una maggioranza che definire composita è un eufemismo. Reggerà nel sostenere la riforma della giustizia delineata dalla ministra Cartabia? Io penso di sì. E penso anche che le misure sul processo siano così importanti da non potere escludere che alla fine la maggioranza si ritrovi in un voto di fiducia. Nel “nuovo PD” evocato da Enrico Letta sembrano moltiplicarsi le “Agorà”, ma stenta a decollare una seria, approfondita, discussione sui contenuti, e la giustizia è uno di questi. Non è un limite per il Partito Democratico? Penso che il senso profondo delle “Agorà” di Enrico Letta, sia la ricerca dell’identità nel XXI secolo di un partito di centro sinistra europeo e legato all’Occidente. Penso che Enrico Letta con le “Agorà” abbia messo il dito nella piaga. Forse la più importante carenza della politica italiana in questa fase, è la debolezza del pensiero. Troppo poco tempo dedicato alla riflessione politica e all’analisi della fase, troppo tempo impegnato nelle tattiche quotidiane. A proposito di identità. C’è il tema del garantismo. Non crede che in questi decenni, da Tangentopoli in poi, la magistratura, con il suo organismo sindacale, l’Anm, abbia invaso campi che non le competevano, indirizzando il corso stesso della politica? Così come è sbagliato giudicare e condannare in blocco tutta la politica, altrettanto è un grave errore farlo con la magistratura. Ma se con la sua domanda, lei vuole conoscere la mia opinione sulle correnti all’interno della magistratura, allora rispondo che spesso le correnti hanno oltrepassato il confine che separa un’associazione di magistrati che si ritrovano insieme su ideali e principi per diventare portatrici di interessi più spiccioli. Carcere, ma non è una cosa seria di Aldo Maturo* studiocataldi.it, 23 luglio 2021 Per tanti il carcere è diventata una moda e una merce facilmente vendibile. Quando in un convegno di parecchi anni fa gli operatori penitenziari dissero che le nostre carceri erano le più civili del terzo mondo parlarono come sovversivi ad una platea assente e distratta che ha continuato ad ignorarli per anni. Ora che i politici hanno scoperto che le carceri italiane hanno raggiunto un livello di disumanità da non ritorno, i più ottimisti possono sperare che sta per cambiare qualcosa. In realtà il gioco delle parti continua con l’unica conseguenza che il carcere continua ad affondare. L’unica cosa certa è che questo argomento da anni non è più un tabù. La gente può dire alla propria coscienza: la società si interessa del carcere. In realtà se ne interessano in molti, se ne interessano in tanti, quasi sempre solo a parole così che le cose rimangono come sono ed i problemi restano solo sulle spalle di chi vive al di qua e al di là dei cancelli. Per tanti il carcere è diventato una moda, una merce facilmente vendibile. Il filone-carcere stuzzica l’attenzione di intellettuali, pseudo esperti ed opinionisti, sempre pronti a presenziare a dibattiti, pontificando pur senza aver mai visto un carcere. Alzi la mano chi ha visto tra gli ospiti, o quante volte li ha visti, dei veri operatori penitenziari invitati ai dibattiti televisivi sul carcere. Tanti altri, poi, invero molti, contrabbandano per interesse alle problematiche del carcere quello che è solo un interesse privato, solleticato dai tanti euro dei finanziamenti che consentono ai bene informati, ed ancor meglio ai bene inseriti, di presentare e vedersi approvare progetti fantasiosi, inimmaginabili, vuoti contenitori dove il detenuto si limita a svolgere il ruolo di comparsa perché i protagonisti sono quelli che puntano all’obiettivo finale: il finanziamento del progetto da cui, come una grossa slot-machine, cadono a pioggia tanti soldini. Parliamoci chiaro: se ci si guarda intorno si vede che l’unica relazione che la società ha con il carcere, quella più spontanea e più sincera, è il rifiuto del carcere stesso, luogo di perdizione, enorme contenitore dove la società emargina “i cattivi” e li affida all’oblio. Tale emarginazione, nel tempo, non è stata solo psicologica ma anche fisica e logistica. Il carcere ha lasciato i centri urbani, dove ha vissuto per secoli in castelli e conventi, e si è trasferito nelle estreme periferie suburbane delle città, oltre gli stessi cimiteri, illuminato di notte come una enorme cattedrale nel deserto, isolato, con sbarramenti perimetrali che lo rendono irraggiungibile sia in senso fisico che umano. E si dà spazio alla scoperta che ci sono 66.000 detenuti su 50.000 e rotti posti disponibili. Si dice che è intollerabile che da qualche parte si dorma con il materasso a terra perché non c’è posto per le brandine e si ignora che con i materassi a terra si è dormito da anni dappertutto, a nord come al sud. Quando sono arrivato a Cassino, nel 1981, nelle celle-camerone della prima sezione c’erano letti a castello a 4 piani e il cesso in un angolo per 12 persone. Scene da “Fuga di mezzanotte”. Oggi ci sono carceri dove i detenuti dormono nelle salette tempo libero, nelle salette ping pong, nei magazzini, in qualunque spazio disponibile e la mente ritorna a San Vittore dove non molti anni fa li avevano dovuti mettere anche in ascensore. Bene, dice il Ministro della Giustizia, costruiamo altre carceri ma lo si dice ormai da anni, con disinvoltura, come se le carceri fossero campi profughi costruiti con i moduli prefabbricati messi su in pochi giorni dopo il terremoto del Belice, dell’Irpinia, de L’Aquila o di Amatrice. Lo si dice come se le carceri fossero organizzate come i Centri di Permanenza Temporanea, enormi recinti dove bivaccano centinaia e centinaia di immigrati irregolari accatastati come polli in batteria. Sarebbe interessante se dai Provveditorati alle Opere pubbliche o dai competenti Uffici Dipartimentali dell’amministrazione penitenziaria si rendessero noti i dati sulle carceri ultimate ma non funzionanti, sui reparti detentivi fittiziamente inagibili o oggetto di ristrutturazioni interminabili, per furbizia autoctona o per carenze finanziarie, sulle centinaia di posti letto rimasti inutilizzati dopo la dismissione delle case mandamentali negli anni 90. Ma soprattutto sarebbe interessante sapere come si pensa di risolvere il problema del personale, delle migliaia e migliaia di uomini che già oggi mancano all’appello e rendono impossibile la vita di chi lavora in carcere, una vita fatta di stress, di aggressioni, di lunghe notti al freddo perché spesso non ci sono soldi sufficienti per il riscaldamento, di riposi accumulati, di straordinari non pagati, di ferie spezzettate, di capitoli di spesa decapitati a tavolino senza rendersi conto dei disastrosi risvolti di una periferia dove spesso manca persino la carta igienica o quella per le stampanti. In uno stato di disagio generale per il Paese e per il mondo intero non si può pretendere evidentemente di più “per” il carcerario. Ma allora non si deve pretendere di più “dal” carcerario, non si devono esprimere giudizi che offendono l’impegno di chi ci lavora, bisogna avere il coraggio di intervenire sul codice per evitare che chi ha rubato una merendina da 12 euro al supermercato sia condannato a tre mesi di carcere. E si scopre che lo aveva fatto per fame. La soluzione non è facile ma basterebbero alcuni punti fermi: potenziare le misure alternative per scremare il carcere dalla presenza di migliaia di detenuti pericolosamente insignificanti, adottare misure più rigorose per quanti scambiano il carcere per un albergo e gli agenti per i loro maitre d’hotel, valorizzare e tutelare al massimo il personale riconoscendogli la dovuta professionalità, adottare una politica penitenziaria lineare e coerente invece che estemporanea e schizofrenica. Ma sono solo illusioni. Il carcere è solo la stazione di arrivo di disagi, tensioni, ingiustizie, sperequazioni, povertà, crisi di valori che la società esterna non ha saputo o potuto risolvere. Ma nessuno può o deve ragionevolmente pensare di dare a quanti lavorano nel carcere una delega in bianco per risolvere da soli, senza mezzi, senza uomini, senza strutture e, perché no, senza alcun riconoscimento sociale e morale, le tensioni della società che nel carcere si riflettono e si amplificano. Ma soprattutto nessuno può speculare sull’amarezza di quanti nel carcere, a diverso titolo, hanno abdicato ormai ad ogni riconoscimento e dignità professionale ma nonostante tutto continuano a fare in silenzio il loro dovere barrando sul calendario le crocette sui giorni che mancano per la pensione. *Primo Dirigente Amministrazione Penitenziaria, a.r. Il Dap istituisce una commissione ispettiva sulle rivolte del marzo 2020 di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 luglio 2021 Un magistrato, tre direttori, due comandanti e due dirigenti per sei mesi di indagini. In quei giorni morirono 12 detenuti. “Una Commissione ispettiva per fare luce sull’origine delle rivolte dei detenuti avvenute negli istituti nel marzo 2020, sui comportamenti adottati dagli operatori penitenziari per ristabilire l’ordine e la sicurezza e su eventuali condotte irregolari o illegittime poste in essere”. Ad annunciarla è il ministero di Giustizia che ha voluto così rispondere - tardivamente, ça va sans dire - alle richieste di fare luce su quei 12 detenuti morti durante e dopo le rivolte scoppiate alle prime misure restrittive anti-Covid e sedate dalla polizia penitenziaria. La Commissione istituita dal capo del Dap, Petralia, e dal suo Vice, Tartaglia, che sarà presieduta dal magistrato Sergio Lari, ex procuratore generale della Corte d’Appello di Caltanissetta, dovrà anche rispondere alla pressante richiesta di chi vede dietro quelle rivolte una regia occulta ed esterna. Lari, scelto dal Dap per la sua “lunga e comprovata esperienza e capacità”, ha 6 mesi di tempo per scoprire ciò che in questi 13 mesi non è stato scoperto, e sarà affiancato da Rosalba Casella (ex direttrice del carcere di Sant’Anna di Modena), Giacinto Siciliano (direttore di San Vittore), Francesca Valenzi (dirigente Ufficio detenuti e trattamento del ministero di Giustizia), Marco Bonfiglioli (dirigente del Provveditorato Emilia Romagna e Marche), Luigi Ardini (comandante del carcere romano di Rebibbia) e Riccardo Secci (comandante del carcere di Lecce). “Nicolò Amato sapeva ascoltare. E progettare il futuro delle carceri” di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 luglio 2021 Intervista a Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti, ricorda l’ex capo del Dap e magistrato anti terrorismo scomparso ieri a 88 anni. “Non era certo contro l’emergenzialismo però considerava l’emergenza tale: transitoria. Perciò era critico verso quei provvedimenti che poi diventavano stabili”. “Inquisitore”, “riformista”, “socialista”, “cattolico”… Si potrebbe ricordare in tanti modi, Nicolò Amato, magistrato e avvocato messinese morto ieri, a 88 anni, a Roma. Come sostituto procuratore seguì molte delle inchieste sul terrorismo negli anni Ottanta, dai Nar al caso Moro passando per l’attentato a Giovanni Paolo II. Dal 1993 passò alla professione di avvocato e assunse la difesa di Craxi nei processi per Tangentopoli. Politicamente assunse posizioni che non piacevano affatto alla sinistra, né allora né in epoche più recenti. Ma per tutti, ciò che lo distinse davvero fu la spinta riformatrice che impresse al sistema delle carceri nei dieci anni - dal gennaio del 1983 al giugno del 1993 - in cui fu a capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, è il miglior testimone di questo aspetto di Nicolò Amato. Quando lo ha conosciuto? Erano gli anni Settanta, l’ho conosciuto come pm. Poi ci siamo persi di vista e lo ritrovai come capo del Dap. E in questa veste per cosa si è distinto? Per tre aspetti che non sempre vanno di pari passo. Primo: lui ha sempre avuto una visione dell’esecuzione penale costituzionalmente orientata. Non c’era bisogno di riportarlo sul solco dei diritti costituzionali, era la sua impostazione di base. E questo lo portava anche a considerare che la risposta che il diritto penale deve dare alle situazioni più complesse è quella di diminuire i conflitti, non di aumentarli. Per lui l’esecuzione penale doveva essere un sistema di relazioni, non di conflittualità. Tant’è che nel periodo della presenza in carcere di esponenti delle organizzazioni armate degli anni ‘70 Nicolò fu quello che facilitò anche i luoghi di interlocuzione, per trovare soluzioni che evitassero la perdita di una generazione. Pur mantenendo una “normalità” nell’esecuzione penale. E infatti a lui si devono le cosiddette “aree omogenee” (sezioni penitenziarie di discussione critica per la ricerca di una soluzione che portasse fuori dal periodo delle organizzazioni terroristiche armate, ndr). Lui intendeva fare del carcere un luogo in cui il tempo che vi si trascorre è un tempo significativo della persona, e non solo un tempo sottratto alla vita normale. Oggi sarebbe attaccato da certe organizzazioni sindacali di polizia penitenziaria? Poteva sembrare che avesse un’attenzione maggiore sui detenuti ma non era così: Nicolò Amato - e questa è la sua seconda caratteristica - riusciva anche a motivare molto il personale. Dava significatività anche al tempo di chi lavorava nelle carceri, di chi compiva una funzione che era sempre funzione dello Stato. Ha parlato di tre aspetti difficilmente coesistenti... Sì, il fatto è che oltre a tutto questo era anche un buon manager. Ossia, sapeva dirigere perché sapeva ascoltare. Quando c’era una