Una nuova cultura della pena e non soltanto nuove carceri di Glauco Giostra Avvenire, 22 luglio 2021 I “mattoni” con cui si vogliono costruire i penitenziari devono contenere un’idea e realizzare strutture finalizzate alla riabilitazione, non alla segregazione. Nel Medio Evo “rigoroso esame” era l’ipocrita eufemismo con cui si designava la tortura; oggi, “perquisizione”, quello con cui si copre un’”ignobile mattanza”, come l’autorità giudiziaria non ha potuto non qualificare il preordinato e violento pestaggio avvenuto poco più di un anno fa nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Questa volta, però, fatte salve le esitazioni e le minimizzazioni dei leader coerentemente sempre dalla parte del manganello, la reazione della politica nelle sue più alte espressioni è stata all’altezza della situazione, non solo condannando senza appello l’accaduto, ma mostrando consapevolezza della necessità di cambiare la realtà carceraria affinché non possa ripetersi. Al punto che molti ritengono che vi siano tutte le condizioni per introdurre profonde innovazioni. Ma - ammoniva Seneca - non c’è vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare. Il rischio è che ci si soffermi sui sintomi, invece che sulle cause; che si introducano placebo adatti solo a tacitare le turbate coscienze. Si ripete che molto è dovuto a una gravissima disfunzione del sistema penitenziario: il sovraffollamento. Si tratta indubbiamente di fattore che ingigantisce ed esaspera i problemi, rendendo da un lato difficilmente governabile la vita intramuraria, dall’altro favorendo contesti in cui la pena - in aperta violazione della Costituzione - diviene trattamento contrario al senso di umanità. Ma se pensassimo di risolvere il problema, come da più parti si auspica, semplicemente costruendo nuovi penitenziari, ci ritroveremmo tra non molto, come in uno sconsolante gioco dell’oca, al punto di partenza. Il Consiglio d’Europa ha da tempo ammonito: aumentare la capienza penitenziaria, significa soltanto favorire un maggior ricorso alla carcerazione. L’offerta crea la domanda. Del resto, l’idea, che vanta immeritati consensi, secondo cui basterebbe una maggiore ricettività penitenziaria per offrire ‘degenze’ dignitose ai condannati e per rendere più sicura la collettività, è contraddetta da ogni studio serio e dalla realtà, non soltanto nazionale. Beninteso, al patrimonio edilizio penitenziario, fatiscente e scarsamente funzionale, bisogna mettere mano, sia nel senso di apportare provvidenziali e indifferibili ristrutturazioni, sia nel senso di costruire nuove strutture, là dove quelle esistenti non risultino recuperabili. Ma il problema non può essere ridotto al rapporto superficie utile/popolazione penitenziaria; a un problema, cioè, di metri quadrati pro capite, come è avvenuto sinora per scongiurare altre condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, con il corollario di deprimenti oscillazioni giurisprudenziali in ordine alla calcolabilità degli spazi occupati dal mobilio. I mattoni con cui si costruiscono i penitenziari devono avere dentro un’idea; devono realizzare una struttura disegnata dal senso e dalla finalità della pena. Se l’illuminata filosofia ispiratrice dovesse essere quella della segregazione del reprobo sino all’ultimo giorno della pena da scontare, ad esempio, si potrebbe utilmente recuperare il settecentesco panottico di benthamiana memoria: con notevole risparmio di personale, si otterrebbe un controllo invisibile e diuturno dei detenuti, opportunamente custoditi in recipienti con le sbarre. Se, invece, alla pena detentiva si assegna il compito di punire con una privazione di libertà che offra anche opportunità - di cui il condannato deve mostrarsi all’altezza - di riabilitazione sociale, il carcere dovrebbe assomigliare il più possibile a un microcosmo sociale, a un villaggio chiuso in cui vive una comunità che lavora, studia, segue corsi professionalizzanti, si impegna in attività artistiche e sportive, rispetta regole di convivenza, riceve visite dall’esterno. Una realtà che non desocializza, ma che rieduca alla corretta socialità. Una realtà in cui al detenuto si offrono molte occasioni per prepararsi al rientro in società con la capacità di svolgere un lavoro e recuperando i propri rapporti affettivi che l’esperienza carceraria non avrà reciso. Ma anche una realtà in cui dal condannato si deve pretendere molto: impegno nello studio e nel lavoro, osservanza delle regole, rispetto del personale di polizia, degli operatori e degli altri detenuti. Ove invece non si mostrasse meritevole di vivere correttamente neppure in questo microcosmo sociale, la pena recupererebbe la sua connotazione meramente punitiva. Abbracciata questa ideologia della pena, l’edilizia penitenziaria non dovrebbe tanto essere incrementata, quanto essere profondamente ripensata in modo che i detenuti debbano responsabilmente gestire un proprio spazio abitativo e condividere ambienti comuni di lavoro, di studio, di impegno artistico e sportivo. Sono cambiamenti che non si improvvisano e che, soprattutto, richiedono determinazione politica, disponibilità di risorse economiche e di tempo. Speriamo che la qualificata Commissione per l’architettura penitenziaria costituita presso il Ministero della Giustizia, che dovrebbe concludere i lavori entro questo mese, possa offrire indicazioni in tal senso. La circostanza che sia composta anche da professionisti che respirarono il vento culturale degli Stati generali dell’esecuzione penale aggiunge qualche motivo di ottimismo in più. Si obbietterà: ma se autorevoli voci hanno richiamato l’attenzione sul sensibile aumento dei disordini e delle aggressioni da quando sono aumentate le ore in cui i detenuti durante il giorno restano fuori dalle celle per condividere spazi e attività (cosiddetta sorveglianza dinamica), vogliamo davvero spingerci molto più avanti su questa strada? Una considerazione poco convincente (che sembrerebbe trovar conforto in una interessante indagine di Milena Gabanelli, la quale, peraltro, ne trae ben diverse conclusioni). Anzitutto: anche durante il lockdown anti-Covid sono drasticamente diminuiti i furti e le rapine. Vogliamo per questo metterlo a regime? E ancora, anzi soprattutto: la sorveglianza dinamica non è che un modo per dare applicazione alla normativa vigente secondo cui le celle devono essere camere di pernottamento, ma non può risolversi nella mera ‘espulsione’ dei detenuti dalle celle: le ore fuori della camera dovrebbero essere impiegate in attività, svolte in strutture adeguate, per la preparazione del futuro sociale del condannato, che ne consentano una più significativa osservazione della personalità e del comportamento; non certo risolversi nell’apatico e insulso attardarsi in un cortile che assomiglia a un enorme pozzo. Una privazione della libertà che prepari alla libertà presuppone certamente personale (polizia penitenziaria, funzionari, operatori psicopedagogici, volontari) di elevata professionalità, organizzazione funzionale allo scopo, strutture architettoniche adeguate, sinergie con gli enti locali; ma richiede, soprattutto, che nel sentire comune si affermi l’idea che tutto ciò farebbe bene alla sicurezza sociale e alla qualità della convivenza civile, drenando così l’acqua dal pantano della paura in cui affondano le idrovore del più rozzo populismo. Prima di ricostruire le carceri abbiamo bisogno di ricostruire la nostra fatiscente cultura della pena. Prima il ddl penale, poi la ministra può tornare al testo Pd sul carcere di Errico Novi Il Dubbio, 22 luglio 2021 Dopo il sì al ddl penale la guardasigilli può rilanciare il decreto scritto nel 2018 dai dem sui detenuti. Boss impuniti? Via Arenula replica alle obiezioni dei giudici antimafia. Un decreto riposto nel cassetto da Alfonso Bonafede, successore a via Arenula dell’attuale ministro del Lavoro. Se il doppio colpo riuscisse davvero, dunque, non solo sarà vanificato l’effetto distorsivo della prescrizione targata 5 Stelle, ma verrà anche rimessa sui binari quella riforma penitenziaria che proprio il Movimento e Bonafede decisero di archiviare. Naturalmente esiste il principio di realtà: affiancare ora al testo sul penale un’accelerazione sul carcere, considerate le tensioni con i 5 stelle sarebbe suicida. Ma vanno considerati altri due fattori: il pressing del Pd su norme e risorse da immettere nel campo penitenziario e la connessione oggettiva con le misure alternative che si trova già ora in alcuni passaggi del ddl Cartabia sul processo. Rossomando e Giorgis: testo 2018 va ripreso - Con ordine. Al discorso in Parlamento della guardasigilli sulle violenze di Santa Maria Capua Vetere (di cui si dà ampio riscontro in altro servizio, ndr) hanno fatto seguito ieri mattina gli interventi dei partiti. Da cerchiare di rosso soprattutto quelli del Pd. Al Senato ha preso la parola Anna Rossomando, responsabile Giustizia del Nazareno: “C’è da riprendere la riforma dell’ordinamento penitenziario, investire sul trattamento, sul personale, sulle risorse”. Riforma e maggiori stanziamenti, appunto. Alla Camera è toccato ad Andrea Giorgis, che da sottosegretario alla Giustizia nell’era Bonafede si è occupato anche di carceri: prima di tutto, ha detto, “serve un impegno sulla formazione degli educatori, del personale e degli agenti, che vanno dotati degli strumenti culturali e operativi per assicurare ai detenuti il reinserimento sociale”. Poi, oltre a rivendicare le misure introdotte in pieno lockdown, Giorgis ha chiesto di “riprendere in mano quell’ambizioso progetto, avviato durante la scorsa legislatura con gli Stati generali dell’esecuzione penale”. La riforma Orlando. Ha citato la mente che guidò quell’esperienza, il professor Glauco Giostra: “Si deve “immettere nelle arterie normative la linfa di un’idea di esecuzione della pena in piena sintonia con quella prefigurata dalla nostra Costituzione”. Ma cosa ne pensa Cartabia? Ieri non ha parlato di norme da cambiare, piuttosto di “azioni concrete” del governo. D’altra parte la ministra ha prestato attenzione fin dai suoi primi giorni a via Arenula alle richieste dem sulla riforma penitenziaria. Dopodiché ha fatto una riflessione, che negli ultimi giorni ha assunto la seguente forma: il ddl penale è un dossier più impervio del previsto, mettere sul tavolo ora anche un’apertura strutturale ai benefici per chi è già recluso, come da riforma Orlando, vorrebbe dire complicare il quadro. Una chiusura? No, anche perché proprio negli emendamenti della ministra sul processo c’è una forte apertura sulle pene alternative. Una volta che la riforma penale sarà definitivamente approvata, non sarà difficile fare all’intera maggioranza il seguente discorso: chi viene condannato, grazie alla nostra legge, avrà maggiori opportunità di non mettere piede in carcere, perciò è giusto consentire, con modifiche dell’ordinamento, anche a chi già è in cella di accedere alle misure alternative. E rieccoci alle aperture contenute proprio nella riforma penitenziaria di Orlando. La sinergia Letta-Draghi sulla prescrizione - Ma ora c’è il primo step: approvare il ddl penale. partita in cui viceversa il Pd gioca in difesa. “Siete i primi ad avere a cuore una via d’uscita sulla prescrizione, confidiamo nel vostro contributo”: Mario Draghi ha usato con Enrico Letta parole non troppo diverse, quando tre giorni fa gli ha chiesto di mediare con i 5 Stelle. I numeri per il governo ci sono, ma se il Movimento uscisse dalla maggioranza si aprirebbe una voragine politica impressionante proprio per i dem. Se si parte da qui, si comprende meglio quanto avvenuto ieri pomeriggio, nel secondo intervento parlamentare di Cartabia, dedicato alla riforma del processo. Question time, replica ad Andrea Colletti, agguerrito ex 5 Stelle, che ha “rinfacciato” alla guardasigilli le obiezioni di Gratteri e de Raho: “Il governo è consapevole che l’improcedibilità può essere un pericolo?”. La ministra ha risposto che “i processi di mafia non andranno in fumo”, perché “i reati puniti con l’ergastolo non sono soggetti all’improcedibilità, e per altri reati gravi sono possibili proroghe”. Poi Cartabia ha confermato l’arrivo di una norma transitoria sui nuovi tempi limite per i giudizi d’impugnazione. In pratica passerà l’emendamento depositato martedì proprio dal Pd: fino al 2025 il margine per il secondo grado sarà di tre anni per tutti i reati, in modo da “consentire agli uffici più in difficoltà di adeguarsi al nuovo sistema”, come spiegano i dem Debora Serracchiani e Alfredo Bazoli. Alla presidente dei deputati e al capogruppo in commissione fa piacere che “la ministra abbia annunciato una norma transitoria: è la strada da noi indicata”. Di fatto Cartabia accoglie la modifica del Nazareno come segno approvazione, sua e di Draghi, alla proposta sull’improcedibilità. Ecco la conferma della sinergia tra il premier e Letta. Ma la vera domanda è se tutto questo se basti ad approvare la riforma Cartabia. Non la pensano ancora così deputati 5S della commissione Giustizia, secondo i quali “tutti i processi per mafia devono arrivare alla loro naturale conclusione”, anche quelli non puniti con l’ergastolo. Forse è la via ultima per trovare un accordo, sempre che il Movimento non chieda di rendere imprescrittibili pure i casi di corruzione. “Se qualcuno pensa, surrettiziamente, di tornare al fine processo mai, ha fatto male i suoi conti”, avvertiva già ieri mattina il sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. Nell’orizzonte di Cartabia c’è un carcere più umano. Ma prima che si esca dal tunnel della prescrizione ce ne vorrà ancora. Santa Maria Capua Vetere. “Violenza a freddo, indagine su tutte le carceri della rivolta” di Liana Milella La Repubblica, 22 luglio 2021 La ministra della Giustizia Cartabia. riferisce alla Camera sulle violenze subite dai detenuti. “Un uso e insensato della forza”. Poi: “Il sovraffollamento sta peggiorando”. “Il governo ha visto, sa e non dimenticherà”. Lo ha detto Draghi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Lo ripete adesso Marta Cartabia alla Camera. E invita tutti i parlamentari “a visitare le carceri”. Li esorta “a guardare i reparti delle donne, le situazioni di marginalità, quel mondo vario che non può essere affrontato nello stesso modo”. Perché, dice la ministra della Giustizia, “il carcere è una galassia, non è solo un pianeta, non basta l’improvvisazione, né sono sufficienti interventi personali”. Soprattutto perché “il carcere è un pezzo della nostra Repubblica che non possiamo rimuovere dalle nostre coscienze”. Ecco, i fatti di Santa Maria - finora 75 agenti sospesi, ma anche altri indagati perché secondo il gip non c’è la certezza della loro presenza quel 6 aprile 2020, il giorno delle violenze - “devono riguardare tutti”. È necessario riflettere su “fatti così gravi”, sull’uso “smisurato e insensato della forza”. Ma come ha detto subito dopo aver visto i video delle telecamere di fronte alle quali comunque gli agenti hanno picchiato i detenuti, “quei fatti sono la spia che c’è qualcosa che non va e che richiede azioni ampie e di lungo periodo perché non accadano mai più”. Per questo è necessaria “un’indagine ampia per capire cos’è successo in tutti gli istituti dove la pandemia ha esasperato la situazione”. “A Santa Maria violenza a freddo” - La condanna di quanto è accaduto quel 6 aprile è senza sconti. “Abbiamo visto tutti le immagini, un detenuto costretto a inginocchiarsi per colpirlo, uno in carrozzella colpito ripetutamente, tutto sono l’occhio della videocamera” ripete adesso la ministra. E aggiunge: “Non era una reazione a una delle tante rivolte, era violenza a freddo”. Cartabia la definisce “una ferita gravissima alla dignità della persona che è la pietra angolare della convivenza civile”. Parla della Costituzione “a difesa di tutti, specie di chi è più vulnerabile”. Condanna “l’uso della forza contro i più deboli”. Definisce “gravi” i fatti accaduto nella sezione Nilo, elenca i reati contestati dalla procura di Santa Maria, “delitti aggravati per aver agito con crudeltà, abuso di poteri, uso delle armi, con più di cinque persone coinvolte”. Spiega di aver chiesto al Dap - il Dipartimento delle carceri italiane che vede al vertice l’ex procuratore generale di Reggio Calabria Dino Petralia e il suo vice, l’ex pm di Palermo Roberto Tartaglia - cosa abbia fatto dopo le prime notizie di stampa. Spiega ai deputati che il Dap “ha cercato e ha chiesto notizie alla procura, ma senza nessun riscontro perché le indagini erano coperte dal segreto investigativo”. Per questo tutte le iniziative sono successive agli arresti. “Una sconfitta per tutti” - Cita ancora la sua visita nel carcere campano con Draghi. Ripete le sue parole, “una sconfitta per tutti”. E chiosa: “Al di là delle responsabilità penali personali, in quei fatti c’è qualcosa che ci riguarda tutti”. E per questo Cartabia ha incontrato tutti i rappresentanti sindacali e i provveditori regionali per analizzare i fatti e guardare agli interventi futuri. Gli atti giudiziari, del resto, parlano chiaro. E Cartabia non minimizza alla Camera quelle responsabilità. Le ripercorre: “Emerge che la perquisizione era fuori dai casi previsti dalla legge, senza il via libera del direttore del carcere, ci fu solo un provvedimento dispositivo orale, un ordine al telefono, ci fu un’azione a scopo dimostrativo per recuperare il controllo del carcere e per le aspettative del personale”. Cita un’intercettazione: “Era l’unico modo per riprendersi il carcere”. La reazione del Dap - Le misure assunte dal ministero e dal Dap sono note. Cartabia le ripercorre, trasferiti i detenuti coinvolti, 75 agenti sospesi dal servizio per 8 mesi gli agenti, come il provveditore regionale Fullone e il direttore reggente del carcere. Ma Cartabia spiega anche che il suo obiettivo è “capire la catena delle informazioni, come sia stata possibile una perquisizione senza un via libera scritto”. Per lei è necessario “allargare la prospettiva, scoprire cosa è accaduto in altre carceri”, ma soprattutto “cercare le cause profonde di che cosa non ha funzionato”. Per questo motivo al Dap è stata istituita una nuova commissione ispettiva interna che “visiterà tutti li istituti dove si sono verificati i gravi eventi del marzo 2020”. Il Dap, dice Cartabia, “deve indagare al suo interno, deve scoprire cosa accade dietro quei muri perché i fatti di Santa Maria dimostrano che la capacità di indagine interna non c’è stata”. L’obiettivo è “evitare ulteriori violenze”, e qui Cartabia ribadisce che “ogni giorno” si confronta con la polizia penitenziaria. Gli agenti per bene - Le violenze ci sono state, certo. Ma Cartabia cita le parole di un agente che le ha detto: “Ho ascoltato i racconti del personale, quei fatti sono stati una ferita e un’umiliazione. Io non sono un picchiatore, sono lo stesso padre amorevole che ogni sera torna in famiglia, ma ormai faccio fatica a farmi credere”. Questa è l’altra faccia delle violenze di Santa Maria. Quelli che Cartabia definisce “i gravi fatti di intimidazione verso la polizia che non devono succedere”. E aggiunge: “Perché gli agenti devono essere fieri della divisa che portano, e devono farlo con dignità e onore”. Tutto questo, adesso, dopo Santa Maria, è possibile? “Sarebbe comodo dire che c’è sempre qualcuno che si comporta male - dice Cartabia - ma negli anni le condizioni delle carceri sono così peggiorate che il lavoro e le condizioni di vita dei detenuti sono insopportabili”. Racconta che “quel carcere è senza acqua corrente, solo adesso sono in corso dei lavori, mentre l’acqua finora viene presa dai pozzi e distribuita con le taniche”. E chiosa: “Vivere e lavorare in un ambiente degradato porta disagi per tutti, agenti e detenuti”. Allarme sovraffollamento, 52.193 detenuti - Ma ecco di nuovo l’allarme per il numero dei detenuti che cresce: “C’è stato il picco quando è arrivata la condanna della Cedu, poi la situazione era migliorata, ma adesso sta di nuovo peggiorando, rispetto alla capienza di 800 persone a Santa Maria ci sono 900 detenuti”. E in tutte le carceri italiane ce ne sono, al 20 luglio, 52.193, rispetto alla capienza effettiva di 47.413 posti. Cartabia cita le parole di un agente che le ha detto: “Ministra, ma voi chiedereste mai a un chirurgo di svolgere due operazioni?”