“Non possiamo rimuovere il carcere dal nostro sguardo e dalle nostre coscienze” di Davide Varì Il Dubbio, 21 luglio 2021 L’informativa della ministra Cartabia alla Camera sui fatti di Santa Maria Capua Vetere. “È nostro dovere riflettere sulla contingenza ma anche sulle cause profonde che hanno portato un anno fa ad un uso così insensato e smisurato della forza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Fatti di questa portata richiedono da un lato una risposta immediata da parte dell’autorità giudiziaria, ma ai miei occhi sono spia di qualcosa che non va e dobbiamo indagare e intervenire con azioni ampie e di lungo periodo perché non accada più”. A dirlo è la ministra della Giustizia Marta Cartabia, nel corso dell’informativa urgente alla Camera sui fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile scorso, dove centinaia di agenti in tenuta antisommossa hanno massacrato i detenuti. “Fatti di quella portata reclamano un’indagine ampia perché si conosca quanto è successo in tutti gli istituti penitenziari nell’ultimo drammatico anno, dove la pandemia ha esasperato tutti, perché le carceri italiane già vivono in condizioni difficili per il sovraffollamento, per la fatiscenza delle strutture, per la carenza del personale e per tante altre ragioni - ha proseguito -. Dunque occorre guardare in faccia i problemi cronici dei nostri istituti penitenziari affinché non si ripetano più atti di violenza né contro i detenuti né contro gli agenti della polizia penitenziaria e tutto il resto del personale. Il carcere è specchio della nostra società ed è un pezzo di Repubblica che non possiamo rimuovere dal nostro sguardo e dalle nostre coscienze. Le violenze e le umiliazioni inflitte ai detenuti a Santa Maria Capua Vetere recano una ferita gravissima alla dignità della persona. La dignità della persona è la pietra angolare della nostra convivenza civile, come chiede la Costituzione, nata dalla storia di un popolo che ha conosciuto il disprezzo del valore della persona. E pertanto per questo la Costituzione si pone a scudo e a difesa di tutti, specie di chi si trova in posizione di maggiore vulnerabilità”, ha affermato la Guardasigilli tra gli applausi dell’aula. “Anche l’uso della forza da parte di chi legittimamente lo detiene sia sempre strumento di difesa dei più deboli - ha aggiunto -, mai aggressione, mai violenza, mai sopruso e sempre proporzione”. Cartabia ha ripercorso ha ripercorso i fatti, “noti a tutto il mondo e che non potevano andare inosservati”. In relazione alla perquisizione straordinaria del 6 aprile 2020, che ha riguardato quasi tutte le sezioni del reparto Nilo del carcere, sono indagati a vario titolo appartenenti al corpo della polizia penitenziaria e dell’amministrazione penitenziaria. Le accuse sono gravi: delitti di concorso in tortura pluriaggravati, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico aggravato, calunnia, favoreggiamento, frode processuale, depistaggio. Tutti delitti aggravati dalla minorata difesa e dall’aver agito per motivi abietti o futili, con crudeltà, abuso di potere, violazione di doveri inerenti alla funzione pubblica, con l’uso delle armi e per aver concorso nei delitti in numero superiore alle cinque unità. La stampa già lo scorso autunno aveva riferito di violenze e indagini in corso a Santa Maria (Il Dubbio ne parlò anche prima in esclusiva il 13 aprile 2020) e già all’epoca ci fu un’interrogazione parlamentare. “Mi sono chiesta e ho chiesta all’amministrazione penitenziaria che cosa avessero fatto in seguito a quelle segnalazioni - ha spiegato Cartabia - e mi è stato comunicato che più volte il Dap si era rivolta all’autorità giudiziaria per avere un riscontro a quelle notizie ed effettuare eventualmente valutazioni di sua competenza anche ai fini disciplinari. Ma mi è stato spiegato che, nelle ultime settimane, e la stessa autorità giudiziaria lo ha confermato, le sollecitazioni del Dap non potevano avere riscontro perché le indagini erano coperte da segreto investigativo. Per questo, tutte le iniziative assunte dall’amministrazione del dipartimento penitenziario sono successive alla pubblicazione degli atti processuali”. Tornando ai fatti, “tra le tante violenze io non posso dimenticare un detenuto costretto ad inginocchiarsi per colpirlo, un altro in carrozzella colpito ripetutamente e gratuitamente. Altri agenti che si scagliavano contro i detenuti e tutto sotto l’occhio ben visibile della videocamera che stava riprendendo l’accaduto - ha aggiunto la ministra. Stando alle immagini, risulta che non fosse una reazione ad una delle tante rivolte che sono accadute in quei mesi. Non si trattava di una reazione necessitata da una situazione di rivolta, ma era una violenza a freddo. Secondo quanto emerge dagli atti giudiziari, la perquisizione straordinaria del 6 aprile è stata disposta al di fuori dei casi consentiti dalla legge, senza alcun provvedimento del direttore del carcere, unico titolare del relativo potere, senza rispettare le forme e la motivazione imposte dalla legge. Secondo il giudice, dunque, alla base della perquisizione straordinaria, vi sarebbe stato “un provvedimento dispositivo orale”, vale a dire un ordine dato verbalmente, al telefono, emanato a scopo dimostrativo, preventivo e satisfattivo, finalizzato a recuperare il controllo del carcere e appagare presunte aspettative del personale di polizia penitenziaria”. Il giorno prima, infatti, così come accaduto anche altrove, c’erano state rivolte nel carcere. “Nella sua ordinanza il gip riporta ancora alcune intercettazioni: “Era il minimo segnale per riprendersi l’istituto” e frasi analoghe - ha spiegato la Guardasigilli. E ritiene che di fatto che quella perquisizione non avesse alcuna intenzione di ricercare strumenti potenziali per un’offesa contro la polizia per un’offesa contro la polizia o altri oggetti non detenibili, ma per la quasi totalità dei casi “era una mera copertura fittizia per la consumazione di condotte violente, contrarie alla dignità e al pudore delle persone recluse”, così le parole del giudice. Sono contestazioni di una gravità inaudita. Non posso non fare un riferimento particolare al detenuto Lamine Hakimi, affetto da schizofrenia e morto il 4 maggio successivo nella sezione Danubio del carcere. Invero, a questo proposito, il gip scrive che le consulenze mediche non consentono di affermare che il decesso sia da ascrivere alle ferite riportate il 6 aprile, ma piuttosto sono da ricondurre all’assunzione di medicinali, probabilmente prescritte a seguito di quelle ferite, che combinandosi con altri farmaci che il detenuto già assumeva per la sua malattia ha comportato un arresto cardiaco”. Fin qui l’attività giudiziaria. “Cosa è successo a seguito di questo provvedimento nel Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria? Tutte le unità di personale della polizia che sono state attinte da misure cautelari sono anche state immediatamente sospese dal servizio - ha spiegato -. Una sospensione dal servizio per otto mesi per favoreggiamento, depistaggio e falso ideologico aggravato è anche stato adottato da me personalmente nei confronti del provveditore regionale della Campania. Inoltre ci sono altri provvedimenti di sospensione che riguardano persone che non sono destinatarie di misure cautelare da parte del giudice ma che sono indagate, e si tratta di 23 provvedimenti. Invece si aggiungono anche due provvedimenti di sospensione nei confronti del direttore reggente, ma la direttrice del carcere non era presente in istituto il giorno dei fatti per ragioni di malattia e quindi non è indagata. Bisogna anche aggiungere che in alcuni casi le misure cautelari da parte del giudice sono state revocate per motivi diversi. In breve, il totale complessivo di unità di personale dell’amministrazione sospese a vario titolo è di 75, rimangono altri indagati per i quali il gip non ha specificato che vi fosse certezza della loro presenza e per questo ha respinto la richiesta di misura cautelare. Si attendono gli sviluppi dell’indagine, che è ancora in corso, perciò è prematuro trarre ogni conclusione in merito alle posizioni dei singoli che ne sono coinvolti”. I detenuti coinvolti sono stati trasferiti per ragioni di sicurezza. “Da parte mia - ha aggiunto Cartabia - il giorno della pubblicazione di quei video e di quelle immagini ho immediatamente convocato d’urgenza una riunione al ministero con i due sottosegretari alla Giustizia, i vertici del Dap, il garante nazionale delle persone private della libertà personale. Abbiamo condannato subito i fatti, ma non bastava. Da parte mia l’esigenza era soprattutto capire la catena di informazioni. Com’è stato possibile che una perquisizione di questo genere fosse stata effettuata senza un’autorizzazione scritta. Occorreva, in secondo luogo, allargare la prospettiva, perché sappiamo che in altre carceri ci sono stati momenti di tensione e bisogna approfondire prima ancora che a questo punto arrivi l’autorità giudiziaria. E a mio parere bisognava individuare le cause profonde, perché qui qualcosa davvero non ha funzionato. Quando siamo arrivati a Santa Maria Capua Vetere, il presidente Draghi ha reagito prontamente dicendo “questa è una sconfitta per tutti”. Ed è così. Al di là delle singole responsabilità penali, che sono sempre e solo personali e individuali, c’è qualcosa che ci interroga tutti quanti. Per questo subito dopo quella riunione straordinaria ho voluto incontrare i rappresentanti della polizia penitenziaria, attraverso i loro sindacati e tutti i provveditori. Tutti hanno chiesto di approfondire i fatti. Bisognava far qualcosa e immediatamente abbiamo costituito presso il Dap una commissione ispettiva interna, che visiterà tutti gli istituti penitenziari interessati da manifestazioni di protesta o da denunce o segnalazioni inerenti i gravi eventi occorsi nel marzo del 2020”. Il mandato della commissione consiste nell’approfondire la dinamica dei fatti, al fine di accertare la legittimità e la correttezza di ogni iniziativa. “L’amministrazione penitenziaria deve saper indagare al proprio interno - ha aggiunto - deve saper controllare ciò che avviene dietro quelle mura che spesso fuggono all’attenzione di tutti e i fatti di Santa Maria Capua Vetere, emersi solo a seguito degli atti dell’autorità giudiziaria, denotano che forse in questo caso quella capacità di indagine interna è mancata. Occorre indagare sugli episodi critici, ma anche andare alla ricerca delle cause più profonde e creare condizioni materiali e normative per evitare ogni ulteriore forma di violenza. Per me è stato preziosissimo il confronto con la polizia penitenziaria, con la quale ho un rapporto quotidiano, che mi ha dato suggerimenti e spunti di grande interesse, così com’è stato importante sentire il punto di vista dei provveditori, del garante e la stessa visita in loco che abbiamo fatto a Santa Maria è stata davvero istruttiva. Per esempio, nei colloqui, è emerso che alcuni degli agenti che erano coinvolti in quei fatti del 6 aprile, da diversi anni svolgevano incarichi di tipo completamente diverso, non erano a contatto con i detenuti. Più e più volte la polizia penitenziaria ha lamentato un innalzamento del corpo, a causa della mancanza di un adeguato turn over. Tutti gli interlocutori hanno richiamato l’altissima tensione che nei mesi di pandemia c’era in tutti gli istituti. Evidentemente queste non sono cause di giustificazione o attenuanti per le persone che hanno commesso quegli atti di violenza, ma vogliamo farci carico di questi problemi? I mali del carcere, perché non si ripetano più episodi di violenza, richiedono una strategia che operi a più livelli, a mio parere almeno tre: strutture materiali, personale e formazione. Sarebbe molto più semplice e molto più tranquillizzante per le nostre coscienze accontentarci di dire “c’è sempre qualche elemento che si comporta male in ogni realtà sociale”. Ma qui non basta, dobbiamo evitare dobbiamo rimediare al fatto che lungo molti anni le condizioni delle carceri italiane sono così peggiorate che il lavoro e le condizioni di vita di chi è detenuto diventano insopportabili. Quel giorno a Santa Maria Capua Vetere anche solo la temperatura era insopportabile. È un carcere dove non c’è acqua corrente. Stanno iniziando ora i lavori per allacciare la struttura del carcere e avere un flusso continuo. Ci sono dei pozzi e viene distribuita l’acqua con le taniche”. Cartabia: “A Santa Maria Capua Vetere uso insensato della forza” di Carmelo Leo Il Domani, 21 luglio 2021 L’informativa “urgente” della ministra della Giustizia a Montecitorio a più di tre settimane dalla pubblicazione, da parte di Domani, dei video della mattanza di stato: “Violenza a freddo contro i detenuti. Mancata capacità di condurre un’indagine interna, ma ora indagheremo su tutti gli istituti della rivolta di marzo 2020. Le persone sospese sono 75, la direttrice non è indagata. Dal Pnrr fondi per ampliare strutture e garantire più formazione”. “Oggi abbiamo la possibilità di ricostruire l’accaduto e descrivere le linee di intervento del ministero sulle cause profonde che hanno provocato l’uso smisurato e insensato della forza a Santa Maria Capua Vetere. Fatti di questa portata sono spia di qualcosa che non va e bisogna intervenire con azioni ampie e di lungo periodo. L’uso della forza non deve mai essere sopruso. In relazione alla perquisizione straordinaria del 6 aprile scorso, sono invitati a vario titolo appartenenti al corpo della polizia penitenziaria e dell’amministrazione penitenziaria. Le accuse sono gravi. Notizie di stampa già dallo scorso autunno riferivano di violenze in quell’istituto e già allora c’era stata un’interrogazione parlamentare. Ho chiesto all’amministrazione penitenziaria cosa avessero fatto dopo quelle segnalazioni e mi hanno risposto che il Dap aveva chiesto riscontri. Tuttavia, nelle ultime settimane le sollecitazioni del Dap non potevano avere riscontro perché le indagini erano coperte da segreto”. “Non posso dimenticare le immagini di un detenuto costretto a inginocchiarsi per essere colpito, come quelle di un altro in carrozzella. Tutto sotto l’occhio ben visibile della videocamera. Stando alle immagini, risulta che non fosse una reazione a una delle tante rivolte accadute in quei mesi. Era una violenza a freddo. La perquisizione straordinaria del 6 aprile è stata disposta al di fuori dei casi consentiti dalla legge, senza alcun provvedimento del direttore del carcere - unico titolare di quel potere -, dunque secondo il giudice alla base della perquisizione straordinaria ci sarebbe stato un ordine dato verbalmente, al telefono, dopo le rivolte del giorno prima”. Cartabia ha poi confermato che alcuni membri della polizia penitenziaria e il provveditore regionale della Campania sono stati sospesi dal servizio per otto mesi. Un passaggio anche sulla direttrice del carcere, che non è indagata in quanto non presente il giorno dei pestaggi per motivi di salute. “Il totale del personale sospeso è di 75 persone”, ha concluso la ministra prima di ricordare che le indagini preliminari sono ancora in corso. “Quando siamo andati a Santa Maria, il presidente Draghi ha reagito dicendo che questa è una sconfitta per tutti. Bisognava fare qualcosa e abbiamo istituito una commissione ispettiva interna al Dap, che visiterà tutti gli istituti interessati dalle proteste di marzo 2020, al fine di accertare la legittimità di ogni iniziativa presa. L’amministrazione penitenziaria deve saper indagare al suo interno e i fatti di Santa Maria Capua Vetere denotano che forse, in questo caso, quella capacità di indagine interna è mancata”. Cartabia ha poi parlato della situazione di sovraffollamento del carcere di Santa Maria (900 detenuti per 800 posti), oltre al fatto che nell’istituto manca l’acqua corrente (l’allaccio sarà realizzato prossimamente). Per questo motivo, ha spiegato la ministra, bisogna approfittare dei fondi del Pnrr per interventi di ampliamento di diverse carceri italiani, tra cui quella dei pestaggi. “La costruzione di nuovi padiglioni non significa solo costruzione di nuovi posti letto. Nuovi spazi per il trattamento dei detenuti servono e ci saranno”. Cartabia si è poi soffermata sulla formazione del personale del carcere: “Non bastano le doti personali. Ci vuole professionalità, perché spesso in carcere ci si trova ad affrontare situazioni di crisi, molto diversificate l’una dall’altra. Il governo ha visto, sa e non dimenticherà”. L’informativa in ritardo - Ma perché, se il primo video dei pestaggi è stato pubblicato il 29 giugno e addirittura la prima notizia dei pestaggi - pubblicata da Domani - è del 28 settembre 2020, la ministra si reca solo oggi in Parlamento per dare la sua versione dei fatti? Dal ministero della Giustizia hanno spiegato che non è stata cattiva volontà, ma un problema di agenda: Cartabia ha chiesto al ministro per i Rapporti con il parlamento, il Cinque stelle Federico d’Incà, di fissare una data. Tuttavia, secondo la versione del ministero, a causa impegni della ministra e della stessa aula di Montecitorio, il primo giorno disponibile era quello di oggi. L’indagine giudiziaria sui fatti avvenuti nell’istituto penitenziario Uccella inizia un anno fa, a giugno 2020, e già dopo tre mesi, a settembre, si sapeva che agli atti dell’inchiesta c’erano anche i video delle telecamere di videosorveglianza, che gli agenti coinvolti nei pestaggi non erano riusciti a far sparire. Nello Trocchia, infatti, ne scrive già il 28 settembre in un articolo pubblicato da questo giornale. Tra la fine di settembre e ottobre 2020, Trocchia è il primo a mettersi in contatto con alcuni degli ex detenuti vittime di violenza. Gli agenti indagati erano un centinaio con accuse di tortura, violenza privata e abuso di autorità. Le indagini proseguono, ma nessuno si muove: la notizia non fa notizia sugli altri media. Sempre Trocchia denuncia il silenzio istituzionale, è il 1° ottobre 2020: la giustificazione del ministero della Giustizia è che le indagini sono coperte da segreto, nessuno commenta. Nei giorni della protesta pacifica dei detenuti nel padiglione Nilo, il 5 aprile 2020, si scrive che nessuno degli agenti ha subito aggressioni da parte dei carcerati e che la tensione è stata gestita e tenuta sotto controllo dai poliziotti in turno. A giugno 2020, quando la procura inizia a indagare sui presunti pestaggi, ipotizzando anche il reato di tortura, la protesta pacifica diventa per la stampa “accesa”, si parla di caos e di due agenti feriti. Le notizie sono: Salvini che già allora si schiera apertamente dalla parte degli agenti e Bonafede, allora ministro della Giustizia, che fa un “blitz” al carcere di Santa Maria Capua Vetere per annunciare l’arrivo di nuovi magistrati. A distanza di mesi, lo scorso 28 giugno, 52 agenti vengono raggiunti da diverse misure cautelari. L’indagine è chiusa. Il giorno dopo, Domani pubblica le immagini dei pestaggi per la prima volta, dopo aver seguito per nove mesi le indagini: nessuno può più voltarsi dall’altra parte, dalla politica alla stampa. Il carcere dopo la