particolare difficoltà, aveva l’abitudine di chiedere l’opinione delle persone esterne al Dap che stimava. Come me, che a quel tempo ero nel gruppo dei fondatori della rivista Antigone che poi si sarebbe trasformata in associazione. Aveva questa grande capacità: per lui l’occhio esterno è stato sempre un elemento importante e non un elemento intrusivo. Dopo di lui, troppo spesso il Dipartimento ha considerato intrusi coloro che hanno osato guardare dentro il Dap e il mondo penitenziario. Nel marzo del 1993 fu autore di un documento che inviò al ministro della Giustizia dell’epoca, Giovanni Conso, per proporre la revoca del carcere duro, il 41 bis, ai mafiosi per evitare altre stragi. È vero? Questo è l’elemento di complessità e di varie interpretazioni. C’è chi l’ha letta come una trattativa, io non voglio addentrarmi nella questione. Ma si tenga presente che, fin quando ha gestito lui il 41 bis, il carcere duro era un regime molto diverso da quello che poi è diventato: non c’era ancora una legge che lo stabilizzasse, era un provvedimento chiaramente di natura emergenziale. Certamente, Amato non era contro i provvedimenti d’emergenza, su questo non eravamo d’accordo, però considerava l’emergenza tale: transitoria. Questo lo ha portato ad avere posizioni critiche su tutti quei provvedimenti che da emergenziali diventavano “normali”, stabili. Nelle pubblicazioni di sinistra di allora molti lo descrivevano come “tra i più disinvolti intellettuali organici di quel giustizialismo che non esitò a consumare il più feroce scempio dello stato di diritto”. Eppure contribuì anche alla riforma del 1986 dell’esecuzione penale, la legge Gozzini... Nel corso della sua vita ha fatto anche scelte politiche sulle quali non mi sono trovato d’accordo, ma fin quanto ha gestito una situazione complessa ha saputo fare di quella complessità un mix progettuale efficace. Capacità che, mi dispiace dirlo, non ho più trovato successivamente. In ricordo di Nicolò Amato, l’uomo che seppe davvero portare lo Stato all’interno delle carceri di Enrico Sbriglia* secoloditalia.it, 23 luglio 2021 Caro Direttore, oggi per me è “dies nigro signando lapillo”, è una giornata tra le più tristi. Alcune ore fa avevo appreso da una cara amica, come me componente del Centro Europeo di Studi Penitenziari di Roma (www.cesp-europa.org), la notizia della morte di Nicolò Amato, un’icona enorme nella mia piccola storia umana e professionale. Era stato il mio “Capo”, con lui ebbi anche qualche scontro a causa della mia inesperienza professionale, irruenza e giovane età, ma seppe sempre mostrarsi comprensivo e capace di sorridere. Era “diretto” il mio Capo, conosceva il diritto, ma sapeva anche leggere dietro le righe, dietro le apparenze, dietro le ipocrisie. Le sue non erano “lettere circolari” o meri provvedimenti di natura amministrativa, erano delle liriche alla legalità ed il richiamo continuo per noi operatori penitenziari a tenerne conto. Era, insomma, un grande Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, all’interno del quale una comunità vasta di uomini e donne, sia in uniforme di polizia penitenziaria che come specialisti del trattamento e della rieducazione, cercavano di dare un senso, il senso, ad un sistema dell’esecuzione penale che era prima di lui, e sta purtroppo tornando ad essere con i fatti di Santa Maria Capua Vetere, quello descritto dal film del 1971, con protagonista Alberto Sordi, del Detenuto in attesa di giudizio. Nicolò Amato, con i suoi insegnamenti tradotti in precise indicazioni anche di natura organizzativa ed operativa, ha forgiato la mia formazione teorica e pratica, facendomi innamorare del mio lavoro di operatore penitenziario. Tanto è accaduto con la generalità delle mie colleghe e dei miei colleghi, coinvolgendo tutti gli operatori penitenziari di ogni comparto specialistico e amministrativo e quanti erano stati, finalmente, smilitarizzati, dando vita al corpo civile della Polizia Penitenziaria. Il suo continuo richiamo alla “forza della ragione piuttosto che alla ragione della forza” ha illuminato, come un faro in un mare oscuro e sempre tempestoso, la mia azione e la mia carriera per quasi quarant’anni, vissuti nelle carceri e dirigendo diversi istituti penitenziari e, da Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, tante realtà territoriali, dal Piemonte alla Valle d’Aosta, al Triveneto alla Sardegna, dall’Emilia Romagna alle Marche, consentendomi, seppure stanco e logorato, di poter ogni sera concedermi poche ore di sonno quiete, ristoratrici. Con lui il sistema penitenziario si era davvero umanizzato in termini “seriali”, come metodo e sistema di governo delle carceri, con lui la forza era avvolta da un guanto di velluto ed esibita, ma non necessariamente agita, nelle occasioni più importanti di criticità penitenziaria (vedasi la rivolta di Porto Azzurro nel 1987 e l’opera di intelligente mediazione che in prima persona riuscì a svolgere, evitando che la stessa si traducesse in un massacro, così come ancora ci ricordava la tragedia nel carcere di Alessandria del 1974). Con lui, anche nei momenti più critici (erano quelli anni di terrorismo rosso e nero, nonché di guerre all’ultimo sangue tra cosce criminali della camorra e delle altre criminalità organizzate, con teste mozzate e auto esplose) lo Stato all’interno delle carceri non si piegò, ma neanche si vendicò, perché la vendetta non è rispettosa dei principi di legalità e trasforma il tutto in una reciprocità di ulteriori barbarie. Ci mancherà, ci mancherà il suo sguardo profondo, finanche indagatore, ma sempre sincero e capace di dare soluzioni. *Presidente Onorario del Centro Europeo di Studi Penitenziari Riforma giustizia, in aula il 30 luglio. Cartabia chiede la fiducia. Ma il Csm critica il progetto di Liana Milella La Repubblica, 23 luglio 2021 La discussione inizierà alla Camera venerdì prossimo. La sottosegretaria M5S per il Sud Dalila Nesci ai suoi: “No allo strappo sulla riforma su cui i nostri ministri hanno già mediato a palazzo Chigi”. Sulla riforma della giustizia verrà posta la fiducia. È quanto emerge dal consiglio dei ministri che si è tenuto questo pomeriggio sul green pass ma nel quale è stato affrontato anche il nodo della riforma del processo penale. Ed è stata proprio la Guardasigilli Marta Cartabia a chiedere l’autorizzazione a porre la questione di fiducia in Parlamento, dove il provvedimento approderà il 30 luglio. Autorizzazione che è stata concessa dal Cdm. Intanto con un voto a maggioranza nella sesta commissione del Csm, che valuta le riforme del governo, arriva un parere critico sulla riforma della giustizia. Il testo, appena approvato, dovrà essere discusso e votato dal plenum. Ma il presidente della commissione, il laico di M5S Fulvio Gigliotti, rende pubblica una prima anticipazione di cui dà notizia l’Ansa. Dice Gigliotti: “Riteniamo negativo l’impatto della norma”. Perché comporta “l’impossibilità di chiudere un gran numero di processi”. Il presidente della commissione anticipa ancora che “la disciplina non si coordina con alcuni principi dell’ordinamento come l’obbligatorietà dell’azione penale e la ragionevole durata del processo”. Il testo, che ha impiegato una decina di giorni per essere messo a punto, ha visto il voto favorevole del presidente Gigliotti e dei consiglieri della sinistra di Area Elisabetta Chinaglia e Ciccio Zaccaro e di Sebastiano Ardita. Astenuti invece il laico di Forza Italia Alessio Lanzi e la consigliera di Magistratura indipendente Loredana Micciché. In mattinata, a Radio anch’io, il vice presidente del Csm David Ermini aveva detto che l’allarme dei procuratori “è un richiamo su cui bisogna mettere attenzione”. E ancora che nella riforma esistono “alcune criticità tecniche soprattutto sui tempi dell’Appello”. La riforma in aula il 30 luglio - Comincerà venerdì 30 luglio, nell’aula della Camera, la discussione sulla riforma della giustizia. A deciderlo sono stati i capigruppo di Montecitorio riuniti con il presidente Roberto Fico. Il rinvio del provvedimento si presenta inevitabile, rispetto all’originaria convocazione per domani, dopo la richiesta del presidente della commissione Giustizia Mario Perantoni di M5S, costretto al rinvio perché non è ancora cominciata la discussione sui 1.631 subemendamenti - ben 917 di M5S - presentati sui 21 emendamenti all’originaria riforma, assunta come testo base, dell’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. Stiamo parlando della riforma del processo penale che riscriverà anche i tempi dei processi, cambiando le regole della prescrizione e introducendo il meccanismo dell’improcedibilità per la durata dei dibattimenti in Appello e in Cassazione. In queste ore è in corso la trattativa sulla possibilità di introdurre una norma transitoria, proposta dalla capogruppo del Pd Debora Serracchiani per cui la riforma, fino al 2024, funzionerebbe con 3 anni per i processi di Appello, mentre poi a regime gli stessi dibattimenti dovranno durare due anni, e tre solo per i reati più gravi. M5S ha bocciato come “troppo poco” la proposta rispetto alle sue critiche alla riforma. Proseguono i contatti per raggiungere un accordo. A questo punto però è inevitabile che la discussione e il voto sulla riforma slittino alla prima settimana di agosto. Ma, come ha ribadito più volte il premier Mario Draghi, la sua intenzione è di chiudere assolutamente il prima possibile. Già oggi, in consiglio dei ministri, Draghi potrebbe affrontare il tema della questione della fiducia. In ogni caso, poiché il semestre bianco parte dal 3 agosto, e la politica entra nel periodo in cui non è più possibile sciogliere le Camere, il voto avverrebbe già in quel periodo, come del resto quello successivo al Senato che non potrebbe cadere prima di settembre. Ma il rinvio scatena le polemiche sia di Matteo Salvini che di Enrico Costa di Azione. Il primo invita Draghi “a tirare dritto” perché “spiace che Pd e 5stelle stiano rallentando sulla giustizia, come sulla riforma fiscale o della burocrazia. Noi dobbiamo tornare a correre, a vivere. Quindi 900 emendamenti dei 5stelle per bloccare una delle riforme più importanti del governo non sono un buon servizio”. Costa invece ricorda che “la riforma del processo penale era calendarizzata in aula Camera il 28 giugno: rinviata. Poi il 23 luglio: rinviata. M5S sta tenendo in ostaggio il governo. Il tempo è scaduto. Si vada avanti, senza Conte e i grillini. Ed il Pd smetta di inseguirli”. Il pianeta M5S sulla giustizia intanto è nella massima agitazione. Continua il richiamo - da parte del fronte di Conte e Bonafede - alle parole dei procuratori Gratteri e Cafiero De Raho, molto duri nelle audizioni in commissione Giustizia, contro la riforma Cartabia, che “farebbe cadere il 50% dei processi e metterebbe in pericolo la democrazia”. Però, a fronte delle critiche alla riforma di molti grillini, oggi la sottosegretaria per il Sud Dalila Nesci in un’intervista al Mattino dichiara che lo strappo sulla giustizia “non è la soluzione”. Aggiunge che “governo e Camere sono già al lavoro per trovare una mediazione”. Per Nesci “la giustizia è un patrimonio democratico universale su cui ci sono sensibilità diverse”. E ancora: “L’obiettivo è quello di non smantellare la riforma Bonafede. Ma è altrettanto vero che il Guardasigilli non è più del Movimento. In democrazia bisogna saper mediare e i nostri ministri in Cdm lo hanno fatto benissimo”. Giustizia, sì del governo alla fiducia: “Ma siamo aperti ai miglioramenti” di Giuseppe Alberto Falci Corriere della Sera, 23 luglio 2021 Il premier: non è minaccia di voto. Cartabia apre sull’improcedibilità. Primo no dal Csm. Mario Draghi definisce “un passaggio abbastanza rapido” l’esame in Consiglio dei ministri della riforma del processo penale. Quando si presenta in conferenza stampa l’annuncio è di questo tenore: “Ho chiesto l’autorizzazione di porre la fiducia”. Il premier spiega le ragioni della scelta: “C’è stato un testo approvato all’unanimità in consiglio dei ministri e questo è un punto di partenza, siamo aperti a miglioramenti di carattere tecnico”. In sostanza la posizione del premier non muta rispetto all’incontro con il presidente in pectore dei 5 Stelle Giuseppe Conte. L’esecutivo e il ministro della Giustizia Marta Cartabia restano “molto disponibili” al confronto. In particolare, osserva, “c’è tutta la buona volontà ad accogliere emendamenti che siano di carattere tecnico e non stravolgano l’impianto della riforma e siano condivisi. Non mi riferirei solo agli emendamenti di una parte, perché ci sono anche altre parti”. Il nodo aperto resta sempre quella della prescrizione sulla quale i 5 Stelle non intendono recedere. Di più: Conte ha dichiarato che il M5S sarà vigile “per evitare sacche di impunità”. La risposta di Draghi è perentoria: “Nessuno vuole sacche di impunità, bene processi rapidi e tutti i colpevoli puniti, è bene mettere in chiaro da che parte stiamo”. Sia come sia, Draghi richiede una sorta di fiducia preventiva, nella speranza che nelle prossime ore possano rientrare tutti i mal di pancia. C’è, però, un dato: il testo arriverà in aula, a Montecitorio, il 30 luglio, a quattro giorni dall’inizio del semestre bianco. Si tratta dei sei mesi che precedono l’elezione del Capo dello Stato nel corso dei quali non è possibile sciogliere le Camere. “Chiedere la fiducia può avere delle conseguenze diverse prima del semestre bianco o durante il semestre bianco, ma la