. La carenza dei dirigenti, degli educatori, del personale dell’esecuzione penale interna, i concorsi bloccati dalla pandemia e sbloccati soltanto adesso sono la vera faccia del carcere. Sul quale, secondo Cartabia, “bisogna investire di più per il benessere di tutti, per chi ci lavora in condizioni così difficili”. E ai parlamentari che la ascoltano Cartabia rivolge il suo invito: “Andate a visitare le carceri”. E chiude con le parole di Draghi a Santa Maria: “Il governo ha visto, sa, e non si dimenticherà”. “C’è anche responsabilità politica dietro quei pestaggi” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 luglio 2021 “L’amministrazione penitenziaria ha mancato di indagare al proprio interno”. Queste le parole della ministra della Giustizia Marta Cartabia, riferendo sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in Aula alla Camera. Dichiarazione forte, perché la ministra stessa afferma che qualcosa non ha funzionato e per questo ha deciso subito di correre ai ripari. “Occorre far luce su quanto accaduto nelle carceri italiane nell’ultimo anno - ha riferito in aula la guardasigilli - a cominciare dalle rivolte dei detenuti e dalle conseguenti azioni poste in essere dagli operatori penitenziari. Per questo, è stata costituita una commissione ispettiva interna. Chi è in un carcere è nelle mani dello Stato. E dai rappresentanti di quello Stato deve sapere di poter essere trattato nel rispetto di tutte le garanzie”. La ministra ha annunciato quindi che la Commissione ispettiva visiterà tutti gli istituti penitenziari interessati dalle manifestazioni di protesta o da denunce o segnalazioni relative ai gravi eventi occorsi nel marzo del 2020. Ha sottolineato che il suo mandato consiste nell’approfondire la dinamica dei fatti, al fine di accertare la legittimità e la correttezza di ogni iniziativa adottata. “L’amministrazione penitenziaria deve essere capace di indagare al proprio interno. Deve capire ed essere essa stessa in grado di portare alla luce eventuali violazioni. I fatti di Santa Maria Capua Vetere, emersi solo a seguito degli atti dell’autorità giudiziaria, denotano che questa capacità di indagine interna è mancata almeno in questa occasione”, ha detto forte e chiaro la ministra Cartabia. Con l’informativa presentata alla Camera, la guardasigilli ha esordito affermando che è un dovere riflettere sulla contingenza - e sulle cause profonde - che hanno portato un anno fa “ad un uso così smisurato e insensato della forza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere”. Sentito il ricordo del 21 luglio di 20 anni fa, a Genova, quello dei giorni del G8, dove - ha sottolineato - “succedevano fatti di una violenza altrettanto inaudita”. Sempre al Parlamento, la ministra ha ribadito che occorre guardare in faccia tutti i problemi, spesso cronici, dei nostri istituti penitenziari, affinché “non si ripetano atti di violenza né contro i detenuti, né contro gli agenti della polizia penitenziaria, tutto il personale”, e ha evidenziato che “il carcere è lo specchio della nostra società. Ed è un pezzo di Repubblica, che non possiamo rimuovere dallo sguardo e dalle coscienze”. La ministra guarda oltre spiegando che è riduttivo parlare di “mele marce”, per questo ha ribadito che “i mali del carcere, perché non si ripetano episodi di violenza, richiedono strutture materiali, personale e formazione. Dobbiamo rimediare al fatto che le condizioni sono così peggiorate che il lavoro e le condizioni di vita dei detenuti diventano insopportabili”. Per questo, ha evidenziato la ministra, se da una parte c’è la responsabilità penale, dall’altra c’è la responsabilità “politica” a causa della “disattenzione con cui per anni si è lasciato che peggiorassero le condizioni di chi si trova in carcere e di chi in carcere ogni giorno lavora”. Nel carcere campano, ha osservato “quel giorno la temperatura era insopportabile e non c’è acqua corrente: ci sono pozzi e l’acqua viene distribuita con le taniche”. La ministra ha poi spiegato che è prevista la costruzione di 8 nuovi padiglioni, uno proprio a Santa Maria. “Non solo nuovi posti letto. Nuove carceri servono, nuovi spazi servono e ci saranno - ha spiegato -. Non solo posti letto ma anche nuovi spazi per il trattamento dei detenuti”. Importante, in un passaggio della sua informativa al Parlamento, dove sottolinea la necessità di dotare gli istituti penitenziari di “una capillare videosorveglianza, a garanzia di tutti”. E nella riunione con i provveditori degli istituti regionali, la ministra rivela che è stato toccato anche il tema del codice identificativo per gli agenti. “Tema su cui sto facendo una riflessione”, ha sottolineato la guardasigilli. La ministra condanna le violenze e assolve il dipartimento di Nello Trocchia Il Domani, 22 luglio 2021 La ministra della Giustizia Marta Cartabia ha riferito nell’aula della camera dei Deputati sul pestaggio di stato compiuto a Santa Maria Capua Vetere, il 6 aprile 2020. A distanza di oltre due settimane dall’esecuzione delle misure cautelari, disposte dal giudice Sergio Enea, l’ex presidente della Corte costituzionale ha relazionato su quella che è stata definita un’orribile mattanza. La ministra ha condannato le violenze e nuovamente, come già fatto durante la visita al carcere Francesco Uccella, annunciato “linee di intervento per agire sulle cause profonde che hanno permesso - o quantomeno non hanno impedito - fatti così gravi”. Linee di intervento che continuano a presentarsi come insufficienti rispetto a quanto emerso, ma è quando accenna alle responsabilità del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che la ministra si infila in una palese contraddizione. Il dipartimento assolto - Cartabia guadagna il primo applauso quando cita la carta costituzionale, oltraggiata dal pestaggio di stato. “Le violenze e le umiliazioni inflitte ai detenuti a Santa Maria Capua Vetere recano una ferita gravissima alla dignità della persona. La dignità della persona è la pietra angolare della nostra convivenza civile, come chiede la Costituzione, nata da una storia, dalla storia di un popolo che ha conosciuto il disprezzo del valore della persona. Per questo, la Costituzione si pone a scudo e a difesa di tutti, specie di chi si trova in posizione di maggiore vulnerabilità”. Poi accenna a una mancanza da parte del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. È l’unica critica indirizzata ai funzionari e ai vertici. “L’amministrazione penitenziaria deve saper indagare al suo interno, deve saper controllare ciò che avviene dietro quelle mura che, spesso, sfugge all’attenzione di tutti e i fatti di Santa Maria Capua Vetere, emersi solo a seguito degli atti dell’autorità giudiziaria, denotano che, forse, in questo caso, quella capacità di indagine interna è mancata”. La ministra non affonda e si contraddice, accenna a una incapacità di indagine interna da parte del dipartimento, ma assolve i funzionari sulla base di un assunto mendace. Non è vero che i fatti di Santa Maria sono emersi a seguito degli atti dell’autorità giudiziaria, erano noti a questo giornale e rivelati alla pubblica opinione nei mesi di settembre e ottobre. Non solo. Erano stati denunciati dai garanti per i diritti dei detenuti. Erano noti ai pochi deputati che avevano in parlamento sollevato il caso, ottenendo come risposta, il 16 ottobre 2020 dal ministero, all’epoca guidato da Alfonso Bonafede, la definizione di quella perquisizione straordinaria come un atto di “ripristino della legalità”. L’amministrazione penitenziaria ha sottovalutato quegli elementi diffusi dalla stampa, da associazioni e garanti ritenendo la descrizione dettagliata dei pestaggi inverosimile e credendo alla catena di comando, a partire dalla versione del provveditore regionale Antonio Fullone, che aveva disposto la perquisizione e avallato quella spedizione punitiva. Il provveditore dei depistaggi era un paladino dei carcerati - Pubblica era l’indagine a carico di Fullone, pubblici i nomi dei 57 agenti indagati per tortura, pubblici e dettagliatamente descritti i colpi inferti ai detenuti e a un recluso in carrozzella. La ministra richiama la giustificazione fornita da vertici del dipartimento che non avrebbero agito per la mancata comunicazione da parte della procura di Santa Maria Capua Vetere di riscontri alle notizie diffuse. In tre occasioni il Dap ha chiesto alla locale procura informazioni che non ha ottenuto, per ragioni di riservatezza delle indagini, ma alcuni fatti erano noti e facilmente riscontrabili. A uno fa riferimento anche la ministra Cartabia citando gli atti della magistratura sammaritana. “La perquisizione straordinaria del 6 aprile è stata disposta al di fuori dei casi consentiti dalla legge senza alcun provvedimento del direttore del carcere, unico titolare del relativo potere”, dice la ministra. Ma non ci voleva l’ordinanza cautelare, bastava una telefonata. Domani aveva scritto il 2 ottobre 2020 che la perquisizione, in assenza della direttora del carcere, era stata disposta dal provveditore regionale Antonio Fullone, il quale aveva anche inviato il personale protagonista del pestaggio. Perché il dipartimento non chiesto spiegazioni a Fullone e, confermata la circostanza, trasferito il provveditore? È una delle 13 domande che Domani ha posto alla ministra senza ottenere alcuna risposta. Cartabia ha dedicato parte del suo intervento anche alle linee di intervento indicando tre direttrici che non comprendono il codice identificativo per gli agenti. “I mali del carcere, perché non si ripetano più episodi di violenza, richiedono una strategia che operi a più livelli, a mio parere, almeno tre: strutture materiali, personale e formazione”, dice Cartabia. Livelli, certamente, di primaria importanza, ma il personale che ha organizzato il pestaggio era composto da comandanti di reparto esperti che non avevano alcuna carenza formativa. I detenuti non si sono fatti male perché erano troppi e neanche perché erano in un carcere senza acqua potabile. Si sono fatti male perché pestati in un’orribile mattanza per la quale in 75 sono stati sospesi mentre altri agenti indagati sono ancora in servizio anche nel carcere delle violenze. Dopo Santa Maria Capua Vetere avanza l’ipotesi dell’amnistia di Fausto Carioti Libero, 22 luglio 2021 Quello di Mario Draghi sarà anche il governo dell’amnistia? Il sospetto è sorto ieri mattina nell’aula di Montecitorio, mentre Marta Cartabia riferiva sui fatti avvenuti nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere (52 indagati tra agenti della Polizia penitenziaria e funzionari. “Violenza a freddo” sui detenuti, ha sentenziato il ministro della Giustizia). Buona parte della sua relazione è stata dedicata alle carceri italiane, nelle quali, ha insistito, le condizioni sono difficili “per il sovraffollamento, la fatiscenza delle strutture, la carenza del personale e tante altre ragioni”. Il numero dei detenuti era sceso, ma ora, ha avvertito il guardasigilli, “la situazione sta di nuovo peggiorando. Il solo carcere di Santa Maria Capua Vetere - una capienza regolamentare di circa 800 persone - vede ospiti 900 detenuti”. In realtà (dati del suo ministero, relativi al 30 giugno), la situazione in quella struttura è peggiore: a fronte di una capienza regolamentare di 806, i detenuti presenti sono 960. E così in molti altri posti. A Regina Coeli sono in 893, ma lo spazio sarebbe solo per 606. A San Vittore, costruito per ospitarne 743, se ne contano 858. Nella Casa circondariale di Teramo sono rinchiusi in 355, esattamente 100 in più del massimo previsto. La soluzione studiata dal governo passa per il solito Pnrr, ossia i soldi in arrivo dall’Unione europea. Per l’edilizia carceraria si tratta di 132,9 milioni di euro, spalmati dal 2022 al 2026. “È prevista la costruzione di otto nuovi padiglioni, tra cui uno proprio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Altri sono a Rovigo, Vigevano, Viterbo, Civitavecchia, Perugia, Ferrara e Reggio Calabria”, ha annunciato il ministro. Si è anche impegnata a risolvere “il problema, gravissimo, della diminuzione del personale”. I concorsi sono stati sbloccati e dunque “un po’ di sollievo arriverà a breve”, sebbene lei stessa ammetta che “non sarà sufficiente”. Se assumere nuovo personale e formarlo non è cosa immediata, ancora meno lo è la costruzione di nuovi edifici. Ci vorrà tempo. Da qui, la possibilità che il governo intervenga in altro modo prima che aumentino le celle. Federico Conte, avvocato e deputato di Liberi e uguali, lo ha chiesto parlando dopo il ministro: “Mentre ci apprestiamo a varare una riforma della giustizia epocale, ragioniamo anche su un provvedimento misurato e adeguato di amnistia e indulto”. Insomma, proprio l’arrivo dei finanziamenti europei e il cambio delle regole del processo penale (anch’esso fatto per adempiere al contratto siglato con Bruxelles) sarebbero il “gancio” al quale appendere il provvedimento di clemenza, invocato pure dai garanti dei detenuti. Piaccia o meno, l’idea una sua logica la ha. Lo sanno anche i deputati di Fratelli d’Italia, che infatti hanno subito avvertito il governo: “Non vorremmo che la soluzione fosse un altro provvedimento “svuota-carceri”, al quale ci dichiariamo fermamente contrari”. Del resto, è proprio così che dice di fare il manuale nei casi di proposte che possono risultare dirompenti: si accenna in modo vago all’ipotesi, senza compromettersi, e si guarda l’effetto che fa. Stai a vedere che Marta Cartabia inizia a ragionare come una politica. “Da Bolzaneto a Santa Maria Capua Vetere, in 20 anni pochi passi avanti nei diritti” di Matteo Indice Il Secolo XIX, 22 luglio 2021 Il Garante delle persone private della libertà Mauro Palma nel ventennale del G8. “Proiettiamo negli altri Paesi l’immagine d’una democrazia traballante”. “Dove siamo vent’anni dopo? Un po’ più avanti, ma non molto. E lo dico con estremo rammarico”. Mauro Palma è il Garante nazionale delle persone private delle libertà personali. Durante i convegni per i 20 anni dal G8 è stato a Genova, a Palazzo Ducale, per uno dei convegni più importanti: “La tutela dei diritti inviolabili di chi è sottoposto a restrizione della propria libertà”. Perché dice che i passi compiuti da Genova 2001 sono stati ridotti? “Per due motivi cruciali. Primo: sarebbe bastato pochissimo per compiere il passo fondamentale e rendere davvero riconoscibili gli agenti protagonisti delle varie incursioni. E con un duplice obiettivo: agevolare le inchieste della magistratura se vengono compiuti abusi, ma anche nelle occasioni in cui da parte di detenuti vi siano calunnie nei confronti di un appartenente alle forze dell’ordine, se vengono insomma mosse accuse ingiustificate. Secondo aspetto: in alcune situazioni di abuso da parte delle forze di polizia non c’è soltanto il mancato controllo della forza, il cui potenziale impiego è comunque una caratteristica del bagaglio di chi si trova a operare in certi contesti. Il profilo più grave sta nell’atteggiamento di umiliazione dei sottoposti, come abbiamo visto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove proprio il detenuto è trattato come un nemico, simmetrico. Basti pensare a quell’intercettazione “Ci dobbiamo riprendere il territorio”. Ecco, in queste dinamiche vedo spaventose assonanze con ciò che accadde vent’anni fa a Genova, sia nella scuola Diaz che nella caserma di Bolzaneto”. A Santa Maria Capua Vetere è morto un detenuto, l’algerino Hakimi Lamine di 28 anni, che in precedenza aveva sofferto di crisi epilettiche... “È un episodio ulteriormente drammatico in un contesto già di per sé indicibile. Ma siamo in attesa di capire se esiste una correlazione diretta fra le botte e il decesso. Ma c’è un punto più complessivo che mi preoccupa dopo ciò cui abbiamo assistito”. Ovvero? “Vedere pezzi di corpi dello Stato che applicano la logica del branco e che, come ho premesso prima citando quell’intercettazione, si scagliano contro i sottoposti come fossero sul loro stesso livello. E non può essere così. Senza dimenticare quella che io definirei pure una forma di delegittimazione internazionale dell’Italia: dopo fatti del genere, diventiamo più fragili”. Perché più fragili? “Perché proiettiamo negli altri Paesi l’immagine d’una democrazia traballante”. C’è qualche dato positivo, qualche progressione da registrare a vent’anni dal G8? “I tempi più rapidi nell’accertamento dei fatti e il più veloce scuotimento - laddove viene messa in atto un’azione della Procura - della collettività. La reazione della società, davanti all’intervento degli investigatori, è stata immediata, nonostante fosse intontita dalla pandemia e da tutto ciò che il Covid si porta appresso. Devo dire però dall’altra parte restano altri elementi di arretratezza, anche materiale, disarmanti”. Un esempio? “Il funzionamento, sempre molto modesto, degli apparati di videosorveglianza. Già è raro che siano presenti, lo è ancora di più che registrino davvero. E uno sviluppo reale su questo fronte potrebbe avere un significato simbolico, rappresenterebbe una crescita generale in materia di trasparenza”. C’è una radice culturale specifica in Italia, che di tanto in tanto fa affiorare fantasmi che speravamo sepolti? “Be’, se mi limito a ciò che abbiamo visto negli ultimi anni, a certe forme di populismo giudiziario, noi ne veniamo da un lungo periodo in cui il mantra di chi faceva politica, per ottenere più voti, era “buttiamo via la chiave” per chiunque si fosse macchiato di un crimine o di un sospetto crimine. I riflessi, evidentemente, possono essere devastanti”. Su cosa dobbiamo ancora progredire, allora? “Su due diritti fondamentali da garantire a chi ha limitazioni della propria libertà: la tutela della dignità, che a Santa Maria Capua Vetere evidentemente non c’è stata e le immagini dei reclusi in ginocchio sono lì a dimostrarcelo in ogni secondo. E poi, prioritario, il diritto all’integrità fisica, che forse a Genova è stato violato ancor più che a Santa Maria, in attesa di capire se vi è stata una correlazione fra le aggressioni e la morte del ragazzo algerino”. Dalla vicenda di Santa Maria, ancora una volta e come accadde a Genova, emergono coperture da parte dei vertici, la stortura della catena di comando. È rimasto tutto inalterato? “Non credo inalterato, ma certo è duro da estirpare quel malato senso di “colleganza” che per esempio fa enfatizzare d’acchito, ai vertici dei sindacati della Penitenziaria interpellati dopo il raid, la carenza d’organico. Ok, ma non può essere quello il primo punto da affrontare”. Il titolo dell’appuntamento a Palazzo Ducale richiama il caso di Emanuele Scalabrin, morto nella caserma dei carabinieri di Albenga nel dicembre 2020, secondo le indagini ufficiali per un decesso naturale sebbene non ci sia chiarezza completa su quella vicenda. Che idea si è fatto? “Non ho dettagli precisissimi, ma credo che qualche elemento di trasparenza in più, sulla morte d’un ragazzo così giovane, sarebbe stato necessario. E invece vedo ondeggiare tutti verso un forte desiderio di chiudere gli accertamenti in fretta”. In quali condizioni sono i penitenziari liguri? “È l’unica regione, insieme alla Basilicata, senza un garante dei detenuti, ma almeno in Basilicata è presente nelle singole città. È vero che il consiglio regionale