mattanza. Le parole nobili non bastano di Franco Corleone L’Espresso, 21 luglio 2021 Il Presidente Draghi e la ministra Cartabia hanno espresso con estrema chiarezza la condanna per la violenza esercitata contro detenuti inermi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Purtroppo non si tratta dell’unico episodio, perché le inchieste della magistratura riguardano diciotto prigioni. L’indignazione morale e il richiamo alla Costituzione e allo stato di diritto devono costituire la base per provvedimenti che incidano in profondità sui motivi dello scatenamento di pulsioni sadiche e soprattutto determinino un cambiamento radicale per garantire diritti e dignità. Il tempo delle decisioni deve essere rapido. Troppi giorni sono trascorsi senza una iniziativa. L’evocazione di aumentare gli spazi delle misure alternative al carcere è ovviamente condivisibile, ma è davvero incomprensibile che non si pensi di mettere mano alla legge antidroga che provoca la presenza della metà dei detenuti in carcere. Una sola legge, connotata da ideologia salvifica e punitiva, causa il sovraffollamento che è alla base della invivibilità degli istituti penitenziari. Per dare il segno di un cambiamento di paradigma, occorrerebbe togliere dal cassetto della Commissione giustizia del senato la proposta elaborata dalla Società della ragione e dai garanti dei diritti dei detenuti per affermare affettività e relazioni intime nelle carceri. Se vi sarà una riforma della giustizia, anche modesta, sarà difficile che non si metta in campo una scelta a favore di un provvedimento di amnistia e indulto; per questo il Parlamento deve affrontare la modifica dell’art. 79 della Costituzione per rendere agibile uno strumento da usare con parsimonia e con un nuovo statuto. Una proposta di legge è disponibile. Infine il Parlamento deve rispondere alla Corte Costituzionale che ha dichiarato l’ergastolo ostativo contrario alla Costituzione e per aiutare la riflessione è disponibile da pochi giorni il volume “Contro gli ergastoli” pubblicato da Futura, curato da Anastasia, Corleone e Pugiotto con prefazione di Valerio Onida. Una agenda sul piano legislativo non manca dunque. Sul piano amministrativo e di prassi innovative, basterebbe un progetto di realizzazione di tutte le norme disapplicate presenti nel regolamento penitenziario del 2000 e una ristrutturazione architettonica degli edifici per garantire almeno salute e servizi igienici decenti. Sarebbe ora di ripensare il sistema premiale che mostra la corda e valutare la utilità della presenza di un Corpo di polizia penitenziaria così pervasivo. È il momento di rafforzare i compiti e il ruolo del personale civile, soprattutto educativo e di direzione, secondo il modello spagnolo. Infine sul piano culturale è davvero improcrastinabile una rilettura del senso della pena, che non rappresenti una pura vendetta, ma contrasti il processo di incattivimento della società. C’è molto da fare. Servono energie, intelligenze, capacità. Soprattutto la volontà di produrre discontinuità e una svolta radicale. Lasciate che la Costituzione scacci gli orrori dalle carceri di Augusto Cavadi* zerozeronews.it, 21 luglio 2021 È importante che un Presidente del Consiglio dei Ministri, affiancato dalla Ministra della Giustizia, dica chiaro e tondo che gli episodi di violenza sui detenuti non sono incidenti imprevedibili, ma esito logico di un sistema difettoso sin dall’impostazione. Ancora più importante, però, sarà che da queste dichiarazioni si passi ad interventi legislativi e amministrativi concreti. I principi costituzionali ci sono già, a partire dal terzo comma dell’articolo 27 (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”), ma - come sappiamo - le norme restano inefficaci sino a quando non entrano nella mentalità e nella prassi dei cittadini. Anche in questo ambito, invece, la cultura dominante è vistosamente arretrata e stenta a recepire gli insegnamenti dell’Illuminismo e delle democrazie liberali. Decine di associazioni di volontariato, in Italia, lavorano da anni per recuperare questo ritardo, ma devono affrontare resistenze e diffidenze di vario genere: i dirigenti degli istituti di reclusione e gli agenti di polizia penitenziaria, infatti, non amano sguardi estranei dentro le mura di cinta (dove, per altro, troppo spesso le leggi dello Stato vengono disattese proprio dai suoi rappresentanti). Preferiscono che il cerchio tradizionalmente chiuso - costituito da vigilanti e vigilati - non subisca interferenze da parte di potenziali testimoni ‘terzi’. Invece è proprio questo circolo vizioso che va spezzato, potenziando e integrando la presenza della società davvero civile, a beneficio dei detenuti e dei loro custodi. Dei detenuti perché, se non gli si offre qualche occasione di ripensamento e di impegno riabilitativo, usciranno dal carcere incattiviti: nel libro “Filosofare in carcere. Un’esperienza di filosofia-in-pratica all’Ucciardone di Palermo” (Diogene Multimedia, Bologna 2016) ho raccontato alcune di queste iniziative di confronto dialogico su basi di pari dignità. A beneficio degli agenti di Polizia penitenziaria perché il loro lavoro è tanto delicato quanto stressante: andrebbero selezionati e formati in una logica relazionale, psico-pedagogica, più che di repressione. Tra di essi ce ne sono già alcuni di grande umanità; ma non mancano altri che esprimono contrarietà alle “troppe occasioni di divertimento” che il volontariato offre a persone “meritevoli solo di punizioni e sofferenze”. Il livello di civiltà di una società si misura sulla qualità della vita nelle scuole, negli ospedali e nelle carceri: qualità che dipendono certamente da strutture e regolamenti, ma prima di tutto ed essenzialmente dalla mentalità complessiva e dalla professionalità specifica degli insegnanti, degli operatori sanitari e del personale di custodia. *Presidente della Scuola di formazione etico-politica Giovanni Falcone di Palermo Le nuove regole per un carcere moderno secondo Antigone di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 luglio 2021 “È arrivato il momento che il governo approvi nuove regole che modernizzino la vita carceraria. Antigone a tal fine ha elaborato e proposto un nuovo regolamento penitenziario che prevede più possibilità di contatti telefonici e visivi, un maggiore uso delle tecnologie, un sistema disciplinare orientato al rispetto della dignità della persona, una riduzione dell’uso dell’isolamento, forme di prevenzione degli abusi, sorveglianza dinamica e molto altro”. Queste le dichiarazioni di Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, associazione che ad oltre 20 anni dall’approvazione del regolamento attualmente in vigore (avvenuta il 20 settembre del 2000) propone una riforma dello stesso che, affiancando la legge penitenziaria, può favorire un netto avanzamento della vita interna verso una pena costituzionalmente orientata. “Con competenza e lungimiranza - prosegue il presidente di Antigone -, quel regolamento proponeva un’idea di detenzione fondata sul rispetto della dignità della persona e sul progressivo riavvicinamento alla società esterna - prosegue Gonnella. Una parte delle norme ha sicuramente contribuito ad elevare gli standard di detenzione nel nostro Paese; un’altra parte però necessita una rivisitazione alla luce dei tanti cambiamenti normativi sociali, culturali, legislativi, tecnologici intervenuti negli ultimi due decenni; infine una terza parte (quella che prevedeva interventi di tipo strutturale) richiede ancora piena attuazione”. Infine Gonnella conclude: “Un nuovo regolamento, efficace e in linea con l’attualità dei tempi, significa garantire tanti diritti alle persone detenute: dal diritto alla salute, al diritto ai contatti con i propri affetti, ai diritti delle minoranze in carcere (stranieri, donne), ai diritti lavorativi, educativi, religiosi”. Ma che cosa prevede la proposta di Antigone inviata al presidente del Consiglio Mario Draghi, alla ministra della Giustizia Marta Cartabia e ai parlamentari della commissione Giustizia di Camera e Senato? Partiamo dalla tutela della salute delle persone detenute. Secondo Antigone, la questione richiede una generale armonizzazione delle norme con la riforma della sanità penitenziaria (D. Lgs 22 giugno 1999, n. 230), la normativa sul superamento degli Opg (L. 81/ 2014), l’art. 11 Ord. Pen. - come riformato ex D. Lgs 2 ottobre 2018, n. 123. Si evidenzia in particolare la necessità di recuperare, almeno parzialmente, le proposte svolte sul diritto alla salute in carcere sia dagli Stati Generali dell’Esecuzione penale (Tavoli 10 e 11) sia dalla “Commissione per la riforma del sistema normativo delle misure di sicurezza personali e dell’assistenza sanitaria in ambito penitenziario”. Tra i punti della questione sanitaria, c’è il trasferimento in luogo esterno di cura: secondo l’associazione va abrogato il riferimento al requisito dell’”estrema” urgenza ex art. 17 c. 8 Reg. Esec., riferendosi solamente all’ “urgenza”. Va poi previsto l’obbligo per il direttore dell’istituto, congiuntamente al responsabile sanitario, di segnalazione scritta all’Autorità giudiziaria competente (prevista dall’art. 11 c. 4 ord. pen) dei casi di persone detenute e internate patologiche per cui si ritengano inadeguati i servizi e le attrezzature sanitarie del carcere. C’è anche la questione della salute mentale. Secondo Antigone, occorre istituire, per ogni istituto, un Tavolo permanente per la salute mentale composto dalle figure apicali dell’istituto, dai referenti sanitari, dai rappresentanti del Dipartimento per la salute mentale, dal Garante territoriale per le persone private della libertà, da una rappresentanza del volontariato penitenziario. Il Tavolo, presieduto dal direttore, si dovrà riunire con cadenza almeno mensile e dovrà verbalizzare tutte le sedute. Si occuperà di: monitorare le diagnosi psichiatriche, supervisionare la gestione degli eventi critici legati ad acuzie psichiatriche, stabilire la collocazione delle persone detenute e internate affinché siano garantite le migliori cure, valutare richieste di trasferimenti, organizzare gli aspetti gestionali dell’Articolazione per la salute mentale, se presente in istituto. Norme a tutela delle detenute per evitare discriminazioni Le donne sono una minoranza nelle carceri che sono già pensate al maschile, per questo va fatta una norma ad hoc per le detenute. Tra le varie proposte di riforma che Antigone ha trasmesso alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, c’è anche quella riguardante le recluse. L’associazione Antigone sottolinea il fatto che il regolamento di esecuzione deve dettagliare le azioni positive che le autorità penitenziarie devono mettere in campo al fine di garantire i diritti delle donne detenute e internate e rimuovere ogni ostacolo che risulti in una discriminazione di fatto di tale minoranza. In particolare, si legge nel documento inviato al governo, il regolamento deve espressamente favorire l’organizzazione di attività comuni tra uomini e donne in quegli istituti a prevalenza maschile che ospitano sezioni femminili, “così da scongiurare il pericolo di ozio forzato per le poche donne ristrette”. Inoltre, il regolamento deve imporre alle autorità penitenziarie la stipula di protocolli d’intesa con le altre autorità coinvolte nel percorso carcerario, primo tra tutti il Miur per quanto riguarda i corsi scolastici, al fine di organizzare in ogni ambito attività declinate per moduli brevi e compatibili con le pene ridotte che tendenzialmente caratterizzano la detenzione femminile. Antigone evidenza che la considerazione della breve permanenza in carcere deve essere indotta anche presso le autorità sanitarie, che le autorità carcerarie devono sensibilizzare sia per quanto riguarda la prevenzione delle malattie tipicamente femminili - prevenzione per cui il periodo detentivo può costituire un’occasione sia per quanto riguarda la presa in carico psicologica che deve necessariamente trovare una continuità dopo il ritorno alla vita libera. Inoltre, sempre secondo Antigone, è necessario prevedere in ogni istituto penitenziario che ospita donne detenute e internate la possibilità di consultare uno sportello di orientamento al lavoro specializzato in mercato lavorativo femminile, di cui anche la formazione professionale deve tener conto. “Le attività organizzate nelle carceri e sezioni femminili non devono avere un carattere stereotipato: il regolamento deve esplicitare che le donne hanno il diritto di partecipare alle medesime attività culturali, ricreative, sportive che vengono proposte agli uomini detenuti e internati”, si legge nel documento dove ci sono proposte per una riforma sostanziosa dell’esecuzione penale. Al Parlamento interessa l’ergastolo “ostativo”? di Alfredo Mantovano* interris.it, 21 luglio 2021 Sono trascorsi tre mesi da quando la Corte costituzionale ha ritenuto, con l’ordinanza n. 97/2022, il contrasto fra gli art. 3 e 27 della Costituzione e la disciplina dell’esclusione dalla liberazione condizionale del condannato all’ergastolo per omicidi o stragi di mafia. La Consulta tuttavia non ha dichiarato subito l’illegittimità del regime carcerario duro per i mafiosi: ha rinviato l’esame delle questioni al 10 maggio 2022, per consentire al legislatore di intervenire con una legge che tenga conto “della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie”. In tre mesi il Parlamento non ha neanche sfiorato il tema: se andrà così fino alla scadenza del termine indicato, non ci si dovrà stracciare le vesti quando il Giudice delle leggi cancellerà larga parte del c.d. 41 bis. La questione è complessa, dal punto di vista giuridico e politico: mentre i condannati all’ergastolo “comuni” possono aspirare di essere ammessi alla liberazione condizionale dopo 26 anni di reclusione (in realtà 20 anni, per le riduzioni previste dall’ordinamento penitenziario), se i medesimi delitti sono aggravati dal metodo o dalla finalità mafiosi, la possibilità non esiste, a meno che il condannato non collabori con la giustizia. Gli ergastolani non collaboranti non possono accedere a nessun beneficio penitenziario come permessi premio, semilibertà, detenzione domiciliare e affidamento in prova al servizio sociale. La collaborazione con la giustizia è premiata perché attesta il distacco dall’area criminale di appartenenza, attraverso l’aiuto che il collaborante fornisce allo Stato per far catturare e condannare i responsabili dei delitti più gravi. Più volte, anche in anni recenti, la Corte costituzionale ha avanzato il dubbio che la scelta di collaborare sia sempre “libera”, poiché chiamare in causa terzi pone a serio rischio il detenuto, e i suoi parenti in libertà. La Consulta però non ha tratto le conseguenze dei principi più volte affermati e ha sollecitato l’intervento del legislatore, cui riconosce la titolarità delle scelte di politica criminale che una sentenza di illegittimità costituzionale per un verso non ha competenza a fare, per altro verso non è in grado di fare senza squilibrare il sistema. La Corte invita in sostanza il Parlamento a redigere una legge che per faccia emergere “le specifiche ragioni della mancata collaborazione”: la normativa che impedisce di concedere la liberazione condizionale agli ergastolani non collaboranti sarebbe legittima, secondo l’argomentazione della Corte, purché preveda la possibilità di tenere conto delle “specifiche ragioni” che impediscono al detenuto di collaborare. Presupposto di ammissibilità della domanda di liberazione condizionale dovrebbe essere la non sottoposizione al regime di cui all’art. 41 bis ord. pen., e cioè la riscontrata assenza di comprovati collegamenti con un’associazione criminale. Inoltre il detenuto deve avere seguito durante il tempo di esecuzione della pena un comportamento tale da “far ritenere sicuro il suo ravvedimento”; la valutazione spetta nello specifico al Tribunale di Sorveglianza e deve essere certa, non probabilistica (per una completa disamina cf. https://www.centrostudilivatino.it/lergastolo-ostativo-dopo-lintervento-della-corte-costituzionale/). Tutto questo esige una ricostruzione normativa attenta, nel difficile equilibrio fra le esigenze di sicurezza e il rispetto dei diritti. Un Parlamento che ometta di intervenire si assumerebbe la responsabilità, per l’ennesima volta, di lasciare la scelta alla Consulta, la cui annunciata sentenza di illegittimità non potrebbe non essere traumatica. È una prospettiva che va evitata. *Vicepresidente Centro Studi Rosario Livatino Migranti senza diritti nella “prigione” di Milano di Federico Marconi Il Domani, 21 luglio 2021 Il 5 e 6 giugno i senatori De Falco e Nocerino hanno visitato il Cpr del capoluogo lombardo e hanno visto come vivono i “trattenuti” in attesa di rimpatrio: “Un carcere per persone innocenti, senza regole né diritti”. Il 25 maggio c’era stata una protesta con otto migranti rimasti feriti dopo l’intervento delle forze dell’ordine nel Cpr. Diritti sospesi, mancanza di operatori, documenti non redatti, e gravi rischi per la salute, come la mancanza di un’assistenza per i tossicodipendenti, la scarsa igiene dei bagni, la qualità dei pasti. È quanto emerge dal rapporto Delle pene senza delitti, una “istantanea” del Centro di permanenza per il rimpatrio di via Corelli a Milano. La struttura ha lo scopo di “trattenere” gli stranieri destinati all’espulsione in attesa dell’esecuzione di tale provvedimento. Il rapporto nasce dalla visita del 5 e 6 giugno 2021 dei senatori Gregorio De Falco e Simona Nocerino, accompagnati dagli attivisti di Mai più lager-No ai Cpr. Non una visita a sorpresa, ma preannunciata con un giorno di anticipo. Nel Cpr milanese nei giorni dell’ispezione erano collocate 51 persone, alcune anche da sei mesi. Il documento fotografa una situazione impietosa: si parla di “inadempienze e superficialità del gestore” che si riverberano sui diritti dei trattenuti. Diritti “violati” su cui il controllo della prefettura è scarso se non nullo. Il centro nel rapporto viene descritto come “una struttura carceraria per persone innocenti, ma con ancora meno diritti e meno regole che in carcere”. Una struttura “dove si capita senza che venga celebrato alcun processo”. La “smazzoliata” - La visita dei due senatori scaturisce dai “fatti del 25 maggio”. Il giorno prima, al Cpr di Torino, si era tolto la vita Moussa Balde, 23enne originario della Guinea, dove era stato trasferito e messo in isolamento dopo aver subito un pestaggio a sangue da parte di tre italiani a Genova. Il 25 maggio, nella struttura milanese, ha avuto luogo una “smazzoliata”. I “trattenuti” hanno protestato per la mancanza di biscotti a colazione. Poi la situazione è degenerata e sono intervenuti una ventina di agenti in tenuta antisommossa che avrebbero picchiato i protestanti in una zona del centro in cui mancavano le telecamere. Otto “trattenuti” avrebbero riportati ferite. La sera sarebbe stato appiccato anche un incendio, e nei giorni successivi molti “ospiti” hanno iniziato uno sciopero della fame. Alcuni detenuti sono stati