diversità è molto sopravvalutata. Chiederla cinque o sei giorni prima è come chiederla durante, perché i tempi per organizzare una consultazione elettorale non ci sarebbero comunque. Una riforma come quella della giustizia deve essere condivisa ma non è giusto minacciare un evento, la consultazione elettorale, se non la si approva”. Duro il commento di Giorgia Meloni (FdI): “Il Governo sostenuto dal 90% del Parlamento che pone il voto di fiducia su ogni provvedimento fa molta tenerezza”. Al fianco di Draghi c’è Marta Cartabia. La titolare del dicastero della Giustizia mette in chiaro: “La ricerca di un punto di mediazione non è una novità di oggi, non inizia dopo il Consiglio dei ministri di oggi ma è il tratto metodologico con cui abbiamo affrontato un tema che sapevamo essere difficile”. Si tratta, insiste, di “una riforma complessiva della giustizia che ha uno scopo: quello di abbreviare i processi anche per evitare le zone di impunità”. E a chi lamenta la possibile interruzione di processi importanti, Cartabia apre: “Questa è una preoccupazione molto seria che anche il governo ha avuto fin dall’inizio e sulla quale si stanno valutando questi accorgimenti tecnici”. Non a caso, insiste, “per le corti d’Appello in difficoltà, che sono 7, interverremo con strumenti ad hoc perché nessuno possa essere in condizioni di dire non posso chiudere un processo in due anni o in tre anni”. Un messaggio che viene accolto positivamente dall’entourage di Conte. “Significa - confidano - che il governo ha preso atto delle difficoltà tecniche presenti nella riforma Cartabia”. Le stesse fonti riferiscono poi che Conte è in stretto contatto con il premier e con la Cartabia e il M5S starebbe offrendo anche alcuni soluzioni tecniche. Intanto, dal Csm arriva una prima bocciatura della norma sulla improcedibilità presente all’interno della riforma. La Sesta Commissione ha approvato con 4 voti a favore e 2 astensioni, un parere contrario. Draghi blinda la riforma Cartabia: “Aperti solo a migliorie tecniche” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 luglio 2021 Il premier avvisa i 5 Stelle: la riforma della Giustizia non si tocca. E pone la questione di fiducia. Il premier Draghi ha deciso di blindare la riforma del processo penale. Lo ha comunicato questa sera nella conferenza stampa indetta con la Ministra Cartabia e il Ministro Speranza al termine del Consiglio dei Ministri dedicato principalmente alle questioni vaccini e green-pass. “Sulla riforma della giustizia c’è stato un rapido passaggio in CdM - ha detto il primo Ministro. Ho chiesto l’autorizzazione alla fiducia quando sarà il momento in Parlamento, perché c’è stato un testo approvato all’unanimità in Cdm e questo è un punto di partenza. Qualora ci fossero miglioramenti tecnici anche importanti noi siamo aperti, molto aperti, qualora ci fossero servirà un nuovo passaggio in consiglio dei ministri”. Il Cdm ha autorizzato il governo a porre la questione di fiducia sulla riforma della giustizia, anche se fonti grilline si sono dette spiazzate dal fatto che i loro ministri abbiano dato l’autorizzazione. Draghi, rispondendo ad una domanda di un giornalista, ha specificato “c’è tutta la buona volontà di accogliere emendamenti che siano di carattere tecnico e non stravolgano l’impianto della riforma e siano condivisi. La richiesta di autorizzazione di fiducia è dovuta al fatto di voler porre un punto fermo” e ha risposto indirettamente anche ai Cinque Stelle: “Nessuno vuole sacche di impunità, bene processi rapidi e tutti i colpevoli puniti, è bene mettere in chiaro da che parte stiamo”; ma anche tranquillizzato rispetto ad uno scenario di spaccatura “Una riforma come quella della giustizia deve essere condivisa ma non è giusto minacciare un evento, la consultazione elettorale, se non la sia approva”. Qual è il senso di questa mossa? Trovare innanzitutto un consenso sulla riforma, in quanto Draghi aspira a non spaccare la maggioranza. Tanto è vero che sono in corso trattative serrate con l’ex premier Giuseppe Conte, ora al timone dei grillini. L’importante però è che le modifiche siano di natura tecnica, non frutto di un puntiglio ideologico. Il secondo obiettivo è mandare anche un messaggio alla maggioranza che deve sapere che il testo condiviso nello scorso Cdm non può essere stravolto. Il terzo è blindare il consenso in un Cdm per poi portare il testo in Aula e ottenere la fiducia in quanto ritiene quella della giustizia una riforma molto importante. Dopo il premier Draghi è intervenuta anche la Ministra Cartabia: “da più voci è stata espressa preoccupazione, che mi pare vada presa in considerazione seriamente, su un punto specifico: data la criticità di alcune Corti di appello evitare che l’impatto di una novità come quella introdotta con l’improcedibilità non provochi un’interruzione di procedimenti importanti. Questa è una preoccupazione molto seria che anche il governo ha avuto fin dall’inizio ed è il terreno su cui si stanno valutando questi accorgimento tecnici”. Dunque la ministra ha ribadito il metodo del dialogo e del confronto ma nessun stravolgimento del lavoro fatto fino ad ora e iniziato come ha ricordato “il giorno dopo l’insediamento di questo Governo”, a voler dimostrare tutto lo sforzo possibile per giungere ad una riforma che abbia l’approvazione della maggioranza. Adesso qual è il percorso da seguire? È quello tracciato ieri pomeriggio dalla conferenza dei capigruppo che porta la riforma del processo penale in aula alla Camera tra una settimana, venerdì 30 luglio. L’ufficio di presidenza della Commissione Giustizia ha convocato una seduta per oggi, dedicata solo alle ammissibilità dei sub-emendamenti agli emendamenti del governo. Dopo quella seduta verrà deciso il successivo calendario della Commissione. Ora bisogna capire i margini di manovra sui contenuti. L’obiettivo del M5s sarebbe quello di indicare espressamente i reati per mafia, terrorismo e contro la Pa tra quelli imprescrittibili: “di certo non ci aspettiamo i giochetti fatti in Consiglio dei Ministri dove si aumentava di un anno i tempi per l’appello e di qualche mese quelli per la Cassazione. Occorrerà maggiore sensibilità della Ministra nei nostri riguardi”, ci dice una fonte parlamentare. “Abbiamo proposto aggiustamenti che sono in fase di discussione -ha rivelato invece Enrico Letta- il provvedimento passerà comunque in parlamento. Voteremo la fiducia, auspico su un testo migliorato e, almeno per una prima approvazione, entro la pausa estiva”. Per l’onorevole di Azione Enrico Costa “vanno bene i miglioramenti tecnici ma non ci siano cedimenti all’asse pm-M5S”. Proprio del Pd abbiamo sentito l’onorevole dem Walter Verini al termine della conferenza stampa: “Ci sono tutte le condizioni per raggiungere delle modifiche all’interno dell’impianto della riforma che fughino ogni preoccupazione circa il rischio di far morire determinati processi. Le preoccupazioni che hanno espresso personalità importanti del contrasto alla criminalità organizzata sono da ascoltare attentamente. La Ministra saprà far tesoro di queste preoccupazioni. Per l’onorevole Pierantonio Zanettin di Forza Italia invece “è impensabile rendere imprescrittibile ad esempio un reato come il peculato, solo per un pregiudizio ideologico dei Cinque Stelle. In generale creare un doppio binario per alcuni reati potrebbe avere anche profili di incostituzionalità. Comunque la trattativa è molto laboriosa, è stata portata anche ai massimi livelli. Il mio auspicio è che da domani si possa cominciare a lavorare con serenità in Commissione”. L’imbarazzo dei 5 Stelle in Consiglio dei ministri. E il Pd è in difficoltà di Francesco Verderami Corriere della Sera, 23 luglio 2021 I dem avvertono gli alleati: sulla giustizia oltre questo non si va. Le geometrie variabili del premier contro le sabbie mobili. È stato Draghi a chiedere in Consiglio dei ministri l’autorizzazione a porre la questione di fiducia sulla riforma della giustizia. Di solito tocca al responsabile per i Rapporti con il Parlamento celebrare il rito. Se ieri il premier ha rotto il cerimoniale è perché voleva caricare il gesto di valenza politica, far capire che non si lascerà irretire da chi immagina di usare il semestre bianco per trascinarlo nelle sabbie mobili insieme al provvedimento scritto dalla Cartabia. Così i grillini hanno scoperto che, aspettando l’ora X, sono finiti nel pantano. Deve averlo capito Conte, al termine di una telefonata con Draghi definita “critica” da un ministro. Di sicuro l’ha compreso l’intera delegazione Cinquestelle al governo, che davanti ai colleghi è parsa “in grave difficoltà”. Il tentativo di agguato sulla giustizia si sta trasformando per il Movimento in una trappola. Le loro mosse politiche sono schizofreniche: i ministri di M5S che nei giorni scorsi erano stati di fatto sfiduciati dal loro leader per aver approvato il testo della riforma, a loro volta ieri hanno di fatto preso le distanze da Conte, accettando la richesta del premier senza opporre resistenza. È vero che Draghi ha detto di “attendere” eventuali proposte migliorative del testo, “purché siano condivise da tutta la maggioranza”. Ma è altrettanto vero che ha rimarcato come lo strumento della fiducia venga usato quando le distanze sono “incolmabili”. Spazzando così via le voci che si erano inseguite su un nuovo patto con M5S senza il benestare dell’intera coalizione. Stavolta non si ripeterà quanto accaduto nel precedente Cdm. E senza un’intesa, Draghi si appresta ad applicare la dottrina delle “maggioranze a geometrie variabili” di cui aveva parlato in un colloquio riservato un paio di mesi fa, consapevole che “su alcune cose potrò non avere il consenso di alcuni e su altre di altri”. È questo l’antidoto al semestre bianco, immaginato come potenziale luogo d’agguato da partiti in affanno e senza strategia. E che questa tattica di logoramento si stesse per mettere in atto era stato chiaro sul decreto Semplificazioni, visti certi giochetti tra grillini e democratici in commissione contro il ministro Cingolani. Perciò il governo ha posto la fiducia. L’atteggiamento del premier non risparmia nessun alleato. Sulla campagna di vaccinazione ieri ha usato toni durissimi verso Salvini, dopo aver prorogato lo stato di emergenza fino a dicembre e ottenuto che il decreto anti-Covid prevedesse il green pass, in modo da stare in linea con le misure concordate con i partner europei. In Consiglio dei ministri era toccato a Giorgetti spiegare le ragioni della Lega, ma il fatto stesso che dopo aver posto i problemi avesse proposto anche le soluzioni - cioè i ristori per le categorie in difficoltà - testimonia un accordo preventivo. Questo prevede il protocollo dei rapporti con Draghi, che non fa eccezioni. Se così stanno le cose, si capisce perché sulla giustizia non farà sconti al Movimento e ai suoi supporter fuori dal Parlamento. Quel “nessuno vuole sacche di impunità” era rivolto ai magistrati che criticano la riforma “salva-ladri”, e anche al Csm che ha bocciato le norme scritte dal Guardasigilli. “In un comunicato - ha commentato Costa di Azione - il grillino Gigliotti ha scritto che i tempi per l’appello sono troppo brevi e che la riforma contrasta con la ragionevole durata dei processi. Ha detto cioè una cosa e il suo contrario. Era in Bonafede o in malafede?”. La domanda chiama un’altra domanda, posta dal leghista Molinari: “Ma cosa ha concordato Conte con Draghi? Perché o lui non controlla i gruppi di M5S o ha preso il premier per il c...”