ne aveva approvato la nomina e il Viminale la stoppò per questioni formali. Ma era il 2017, il tempo per recuperare c’era… Dal punto di vista del sovraffollamento, siamo nella media di altre situazioni critiche, a Genova Marassi in primo luogo. Qui tuttavia emergono molti elementi positivi, quali il recupero dei detenuti attraverso i corsi di teatro e il collegamento puntuale con l’ospedale San Martino”. Carceri, la ricerca di regole minime standard nel trattamento dei detenuti a livello europeo di Enrico Sbriglia* La Repubblica, 22 luglio 2021 La proposta: Gorizia e Nova Gorica diventino la “Strasburgo penitenziaria”, il luogo cioè dove elaborare e sperimentare un’uniforme regime penitenziario continentale. Un gruppo di specialisti nelle diverse discipline legate al mondo delle carceri - formato da docenti universitari, criminologi, sindacalisti della polizia penitenziaria, avvocati, studiosi di prospettive future, filosofi, neuroscienziati, architetti, psicologi, direttori penitenziari - qualche giorno fa ha partecipato ad un webinar organizzato dal Cesp (il Centro Europeo di Studi Penitenziari), per contribuire e condividere l’ipotesi di redigere uno studio per la realizzazione di un “Carcere Europeo”, come prototipo di altri che potranno realizzarsi negli Stati della UE. Lo scopo è quello di omogeneizzare le regole penitenziarie europee e le norme della Mandela Rules, cioè la condotta minima standard per il trattamento dei detenuti, adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 17 dicembre 2015, conosciute appunto come le Regole Mandela, in onore dell’ex presidente sudafricano. Nel 2025 il Comune di Gorizia, assieme con quello sloveno di Nova Gorica, saranno Città della Cultura Europea. L’auspicio, dunque, è che per quella data siano anche Città della nuova cultura giuridica penitenziaria condivisa. Alcuni interventi. Dopo la relazione del Presidente del Centro Studi, professor Stango, che è anche presidente della Fidu (Federazione Italiana Diritti Umani - Comitato Italiano Helsinki), il quale ha sottolineato l’esigenza che i temi della pena detentiva debbano far riferimento all’UE, c’è stata la mia relazione con la quale ho sostanzialmente auspicato che il nuovo governo metta davvero tra i suoi punti in agenda l’esplosiva situazione penitenziaria, oggi aggravata dalla pandemia. Nel mio intervento ha anche ricordato come la proposta del Carcere Europeo sia coerente con la costituzione dell’EPPO (European Public Prosecutor’s Office). Assai interessanti sono stati anche le relazioni dell’architetto De Rossi, il quale aveva progettato con i suoi omologhi libici, ai tempi di Gheddafi, la realizzazione di moderne carceri in quel Paese, e del neuroscienziato Pier Luigi Marconi, esperto anche nella lettura sistemica di dati statistici. Di grande interesse anche l’intervento sulla mediazione e la pena riparativa della dottoressa Maria Antonietta Cerbo. I reati previsti nel contesto europeo. Il Centro di Ricerca Europeo per la Sicurezza e Giustizia (CREUSeG), una sorta di cittadella penitenziaria europea, dovrebbe ospitare le persone detenute che hanno commesso reati di natura transnazionale, la cui competenza sarà dell’EPPO. Nello stesso Centro di ricerca si sta perfezionando quel sistema penale europeo che sta gradualmente prendendo vita. I reati previsti dalla Direttiva europea PIF sono quelli di frode, corruzione e riciclaggio, con l’aggiunta della frode nelle procedure di appalto e il reato di appropriazione indebita di fondi europei, da parte di un pubblico ufficiale, nonché la figura della corruzione passiva, estesa anche ai pubblici ufficiali e agli incaricati di pubblico servizio di Stati non appartenenti all’Unione europea. A questi si aggiungerebbero, poi, anche quelli relativi le frodi IVA, quando l’importo dovesse essere supare i 10 milioni di euro e la frode sia transnazionale, cioè che riguardi almeno due paesi dell’Unione (come nel caso delle cosiddette “frodi carosello”). Tutto questo, tanto per iniziare. L’hub di ricerca giuridica di fronte al Parco Basaglia. Attorno al Centro, di fronte il Parco pubblico dedicato a Franco Basaglia, che a Gorizia avviò la rivoluzione per l’abolizione dei manicomi civili, ci sarà un vero e proprio hub di ricerca giuridica, criminologica, sociale, filosofica, di medicina di prevenzione e contrasto alle malattie infettive, nonché per la ricerca e la sperimentazione di nuove tecnologie securitarie, attraverso lo sviluppo della robotica, della dronica, dell’impiego di nuovi materiali, degli strumenti informatici e di telecontrollo. Insomma, una sorta di cittadella della Scienza Securitaria e della cultura penitenziaria, che avrà il compito di aggiornare in standard condivisi i principi, ancora troppo vaghi ed evanescenti, delle regole penitenziarie europee. La “Strasburgo Penitenziaria”. Una realtà che potrà offrire al cittadino europeo un identico “servizio penitenziario”, qualunque sia il Paese europeo ove sia eseguita una condanna o si sia sottoposti ad una custodia cautelare. È evidente che il miglioramento delle condizioni carcerarie si rifletteranno positivamente anche su quelle di tutto il personale penitenziario. Tutto sarà precisato, dalla cubatura di una cella al numero degli occupanti, non mancando di stabilire anche la quantità di ricambio dell’aria all’interno delle stesse, i lux, artificiali e naturali, i colori delle pareti, la tipologia degli infissi e degli arredi, i servizi igienico-sanitari, così come la qualità dei servizi di ristorazione, di quelli medici e la cura del disagio psichico. E ancora: come dovranno effettuarsi i colloqui e le telefonate, gli incontri con i familiari, per assicurarne l’intimità e riservatezza, per l’esercizio delle confessioni di fede, i corredi personali, gli spazi ed i servizi destinati allo studio ed alla formazione professionale, per le necessarie di lavoro dei detenuti affinché non si scivoli nello sfruttamento di manodopera. Una Campagna di comunicazione sociale. Ogni aspetto della vita detentiva dovrà tradursi in istruzioni tecniche, comprese quelle che attengano al rapporto numerico tra detenuti e personale penitenziario, oltre che per quanto attenga agli aspetti lavoristici e retributivi. Un argomento, questo, particolarmente apprezzato dai diversi sindacalisti presenti all’incontro. Significativa è stata la riflessione della giornalista Kenka Lekovic, la quale ha sottolineato l’importanza di una Campagna di comunicazione sociale per una corretta informazione anche di tipo pedagogico, per mettere i cittadini nelle condizioni di conoscere l’importanza di tutto questo. La voce dei sindacati. I responsabili sindacali regionali e nazionali della polizia penitenziaria, nei loro interventi, hanno poi evidenziato come troppo spesso sia descritta una sensibilità sui temi dei diritti umani e della legalità da parte del personale del Corpo non corrispondente al vero, mentre è interesse di ogni agente che le pene detentive costituiscano un’occasione di riabilitazione e di recupero della persona detenuta, piuttosto che una mera sofferenza che nessun vantaggio porterebbe in tema di sicurezza. *Enrico Sbriglia, penitenziarista, autore della proposta accolta dal Comune di Gorizia, ex dirigente generale dell’Amministrazione Penitenziaria, componente dell’Osservatorio Regionale Antimafia del Friuli Venezia Giulia A Pianosa e all’Asinara la vendetta dello Stato dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino di Tiziana Maiolo Il Riformista, 22 luglio 2021 Tragico anniversario quello della notte tre il 20 e il 21 luglio del 1992, ventinove anni fa, quando trecento uomini furono prelevati da diverse carceri, sequestrati e deportati. E poi torturati giorno dopo giorno, notte dopo notte, mentre da 300 erano diventati 532, nei luoghi detenzione speciale delle isole di Pianosa e Asinara, trasformate da colonie agricole a bunker dove consumare la vendetta di Stato. La rabbia e la rappresaglia furono la risposta all’assassinio di Paolo Borsellino. Così quella notte lo Stato indossò il passamontagna della vendetta. Fa una certa impressione, in questo luglio in cui siamo costretti a convivere con le bastonate di Santa Maria Capua Vetere e di chissà quante altre carceri italiane, e poi con il ricordo tragico del G8 del 2001 a Genova, sapere che nella nostra agenda sono segnate con l’inchiostro indelebile non solo le date degli assassinii di Falcone e di Borsellino ma anche quel che ne è seguito. Fino alla notte del 20 luglio. Non erano tutti mafiosi, i 300 che furono deportati nel buio, trascinati per i capelli, con o senza vestiti, fino alle isole che saranno maledette fino al 1998, quando furono di nuovo e finalmente lasciate allo splendore della loro natura e della loro fauna. La gran parte di loro era fatta di ragazzi in attesa di giudizio, pochissimi per reati legati alla mafia. Erano semplicemente i reclusi delle carceri del sud, dall’Ucciardone a Poggioreale. Ma furono spacciati, nelle cronache cieche e sorde allora più di oggi, per i boss che avevano assassinato i due magistrati. Peccato che i capimafia fossero invece tutti latitanti, e solo nel 1993 sarà arrestato Totò Riina. Ma l’importante era il “segnale”. Ecco come si concretizzò la risposta dello Stato, nelle parole di uno di loro, uno che ho incontrato io stessa a Pianosa e che si chiama Matteo Greco. La sua testimonianza è anche riportata nella tesi di laurea di Carmelo Musumeci, uno dei pochissimi condannati all’ergastolo ostativo che sono riusciti a dare un indirizzo diverso alla propria vita. Un percorso nello “stile Cartabia”. Ecco quel che successe a Matteo Greco quella notte. “Ormai da parecchie ore mi sono addormentato, a un tratto mi sveglio di soprassalto, alcuni secondini hanno aperto la porta blindata e il cancello, entrano in cella, circondano la branda e mi dicono: “Alzati, devi partire”. “Per dove?” Un secondino con la mano destra mi prende per i capelli tirandomi fuori dal letto, un altro mi dà un pugno dall’alto verso il basso sul collo. Cerco di difendermi. Mi si buttano tutti e sei addosso con pugni e calci… finché non cado per terra per non avere più la forza di rialzarmi. In faccia sono una maschera di sangue, non ho detto una parola né un lamento, si sono sentite solo le grida dei secondini. Vengo fatto scendere all’aeroporto militare. Non chiedo dove mi stanno portando e dove sono i miei vestiti. Infatti l’unico vestiario che ho è il pigiama che indosso e un paio di ciabatte di plastica ai piedi. Mi fanno salire su un elicottero militare, un rumore assordante, non mi è stata data la cuffia. Dopo molte ore arrivo sull’isola di Pianosa e lì mi attendono una trentina tra secondini, carabinieri e finanza”. Questo è solo l’antipasto. Le testimonianze sono tutte uguali. Ecco che cosa è Pianosa, in quei giorni. “Appena metto i piedi a terra alcuni secondini mi danno pugni e calci… mi sbattono dentro una jeep, batto la testa, mi danno un pugno gridando “abbassa la testa bastardo”. Poi vengo fatto entrare in una cella d’isolamento, tre metri per due, una branda di ferro massiccio saldata per terra, un lavandino d’acciaio saldato al muro, sopra un rubinetto con acqua salata non potabile”. “Mi viene ordinato di spogliarmi… a un tratto si scagliano di nuovo come belve assetate sul mio povero corpo, il pestaggio dura alcuni minuti lunghi come un’eternità! Svengo. Riprendo i sensi con una puntura fattami da una dottoressa, la quale vedendomi esclama “Ma come è ridotta questa persona?”. Il suo lavoro (perché è obbligata) è far finta di nulla, infatti nel certificato per la medicazione scrive “Trattasi di una piccola escoriazione sulla fronte scivolando in cella”“. La routine quotidiana, nel racconto di Matteo Greco e in quello degli altri parla di un litro di acqua al giorno (sulle isole in piena estate), di cibo razionatissimo “dove si trova, sia nella pasta sia nel secondo, un po’ di tutto tra sputi, cicche, carta, plastica, vetro, preservativi e spaghi”. La notte gli agenti si divertivano, picchiavano un po’ i detenuti, poi andavano a bere. Ancora il racconto: “Pochi erano i secondini non ubriachi, la maggioranza canticchiava la stessa canzone, Faccetta nera”. Poi all’aria, “si deve salutare e mettersi di fronte al lato della cella con il viso al muro, mani e braccia aperte, gambe divaricate al massimo come un piccolo ponte con la testa abbassata… e così si arriva al passeggio, il tragitto è pieno di secondini incappucciati che tirano manganellate da tutte le parti”. La cosa più grave è che, al contrario di quel che succede oggi, perché comunque i detenuti hanno la possibilità di comunicare con l’esterno, con gli avvocati e i familiari, in quei giorni quei 532 erano letteralmente sequestrati, gli avvocati scoraggiati, una legale disperata dovette rinunciare alle visite dopo che era stata tenuta per ore in attesa sotto il sole e le era stata rifiutata l’acqua, poi spogliata e sottoposta a visita anche interna e privata del suo assorbente igienico. Nessuno doveva sapere quel che succedeva là dentro. Finché un giorno… “… viene a visitare il centro di tortura l’onorevole Tiziana Maiolo, sull’isola, i detenuti da pochi minuti erano stati bastonati. L’onorevole chiede di visitare le sezioni, invece il comandante le vuol far vedere soltanto le strutture. La Maiolo insiste a voler vedere i detenuti, un vice maresciallo come se capitasse lì per caso l’avvisa che fra poco si alza il mare…”. “L’indomani l’onorevole Tiziana Maiolo telefona al Ministero per farsi autorizzare a visitare i detenuti, questo a sua volta ordina agli aguzzini di riportarla a Pianosa… a malavoglia viene accompagnata…nota nel viso e negli occhi la paura, sono terrorizzati… alla fine l’onorevole si ferma nella mia cella e mi chiede come sto… “Male, sono bastonato minimo dalle quattro alle otto volte al giorno”, alzo la maglietta e la Maiolo rimane di ghiaccio… il comandante dice che il detenuto è malato al cervello, che gli ematomi se li è procurati da solo. La Maiolo è piena di rabbia, chiede di aprire il cancello, vuole parlare da sola con me. Il capo degli aguzzini si rifiuta categoricamente, la Maiolo urla, lo stesso fa il comandante che la vuole intimorire. Dopo un batti e ribatti il maresciallo cede… e io le racconto tutto”. Naturalmente in seguito le botte sono arrivate ancora, ma, a detta di tutti, sono molto diminuite. Rompere l’isolamento era la cosa più importante. Ma il fatto è che a nulla sono valse le interrogazioni e le denunce. L’unica voce “stonata” fu quella di un bravo giudice di sorveglianza di Livorno, Rinaldo Merani, che in una relazione denunciò i pestaggi e le torture subite dai prigionieri. Qualcuno aveva subito persino finte esecuzioni, con tanto di pistola puntata alla tempia. Erano nel frattempo cominciate ad arrivare anche le proteste di qualche familiare, compresa la famosa lettera in cui la moglie di Scarantino denunciava come il marito fosse stato costretto a fare il “pentito”. Falso, come si appurerà solo 15 anni dopo che avrà mandato in galera tanti innocenti. La difficoltà ad avere processi sulle sevizie sui pestaggi, sulle torture, non gioverà quando finalmente due detenuti otterranno alla Cedu sentenze di condanna nei confronti dell’Italia, che sarà sanzionata per non aver saputo porre fine alle violenze, ma non anche per averle messe in atto. Perché a sette-otto anni di distanza era diventato quasi impossibile riconoscere su fotocopie sbiadite dal tempo le facce degli aguzzini né esibire certificati medici inesistenti, visto che a Pianosa e Asinara i detenuti continuavano a procurarsi piccole escoriazioni scivolando sulle scale. Giustizia, mediazione sul tetto per l’appello. Se c’è l’accordo, poi la fiducia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 22 luglio 2021 Apertura al Movimento 5 Stelle sostenuta dal Partito democratico. Il governo vuole il sì alla Camera prima delle ferie. Il tempo per i processi di secondo grado verrebbe portato a tre anni fino al 2024. La riforma della giustizia penale dev’essere approvata dalla Camera prima della chiusura estiva, se possibile entro luglio. Cioè la prossima settimana. Lo ha chiesto il premier Mario Draghi e lo hanno ribadito ieri il Partito democratico e la Lega. Intanto però la scadenza per la discussione in Aula fissata per venerdì è saltata, come certificato ieri in commissione Giustizia. Tuttavia non può (non potrebbe) saltare il sì di Montecitorio prima delle ferie, e a questo punto sembra inevitabile il voto di fiducia. Ma su quale testo il governo deciderà di mettere in gioco il proprio destino? Quale può essere il nuovo compromesso sulla prescrizione in grado di superare le critiche alla proposta della Guardasigilli Marta Cartabia approvata appena due settimane fa dal Consiglio dei ministri? L’ipotesi più accreditata è di alzare il tetto per i processi d’appello (prima della dichiarazione di improcedibilità) a tre anni per tutti i reati (eventualmente a quattro per i più gravi) e a un anno e mezzo in Cassazione. Tutto questo almeno fino al 2024, quando si potranno cominciare a vedere gli effetti degli altri interventi previsti per agevolare il compito dei giudici e accelerare i tempi dei processi: dall’ingresso di nuovo personale alla digitalizzazione, alle altre norme che dovrebbero avere un effetto deflattivo sui giudizi di secondo e terzo grado. È un’apertura verso i Cinque Stelle sponsorizzata dal Pd, sulla quale Lega, Forza Italia, Azione e Italia viva potrebbero essere d’accordo. Così loro potranno continuare a dire di avere cancellato la riforma Bonafede (prescrizione abolita dopo la sentenza di primo grado e stop) mentre i grillini potranno sostenere di avere ottenuto un ulteriore miglioramento a una modifica indigesta (sebbene approvata dai propri ministri). In ogni caso - a prescindere da quale sarà il risultato - la trattativa è in corso tra Montecitorio e Palazzo Chigi; perché la partita è diventata politica più che tecnica, e dunque deve giocarsi nel luogo più accreditati per la sintesi politica. Del resto la ministra della Giustizia il suo lavoro l’ha già fatto, e certo non è contraria a fornire un nuovo contributo per altri punti d’incontro. Ma quella che per vedere la luce ha bisogno di ulteriori modifiche non è la “riforma Cartabia”, bensì la riforma del governo. Frutto, semmai, di una “mediazione Cartabia”, che ha dovuto tenere conto delle richieste e dei veti di ogni partito. Un esempio: nella proposta originaria della ministra, il conteggio dei due anni concessi per celebrare il processo di secondo grado cominciava dalla prima udienza, mentre le forze di centrodestra più Azione e renziani hanno voluto che si anticipasse la decorrenza dalla presentazione dell’atto d’appello. Ma quasi ovunque passano mesi tra quel momento e l’arrivo del fascicolo in corte d’appello; in alcune città - come Roma o Napoli - anche anni. Il che significa improcedibilità certa, come ribadito dall’Associazione magistrati. Di qui la necessità di compensare quella concessione ai “garantisti” con tempi più realistici per la celebrazione. Ancora mercoledì, alla Camera, Cartabia ha difeso le ragioni delle modifiche alla riforma Bonafede. Non per rivendicare la prescrizione dei procedimenti, che è sempre “una sconfitta dello Stato”, ma perché non si può dimenticare “il diritto costituzionale alla ragionevole durata del processo”, e l’improcedibilità è soltanto “l’estremo rimedio per la sua salvaguardia”. A chi paventa i rischi per i processi di mafia (sull’onda dell’allarme lanciato dal procuratore di Catanzaro Gratteri e dal procuratore nazionale antimafia Cafiero De Raho) la ministra ha risposto che spesso in quei casi sono previsti reati da ergastolo che restano imprescrittibili, ma i Cinque Stelle ribattono: tutti i processi per mafia, anche quelli dove non sono contestati