denunciati, ma il tribunale di Milano ha respinto la richiesta di custodia cautelare. Il giudice scrive che le condizioni in cui vivono nel Cpr “meriterebbero un approfondimento” e che “se le denunce rispondessero al vero, sarebbero ben oltre il limite della legalità”. I “trattenuti” infatti parlano di cibo scaduto, mancanza di acqua calda, impossibilità di contattare i parenti, pestaggi delle forze dell’ordine. Situazioni che, come scrive lo stesso gestore del centro al prefetto il 26 maggio, “oltre ad aumentare inevitabilmente il tasso di agitazione e nervoso” incidono sulla “salute psicologico-psichiatrica” dei migranti: “Un luogo che avrebbe come scopo unico il rimpatrio a oggi non rimpatria e provoca esplicitamente danno alla salute dei trattenuti”. La storia di L.A. - I turbamenti provocati dalla detenzione sono evidenti nella storia di L.A.. Ingestione di lamette, di stoffa, di pezzi di ferro, la cucitura delle labbra con un filo di metallo, tagli e fratture: il migrante si è inflitto tutto questo da solo, subito dopo il suo “collocamento” nel Cpr milanese. Atteggiamenti dovuti a un forte disagio psicologico che avrebbero potuto provocare danno anche agli altri “ospiti”. Per questo dal 10 marzo al 2 giugno è stato sottoposto a un Tso. Subito dopo, L.A. è stato dimesso dal Cpr per la “non compatibilità della sua situazione con la condizione del trattamento”. Da allora di lui si sono completamente perse le tracce: non aveva un cellulare, e anche il suo avvocato non ha avuto più notizie. Quello di L.A. non è un caso isolato: “In questa terra di mezzo del diritto alla salute e alla difesa in condizioni di privazione della libertà individuale, come visto, gli atti di autolesionismo sono numerosissimi ogni singolo giorno, e non è raro assistere a macabre scene di pavimenti insanguinati per metri”, è scritto nel rapporto. “È stato sufficiente entrare a colloquio nei settori abitativi dove sono reclusi i trattenuti per rendersi conto, a colpo d’occhio, che almeno la metà di questi ultimi riportava sulle braccia, sul volto, sul collo, segni di tagli autoinfertisi, arti fasciati o tentativi di impiccagione”. Le lacune nei protocolli - Nel Cpr di Milano sono tante le lacune gestionali che si tramutano in libertà negate e in condizioni di vita pessime per i detenuti. La “lacuna più grave” è la mancanza di un protocollo di intesa tra prefettura e la Asl, che permetta di valutare in maniera imparziale le condizioni di vita dei “trattenuti”, di vigilare sulle attività sanitarie e sullo stato di conservazione e di somministrazione dei pasti, di erogare visite specialistiche in caso di bisogno. Il 24 giugno, su richiesta del senatore De Falco, la prefettura ha risposto che “il citato protocollo con strutture sanitarie di cui all’art. 3 del Regolamento Cie 2014 non è stato sottoscritto poiché la direzione generale Welfare di regione Lombardia non ha ritenuto di dover sottoscrivere”, aggiungendo però che “stata comunque assicurata da Ats Milano e dalle strutture sanitarie territoriali, la necessaria assistenza sanitaria ai trattenuti”. Non c’è nemmeno un supporto per le persone tossicodipendenti: manca infatti un protocollo con le strutture pubbliche. Gli effetti sono terribili per la salute dei “trattenuti”: chi entra, nonostante dichiari la sua dipendenza, non viene aiutato con una terapia con il metadone. Il risultato: “Plurime situazioni di stress, crisi di astinenza, autolesionismo” che “vengono malamente gestite attraverso la somministrazione di farmaci tranquillanti in dosi massicce”, senza il supporto di specialisti. Nel report viene evidenziata anche la presenza di uno spaccio “con prezzi per nulla accessibili e superiori rispetto a quelli di un supermarket” che lascia immaginare che “vi sia un ricarico sulla merce venduta, a vantaggio del gestore” e che “non è risultato per nulla chiaro se e in che misura tali vendite di prodotti siano regolarmente assoggettate agli oneri fiscali di legge”. I “trattenuti” sono quasi costretti a ricorrere allo spaccio: lamentano che il cibo della mensa è scarso e, quando non scaduto, avariato. Quello che i “trattenuti” acquistano è con il loro “pocket money” giornaliero di 2,50 euro: allo spaccio possono comprare solo una bottiglia di Coca Cola o mezza tavoletta di cioccolato. Giustizia, Conte alza i toni: “Migliaia di processi in fumo. Non possiamo permetterlo” di Emanuele Lauria e Liana Milella La Repubblica, 21 luglio 2021 Valanga di emendamenti per cambiare il testo del governo. Quasi mille firmati Cinque Stelle. “L’ho detto a Draghi: c’è un limite che il Movimento non può oltrepassare”. Giuseppe Conte riunisce parlamentari e deputati e prova a rassicurarli: la riforma della giustizia non tradirà i principi dei 5S. L’avvocato riferisce dell’incontro avuto con il premier Draghi: “Ho fatto un discorso chiaro. A volte alcuni toni gridati hanno schiacciato l’immagine dei Cinquestelle, siamo passati per manettari, forcaioli. Ma noi sappiamo esprimere una solida cultura giuridica. E rivendichiamo con forza lo stato di diritto. I nostri fari saranno la presunzione di innocenza e il principio della durata ragionevole del processo”. Conte dice che i 5S “non difendono una bandiera ideologica”. “Noi - sottolinea - avremmo scritto una riforma diversa anche se siamo pronti a dialogare. Ma c’è un limite che non possiamo sorpassare: non possiamo permettere che svaniscano nel nulla migliaia di processi. Non possiamo permettere che vittime di reato rimangano senza giustizia”. E arrivano gli applausi più sentiti dai parlamentari. “Ho invitato quindi Draghi ad ascoltare gli addetti ai lavori - prosegue Conte nella riunione di Montecitorio - Sono loro a condividere la nostra forte preoccupazione. Sono contento che alcune forze di maggioranza si stiano accorgendo dei rischi. Il principale è che venga a mancare la fiducia dei cittadini nello Stato”. Davanti al “suo” nuovo popolo l’ex presidente del Consiglio tocca le corde più sensibili, accarezza temi identitari. Va incontro ai tanti che chiedono norme più rigide sulla prescrizione: “L’improcedibilità non velocizza i processi ma li incarta”, era stata, in apertura di assemblea, la posizione espressa dal capogruppo al Senato Andrea Licheri. Ma la strada per un’intesa è stretta: non aiutano i 917 emendamenti presentati proprio da M5S in commissione Giustizia, sotto la regia dell’ex ministro Alfonso Bonafede. Una montagna, rispetto ai 21 del Pd e agli 11 della Lega. E dentro c’è di tutto: se passassero scomparirebbe la riforma Cartabia. A cominciare dall’entrata in vigore, il primo gennaio 2025. E poi via l’improcedibilità, 4 anni per l’appello anziché 2, e due per la Cassazione anziché uno. E quanto ai reati eliminare del tutto la lista di quelli per cui scatta la prescrizione, oppure allargarla tantissimo. Bocciata del tutto l’ipotesi che tocchi al Parlamento decidere su quali reati indagare. Sarebbe incostituzionale. Ma Draghi e Cartabia trattano e non rinunciano di certo all’impianto della riforma. Tutt’altro. Dice Cartabia ai suoi: “Gli aggiustamenti tecnici erano stati già stati previsti a palazzo Chigi”. Niente stravolgimenti, né tantomeno cambiamenti di sostanza. Basterà al Conte che ha mostrato i muscoli davanti ai suoi parlamentari? La Guardasigilli continua a tessere la sua tela, mandando messaggi ai partner della maggioranza. Alle toghe che incontra a Napoli dice con verve: “Troveremo il modo per risolvere i problemi”. E ancora: “Le decine di migliaia di processi che già oggi vanno in prescrizione sono una sconfitta dello Stato”. Serve una giustizia “in tempi ragionevoli”. Ma quei “tempi ragionevoli” che lei disegna vengono bocciati con durezza da due magistrati come il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri e il capo della procura nazionale Antimafia Federico Cafiero de Raho. “Il 50% dei processi finirà sotto la scure della riforma”, dice Gratteri. Cafiero adombra “conseguenze sulla democrazia del Paese, se tanti processi diventeranno improcedibili minando la sicurezza dello Stato”. Impossibile non cercare nuove mediazioni, dopo queste parole. Si studiano possibili modifiche: allargare la lista dei reati per cui non vale il limite dei due anni. Ancora: eliminare del tutto la lista dei reati e lasciare ai giudici la scelta di decidere se l’appello dura due o tre anni. Comunque, ed è l’ipotesi che piace al Pd, far slittare l’entrata in vigore della legge di un anno quando le assunzioni di cancellieri e magistrati saranno operative. Ma i tempi per il varo della legge sono strettissimi. Giustizia, i 5 Stelle non arretrano. Cartabia nemmeno di Andrea Colombo Il Manifesto, 21 luglio 2021 La guerra degli emendamenti. I pentastellati presentano 917 proposte di modifica. La ministra: “Lo status quo non è un’opzione sul tavolo”. La carta che i grillini tengono coperta sarebbe un drastico innalzamento dei termini prima dell’improcedibilità. La guardasigilli Marta Cartabia non ha alcuna intenzione di rimettere mano a una riforma della quale non è in realtà soddisfatta. La considera già sin troppo snaturata dalla mediazione con i 5S, che la ha costretta ad annacquare le proposte della commissione Lattanzi su riti e pene alternative, cioè tutta la parte che mirava alla deflazione dei processi. Forse alla fine qualche piccola modifica in nome della ragion politica la accetterà ma l’offensiva mirante a smantellare l’impianto della riforma sbatterà sulla sua opposizione. La ministra lo aveva detto subito dopo l’incontro fra Conte e Draghi, chiarendo appunto che la riforma è già molto diversa da come la avrebbe voluta. Ieri, mentre i 5S galvanizzati dal procuratore Gratteri, quello dei 155 arresti e 8 condanne a Platì, dei 334 arresti e 7 condanne nell’inchiesta Nema, presentavano 916 emendamenti sulla riforma e altri 917 solo sulla prescrizione, la ministra della Giustizia ha rincarato la dose: “Le forze politiche spingono in direzioni diametralmente opposte ma questa riforma deve essere fatta perché lo status quo non può rimanere tale. So che i termini indicati sono esigenti ma sono quelli che il nostro ordinamento e l’Europa definiscono come termini della ragionevole durata del processo”. La ministra è consapevole di trovarsi di fronte a un attacco il cui obiettivo, nonostante le parole alate di Conte all’uscita del colloquio con Draghi, non è apportare lievi modifiche tecniche ma ripristinare, soprattutto sulla prescrizione, la riforma Bonafede. Del resto c’è un Conte per tutte le stagioni. Parlando con i collaboratori più stretti, prima di rivolgersi ieri sera agli eletti a cinque stelle, ha usato toni sideralmente distanti da quelli squadernati all’uscita di palazzo Chigi. “Non ci si può accontentare di ritocchi”, ha detto in sintesi. Bisogna mirare al bersaglio indicato dai procuratori: eliminare l’improcedibilità. Cioè abbattere di nuovo la prescrizione e tornare alla Bonafede. In un certo senso, l’ex premier è tra due fuochi. Non vuole rompere e arrivare a uno scontro frontale con Draghi per il quale non è pronto e forse non lo sarà mai. Ma è pressato da un intero mondo, non limitato alla base grillina, che preme per la dichiarazione di guerra. I magistrati alla Gratteri che ieri hanno regalato alla truppa pentastellata la parola d’ordine: “Così converrà delinquere”. L’esterno/interno Di Battista, che martella: “Sono tornate le porcate immonde come la riforma Cartabia. Complimenti ai ministri 5S che l’hanno votata”. Il Fatto, che scrive addirittura di una contrarietà del Quirinale alla riforma mentre il Colle ritiene che il testo Cartabia non presenti alcuna criticità. In questo clima, che non autorizza certo a scommettere su alcun accordo, arrivano in due diverse ondate gli emendamenti alla riforma in commissione. Quelli sui quali si dovrà cercare un punto d’incontro, per evitare lo scontro frontale nella maggioranza, sono firmati dai 5S. Indicano tre vie d’uscita possibili. La prima è il ritorno rimaneggiato della Orlando, con la prescrizione sospesa per due anni dopo il primo grado e per un anno dopo l’appello, però a decorrere dal primo gennaio 2024 e non 2020: qualche cambiamento si inizierebbe a vedere tra un decennio o giù di lì. La seconda è il lodo Conte, con allusione al deputato di LeU Federico: prescrizione eliminata ai sensi della Bonafede ma solo per i condannati in primo grado, non per gli assolti. La terza via, l’unica che mantenga l’eventuale “improcedibilità” di un processo presente nella Cartabia, si limita a far slittare i tempi del conto alla rovescia. Partirebbe con la prima udienza dei processi d’appello o di Cassazione e non dalla data d’impugnazione. In realtà la carta di riserva che i 5S tengono ancora coperta sarebbe un drastico innalzamento dei termini prima dell’improcedibilità, nel complesso di 5 anni. Poi c’è il Pd con la sua formula meno drastica: possibilità per il giudice di prorogare di un anno i termini prima che scatti l’improcedibilità per tutte le fattispecie di reato. E c’è LeU, con Federico Conte, che punta sulla possibilità di raddoppiare i tempi dell’appello, da 2 a 4 anni, ma solo per le condanne in primo grado. È uno scontro tecnico, ed è soprattutto uno scontro politico, con la Lega che fa muro, Fi e Iv che tirano a modificare la legge ma in direzione opposta. Sta a Draghi sbrogliare la matassa. Ma è difficile che, senza il ritiro della valanga di emendamenti 5S, dunque in un clima già di guerra, il governo accetti di tentare una nuova mediazione. Il voto sulla riforma prima delle ferie: Draghi pensa alla fiducia di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 21 luglio 2021 Il premier ha sentito la ministra Cartabia dopo la presentazione degli emendamenti. Il governo concederà solo ritocchi al testo. Sospetti sull’asse Pd-Cinquestelle. C’è una data che Mario Draghi intende far rispettare sulla riforma della giustizia, costi quel che costi: il 23 luglio. Per allora chiede un accordo sulle modifiche, mentre esige un via libera della Camera entro le ferie estive. L’altro obiettivo considerato imprescindibile è che l’intesa politica si fondi su circoscritti aggiustamenti tecnici e spazzi via la montagna di emendamenti, oltre novecento, che i Cinquestelle hanno presentato. In assenza di una marcia indietro, metterà la fiducia. E ognuno si assumerà le proprie responsabilità. Non è semplice credere, come sostiene in queste ore il Pd intestandosi una mediazione in salita, che il diluvio di proposte emendative rappresenti solo tattica negoziale 5S. Viene il sospetto che si tratti di un tentativo di tirare per le lunghe l’iter. Magari per aprire una vera e propria corrida parlamentare, a semestre bianco appena avviato. Non sembrano soltanto cattivi pensieri. Una tregua con il Movimento, sottile, è stata messa in piedi ed è stata rispettata anche ieri. A fatica e coinvolgendo Draghi e Marta Cartabia, che si sentono quotidianamente. Il mandato del premier è sempre lo stesso: pochi aggiustamenti tecnici. La Guardasigilli aspetta di capire il punto di sintesi delle diverse anime grilline. Ed è qui che iniziano i problemi. In quei novecento emendamenti c’è di tutto, tanto da apparire una provocazione. Davanti al premier, però, Giuseppe Conte si è impegnato ad avanzare solo idee digeribili, nello stretto perimetro richiesto. Magari usando toni utili a gasare qualche pasdaran, ma sostanzialmente pronto a siglare un accordo. Per poi convincere i suoi a ritirare gli emendamenti, falchi permettendo. E invece, i passi avanti sono pochi. Anche dal Pd, d’altra parte, i vertici dell’esecutivo si aspettavano di più. Le parole di Enrico Letta sulla giustizia avevano lasciato intravedere una mediazione vicina, quasi in tasca. E anche ad Andrea Orlando, che ora veste i panni dell’ambasciatore con i 5S, i vertici dell’esecutivo non possono che ribadire un concetto: i margini restano stretti. Ma su quali basi si tratta? Un possibile punto di caduta è quello di allargare la lista dei reati per cui non vale il limite di due anni in Appello per la prescrizione. L’altra, avanzata dal Pd, prevede di affidare al magistrato la decisione di fissare a due o tre anni il tetto. L’altra ancora è quella di far entrare in vigore la riforma dopo dodici mesi, per dare tempo alla macchina di rafforzarsi con nuove assunzioni. Porta sbarrata, invece, alla proposta Cinquestelle di allargare indistintamente a tre anni in Appello la prescrizione per tutti i reati. Certo è che le dure critiche alla riforma avanzate ieri da procuratori come Nicola Gratteri e Federico Cafiero De Raho non hanno facilitato il compito del governo. Trapela anzi un certo fastidio perché le nuove regole - fanno notare - varranno solo nei processi per reati commessi a partire dal 2020. Dunque, nessun rischio che ne saltino alcuni importanti già in corso da anni. Toccherebbe a Conte, a questo punto, tenere fede agli accordi. Dimostrare, come promesso a Draghi, che una nuova era per il Movimento è alle porte, assai meno giustizialista. Un segnale sembra arrivato ieri, in questo senso, perché ha spostato l’attenzione sul reddito di cittadinanza: “Non consentiremo a nessuno - ha detto - di togliere gli ombrelli di protezione ai più deboli”. E però restano i novecento emendamenti. E quella sintonia con Enrico Letta che l’avvocato ostenta spesso, alimentando altri cattivi pensieri. Si è sparsa voce, ad esempio, che Conte - nonostante le smentite secche - sia intenzionato a entrare in Parlamento. Come? Sostenendo al secondo turno Roberto Gualtieri nella corsa al Campidoglio (se Raggi dovesse fallire l’obiettivo del ballottaggio) in modo da liberare il suo seggio di Roma centro alla Camera. In cambio, avrebbe garantito al Pd il sostegno nella battaglia di Siena, su cui Letta ha puntato esplicitamente. Sospetti o progetti ancora embrionali, chissà. Di certo Draghi non è disponibile ad accettare giochetti, sgambetti, voltafaccia. Finché starà lui a Palazzo Chigi, la riforma si voterà nei tempi previsti. Altrimenti, sembra il non detto, i partiti possono sempre provare a fare da soli. Cartabia sotto assedio. Ma sulla prescrizione la ministra non cederà di Errico Novi Il Dubbio, 21 luglio 2021 Quasi 1.000 emendamenti grillini per tornare al “fine processo mai”. L’improcedibilità è già una mediazione al ribasso, per la guardasigilli. Alla fine la storia la fanno gli uomini, sapete? Le donne e gli uomini. E se sono donne e uomini forti, la storia non prende scorciatoie. Prendete Marta Cartabia. Scienziata del diritto, presidente emerita della Consulta, cattolica di profonda cultura e convinzioni. Immaginate cosa può esserle passato per la testa ieri, quando le hanno mostrato l’agenzia in cui Alessandro Di Battista esordiva: “Sono tornate le porcate come la riforma Cartabia”, e giù un plauso a Gratteri e de Raho che ieri mattina l’hanno bollata quasi come un regalo ai mafiosi. Secondo voi, una cattolica colta, di grande spessore e ora ministra della Giustizia, da frasi del genere può essere intimidita o può convincersi ancora di più ad andare avanti per la propria strada? Dalla risposta al quesito si possono trarre le conseguenze e la sintesi di un’altra