. I dem sperano di capirlo presto, siccome sudano freddo all’idea che la bomba grillina gli esploda in mano. Letta ha iniziato una manovra di sicurezza, accodandosi a Draghi sul voto della Camera “prima della pausa estiva”. Ma l’ipotesi che sia il governo a fare la mediazione non regge, se è vero che il Pd si è intestato la mission con l’offerta a Conte di una “norma transitoria” per varare la riforma. E ieri uno degli sherpa democrat alla Camera schiumava rabbia parlando con un esponente della commissione Giustizia: “Oltre questo non si può andare. Se lo capiscono, bene. Se rompono, raccogliamo tutti gli emendamenti messi da parte, dalle intercettazioni all’abuso di ufficio, e andiamo avanti”. Bum. Il Csm stronca riforma e ministra: “Costituzione violata, processi in fumo” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 23 luglio 2021 Parere a tempo di record con critiche giuridiche e sugli effetti operativi. Tensione istituzionale con il governo, Ermini media. Era dai tempi di Berlusconi che al Consiglio superiore della Magistratura non si registravano rapporti così tesi con un ministro della Giustizia. Sebbene non richiesto (il che, già di per sé, viene considerato uno “sgarbo istituzionale”), il parere del Csm sulla riforma Cartabia è pronto. A tempo record la sesta commissione l’ha elaborato e depositato, per poter votarlo in plenum la prossima settimana. L’esito è scontato: la contrarietà alla riforma è quasi unanime, sia tra i membri togati che tra i laici. Al di là dei tecnicismi, nel Csm si pensa l’impatto politico del parere, considerato “una netta stroncatura”. In una trentina di pagine, il testo si concentra sulla prescrizione, evidenziando “una serie di criticità” sia sul piano giuridico che su quello operativo. L’incostituzionalità non è espressamente contestata, ma evocata con riferimento a due parametri. Il principio di obbligatorietà dell’azione penale, vanificato dall’impossibilità di portare a termine tutti i processi per la tagliola dell’improcedibilità in appello. E quello di ragionevole durata del processo. Presentato come obiettivo del governo, ma malinteso: la riforma dispone in modo imperativo una “ragionevole durata” per gradi di giudizio (due anni in appello, uno in Cassazione), con l’effetto paradossale e irragionevole di consentire una durata anche molto differente dei processi di primo grado a parità di reato. Sul piano tecnico, le critiche sono diverse. Non piace che lla dilatazione dei tempi processuali in appello (fino a tre anni) e Cassazione (fino a 18 mesi) sia consentito per tipologie di reato. Un criterio rigido e inadeguato; piuttosto, dovrebbe essere tarata sulle caratteristiche di ciascun processo: numero di imputati, carichi di lavoro concreti, complessità probatoria. “Una perizia su una bancarotta può richiedere almeno un anno”, ha spiegato nell’audizione parlamentare il giudice, ed ex politico, Alfredo Mantovano. Non convince inoltre la disciplina del regime transitorio nell’entrata in vigore delle nuove regole, così come la “scarsa aderenza alla realtà” dei tempi medi di trattazione dei processi nelle diverse Corti d’appello. L’ufficio studi ha consegnato alla commissione i dati drammatici della “geografia territoriale”: nove distretti su 26 superano la media di due anni in appello; Bari, Reggio Calabria, Venezia, Roma e Napoli (che rappresentano circa metà del carico giudiziario complessivo) superano i mille giorni. Dunque, sostiene la commissione, la riforma Cartabia “condanna all’estinzione” un gran numero di processi. La parola amnistia, evocata da molti magistrati nei giorni scorsi, non viene usata per fair play, ma la sostanza è quella. “Riteniamo negativo l’impatto della norma”, dice il presidente della commissione Fulvio Gigliotti, docente di diritto privato a Catanzaro (dove è stimato, tra l’altro, dal procuratore Gratteri), eletto dal Parlamento su indicazione del M5S. Il parere è stato votato in commissione da 4 membri su 6. Astenuti il docente e avvocato penalista milanese Alessio Lanzi (quota Forza Italia) e la giudice Loredana Micciché della corrente conservatrice Magistratura Indipendente. Lanzi considera la riforma “non entusiasmante ma il male minore per superare il processo eterno introdotto da Bonafede”. La Micciché non gradisce “alcuni passaggi stilistici del parere, ma condivido l’approccio critico”. Distinguo lessicali a parte, il plenum si annuncia un fuoco di fila. La riforma è riuscita a compattare una magistratura per il resto dilaniata. Anche i settori più disponibili l’hanno scaricata, come dimostra un editoriale di Questione Giustizia, rivista di Magistratura Democratica. Perplessità trapelano anche dalla commissione Lattanzi, istituita dalla Cartabia ma largamente sconfessata. Oltre che da chat e mailing list, il clima arroventato è testimoniato dal dibattito ieri al Csm su un tema minore: la commissione sui tribunali del Sud. Voluta dalla ministra ignorando il Csm, salvo chiedere l’autorizzazione a coinvolgere alcuni magistrati. A nulla è valso il tentativo di ricucire del vicepresidente David Ermini: è passata, evitando un ceffone istituzionale, solo grazie a massicce e provvidenziali astensioni. Dalla prescrizione alla giustizia riparativa: la pagella dell’Anm alla riforma Cartabia di Valentina Stella Il Dubbio, 23 luglio 2021 L’Anm ha reso noto il documento elaborato dalla Giunta sul ddl di riforma del processo penale ideato dalla Guardasigilli e a ore in Aula. Sono sei i capitoli di criticità elencati. Il più corposo riguarda la prescrizione processuale, bersaglio maggiore della magistratura associata, innanzitutto perché “la soluzione messa in campo dall’emendamento governativo non contiene una misura acceleratoria, capace di assicurare una durata ragionevole, ma un meccanismo eliminatorio di processi”. Una eventualità che i magistrati temono possa avere un impatto negativo sull’opinione pubblica che, priva delle giuste nozioni, incolperebbe i giudici per una negata giustizia. Inoltre sarebbe opportuno per l’Anm prevedere che il tempo di definizione dei giudizi di impugnazione possa essere aumentato anche per i procedimenti aventi ad oggetto delitti quali depistaggio, omicidio colposo con violazione delle norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro, omicidio stradale, maltrattamenti in famiglia, quelli contro l’ambiente. Ma altre problematicità sono legate al giudizio di rinvio che se “non viene definito nel termine dato di due anni, pari a quello dell’appello, si estingue tutto, tutto il lavoro di tre gradi di giudizio va in fumo”. Gli altri capitoli sono dedicati alla prova dichiarativa in caso di mutamento del giudice; ai criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale: “pensare che sia il Parlamento con regole necessariamente generali e astratte a suggerire a quali reati dare la precedenza, è soluzione distonica rispetto al principio di obbligatorietà dell’azione penale e di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge nonché potenzialmente in grado di porsi in frizione col principio di separazione dei poteri” ; all’ udienza filtro prevista per i processi a citazione diretta; al passo indietro sull’archiviazione meritata: “Sotto il profilo della necessità deflattiva, desta perplessità l’eliminazione dell’istituto della “archiviazione meritata” che era previsto dall’art. 3 bis”. E infine alla giustizia riparativa: “Pare condivisibile l’emendamento introdotto con l’art. 9 bis, con riferimento alla giustizia riparativa. Tuttavia, occorre valutare l’opportunità dell’accesso a percorsi di giustizia riparativa per le vittime di reati particolarmente traumatizzanti, che spesso lasciano effetti indelebili”, come le vittime di violenza sessuale. Riforma della Giustizia, Rossi: “Finalmente soldi e risorse per arrivare prima alle sentenze” di Liana Milella La Repubblica, 23 luglio 2021 L’ex procuratore aggiunto di Roma, direttore della rivista di Magistratura democratica Questione giustizia, sostiene il progetto. Ma non ne nasconde i limiti. Come direttore di “Questione giustizia”, la rivista promossa da Magistratura democratica, lei ha ospitato interventi che non decapitano a priori la riforma Cartabia come fanno molte toghe. Lei come la vede? “Ci sono ancora molti luoghi - e Questione Giustizia è uno di questi - nei quali non si è perso il vizio di ragionare, né la capacità di discernere, in un vasto progetto riformatore, le proposte positive e cariche di futuro e quelle frutto di compromessi incerti e destinati a complicare ulteriormente il quadro della giustizia penale”. Insomma, ci sarebbe del buono, ma anche del cattivo nella riforma? “Innanzitutto è un vero sollievo non essere più costretti a riascoltare il trito ritornello delle riforme della giustizia a costo zero. Se le lentezze della giustizia penalizzano i cittadini più deboli e incidono pesantemente sul Pil e sulla competitività del Paese, allora sulla giustizia bisogna investire. Questa riforma finalmente lo fa, prevedendo nuove dotazioni tecnologiche e assunzioni di funzionari amministrativi, ma anche tecnici come informatici e statistici. E rilanciando il progetto organizzativo dell’Ufficio del processo, il team di supporto destinato a potenziare il lavoro dei magistrati”. Scusi, ma al recentissimo congresso di Md, tutte toghe rosse come lei, si sono sentite voci positive. Per esempio quella di Ezia Maccora e del probabile futuro segretario della corrente Stefano Musolino. Dicono che tutto il capitolo delle misure che riducono il ricorso al carcere e non portano tutto nell’imbuto del processo è da condividere. Ma basta questo? “Mentre nella politica e nell’informazione vi è chi invoca “più carcere” o “più carceri” o “celle più chiuse nelle carceri”, chi lavora sul campo sa che occorre battere altre strade. Puntando sulla giustizia riparativa - che rammenda gli strappi sociali prodotti dal reato risarcendo le vittime o la società - e su un ventaglio di sanzioni (anche ma non solo pecuniarie) che possono essere un deterrente molto più efficace per chi commette reati meno gravi e non violenti. Di qui il particolare apprezzamento nel congresso per questo capitolo della riforma. Così come è condivisa la valutazione politica della Ministra che ricorda ai magistrati che è insostenibile la difesa dello status quo”. Addirittura più d’uno ha proposto di fare anche un’amnistia per i reati fino a 4 anni...ma se la immagina la reazione di un Gratteri? “Sul punto non c’è bisogno di scomodare Gratteri. Purtroppo, nel 1992, la politica si è di fatto privata di questo strumento con un’improvvida modifica dell’articolo 79 della Costituzione che oggi prevede una maggioranza di due terzi dei componenti di ciascuna Camera per le leggi di amnistia e indulto. Una maggioranza pressoché irraggiungibile in tempi di populismo penale”. Mi dica un po’, ma chi dice che questa riforma è una “salvaladri” sbaglia? Dal Csm arriva un parere critico... “L’obiettivo di questa riforma non è salvare questo o quello e tanto meno i ladri, ma di realizzare un processo penale di durata ragionevole. A questo scopo la commissione Lattanzi, nominata dalla Ministra, aveva delineato una strategia composta di più tasselli. Incisivi strumenti deflattivi del carico giudiziario (come l’archiviazione meritata e l’estensione delle ipotesi di tenuità del fatto e di messa alla prova dell’imputato). Un più ampio accesso ai riti alternativi, in particolare al patteggiamento. Una significativa riduzione delle impugnazioni. Filtri più rigorosi dei procedimenti destinati al dibattimento. Salvo che su quest’ultimo punto la “mediazione Cartabia” si è risolta in una parziale retromarcia, negativa per l’accelerazione dei processi”. E qui veniamo al nodo della prescrizione e della improcedibilità. Lei è stato un pm per tutta la sua vita, poi procuratore aggiunto a Roma e poi avvocato generale in Cassazione. Qual è il suo voto sul sistema dell’improcedibilità? “La prescrizione è solo il punto di scarico finale di un processo penale lento e inceppato. Se si arretra sul versante della deflazione dell’insostenibile carico penale il nodo della prescrizione diventa inestricabile. E per non impiccarsi a questo nodo scorsoio bisogna lavorare a monte per ridurre il numero dei processi”. Ma non hanno ragione Conte e Bonafede quando, anche adesso, mettono in guardia dal rischio dell’impunità? “Prima di concordare su questo allarme vorrei capire meglio che cosa propongono loro per diminuire e velocizzare i processi”. Bloccare la prescrizione in primo grado e poi imporre tempi certi per Appello e Cassazione farebbe morire il 50% dei processi come dice Gratteri? E l’allarme per la democrazia lanciato da Cafiero De Raho? “Al punto in cui siamo i toni da crociata servono solo a produrre titoloni sui giornali. La stima numerica di Gratteri è esagerata, anche perché il problema riguarda i giudizi di Appello e non quello - molto più spedito - di Cassazione. E sopra le righe è anche l’allarme per la democrazia. Certo però la soluzione ibrida - che lega la prescrizione nel processo di primo grado e i termini di improcedibilità per Appello e Cassazione - rischia di non reggere in termini giuridici e pratici”. In che senso? “Anche volendo ignorare i risultati paradossali che tale soluzione può produrre, è un fatto che molte corti di Appello non sono in grado di rispettare i termini di improcedibilità. E per quelle più virtuose non ci si può troppo fidare di “medie temporali” di smaltimento che possono soffrire eccezioni proprio per i processi più complessi e di maggior impatto. Per evitare che gli Appelli rimangano in un limbo lunghissimo e inconcludente occorre una soluzione diversa”. Insomma, lei sostiene che i processi dopo il primo grado non possono finire in un limbo, ma scusi, a Napoli sono già nel limbo 57mila processi che aspettano l’Appello... “Il modello italiano di prescrizione, radicato nella nostra tradizione, non merita di essere abbandonato. La rapida celebrazione dei giudizi di Appello può e deve essere incentivata facendo decorrere di nuovo il tempo di prescrizione e sommandolo a quello già maturato in primo grado se le Corti non rispettano i termini previsti dal legislatore”. Se dovesse passare una norma transitoria - l’hanno battezzata lodo Serracchiani - per cui per i primi due anni, in attesa delle risorse, gli Appelli potrebbero durare di più, tre anni, e poi a regime, dal 2024, avrebbero davanti due anni, le andrebbe bene per promuovere Cartabia? “Mi sembra un escamotage per togliere le castagne dal fuoco a una politica che si è infilata in un vicolo cieco e rinuncia a uscirne con soluzioni serie e coraggiose. Se si perde quest’occasione pesteremo acqua nel mortaio ancora a lungo. E non sarà un bene per i cittadini”. I Pm minacciano la Cartabia: stia attenta o fa la fine di Berlusconi e Biondi di Tiziana Maiolo Il Riformista, 23 luglio 2021 Un bel lavoro a tenaglia, complimenti alla Casta in toga. In audizione mirata in Parlamento, chiamati a dar man forte ai grillini e a sparare sulla riforma Cartabia, due carichi da novanta come il procuratore nazionale “antimafia” De Raho e quello di Catanzaro Nicola Gratteri. A Napoli una sorta di agguato organizzato di persona alla ministra con un bel combinato disposto del presidente di corte d’appello Giuseppe De Carolis e il procuratore generale Luigi Riello. Tutti in coro, non a dire quel che ci si sarebbe aspettato e sarebbe stato doveroso