omicidi, devono arrivare a conclusione. Sembra la rivendicazione di un ulteriore “doppio binario” per i tempi di prescrizione, che però troverebbe ostacoli nella parte destra della maggioranza. E così si torna alla mediazione, da incastrare con i tempi. Preso atto di buon grado dello slittamento (“il rinvio può essere una opportunità per migliorare la condivisione delle forze politiche”), il presidente grillino della commissione Giustizia, Mario Perantoni, chiederà un nuovo calendario al presidente della Camera Fico, e la questione di fiducia passerà dal ministro dei rapporti con il Parlamento D’Incà. Tuti espoenti dei Cinque Stelle. L’incastro delle date per rispettare la scadenza fissata da Draghi passa da loro. Cartabia (e il Pd) trattano sulla prescrizione, poi la fiducia in Aula di Giulia Merlo Il Domani, 22 luglio 2021 Dopo la fiammata dei 1.600 emendamenti depositati in commissione Giustizia, più della metà dei quali firmati dal Movimento 5 stelle, la parola torna alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia. L’iter della riforma del penale si è complicato, ma il governo non dà segni di voler arretrare né di voler prendere una pausa di riflessione, posticipando a dopo l’estate il voto alla Camera sul disegno di legge. Nell’aula di Montecitorio per il question time, la Guardasigilli ha usato toni decisi: “Il governo è consapevole di quello che fa, ed è il primo a non volere ciò che voi paventate. Ma vuole affrontare il tema della durata dei processi che è gravissimo”. Parole che sono suonate sia come l’avviso che il governo non intende arretrare, ma anche come una risposta indiretta alle critiche della magistratura, che nei giorni scorsi si è mossa in modo compatto a criticare la riforma della prescrizione, ipotizzando un’ecatombe di processi in appello. Cartabia, infatti, ha ribadito che il ddl penale comprende una serie di interventi volti alla riduzione della durata dei processi “attraverso un approccio organico che riunisce investimenti e riforme”, con l’obiettivo che la durata dei processi si riduca e la prescrizione idealmente non si verifichi più. Dalla sua, la ministra continua ad avere l’appoggio del presidente del Consiglio Mario Draghi, concentrato a rispettare i tempi concordati con l’Unione europea per il Pnrr in cui la riforma della giustizia è inserita. Politicamente, inoltre, Cartabia può contare sull’appoggio del centrodestra: Forza Italia, Azione e la Lega - anche in ottica di antagonismo con il M5s - hanno confermato che per loro il testo è da approvare così com’è, senza modifiche. Il sottinteso: eventuali cambiamenti rischiano di rimettere in discussione anche gli altri fronti aperti. Diversa è la posizione del Partito democratico, che sostiene pienamente la linea Cartabia ma non può permettersi un deragliamento verso l’opposizione del gruppo dei Cinque stelle. Per questo esponenti dem si sono posti come mediatori con i parlamentari grillini - forse non i pasionari Vittorio Ferraresi e Giulia Sarti, ma quelli legati alla componente più dialogante -, cercando di ricondurli sul piano di una dialettica di merito. La norma transitoria - Il perimetro delle possibili modifiche è stato di fatto tracciato da Cartabia con le sue parole durante il question time, nel rispetto dei criteri fissati da Draghi: modifiche chirurgiche al testo, che non ne determinino lo slittamento. Innanzitutto, si starebbe lavorando a una norma transitoria per l’entrata in vigore della nuova prescrizione, “che permette agli uffici che sono in maggiore difficoltà di attrezzarsi, di adeguarsi, di sfruttare le occasioni degli investimenti per poter essere al passo con i tempi”, ha detto la ministra. Un riferimento che poteva essere frainteso (nel testo esiste già una norma che fissa l’applicazione della nuova prescrizione a gennaio 2020), ma che sarebbe invece proprio l’indicazione di un versante su cui si sta trattando, a partire da un emendamento in tal senso del Pd. L’altra modifica possibile riguarda invece un allungamento dei tempi delle due fasi di prescrizione processuale: allungare da due a tre gli anni per il processo di appello e da un anno a 18 mesi per la Cassazione, senza più liste di reati per cui prevedere quella che veniva definita prescrizione “lunga”. In questo modo, si riflette a via Arenula, si andrebbe incontro a chi teme che i reati più gravi e complessi si prescrivano per mancanza di tempo. Queste due modifiche mirate, a cui si sommano le assunzioni di nuovo personale e l’operatività dell’ufficio del processo che dovrebbe velocizzare il lavoro dei giudici, dovrebbero essere sufficienti a placare soprattutto i timori della magistratura. Cartabia, infatti, sarebbe stata colpita dalle dichiarazioni del procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho, da cui non si aspettava un attacco così violento come l’accusa di “mettere in pericolo la democrazia”. E tutto Cartabia vuole essere tranne che colei che viene accusata dal terzo potere dello stato di far andare in fumo processi delicati. A preoccupare meno, invece, sono i quasi mille emendamenti del Cinque stelle: su quel fronte il Pd sta facendo lavoro di mediazione e Draghi è stato rassicurato dal fatto che la partita ora sia stata presa in mano da Giuseppe Conte, che nella confusione generale avrebbe già ricondotto a più miti consigli anche i più arrabbiati. Tanto che, al contrario di quanto trapelato dopo il loro incontro, la scelta di mettere la fiducia sul ddl penale sarebbe già decisione presa da palazzo Chigi. A slittare, al massimo, sarà la data del voto previsto per il 23 luglio, ma il mantra di Draghi è quello di fare presto e, dopo questa nuova apertura a correzioni e mediazioni, quello del ddl penale è finito. Giustizia, scontro rinviato. Dieci giorni per trovare un accordo di Andrea Colombo Il Manifesto, 22 luglio 2021 Riforma del processo penale. In aula alla fine della prossima settimana. La ministra Cartabia propone la norma transitoria fino al 2025 che piace al Pd ma non ai 5S. La riforma della giustizia non arriverà in aula domani. La commissione Giustizia ha dato mandato al presidente Perantoni di scrivere a Fico chiedendo di fissare una nuova data. Il testo approderà dunque alla fine della prossima settimana, anche se il giorno preciso è da definire. Si avvierà la discussione generale ma dopo l’incardinamento scatterà subito una sospensiva. La settimana cerchiata in rosso è la prima di agosto ma è lo stesso Pd a insistere perché la partita si chiuda in quella stessa settimana. “Il Pd vuole che la riforma si faccia rapidamente. Con pochissimi ritocchi può essere approvata prima della pausa estiva”, dichiara il segretario Letta aprendo un varco per consentire a Conte di rientrare in gioco uscendo dal vicolo cieco nel quale si era infilato. Ma non intende spalleggiare il promesso alleato nel tentativo di abbattere la riforma. Ci sono dieci giorni o poco più per risolvere un rebus tra i più complicati. A guardare quel che si muove sul palcoscenico, in realtà, una soluzione non sembra a portata di mano. Tra la magistratura e la ministra della Giustizia è scontro sempre più aperto. Dopo la sortita di Gratteri e de Raho, in attesa che si esprima il Csm che darà pareri diversificati, ieri è tornata all’attacco l’Anm, con un comunicato della Giunta che ribadisce le critiche già sollevate in commissione: “La soluzione messa in campo non contiene una misura acceleratoria, capace di assicurare una durata ragionevole, ma un meccanismo eliminatorio di processi”. È la linea del Piave dei togati, sulla quale convergono i 5S: l’improcedibilità va cancellata. L’Anm bersaglia anche preventivamente l’ipotesi, per ora non trasformata in norma, di affidare al Parlamento il compito di stabilire di anno in anno la su quali reati indagare per primi: “I pm debbono perseguire tutti i reati indistintamente e in egual misura”. Parole costituzionalmente sante, ma essendo impossibile tradurre in pratica il dettato l’obbligatorietà si risolve in discrezionalità delegata ai pm stessi. La guardasigilli però non arretra di un passo e nel question time alla Camera risponde, senza citarli, a Gratteri e de Raho: “Si è detto che i processi per mafia e terrorismo andranno in fumo. Non è così perché i procedimenti puniti con l’ergastolo non sono soggetti all’improcedibilità e per i reati più gravi si prevede un termine di proroga”. Risposta che non soddisfa nemmeno un po’ i 5S: “Solo una piccola parte dei processi per mafia riguarda reati da ergastolo. Invece devono arrivare tutti a conclusione”. A ritirare i quasi 4mila emendamenti, 80 reali, gli altri ostruzionistici, i 5S per ora non ci pensano proprio. La Ue, in compenso, resta in campo e spinge a favore della riforma. Da Bruxelles fanno sapere che il termine della fine di quest’anno fissato per il varo deve essere rispettato e sottolineano che il problema dell’eccessiva durata dei processi non riguarda solo la giustizia civile ma anche quella penale. Un accordo sembra dunque impossibile. La ministra mette però in campo per la prima volta un’ipotesi che somiglia come un clone a quella proposta dal Pd in uno dei suoi emendamenti: una norma transitoria valida sino a tutto il 2024. Nel triennio in questione i termini prima dell’improcedibilità sarebbero di tre invece che di due anni per l’appello e di un anno e mezzo invece che di un anno per la Cassazione. Al regime fissato dal testo Cartabia si arriverebbe solo nel 2025 e in mezzo ci sarebbe il tempo necessario per potenziare la digitalizzazione e procedere con le nuove assunzioni. Il Pd naturalmente sarebbe entusiasta di questa soluzione. I 5S molto probabilmente no. La rifiuterebbero ma a quel punto il governo metterebbe la fiducia, che comunque in un modo o nell’altro ci sarà. Se andrà così Conte non sceglierà la rottura e, pur scontando qualche defezione, il grosso dei deputati 5S lo seguirà. Certo con la promessa di riprendere la battaglia in autunno al Senato, dove però i numeri sono ancora più sfavorevoli ai 5S. I conti con la disfatta sul fronte principale Conte e il suo partito dovranno farli a quel punto. Giustizia, la tattica dilatoria di un Movimento 5 Stelle senza bussola di Massimo Franco Corriere della Sera, 22 luglio 2021 Le accuse ai ministri M5S, colpevoli agli occhi dell’ala estremista di avere votato a favore della riforma, non si fermano. Conte ammette che “alcuni toni gridati hanno consentito ad altri di schiacciare l’immagine del Movimento su un terreno forcaiolo”. Ma non si capisce se il neo leader li tema, non controllandoli, o li usi. Tre giorni dopo il colloquio tra il premier Mario Draghi e il capo virtuale del M5S, Giuseppe Conte, non si può dire che la posizione grillina sulla giustizia sia più chiara. Le accuse ai ministri del Movimento, colpevoli agli occhi dell’ala estremista di avere votato a favore della riforma, non si fermano. Conte ammette che “alcuni toni gridati hanno consentito ad altri di schiacciare l’immagine del Movimento su un terreno forcaiolo”. Allude a chi cerca di seppellire il testo della Guardasigilli, Marta Cartabia, con emendamenti e attacchi. Ma non sono pochi, e non si capisce se Conte li tema, non controllandoli, o li usi. Il presidente della commissione Antimafia, Nicola Morra, se la prende con la “schizofrenia” dei ministri Cinque Stelle. E quello della Camera, Roberto Fico, si schiera col suo Movimento. Fa sapere di “preferire la normalità” a un’eventuale fiducia; e di “auspicare un accordo”. Augurio meritorio, che deve fare i conti sia con le fiducie collezionate dagli esecutivi a guida grillina; sia con modifiche dal sapore ostruzionistico. Di rimbalzo, a Palazzo Chigi si rafforza l’idea di chiudere una diatriba strumentale e interna alle faide grilline, ricorrendo alla fiducia. Prudente, il segretario del Pd, Enrico Letta, dice che toccherà al governo decidere. E rimandando alle ricostruzioni positive del colloquio di lunedì tra il premier e Conte, Letta vede “un ultimo miglio” da percorrere. E si augura che “prima della pausa estiva” arrivi l’approvazione “con gli aggiustamenti necessari”. Ma il problema riguarda proprio la valutazione di quali lo siano. Nella maggioranza le posizioni sono agli antipodi; e sembrano tali dentro lo stesso Movimento. È questo a spiegare la confusione e l’incertezza che si scaricano sulla riforma. Rischiano di costringere Draghi a una decisione comunque frustrante per i partiti che lo sostengono; e in primo luogo per i Cinque Stelle. Si indovina la volontà di tentare un’ultima mediazione, senza però perdere settimane preziose. Prima di ricorrere alla fiducia, Palazzo Chigi vuole che sia chiaro lo sforzo di fare il possibile per evitare una contrapposizione con la forza di maggioranza relativa. Anche perché sullo sfondo emerge una filiera di magistrati che mettono in fila riserve e critiche discutibili nei confronti della riforma: una sponda che alimenta l’offensiva dei giustizialisti del M5S. Il tempo stringe, e la Commissione europea, che sta facendo arrivare i primi aiuti, vuole capire se l’Italia è in grado di dare seguito agli impegni presi. “Chi rallenta le riforme”, avverte il capo della Lega, Matteo Salvini, “non fa un torto a Draghi e Cartabia ma fa male al Paese”. E confida che il referendum suo e dei radicali contribuisca ad accelerare il “sì”. Pisapia: “È l’ultimo treno, così in Italia ci sarà una giustizia equa” di Niccolò Zancan La Stampa, 22 luglio 2021 L’avvocato ed europarlamentare per il Pd: “La magistratura bloccò leggi importanti, ora si deve andare avanti”. Avvocato Giuliano Pisapia, che sentimento le suscita questo dibattito sulla riforma della giustizia? “Sono allibito. Immaginavo delle reazioni, ma non fino a questo punto. È un argomento su cui purtroppo non si riesce a ragionare con serenità. E siccome ho già visto in passato prese di posizione da alcune parti della magistratura che hanno bloccato vere riforme complessive, come quella del ministro Flick, mi sembra di tornare indietro negli anni. Proprio adesso che abbiamo un bisogno assoluto di andare avanti”. Perché questa resistenza al cambiamento? “In passato c’è stata paura nei confronti di chi, in nome di una maggioranza e di un uso distorto del potere, faceva di tutto per bloccare le riforme. Non solo ma troppo spesso si è visto e si vede il garantismo a senso unico per se stessi, per gli amici e non per gli avversari. Ma questo è un governo che ha un ampio consenso e con personalità di altissimo livello che si impegnano per il bene comune. Forse è proprio questo che a alcuni non piace. Mi riferisco a quei pochi che anche adesso sono contro riforme urgenti e indispensabili. Ci troviamo davanti a un’occasione unica. Il testo non può essere boccato. Siamo all’adesso o mai più”. Qual è la posta in gioco? “Una giustizia celere, efficiente e garantista. Così come deve essere. Se perdiamo questa occasione, fatta con proposte serie e realizzabili, non ne avremo un’altra. Il faro è la Costituzione che parla espressamente della “ragionevole” durata dei processi”. Cosa pensa della cosiddetta “improcedibilità”, quando il processo d’appello non si dovesse chiudere in due anni? “È una riforma che ristabilisce equilibrio. Quella precedente, approvata con la maggioranza dei Cinque stelle, lo aveva devastato. Ora si torna a qualcosa di sano. Che tiene conto della realtà. Il presupposto di questa riforma, che condivido pienamente, è la possibilità di aumentare il numero dei magistrati, di rinforzare gli organici dei Tribunali e assumere tutti gli operatori del diritto necessari. La celerità è l’obiettivo principale. Bisogna evitare che i processi si prescrivono. Bisogna evitare che siano troppo lunghi”. I contrari “alla riforma Cartabia” dicono: molti processi finiranno nel nulla. Lei è preoccupato? “No, perché non si sta parlando della realtà attuale. Effettivamente alcuni tribunali oggi non ce la farebbero in tempi ragionevoli. Ma il presupposto è che finalmente arriveranno i fondi economici per una giustizia più celere e più garantista”. I detrattori citano grandi processi per mafia. Oppure la strage di Viareggio. Rischierebbero l’improcedibilità? “La riforma si applica ai casi futuri, non a quelli passati. Ed è previsto già ora, con chiarezza, che i tempi vengano allungati per i processi più complessi. Dire che i reati di mafia finiranno nel nulla è un falso. E questo, chi è magistrato lo sa perfettamente”. Gli avvocati sono descritti come procrastinatori di professione. Cosa risponde? “Da un lato c’è un po’ di ignoranza. Basta leggere il codice per sapere che un’eventuale richiesta di rinvio da parte dell’avvocato sospende i tempi del processo. Ma dall’altro c’è anche una strumentalizzazione della giustizia per finalità che nulla hanno a che vedere con la giustizia. La giustizia è equità. Risponde alla tutela delle vittime dei reati, ma deve avere tempi certi e garantire il pieno diritto di difesa. Ci riesce? “Non sempre. Sono troppi gli innocenti, dopo anni e anni di processi. Anche solo essere indagato per un innocente ha conseguenze personali gravissime. Il processo è già di per se una pena. Come finirà? “L’autorevolezza del presidente del consiglio e della Guardasigilli è qualcosa che non sempre c’è stata in passato. Ma ora c’è. Credo che nessuno possa permettersi di bloccare una riforma che è il presupposto per ottenere ingenti somme di denaro, più di 190 miliardi, quanto mai necessarie dopo la pandemia. Lo ripeto: questo è l’ultimo treno che passa”. Nicola Gratteri: “Con tanti appelli, delinquere sarà più conveniente” di Grazia Longo La Stampa, 22 luglio 2021 Il Procuratore capo di Catanzaro: “Troppi ricorsi, le Corti saranno costrette a dichiarare la improcedibilità”. Nicola Gratteri, procuratore capo di Catanzaro, perché con la nuova riforma il 50% dei processi gravi è a rischio prescrizione? “Innanzitutto perché i processi di appello e cassazione sono troppi, tanto è vero che già in questo modo il sistema non regge. Le corti di appello fissano per udienza circa 30 processi, medio-piccoli, oltre ai maxi processi che spesso richiedono udienze straordinarie. Ebbene, non essendo previsto alcun serio filtro e non essendo introdotta alcuna norma che riduca sensibilmente il numero di ricorsi, gli imputati, avendo la prospettiva di ottenere la improcedibilità, opteranno tutti per l’impugnazione. Per cui le Corti di appello, già gravate, saranno costrette a dichiarare la improcedibilità di un elevato numero di processi. Peraltro, poiché la decorrenza dei due anni coincide con la scadenza dei termini per la proposizione dell’appello e non con la ricezione degli atti dai tribunali alle corti di appello, i processi arriveranno nelle corti già morti”. Davvero, come lei ha dichiarato in commissione giustizia, sarà più conveniente delinquere? “Certamente. Seria sarà la possibilità di farla franca. Basti pensare che oggi una rapina si prescrive in 10 o 20 anni a seconda delle aggravanti. Se passa la riforma il rapinatore, processato per direttissima il giorno dopo, saprà che sfruttando la improcedibilità dopo appena 2 anni dalla commissione del reato vedrà il suo processo dichiarato improcedibile. E quindi sarà incentivato a delinquere”. Come si può ovviare al rischio di effetto tagliola sui processi? “Bisogna intervenire in maniera radicale. In primo luogo ottimizzando le risorse che ci sono: limitando il numero di magistrati fuori ruolo, accorpando uffici giudiziari in modo da migliorare l’efficienza del lavoro e potenziando le sedi veramente in difficoltà. Poi bisogna rivisitare l’impianto processuale in maniera sistematica e, in particolare, bisogna seriamente sfoltire le ipotesi di impugnazioni stabilendo condizioni rigorose per proporre appello. Basterebbe anche ampliare le ipotesi di inammissibilità degli appelli”. La riforma è stata scritta per velocizzare i