giornata di ordinaria follia sulla giustizia, come quella di ieri. E la sintesi è appunto in una guardasigilli che esclude di scavare il fondo della mediazione. “Le forze politiche spingono in direzioni diametralmente opposte ma la riforma va fatta”, dice dal Palazzo di Giustizia di Napoli, nuova tappa del viaggio nelle Corti d’appello. E come va fatta, la riforma? Con il faticoso equilibrio trovato sulla “improcedibilità” dei giudizi troppo lunghi in secondo grado e Cassazione. La ministra, in proposito, spiega: “Lo status quo non può rimanere tale. So molto bene che i termini indicati sono esigenti per queste realtà in cui partiamo da un ritardo enorme”, aggiunge a proposito dei carichi notoriamente himalayani della giustizia partenopea. Però quei termini limite per i processi (2 anni in appello e uno in Cassazione, che diventano 3 e uno e mezzo per mafia, terrorismo e corruzione) “non sono inventati: sono quelli entro i quali il nostro ordinamento e l’Europa definiscono la ragionevole durata del processo, che è un principio costituzionale”. Serve altro? L’arringa di Cartabia in difesa della propria riforma è ricca di argomenti: un processo che non arriva a sentenza è sì “una sconfitta dello Stato: ma lo è” ma, ricorda, “lo è anche una risposta che arriva in tempi non ragionevoli. Tutti i Caino e gli Abele attendono un giudizio severo, giusto e tempestivo: questo è quello che la Costituzione ci chiede e io non ho altre bussole”. E una presidente emerita che giura sulla Costituzione difficilmente può giocare ancora al ribasso. Anche perché l’arringa si conclude con la più suggestiva delle evocazioni: “Non possiamo lasciare alle generazioni future una giustizia che produce mostri come quello di una persona assolta dopo 20 anni”, dice a proposito di tanti casi e di uno in particolare, citato poco prima dal rettore della Federico II di Napoli Matteo Lorito: la vicenda di un professore reintegrato appunto dopo un’assoluzione arrivata in quattro lustri. “Non abituiamoci a innocenze provate dopo 20 anni, sono vite distrutte, e solo una grande tenacia, la resilienza umana possono far rinascere qualcuno dopo essere stato oscurato nella propria dignità e nella propria reputazione per troppo tempo”. Difficile, dopo parole simili, pensare che Cartabia cederà alle urla pentastellate contro le “soglie di impunità” (per l’avvocato Giuseppe Conte un processo che si ferma dopo una quindicina d’anni non è già una fluviale tortura ma un regalo al crimine). La mediazione trovata, per lei, è già al ribasso. Certo, ieri sulla commissione Giustizia della Camera, dov’è in sospeso la riforma penale, sono piovuti oltre mille emendamenti, in gran parte del Movimento 5 Stelle, che tiene alta la posta e propone, com’è ovvio, di lasciare intonsa la norma Bonafede sulla prescrizione. Gli stessi grillini sono usciti rinfrancati dalle parole pronunciate nelle audizioni della mattinata dal procuratore Antimafia Federico Cafiero de Raho e dal capo dei pm di Catanzaro Nicola Gratteri: entrambi parlano, con tono apocalittico, di “minacce alla sicurezza nazionale” nel caso in cui entrasse in vigore la norma sull’improcedibilità. Gratteri in particolare si dice convinto che “il 50 per cento dei giudizi per reati anche gravi, dalle rapine alla corruzione, non si celebrerà”, e che perciò diventerà “ancora più conveniente delinquere”. Da qui la verve pentastellata, che tocca punte irraggiungibili con le “porcate” di cui parla Di Battista e il sit-in dei dissidenti di “L’alternativa c’è”, previsto per stamattina al grido di “non diamo Cartabianca al ministro del’ingiustizia”. Ma pure il comunicato meno galoppante diffuso dai deputati 5S avverte che “la riforma va cambiata”, innanzitutto su “prescrizione e improcedibilità”. E come, di grazia? La mano tesa del Pd si limita a un emendamento che allunga a 3 anni per tutti i reati, fino al 2025, il limite oltre il quale scatta l’improcedibilità in appello (e a 18 mesi il tempo massimo in Cassazione). Il capogruppo dem Alfredo Bazoli fa notare che le sue proposte di modifica si fermano a 19, mentre quelle presentate da “Italia Viva e Forza Italia” sono “rispettivamente 59 e 109”. Quindi si chiede: “Chi è più leale alla riforma Cartabia?”. Sembra anche il segnale che il Nazareno non intende spingersi oltre per attenuare il disdoro pentastellato. Conte regala una fugace battuta sul diluvio di modifiche proposto dal suo Movimento: “L’obiettivo? Offrire una risposta che sia efficace ed equa nell’interesse dei cittadini”. L’impressione è che i 5 Stelle non accetteranno mai un limite di durata massimo per i processi. E che sopporteranno sì l’inevitabile sconfitta in Parlamento, ma solo fino a che il ddl penale non sarà approvato in via definitiva. Visto che ieri la commissione Ue ha diffuso un “Rapporto sullo Stato di diritto” che per l’Italia sembra subordinare il disco verde al completamento delle riforme, tutto lasca credere che i tempi assicurati nel Pnrr saranno rispettati: via libera alle riforme della giustizia entro fine 2021. Che potrebbe anche essere la fine dell’esperienza 5 Stelle al governo. Sulla giustizia Cartabia perde l’appoggio della magistratura di Giulia Merlo Il Domani, 21 luglio 2021 I gruppi associativi, l’Anm e i procuratori sono contrari alla riforma della prescrizione, che farebbe morire molti processi. La nuova prescrizione è una riforma che avrà “conseguenze sulla democrazia del nostro Paese”, ha detto il procuratore antimafia Federico Cafiero de Raho. La ministra però avverte: “Lo status quo non è un’opzione” perché “innocenze provate dopo 20 anni di processo sono vite distrutte”. Il rischio, però, è che la bocciatura categorica delle toghe al ddl penale produca l’effetto di impantanarlo, dando sponda al Movimento 5 Stelle, che punta all’ostruzionismo d’aula e ha presentato mille emendamenti in commissione Giustizia. Il che perpetrerebbe la maledizione della giustizia irriformabile perché schiava di opposte pressioni. Tra il successo della riforma della giustizia e la guardasigilli Marta Cartabia c’è un ostacolo che sembra sempre più insormontabile ed è la magistratura. Il terzo potere dello stato, compatto come non era più dallo scandalo Palamara, si è schierato in blocco contro la riforma penale (in attesa di farlo anche sulla riforma dell’ordinamento giudiziario) e lo ha fatto in tutte le sedi possibili. Hanno espresso criticità i gruppi associativi - sia sul fronte progressista che su quello conservatore -, l’Associazione nazionale magistrati e anche i procuratori delle principali procure ascoltati in audizione alla Camera. E la critica più dura arriverà la prossima settimana dal Consiglio superiore della magistratura, che potrebbe depositare parere contrario al ddl, segnando il primo vero contrasto con il ministero della Giustizia. Proprio questo blocco compatto rischia di rovinare il grande progetto di Cartabia, che contava di approvare la riforma forte dell’appoggio delle toghe, che sta andando a incontrare distretto per distretto nel suo tour delle corti d’appello, iniziato nelle scorse settimane a Milano e arrivato ieri alla terza tappa con Napoli. Il tour aveva l’obiettivo di tessere un filo rosso con i magistrati, presentando le innovazioni della riforma e in particolare quelle che dovrebbero favorirli: la creazione dell’ufficio del processo (una struttura composta da magistrati onorari e tirocinanti che dovrebbero coadiuvare il lavoro dei giudici, in modo da smaltire l’arretrato) ma soprattutto l’assunzione di 16.500 funzionari per tamponare le carenze di organico. Invece, al posto degli applausi, la ministra si è trovata davanti alle dichiarazioni bellicose delle toghe: le ultime in ordine di tempo, quelle del procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho, che in audizione in commissione Giustizia ha parlato della nuova prescrizione come di una riforma che avrà “conseguenze sulla democrazia del nostro Paese”, perché “in alcuni distretti due anni trascorrono solo per fissare l’udienza” e quindi “tanti processi diventeranno improcedibili minando la sicurezza dello Stato”. Ecco dunque la maledizione degli ultimi tre governi: la prescrizione, che esaspera il dibattito politico e ora anche la dialettica tra esecutivo e magistratura, nonostante la riforma targata Cartabia sia la sintesi di un lavoro di revisione del testo base prodotto dalla commissione di esperti presieduta dall’ex magistrato e giudice costituzionale Giorgio Lattanzi. A preoccupare le toghe, in particolare, è la scelta (tutta politica, giustificata dall’impossibilità di toccare la riforma Bonafede) di dividere la prescrizione: sostanziale in primo grado; processuale in appello e cassazione. Tradotto: il processo di primo grado deve rimanere entro i tempi della prescrizione, che poi si interrompe. Negli altri due gradi, invece, i tempi sono fissi: due anni in appello e uno in cassazione (che diventano tre e 18 mesi per alcuni reati gravi), oltre i quali scatta l’improcedibilità, che significa la “morte” del processo per eccesso di durata. Un meccanismo, questo, che è stato definito dal presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia “motivo di preoccupazione” perché “è facile prevedere che in molti casi le Corti di appello non riusciranno a rispettare quei tempi ristretti. L’effetto sarà che andranno in fumo molti processi”. La stessa preoccupazione è che è stata espressa anche dal gruppo progressista di Area, che ha chiesto “un ripensamento di questa disposizione, se non si vuole che la maggior parte del lavoro giudiziario in primo grado sia condannato a finire nel nulla”. Sulla stessa linea anche i conservatori di Magistratura indipendente secondo cui “la previsione di tempi perentori di durata, decorsi i quali il processo si estingue, costituisce un regime estraneo alla nostra tradizione giuridica” e sono termini “impossibili da rispettare”. Il rischio per il governo - Le contestazioni specifiche sul tema della prescrizione sarebbero tecnicamente giustificate dai numeri: attualmente solo 10 corti d’appello su 29 riescono a rimanere nei due anni. Tuttavia - sostiene chi appoggia l’impianto della riforma - la riforma va letta per intero e non solo le righe dell’emendamento sulla prescrizione. Il ddl penale, infatti, è stato pensato per snellire la macchina del processo penale attraverso un potenziamento della giustizia riparativa, dei riti alternativi, la semplificazione delle notifiche e il potenziamento dei procedimenti informatizzati, oltre che la parallela assunzione di personale. In questo modo la durata del processo dovrebbe accorciarsi e diventare “ragionevole”, senza arrivare alla prescrizione che deve tornare ad essere una patologia processuale. In sintesi: l’obiettivo è ridurre la durata dei processi attraverso un intervento complesso, non salvarli tutti anche se questo significa costringere il cittadino a passare decenni sotto processo perché la macchina non funziona. È la ministra stessa, infatti, a ribaltare il discorso: “Lo status quo non è un’opzione sul tavolo” perché “innocenze provate dopo 20 anni di processo sono vite distrutte”. Tuttavia, constatano le toghe, il governo sarebbe stato troppo timido anche nella riforma di sistema, stralciando i passaggi più coraggiosi della relazione Lattanzi, che riduceva le ipotesi di appellabilità, allargava le maglie del patteggiamento e quelle dell’archiviazione. Il rischio, però, è che la bocciatura categorica delle toghe al ddl penale produca l’effetto di impantanarlo, dando sponda al Movimento 5 Stelle (contrarissimo alla riforma della prescrizione), che punta all’ostruzionismo d’aula e ha presentato mille emendamenti in commissione Giustizia. Il che perpetrerebbe la maledizione della giustizia irriformabile perché schiava di opposte pressioni. A meno che il governo - conscio dell’occhio europeo puntato sulle riforme italiane - non decida di proseguire anche a costo di porre la fiducia. Spataro: “No ai muri contro la riforma sulla Giustizia. Va messa alla prova prima di bocciarla” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 21 luglio 2021 L’ex magistrato: ma la politica non interferisca sulle priorità dell’azione penale. “Non si può dire che non ce la faremo, senza averci prima provato. Non si devono erigere muri trumpiani. Serve determinazione e coraggio per far sì che questa riforma funzioni”. Armando Spataro, ex procuratore di Torino impegnato contro mafia e terrorismo, non grida alla “tagliola che manderà al macero centinaia di migliaia di processi”. Perché? “È un’affermazione “facile” che però non tiene conto delle molte misure adottate per accelerare i tempi”. L’ufficio del processo, con neolaureati? “Saranno assunti magistrati, cancellieri e assistenti giudiziari in numero consistente. Se poi i magistrati sapranno guidare quanti non solo neolaureati vi saranno destinati, si otterranno ottimi risultati. Come negli Usa. Certo si deve trattare di strutture stabili, non temporanee”. Bastano 2 anni per l’appello e 1 per la Cassazione? “Non sempre. Ma c’è da fare una premessa”. Ovvero? “I cittadini hanno diritto di conoscere la durata del processo che deve essere ragionevole. Lo dicono la Costituzione, la legge Pinto. E la Cedu che ha più volte condannato l’Italia. Va trovata una soluzione corretta che non è l’abolizione della prescrizione dopo la prima sentenza, che allunga a dismisura i tempi”. E quindi? “Se è questo l’obiettivo, utile anche per gli aiuti del Recovery fund, il processo penale va seriamente riformato senza farsi distrarre da improponibili soluzioni referendarie”. E se poi non ce la si fa e scatta l’improcedibilità? “Il rischio c’è, ma è per questo che è necessaria una norma transitoria per verificare prima l’effetto degli aumenti del personale e del miglioramento delle strutture e dei tanti strumenti previsti dalla proposta di riforma. Poi si potrebbe lavorare sulla lista dei reati che consentono un aumento dei termini di improcedibilità. Ed i termini stessi potrebbero a loro volta essere di poco aumentati”. C’è chi propone di lasciare al giudice la decisione. “Mi pare un po’ più complicato. Ma si può studiare di far scattare la decorrenza dei termini dalla notifica della citazione del giudizio. Dopodiché si parla molto del processo digitale. Ma deve funzionare”. Non funziona? “Purtroppo il software è spesso elaborato da tecnici informatici ministeriali cui manca una conoscenza approfondita dei reali problemi della giustizia. La managerialità non basta”. Resta la mole enorme di arretrato. Che fare? “Non sarei contrario a un’amnistia per reati minori. Del resto sono già previsti riduzione dell’appellabilità (ma nel rispetto della parità di accusa e difesa), aumento della perseguibilità a querela di molti reati, estensione della non punibilità per fatti di lieve entità”. Obiettano: e l’allarme sicurezza? E le parti civili? “Rispetto l’obiezione. Ma parliamo di reati in cui spesso manca anche la parte offesa per cui basterebbe una sanzione amministrativa. E non è vero che parti offese ed imputati sarebbero penalizzati: se il giudice d’appello dichiara l’improcedibilità può inviare tutto al giudice civile per la conferma o meno dei risarcimenti già disposti in primo grado. E il condannato che vuole l’assoluzione può rinunciare all’improcedibilità”. Quindi condivide appieno la riforma? “I problemi esistono, ma vanno affrontati con discussione leale e coraggiosa. Non mi convincono, però, alcune proposte. La prognosi di condanna - sia pure formulata in termini lessicalmente diversi - sostanzialmente già esiste per richiedere o disporre il rinvio a giudizio. E non mi convince affatto che un giudice possa attestare al di fuori di un pieno contraddittorio che certamente ci sarà una condanna. Ritengo inaccettabile la pretesa della politica di interferire, in tema di azione penale, sulle linee di indirizzo delle priorità. Già oggi esistono regole e circolari del Csm: la competenza del Parlamento costituirebbe un attentato alla separazione tra poteri dello Stato al di là del fatto che le priorità non sono uguali in tutti i distretti ed una legge non potrebbe disciplinarle in modo omogeneo”. Riformare il processo non per una visione strategica ma per i soldi del Recovery fund non è sbagliato? “Il quesito è corretto. Ma non credo che l’unica ragione sia quella: contano i principi già citati. Alla fine la ragionevole durata del processo sarà utile per tutti. Per questo credo che occorra ascoltare tutti gli attori della giustizia: magistrati ed avvocati”. Gratteri: “Questa riforma è un favore alle mafie” di Nello Trocchia Il Domani, 21 luglio 2021 La ministra Marta Cartabia continua a difendere la sua riforma della giustizia. Lo ha fatto lo scorso 19 luglio, giorno del ricordo della strage di via D’Amelio dove furono uccisi il magistrato Paolo Borsellino e la sua scorta: Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Emanuela. Loi e Claudio Traina. Cartabia, da Firenze, ha parlato degli interventi di Falcone e Borsellino collegandoli all’attualità, al progetto di revisione del processo penale che la ministra ha fortemente voluto. “Spesse volte nei loro scritti nei loro interventi torna una sottolineatura che non può sfuggirci anche oggi nel nostro contesto di riflessione e cioè che una giustizia che funziona non è soltanto all’inseguimento di un’immagine di efficienza. Ma una giustizia che funziona è il primo presidio contro la legge del più forte”, ha detto Cartabia. Ma proprio mentre chiamava in causa i due magistrati uccisi dalla mafia dei corleonesi, le toghe antimafia hanno duramente attaccato la riforma. “Non bisognava andare a queste ricorrenze, i morti non si possono difendere, non possono parlare. Falcone e Borsellino si saranno girati tre volte nella tomba a sentire i contenuti di questa riforma”, dice a Domani Nicola Gratteri, procuratore capo della repubblica di Catanzaro, da anni sotto scorta. In commissione giustizia alla camera dei Deputati ha duramente criticato la riforma Cartabia sulla giustizia come la definirebbe? È una riforma che non serve alla sicurezza dei cittadini italiani, non serve a dare giustizia alle parti offese, a coloro i quali hanno subito vessazioni da parte di mafiosi o criminalità comune. Una riforma che è una tagliola. Allora a chi serve? Premia tutti quelli che sono imputati in un processo. Da questo momento in poi l’imputato farà di tutto perché il processo non si celebri e si arrivi al fatidico traguardo dei due anni in appello (3 per i reati più gravi, ndr), o dell’anno in Cassazione (al massimo 18 mesi). Considerando che mediamente in appello ci vogliano tre anni e mezzo per concludere un processo di secondo grado, vuol dire che quasi la metà dei processi verrà ghigliottinato. Quindi, secondo lei, vincerà l’impunità? Si sfregheranno le mani delinquenti e faccendieri. Una riforma che favorisce tutti coloro i quali sono implicati in un processo penale. Con questa riforma che fine farebbe Rinascita Scott, il maxi processo contro la ‘ndrangheta che lei e la sua procura avete istruito? Rinascita Scott non si concluderà in appello negli anni previsti dalla