da parte di alti magistrati che rappresentano al massimo livello l’Ordine giudiziario. E cioè che si sarebbero impegnati al massimo delle proprie forze per applicare la legge voluta dal Governo e dal Parlamento, cioè dai due poteri dello Stato. Invece no, perché non esiste in Italia una Casta agguerrita, rumorosa e mediatica quanto quella dei pubblici ministeri, cui si aggiunge ogni tanto qualche giudice. Facce di bronzo, vien da dire ogni tanto. Sanno come colpire, e soprattutto quando. Quando sono accesi i riflettori. E sanno anche con quale arma colpire. Non con la critica, quella non fa neanche il solletico. Pensate se un procuratore Gratteri, per esempio, si limitasse a dire al governo, va bene la riforma (come ha detto per esempio, vera mosca bianca, l’ex procuratore di Torino Armando Spataro), sperimentiamo, però mandateci più magistrati e più cancellieri, così potremo dare il meglio. La guardasigilli avrebbe potuto subito rispondere, per esempio, che avrebbe immediatamente sottratto ai vari ministeri cinquanta dei 200 magistrati fuori ruolo e li avrebbe immediatamente mandati in Calabria. E altrettanti a Napoli. Visto che Reggio e Napoli, insieme a Roma, sono i distretti che non riescono a celebrare in tempi certi i processi. Invece no, la critica non fa neanche il solletico. E soprattutto non porta in televisione chi la fa. Ma si catturano le telecamere se si sostiene che con la riforma diventa conveniente delinquere. Un po’ come quando Piercamillo Davigo cercava di dimostrare che con le nostre leggi è più conveniente uccidere la moglie che avviare la pratica di divorzio. Ho sette maxiprocessi in corso, lamenta il dottor Gratteri. Ma si è accorto che con il sistema accusatorio introdotto dalla riforma del processo penale del 1989, i maxi non dovrebbero neanche esistere, insieme ai reati associativi che sono il loro collante, la loro unica ragion d’essere? Quel che è successo ieri tra questi alti magistrati, e che ha la propria immagine speculare in Parlamento e tra le forze politiche, sembra il nuovo cavallo di troia che fa tornare alla memoria l’elenco dei ministri di giustizia annientati dalle toghe. O resi supini. O conniventi, come il penultimo. È il turno di Marta Cartabia. Non si illuda, signora guardasigilli, l’ampia maggioranza parlamentare di cui gode il governo Draghi, sulla giustizia si può frantumare, sbriciolare come un grissino. Pur mettendo da parte la pervicacia priva di pensiero del movimento cinque stelle, non speri di poter contare mai sugli uomini e le donne del partito democratico: hanno spalle robuste e antenati feroci con canini gocciolanti sangue, quando si tratta di indossare abiti giacobini. E neanche si illuda sulla stampa. Pensi solo al fatto che da giorni e giorni il quotidiano del partito a cinque stelle chiama la sua riforma con l’appellativo di “salvaladri”. Il riferimento è a Berlusconi, ma soprattutto al suo primo ministro di giustizia, Alfredo Biondi, e al suo tentativo (sacrosanto) di riforma delle norme sulla custodia cautelare. Con quel decreto, che non fu mai convertito, erano stati liberati 2.750 detenuti (di cui solo 43 di quelli che Travaglio non chiama “imputati”, ma direttamente “ladri”), e ne tornò in carcere meno del dieci per cento dopo la caduta del provvedimento, cui seguì in seguito anche quella del primo governo Berlusconi. Il che significa che non c’era nessuna necessità delle manette. Bisogna sempre conoscere la storia, per capire i tranelli e gli agguati del mondo giacobino, che è giudiziario, politico, ma anche e spesso soprattutto mediatico. Definire “salvaladri” la legge sulla giustizia del presidente Draghi e della ministra Cartabia, è già in sé una minaccia: attenti, perché farete la fine di Berlusconi e Biondi. E dire, da parte di chi si occupa ogni giorno di reati di ‘ndrangheta, che una riforma può mettere in crisi la sicurezza nazionale e render conveniente delinquere è molto vicino a un colpo di Stato. Prima ancora che a un tentativo di far cadere il governo. Una società armata e impaurita arriva a tollerare le uccisioni di Mario Giro Il Domani, 23 luglio 2021 Un assessore che spara in piazza non è normale. Si tratta di un ulteriore passo verso l’aumento del tasso generale di violenza, che la destra favorisce e la sinistra non sembra in grado di fermare. Ci stiamo incamminando verso modelli non nostri: quelli di paesi in cui sparare non fa scandalo. Gli Stati Uniti da decenni si dibattono con tale problema, con tantissime morti imputabili alla diffusione delle armi. Anche altri paesi d’Europa si sono messi su tale china. Tutto ciò non aumenta la sicurezza collettiva ma la diminuisce. Una società armata è una società impaurita dove tutti si sentono in diritto di farsi giustizia da sé. È un modo di definire la giustizia non secondo la legge ma secondo le sensazioni personali. Nella società odierna la percezione individuale di sé stesso e degli altri è divenuta un mantra assoluto. Ci possiamo aspettare che uccidere sia considerato tollerabile o lo stia diventando. Quando ci si sposta dall’oggettività del reale ad un’illimitata soggettività, tutto diviene opinabile, inclusa la difesa personale. Non esiste più l’obiettività di una situazione: se “io sento” di essere minacciato, posso permettermi di sparare. È ciò che è successo a Voghera. A tali condizioni diventa un’impresa quasi impossibile dibattere sul tema: la sensazione personale vale di più di qualunque ragionevole discussione oggettiva. Lo si constata in tanti settori e su tanti argomenti: oggi le sensazioni dell’io divengono la legge di sé stessi, tendendo a superare la norma comune scritta. È divenuto frequente criticare i giudici per non saperla calare sulle sensazioni o convinzioni soggettive. Ma la legge è fatta proprio per evitare i personalismi o le emozioni unilaterali: le norme collettive servono a rendere oggettiva la realtà e ad interpretarla in maniera ragionevolmente comune. L’alternativa è il caos, che è esattamente la situazione in cui stiamo cadendo. Ovviamente dotarsi di armi crea le condizioni più pericolose per far esplodere tale estremismo soggettivo. Coloro che fanno le leggi (il parlamento) e coloro che le amministrano (la magistratura) dovrebbero domandarsi come rafforzare la consapevolezza collettiva che una società si regge sulla concreta realtà oggettiva delle situazioni, delle azioni e dei fatti. Se al posto di tale realtà si lascia libero l’individuo di inseguire le proprie emozioni, si distrugge la società stessa. La legge non è mai soggettiva ma comune e il più possibile aderente alla realtà oggettiva. Non si può decidere il tasso di pericolosità e di allarme secondo le proprie emozioni, creando una specie di legge personale. Si dirà che è l’individuo, e non la norma, a trovarsi in certe situazioni e a dover decidere come reagire. Questo è lo spirito del tempo: l’individuo si fa norma a sé stesso e decide prevalentemente in base a sé stesso. L’individuo diviene il vero sovrano. Ma se vogliamo una società in cui sia possibile vivere insieme, tale prospettiva è inaccettabile. Siamo una comunità e per continuare ad esserlo l’io deve sciogliersi nel noi. Ecco perché sparare come è accaduto a Voghera rimane inammissibile. Quel racconto sulla strage di Bologna scritto prima delle sentenze di Paolo Delgado Il Dubbio, 23 luglio 2021 La moglie di Paolo Bellini, figura torbida sotto processo con l’accusa di aver materialmente deposto la bomba che il 2 agosto 1980 provocò la strage più sanguinosa alla stazione di Bologna, ha riconosciuto in aula il marito in un breve video girato quel giorno alla stazione e ammesso di aver mentito quando, nelle inchieste immediatamente successive alla strage, aveva fornito a Bellini l’alibi che escludeva la sua presenza a Bologna. I media sgranano gli occhi ma lo stupore sarebbe stato giustificato solo nella circostanza opposta, cioè se la signora non avesse riconosciuto l’ex marito. L’intero processo di basa infatti su quel riconoscimento e su quella ritrattazione dell’alibi. Senza quegli elementi non si sarebbe arrivati neppure al rinvio a giudizio. Un nuovo voltafaccia in aula sarebbe stato, quello sì, clamoroso. La testimonianza chiave è una prova decisiva? Forse no. Il riconoscimento tardivo resta dubbio, trattandosi pur sempre di pochi fotogrammi, e la presenza di Bellini a Bologna il 2 agosto 1980 non è di per sé prova della sua responsabilità nella strage. Anche l’aver negato di essere a Bologna e l’essersi procurato un falso alibi nel clima di quei giorni, quando tutta l’estrema destra temeva di finire comunque nel mirino, non significherebbe automaticamente prova di colpevolezza. Basti pensare a quanti estremisti di destra, incluso praticamente tutto il vertice politico e militare di Terza posizione, si diede alla fuga in quei mesi pur non avendo alcuna responsabilità nella strage. Il peso della testimonianza però è indiscutibile. Bellini, autoaccusatosi dell’uccisione di Alceste Campanile ma con chiamate di correo risultate tutte false e fornendo versioni opposte del delitto, collaboratore dei servizi in carcere grazie ai suoi buoni rapporti con alcuni boss di Cosa nostra, autoaccusatosi di una quantità di esecuzioni piuttosto dubbie per conto della ‘ ndrangheta, è figura tanto ambigua e oscura da apparire al di sotto di ogni sospetto. Le domande da porsi sono dunque due, e non una sola. La prima è se veramente sia stato lui a depositare il micidiale ordigno. La seconda è se, in questo caso, risulterebbero pertanto acclarate anche al di là della ‘verità processuale’ le responsabilità dei tre ex Nar già condannati per la strage ma con funzioni di organizzatori, dunque né di ideatori e mandanti né di ultimi esecutori,, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini e se risulterebbe confermata la responsabilità dei presunti mandanti, Gelli, Ortolani, l’ex capo dell’Ufficio affari servati del Viminale D’Amato, tutti alla sbarra ma solo come spettri, essendo nel frattempo trapassati. La prima risposta deve darla il Tribunale di Bologna che sta processando Bellini. La seconda, sulla base degli elementi oggi a disposizione, invece la si può già dire ed è negativa. Non esiste alcun elemento, anche solo indiziario e vaghissimo, che confermi anche una semplice conoscenza tra gli ex Nar e Bellini. Nessun tra i numerosi pentiti dell’estrema destra di allora, Nar e non Nar, ha mai nominato Bellini, ha mai alluso, anche solo in base a un doppio o triplo de relato a un rapporto, fosse pure il più vago, tra il gruppo dei Nar e Paolo Bellini. Lo stesso discorso vale, in tutte le direzioni, per quanto riguarda i presunti mandanti. Gli ex Nar, a differenza di altre organizzazioni dell’estrema destra di allora, non hanno mai avuto contatti con il Venerabile. La catena che porterebbe dalle stanze oscure della P2 a Bellini è oscura. Nessun collegamento indiretto è anche solo ipotizzabile sulla base di elementi concreti, fosse pure solo la vaga testimonianza di un pentito di dubbia credibilità. La stessa colpevolezza presunta di Gelli si basa solo su un appunto cifrato interpretato dagli inquirenti come nota di uno stanziamento di fondi per Bologna, e si sa che chi dice Bologna dice strage. La sentenza sul processo contro Paolo Bellini è di là da venire. In compenso si può già dire che qualsiasi sia il verdetto, a meno di una confessione stavolta suffragata da elementi probatori dell’imputato, non servirà a fare alcuna luce sulla strage di Bologna, sulle motivazioni, sui mandanti e neppure sugli organizzatori materiali, individuati nel corso di uno dei processi più discutibili ed effettivamente discussi della storia italiana. Aiuterà solo a confermare una narrazione che era stata già tutta scritta ancora prima che partissero le indagini, come l’uomo che più di ogni altro aveva contribuito a scrivere quella verità preconfezionata, Francesco Cossiga, ha più volte ammesso. Alcoltest, valido il prelievo su conducente incosciente senza l’avviso difensivo di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 luglio 2021 L’esame ematico in ospedale per accertare lo stato di ebbrezza non può essere impedito dalle condizioni conseguenti all’incidente. Gli avvisi difensivi non possono essere dati - all’evidenza - a persona in stato di incoscienza. Ma ciò non può comportare una pregiudiziale immunità per chi si renda colpevole del reato di guida in stato di ebbrezza da cui persino sia derivato un incidente, con o senza controparte. La Corte di cassazione - con la sentenza n. 28466/2021 - ha escluso la nullità dell’accertamento espletato sul ricorrente ricoverato in stato di incoscienza e non assistito da un avvocato. Una presa di posizione - già espressa in alcuni precedenti di legittimità - che riduce la ben nota rilevanza che ha l’avviso di poter essere assistito da difensore al momento dell’espletamento dell’esame del tasso alcolemico di una persona che si è posta alla guida. È di sicuro un orientamento da seguire nel suo evolversi, in quanto appare aver individuato una circostanza atta a porre nel nulla quella che è stata sempre considerata una causa di invalidità dell’esame alcolimetrico richiesto dalla Polizia giudiziaria. Sul punto la Cassazione, infine, precisa che la responsabilità penale di chi guida in stato di ebbrezza deriva dalla violazione di un divieto posto a tutela non solo degli altri, ma anche dello stesso conducente. Per cui, come nel caso concreto, se si verifica un incidente che non coinvolge