processi. Sarà possibile o no? Perché? “Non verranno in alcun modo velocizzati. Sono previste alcune iniziative apprezzabili, come la semplificazione delle notifiche, ma, ripeto, se non si pone un argine alle impugnazioni, i processi non si sveltiranno in alcun modo. Tra l’altro in questo modo oltre il danno c’è anche la beffa perché, da un lato, si “investe” denaro pubblico per fare le indagini e il processo di primo grado, dall’altro, se entro il termine indicato, non si decide sulla impugnazione si cancella tutto con un colpo di spugna. Questa non è “una giustizia giusta”“. A parte i processi contro la ‘ndrangheta quali sono a rischio? “Quelli più complicati con imputati a piede libero, tra cui quelli contro la P.a. che per loro natura richiedono tempo per la loro trattazione. Ma anche processi in materia di disastri colposi, inquinamento ambientale. E a poco servono le rassicurazioni della ministra Cartabia sui processi antimafia, a noi interessa l’intero complesso”. Se aumentasse l’organico dei magistrati e del personale amministrativo le conseguenze della riforma che ritiene negative sarebbero più contenute? “Sarebbero sicuramente più contenute. Ma gli effetti si vedrebbero a lungo tempo. Infatti, già è difficile di per sé selezionare più di 300 magistrati all’anno perché la selezione non è facile. Figurarsi adesso che tra pensionamenti e diradamento dei concorsi, vi sono enormi buchi di organico. Già è difficile coprire i vuoti di organico, figurarsi ampliare il numero dei magistrati. È un’illusione”. Pm contro la Costituzione di Claudio Cerasa Il Foglio, 22 luglio 2021 C’è un dettaglio importante che sembra sfuggire nel dibattito spesso maldestro che ruota attorno al tema della riforma della giustizia. Un dettaglio forse difficile da inquadrare ma necessario da considerare per provare a capire come diavolo sia possibile che di fronte a ogni riforma che tende a riportare lo stato di diritto su un binario compatibile con lo spirito della nostra Carta costituzionale vi sia un numero considerevole di magistrati desideroso di rivolgere al legislatore di turno l’accusa specifica di essere un pericoloso nemico della Costituzione. Nel caso specifico, ad aver accusato il ministro Cartabia (ex presidente della Corte) e Giorgio Lattanzi (magistrato, capo della commissione che ha redatto la bozza di riforma della giustizia e già presidente della Corte costituzionale) di essere dei nemici della Costituzione sono stati tra gli altri il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho e il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Più che essere derisi, però, i due autorevoli magistrati andrebbero ringraziati per aver avuto il coraggio di mettere in luce ciò che spesso non si ha l’onestà di riconoscere fino in fondo quando si parla del futuro della giustizia. La questione è purtroppo evidente e si può tentare di riassumerla brutalmente così. Esiste un pezzo della magistratura italiana, non sappiamo quanto minoritaria, che da anni ha scelto di sostituire alcuni dettami della Carta costituzionale con i dettami previsti da una Carta costituzionale alternativa, immateriale, imposta nella prassi quotidiana dalla cosiddetta Repubblica delle procure a colpi di manette. I magistrati che hanno scelto di seguire questa strada pericolosa sono quelli che non si accontentano di essere i custodi del codice penale ma sono quelli che tendono a dare alla propria professione una connotazione speciale, da sacerdoti dell’etica e della morale, e sono quelli che in definitiva non si fanno grandi scrupoli a calpestare ogni giorno alcuni articoli della Costituzione. I magistrati in questione li si riconosce perché sono quelli che tendono a considerare l’articolo 27 della Costituzione - l’imputato non deve essere considerato colpevole sino alla condanna definitiva - come un accessorio negoziabile, un portachiavi dello stato di diritto. Li si riconosce perché sono gli stessi poi che di fronte all’articolo 111 della Costituzione - ogni processo si deve svolgere nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, all’interno di un percorso che garantisca alla persona accusata di un reato di essere informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico e di avere diritto a una durata ragionevole del processo - sorridono di gusto, alimentando quando possibile il mostro del circo mediatico-giudiziario, usando gli avvisi di garanzia come bignè per rendere succulente le proprie indagini e arrivando ad accusare gli avvocati di essere i responsabili dei processi infiniti (il 60 per cento delle prescrizioni matura nelle indagini preliminari). E li si riconosce poi perché sono sempre gli stessi che tendono a forzare a loro piacimento lo strumento della custodia cautelare, a trasformare le indagini in strumenti utili non a punire reati concreti ma fenomeni sociali, a utilizzare l’obbligatorietà dell’azione penale (articolo 112 della Costituzione) in un qualcosa volto non a garantire l’indipendenza del pubblico ministero ma in qualcosa volto a garantire la sua indisturbata indiscrezionalità. Bisogna dunque ringraziare tutti i magistrati che in questi giorni stanno accusando il ministro Cartabia di essere portavoce di una riforma anticostituzionale perché con il loro atto coraggioso stanno dando a noi comuni mortali la possibilità di fare i conti con un dramma della giustizia italiana: la trasformazione di alcuni pm in figure intenzionate a difendere a denti stretti la propria Costituzione alternativa e desiderose di rendere evidente quello che Re Luigi XIV aveva sintetizzato con una formula efficace: “L’état, c’est moi”. Se non ci fosse da piangere ci sarebbe da ridere. Cinque dubbi garantisti intorno ai referendum sulla giustizia di Ermes Antonucci Il Foglio, 22 luglio 2021 Più che un referendum “per una riforma vera, profonda e giusta della giustizia attesa da decenni”, come lo ha definito Matteo Salvini, quello promosso da Partito radicale e Lega sembra essere più un messaggio di incoraggiamento indirizzato alla Guardasigilli Marta Cartabia, impegnata nella scrittura dei testi di riforma del Csm, dell’ordinamento giudiziario e del processo civile e penale. I quesiti referendari promossi da radicali e leghisti (per i quali sono state raccolte le prime duecentomila firme) non sembrano infatti avere la capacità di delineare la riforma necessaria a risolvere i mali che attanagliano la giustizia italiana. In alcuni casi rischiano pure di creare problemi anziché risolverli. E ciò al di là di qualsiasi considerazione politica sull’inedita accoppiata Lega-Radicali. Ben poco “rivoluzionario”, sempre usando le parole di Salvini, appare essere il primo quesito, intitolato “riforma del Csm”. Il quesito si pone come obiettivo quello di contrastare lo strapotere delle correnti togate all’interno dell’organo di autogoverno della magistratura, superando le logiche spartitorie e consociative messe tristemente in luce dallo scandalo Palamara. Alla prova dei fatti, tuttavia, il quesito risulta a dir poco modesto. Esso infatti si limita ad abrogare l’obbligo per un magistrato di raccogliere da 25 a 50 firme per presentare la propria candidatura al Csm. Si tratta di un intervento minimale, che non incide in alcun modo sul sistema di elezione dei componenti togati del Csm, su cui le correnti esercitano la loro influenza. Come notato persino dall’ex pm Piercamillo Davigo, pensare che per raccogliere venticinque firme di presentazione occorrano le correnti è un’ingenuità. Le correnti, con il sistema elettorale attualmente in vigore, fanno sentire il loro peso nella fase successiva, cioè quando i candidati si ritrovano a dover raccogliere le migliaia di voti necessari per essere eletti. Ma il quesito referendario non interviene su questa fase (e difficilmente potrebbe, avendo natura abrogativa). Importante, ma anch’esso non rivoluzionario, risulta essere il quesito dedicato alla “separazione delle carriere dei magistrati”. Il titolo del quesito è del tutto improprio. L’intervento infatti non comporta la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici, per la quale sarebbe necessario un intervento a livello costituzionale, ma determina piuttosto una separazione delle funzioni giudicanti e requirenti, cancellando le già limitate possibilità di passare da una funzione all’altra durante la carriera. Il quesito interviene quindi solo su un piccolo aspetto del problema relativo alla contiguità tra pubblici ministeri e giudici, i quali continuerebbero comunque a essere reclutati attraverso il medesimo concorso, a rispondere al medesimo Csm e a seguire la medesima scuola di formazione. Parlare di “separazione delle carriere” quindi, per quanto faccia più presa sull’indignazione dei cittadini, è fuorviante. Il quesito, lunghissimo e complesso, rischia di non essere considerato ammissibile dalla Corte costituzionale per la sua eterogeneità. Il quesito sull’equa valutazione dei magistrati mira, in maniera positiva, a rendere più attendibili le valutazioni di professionalità delle toghe svolte dai consigli giudiziari, riconoscendo anche alla componente laica (avvocati e professori) il diritto di partecipare alle discussioni e alle votazioni riguardanti le valutazioni professionali. I tre restanti quesiti referendari, invece, rischiano di creare alcuni problemi. Il quesito sulla responsabilità civile dei magistrati punta a consentire al cittadino di agire direttamente contro la toga per i danni subiti dall’esercizio della giurisdizione, superando il sistema previsto attualmente che consente di agire indirettamente contro lo Stato, che poi si rivale sul magistrato. La questione è antica, così come la soluzione prospettata dai radicali: visto lo scarso numero di toghe condannate per aver provocato (con dolo o colpa grave, o in conseguenza di diniego di giustizia) danni ingiusti ai cittadini nell’esercizio dell’attività giudiziaria, si propone che sia il magistrato a essere chiamato in giudizio e a risarcire direttamente il cittadino. In realtà, anche in caso di azione diretta contro il magistrato occorrerà sempre verificare la sussistenza di condotte dolose o gravemente colpose da parte della toga. Bisogna anche ricordare che tutti gli ordinamenti europei, ad eccezione della Spagna, escludono forme di responsabilità diretta delle toghe. Resta inevaso il vero tema di fondo: intervenire affinché agli errori compiuti dai magistrati facciano seguito conseguenze effettive sul piano disciplinare e dell’avanzamento di carriera. Il quinto quesito mira a limitare l’abuso delle misure cautelari (carcerazione preventiva, arresti domiciliari, divieto di dimora ecc.), prevedendo la possibilità di procedere alla privazione della libertà per il rischio di “reiterazione del medesimo reato” solo per i delitti di criminalità organizzata, di eversione o per i reati commessi con uso di armi o altri mezzi di violenza personale. L’intento è nobile, soprattutto se si considera l’alto numero di cittadini incarcerati e privati della libertà prima del giudizio, e poi spesso prosciolti dalle accuse. L’intervento prospettato dal quesito referendario, tuttavia, come sottolineato dal Centro Studi Livatino, rischia di rendere le misure cautelari inapplicabili per una serie di delitti particolarmente sentiti a livello sociali (come rapina o estorsione, se poste in essere senza armi e senza mezzi di violenza personale, ma per esempio ricorrendo alla minaccia). Per questi reati l’arresto in flagranza sarebbe immediatamente seguito dalla remissione in libertà dell’arrestato, se l’unica esigenza cautelare ipotizzabile nei confronti di quest’ultimo fosse il rischio di reiterazione del reato. Il sesto e ultimo quesito implica l’abrogazione della cosiddetta legge Severino (d. lgs. 235/2012), che disciplina i casi di incandidabilità, sospensione e decadenza dei politici dalle cariche elettive. L’obiettivo dichiarato è quello di abrogare le norme che prevedono la sospensione degli amministratori locali a seguito di condanne non definitive per gravi reati (come associazione mafiosa o reati contro la pubblica amministrazione). Queste disposizioni in passato hanno portato in diversi casi alla sospensione di amministratori locali, come presidenti di regione e sindaci di grandi città, in virtù di condanne soltanto di primo grado, poi annullate nei successivi gradi di giudizio, quando ormai il danno, dal punto di vista del funzionamento delle istituzioni democratiche, era stato compiuto. Il problema è che il quesito referendario non prevede l’abrogazione soltanto di queste norme, ma dell’intera legge, anche nella parte in cui - per esempio - prevede l’incandidabilità alle elezioni per coloro che hanno riportato condanne definitive per gravi reati. L’intervento, così, rischia di rivelarsi un boomerang. Per Salvini è “legittima difesa”. L’uccisione di Youns El Bossettaoui diventa un caso di Giuliano Santoro Il Manifesto, 22 luglio 2021 Il drammaturgo russo Anton Cechov diceva che se in un romanzo compare una pistola, prima o poi bisogna che spari. I fatti di Voghera ci ricordano che a furia di lanciare allarmi, invocare sceriffi, giocare con le parole, le parole diventano fatti. Che rischiano persino di apparire tragicamente normali. Dunque, in un paese in cui da anni i temi della sicurezza, compresa la recente evoluzione della difesa del “decoro urbano”, sono al centro dello scontro tra partiti e di campagne elettorali è inevitabile che l’uccisione di Youns El Bossettaoui da parte dell’assessore alla sicurezza leghista Massimo Adriatici diventi da subito oggetto di dibattito politico. Il primo a prendere di petto la questione è Matteo Salvini. Nel mezzo di una giornata che lo vedrà impegnato anche a propagandare i referendum radicali sulla “giustizia giusta”, il segretario leghista non solo ignora ogni forma di imbarazzo di fronte alla morte di un uomo: tenta anche di ribaltare la situazione a suo favore. Così, diffonde una dichiarazione in difesa di Adriatici che ricorda piuttosto la giustizia fai-da-te. “La vittima aveva aggredito colui che si è difeso - dice Salvini - Lascio poi che siano carabinieri e giudici a decidere, ma molto probabilmente quello che è accaduto è stato un drammatico episodio di legittima difesa”. Nella foga di lucrare politicamente sul fattaccio, peraltro, Salvini sembra smentire quella che arriva dall’assessore pistolero, secondo il quale il colpo sarebbe partito per sbaglio dopo che la vittima lo avrebbe spinto. Da Cgil Pavia e Cgil Lombardia dicono che El Bossettaoui era afflitto da problematiche di disagio ma che non era un tipo violento. Il sindacato, dunque, “esprime forte preoccupazione per il pericoloso clima venutosi a creare, anche alimentato da una continua propaganda a favore della giustizia ‘fai da te’, da parte di alcune parti politiche. La stessa propaganda che vorrebbe legittimare che in un martedi? sera qualunque ci si possa recare ad un bar del centro armati”. Da ministro dell’interno, Salvini aveva spinto per approvare la nuova disciplina che estende la fattispecie della legittima difesa in caso di violazione di domicilio privato. Adesso si spinge oltre, arriva a teorizzare una specie di diritto alla giustizia personale che si estende fino allo spazio pubblico. Glielo fa notare la deputata Pd Laura Boldrini: “Mi chiedo come mai un assessore giri armato - dice Boldrini - E soprattutto: sarebbe finita così se non avesse avuto una pistola?”. Si uniscono alla condanna anche gli ex alleati del M5S, che quella legge sulla riforma della legittima difesa votarono con Salvini. “Davvero per la Lega la risposta alla criminalità - chiede il presidente della commissione affari costituzionali della Camera Giuseppe Brescia - Può essere quella di mettere una pistola nella tasca di ogni cittadino per farsi giustizia da sé? Io la ritengo un’involuzione disumana. E se fosse stato l’uomo di origine straniera a sparare? Sappiamo bene quale sarebbe stato il garantismo salviniano”. “A questo porta parlare di ‘difesa sempre legittima’ - sono le parole di Nicola Fratoianni di Sinistra italiana - A questo porta sdoganare l’odio e la violenza, verbale e fisica. A questo rischia di portare avere sempre più armi in mano ai cittadini. Io non voglio vivere in un paese del genere”. E il segretario del Pd Enrico Letta affida la sua posizione ad un tweet: “Oggi a Voghera un uomo è morto, per colpa di una pistola. È un giorno triste. Saranno inquirenti e autorità giudiziarie a decidere. Nessuno si sostituisca a loro. Ma una cosa dobbiamo e possiamo farla: Stop armi private. In giro con le armi solo poliziotti e carabinieri”. Il sindaco di Milano Beppe Sala, dal canto suo, si dice “sorpreso dall’atteggiamento quasi distaccato del sindaco di Voghera, della giunta, dei componenti di centrodestra”. Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista, assieme al responsabile giustizia del suo partito Gianluca Schiavon tira un filo che dalla provincia lombarda arriva fino all’anniversario del G8 genovese. “L’assassinio di Voghera mostra per l’ennesima volta il grado di pericolosità della demagogia leghista che non a caso attira personaggi violenti e pericolosi - affermano - Solo per citare un caso: Traini, l’autore della tentata strage di Macerata, era un sostenitore di Salvini. È anche inquietante che un assessore che gira di sera con la pistola con la sicura tolta e il colpo in canna come nel far west sia anche docente di corsi per la polizia. È emblematico che questo omicidio coincida col ventennale di Genova 2001”. La difesa non è sempre legittima di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 22 luglio 2021 Rispetto ai fatti di Voghera, non intendo contravvenire alla norma di buon senso che invita tutti i protagonisti del dibattito pubblico a non commentare i fatti di cronaca nera nell’immediatezza dell’accaduto. Norma che risponde a una triplice esigenza: assicurare serenità agli investigatori nella ricostruzione degli eventi senza condizionarli con tesi pregiudiziali o comunque senza tirarli per la giacca; garantire pieno rispetto alle vittime e ai loro parenti evitando ogni insopportabile strumentalizzazione del loro dolore. Inoltre: tutelare i diritti delle persone sospettate o indagate nel nome della presunzione di non colpevolezza. In apertura mi permetto dunque di notare come, purtroppo, ancora una volta personalità con incarichi politici si sono profuse in commenti che presuppongono delle verità. La verità processuale si conquista lentamente, con fatica, con il rispetto delle garanzie degli imputati, affidandosi a un complesso apparato probatorio. Ogni difesa d’ufficio è inappropriata e irriguardosa della norma predetta, così come lo sarebbe stata una tesi colpevolista indimostrata. Se questa è la premessa, cambio piano e mi permetto di fare qualche osservazione a margine del fatto di cronaca. In primo luogo meglio sarebbe stato se mai avessimo modificato, assecondando pulsioni populistiche, le norme penali sulla legittima difesa. Il refrain che la difesa è sempre legittima non tiene conto del principio, costituzionalmente avallato, secondo cui mai può valere quale causa di giustificazione per proteggere un bene di rilievo inferiore. Per chiarirci non si può mai privare una persona della vita per evitare la sottrazione di un bene di proprietà. Non c’è formulazione legislativa che possa mai legittimare la negazione del principio di proporzionalità, che a sua volta è strettamente connesso con quello di legalità penale in senso stretto. L’enfasi intorno alla legittima difesa ha prodotto quale risultato la rincorsa di commercianti e altri privati cittadini a dotarsi di armi. Come l’esempio degli Stati Uniti ci insegna, meno armi ci sono in giro, meno omicidi e meno morti ci saranno. Buon sarebbe se dalle istituzioni pubbliche arrivasse un messaggio di