nuova riforma. Se qualcuno dovesse chiedere la riapertura dell’istruttoria in appello, come spesso accade per una nuova prova o nuovi elementi, il processo non si chiuderà più. Quindi lei sta dicendo che questa riforma è un favore alle mafie e alla borghesia mafiosa? Sicuramente sì. Si aspettava un intervento di questo tipo dal governo Draghi e della ministra Cartabia? No. Non era immaginabile che si potesse proporre una riforma così giustificandola con l’arrivo dei soldi dall’Europa. Dire che bisogna fare la riforma perché altrimenti l’Europa non ci darà i soldi è umiliante. Umiliante per l’Italia e per i cittadini. Ha mai visto una proposta simile? No. È la peggiore riforma che ho visto dal 1986 a oggi. Farà sprofondare ancora di più la fiducia nella giustizia degli italiani. Vanificherà il lavoro dei magistrati e delle forze dell’ordine. Nella riforma si prevede l’iscrizione retrodatata, è utile? È una follia sul piano pratico, rallenterà ancora di più il lavoro dei tribunali e delle corti d’appello. Un magistrato dovrà studiare migliaia di pagine per accertare se l’iscrizione è stata corretta a quella data o doveva essere anticipata. Non è un dettaglio da poco perché si discute la decorrenza dei termini a partire dall’iscrizione. Intanto ieri è stato celebrato il ventinovesimo anniversario della strage di via D’Amelio dove sono stati uccisi Paolo Borsellino e la sua scorta. Per coerenza non bisognava andare a queste ricorrenze, i morti non si possono difendere, non possono parlare. Falcone e Borsellino si saranno girati tre volte nella tomba a sentire questo tipo di riforma. Conoscendo la vita, l’integrità di questi grandi uomini che sono morti in nome di un’idea, io penso che non bisognava avvicinarsi nemmeno alla tomba, alla lapide di questi grandi uomini nel momento in cui si produce un sistema di norme che favorirà i faccendieri e i mafiosi. Cafiero De Raho: la riforma Cartabia “mina la democrazia” di Eleonora Martini Il Manifesto, 21 luglio 2021 Il procuratore nazionale antimafia alla commissione Giustizia della Camera. E Nicola Gratteri, pm di Catanzaro: “Meglio la prescrizione prima di Bonafede”. È una bocciatura senza appello della riforma del processo penale firmato dalla Guardasigilli Marta Cartabia, quella dei due pm antimafia ascoltati ieri mattina in Commissione Giustizia, alla Camera. Certo, i torni, le argomentazioni e soprattutto le controproposte avanzate dal procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri sono connotate da un filino di populismo penale, e seducono subito l’anima più giustizialista del M5S. Tutt’altro stile il procuratore antimafia e antiterrorismo, Federico Cafiero De Raho. Ma le critiche sollevate da entrambi al ddl sulla delega al governo per “l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’Appello” combaciano su molti punti. E non sempre a torto. Il primo, quello che fa scattare subito l’allarme nelle fila del M5S (e degli ex, come Alessandro Di Battista che attacca i 4 ministri stellati per aver votato questa “porcata immonda”), riguarda la nuova prescrizione che sostituisce quella targata Bonafede e che prevede l’improcedibilità in sede d’Appello trascorsi due anni dal primo grado di giudizio e un solo anno di tempo per la sentenza della Cassazione. Per entrambi i pm la norma “mina la sicurezza del Paese”. De Raho spiega che essa “non corrisponde alle esigenze di giustizia” anche perché “riguarda tutti i processi”, compresi quelli per “reati gravissimi” come mafia, terrorismo e corruzione, con conseguenze sulla “sicurezza della nostra democrazia”. Il procuratore nazionale antimafia ricorda che se la Costituzione e i trattati internazionali prescrivono la “ragionevole durata del processo”, i termini di durata massima del giudizio “si trovano già nella legge Pinto”. L’improcedibilità però, secondo De Raho, è illegittima. Piuttosto, dice, si provveda alla digitalizzazione e si permetta ai giudici la possibilità “di operare come monocratico”, perché “la giustizia non può non essere esercitata attraverso un numero di giudici non sufficiente”, e senza risorse. Per Gratteri dopo la riforma c’è solo la catastrofe: “diminuzione del livello di sicurezza”, “annullamento totale della qualità del lavoro”, “aumento smisurato di appelli e ricorsi in Cassazione” per fare “ingolfare di più la macchina della giustizia e giungere alla improcedibilità”, “azzeramento di anni di lavoro di pm, polizia e giudici di primo grado”. In uno slogan: “Ancor di più converrà delinquere”. “Il 50% dei processi e i maxi processi che celebriamo saranno dichiarati improcedibili in Appello”, è la sua previsione. “Meglio allora - sintetizza il pm di Catanzaro - tornare alle norme prima della riforma Bonafede (quando la sacrosanta prescrizione corrispondeva al massimo della pena edittale stabilita dalle leggi, ndr): provocano meno danni”. Le alternative per ridurre i tempi? “Escludere alcune ipotesi di Appello”, “introdurre specifiche condizioni di Appello come proposto anche dalla commissione Lattanzi”, “o anche definitivamente abolire la riforma in peius al fine di scoraggiare appelli pretestuosi”. C’è un allarme anche riguardo i “rapinatori e quelli che vendono droga nelle piazze”. D’altronde, per Gratteri, parlare di “indulto e amnistia” per ridurre il sovraffollamento nelle carceri - atti che “non cambiano nulla in termini di sicurezza”, ammette - crea un problema di “credibilità”, “di immagine”. Perché è “umiliante” discutere delle pene alternative per evitare “le bacchettate del Consiglio d’Europa”. Piuttosto, conclude Gratteri con passione, “si costruiscano nuove carceri con i prefabbricati e in pochissimo tempo”. Molto più seria l’argomentazione di Cafiero De Raho che giudica “non conforme alla Costituzione riservare al Parlamento la definizione dei criteri generali di indirizzo per l’esercizio dell’azione penale”. Davvero un punto dolente, questo della riforma Cartabia: l’azione penale “è e resta obbligatoria”. “L’individuazione di criteri di priorità è solo facoltativa nell’ambito dei distretti e avviene al fine di dare trasparenza all’attività requirente del pm, ma non significa quelle categorie di reati non vengono trattati”, spega De Raho. E invece lasciare che sia la politica a stabilire la priorità dell’attività giudiziaria significa “minare il principio dell’obbligatorietà” e “l’autonomia della magistratura che la Costituzione garantisce”. Giustizia, una sponda dall’Ue alla riforma Cartabia: “Misure urgenti” di Claudio Tito La Repubblica, 21 luglio 2021 La Commissione: “Aumentare l’efficienza dei processi penali”. Il 50 per cento delle sentenze sono di assoluzione. “Si conferma l’urgenza di misure per aumentare l’efficienza nei processi penali”. Il governo Draghi ottiene l’ennesima sponda da Bruxelles. Questa volta sulla Giustizia. Non è esplicito ma il riferimento alle discussioni in Italia sulle riforme in questo settore e in particolare quella sui tempi del giudizio e della prescrizione è abbastanza chiaro. Ed è messo nero su bianco nel Rapporto della Commissione europea sullo “Stato di diritto” nell’Unione. Ossia sul buon funzionamento della democrazia in tutti partner comunitari. Naturalmente il dossier di Bruxelles, presentato ieri, riguarda tutti gli Stati membri e due particolari segnalazioni concernono la Polonia (“a rischio l’indipendenza della magistratura”) e l’Ungheria (“rischi di clientelismo e nepotismo”). In quel caso non si tratta di spronare ad una maggiore efficienza ma a rispettare i principi base dell’Ue. Tanto che è stato lanciato un ultimatum verso Varsavia affinché si conformi entro il prossimo 16 agosto alla recente sentenza della Corte di Giustizia Ue o saranno emesse “sanzioni pecuniarie”. Esattamente come è stata posta sotto osservazione la legge ungherese anti-Lgbt. Il capitolo che riguarda il nostro Paese, invece, in larga parte è dedicato proprio all’efficienza del nostro sistema giudiziario. Quello civile, amministrativo e anche penale. Il confronto in corso tra le forze della maggioranza sulla cosiddetta “Riforma Cartabia” non è ovviamente citato nello studio dell’esecutivo comunitario. Ma alcuni passaggi sono diretti a mettere in evidenza proprio le questioni sollevate dalla Guardasigilli italiana. E infatti, in un passaggio successivo, si fa notare che alla Camera dei deputati continua l’esame sugli emendamenti a “un disegno di legge del marzo 2020 per migliorare l’efficienza dei processi penali”. L’Unione europea, insomma, sollecita l’intervento del governo italiano in questa materia. Il sottotitolo di ogni osservazione è inequivocabile: ricordatevi che i soldi del Recovery Plan sono condizionati all’effettiva approvazione delle riforme, compresa quella della Giustizia. Un modo, dunque, per richiamare l’attenzione sull’obiettivo prioritario di cambiare il processo in termini di buon funzionamento. “Riforme - si legge nel rapporto - volte a migliorare la qualità e l’efficienza, compresi i disegni di legge per lo snellimento delle procedure civili e penali”. Che, si sottolinea ancora nel dossier illustrato dal Commissario Didier Reynders, “sono particolarmente importanti per affrontare le gravi sfide legate all’efficienza del sistema giudiziario, compresi gli arretrati e la durata dei procedimenti”. Le esortazioni dei “tecnici” brussellesi, partono quindi da due dati: l’incremento delle cause pendenti e la circostanza che il 50 per cento dei processi si chiude in primo grado con un’assoluzione. Fattori che richiedono un intervento e rendono ancora più problematica la lentezza con cui si arriva alla sentenza. Perché l’efficienza giudiziaria, o in questo caso è meglio dire l’inefficienza, “continua a costituire un ostacolo alla lotta alla corruzione”. Questione di particolare importanza, in considerazione del fatto che tutte le statistiche confermano che “la pandemia del Covid 19 ha aumentato significativamente il rischio di corruzione e i reati legati alla corruzione”. L’attività prevalente in questo caso si è concentrata sugli “acquisti di piccole imprese private, come ristoranti in difficoltà economiche, e di prodotto sanitari, tra cui le mascherine. Attività che hanno favorito la corruzione e il riciclaggio di denaro”. Tutti richiami, insomma, che il gabinetto Draghi incasserà e in qualche modo utilizzerà nella discussione ancora in corso con il Movimento 5 Stelle. E che inevitabilmente accompagneranno l’esame in Parlamento degli emendamenti preparati da Cartabia. Sul nostro Paese, poi, pesano altri tre allarmi. Uno riguarda ancora la Giustizia e in particolare il giudizio che l’opinione pubblica coltiva dei magistrati. Solo il 34 per cento degli italiani li considera indipendenti. Percentuale che addirittura si abbassa al 29 per cento tra gli imprenditori. Il secondo si riferisce agli “attacchi fisici” cui sono sottoposti i giornalisti. Episodi che costituiscono “motivo di preoccupazione”. “La tutela delle fonti giornalistiche e la legge quadro sul segreto professionale - prosegue il Rapporto - restano inadeguate”. Il terzo aspetto si concentra sui partiti politici e in particolare sulla legge che ha abolito il finanziamento pubblico. “Devono dunque autofinanziarsi quasi esclusivamente attraverso donazioni private di singoli donatori - nota il dossier -. Ciò ha reso gli attori politici più dipendenti e vulnerabili a influenze indebite”. La pericolosa logica forcaiola di Gratteri sulla prescrizione di Ermes Antonucci Il Foglio, 21 luglio 2021 Sui possibili effetti della riforma della giustizia penale elaborata dalla Guardasigilli Marta Cartabia ormai è una gara a chi la spara più grossa. Pochi giorni fa, l’Associazione nazionale magistrati ha affermato che la nuova disciplina della prescrizione proposta da Cartabia, che consiste nell’estinzione del processo per improcedibilità se si supera la durata di due anni in appello (tre per i reati più gravi) e uno in Cassazione (o 18 mesi), metterebbe a rischio circa 150 mila processi che non rispetterebbero la tempistica. Il sindacato delle toghe non ha fornito alcuna analisi statistica a sostegno di questa ipotesi (e difficilmente potrebbe, visto la riforma della prescrizione si accompagnerà a una riforma che intende velocizzare i tempi dei processi). Insomma, c’è da fidarsi e basta, alla faccia del dibattito pubblico informato e consapevole. Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, ascoltato martedì davanti alla Commissione Giustizia della Camera, è stato persino più drastico: la riforma Cartabia, ha affermato, comporterà l’improcedibilità del 50 per cento dei processi. Se si considera che in media ogni anno in Italia vengono definiti circa un milione di procedimenti, ne consegue che per Gratteri la riforma manderebbe in fumo addirittura 500 mila processi. Si tratta di una cifra folle (oltre tre volte superiore a quella ipotizzata dall’Anm), slegata da qualsiasi contatto con la realtà. A sorprendere, però, più che il ricorso a numeri fantasiosi, è il ribaltamento della logica compiuto da tanti magistrati e dai megafoni del giustizialismo: visto che i processi penali in Italia sono lunghissimi, allora eliminiamo la prescrizione, così da garantire la cosiddetta “certezza della pena”. Pazienza se i processi continueranno a durare otto, dieci o quindici anni, e se molti di essi si concluderanno con l’assoluzione degli imputati, rimasti nel frattempo imbrigliati nelle maglie della giustizia per tutto quel tempo. È la stessa logica paradossale alla base della riforma Bonafede, voluta dal governo grillo-leghista, che ha abolito la prescrizione dopo una sentenza di primo grado, senza andare prima a riformare il sistema giudiziario per garantire tempi certi ai processi. È la stessa logica forcaiola che spinge il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Federico Cafiero De Raho, a sostenere con Gratteri che la riforma Cartabia “mina la sicurezza della nostra democrazia”. Come se il principio di durata ragionevole del processo non costituisca anch’esso un pilastro fondamentale della democrazia (basterebbe rileggere l’articolo 111 della nostra Costituzione). Del resto, sempre secondo Gratteri, il problema è che la riforma Cartabia comporterà un “aumento smisurato di appelli e ricorsi in Cassazione”, perché “se prima qualcuno non presentava impugnazione con questa riforma a tutti, nessuno escluso, conviene presentare appello e poi ricorso in Cassazione non fosse altro per dare più lavoro, ingolfare di più la macchina della giustizia e giungere alla improcedibilità”. Una visione singolare del diritto di difesa, che peraltro non tiene conto dei dati (quelli veri): circa il 60 per cento delle prescrizioni matura durante la fase delle indagini preliminari (dati ministeriali) e in dibattimento gli avvocati hanno un peso quasi nullo sulle cause di rinvio delle udienze (ricerca Eurispes del 2019). Più che un ribaltamento della logica, sembra insomma di assistere a uno scontro tra due logiche diverse: quella della forca e quella del diritto. Per fortuna a ricordare l’esistenza della logica del diritto ci ha pensato proprio la Guardasigilli Cartabia, intervenendo martedì a una tavola rotonda a Firenze: “Ogni processo che si estingue è una sconfitta dello Stato. Ma ogni processo che dura oltre la ragionevole durata è un danno tanto per le vittime - in attesa di risposte - quanto per gli imputati, lasciati per anni in un limbo che il più delle volte condiziona l’intera esistenza. Teniamo sempre in mente entrambe le prospettive e lavoriamo tutti agli obiettivi che ci siamo dati con senso di comune e costruttiva responsabilità”. Giustizia, via libera alla firma digitale per i referendum: approvato l’emendamento Magi di Liana Milella La Repubblica, 21 luglio 2021 Via libera a Montecitorio alla firma digitale per i referendum. Stanotte all’1 e trenta, all’unanimità, le commissioni Affari costituzionali e Ambiente della Camera hanno approvato l’emendamento di Riccardo Magi, che domenica è stato eletto presidente del gruppo Più Europa, e di tutti i gruppi. A sottoscriverlo è stato anche il presidente della prima commissione Giuseppe Brescia di M5S. Parere positivo del ministro per l’Innovazione tecnologica Vittorio Colao, mentre da via Arenula la Giustizia aveva espresso un parere negativo. Il decreto Semplificazioni, su cui il governo è gia andato sotto due volte in commissione, scade il 30 luglio, e già questa settimana è in aula alla Camera per passare subito al Senato in tempo utile. Quindi la “firma elettronica qualificata” entra in vigore immediatamente perché nel testo c’è la norma transitoria che consente ai promotori dei referendum di raccogliere le firme, anche prima che sia realizzata la piattaforma digitale dal governo, usando un servizio certificato offerto dai gestori accreditati presso Agid. Magi, in un post su Facebook, parla di “una piccola grande rivoluzione a favore dei diritti politici dei cittadini”. Definisce il voto sulla firma digitale “una bella pagina per il Parlamento”. E ringrazia i 25 militanti che avevano già iniziato il digiuno per ottenere la firma. Da lui ovviamente un grazie a tutti i colleghi parlamentari che hanno votato a favore, e anche all’associazione Luca Coscioni che si è battuta per lo stesso scopo per il suo referendum sull’eutanasia. La norma transitoria del decreto precisa che la firma nei fatti può entrare in vigore subito, prima che sia realizzata la piattaforma digitale dal governo: “I promotori della raccolta predispongono un documento informatico che, a seconda delle finalità della raccolta, consente l’acquisizione del nome, del cognome, del luogo e della data di nascita del sottoscrittore e il Comune nelle cui liste elettorali questi è iscritto ovvero, per i cittadini italiani residenti all’estero, la loro iscrizione nelle liste elettorali dell’anagrafe unica dei cittadini italiani residenti all’estero. Le firme elettroniche qualificate raccolte non sono soggette all’autenticazione”. Quindi, a questo punto, per i sei referendum sulla giustizia dei Radicali e di Salvini, già giunto a 300mila firme, e per quello sull’eutanasia che è a quota 100mila, dovranno essere i promotori a far partire anche il sistema operativo per la raccolta digitale. Molto soddisfatta l’Associazione Luca Coscioni che sta raccogliendo le firme per il referendum sull’eutanasia e annuncia che “la piattaforma che permetterà la firma digitale è già in fase di realizzazione e sarà attiva entro agosto”. Marco Cappato, il tesoriere della Coscioni, commenta così il risultato raggiunto: “In attesa del voto in aula, è stato segnato un traguardo storico sui diritti politici e digitali dei cittadini. Grazie a Magi e ai deputati che non hanno subito il parere burocraticamente negativo del governo. Raccogliere le firme digitalmente significa consentire a tutti di poter esercitare i loro diritti politici. Sulle restrizioni tuttora in vigore per le firme cartacee c’è ancora strada da fare, ma intanto è stato segnato un traguardo storico per la democrazia italiana”. Cartabia apre ad una “task force di giudici in età pensionabile” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2021 