altre persone e in cui l’unico danneggiato è il conducente stesso non viene meno l’esigenza pubblica di sanzionare la guida sotto l’influenza dell’alcol. La finalità pubblicistica - come affermato dalla Cassazione in altra recente sentenza - è quella di combattere una battaglia contro una consuetudine all’assunzione di alcol, considerata come piaga sociale. Campania. Mentre il governo studia la riforma le carceri tornano a scoppiare di Viviana Lanza Il Riformista, 23 luglio 2021 Il Garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello e i garanti cittadini Pietro Ioia e Emanuela Belcuore tornano a chiedere che i detenuti trasferiti da Santa Maria Capua Vetere dopo le denunce dei pestaggi in carcere siano avvicinati alla Campania. E lo fanno nel giorno in cui la ministra della Giustizia Marta Cartabia riferisce in Aula sulle violenze finite al centro di un’inchiesta penale e di un’indagine interna. Lo fanno tornando anche a porre l’attenzione sul problema del sovraffollamento, quello di cui ha parlato anche la Guardasigilli. Le carceri stanno tornano a esplodere e con il caldo il livello di vivibilità nelle carceri si abbassa notevolmente. “Ho denunciato quello che è successo a Santa Maria Capua Vetere, poi mia moglie lo ha raccontato in alcune interviste e ora il Dap mi ha fatto un altro regalo: essere trasferito a Spoleto. Questa cosa mi sta uccidendo”: scriveva così pochi giorni fa uno dei detenuti vittime dei pestaggi del 6 aprile 2020. La lettera, riportata dal riformista.it, contiene tutta la disperazione di Ciro e di altri cinquanta detenuti come lui. “Mi ha telefonata dal carcere dicendo che lo riempiono di farmaci - ha raccontato la moglie del detenuto al garante Ioia - Sta facendo lo sciopero della fame e della sete perché non riesce più nemmeno a parlare. Dice che alle 7 del mattino lo svegliano e gli fanno ingoiare i farmaci davanti a loro, sta facendo lo sciopero perché vorrebbe una visita psichiatrica che ancora non ha avuto da una settimana e mezzo che sta là. Si è rimesso nuovamente le lamette in bocca perché questa terapia lo sta buttando giù in tutti i sensi, fisicamente e mentalmente”. Parole che non possono essere ignorate, su cui occorre fare chiarezza. Un grido di allarme che è il grido dei tanti reclusi ammassati nelle celle. Il tema non riguarda soltanto la storia personale di un singolo detenuto. Il tema riguarda il sistema carcere nella sua totalità e nella sua complessità. I fatti di Santa Maria Capua Vetere lo hanno reso evidente anche a chi in questi anni aveva considerato il carcere come un mondo a parte, da relegare a un’attenzione secondaria e marginale rispetto a tutto il resto. Dopo le scene dei pestaggi e delle violenze riprese dai filmati delle telecamere interne al carcere, finite agli atti dell’inchiesta e diffuse dai media, qualcosa nella percezione dei più è inevitabilmente cambiata. Il premier Mario Draghi, con la guardasigilli Marta Cartabia, ha deciso di visitare di persona il carcere, un segnala dalla grande portata non solo simbolica e vale ribadirlo. Ora si attendono i fatti. Il problema del sovraffollamento è la prima criticità da risolvere. In Campania, nel primo semestre del 2021, sono stati 2.227 i detenuti entrati in carcere dalla libertà. L’effetto Covid, quello legato alle misure restrittive per decongestionare le carceri e ridurre i rischi di possibili contagi, sembra svanito. Le celle tornano a essere super-popolate. Di certo incide il tasso di criminalità elevato nei nostri territori ma in discussione finisce anche il sistema delle misure cautelari, l’uso che ne fanno i magistrati, il nostro sistema giustizia. Le carceri sono affollate solo in parte da detenuti con condanne definitive, per quasi la metà la popolazione penitenziaria è composta da detenuti in attesa di giudizio e detenuti con residui di pena inferiori ai cinque anni. Forse sfollare le carceri si può stando a questi dati. Bisogna puntare sulle misure alternative. Se ne riparla in questo periodo. Intanto in Campania, su una popolazione complessiva di 6.533 detenuti, 4.013 dei quali con almeno una condanna definitiva, sono 76 i condannati all’ergastolo, 35 quelli con una pena da scontare superiore ai 20 anni, 212 quelli con una pena residua compresa tra i 10 e i 20 anni di reclusione, e 688 i reclusi con una condanna tra i 5 e i 10 anni da scontare. Quindi, sono in totale 3.002 i detenuti con una condanna da scontate inferiore ai 5 anni e 2.128 quelli con un residuo di pena inferiore ai tre anni. In tutta Italia su un totale 37.203, 1.806 hanno condanne all’ergastolo, 432 con condanne superiori ai 20 anni di reclusione, 2.427 con condanne tra 10 e 20 anni, 5.986 con condanne tra i 5 e i 10 anni. Si deduce che in cella, a scontare condanne che non superano i 5 anni di reclusione, ci sono attualmente in Italia 26.552 persone su una popolazione carceraria che, tra detenuti condannati e in attesa di giudizio definitivo, conta 53.637 persone a fronte di una capienza di 50.779 posti. Trieste. Russo incalza sulle carceri: “Servono nuovi progetti” di Lilli Goriup Il Piccolo, 23 luglio 2021 Il candidato sindaco del centrosinistra amplia la squadra e presenta Emilia Colella, docente nei penitenziari: “Lavoro spesso invisibile”. Il Comune prenda in mano, aumentandoli, i progetti di utilità e reinserimento sociale per i detenuti, ascoltando al contempo le istanze dei lavoratori a vario titolo all’interno del carcere cittadino. È la proposta del candidato sindaco del centrosinistra, Francesco Russo, per “far sì che il tema della sicurezza non sia più appannaggio del centrodestra”. Proposta illustrata durante la conferenza stampa di presentazione di Emilia Colella, sociologa e docente carceraria, che alle elezioni amministrative si candiderà nella Lista Russo-Punto Franco. “Il carcere, pur essendo in centro città, è un luogo di frontiera che tendiamo a rimuovere, assieme a detenuti, operatori educativi, sanitari o di Polizia penitenziaria”, ha continuato Russo: “Emilia, che abbiamo conosciuto durante il nostro tour rionale, porta alto il nome di Trieste in Italia. Ora mette la sua professionalità a disposizione di questa avventura: continuiamo a scriverne la storia attraverso quella delle persone che entrano in squadra”. “Mi sono ritrovata per caso nella docenza carceraria: contesto dietro cui c’è un lavoro immenso, da parte di diverse figure professionali, spesso invisibile all’esterno”, ha detto Colella, 55 anni, napoletana di nascita e triestina d’adozione da quasi un trentennio, che dopo varie esperienze d’insegnamento nel 2011 è approdata al Centro provinciale istruzione adulti (Cpia): “A livello locale stiamo sperimentando un’idea alternativa di sicurezza: dare ai detenuti la possibilità di reimpiegarsi e risarcire la collettività, attraverso specifici progetti, ad esempio sul verde pubblico. Dalla casa circondariale di Trieste sono partite numerose sperimentazioni, che vorremmo diventassero un cavallo di battaglia della prossima amministrazione comunale. E non solo. Siamo stati attenzionati dal Governo, in vista della riforma complessiva dell’istituzione carceraria, che secondo noi deve tener conto delle esigenze dei lavoratori e coinvolgere trasversalmente i ministeri di Giustizia e Istruzione. Io stessa faccio parte del Comitato tecnico-scientifico per l’istruzione in carcere”. Ferrara. Il carcere si allarga, presto i lavori per il nuovo padiglione di Marcello Pulidori La Nuova Ferrara, 23 luglio 2021 L’annuncio del ministro Cartabia alla Camera dei deputati Attualmente i detenuti sono 333, previsti 80 nuovi posti. La notizia è di quelle molto attese in diversi ambiti. Il carcere di Ferrara, noto anche come “dell’Arginone” per l’omonimo quartiere in cui si trova, sarà ampliato con la costruzione di un nuovo padiglione che potrà ospitare 80 detenuti. L’annuncio è arrivato nelle ultime ore dal ministro della giustizia Marta Cartabia che parlando alla Camera ha dichiarato che “nell’ambito dei fondi complementari al Pnrr, è stata prevista la realizzazione di 8 nuovi padiglioni”, e tra questi uno a Ferrara. La ministra ha elencato anche gli altri penitenziari (oltre a Ferrara) che saranno oggetto di allargamento. Gli altri istituti che saranno ingranditi sono quelli di Santa Maria Capua Vetere, Rovigo, Vigevano, Viterbo, Civitavecchia, Perugia e Reggio Calabria. Attualmente nel carcere ferrarese i detenuti sono 333, 193 italiani e 140 stranieri (ultimo dato ufficiale è della fine giugno). I lavori di costruzione del nuovo padiglione all’Arginone, la cui data di inizio non è stata specificata (per il termine lavori si parla del 2026) dovrebbero riguardare la realizzazione di nuovi spazi che, come il ministro Cartabia ha sottolineato riferendosi al contesto nazionale, “saranno intesi sia come camere, sia come spazi di trattamento. Nuove carceri, nuovi spazi, che ci saranno, voglio dire anche a chi li invoca - ha detto la Cartabia - non può significare solo posti letto”. Sarà un aiuto contro il problema del sovraffollamento, ma non lo risolverà del tutto. Ne è convinto Giovanni Battista Durante segretario nazionale del Sappe, il sindacato della Polizia Penitenziaria: “La notizia è certamente positiva - dice Durante - e la speranza è che i lavori possano iniziare al più presto. Più spazi significa soprattutto migliore qualità della vita nel carcere, anche alla luce di quei detenuti che hanno problematiche psichiatriche e che ultimamente hanno purtroppo provocato feriti tra gli agenti della Polizia Penitenziaria”. Così come drammatica fu la situazione che si venne a creare nel marzo del 2020 quando nel carcere di Ferrara scoppiò una rivolta di detenuti che venne sedata soltanto dopo alcuni giorni di trattative: il ministro ha annunciato indagini. - Terni. Il Garante dei detenuti: “Carcere sovraffollato, ci sono 70 persone in più” umbriajournal.com, 23 luglio 2021 La Terza commissione dell’Assemblea legislativa dell’Umbria, presieduta da Eleonora Pace, ha approvato nella seduta di questa mattina (con il voto contrario di Valerio Mancini - Lega) la relazione del “Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale” sull’attività svolta nel 2020. Il report, illustrato dall’ex Garante, Stefano Anastasia, (dal 15 giugno sostituito da Giuseppe Caforio), evidenzia che “nel 2020 c’è stata una riduzione del sovraffollamento nelle carceri, in seguito alle misure attuate per ridurre la diffusione del Covid: gli ultimi dati del Ministero della giustizia riferiscono che al 30 giugno in Umbria c’erano 1337 detenuti su 1330 posti detentivi, quindi con solo 7 detenuti in più rispetto alla capienza massima. In particolare però la casa circondariale di Terni mantiene una situazione di sovraffollamento, con 70 persone in più di quelle che potrebbero essere ospitate. Durante la pandemia nei penitenziari umbri si è registrata una buona capacità di attuare misure sanitarie di prevenzione della diffusione del contagio da Covid”. “L’epidemia - ha rimarcato Anastasia - ha cambiato le attività svolte e la vita negli istituti. il sistema penitenziario, oltre al sovraffollamento soffre di altre criticità: serve una più stretta integrazione tra servizi sanitari e servizi sociali; è necessario digitalizzare le carceri, anche per garantire la didattica a distanza e l’accesso a molti servizi; va completata la campagna vaccinale negli istituti di pena; rivedere le misure di sorveglianza sanitaria alla luce dell’evoluzione del quadro epidemiologico; mancanza di una residenza per le misure di sicurezza (Rems) e gestione della salute mentale in carcere; andrebbe adottata la cartella clinica informatizzata e sperimentate forme di telemedicina; semplificazione dell’accesso ai servizi anagrafici a Spoleto; bisognerebbe colmare la carenza di personale a Perugia e Terni. La gran parte delle persone detenute in Umbria non sono residenti qui, ma provengono da altre regioni e vengono inviate qui per scontare pene detentive mediamente lunghe. Ciò comporta che negli istituti di Spoleto e Terni, dove ci sono sezioni di alta sicurezza, ci sono molti detenuti che provengono da regioni meridionali e devono scontare lunghe pene. A questo si aggiunge il problema dei trasferimenti, anche nelle sezioni di media sicurezza, arrivano molti detenuti dalla Toscana, causando molti problemi di gestione, spesso trasferiti per motivi di ‘ordine e sicurezza’. Ciò comporta un peso ulteriore per il personale penitenziario umbro. Questa problematica potrebbe essere amplificata dalla scelta del Ministero rispetto alla costruzione di un nuovo padiglione nel carcere di Capanne (Perugia) con un aumento di circa 200 posti, da destinare a detenuti che verranno trasferiti da altri ambiti territoriali. Ritengo che il sistema penitenziario umbro non abbia bisogno di questo incremento di posti, che invece andrebbero implementati laddove esiste questa esigenza, anche per garantire la ‘territorializzazione’ dei detenuti, per poter essere effettivamente reinseriti al termine della pena. L’ufficio del Garante dei detenuti avrebbe bisogno di dotazioni e strutture più adeguate al fine di poter assolvere in maniera piena e concreta il proprio ruolo”. Milano. 