serenità. Non deve esserci spazio nelle nostre città e nella nostra democrazia per la vendetta privata. Ogni pistola in meno nel mercato è un tassello per la sicurezza pubblica. Infine, la sicurezza. Essa non deve essere terreno di interesse per Comuni e Regioni. Da Rudolph Giuliani in giù, giunte di destra - come quella di Voghera - e giunte democratiche hanno previsto assessorati per la sicurezza. Meglio sarebbe tornare indietro agli anni 70 e 80 del secolo scorso, quando le amministrazioni locali avevano assessorati alla sicurezza sociale. Le polizie locali devono tornare a essere garanti della mobilità. I sindaci devono fare solo i sindaci, senza ambire a trasformarsi in poliziotti. La sicurezza si garantisce dando lavoro, reddito, protezione alle categorie più vulnerabili, servizi di prima necessità. Trasformando le città in luoghi belli e intensamente vissuti. La sicurezza è cosa seria. Non va lasciata nelle mani di manipolatori del consenso. *Presidente di Antigone La gogna è contro la Costituzione di Claudio Cerasa Il Foglio, 22 luglio 2021 Con una recente sentenza (n. 150), la Corte costituzionale ha stabilito che le norme vigenti che obbligano il giudice a punire con il carcere il reato di diffamazione a mezzo della stampa o della radiotelevisione, aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato, sono incostituzionali perché contrastano con la libertà di manifestazione del pensiero, riconosciuta tanto dalla Costituzione italiana quanto dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Per i giudici costituzionali, infatti, la minaccia dell’obbligatoria applicazione del carcere “può produrre l’effetto di dissuadere i giornalisti dall’esercizio della loro cruciale funzione di controllo dell’operato dei pubblici poteri”. C’è un passaggio, però, della sentenza che è stato completamente ignorato dagli organi di informazione, sempre pronti a denunciare il rischio di “bavaglio” ogni qualvolta qualcuno tenti di porre un freno alla pratica dello sputtanamento mediatico. È il passaggio in cui la Consulta afferma che non è di per sé incompatibile con la Costituzione che il giudice applichi la pena del carcere a chi, ad esempio, si sia reso responsabile di “campagne di disinformazione condotte attraverso la stampa, internet o i social media, caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della - oggettiva e dimostrabile - falsità degli addebiti stessi”. Il passaggio è significativo non tanto per il riferimento alla non intrinseca illegittimità della detenzione in carcere, che si spera non colpisca nessun giornalista, quanto per il richiamo dei giudici costituzionali: “Chi ponga in essere simili condotte - eserciti o meno la professione giornalistica - certo non svolge la funzione di ‘cane da guardia’ della democrazia, che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità ‘scomode’; ma, all’opposto, crea un pericolo per la democrazia”. Insomma, una cosa è la libertà di stampa, un’altra è la macchina del fango. Per quest’ultima il bavaglio sarebbe auspicabile. Liguria. Garante per i detenuti, appello alla Regione a fare presto di Erica Manna La Repubblica, 22 luglio 2021 Le associazioni del terzo settore che operano in ambito carcerario hanno indicato il nome di Stefano Padovano, la Regione non ha ancora provveduto. Hanno indicato il suo nome in una lettera inviata al presidente della Regione Giovanni Toti e al consiglio regionale, i professionisti del terzo settore che operano in ambito carcerario: chiedendo che sia il professor Stefano Padovano - criminologo, docente, formatore, esperto in disagio psichiatrico e dipendenze - a essere nominato Garante regionale dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Un endorsement ufficiale, dunque: che è anche un appello a fare presto, a dare un volto a una figura che esiste: istituita dall’assemblea legislativa della Liguria, il 29 marzo. Eppure, rimane ancora una casella vuota: un’assenza che vede la Liguria maglia nera in Italia insieme alla Basilicata, questione sulla quale ha puntato il dito il garante nazionale Mauro Palma in occasione dell’incontro con Ilaria Cucchi dedicato a chiedere verità sul caso di Emanuel Scalabrin, organizzato da Antigone, Comunità di San Benedetto al Porto e Magistratura democratica, a vent’anni dal G8 di Genova. La Rete tematica Carcere, attiva dal 2010 e facilitata dal Centro di Servizio al Volontariato (Celivo), gruppo che dal 2019 è composto da associazioni che operano nel campo della solidarietà, ha più volte snocciolato le urgenze da affrontare nella nostra regione: il sovraffollamento delle carceri liguri ormai endemico, sommato al Covid. Gli ambienti dove vengono svolte attività trattamentali, poco idonei e insalubri; la presenza in carcere di cittadini che non possono accedere alle misure alternative alla detenzione esclusivamente a causa della mancanza di domicilio o di mezzi di sostentamento, e poi la carenza di strutture ad hoc per persone con gravi problemi mentali. Materie incandescenti: che dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere rendono ancora più urgente l’istituzione di una figura specifica. “Ringrazio il terzo settore per avermi indicato - sottolinea Stefano Padovano - la ricorrenza dei fatti del G8 ha riportato alla cronaca le questioni che riguardano le garanzie costituzionali a tutela di ogni persona detenuta, fermata, arrestata, soggetta a trattamento sanitario obbligatorio o comunque sottoposta a un provvedimento restrittivo della propria libertà. Peccato che un tema così delicato abbia dovuto essere rilanciato in un convivio nel quale si è dibattuto del mancato rispetto delle più elementari norme civili e legislative come accertato negli anni dagli organi deputati. Sarebbe stato meglio giungere a questa scadenza con un garante fresco di nomina, quanto meno per non farsi ripetere che Liguria e Basilicata sono le due sole regioni a non essersene ancora dotate”. La nomina, continua il criminologo, è politica: e i nodi che il garante dovrà affrontare saranno molteplici. “Non ci si può limitare al discorso del sovraffollamento, che deve essere un punto di partenza - spiega - come è previsto dalla legge, è importante mettere in atto un lavoro di coordinamento di rete tra dentro e fuori dal carcere. E poi, il diritto alla salute e all’istruzione all’interno del carcere, il rispetto dei diritti fondamentali. Infine, la Regione Liguria è la seconda istituzione in Italia ad avere previsto una figura di garanzia per le vittime di reato: non appena nomineranno anche quest’ultima sarà importante ingaggiare una collaborazione nell’esercizio delle due competenze, perché entrambe costituiscono le due facce della stessa medaglia”. Torino. Violenza nel carcere, 25 richieste di rinvio a giudizio. Contestato il reato di tortura di Federica Cravero La Repubblica, 22 luglio 2021 Vessazioni continue, insulti, atteggiamenti umilianti: non erano episodi singoli secondo la procura di Torino quelli messi in atto nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino, ma un sistema di violenze fisiche e psicologiche tale da confermare la pesante accusa di torture, reato mai contestato prima per le violenze all’interno del carcere. Lo ha ribadito il pm Francesco Pelosi, che ha chiesto 25 rinvii a giudizio, già vistati dal procuratore aggiunto Enrica Gabetta, nel procedimento che riguarda episodi di violenza commessi a partire dal 2017 da agenti di polizia penitenziaria ai danni di detenuti nel carcere del quartiere Vallette. All’udienza preliminare, che deve ancora essere fissata, si presenteranno il direttore della casa circondariale di allora, Domenico Minervini, accusato di aver ignorato le segnalazioni ricevute, lasciando che gli agenti continuassero nelle loro pratiche, il capo delle guardie Giovanni Battista Alberotanza, rappresentanti del sindacato Osapp, e diversi agenti della Polizia penitenziaria che erano in servizio nel padiglione C in cui venivano reclusi principalmente sex offender ma anche detenuti con problemi psichici. Malmenati dalle guardie e costretti a dire di essere stati picchiati da detenuti, insultati, obbligati a leggere i passaggi più compromettenti e imbarazzanti degli atti giudiziari che li avevano fatti finire in carcere. Sono tanti gli episodi contestati dalla procura. L’impianto accusatorio ricalca quello contenuto nell’atto di chiusura indagini che era stato notificato agli indagati. Nel frattempo nuove prove sono state acquisite a riscontro delle denunce che erano presentate alla magistratura da alcuni reclusi e dalla garante dei detenuti di Torino Monica Gallo, mentre al contrario scarsi elementi a difesa sono stati raccolti dal momento che pochi indagati hanno accettato di farsi interrogare per chiarire la loro posizione. Undici i detenuti che sono stati riconosciuti come parti offese, oltre all’associazione Antigone e l’associazione per la Lotta contro le malattie mentali. Napoli. Alta tensione al carcere di Secondigliano: “Viviamo in condizioni disumane” di Luigi Nicolosi Il Roma, 22 luglio 2021 Suppellettili fatiscenti e servizi non pervenuti, è di nuovo alta tensione nel carcere di Secondigliano. I detenuti nel reparto “Tirreno” S4, tramite una lettera inviata alla redazione del “Roma”, denunciano le gravi carenze strutturali con cui devono fare i conti ogni giorno e annunciano di essere pronti a intraprendere una protesta pacifica per riuscire a far sentire la propria voce. Nelle quattro pagine della missiva, firmata da 25 detenuti all’alta sicurezza, vengono dunque messe nero su bianco innumerevoli problematiche che riguardano la casa di reclusione di Napoli: “Viviamo - mettono subito in chiaro - in condizioni disumane. Siamo due persone in ogni cella da 3,90 metri per 3 metri, con all’interno una sola finestra e il bagno senza finestra. Il tavolo e gli sgabelli sono rotti”. Questa, stando a quanto riferito, sarebbe però soltanto la punta dell’iceberg: “Non c’è spazio - aggiungono - per stare in piedi e abbiamo difficoltà a dormire, soprattutto di notte. I materassi sono di spugna, usurati, ammuffiti, sporchi e con all’interno micro animaletti. Inoltre sono scaduti, datati 2016-2018. Abbiamo ancora oggi televisori vecchissimi di oltre vent’anni, che con il tempo danneggiano la vista. Più di una volta abbiamo chiesto che venissero cambiati con quelli nuovi, moderni, già presenti nel reparto S2 e al-cune sezioni del reparto S4”. La richiesta, almeno fin qui, sarebbe però caduta nel vuoto. All’interno della missiva i 25 detenuti per reati associativi enunciano però anche altre disfunzioni: “Siamo in regime detentivo chiusi con quattro ore di passeggio al giorno che si riducono a tre ore, dal momento che una sola guardia per aprire le celle impiega dieci minuti. Poi ci sono le salette per usufruire della socialità, dove c’è solo una finestra con le reti, la quale impedisce all’aria di entrare, un paio di tavoli, sedie e un biliardino. Non c’è il bagno, quindi bisogna chiamare la guardia. A volte si creano dunque delle tensioni per un tuo diritto, come bere o andare in bagno. Abbiamo poi fatto richiesta di palloni per svagarci al passeggio, cosa che avviene senza difficoltà in altri istituti italiani, dal momento che lo prevede l’ordinamento penitenziario, ma qui è un miraggio. I palloni arrivano solo tramite i volontari e le loro associazioni, anche il prete in passato si è adoperato ma in questo reparto scompaiono”. Altre doglianze riguardano invece gli aspetti igienico-sanitari: “C’è il locale docce, vecchie, antigieniche e senza sifone, tanto che abbiamo adattato delle bottiglie di plastica al posto dei sifoni. In piena estate ci permettono di fare una sola doccia al giorno. Nell’infermeria del reparto “Tirreno” attualmente il medico non c’è, viene un sostituto ma non sempre è presente. Se ti capita di stare male devono portarti nell’infermeria centrale. Se sei grave devi affidarti al Signore per non morire. Chiediamo a gran voce alle istituzioni di essere ascoltati e chiediamo di verificare le condizioni disumane e il disagio in cui viviamo. Qui vengono violati tutti i nostri diritti e viene trasgredita la Costituzione italiana”. Il rischio di una nuova stagione di protesta a Secondigliano sembra essere dietro l’angolo. Bologna. Un asilo nel carcere, ma la scelta fa discutere di Chiara Pazzaglia Avvenire, 22 luglio 2021 L’apertura di un nido è stata criticata dalle associazioni: “Il penitenziario è fonte di abbruttimento per gli adulti, figuriamoci per i bambini”. Le loro prime parole sono “apri”, “fuori” e “agente”, invece di “papà”: pagano colpe non proprie e si portano dietro questo fardello per tutta la vita. Sono i piccoli detenuti incolpevoli delle carceri italiane, bambini sotto i sei anni che seguono le madri nella reclusione. “Sebbene il principio di non separarli mai dalle mamme sia corretto, non lo è privarli della loro libertà e della loro infanzia” è l’opinione dell’avvocatessa Silvia Furfaro, presidente dell’associazione “L’Altro Diritto”, che opera in Toscana e a Bologna da 15 anni, con più di 60 volontari, per offrire supporto legale ai detenuti e alle detenute. La notizia dell’apertura di una sezione “nido” nella Casa Circondariale Rocco D’Amato, ramo femminile della Dozza, è duramente criticata dall’associazione. A partire dal nome: “un carcere è tutt’altro che un nido” osserva Furfaro. Al momento dell’inaugurazione non c’era nessun bambino da inserire in questi spazi: tutte le mamme, infatti, erano uscite. “Il carcere è fonte di abbruttimento sociale per gli adulti, figuriamoci per i bambini” osserva Furfaro, che spiega anche la situazione normativa: la presenza dei bambini in carcere è regolata dalla legge 62 del 2011. Lo scopo del legislatore era quello di privilegiare gli arresti domiciliari e la creazione di case famiglia protette. Questa risoluzione aveva colto il favore anche di diverse associazioni, ma nella realtà l’applicazione è stata limitatissima: i costi sono elevati e, finora, sono pochissime le case famiglia con i requisiti di sicurezza per accogliere le detenute e i loro figli. Ora, sono stati stanziati 4,5 milioni di euro con un patto triennale che dovrebbe contribuire alla creazione di strutture idonee: “anche i fondi usati per questo cosiddetto “nido” bolognese avrebbero potuto essere investiti meglio” afferma l’avvocatessa. Questa apertura ha incontrato la perplessità anche di Antonio Ianniello, Garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna. Al pari di Furfaro, Ianniello si è detto preoccupato della vicinanza dei locali al reparto psichiatrico, da cui, giorno e notte, escono grida e lamenti. A suo avviso, però, la scelta dell’amministrazione penitenziaria “potrebbe anche avere una chiave di lettura pragmatica”. Infatti, fino a oggi non c’è stata separazione effettiva dei minori dalla restante popolazione detenuta. “Le madri con figli vengono collocate all’interno delle ordinarie sezioni detentive, in camere di pernottamento tradizionali, nelle quali è previsto l’allestimento del lettino per i bambini” ricorda Ianniello. In questo senso, continua il garante, “l’accoglienza che il nido potrà fornire al bambino sarà migliorativa, almeno per quanto riguarda il profilo degli spazi dedicati”, ma allo stesso tempo auspica che l’attivazione delle case famiglia protette, che è considerata la migliore soluzione, “trovi l’impulso degli enti territoriali, potendo il ministro della Giustizia stipulare con loro convenzioni per individuare le strutture da utilizzare”. Messina. Avvocati e magistrati al carcere di Gazzi: “Sistema virtuoso, unico nodo la sanità” di Letizia Barbera Gazzetta del Sud, 22 luglio 2021 È durata circa due ore la visita congiunta di avvocati della Camera Penale e dei magistrati dell’Anm nel carcere di Gazzi per prendere atto della corretta gestione e rassicurare sul rispetto delle regole e della dignità umana dei detenuti. “Complessivamente siamo molto soddisfatti da questa visita” ha detto l’avvocato Bonni Candido, presidente della Camera Penale “Pisani” al termine della visita. Il legale ha incontrato i detenuti insieme all’avvocato Alfonso Polto, vicepresidente, all’avvocato Domenico Andrè, responsabile osservatorio carceri per Messina, al presidente del Tribunale di sorveglianza Francesca Arrigo, al presidente della sezione di Messina dell’Anm Laura Romeo e al sostituto procuratore Anita Siliotti, componente dell’Anm. Ad accompagnarli durante la visita la direttrice del carcere di Gazzi Angela Sciavicco. “Abbiamo sentito il dovere - ha aggiunto - di venire a renderci conto della situazione, abbiamo trovato una gestione virtuosa della struttura sia da parte della direttrice che della polizia penitenziaria. Tutti i detenuti con cui siamo venuti in contatto hanno tessuto le lodi di polizia penitenziaria e della direttrice. Da questo punto di vista abbiamo toccato con mano che qui non ci sono problemi come quelli che si sono verificati nel carcere Santa Maria Capua Vetere. Messina ha comunque dei problemi strutturali soprattutto per quanto riguarda la sanità che non è più gestita all’interno ma all’esterno ma sono problemi di carattere generale che vanno attenzionati”. Infine ha assicurato che sarà mantenuto un costante contatto con il carcere per essere sempre pronti a portare il proprio contributo in caso di criticità. Varese. Il karaoke in carcere, una terapia che fa bene alla mente dei detenuti varesenews.it, 22 luglio 2021 Una cinquantina di detenuti si sono messi in gioco cantando, chi bene e chi male, grazie ad un’idea dello psicologo Giuseppe Amoruso. La direttrice Santandrea entusiasta. Il karaoke entra in carcere come terapia per i detenuti ed è subito un successo, tra ugole d’oro e stonature. Ieri, mercoledì 21 luglio, la Direttrice della Casa Circondariale di Varese, Carla Santandrea, e il responsabile dell’Area pedagogica, Domenico Grieco, in collaborazione con l’Area Sanitaria della struttura per favorire ed incrementare le attività interne nella stagione estiva ha accolto la proposta dello psicologo dell’ASST Giuseppe Amoruso (che si diletta nel karaoke e nel piano bar) di effettuare insieme a due professionisti della comunità esterna, Carlo Campi (in arte “Karaoke dj music INCAS”), e Paola Bertero, un karaoke in favore dei detenuti dell’Istituto. L’iniziativa musicale ricreativa, svoltasi in 2 sessioni per evitare assembramenti, è stata apprezzata moltissimo dai ristretti (hanno partecipato in totale quasi 50 detenuti) che hanno cantato (alcuni bravissimi) e si sono “messi in gioco”, in alcuni casi anche stonando, ma comunque partecipando attivamente all’evento. Si ringrazia, altresì, in particolare il responsabile sanitario Domenico Capaccioni che ha offerto gli alimenti per cucinare una pizza (stesa e preparata benissimo dai detenuti) offerta a tutti i partecipanti, al termine di ogni sessione di karaoke, Sergio Incerrano, che ha cantato mostrando una gran voce, e tutto il personale di Polizia Penitenziaria oggi in servizio. Massa Carrara. “Le mie prigioni”, in un libro il carcere visto da dentro di Gabriele Ratti La Nazione, 22 luglio 2021 Le “mie” prigioni. È questo il titolo del libro che verrà presentato oggi giovedì 22 alle 18.00 presso il Bagno Myricae di Poveromo, una raccolta di racconti sulle esperienze vissute dall’autrice Alessandra Brenzini all’interno della casa di reclusione di Massa, dove lavora come docente con il Cpia (centro provinciale istruzione adulti). Il libro, edito da Aletti Editore già nel 2019 ma mai presentato a causa dello scoppio della pandemia, verrà spiegato e raccontato dall’autrice stessa negli spazi dello stabilimento balneare Myricae, dove sarà possibile anche gustare qualcosa per accompagnare la presentazione, che sarà ad ingresso libero. “Questo testo nasce dalla mia esperienza di insegnate in carcere -commenta