Lo ha detto il Ministro Guardasigilli incontrando i Capi degli Uffici Giudiziari del Distretto della Corte di Appello di Napoli. Nel giorno più difficile del “viaggio” nella Corti d’Appello - “Napoli è un paziente grave” -, la Ministra della Giustizia Marta Cartabia apre al coinvolgimento dei magistrati in età pensionabile per aggredire l’arretrato e fronteggiare le situazioni emergenziali. Non solo dunque potenziamento dell’Ufficio del processo, revisione delle piante organiche e nuovi concorsi. “C’è un’altra idea alla quale stiamo lavorando - ha detto il Ministro nel corso dell’incontro con i vertici degli uffici giudiziari partenopei - perché veramente non stiamo pensando di accorciare i tempi del processo solo con la tagliola della prescrizione, qualcuno mi raccontava in questi giorni di un desiderio di alcuni magistrati che sono già in età pensionabile di, come dire, mettersi a disposizione: io non so se questo sarà possibile, non so se sarà possibile politicamente, non so se il Csm potrà essere d’accordo ma è un’altra idea una sorta di appunto: una task force di unità nazionali che potrebbe essere di aiuto sempre che sia gradita e che ci sia la disponibilità delle persone”. Intanto dopo l’audizione di questa mattina in commissione Giustizia alla Camera del procuratore capo di Catanzaro, Nicola Gratteri, secondo cui con la riforma “il 50 % dei processi finiranno sotto la scure della improcedibilità”, compresi 7 maxi processi contro la ‘ndrangheta, i deputati del M5S in Commissione rinfocolano la polemica: “La riforma del processo penale messa a punto dalla ministra Marta Cartabia deve essere modificata”. Per Cartabia però, incalzata sul rischio impunità anche dal procuratore capo di Napoli, “non possiamo stare fermi, non è l’improcedibilità che porterà i problemi che a Napoli come altrove ci sono già”. “Dunque, ha proseguito, anche se le forze politiche spingono in direzione diametralmente opposte, questa riforma deve essere fatta perché lo status quo non può rimanere tale”. “So molto bene che i termini indicati sono esigenti per questa realtà perché partiamo da un ritardo enorme ma non sono termini inventati perché sono i termini della legge Pinto che non solo la nostra legge ma tutta Europa definisce come i termini della ragionevole durata del processo”. “Non perdiamo il treno del Recovery - ha poi aggiunto - non facciamoci intrappolare in quello che è accaduto ormai da decenni nella giustizia italiana dove ognuno porta esigenze particolari imprigionando tutte le riforme della giustizia”. “Sono venuta perché sapevo che sarei andata a incontrare la realtà più complessa e più difficile quella con maggiori problemi ma se l’Italia non rinasce da qui se la giustizia non riparte da qui non ce la farà da nessuna parte”. Cartabia poi è tornata sull’Ufficio del processo: “16.500 laureati che vi assicuro non sono stati mobilitati per fare degli esperimenti, la formazione ci sarà prima che arrivino in tribunale”. “Daranno una mano per uccidere quei tempi morti tra il deposito della sentenza il passaggio al grado successivo che non possono rimanere inerti, non possono durare due anni, è un tempo che grava sull’imputato se non grava sull’ufficio successivo, possiamo permettere questo?” “So bene però che non è una misura sufficiente”. Perché, ha ricordato, in Italia il numero di giudici è la metà di quello che c’è in Germania. E per questo il Ministero si è impegnato a non fermare la macchina dei concorsi: oltre all’esame da avvocato, è stato “reinventato” anche quello della magistratura, che si è svolto la scorsa settimana. “E già l’ho detto e lo ribadisco qui dopo l’estate ci sarà un altro concorso perché i giudici non bastano”. “E guardate - ha concluso Cartabia - che le vostre preoccupazioni di vedere ambiti di impunità, che qui non si possono tollerare, sono anche le mie preoccupazioni, l’ho già detto e l’ho già ripetuto: ogni processo che non arriva a una soluzione definitiva e una sconfitta. Tutti gli Abele e tutti gli imputati, che tante volte non sono neanche Caino, attendono un giudizio severo, giusto e tempestivo questo è quello che la costituzione ci chiede”. Se il virus colpisce il welfare mafioso di Michela Marzano La Stampa, 21 luglio 2021 All’inizio della pandemia, le mafie si sono ben organizzate per poter approfittare della situazione: hanno congelato i prestiti a usura; hanno rinviato le scadenze; hanno fatto arrivare pasta, zucchero e caffè nelle case dei più bisognosi. A buon rendere, ovviamente, come hanno denunciato sia la Direzione investigativa antimafia, sia associazioni come Libera. Visto che non è mai stata la compassione a muovere il crimine organizzato, ma la possibilità di poter massimizzare profitti e interessi. Proprio come i fornai, i macellai e i birrai di cui parla Adam Smith nel suo celebre La ricchezza delle nazioni. Per il padre dell’economia politica, d’altronde, fornai, macellai e birrai sono spinti a produrre e vendere il pane migliore o la cane e la birra più pregiate non certo per altruismo o per benevolenza, ma per trarne profitto, e quindi per puro egoismo: più la carne, il pane e la birra sono buoni, più la gente è disposta a spendere. “Dare” al fine di “ottenere”, quindi. Che è poi diventato il principio cardine del neoliberismo dei Chicago Boys. Sebbene in nome della deregolamentazione e della privatizzazione, l’ultraliberismo abbia progressivamente non solo picconato il Welfare State che si era diffuso in Europa nel Secondo Dopoguerra, ma abbia di fatto anche favorito il diffondersi della criminalità organizzata. Laddove lo Stato è assente e non si ha accesso ad alcuni servizi fondamentali come l’istruzione e la sanità, oppure la gente non trova lavoro e non sa come fare per sbarcare il lunario o sentirsi protetta, la mafia prospera. Strumentalizzando ogni situazione d’urgenza e di crisi, persino la pandemia, al fine di alimentare quello che ormai, dagli studiosi, viene definito il “welfare mafioso”. Col passare dei mesi e l’apri-e-chiudi di moltissimi negozi, però, la situazione è pian piano cambiata: senza pizzi e senza guadagni, le casse si sono svuotate e anche il welfare mafioso si è incrinato. E allora sono tornate le minacce e, da quanto sta emergendo in seguito al blitz che ha portato ieri al fermo di sedici persone del mandamento di Ciacilli, sono ricominciate le estorsioni. Anche perché gli uomini di Cosa Nostra sono stati a loro volta minacciati dalle mogli dei detenuti che hanno fatto capire loro che, se i soldi non fossero arrivati, prima o poi i mariti avrebbero iniziato a parlare. Nessun codice d’onore inviolabile, allora, nonostante gli strascichi di un linguaggio infarcito di “cornuti” e “sbirri” come emerge da alcune intercettazioni. Nulla a che vedere con la visione romanzata secondo cui la mafia incarnerebbe una vita non mediocre, basata sul coraggio, il rispetto, la virilità e la magnanimità. La mafia prospera finché aiuta e protegge sostituendosi allo Stato. Quando non può più farlo, perde credibilità. Non sono tanto, o solo, la mitizzazione della violenza o l’idealizzazione dei boss che hanno d’altronde reso possibile il dilagare della criminalità organizzata, quanto la ben più prosaica esistenza, per le persone, di bisogni essenziali da soddisfare: nutrirsi, vestirsi, curarsi, lavorare, sentirsi protetti. Perché allora non fare in modo che le persone non abbiano più bisogno della protezione e degli aiuti offerti dalla mafia? Non è questa l’unica cosa che dovrebbe fare lo Stato, assumendosi nuovamente, e ovunque, il ruolo di assicurare ai suoi cittadini un minimo tenore di vita, di proteggerli quando ce n’è più bisogno e consentire loro accesso all’istruzione, alla sanità e agli altri servizi necessari a una vita decente? Occupare lo spazio, quindi, anche grazie alle ingenti somme di denaro del Pnrr, preparando pian piano i cittadini all’autonomia. Perché non si tratta di agire paternalisticamente, ma di dare a tutte e a tutti gli strumenti adeguati (materiali e culturali) affinché possano poi perseguire i propri obiettivi, avendo la capacità e la possibilità di scegliere su quali valore fondare la propria esistenza, invece che semplicemente cercare di soddisfare i propri bisogni primari. Condanne penali, reati e misure di prevenzione: più garanzie sui dati giudiziari di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2021 Parere favorevole, con osservazioni, del Garante privacy sullo schema di regolamento del Ministero della giustizia che disciplina il trattamento in una pluralità di ambiti e contesti. Il Garante per la privacy ha espresso parere favorevole sullo schema di regolamento, predisposto dal Ministero della giustizia, che disciplina il trattamento dei dati giudiziari in una pluralità di ambiti e contesti. Il testo recepisce buona parte delle indicazioni fornite dall’Autorità nel corso di diverse interlocuzioni con il Ministero e rafforza le tutele previste per le persone. Definite anche un complesso di garanzie minime nei principali settori nei quali possono essere trattati dati giudiziari: dall’ambito forense al mondo del lavoro, dalla verifica dei requisiti di onorabilità a quella della solidità e affidabilità di soggetti privati, dall’ambito assicurativo a quello delle professioni intellettuali o della ricerca storica e statistica, oppure nella mediazione e conciliazione delle controversie civili e commerciali. La bozza di regolamento si applica anche ai dati relativi alle misure di prevenzione, come quelle per gli indiziati di appartenenza ad associazione di tipo mafioso. Il testo prescrive inoltre che tutti i titolari rispettino i principi di proporzionalità e di minimizzazione previsti dal Gdpr, trattando solo dati indispensabili e per il tempo strettamente necessario rispetto alla finalità perseguita. Chi tratta i dati, dovrà anche verificare l’affidabilità delle fonti, adottando specifiche garanzie volte ad assicurare l’esattezza dei dati trattati, che dovranno essere sempre aggiornati rispetto, tra l’altro, all’evoluzione della posizione giudiziaria dell’interessato. Le osservazioni del Garante - Al fine di rafforzare ulteriormente le garanzie già previste nel testo del Ministero, il Garante ha comunque espresso nel parere ulteriori osservazioni. In particolare, il Garante ha richiesto che le garanzie introdotte con il decreto siano previste come parametro di riferimento minimo anche per quei trattamenti che vengono svolti in ambito pubblico sulla base di previsioni normative diverse. Ha inoltre chiesto che sia prestata particolare attenzione ai dati giudiziari raccolti da fonti aperte in caso di trattamenti svolti a fini di verifica della solidità, solvibilità ed affidabilità nei pagamenti. In tali casi si dovrebbero ammettere, quali legittime fonti di raccolta, solo i siti internet istituzionali, nonché quelli di ordini professionali e di associazioni di categoria. Il Garante ha inoltre sottolineato che, nella maggior parte dei casi, il consenso dell’interessato non può essere considerato una base giuridica legittima per il trattamento dei dati giudiziari; questo aspetto vale in particolare nella gestione del rapporto di lavoro dove il dipendente si trova in una posizione di disparità tale, rispetto al datore di lavoro, da non garantire una libera espressione del consenso. L’Autorità ha infine rilevato l’importanza di disciplinare anche i trattamenti svolti da soggetti no-profit, per finalità di mediazione e conciliazione delle controversie civili e commerciali, nonché quelli per finalità di accesso a sistemi o aree sensibili in determinati ambiti, particolarmente rilevanti nel contesto socio-economico attuale. “Patrocinio a spese dello Stato agli stranieri anche se il loro Paese non prova l’indigenza” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 luglio 2021 Corte costituzionale: “Non è ragionevole, e contrasta con l’effettività del diritto di difesa, che il cittadino di un Paese non aderente all’Unione europea non abbia diritto al patrocinio a spese dello Stato soltanto perché si trova nell’impossibilità di produrre la certificazione dell’autorità consolare richiesta per i redditi prodotti all’estero”. È quanto ha affermato la Corte costituzionale con la sentenza n. 157 depositata ieri (redattrice Emanuela Navarretta), dichiarando illegittimo l’articolo 79, comma 2, del Dpr n. 115 del 2002, nella parte in cui non consente al cittadino di Stati non Ue di dimostrare di aver fatto tutto il possibile, in base a correttezza e diligenza, per presentare la richiesta documentazione, e quindi di produrre una dichiarazione sostitutiva di tale documentazione. L’intervento della Corte nasce da un procedimento nel quale due cittadini di nazionalità indiana avevano proposto opposizione al provvedimento di diniego del permesso di soggiorno per lavoro stagionale. I due ricorrenti si erano visti negare il beneficio del patrocinio a spese dello Stato in quanto l’Ambasciata e il Consolato indiano in Italia non avevano dato riscontro alla loro richiesta di certificare la mancanza di redditi all’estero. A sollevare questione di legittimità era stato il Tar del Piemonte secondo il quale se l’esclusione dal patrocinio a spese dello Stato di uno straniero non abbiente, cittadino di un Paese non appartenente all’Ue, “viene a dipendere dall’inerzia di un soggetto pubblico terzo, non sopperibile con gli istituti di semplificazione amministrativa e decertificazione documentale previsti, invece, per i cittadini italiani e dell’Unione europea”, si verrebbe a creare un irragionevole vulnus al principio di eguaglianza nell’accesso alla tutela giurisdizionale. Con la sentenza depositata ieri inoltre la Corte ha uniformato, sotto il profilo della certificazione dei redditi prodotti all’estero, “la disciplina sul patrocinio a spese dello Stato nei processi civile, amministrativo, contabile e tributario a quanto richiesto dal principio di autoresponsabilità e a quanto già previsto per il penale, non essendoci, quanto all’aspetto citato, alcuna ragione per differenziarli”. L’istante avrà così l’opportunità di produrre in ogni tipo di giudizio una “dichiarazione sostitutiva di certificazione” relativa ai redditi prodotti all’estero, una volta dimostrata l’impossibilità di recuperare i documenti. Coltivazione di marjuana, ripetere il reato dopo due anni non esclude la continuazione di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 21 luglio 2021 Non spezza il legame tra le due condotte il solo fatto che la prima sia stata già giudicata con sentenza definitiva. In materia di stupefacenti, nulla osta a che due reati di coltivazione illecita siano in continuazione anche se vi è già stata sentenza definitiva e le prime piante siano state sequestrate. Ad esempio, il fine di assicurarsi una forma più economica di antidolorifico cannabinoide è elemento intellettivo che - unito ad altre circostanze - dimostra la prevedibilità del reiterarsi di una condotta. E non si interrompe il legame tra i diversi episodi se la continuazione riguarda una condotta già precedentemente giudicata con sentenza definitiva e risalente negli anni. La Corte di cassazione con la sentenza n. 27992/2021 ha perciò riconosciuto come incongruo il ragionamento dei giudici di merito che avevano tout court escluso il vincolo della continuazione - tra due diversi episodi di coltivazione domestica illecita di piante di marjuana - in quanto tra uno e l’altro erano trascorsi due anni. La “frattura” tra i due episodi affermata valutando solo l’elemento temporale non è affatto provata. Infatti, non vi è frattura tra due o più diversi episodi neanche per un fatto esterno - quale il corso della giustizia già compiuto - all’eventuale “identico disegno criminoso”. Ciò che rileva perché il precedente reato sia avvinto dalla continuazione con quello successivo è la sussistenza - al momento di commissione del primo - della rappresentazione futura di una reiterazione del successivo reato anche solo in termini di alta probabilità. Circostanza prospettica non escludibile in un caso come quello concreto dove la finalità “di cura” o di sollievo perseguita dall’autore del reato sia condizione stabile e il reato venga ripetuto con le medesime modalità e nei medesimi luoghi: l’abitazione dell’imputato. Spiega, infatti la Cassazione, che la continuazione tra reati è desumibile in base a diversi elementi: - omogeneità tra violazioni e bene protetto; - contiguità spazio-temporale; - modalità e singole causali; -sistematicità e abitudini di programmazione di vita. La programmazione unificante è quella esistente al momento di commissione del primo reato e il vincolo della continuazione anche in presenza di elementi di probabilità di reiterazione si spezza se il successivo reato è commesso sotto una spinta estemporanea. Modena. Detenuto scrive alla ministra Cartabia: “Nudi, ammanettati e picchiati” di Manuela D’Alessandro agi.it, 21 luglio 2021 “Siamo stati caricati e colpiti al volto con manganellate anche coi tondini in ferro pien”. La denuncia di un recluso “testimone passivo” delle rivolte nel carcere e della “spedizione punitiva” il giorno dopo ad Ascoli dove fu trasferito assieme ad altri. “Molti detenuti, alcuni in palese stato di alterazione probabilmente dovuto all’assunzione di farmaci, furono violentemente caricati e colpiti al volto con manganellate anche coi “tondini in ferro pieno” che si usano per effettuare la battitura nelle celle. Alcuni di questi a cui non fu dato nessun supporto medico morirono nel giro di pochi minuti”. È un passaggio di una lettera scritta da C.C., che si qualifica come uno dei reclusi nel carcere di Modena durante la rivolta dell’8 marzo 2020, alla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Il detenuto riferisce anche di pestaggi durante il suo trasferimento insieme ad altre persone nel carcere di Ascoli Piceno e successivi alla morte di Salvatore Piscitelli, il 40enne noto per il suo talento di attore teatrale dal cui decesso è originata la prima delle indagini sulle otto persone morte in seguito alle proteste. In particolare, riferisce a Cartabia di “una spedizione punitiva cella a cella” effettuata da “una squadretta di una decina di agenti”. “Picchiati da ammanettati e senza scarpe” - C.C. è stato sentito come persona informata sui fatti nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Modena dopo avere presentato un esposto il 20 novembre del 2020. Nella lettera di sei pagine, afferma di essersi trovato “coinvolto seppure in maniera passiva” nella rivolta scoppiata in carcere e “di avere assistito ai metodi di intervento messi in atto dagli agenti della casa circondariale dopo che i detenuti si erano consegnati spontaneamente. Metodi che consistevano in veri e propri pestaggi effettuati tra le due porte carraie e in una sala adiacente alla caserma agenti. Il pestaggio avvenne in uno stanzone dopo che tutti ci eravamo consegnati, dopo che eravamo stati ammanettati e privati delle scarpe”. “La morte dei detenuti - prosegue - fu successivamente classificata come morte d’overdose dovuta ad assunzione di farmaci, ma la mia domanda personale è: se non fossero stati picchiati al volto e fossero stati condotti in ospedale sarebbero morti?”