10 progetti per rendere l’Istituto penale minorile Beccaria un carcere aperto askanews.it, 23 luglio 2021 Cartabia: qui capacità di guardare al diritto attraverso relazioni. La costruzione di un ponte tra il dentro e il fuori l’Istituto penale minorile Beccaria per farne un modello di “carcere aperto”. È l’obiettivo dei dieci progetti presentati durante un convegno organizzato dalla Fondazione Francesca Rava e dal Tribunale per i minorenni di Milano nella sede di via Leopardi al quale hanno partecipato tra gli altri, il ministro della Giustizia Marta Cartabia in video-collegamento e il sindaco di Milano Giuseppe Sala. Tra le iniziative c’è la ristrutturazione della palestra, degli spogliatoi e del sistema idrico del Beccaria così come la creazione nella struttura penale di laboratori d’arte e arte-terapia. Sono poi previste attività di imbiancatura degli spazi interni dell’Istituto, allenamenti e torneo di calcio, corsi di primo soccorso sanitario e uso del defibrillatore, corsi in collaborazione con sommozzatori e incursori Comsubin della Marina Militare, corsi di informatica, corsi di educazione finanziaria e al risparmio, corsi sul cyber-bullismo e rischi della Rete in collaborazione con la polizia postale e delle comunicazioni e infine un progetto “accoglienza educante” presso l’Ussm di Milano in collaborazione con il Politecnico. “Negli istituti penali per minorenni - ha evidenziato Cartabia - l’educazione è tutto. Se è vero che nella nostra Costituzione, pena ed educazione sono sempre un binomio inscindibile, ciò è ancor più vero quando la pena riguarda ragazze e ragazzi minorenni o giovani adulti. I progetti realizzati con la collaborazione tra la Fondazione Francesca Rava, Tribunale per i Minorenni di Milano e Centro per la Giustizia Minorile della Lombardia, dimostrano la capacità di guardare al diritto attraverso le relazioni”. “Questi progetti, oggi presentati con la Fondazione Francesca Rava - ha sottolineato Maria Carlo Gatto, presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano - sono la dimostrazione che è possibile rafforzare la relazione tra dentro e fuori, tra istituto penale minorile e territorio. Diventa anche un modo di ideare e gestire nuove opportunità di scambio e momenti di dialogo tra il carcere minorile e la città, per acquisire la consapevolezza che quel che avviene dentro riguarda tutti coloro che sono fuori: noi ed il nostro futuro”. “Con i nostri dieci progetti - ha aggiunto Mariavittoria Rava, presidente della Fondazione Francesca Rava -, che nel frattempo sono aumentati grazie a nuove alleanze, puntiamo alla formazione e al trasferimento di skills pratici e teorici, che possano arricchire il curriculum dei ragazzi nel tempo sospeso della pena o durante la detenzione. Competenze ed esperienze che consentiranno anche di identificare i propri talenti e alimentare la speranza”. Torino. Carcere minorile, una graphic novel sul ruolo del Garante dei detenuti torinoggi.it, 23 luglio 2021 Far conoscere meglio la figura della Garante dei diritti delle persone private della libertà personale ai giovani detenuti e fornir loro tutte le modalità per entrare in contatto con l’Ufficio. È questo l’obiettivo di “Garante, questa sconosciuta”, l’iniziativa rivolta ai giovani dell’istituto penale minorile Ferrante Aporti di Torino in programma domani, venerdì 23 luglio. Si tratta di una vera e propria graphic novel in cinque parti all’interno delle quali il giovane detenuto protagonista viene accompagnato nei suoi dubbi e nelle sue incertezze da un’ape che risponde alle sue domande e lo invita a contattare chi è chiamato a garantire i suoi diritti “che non sono un premio - sottolinea la garante Monica Cristina Gallo - ma vanno garantiti sempre e comunque”. “L’Ipm di Torino al momento - prosegue - ospita 33 ragazzi e durante le nostre visite abbiamo sempre riscontrato un clima disteso, collaborativo e di grande attenzione verso i giovani ospiti. Dopo un periodo di chiusura dovuto alle restrizioni imposte dalla pandemia, il Ferrante Aporti sta ripartendo per garantire ai giovani detenuti non solo le consuete attività scolastiche e formative ma anche laboratori, corsi e percorsi volti al recupero e al superamento delle difficoltà dei ragazzi all’interno”. Frosinone. Si inaugura la sala teatro del carcere con il Macbeth portato in scena dai detenuti linchiestaquotidiano.it, 23 luglio 2021 Oggi, 23 luglio, è il giorno del grande debutto per i detenuti-attori del Carcere di Frosinone sezione Alta Sicurezza che in circa due anni hanno partecipato ad una serie di laboratori teatrali organizzato dall’Associazione Culturale Korinem e della compagnia teatrale Errare Persona all’interno del progetto “Korinem - Invisibili Teatro”. Il progetto, che nasce come Officina Sociale della Regione Lazio e poi si è sviluppato grazie al Bando regionale per le attività con i detenuti. Dopo circa due anni di lavoro e di studio di William Shakespeare e delle sue opere, i detenuti sono pronti a presentare il loro “Macbeth” presso la struttura detentiva aprendo ad un pubblico che non sarà solo quello del Carcere ma che vedrà la partecipazione anche di alcuni ospiti esterni. “Da tre anni siamo riconosciuti come Officina Culturale dalla Regione Lazio ma già da prima, dal 2017, ci occupiamo di laboratori teatrali nel Carcere con l’obiettivo di portare tra i detenuti la nostra idea di teatro sociale - commenta Damiana Leone della compagnia Errare Persona. Siamo molto soddisfatti di portare in scena questo Macbeth che è il risultato di un grande lavoro non solo nostro ma anche, e soprattutto, dei detenuti-attori e della collaborazione con gli educatori”. La messa in scena dell’opera sarà anche l’occasione per inaugurare la Sala Teatro che è stata realizzata grazie a fondi della Regione Lazio e con l’impegno dei detenuti guidati da Luigi Di Tofano insieme alla compagnia e alle associazioni parte del progetto “Korinem”. Grande soddisfazione per il lavoro emerso durante i laboratori del progetto anche dalla Direttrice del Carcere Dott.ssa Teresa Mascolo felice di poter inaugurare la sala teatro realizzata anche con fondi della Regione Lazio. “Sono molto felice del risultato ottenuto dal progetto, il teatro e l’analisi delle opere è stato un modo per affrontare tanti temi diversi e far riflettere i detenuti accompagnati in un percorso collettivo dagli operatori che hanno saputo approcciare con grande qualità e sensibilità - conclude Damiana Leone. Sono, inoltre, soddisfatta di inaugurare, contestualmente allo spettacolo, anche la Sala Teatro. A testimonianza dell’importanza di questo progetto e della volontà di proseguirlo anche in futuro”. Per la realizzazione dello spettacolo si segnala e ringrazia la regia e direzione artistica di Damiana Leone, con la collaborazione di Anna Mingarelli, allestimento e luci Luigi Di Tofano, assistente e riprese Giuseppe Treppiedi. Un popolo di invisibili: senza residenza e senza diritti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 luglio 2021 C’è un sottobosco di popolazione che è senza residenza. E senza di essa, si è senza diritti. Ciò diventa ancora più problematico ai tempi di pandemia, perché vuol dire avere diritto al medico, alle cure di base e al sistema sanitario nazionale. Per questo l’organizzazione umanitaria ActionAid lancia la campagna # DirittiInGiacenza per denunciare che “troppo spesso nel nostro Paese l’esclusione dalla residenza è discrezionale, illegittima e discriminatoria verso le persone più fragili, sia italiane che straniere”. Nella giornata ieri, gli attivisti hanno “invaso” piazza Montecitorio a Roma con pacchi vuoti restati “in giacenza”, tornati al mittente per mancanza di indirizzo, simbolo dei diritti sospesi. Un’azione dal forte impatto visivo denuncia un problema sommerso e sconosciuto che accomuna italiani indigenti e migranti, la fascia della popolazione più fragile che spesso vive in condizioni abitative precarie e senza titoli di possesso delle proprie case e che subisce gli effetti più gravi della negazione di diritti fondamentali. Senza residenza, vuol dire vivere in uno stato di incertezza. La campagna lanciata da ActionAid denuncia che questa fetta di popolazione subisce discriminazione nell’accesso ai vaccini, avere problemi per la mensa scolastica e il bonus libri dei propri figli. O difficoltà ad accedere ai sussidi, ai buoni spesa Covid e all’assistenza sociale. E ancora non votare, spesso non poter rinnovare il permesso di soggiorno, essere costretti a registrarsi come senza fissa dimora. È quanto sperimenta un numero imprecisato di persone italiane e migranti in Italia, oltre 300mila stimati solo quelle di origine straniera (Dati Ismu), che resta escluso dall’anagrafe. È la discriminazione invisibile che subiscono le persone che non riescono ad iscriversi all’anagrafe e i cui diritti, non esercitati, restano appunto “in giacenza”. Assenza di dati verificabili da parte delle istituzioni non permettono di conoscere l’ampiezza reale di una parte importante della popolazione sul nostro territorio. Con la campagna # DirittiIn-Giacenza, gli attivisti di ActionAid vogliono denunciare che troppo spesso nel nostro Paese l’esclusione dalla residenza è discrezionale, illegittima e discriminatoria verso le persone più fragili. Chi è escluso dall’iscrizione anagrafica è, nella maggior parte dei casi, impossibilitato a esercitare, com’è detto, alcuni diritti fondamentali. In alcuni casi questo legame è definito dalla legge, come nel caso del diritto di voto, per il quale l’iscrizione alle liste elettorali è strettamente connessa alla registrazione della residenza. In altri casi, di per sé, la residenza non dovrebbe essere un prerequisito per l’esercizio del diritto o per l’accesso a un servizio ma, nella prassi, molte amministrazioni pubbliche tendono a vincolare - anche quando non previsto dalla legge - l’erogazione dei servizi alla pregressa iscrizione anagrafica. In assenza di residenza, in sostanza, i diritti negati sono molteplici. Ecco perché si viene esclusi dall’anagrafe L’art. 43 del codice civile stabilisce che “la residenza è nel luogo in cui la persona ha la dimora abituale”. Si tratta di una definizione molto chiara e semplice. Non può essere di ostacolo alla iscrizione anagrafica la natura dell’alloggio, quale ad esempio un fabbricato privo di licenza di abitabilità o non conforme a prescrizioni urbanistiche, roulotte, presenza o meno di un contratto regolare di proprietà o locazione. Nonostante questo, il legislatore negli anni ha escluso dall’anagrafe specifici gruppi sociali con finalità “punitive” - ad esempio i richiedenti asilo con i Decreti Sicurezza del primo Governo Conte - e prima ancora l’art. 5 del “Piano Casa” del 2014, nato per contrastare le occupazioni abusive, ha di fatto posto delle barriere insormontabili per migliaia di persone. Per le persone straniere la situazione è ancora più grave: molti uffici non registrano le dichiarazioni di residenza presentate dai cittadini stranieri con il permesso di soggiorno in fase di rinnovo, conversione o rilascio, una procedura illegittima molto diffusa. Numerosi i casi di errori burocratici. Per sfuggire all’invisibilità chi è escluso dalla residenza è costretto a ricorrere alla cosiddetta iscrizione fittizia, cioè iscriversi come senza fissa dimora. Una soluzione difficile e che toglie dignità alle persone perché richiede un colloquio preliminare con i servizi sociali e ha tempi di gestione lunghissimi. La situazione ha creato anche un “mercato delle residenze”, laddove si è costretti ad acquistare la possibilità di essere registrati presso un appartamento nel quale non si vive. L’organizzazione ActionAid ha condotto un sondaggio su 23 associazioni del Terzo settore impegnate nella tutela dei diritti delle persone migranti, dei senza dimora e dei più vulnerabili, per verificare quanto il problema sia diffuso e radicato nei diversi territori. Risulta che Il 48% di queste testimonia che sono le persone straniere che più spesso vedono negata la residenza. I migranti vivono infatti più spesso in condizioni di povertà economica e abitativa e in alloggi ritenuti (illegittimamente) non idonei per l’iscrizione anagrafica (ad es: affitti non registrati, case con molte persone presenti, ecc). Secondo ActionAid, il personale degli uffici anagrafici non formato, barriere linguistiche, difficoltà delle pratiche burocratiche, discrezionalità e discriminazioni sono le cause principali che senza l’intervento diretto e la presa in carico delle associazioni non sarebbero superati. Per il 62% delle associazioni sono proprio le persone migranti a subire gli effetti più gravi e di forte impatto dell’esclusione dall’anagrafe. Un problema comune a Nord, Centro e Sud d’Italia dove emerge chiaramente la difficoltà di assistenza per i lavoratori e i braccianti agricoli. Nelle comunità dove non sono presenti Ong, associazioni e sindacati non c’è nessuna forma di sostegno e orientamento legale. E allora che fare? Secondo ActionAid, è necessario che la Politica e le istituzioni invertano la rotta e garantiscano il diritto all’iscrizione anagrafica senza discriminazioni. In attesa che - come l’organizzazione auspica - venga abolito l’articolo 5 del Piano Casa, le amministrazioni locali possono mettere in campo alcune misure. Quali? Rendere omogenee le prassi applicate negli uffici anagrafici e azzerare ogni prassi non conforme alla normativa. Oppure cessare ogni prassi non conforme in relazione alla richiesta del titolo di godimento dell’immobile. O ancora: restringere l’ambito di applicazione dell’art. 5 del decreto legge 47/ 2014 e favorire la deroga indicata nel comma 1 quater dell’art. 5, secondo il quale “il sindaco, in presenza di persone minorenni o meritevoli