Alessandra Brenzini- che ho iniziato a mettere nero su bianco sotto la spinta di mia figlia, affascinata dalle storie che raccontavo in casa su ciò che succedeva nella scuola, un ambiente assai particolare.” Lo scopo di -Le “mie” prigioni- (non a caso il titolo ispirato all’opera di Pellico) è quello di raccontare la vita di chi vive il carcere a coloro che la giudicano fuori: “le persone in detenzione quando si trovano di fronte ad un banco diventano alunni al 100%: c’è chi ha paura dell’esame, chi della geografia, chi della matematica, e quando arriva il giorno dell’esame si trasformano in persone diverse con vestiti perfetti e stirati, barba ed acconciatura fatta, subiscono una metamorfosi” racconta l’autrice. “Loro sono esseri umani nonostante ciò che possono aver fatto, poiché “l’uomo non è il suo errore”, massima secondo cui noi viviamo in carcere -chiosa infine Alessandra Brenzinzi- chiunque può finire dentro per migliaia di motivi a lui esterni; lì dentro infatti ci sono persone umane, altri noi stessi che non hanno potuto sfruttate le nostre stesse possibilità.” Il virus e la vera libertà di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 22 luglio 2021 Sui vaccini, la politica sia responsabile, almeno adesso che quasi tutti i partiti sono nella maggioranza. Si rinunci a vellicare gli incerti; semmai li si convinca a vaccinarsi, o almeno lì si incentivi. Destra e sinistra non c’entrano nulla. La discussione sul vaccino è viziata da un grande equivoco. Il confronto non è tra chi difende la libertà e chi la nega. Il confronto è tra chi vuol essere - o si illude di poter essere - libero qui e ora, e chi vuol essere libero in modo duraturo; senza ritrovarsi a fine estate (se non prima) in questo frustrante giorno della marmotta, senza dover ricominciare da capo con i bollettini delle terapie intensive e i decreti di chiusura. Dovrebbe essere chiaro che la scelta giusta è la seconda. Nessun Paese democratico ha imposto l’obbligo di vaccino, se non (com’era inevitabile) agli operatori sanitari. Quasi tutti i Paesi democratici, però, hanno deciso di incentivare le vaccinazioni. Il diritto al lavoro è inviolabile; quindi è impossibile legare l’ingresso sul posto di lavoro al green pass. Ci sono però lavori che si svolgono a contatto con il pubblico. Un conto è difendere la libertà di non vaccinarsi; un altro è attentare alla libertà di lavorare - o usufruire di un servizio - senza venire in contatto con una persona che ha deliberatamente scelto di non vaccinarsi. Distinguere tra le generazioni, per arrivare a sentenziare che i giovani possono anche non immunizzarsi perché tanto non muoiono, significa non aver capito come si muove questa pandemia. Il virus resiste e muta proprio perché non è molto letale, ma è molto contagioso. L’unico modo per bloccarne o limitarne la circolazione e la mutazione è vaccinarsi tutti, o quasi tutti. Qualsiasi dato scientifico ed empirico è lì a dimostrarlo. Purtroppo non ci sono altre possibilità, se vogliamo riaprire le scuole in sicurezza, consolidare la ripresa economica, recuperare la socialità, i rapporti tra le persone, il clima di scambio e di incontro che resta di gran lunga il modo migliore di lavorare e di vivere. L’alternativa è un altro anno a singhiozzo. È richiudere le scuole e tornare alla didattica a distanza, i cui limiti erano già ben chiari a insegnanti, allievi e famiglie prima ancora che venissero certificati dalle prove Invalsi. È ripiombare nell’incertezza e nella paura sui luoghi di lavoro (perché ci sono lavori che da casa non si possono fare, o che non riescono allo stesso modo). È abituarsi definitivamente alla vita virtuale e impaurita di questi diciotto mesi: le riunioni a distanza, gli impegni cancellati all’ultimo momento, le vagonate di autocertificazioni inutili, i talk-show con i virologi catastrofisti, le gomitate di saluto, e tutte le altre cose di cui non vediamo l’ora di fare a meno. Gli studenti poveri culturalmente spaventano più del virus di Cristina Dell’Acqua Corriere della Sera, 22 luglio 2021 I ragazzi che si diplomano senza preparazione in parte si disperderanno e in parte diventeranno politici e professionisti che dovranno fare scelte ponderate. Quando il poeta greco Esiodo, vissuto intorno al 700 a.C., compose Le Opere e i Giorni, il suo poema era rivolto al fratello Perse. I due fratelli si erano scontrati per questioni di eredità e, a quanto leggiamo, Esiodo è stata la parte lesa grazie anche alla complicità di giudici corrotti. Come avviene per ogni grande poeta, le vicende personali assumono il respiro di riflessioni più ampie e senza tempo sul valore della giustizia, della responsabilità e di un lavoro onesto e basato su meriti e capacità individuali. In sintesi un’etica del lavoro. L’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione ha presentato una fotografia del primo studio sistematico sul periodo di Didattica a Distanza, la famigerata Dad, che ha caratterizzato l’ultimo anno e mezzo. Le prove hanno coinvolto più di due milioni di studenti e i risultati sono impietosi: i nostri figli, soprattutto quelli che frequentano le scuole superiori, hanno subito una débâcle in italiano e in matematica. Resistono le scuole elementari, e come prima cosa mi viene da chiedere quando e dove perdiamo i risultati e la freschezza dei bambini. Gli esiti positivi messi in campo dai nostri studenti più giovani sono dovuti solo parzialmente al fatto che i dati relativi alle scuole elementari, letti nelle ultime statistiche, sono correlati a una didattica in presenza che gli studenti più grandi non hanno avuto nell’ultimo periodo (ricordiamo che le classifiche internazionali come l’Ocse-Pisa sono impietose nei confronti dei nostri figli da ben prima della Dad). Certo varcare le soglie della propria scuola, incontrare compagni e maestri ogni giorno non ha prezzo, ma ricordiamo che la Dad, per quanto tutti ci auguriamo si possa riporre al più presto nella scatola dei ricordi di gioventù, è pur sempre stato lo strumento (privilegiato) in cui molti adolescenti, purtroppo non tutti, hanno avuto modo di restare connessi alla loro quotidianità. Lo schermo di un computer ha piuttosto messo a nudo docenti, studenti e un sistema scolastico non sempre all’altezza delle richieste educative necessarie a far crescere. Leggere poi che stiamo incrementando la povertà educativa dei nostri giovani è cosa che non dovrebbe darci pace né come docenti né come genitori né come cittadini. I ragazzi che si diplomano senza una preparazione adeguata sono destinati in parte a disperdersi (si parla del 23% come si legge nell’articolo del Corriere della Sera del 15 luglio di Gianna Fregonara e Orsola Riva) in parte a essere i futuri medici, avvocati, professori, giornalisti, politici e professionisti in genere nelle cui mani ci sarà la responsabilità di fare scelte eticamente ponderate. Quando Esiodo parla al fratello, nel tentativo di educarlo, gli ricorda anche che “alle radici della terra” Zeus pose Eris, la Contesa. E di Contese ce ne sono due, una è miope, istintiva e negativa, che porta solo guerre dolore e discordia agli uomini che la seguono. Ma l’altra forma di Eris, continua Esiodo, è positiva, è una forma di sana competizione che, attraverso il confronto con la fatica, spinge a migliorare e a migliorasi, a scegliere in base ai propri valori. In gioco, per due fratelli del 700 a.C. come per i nostri figli e per noi, ci sono lavoro, relazioni sociali, senso etico e senso di responsabilità di ognuno. E con quale parte di Eris schierarsi dipenderà non certo dalla povertà quanto dalla ricchezza degli strumenti interiori che avremo saputo dare ai nostri giovani. In questo la scuola ha un ruolo insostituibile, cioè formare, nel senso di dare una forma (che in latino significa anche bellezza) alle persone che un giorno sapranno fare la differenza, sapranno scegliere se essere miopi e refrattari alla fatica oppure visionari e responsabili. Giovani poveri culturalmente possono spaventare più di una pandemia. Se ci concentriamo sulla scuola, ogni docente ha fra le mani due tesori, giovani curiosi e discipline attraverso cui insegnare (nel senso sempre latino di lasciare un segno). Lettere e numeri sono in fondo le chiavi per arrivare nell’animo dei ragazzi, il grimaldello con cui aprire un pertugio e da lì far entrare le parole, i logaritmi, le letture o le formule chimiche con cui gli studenti si possano scontrare e crescere. Attraverso questo incontro-scontro si può costruire la propria felicità non fatta di piacere immediato ma di ricerca di senso della propria vita. Le lingue antiche sanno illuminarci su questo aspetto. Il greco, ad esempio, ha diverse parole per dire felicità e ce le racconta bene Erodoto, lo straordinario narratore e padre della storia del V secolo a.C. Un giorno Creso, re della Lidia, ricevette a corte i più importanti saggi della Grecia, tra cui Solone, il legislatore ateniese. Dopo aver esibito con orgoglio e una certa arroganza le famose stanze dove erano raccolti i suoi tesori, il re interrogò Solone chiedendogli se avesse mai conosciuto qualcuno più felice di lui. “Tello l’Ateniese è l’uomo più felice che io abbia mai incontrato” rispose Solone, “un uomo semplice, che ha avuto la gioia dell’amore dei figli e dei nipoti, morendo mentre combatteva con onore in difesa della propria città, dopo aver visto l’intero arco della generazione nata da lui. Un uomo che ha saputo gioire della felicità duratura”. Poi aggiunse: “Di te non posso ancora dire nulla prima del tuo ultimo giorno di vita, perché per ogni cosa bisogna sempre considerare la fine, senza confondere la felicità con la fortuna”. Un’ultima osservazione. La parola felice ha racchiusa in sé la radice italiana fe- di fecondo e quella greca di fusis (da cui fisica) e cioè il modo di essere di ognuno di noi, unico e irripetibile. Come dire che si nasce con una propria natura e ascoltarla e rispettarla significa metterla al riparo dall’altalena della sorte. Un albero è felice quando la sua natura gli fa dare frutti, noi siamo felici quando siamo fecondi di vita, di progetti e di relazioni in sintonia con noi stessi. Una scuola è felice quando i suoi ragazzi vivono nella ricchezza educativa. Migranti. Il campo “modello” dove i braccianti vivono nell’immondizia di Davide Maria De Luca e Giunio Panarelli Il Domani, 22 luglio 2021 Costruito quattro anni fa con la promessa di dare “dignità” e “solidarietà” ai lavoratori, è un agglomerato di 70 container esposti al sole a quasi un’ora di cammino dalla città più vicina. Fuori dalle sue recinzioni, tra le 20 e le 30 persone dormono all’aperto, tra immondizia e cartoni perché il campo è al completo. Attivisti e sindacalisti sostengono che non è una soluzione dignitosa, né una risposta allo sfruttamento, ma tra comune, regione, prefettura e croce rossa, non è chiaro a chi spetti il compito di intervenire. Avrebbe dovuto essere un “campo modello” per dare finalmente un alloggio dignitoso ai braccianti agricoli stranieri che lavorano a Nardò, il comune in provincia di Lecce dove si è celebrato il più importante processo contro il caporalato agricolo. Ma oggi, a un mese dall’inizio della stagione della raccolta, decine di persone dormono ancora all’aperto, in mezzo ai rifiuti e senza possibilità di lavarsi. La situazione tra gli operatori del campo e i braccianti che vivono al suo esterno è tesa, ma nessuna delle autorità competenti sembra volersi prendere la responsabilità della situazione. Il villaggio - Formato da 73 container con bagni e docce comuni, il villaggio Boncuri, come si chiama ufficialmente, ospita circa 200 braccianti, tutti stranieri e con regolare contratto di lavoro. Una vicina mensa della Caritas offre loro i pasti. Un comunicato dello scorso 23 giugno indicava il campo come “un modello delle politiche di solidarietà e dignità sociale” in un’area dove da decenni lo sfruttamento dei lavoratori agricoli è particolarmente grave. La Croce Rossa, che gestisce il campo da due anni, non consente l’entrata a visitatori e giornalisti. Fuori dalla recinzione, all’ombra di una fila di alberi, vivono circa trenta persone, costrette ad accamparsi in condizioni inumane, anche se provviste di documenti e regolari contratti di lavoro. “Ognuno dei 73 container ha quattro posti letto, ma l’Asl ha deciso che, a causa del Covid-19, solo tre possono essere occupati”, spiegano gli attivisti di Diritti a Sud, un’associazione che da oltre dieci anni si occupa di aiutare i braccianti. Questa decisione ha contribuito a tenere fuori un numero di lavoratori che varia tra i 20 e i 30. Altri non possono accedere perché l’ingresso è consentito soltanto a chi ha un regolare contratto. Così, dopo ore di lavoro estenuante nei campi a raccogliere pomodori o angurie, decine di persone sono costretti a riposare su materassi abbandonati o semplici pezzi di cartone presi dalla strada. Anche all’ombra dei pochi alberi il caldo è insopportabile, il terreno intorno al bivacco è disseminato di immondizia e gli unici servizi disponibili sono tre bagni chimici esposti al sole di luglio. “Sono qui da oltre una settimana e non ce la faccio più”, racconta Mohamed, originario del Marocco, che vive in Italia da dieci anni ed è arrivato a Nardò da Foggia per lavorare nei campi, attirato anche dalla nascita del nuovo campo. “Non possiamo continuare a vivere così”, dice un suo compagno di lavoro che racconta di avere richiesto l’accesso alla struttura da oltre due settimane. La situazione al villaggio è tesa. Fare riprese e fotografie non è semplice. Le persone accampate fuori temono che le loro famiglie vengano a sapere della loro condizione e si tengono lontane dalle telecamere. Ogni giorno gli esclusi provano a entrare, ma il personale della Croce rossa che gestisce il campo non può acconsentire. A decidere dell’organizzazione del campo e di eventuali interventi per aumentarne la capacità è un tavolo composto da tutte le istituzioni chiamate in causa tra cui prefettura, regione e comune. Ma è difficile capire chi ha la responsabilità di intervenire. La Croce Rossa sostiene che sta già facendo tutto il possibile e sottolinea il miglioramento rispetto alla situazione degli anni precedenti. Il comune di Nardò ha fatto sapere a Domani che è responsabile soltanto del montaggio e lo smontaggio del campo all’inizio e alla fine della stagione della raccolta. La prefettura di Lecce e la regione Puglia, contattate da Domani, non hanno ancora fornito una risposta. Nel frattempo, al villaggio Boncuri, la situazione rimane esplosiva e gli unici a metterci la faccia sono i volontari della Croce rossa costretti ogni giorno a respingere i lavoratori stremati. Il caldo e le zanzare non aiutano e ci sono momenti di tensione anche fra gli stessi braccianti quando un lavoratore pesta per sbaglio il cartone-letto di un altro. Piccole scaramucce che dicono tanto del clima pesante che si respira qui ogni giorno. I numeri - Si calcola che siano circa 30mila i braccianti stranieri impegnati nell’agricoltura pugliese, la seconda regione dopo la Sicilia per numero di aziende agricole. Il loro lavoro è fondamentale nel corso dell’estate, durante la stagione della raccolta dei pomodori. Chi ha un contatto regolare lavora in genere 4-5 ore al giorno per sette euro lordi l’ora. Ma i braccianti sono costretti a pagare ai caporali i costi del trasporto fino dal villaggio al campo, che può arrivare anche a dieci euro. I caporali spesso li obbligano ad acquistare da loro il cibo e l’acqua da bere. Alla fine, tolte le spese, per una giornata di lavoro il guadagno può scendere fino a 20-25 euro. Nel 2011, prima della costruzione del campo, la protesta dei braccianti di Nardò contro i loro sfruttatori aveva portato alla più importante azione giudiziaria intrapresa contro il caporalato in Italia. Durante il cosiddetto processo Sabr sono state rinviate a giudizio 16 persone tra caporali e proprietari di aziende agricole locali, accusati di avere ridotto in schiavitù i loro lavoratori. La sentenza in primo grado aveva fatto la storia riconoscendo per la prima volta il reato di “riduzione in schiavitù” in un contesto collegato al mondo del lavoro. Ma nel 2019 la corte d’appello ha ribaltato tutto: i fatti sono avvenuti tra il 2009 e il 2011, periodo in cui i reati contestati ancora non esistevano. Il processo ora si trova in Cassazione. Marcello Risi, sindaco di Nardò all’epoca dei fatti, fu aspramente criticato anche dai membri della sua coalizione di centrosinistra per non avere permesso al comune di costituirsi parte civile nel processo. Per un intervento più massiccio sulla questione, Nardò ha dovuto paradossalmente attendere l’avvento di un sindaco di destra: Giuseppe “Pippi” Mellone, vicino a Casa Pound, ma allo stesso tempo fedele alleato del presidente della regione Michele Emiliano, di centrosinistra. Mellone ha collaborato alla nascita del villaggio Boncuri avvenuta nel 2017 ed è stato il primo sindaco pugliese a introdurre l’ordinanza che vieta il lavoro nei campi tra le 12 e le 16, un intervento arrivato dopo la morte nel 2015 di un bracciante sudanese, ucciso dal caldo mentre lavorava in un campo poco fuori città. Quest’anno, l’ordinanza di Nardò è stata estesa a tutta la regione in seguito a un altro decesso, quello di Camara Fantamadi, bracciante maliano di 27 anni, morto di fatica dopo avere zappato per quattro ore per una paga di sei euro l’ora. Soluzioni tampone - Tra ordinanze e la costruzione di campi come il villaggio Boncuri, la situazione è migliorata, ma a Nardò, come in molte altre zone della regione, rimangono situazioni di sfruttamento e incuria che riguardano migliaia di braccianti. “Se consideriamo da dove siamo partiti situazione migliorata, ma non è ideale”, dice Antonio Gagliardi, segretario della Flai Cgil che da anni segue la vicenda di Nardò. Il campo, spiega, è esposto al sole ed è un vero e proprio ghetto, senza mezzi pubblici che lo collegano al centro abitato, quasi un’ora di distanza a piedi. “Alla fine non è che la condizione dei braccianti sia cambiata più di tanto”, dice. Secondo l’ultimo rapporto dell’Ispettorato del lavoro, il 60 per cento delle aziende agricole pugliesi ispezionate nel 2020 non era in regola, in crescita rispetto all’anno precedente. La Flai Cgil denuncia inoltre che il numero di controlli è in calo, mentre sono pochissime le aziende agricole di partecipare al progetto Rete del lavoro agricolo di qualità, per contrastare lo sfruttamento lavorativo e il caporalato. Lecce è la provincia con la più bassa adesione: solo cinque aziende in tutta la provincia si sono iscritte. In questa situazione, progetti come il villaggio Boncuri rischiano di essere soltanto una foglia di fico che nasconde una situazione di sfruttamento, sostengono alcuni. “Noi dentro il villaggio Boncuri non entriamo perché non crediamo che rappresenti una reale soluzione per il tema dei braccianti”, dice Angelo Cleopazzo, membro dell’associazione Diritti a Sud che dal 2015 produce la salsa Sfruttazero, per dimostrare l’esistenza di modelli economici alternativi al caporalato. Secondo Cleopazzo, il campo è un luogo di “segregazione” in cui i lavoratori vengono recintati e separati dalla comunità del paese, come fossero corpi estranei. “Un’idea diametralmente opposta a quello che noi chiamiamo “inclusione”. Il problema del villaggio è anche la deresponsabilizzazione delle aziende agricole. Non solo è una situazione comoda per i datori di lavoro che possono raccogliere i braccianti in unico punto facendo pagare loro il trasporto, ma soprattutto il villaggio fa ricadere i costi del vitto e dell’alloggio dei braccianti sulla comunità e non sulle aziende, che possono continuare a non pagare in maniera dignitosa i lavoratori. Un circolo vizioso che, secondo l’associazione, non darà