. “Di nuovo picchiati nudi nei furgoni” - L’uomo racconta anche cosa sarebbe successo dopo. “Verso le 20 circa, fummo fatti salire senza porre resistenza sui mezzi della penitenziaria e condotti alla casa circondariale di Ascoli Piceno. Alcuni di noi vennero picchiati durante il viaggio a cui partecipò anche Piscitelli”. “Arrivati ad Ascoli fummo fatti scendere e posti in una serie di furgoni parcheggiati nel piazzale, denudati, senza scarpe e con le porte aperte. Dato l’orario e le temperature basse rimanemmo al freddo per più di un’ora, all’interno dei furgoni fummo nuovamente picchiati. Mi chiedo - commenta C.C. - come mai non furono chiesti i filmati delle telecamere del piazzale di Ascoli”. Piscitelli morì la mattina dopo il trasferimento, secondo C.C. anche per i mancati soccorsi pure sollecitati dai detenuti. “Il 9 marzo alle 7 e 30 circa - si legge nella lettera - salì una ‘squadretta’ in reparto composta da circa 10 agenti, alcuni con casco, scudo e manganello. Cella dopo cella ci picchiarono tutti, una violenza ingiustificata dato che eravamo stati trasferiti da Modena, eravamo arrivati in sicurezza ammanettati e senza scarpe e senza porre resistenza alcuna. Quella di Ascoli fu una vera e propria spedizione punitiva per i fatti occorsi a Modena il giorno prima”. “Ministro, le porgiamo una mano” - E ancora nella sua lunga narrazione, C.C dice che poco più tardi dopo avere di nuovo chiesto soccorsi per Piscitelli che emetteva “versi di dolore” si sentirono zittire da un agente che li avrebbe invitati a “farlo morire”. “Si parla spesso di giusta giustizia e di giustizia garantista - si conclude la lettera a Cartabia. Le stiamo porgendo una mano, ci consenta di aiutarla ad aiutarci nel costruire un sistema migliore. Da parte mia sarà doveroso chiedere un risarcimento non per me ma per i familiari delle vittime”. Il “Comitato Verità e Giustizia per la strage del Sant’Anna” sottolinea che “C.C. si interroga sul perché i vari garanti a cui si è rivolto non siano stati interrogati sulla sua denuncia”. E rilancia: “Le recenti indagini su Santa Maria Capua Vetere e il loro esito hanno abbattuto per una volta quella coltre di silenzio che da troppo tempo ricopriva le mura del nostro sistema penitenziario. Bisogna insistere e continuare a chiedere giustizia”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). “Io, detenuto torinese, seviziato per un sospetto” di Sarah Martinenghi La Repubblica, 21 luglio 2021 “Quello che mi è successo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere mi ha rovinato la vita. Sono caduto in depressione e ho anche tentato di uccidermi”. È il racconto di una violenza atroce quella che un torinese detenuto nel carcere in provincia di Caserta ha riportato in una querela che ha sporto solo ora, quando le immagini shock dei pestaggi subiti dai detenuti hanno alzato il velo su angherie e soprusi avvenuti lì dentro. Uno stupro, subìto in carcere pochi mesi dopo essere stato arrestato, il 14 gennaio 2016, per associazione a delinquere di stampo mafioso, è quello che gli è successo. Era nell’alta sicurezza, stava facendo la doccia, quando tre uomini l’hanno incappucciato con un asciugamano e l’hanno seviziato con un bastone fino a causargli una grave emorragia. “Non so dire chi sia stato, se fossero guardie o, come penso, altri detenuti. Certo è che quel carcere per me è stato un inferno. Sono stato anche alle Vallette a Torino e ad Asti, ma la situazione non era grave come a Santa Maria Capua Vetere. Lì c’era un clima di terrore: non avrei mai potuto denunciare subito”. Chi parla è un panettiere di 51 anni, condannato in via definitiva a 4 anni e sei mesi di carcere, tra i protagonisti di un’inchiesta torinese che è stata tra le più importanti sulla presenza della ‘ndrangheta in città. “Sono diventato mafioso a 45 anni dopo una vita di lavoro - racconta - avevo bisogno di soldi e sono finito in un giro di usura. Non so perché mi abbiano mandato in quel carcere, ma per 7 mesi non ho potuto avere colloqui con mia moglie e questo mi provocava grande sconforto. Per colmare il vuoto che provavo, mi recavo spesso dagli educatori anche solo per sapere quando potessi parlare con i miei familiari. Ma gli altri detenuti hanno probabilmente pensato che io riferissi informazioni su di loro, così mi hanno preso di mira, escludendomi spesso e minacciandomi”. Nella querela, l’ex detenuto descrive vagamente chi gli ha fatto violenza. “Non ho potuto vederli, ho solo sentito l’accento napoletano. Cantavano a squarciagola per coprire quello che stava succedendo. Io non potevo urlare, mi hanno messo contro il muro. In due, avranno avuto tra i 30 e i 40 anni, mi hanno bloccato, il terzo ha preso un bastone. Quando se ne sono andati, mi sono rannicchiato nelle docce a piangere. Ho avuto una grave emorragia, con una colonscopia mi hanno riscontrato le lacerazioni subite, ma non ho fatto denuncia. Avevo troppa paura”. Dopo questa violenza, è stato ricoverato tre volte per motivi psicologici: “Ho tentato il suicidio per la vergogna e il dolore che ho provato”. Nessuno ha mai saputo niente, fino a quando i giornali non hanno iniziato a raccontare le violenze avvenute in carcere. “Ho trovato il coraggio di raccontare a mia moglie quello che ho subìto. Lì dentro non c’era alcuna protezione. C’erano ispezioni tutti i giorni, anche di notte. Una volta era sparito un cucchiaino dalla mensa e successe un casino, smantellarono tutte le celle, poi si scoprì che era finito in un tombino. Ho vissuto nella paura, per via del clima violento instaurato sia dalle guardie sia dai detenuti: ho anche provato a spiegare al magistrato che ero minacciato, ma è stato inutile. In carcere mi dicevano frasi terribili per incutermi terrore: ‘Lo sai che c’è chi è finito giù da un ponte? Lo sai che c’è gente che è caduta giù da una finestra?’. Io non ho mai dato informazioni sugli altri detenuti, ero solo fragile e questo mi portava a un atteggiamento remissivo”. Assistito dall’avvocata Caterina Biafora, il torinese confida che la querela che ha sporto possa servire a far luce sul clima di violenza ma anche sulla mancanza di controlli e vigilanza sull’incolumità dei detenuti. “L’emorragia che ho avuto è stata evidente, eppure nessuno ha voluto capire cosa mi fosse successo” racconta. “Sebbene la violenza sia avvenuta alcuni anni fa, solo ora il mio assistito ha elaborato cosa gli è successo”. A parlare è l’avvocata Biafora che è specializzata nelle pari opportunità e da tempo si occupa di tutela dei detenuti, tanto che ha anche scritto un libro, “Rime tra le sbarre”, sulle sensazioni e le esperienze di chi vive il carcere. “Spesso le vittime che subiscono questo tipo di reati - aggiunge - non elaborano immediatamente il fatto, ma impiegano anni per arrivare a raggiungere la consapevolezza così da riuscire a trovare il coraggio di fare denuncia. Ecco perché confidiamo che venga fatta chiarezza anche su questo episodio con un’indagine”. Catanzaro. Ergastolano si laurea con 110 e lode, tesi sull’ergastolo ostativo calabria7.it, 21 luglio 2021 “Ergastolo ostativo. Percorsi e strategie di sopravvivenza”: è il titolo della tesi di laurea che Salvatore Curatolo, sessantacinque anni, condannato all’ergastolo ostativo per reati di mafia, ha discusso ieri, martedì 20 luglio, nella sala teatro del carcere di Catanzaro, conseguendo il voto di 110 e lode. L’uomo ha raccontato se stesso accendendo i riflettori con una consapevolezza facilitata dalla scrittura autobiografica su ciò che gli ha consentito di sopravvivere in senso psicologico e fisico alla detenzione, 28 anni ininterrotti di reclusione di cui 12 in regime di 41 bis. Relatore della tesi il professor Charlie Barnao, docente di Sociologia all’Università Magna Graecia di Catanzaro e delegato del Rettore per il Polo universitario per studenti detenuti. Metodo dell’autoetnografia - Barnao spiega il metodo dell’autoetnografia al centro di questo lavoro partito dalla descrizione delle regole, dei ruoli sociali, della dimensione culturale delle carceri. “Il metodo dell’autoetnografia - afferma il professore - rientra nell’ambito più generale dell’etnografia. Ma mentre con l’etnografia il ricercatore studia le culture altre per comprendere i soggetti al centro della sua ricerca, con l’autoetnografia il ricercatore è nel contempo osservatore e osservato, l’autore e il focus della storia. Lavori autoetnografici di questo tipo possono servire a valorizzare aspetti della personalità utili per determinati percorsi di adattamento; ciò può assumere anche una significativa valenza dal punto di vista educativo e rieducativo”. La tesi di Curatolo - “In particolare - spiega Charlie Barnao - nella tesi di Curatolo emerge il ruolo centrale dell’istruzione. Per quest’uomo che non aveva neanche la quinta elementare, studiare in carcere e arrivare alla laurea in sociologia è stato un modo per avvicinarsi con nuovi argomenti di discussione alle persone a lui più care. La tesi è frutto di un percorso introspettivo lungo e faticoso. Un lavoro reso possibile anche grazie alla grande disponibilità e collaborazione dell’istituto penitenziario di Catanzaro, diretto da Angela Paravati, e dell’Università ‘Magna Graecia’ di Catanzaro con il suo Dipartimento di Giurisprudenza, Economia e Sociologia (Diges) diretto da Geremia Romano presidente del Senato accademico che ha presieduto la commissione di laurea”. Catania. “Sogno di una notte a Bicocca”, la funzione catartica del teatro lecodelsud.it, 21 luglio 2021 Secondo appuntamento del Festival Shakespeariano dello Stretto di Daniele Gonciaruk il 24 luglio al Palacultura di Messina con “Sogno di una notte a Bicocca” di Francesca Ferro, produzione del Teatro Mobile di Catania in prima visione per Messina, dopo due anni di rappresentazione e un ritorno in scena al Teatro Litta di Milano nel maggio scorso. Il testo, ispirato a “Sogno di una notte di mezza estate”, che ha aperto il festival il 18 luglio scorso, racconta l’allestimento della pièce curato nel 2017 dall’attrice e regista, figlia di Turi Ferro e Ida Carrara, con i detenuti dell’istituto di pena catanese Bicocca. Un testo dai contenuti sociali importanti, fortemente voluto nel cartellone della rassegna dall’attore e regista peloritano, che, nella contrapposizione tra sogno e realtà, recupera la funzione catartica del teatro, capace di scavalcare le fredde mura di un carcere e regalare ai detenuti l’elemento del sogno, una dimensione “proibita” all’interno della situazione detentiva. Perché la prigione annulla desideri, progetti, ambizioni, assieme all’identità degli esseri umani: li priva del tempo e dello spazio, alimentando la necessità di proiettarsi in altri luoghi e in altri spazi, protagonisti di una storia che non è la loro, magari dentro un bosco in una notte d’estate. Dieci detenuti si fanno così guidare da una regista con l’obiettivo di riportare il teatro alla sua antica funzione catartica, verso un cambiamento che dal luogo sognato invade la dimensione soggettiva di ciascuno. Soprattutto se a guidare il sogno è il più grande genio del teatro, William Shakespeare. “Nello spettacolo gli uomini interpretano anche ruoli femminili come ai tempi di Shakespeare e questo porta a situazioni esilaranti ma anche forti, di grande scontro tra i protagonisti”. Così aveva anticipato, alla conferenza stampa di presentazione del festival, Agostino Zumbo, tra gli interpreti della pièce con la stessa Ferro. In scena con loro Rosario Minardi, Mario Opinato, Giovanni Arezzo, Francesco Maria Attardi, Renny Zapato, Giuseppe Brancato, Giovanni Maugeri, Antonio Marino e Dany Break. Lo spettacolo sarà rappresentato in un’unica replica al Palacultura, alle ore 21:30. Festival Shakespeariano dello Stretto è promosso dall’associazione culturale Officine Dagoruk col patrocinio di Comune e Città Metropolitana di Messina, Fondazione Bonino-Pulejo, Accademia di Belle Arti di Messina e la collaborazione del Comando della Marina di Militare di Messina. Main Sponsor è Caronte & Tourist. Pistoia. “Stabat mater”, il cortometraggio che affronta il tema della giustizia e delle carceri paeseitaliapress.it, 21 luglio 2021 “Stabat mater” è un cortometraggio realizzato dall’associazione culturale Teatro Electra di Pistoia con la partecipazione, in qualità di attori, dei detenuti della Casa Circondariale di Santa Caterina in Brana di Pistoia, insieme agli attori professionisti Melania Giglio e Giuseppe Sartori, per la regia di Giuseppe Tesi. Si terrà venerdì 23 luglio alle ore 10:00 presso Palazzo Giustiniani, Sala Zuccari, la proiezione del cortometraggio Stabat Mater, regia di Giuseppe Tesi, il progetto cinematografico proposto e realizzato dall’Associazione Culturale Electra Teatro Pistoia che coinvolge i detenuti affiancati da due attori professionisti Melania Giglio e Giuseppe Sartori. La proiezione è parte dell’evento “Non c’è giustizia senza umanità” organizzato dalla Senatrice Paola Binetti nell’ambito del dibattito, attualmente in atto in Parlamento, sulla Riforma della Giustizia. Prevista anche la tavola rotonda a cui interverranno Monsignor Dario Edoardo Viganò, A. Mantovano, R. Turrini Vita, G. Caliendo, B. Nicotra, Giuseppe Tesi. Chiuderà il dibattito l’On. Paolo Sisto, Sottosegretario alla Giustizia. Il progetto Stabat Mater - Il Regista Giuseppe Tesi ha scelto un testo originale per contenuto e stile. Si tratta dello Stabat Mater, una piéce tratta dalla raccolta Madri (ed. Oedipus, 2018) della poetessa Grazia Frisina. Un testo in versi, strutturalmente evocativo del canto greco. Lo scritto, di grande impatto carnale e, al contempo, spirituale appartiene all’alveo del teatro post-moderno, circoscritto in una chiave di lettura immaginaria e visionaria, fra estremi toni modulari, basso/alto, dentro/fuori. Il pianto della Madre di Cristo, qui interpretato con impeto neorealistico da Melania Giglio, è rappresentativo del pianto di tutte le madri di fronte al sacrificio e all’ingiusta morte di un figlio. Il Coro, formato da dodici detenuti di diversa etnia ed appartenenza linguistica, e la Corifea, sostenuta da un insolente Giuseppe Sartori, si contemperano con efficacia all’afflato dei versi. Il grido di dolore di ciascuno, il vero disagio vissuto nel divenire Opus Artis acquisiscono, nel corso delle sequenze sceniche, i colori della speranza. Malgrado i tempi frammentati e dilatati dovuti alle necessarie limitazioni imposte dalla pandemia, Electra Teatro è riuscita ad iniziare e a concludere le riprese nell’arco di un anno. La dirigenza e le maestranze della Casa Circondariale di Santa Caterina in Brana di Pistoia, sotto la guida della D.ssa Loredana Stefanelli, hanno sostenuto con entusiasmo e spirito collaborativo il lavoro. I detenuti, nonostante le iniziali incertezze e alcune diffidenze, si sono dimostrati seri, partecipi e motivati, rivelando inaspettate capacità espressive. La realizzazione del cortometraggio è stata in parte finanziata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, Fondazione un Raggio di Luce, Ordine Avvocati, Società della Salute Pistoiese, Misericordia, Fondazione Tesi Group, Publiacqua, Publiservizi, Chianti Banca, Unicoop Firenze - sezione di Pistoia, Fondazione San Giovanni Pistoia. Sull’obbligo vaccinale per docenti e studenti ora è scontro tra giuristi di Monica Musso Il Dubbio, 21 luglio 2021 Da un lato l’ombra di una “dittatura sanitaria”. Dall’altro la Costituzione, che non vieta la possibilità di introdurre limitazioni. Sull’obbligo vaccinale è scontro tra giuristi, a confronto sull’ipotesi di una stretta che riguardi, in primis, le scuole. Ad affermare la legittimità di un intervento statale che limiti le libertà in caso di mancata vaccinazione è il presidente emerito della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick, che in un’intervista a La Nazione si è schierato a favore dell’obbligo. “Soggetti con controindicazioni mediche sono l’eccezione, ma l’obbligo va introdotto e soprattutto per professioni a contatto con soggetti deboli (ragazzi, ragazze, bambine e bambini, persone inferme) in un quadro di rispetto generale”, ha affermato. Flick si è fatto promotore, assieme a una ventina di giuristi, di una lettera rivolta al presidente del Consiglio Mario Draghi, al quale hanno chiesto una legge che imponga l’obbligo vaccinale per insegnanti e altro personale scolastico, in vista della ripresa delle lezioni in presenza da settembre. Ciò anche in qualità di “nonno”: “Davanti alle conclusioni Invalsi sugli effetti nocivi della Dad e al desiderio dei nostri nipoti di tornare in classe - ha dichiarato a Repubblica - chiediamo al governo di valutare le condizioni migliori per l’accesso a scuola, sia sul fronte dei trasporti che su quello della presenza in aula per evitare che si contagino. Ecco perché l’obbligo di vaccinazione per studenti e prof”. Nulla di trascendentale, secondo Flick, che cita l’articolo 16 della Costituzione: “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza”. Da qui, dunque, la possibilità di introdurre trattamenti medici, come già accaduto in passato, a tutela della salute della collettività. “Esistono doveri di reciprocità”, ricorda il presidente emerito della Consulta, che in merito a eventuali sanzioni spiega: “Esse sono previste. Sanzioni e ammende proporzionate sono inevitabili in caso di mancato rispetto delle leggi. Fermo restando che l’informazione completa e comprensibile è il primo passo per un’adesione consapevole alla legge che sarebbe preferibile. Ci possono essere tante opinioni, ma non è possibile che vinca il caos”. Su Repubblica, Flick si è detto “convinto che lo Stato possa introdurlo (l’obbligo vaccinale, ndr) legittimamente alla luce dell’articolo 16 della Costituzione, che prevede limiti alla libertà di circolazione per ragioni sanitarie, e dell’articolo 32, che tutela il diritto fondamentale alla salute come interesse della collettività”. Non è d’accordo, invece, Fabrizio Giulimondi, consulente giuridico-normativo presso la presidenza della Commissione Agricoltura del Senato, componente del comitato scientifico di ForoEuropa e collaboratore di LabParlamento. “Il Green pass lo inquadro come obbligo indiretto di vaccinazione, bisogna chiamare le cose come sono - ha dichiarato ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”. Nel momento in cui io dico a una persona che può entrare in un luogo pubblico solo se ha fatto due dosi di vaccino, se ha un tampone negativo o se è guarito dal covid, tu gli stai dicendo di fatto di vaccinarsi, è un obbligo indiretto. Dicano se vogliono l’obbligo vaccinale o no, se non lo vogliono non possono rendere obbligatorio il green pass. Il tampone è l’alternativa ma costa, di conseguenza una famiglia di 4 persone che vuole andare al ristorante deve spendere il doppio considerando i tamponi. Imporre così un vaccino può suscitare grossi dubbi di costituzionalità. Vi sono prese di posizione della Corte Europea e del Consiglio d’Europa che sono contro questi mezzi”, ha affermato. Secondo