di tutela, può dare disposizioni in deroga a quanto previsto ai commi 1 e 1- bis a tutela delle condizioni igienico- sanitarie”, così come attuato dal sindaco di Palermo nel 2019, che ha autorizzato l’iscrizione anagrafica in base a questa specifica previsione. Altra raccomandazione è quella di allineare le procedure per l’iscrizione anagrafica per le persone senza fissa dimora al contenuto della legge, consentendo loro la possibilità di fornire autodichiarazioni, dichiarazioni di esercenti commerciali, di associazioni, etc., nell’ambito delle tempistiche e con le modalità definite dalla legge. Inoltre si propone di incentivare la formazione interculturale dei funzionari d’anagrafe e rendere effettiva la registrazione telematica dell’iscrizione per tutti gli interessati. Repubblica Ceca, le rom sterilizzate illegalmente saranno risarcite di Riccardo Noury Corriere della Sera, 23 luglio 2021 Dopo le scuse del governo in carica nel 2009, oggi il Senato della Repubblica Ceca ha finalmente approvato il provvedimento che stabilisce risarcimenti in favore delle migliaia di rom sterilizzate illegalmente dal 1966 (quando il paese era ancora la Cecoslovacchia) fino al 2021. Le testimoni che hanno preso parte alla lunga campagna per ottenere i risarcimenti hanno denunciato di essere state costrette a firmare moduli di consenso mentre erano prossime al parto o si stavano riprendendo da un parto cesareo senza che qualcuno spiegasse loro di cosa si trattava o dietro la minaccia di vedersi ritirare i sussidi statali o di vedersi sottrarre i figli. Il diritto internazionale ha sempre parlato chiaro: per le Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa le sterilizzazioni illegali costituiscono un trattamento invasivo e permanente e quando sono eseguite senza uno scopo terapeutico e senza il consenso sono una forma di tortura. Le sopravvissute alle sterilizzazioni illegali avranno diritto a un risarcimento di 300.000 corone (equivalenti a circa 12.000 euro): occorrerà domanda al ministero della Salute entro tre anni dall’entrata in vigore della legge, indicando il nome dell’ospedale dove avvenne la sterilizzazione. Certo, la cifra è del tutto modesta. Ma Elena Gorolova, vittima di sterilizzazione forzata e protagonista della campagna per i risarcimenti, afferma che “dopo anni e anni di lotta, sono soddisfatta. Le scuse del 2009 non bastavano. Ora il nostro gruppo di volontarie aiuterà le sopravvissute a presentare la domanda e a trovare la documentazione a sostegno”. Afghanistan addio. E l’Italia non ha scuse di Enrico Calamai Il Manifesto, 23 luglio 2021 La storia si ripete. Dal ritiro dell’Armata rossa a quello delle forze occidentali, che procede in questi giorni tra mielosi ammainabandiera, zero autocritica e nessuna richiesta di perdono alla popolazione locale per gli ultimi 20 inutili anni di guerra, l’ex ambasciatore a Kabul racconta le fasi e le responsabilità che possono spiegare anche il prossimo bagno di sangue. Sono arrivato all’ambasciata a Kabul ai primi di settembre del 1987. Il blocco occidentale non riconosceva il governo fantoccio messo su dall’invasore sovietico a partire dal 1979, e a me erano state assegnate funzioni di Incaricato d’Affari a.i.. Da parte occidentale si seguiva con grande interesse il tentativo di Gorbaciov di trasformare l’Urss, sia in politica interna che in politica estera. Per quanto riguardava quest’ultima, gli si chiedeva il ritiro dell’Armata rossa dall’Afghanistan come prova fattuale della reale capacità di arrivare a quella distensione, che a parole auspicava. A luglio dello stesso anno Gorbaciov aveva dichiarato, ricevendo una delegazione ufficiale del Pci, che in Italia c’era una persona che avrebbe potuto dimostrarsi di fondamentale importanza per la pacificazione dell’Afghanistan. Era chiaro il riferimento a Zahir Shah, il re deposto dell’Afghanistan, che viveva in esilio a Roma. La cosa non era certo sfuggita all’allora ministro degli Esteri Giulio Andreotti, che, vecchio habitué dei salotti internazionali e grande amico del Pci, non nascondeva la speranza che l’Italia potesse giocare un ruolo nel superamento della crisi afghana. Alla Farnesina si fantasticava del ritorno a Kabul - con volo Alitalia - del vecchio sovrano, l’unico in grado di convocare una Loya Girga, o assemblea di tutte le fazioni afghane, per traghettare il Paese verso un sistema più o meno democratico, dopo il ritiro dell’Urss. Sia detto per inciso che il popolo afghano era - e presumibilmente è tuttora - prevalentemente sunnita moderato, con l’eccezione di una minoranza sciita, moderata anch’essa, soprattutto nella zona di confine coll’Iran. Subito dopo l’invasione sovietica nel ‘79, la resistenza afghana era stata organizzata da parte degli Usa, che la finanziavano, armavano e addestravano insieme a Pakistan e Arabia Saudita. La svolta sarebbe arrivata con la dotazione ai Mujaheedin del missile terra-aria Stinger, che era facilmente trasportabile, aveva una gittata di 5mila metri e aveva reso del tutto impraticabili le operazioni antiguerriglia condotte dai corpi speciali dall’Armata rossa a mezzo di elicotteri. I gruppi armati erano 7, tra cui il più fanatico era quello finanziato dall’Arabia Saudita, che non faceva prigionieri: li decapitava sul posto. Vi faceva il suo apprendistato bellico un giovane e brillante Bin Laden. Gli europei facevano peraltro affidamento su Massoud, il Leone del Panshir, che pur essendo a sua volta un signore della guerra e quindi operando colle stesse regole degli altri gruppi armati, aveva studiato alla scuola francese di Kabul e sembrava meno fondamentalista degli altri. I Mujaheddin erano ormai appostati nelle montagne tutto intorno a Kabul e ogni tanto sparavano colpi di mortaio contro postazioni sovietiche cui immancabilmente si rispondeva con i temibili Scud al cui boato si accompagnava l’improvviso, convulso ondeggiare del pavimento della nostra ambasciata. Il 30 settembre 1987, Najib veniva nominato presidente dell’Afghanistan. Uno dei suoi primi passi fu modificare il nome in Najibullah, in chiaro segno di superamento dell’ateismo fino a quel momento sbandierato dal governo pro-sovietico. Famoso per la sua brutalità, temuto ed odiatissimo, era stato fino ad allora Capo della Polizia afghana. La sua nuova - e impossibile - missione consisteva nell’arrivare a una riconciliazione nazionale che permettesse una transizione non violenta a un regime di stampo democratico. Avevo avuto modo di incontrarlo in occasione di una visita del segretario generale della Farnesina a Kabul. Malgrado il dispiegamento di forze intorno alla sua persona, eravamo evidentemente di fronte al vertice di una struttura di potere in procinto di sciogliersi come neve al sole, di a un uomo colla corda al collo. Nel corso del colloquio sostenne che non era nell’interesse del mondo occidentale che i fondamentalisti si impadronissero del Paese, dato che ne avrebbero fatto il centro di un espansionismo politico religioso difficilmente controllabile. Fece anche un accenno alla speranza riposta dal popolo afghano nel rientro di Zahir Shah come Presidente, con l’incarico di presiedere alla Loya Girga per la riconciliazione nazionale, dichiarandosi disposto a farsi da parte nell’interesse nazionale. Magari fosse stato ascoltato! A fine dicembre 1988 Gorbaciov annunciava ufficialmente il ritiro dell’Armata Rossa, il che voleva dire abbandonare alla propria sorte il Governo di Kabul, che difficilmente sarebbe potuto sopravvivere senza una chiara volontà politica in tal senso da parte occidentale. L’Italia e parte almeno dei partner comunitari avrebbeo voluto lasciare aperte le ambasciate a Kabul, come segno di fiducia nel processo di transizione, ma da parte Usa si mirava al cosiddetto Vietnam sovietico, vale a dire a una fuga disordinata dell’Armata rossa - che venne lasciata partire senza danno alcuno - e l’immediato crollo del governo fantoccio. Dopo non pochi tentennamenti, ci si allineò sulla posizione americana e si decise di chiudere le ambasciate adducendo motivi di sicurezza, con l’intento di creare una situazione di panico collettivo, che avrebbe facilitato il crollo di quel governo. Dovemmo chiudere l’ambasciata tra il 28 e il 31 gennaio 1989. Andarlo a comunicare al ministero degli Esteri afghano è stata una delle esperienze più tristi della mia vita. Un’ambasciata è infatti un ponte tra due popoli e due governi e chiuderla e come abbandonare una nave. Tra l’altro, le ambasciate occidentali erano rimaste a Kabul, sia pure non nel pieno dei rapporti diplomatici bilaterali, in segno di solidarietà col popolo afghano invaso dai sovietici. E quando finalmente i sovietici si ritiravano, noi chiudevamo! Alla sede centrale della Ariana Afghan Airlines, l’unica che facesse ancora servizio tra Kabul e Nuova Delhi, non c’erano più posti disponibili. “Tutti scappano - mi disse l’impiegato. Se anche le ambasciate chiudono, non resterà nessuno a far da testimone di quanto accadrà in città. Io ho 7 figli e non posso andarmene”, finì con le lacrime agli occhi. Dovetti andare dal direttore generale e mentre aspettavo di venir ricevuto, vidi la fila di impiegate che venivano a salutare perché lasciavano il lavoro. La mattina dopo all’aeroporto era il si salvi chi può, colla folla che assediava gli sportelli. La destabilizzazione, perseguita da parte americana e occidentale, funzionava come un congegno di precisione. Lasciavo una Kabul in preda al terrore. Arrivato a Roma, mi recai dal Segretario generale della Farnesina, cui comunicai la mia convinzione che il governo sarebbe presto crollato, richiamando quanto profetizzato da Najib, vale a dire che non era nell’interesse occidentale che l’Afghanistan cadesse in preda ai fondamentalisti. Mi venne risposto che risultava che il governo afghano godesse di ottima salute e mantenesse la presa sul territorio. Analoga risposta, sorprendentemente, ricevetti dall’allora ministro degli Esteri del governo ombra del Pci, on. Giorgio Napolitano, che mi spiegò con pazienza che la guerra civile era ormai finita e il governo afghano restava saldamente in sella. Il resto è noto. Dopo due anni i gruppi Mujahideen entrano a Kabul senza tuttavia riuscire ad impossessarsene. Ogni volta che uno di essi arriva al centro, gli altri 6 gli si coalizzano contro. Accade che un ministero spari contro l’altro. Najib può rifugiarsi nella rappresentanza delle Nazioni unite e continuare a lavorare per la sua mission impossible della riconciliazione nazionale. Ci pensa l’ingordigia del mondo occidentale a porre rimedio al vuoto politico scientemente creato a Kabul. Con grande orchestrazione mediatica internazionale, entrano in scena i Talebani, minoranza fino a quel momento conosciuta per il fondamentalismo religioso e l’arretratezza dei costumi. Valga a titolo di esempio quanto segue: usi a camminare scalzi, si vantavano del numero di chiodi che riuscivano a piantarsi nel callo sotto i piedi: quanti più chiodi, più macho. Radicalmente omofobi, consideravano la donna buona soltanto per la riproduzione e i giovanetti preferibili per il piacere. I loro notabili si mostravano spesso in pubblico (difficile che non continuino a farlo) con un ragazzo rapito o comprato alla famiglia, la cui sorte nel diventare adulto era segnata: respinti dalla famiglia, emarginati dalla società erano (probabilmente lo sono ancora) condannati alla prostituzione o a morire d’inedia. Quanto sopra per dire che era materialmente impossibile che nel giro di pochi mesi da tale stato di arretratezza culturale i talebani fossero arrivati a pilotare gli aerei e a guidare i carri armati con cui si espandevano a macchia d’olio, fino a impadronirsi del Paese. Più probabile che fossero i Pasthun dell’Isi (Inter-Services Intelligence) pakistano a provvedere alla bisogna, con accordo Usa e finanziamento saudita. Il vero bagno di sangue iniziò a quel punto e ne divenne emblematica la tragica uccisione di Najib, prelevato dalla sede delle Nazioni Unite contro il diritto internazionale, straziato e linciato pubblicamente, non tanto, si badi bene, per il suo passato prosovietico, quanto per la credibilità di moderato mediatore politico che aveva saputo costruirsi. E in Italia, ci fu chi pensò al riconoscimento del nuovo regime. Oggi, la storia si ripete con Usa e mondo occidentale, Italia compresa, nella parte che fu degli invasori sovietici, un governo fantoccio che ancora una volta si scioglierà come neve al sole, una nuova resa dei conti e un nuovo bagno di sangue, a meno che i talebani, con 20 anni di guerra sulle spalle, non abbiano imparato quella particolare regola del gioco, per cui ci si esprime pubblicamente da fondamentalisti e sottobanco ci si prodiga in nome del business. A pagare il prezzo, ancora una volta sarà il popolo afghano, le donne costrette, se vogliono sperare di sopravvivere, a tornare a chiudersi nel pregiudizio, i bambini che potranno imparare solo l’uso delle armi e il Corano. È da sperare che l’occidente - che dopo vent’anni e chissà quante migliaia di morti, si ritira quasi fosse una vittoria, gonfiando il petto con mielosi ammainabandiera - possa almeno non chiudere la porta in faccia ai disperati che noi stessi abbiamo costretto alla fuga per la vita. Per quanto riguarda l’Italia, non sarebbe poi male fare autocritica per aver violato l’art. 11 della Costituzione e chiedere perdono all’incolpevole popolo afghano per aver partecipato ai disastri di un’inutile invasione.