mai una vera dignità alle condizioni dei braccianti. Libia. Quella sponda a Londra per finanziare le milizie col sistema lettere di credito di Giulia Cannizzaro Il Fatto Quotidiano, 22 luglio 2021 “Possibile grazie a corruzione e conflitti d’interesse”. “É dal 2016 che chiediamo alle autorità libiche di creare un sistema più trasparente e controllato, ma, evidentemente, non c’è mai stata la volontà politica di farlo. Se sei nella Banca Centrale o nel governo e hai persone che stanno facendo un sacco di soldi attraverso un sistema criminale, cambiarlo è davvero difficile perché faranno tutto quello che possono per fermarti, incluso potenzialmente liberarsi di te”, spiega Jonathan Winer, ex inviato speciale degli Stati Uniti nel Paese. In Libia manca tutto. Manca l’acqua. Manca la corrente elettrica, con la luce che tutti giorni salta anche per otto, dieci ore. Ci sono, d’estate, i canonici 40 gradi all’ombra, ma senza corrente non funzionano nemmeno i condizionatori. Eppure, nel 2018, una lettera di credito del valore di 490 milioni di dollari è stata emessa proprio per acquistare all’estero delle turbine per generare elettricità che avrebbero aiutato a risolvere il problema, ma la situazione non è cambiata. Secondo un report di Global Witness, organizzazione non governativa che si occupa di corruzione e diritti umani, i soldi della lettera di credito sono stati dirottati sui conti correnti di una società emiratina costituita poco prima e dal nome quasi perfettamente identico a quello dell’appaltatore originale. Nel 2015, l’autorità per l’energia della Libia orientale Gaerel ha concluso un contratto di quasi 490 milioni di dollari con l’appaltatore statunitense-sudafricano USP&E, il quale avrebbe consegnato, installato e fornito formazione per 15 turbine a gas da 25 Mw. Quando nel 2018 è stata emessa la lettera di credito in favore di questo progetto, tuttavia, l’accordo si presentava molto diverso. Secondo un emendamento del 2017, USP&E avrebbe consegnato tre turbine Siemens SGT800 per poco più di 166 milioni di dinari libici (circa 118 milioni di dollari). Nel 2018, la lettera di credito è andata a una società chiamata USPE-LY con sede a Ras El Khaimah, negli Emirati Arabi Uniti. Nonostante il nome quasi identico, USPE-LY non faceva e non fa parte della società USP&E. Era in realtà di proprietà di Jan Herre e Omar Allam, due ex rappresentanti di USP&E che hanno contribuito a negoziare l’accordo del 2015, ma con cui USP&E ha tagliato i ponti nel 2016. Eppure, sembra che nessuno si sia accorto del cambiamento del nome della società parte del contratto fino al 2019, quando il denaro pubblico ha cominciato ad essere erogato in base alla lettera di credito. Secondo Global Witness, diverse autorità libiche hanno approvato il passaggio alle turbine Siemens, non riconoscendo neanche che USP&E e USPE-LY fossero società diverse. La società USP&E ha dichiarato che quell’emendamento al contratto effettuato nel 2017 è stato negoziato in maniera fraudolenta e senza la sua approvazione. Secondo alcune fonti di Global Witness, però, proprio la Banca Centrale libica ha avuto un ruolo attivo nella rinegoziazione contrattuale incriminata. Il raggiungimento della piena stabilità della Libia sembra essere ancora un miraggio, soprattutto perché alcuni nodi non vengono sciolti, uno fra tutti, quello della corruzione, problema che si riesce a toccare con mano in meccanismi come quello delle lettere di credito e che ha delle pesanti ricadute sul piano della sicurezza interna. “Le milizie controllano le filiali di alcune banche. Lo puoi vedere dal flusso di denaro - dice una fonte a Ilfattoquotidiano.it - Più è grande la quantità di denaro in lettere di credito che passa in quella determinata filiale, più è probabile che quella sia controllata dalle milizie. E non è un caso che queste filiali solitamente si trovino in periferia. Lì c’è meno controllo”. Ma il problema dell’abuso delle lettere di credito è atavico in Libia. “É dal 2016 che chiediamo alle autorità libiche di creare un sistema più trasparente e controllato, ma, evidentemente, non c’è mai stata la volontà politica di farlo. Se sei nella Banca Centrale o nel governo e hai persone che stanno facendo un sacco di soldi attraverso un sistema criminale, cambiarlo è davvero difficile, perché faranno tutto quello che possono per fermarti, incluso potenzialmente liberarsi di te”, spiega a Ilfattoquotidiano.it Jonathan Winer, ex inviato speciale degli Stati Uniti per la Libia dal 2013 al 2017. Il sistema delle lettere di credito è indispensabile per la Libia. É un meccanismo, infatti, che consente alle imprese libiche e agli enti pubblici di accedere al mercato estero, usufruendo di valuta straniera, per effettuare importazioni di beni, come generi alimentari e medicine, altrimenti irreperibili nel Paese. Ogni anno vengono distribuiti circa 9 miliardi di valuta estera tra settore pubblico e privato. Confrontando però i dati delle lettere di credito del 2021 con quelli delle importazioni del 2019 che sono stati resi pubblici, è evidente come il denaro sia uscito in quantità maggiori rispetto alle merci che sono entrate nel Paese. Su decisione della Banca Centrale libica, dal 2012, ogni banca commerciale del Paese può concedere lettere di credito. Il giro che il denaro fa è semplice. La Banca centrale libica emette una lettera di credito che poi comunica alla banca commerciale corrispondente all’estero che, a questo punto, dovrebbe teoricamente effettuare la transazione in valuta estera al posto dell’ente pubblico o dell’azienda privata libica che, in questo modo, può importare una certa merce. La verità, però, è terribilmente diversa. Nel report di Global Witness, si analizza il percorso che il denaro delle lettere di credito fa, partendo dalla Banca Centrale libica fino ad arrivare alle banche corrispondenti nel cuore di Londra, mettendo in evidenza come, fra norme di due diligence forse non molto efficaci in materia di antiriciclaggio e antiterrorismo e conflitto di interessi nella scelta di specifiche nomine, il rischio di frode sia dietro l’angolo. Nel report, ad esempio, si fa specifico riferimento alla circostanza in cui il governatore della Banca Centrale libica, Saddek Elkaber, sia al tempo stesso presidente della ABC Bank Londra, banca commerciale posseduta a maggioranza dalla Banca Centrale libica. L’autorità monetaria nordafricana tratta la maggior parte delle lettere di credito con la ABC Bank la quale, proprio dai rapporti commerciali con essa, trae profitti. Secondo gli esperti di Global Witness, oggi ci sarebbe il rischio che il sistema delle lettere di credito possa essere soggetto a maggiori abusi e frodi rispetto al passato a causa dell’instabilità politica del Paese. In poche parole, c’è il rischio che i soldi concessi ai beneficiari delle lettere di credito vengano dirottati ancora più facilmente rispetto a prima verso destinazioni diverse da quelle per cui erano stati dati e per usi, con tutta probabilità, illegali. “Ci sono state navi che sono arrivate ai porti libici quasi completamente vuote o con prodotti in quantità non corrispondenti a quelle dovute e magari, per acquistare quelle merci, è stata concessa una lettera di credito di milioni di dollari”, dice Paul Donowitz, esperto di Global Witness. Dove vanno a finire, quindi, i soldi in valuta straniera dirottati? In mano alle milizie che li rimettono in circolazione nel mercato nero dove è praticato un tasso di cambio molto più alto rispetto a quello del mercato legale, aumentando esponenzialmente il loro margine di guadagno. Ma non solo. Il rapporto di Global Witness, infatti, denuncia il coinvolgimento in queste frodi anche di politici e imprese locali. “Il tasso di cambio del dinaro in Libia è un tasso fisso e artificiale. Se si volesse veramente risolvere il problema dell’uso fraudolento delle lettere di credito basterebbe eliminare la differenza fra il tasso di cambio ufficiale e quello praticato invece sul mercato nero - dice Winer - e la maniera più efficiente per fare questo sarebbe permettere al tasso di cambio di fluttuare ed aggiustarsi al livello di mercato. Dunque, la soluzione c’è ed è una soluzione che comporterebbe anche dei costi molto bassi”. Un sistema contorto ed esposto ad abusi. Nulla di nuovo, però. Secondo gli esperti, già durante il regime di Gheddafi sono state commesse frodi da miliardi di dollari attraverso il sistema delle lettere di credito. Afghanistan. Erdogan vuole sostituirsi agli americani di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 22 luglio 2021 Le forze turche sono impegnate a proteggere l’aeroporto di Kabul da sei anni, ora il presidente chiede che Washington paghi. Il progetto è quello di creare una zona di influenza turca di fronte al ritiro degli altri Paesi Nato. La Turchia terrà in Afghanistan un suo contingente militare, ma solo se a pagare saranno gli Stati Uniti. La richiesta arriva dal presidente, Recep Tayyip Erdogan, il quale ha sottolineato che se Washington ha interesse a mettere in sicurezza l’aeroporto internazionale “Hamid Karzai” di Kabul, allora deve soddisfare a “condizioni” particolari, con un sostegno finanziario, logistico e diplomatico. La richiesta di Ankara segue una strategia pianificata da tempo: la Turchia ha partecipato all’intervento militare in Afghanistan solo a patto che le sue truppe non prendessero parte ai combattimenti. Di fatto l’idea era quella di proporsi sin dal primo momento per un ruolo super partes. Forti anche della comune fede islamica, i turchi hanno provato a profilarsi diversamente dagli occidentali, anche se la risposta dei talebani è stata di scarso entusiasmo. Ankara aveva persino proposto un passaggio del processo di pace a Istanbul, ma gli “studenti coranici” hanno preferito andare avanti con la loro condotta abituale, composta di attacchi militari e colloqui rallentati nella sede “amica” di Doha. Proprio i buoni rapporti fra Qatar e Turchia avevano spinto il governo di Ankara a scommettere su un progetto ambizioso, che però ancora non decolla. E proprio sull’aeroporto di Kabul, dove le forze di Erdogan sono impegnate da sei anni a gestire le operazioni logistiche e militari, sembra essersi consumata una rottura seria: i talebani hanno ammonito Ankara, insistendo sul principio che tutte le truppe straniere devono lasciare il Paese. Erdogan ha ribattuto che con il sostegno Usa l’impegno turco a garantire l’apertura dello scalo verrà mantenuto e garantito. Per Ankara è anche un’occasione preziosa per ricostruire almeno in parte il rapporto con l’alleato d’oltre oceano, messo seriamente in discussione da una serie di disaccordi legati soprattutto alle “aperture” di Erdogan verso Mosca, in tema di armamenti e non solo. Un primo passo verso un allentamento delle tensioni è stato nell’incontro con Joe Biden, in giugno, a margine di un meeting della Nato. Nei giorni scorsi, Erdogan aveva lasciato capire che sul tema dell’aeroporto di Kabul c’era stato un accordo di massima, anche perché il pericolo che lo scalo finisca in mano ai talebani sembra inaccettabile, visto che sarebbe una svolta difficilmente sostenibile, peggiore di una sconfitta con grave perdita territoriale. Erdogan ha sempre sostenuto la necessità di parlare con i talebani, sottolineando che questi ultimi sono probabilmente più a loro agio confrontandosi con controparti turche piuttosto che americane. Per ora, comunque, la risposta degli studenti coranici è sempre la stessa: i soldati “invasori”, musulmani o no, saranno sempre trattati da nemici. Con tutta probabilità, l’atteggiamento dei talebani è legato alla fase sul terreno, che li vede in forte offensiva (ieri hanno colpito anche Kabul, prendendo di mira il palazzo presidenziale con razzi). La posizione di vantaggio potrebbe ispirare il rifiuto ad assumere nuovi “padrini”, quanto meno fino a quando il controllo dell’intero Afghanistan non sarà in mano loro. Persino il loro tradizionale protettore, il Pakistan, fatica a recuperare un maggiore controllo sul gruppo integralista, ormai riottoso anche verso Islamabad. Ma per i Paesi dell’area la prospettiva di un regime talebano aggressivo è poco gradita. E questo vuol dire che anche per gli “studenti coranici” la scelta di accettare alleanze con nazioni musulmane sarà obbligata. Colombia: guardie e detenuti, fratelli di Giordano Contu vaticannews.va, 22 luglio 2021 L’Osservatore Romano racconta storie di ordinaria fraternità nate dalla pastorale penitenziaria dell’arcidiocesi di Cali. C’è un messaggio di speranza per i 12 mila detenuti di Cali. È una lettera scritta da un figlio. Un video. Una fotografia che ritrae la propria famiglia. La Chiesa locale si fa portatrice di questi pensieri e istantanee. Ciò è diventato fondamentale durante la pandemia, quando erano state sospese le visite dei familiari, dei volontari e i laboratori. Adesso gli incontri stanno riprendendo, anche se molto sporadicamente. In questo tempo sospeso, lungo un anno e mezzo, la pastorale penitenziaria della capitale colombiana ha continuato a dare assistenza spirituale, pastorale e psicologica. Si è parlato anche di ciò lo scorso 15 luglio al forum “Verso una giustizia riparativa dell’essere”, sul sistema carcerario e i diritti umani, organizzato dall’arcidiocesi di Cali e dal ministero della Giustizia. Il convegno ha fatto il bilancio del progetto “Promozione della dignità umana e reinserimento sociale nelle carceri della giurisdizione dell’arcidiocesi di Cali” finanziato dalla Conferenza episcopale italiana. “Voglio ringraziare profondamente la Cei”, dice a “L’Osservatore romano” don Carlos Alberto Usma Giraldo, delegato dell’arcivescovo per la pastorale penitenziaria locale. “Il nostro obiettivo primario è aiutare le persone private della loro libertà, così come le loro famiglie e gli ex detenuti, a incontrare nuovamente Dio. Li aiutiamo a riscoprire se stessi, a risocializzare, a credere in una seconda opportunità”. C’è un evento che più di tutti ha segnato l’inizio del ritorno alla normalità. È la Festa del papà che si è tenuta lo scorso 15 giugno nel Centro de atención transitoria (Cat) di San Nicolás, una struttura che ospita 480 uomini in attesa di entrare in carcere. Per l’occasione è stata celebrata l’eucaristia e commentato un passo della Lettera agli Ebrei: “Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere” (Ebrei, 13, 3). Fulcro dell’iniziativa erano i messaggi dei familiari. “Alcuni hanno salutato i genitori per la prima volta, senza vederli dietro le sbarre, anche se hanno condanne molto alte”, racconta il sacerdote. “Abbiamo dato una parola di speranza e di incoraggiamento, perché sono privati della libertà, ma non della dignità”. Ad allietare l’evento ci ha pensato anche l’orchestra musicale della Polizia nazionale, mentre i volontari hanno distribuito beni di prima necessità. La Festa del papà è stata un’occasione per dire ai detenuti e ai loro familiari che nonostante la pandemia non ci si è scordati di loro. “Il cuore della Chiesa è rivolto ai detenuti. Li accompagniamo perché per noi sono importanti e vale la pena credere in una conversione. Sono figli fatti a immagine e somiglianza di Dio”, dice don Carlos. Le famiglie sono uno dei cardini dell’azione della pastorale penitenziaria. Lo raccontano bene le lacrime di gioia di un genitore che fissa il video di un figlio felice che stringe al petto un regalo di Natale e che è circondato dall’affetto dell’equipe pastorale. O il sorriso di un marito che guarda la foto di una delle 250 donne detenute con i figli minori (fino a 4 anni) assistite dai catechisti, come Karen Guerrero, che da nove anni insegna nelle carceri di Cali. In un istante una foto colma il vuoto di un’anima che trabocca di amore. “Lavoriamo soprattutto con i bambini: cerchiamo di fargli comprendere perché la loro mamma o il loro papà è in carcere, gli insegniamo a essere resilienti e a trovare strumenti per proseguire la loro vita”, racconta il presule. L’intervento pedagogico si struttura come un accompagnamento psicologico, pastorale, spirituale e valoriale ed è finalizzato a che i bambini credano maggiormente in se stessi. La pastorale penitenziaria di Cali si occupa di migliaia di persone ristrette, dislocate tra la prigione di Villahermosa, il complesso di Jamundí, 25 stazioni di polizia e il centro minorile. “Con un’equipe di psicologi accompagniamo i carcerati, le loro famiglie e gli ex detenuti. Li aiutiamo nella gestione delle emozioni, sotto il profilo affettivo, e a ricostruire i legami familiari e il tessuto sociale lacerato”, spiega il delegato ai penitenziari. L’equipe pastorale, guidata direttamente da don Carlos, accompagna i detenuti attraverso i laboratori e con parole di incoraggiamento e di speranza. C’è poi la squadra dei cappellani che offre sostegno spirituale attraverso i sacramenti dell’eucaristia e della riconciliazione. Un forte impulso alle attività con i detenuti è dato dalla Fundación dignidad y amor che si occupa di formare i volontari e sensibilizzare i benefattori. E ha in cantiere alcune iniziative: la creazione di una mensa insieme alla pastorale sociale diocesana per distribuire il cibo nei penitenziari, l’apertura di una panetteria per dare lavoro a chi ha scontato la propria pena. “Stiamo progettando la Fondazione in modo che diventi una casa per ex detenuti. Una casa di transizione in cui riposare appena usciti dal carcere, in cui vivere gli affetti con i familiari, accompagnati delle psicologhe e dall’equipe pastorale che li preparano al ritorno a casa”, dice il presule. Il personale di custodia e di sorveglianza è l’altro importante cardine intorno a cui ruota la pastorale penitenziaria. “Alle guardie insegniamo che san Paolo è stato in carcere, che san Pietro è stato in carcere, che nostro Signore Gesù è stato in carcere. E che mai hanno abbandonando la mano di Dio che li ha aiutati”, prosegue don Carlos. Per la Chiesa locale questa è una sfida che negli ultimi anni ha dato tante soddisfazioni. “Nella misura in cui evangelizziamo i custodi, loro possono trattare meglio chi è stato privato della libertà”. Per insegnare ai custodi che i detenuti sono loro fratelli il sacerdote commenta spesso un passo della Genesi: “il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?”. “Il Signore replica con un sì. Ognuno è responsabile dell’altro. Ancora di più se ha potere, poiché è subordinato all’altro”, afferma il delegato pastorale. Sensibilizzare è fondamentale. “Noi lo facciamo con la testimonianza, mostrando alle guardie il volto misericordioso di Dio grazie ai ritiri spirituali, alle convivenze e all’eucaristia. Questo ha fatto sì che la loro spiritualità si facesse prossima a Dio e ai fratelli detenuti”. Coltivando l’umanità si responsabilizzano e grazie a essa oggi godono di maggior rispetto tra i detenuti. Certo, c’è ancora tanto da fare, ma il progresso fatto è tangibile. Altri problemi restano insormontabili. Come il sovraffollamento che segna un triste +20,6 per cento. Secondo i dati governativi dell’Istituto nazionale penitenziario e carcerario colombiano (Inpec) ci sono 97.606 detenuti in 132 strutture, a fronte di una capacità totale che invece è di 80.900 persone. Al di là delle difficoltà, la pastorale penitenziaria di Cali cerca di far sì che le persone private della propria libertà prendano coscienza del valore immenso che esse hanno agli occhi di Dio. “La società continua a emarginarli - conclude don Carlos - invece noi li nobilitiamo. Perché è necessario ridargli dignità ma anche rafforzarli, offrendo loro strumenti che possano utilizzare nel momento in cui usciranno di prigione e dovranno ricostruirsi il tessuto sociale che era stato danneggiato”. Per restituire alla società una persona convertita. Per costruire una comunità che offra una seconda chance.