Giulimondi, il vaccino anti- covid, a differenza di altri per i quali è previsto un obbligo, “non è consolidato e validato in tutte le sue fasi, è in fase di controllo, perciò qualche dubbio lo desta. Essere contrari ai vaccini è un’idiozia, ma avere qualche dubbio su questo vaccino lo ritengo ragionevole. Cartabellotta della fondazione Gimbe proprio su Radio Cusano Campus ha detto che mancano i vaccini, questo incide in chiave giuridica e costituzionale, se io sono impossibilitato ad accedere ai vaccini come è possibile imporre il Green Pass? Poi ci sono persone che il vaccino non possono proprio farlo per motivi di salute. Questi sono problemi giuridici importanti, non stiamo parlando del derby Roma- Lazio, non si tratta di dividere in vax e no vax”. Per Marcello Pacifico, presidente nazionale Anief, Associazione nazionale insegnanti e formatori, i vaccini, così come gli strumenti “anti-virus”, “sono importanti, ma secondari rispetto al distanziamento cui continua a fare riferimento lo stesso Comitato tecnico scientifico. La verità è che per il terzo anno consecutivo stiamo andando incontro a delle lezioni con le classi pollaio e non attuando quanto chiesto dal Cts: il distanziamento sociale all’interno degli spazi scolastici chiusi. È certo importante che tutti si vaccinino, però per la ripresa della didattica in presenza bisogna focalizzare l’attenzione pubblica non sull’obbligo vaccinale ma sull’obbligo dello Stato di fornire gli spazi adeguati”. Perché deve essere chiaro, ha detto ancora Pacifico, che “in una classe di 35 metri quadri, più di 15 alunni non possono stare”. Ddl Zan, il confronto naufraga tra più di mille emendamenti di Carlo Lania Il Manifesto, 21 luglio 2021 Quasi 700 presentati dalla Lega. Anche Iv presenta 4 proposte di modifica al testo. Destinato ormai a slittare a settembre. La voglia di confronto tanto richiesta e proclamata nei giorni scorsi ha preso la forma di oltre mille emendamenti al ddl Zan consegnati alle 12 di ieri al Senato. E anche Italia viva, sebbene nei giorni scorsi Matteo Renzi avesse assicurato che non avrebbe presentato richieste di modifica al testo contro l’omotransfobia, alla fine ha depositato quattro emendamenti scritti con Psi e Autonomie. “È la prova che sono inaffidabili”, commenta la dem Monica Cirinnà quando tra i corridoi di palazzo Madama cominciano a circolare le prime notizie sulla decisione presa dai renziani. Come previsto, la parte del leone l’ha fatta la Lega: 672 proposte di modifica quasi interamente messe a punto dai senatori Pillon, Emanuele Pellegrini, Pepe e Urraro che mettono mano praticamente a tutto l’impianto della legge. Più altri venti preparati da Roberto Calderoli e centrati sugli articoli 1, 2 e 4, correzioni sulla libertà di espressione e cancellazione delle parole “identità di genere”. “Se si dialoga, la Lega è pronta a ritirare gran parte degli emendamenti presentati - fa sapere il capogruppo Massimiliano Romeo - Se invece il Pd continuerà a volere lo scontro, affosserà la legge e la tutela dei diritti di migliaia di persone”. “672 emendamenti dimostrano che la volontà della Lega non è mai stata quella di mediare, ma solo di affossare una legge di civiltà”, è la replica della presidente dei senatori dem Simona Malpezzi mentre Enrico Letta conferma quanto va dicendo da giorni: “Impossibile per noi negoziare con la Lega”, afferma il segretario del Pd. La giornata è proseguita con la discussione generale sul provvedimento, ma il percorso che aspetta la legge è sempre più insidioso. I pochi emendamenti renziani, due dei quali firmati dal capogruppo Davide Faraone, insistono anch’essi sugli articoli 1, 4 e 7 e in particolare sulla cancellazione delle parole “sesso”, e “identità di genere” dall’articolo 1 e sull’inserimento all’articolo 7, quello che introduce la Giornata nazionale contro l’omotransfobia, di un riferimento esplicito al rispetto “della piena autonomia scolastica”. Punti che, nel momento in cui si arrivasse al voto segreto, potrebbero convogliare anche i voti del centrodestra rispedendo il ddl alla Camera. “Aver posto come finalità quella di perseguire tutte le condotte discriminatorie fondate su misoginia, abilismo e omotransfobia garantisce la tutela di tutti senza alcuna esclusione”, ha spiegato Faraone. “Adesso non c’è più alcun motivo per non stringere un patto su un testo condiviso e stabilendo tempi strettissimi per approvare il ddl al Senato e poi alla Camera”. Ma è possibile anche che a quel punto non ci si arrivi neppure. La capigruppo riunita prima dell’avvio del dibattito in aula non ha infatti inserito il ddl tra i lavori in programma fino al 30 luglio ma è servita a Lega e Fratelli d’Italia per comunicare l’intenzione di chiedere una nuova sospensiva e di non passare all’esame degli articoli. Sulla prima si procederebbe con voto palese, ma sulla seconda è previsto il voto segreto e potrebbe accadere di tutto. I tempi sono comunque stetti. Dei 36 senatori iscritti a parlare ieri hanno preso la parola in 19. Tutti gli dovranno intervenire nelle tre ore circa rimaste per di più zigzagando tra una serie di decreti che devono essere convertiti. Il primo è il dl sostegni bis che va in aula oggi e deve essere votato entro il 24, ma anche il dl semplificazioni che va licenziato entro il 30. In mezzo le comunicazioni della ministra della Giustizia Cartabia sui fatti di Santa Maria Capua Vetere. Il 6 agosto il Senato chiude per la pausa estiva, ma prima ci sono altri decreti da convertire. Il risultato, scontato, è che se tutto va bene del ddl Zan se ne riparlerà come minimo a settembre. Droghe. Libro Bianco e Relazione al Parlamento: stessa diagnosi di Maurizio Cianchella Il Manifesto, 21 luglio 2021 Il 30 giugno è stata pubblicata dal Dipartimento per le Politiche Antidroga la Relazione Annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia. Nelle 422 pagine vengono (anche) condivisi e brevemente commentati quegli stessi dati che sono ogni anno oggetto di analisi sul Libro Bianco sulle Droghe, in particolare: ingressi e presenze in carcere, procedimenti penali pendenti, segnalati, segnalazioni e relative sanzioni amministrative, misure alternative. Tra i dati da noi raccolti e quelli presentati dal DPA molti coincidono, ma vi sono anche delle discrasie: alcune sono dovute al fisiologico consolidarsi dei dati, che spostano di poche unità i conteggi. Un esempio è il totale dei ristretti ex DPR 309/90 al 31 dicembre 2019, che da 21.147 sono diventati 21.213: aggiustamenti privi di una reale rilevanza statistica. Notevoli differenze emergono invece, negli anni precedenti al 2020, nella tabella relativa a segnalati e segnalazioni: su questi dati sarebbe auspicabile un confronto, volto a comprendere come sia possibile che tra “i nostri” numeri (annualmente inviatici dal competente ufficio del Ministero) e “i loro” ci sia una forbice tanto ampia. Del resto, confrontando l’ultima Relazione al Parlamento con quella dell’anno precedente è possibile riscontrare sensibili differenze, che diventano ancor più marcate se si guarda la Relazione 2019 sui dati 2018. Una tale schizofrenia non può essere frutto del mero consolidamento: i numeri riportati nelle Relazioni divergono (parecchio) già a partire dal 2010; in termini di raccolta statistica, quei dati avrebbero dovuto esser scritti sulla pietra. Molto distanti anche i dati sugli ingressi in carcere nel 2020: 35.280 di cui 10.852 ex art. 73, stando al Libro Bianco; 53.933 di cui 15.698 ex art. 73 nella Relazione al Parlamento. In questo caso crediamo si tratti di un errore materiale da parte del Dipartimento per le Politiche Antidroga: nei lunghi mesi di lockdown, di limiti alla circolazione, di tribunali chiusi e udienze rimandate, è infatti difficile immaginare che si sia verificata un’impennata degli ingressi in carcere (+16,7% sul 2019). Molto più plausibile è il decremento (-23,6%), come accaduto per detenuti presenti, segnalazioni e segnalati. È ipotizzabile allora si sia fatto l’errore di inserire, in luogo degli ingressi, i detenuti presenti (in una data diversa dal 31 dicembre, giacché i numeri sono diversi). In linea generale, i dati sono inequivocabili: il proibizionismo è e resta il volano di ogni politica carceraria; un detenuto su tre è in carcere per violazione della normativa antidroga, uno su quattro è “tossicodipendente;” quasi il 75% delle segnalazioni e la metà (in kilogrammi) dei sequestri riguarda la cannabis e i suoi derivati; dal 1990 al 2020, circa un milione di persone sono state segnalate ex art. 75 per consumo di cannabinoidi. Ogni anno lo Stato spende miliardi di euro per processare, incarcerare, sequestrare. Ciononostante, qualsiasi tipo di droga circola liberamente nelle strade, e i proventi del mercato vengono incamerati e riciclati dalle mafie. I consumatori, stigmatizzati, si allontanano dai servizi, talvolta dedicandosi alla microcriminalità e al piccolo spaccio, e indulgendo in modalità di consumo più rischiose perché clandestine. Nel 2020, in Italia, 308 persone sono morte per overdose. Numeri tremendi sebbene in diminuzione, ma che impallidiscono a fronte degli oltre centomila morti causati ogni anno, congiuntamente, da alcol e tabacco: prodotti legali, pubblicizzati, tassati, che nessuno si sognerebbe di proibire. Serve quindi un nuovo approccio, più umano ma anche più efficace, che al dogma prediliga i risultati, che metta al centro la sicurezza e la salute pubblica anziché il furore ideologico che tanti danni ha fatto da decenni a questa parte. L’ora sarebbe giunta, ma pare che al governo gli orologi siano ancora fermi a trentuno anni fa. Una sentenza rivela qual è la sfida intorno al ruolo della religione nella sfera pubblica di Pasquale Annicchino Il Domani, 21 luglio 2021 La politicizzazione della religione è un fenomeno che riguarda diversi paesi nel mondo e che può portare a esiti anche apertamente in conflitto con il sistema di tutela dei diritti individuali e collettivi, essenziale nelle democrazie liberali. Negli ultimi giorni Domani ha raccontato la storia di Ikram Nazih, la studentessa italo-marocchina condannata in Marocco a 3 anni di carcere per oltraggio all’islam. I conflitti sulla religione si moltiplicano quotidianamente in numerosi paesi. È questo, ad esempio, il caso della Germania relativo a IX e MJ, dipendenti di due società tedesche (la “Wabe eV” e la “Mh Muller Handels GmbH”) in qualità, l’una, di educatrice specializzata e l’altra di consulente di vendita e cassiera. Entrambe avevano deciso di indossare un velo islamico sul luogo di lavoro. Tale decisione veniva contestata dai datori che nel caso di IX si determinavano ad applicare prima un provvedimento di ammonimento formale e poi di sospensione dalle funzioni lavorative. Nel caso di MJ, davanti al suo rifiuto di togliere il velo sul luogo di lavoro, il datore, dopo averla invitata a tornare a casa, le ha nuovamente chiesto di presentarsi senza segni che esprimessero qualsiasi convinzione religiosa, politica o filosofica. Tali richieste erano dettate dalla necessità di aderire a una politica di neutralità perseguita nei confronti di genitori, bambini e clienti in generale. Una recente sentenza della corte di Giustizia dell’Unione europea, resa pubblica il 15 luglio, ha sancito che è possibile per un datore di lavoro vietare ai suoi dipendenti di indossare qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose. Tale decisione deve essere tuttavia giustificata da una reale esigenza. Inoltre, secondo i giudici, le corti nazionali possono anche tener conto dello specifico contesto dello stato membro dell’Unione e, nello specifico, delle norme nazionali più favorevoli e relative alla tutela della libertà di religione. La critica turca - In tal senso, nel ragionamento della corte del Lussemburgo, la volontà di un datore di lavoro di adottare una politica di neutralità politica, filosofica o religiosa può essere ritenuta una finalità legittima, ma deve costituire un’esigenza reale dell’impresa, quale, ad esempio, la prevenzione dei conflitti sociali o la presentazione del datore di lavoro in modo neutrale nei confronti dei clienti. Il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu non si è lasciato sfuggire l’occasione per sferrare un attacco contro le istituzioni dell’Unione affermando che “vietare il velo islamico o più in generale qualsiasi forma visibile di espressione delle convinzioni politiche, filosofiche o religiose è una chiara violazione delle libertà religiose”. Tale sentenza, quindi, sarebbe quindi una manifestazione di “intolleranza verso i musulmani” e non avrebbe altro effetto se non quello di aggravare “i pregiudizi contro le donne musulmane in Europa”. Secondo Cavusoglu “questa situazione ha un impatto molto negativo sulle donne musulmane escludendole dalla sfera socio-economica. Non si può negare che questa tendenza sia pericolosa e mostri che dal passato non si è imparato nulla”. Sulle stesse frequenze sembrano sintonizzarsi le dichiarazioni dell’UcoiI (Unione delle comunità islamiche in Italia) che, mediante un comunicato, ha chiesto di rivedere la sentenza. Per la vicepresidente dell’UcoiI, Nadia Bouzekri, tale decisione rappresenterebbe addirittura “un altro passo verso l’istituzionalizzazione dell’islamofobia. Un atto che questa volta non si mostra sotto forma di riconoscibili manifestazioni di hater dietro una tastiera, ma con il volto più presentabile delle istituzioni comunitarie”. Queste due reazioni, sicuramente sproporzionate rispetto all’effettivo impatto della sentenza (basta pensare all’ampio margine che viene garantito ai contesti nazionali), ci dicono molto della partita che si gioca oggi nel mondo sul ruolo della religione nella sfera pubblica. Da una parte ci sono le solite grandi ambizioni di Erdogan rispetto al monopolio della rappresentazione delle istanze dei fedeli musulmani in Europa e nel mondo unite al populismo religioso che rappresenta parte integrante delle sue politiche. Dall’altra, probabilmente, una valutazione troppo affrettata di quello che sarà il reale impatto della decisione della Corte. La partita sul ruolo della religione nella sfera pubblica riguarda tutte le istituzioni. Sarà bene che si organizzino per tempo. Norvegia. La superstite di Utøya: “Mi sono salvata e ho capito che Breivik è uno di noi” di Marco Consoli La Repubblica, 21 luglio 2021 Kamzy Gunaratnam, 33 anni, fuggì dall’isola gettandosi in acqua. Racconta la sua vita e spiega perché è pericoloso considerare l’assassino un mostro. Quando abbiamo saputo dell’esplosione a Oslo mi sono preoccupata di rassicurare i ragazzini che erano con me nell’isola di Utøya, dove si svolgeva il campus estivo della sezione giovanile del Partito laburista norvegese, perché ero una dei dirigenti ed erano sotto la mia responsabilità. Qualche ora dopo abbiamo sentito dei botti sull’isola, e ci siamo avvicinati ai rumori, perché pensavamo fossero fuochi d’artificio. Subito però abbiamo incontrato decine di altri ragazzi che scappavano nella nostra direzione, dicendo che un poliziotto stava sparando e uccidendo tutti. In casi del genere puoi restare paralizzato dalla paura, cercare di combattere o nasconderti. Io ho scelto di scappare: ho messo il cellulare in modalità silenziosa dentro il reggiseno e sono fuggita verso la riva”. Kamzy Gunaratnam, 33 anni, oggi vicesindaco di Oslo e candidata alle prossime elezioni parlamentari di settembre, era a Utøya il 22 luglio di dieci anni fa. “Fuggivo e sentivo i colpi di arma da fuoco e il tonfo delle persone che crollavano a terra, e quando sono stata vicino al lago ho deciso che se dovevo morire preferivo affogare. Così mi sono tuffata e ho nuotato finché, all’improvviso, ho visto una barca. Poi mi hanno portata in un hotel dove radunavano i sopravvissuti”. Che cosa è accaduto dopo? “La gente piangeva e urlava e io non volevo stare lì. Volevo dormire, mi sembrava tutto assurdo. Quando mi sono svegliata e ho sentito delle decine di morti sono rimasta scioccata. Poi ricordo in tv le parole del premier Jens Stoltenberg: la nostra risposta sarà più apertura e maggiore democrazia, perché sono l’esatto contrario di ciò in cui crede Breivik”. Cosa ha pensato quando ha conosciuto le farneticanti motivazioni della strage? “Non ricordo esattamente, ma tre giorni dopo mi hanno intervistata in tv e ho detto che non odiavo Breivik, ma provavo pietà per lui. Perché le sue idee ci potranno anche sembrare folli, ma lui non è un mostro, è una persona come noi e un prodotto della società. Anche lui è stato un bambino che giocava con altri bambini. Se si riduce tutto al fatto che è matto, come faremo a evitare che un altro come lui cresca nella nostra società?”. Ha mai parlato con Breivik? “Ho scritto un libro che si apre con una lettera che Breivik ha scritto nel gennaio 2020 a me e ad altri parlamentari in cui presenta le proprie scuse. Sostiene di aver cambiato le sue idee da posizioni di estrema destra ad una, diciamo, più moderata. Così nell’ultimo capitolo gli ho scritto a mia volta più o meno queste parole: “Ho letto la sua lettera e volevo farle sapere come lei abbia traumatizzato me e un’intera generazione che non si sente più al sicuro. Anche se lei parla di supremazia bianca io sono meglio di lei, perché lavoro per creare una società aperta che includa anche quelli come lei, quindi non ha nulla da insegnarmi”“. Fuori dalla Norvegia la pena di 21 anni è stata giudicata troppo lieve. Breivik tra 11 anni potrebbe uscire dal carcere. Come la fa sentire? “La prigione deve punire, ma allo stesso tempo bisogna reinserire i criminali nella società quando hanno scontato la pena. Certo, da vittima, trovo un insulto l’idea che possa girare a piede libero, ma io devo ragionare da politica. Quando nel 2015 sono diventata vicesindaco di Oslo ho detto che Breivik dovrebbe andare a lavorare in uno di quei centri che accolgono gli immigrati, perché solo così potrebbe cambiare la propria prospettiva”. Di recente il primo ministro Erna Solberg ha dichiarato che la Norvegia ha un problema di razzismo strutturale. Lei che è arrivata a tre anni come rifugiata dallo Sri Lanka che ne pensa? “Quando avevo sette anni due ragazzini più grandi mi spalmarono la faccia di neve cercando di lavare via il colore della mia pelle. All’epoca però non avevo l’età per capire quel tipo di attacco, proseguito in maniera più sfumata nella mia vita da adulta. Ora la mia autostima mi permette di ignorare tutto ciò. In Norvegia non c’è l’apartheid e non tutti sono razzisti. Ma il razzismo diventa strutturale quando la cultura discriminatoria si ripete e non si fa nulla per contrastarla. I razzisti spesso non conoscono persone diverse da sé, e aprirsi e conoscere gli altri e il mondo è l’unico modo di cambiare le cose”. Crede che i social media siano parte del problema? “Oggi puoi pubblicare tutto quel che ti passa per la testa in pochi secondi senza filtro. Credo che il problema sia che la gente non ha più il tempo di riflettere prima di esprimersi”. Alcuni cittadini di Utøya si sono opposti alla costruzione di un memoriale per le vittime. L’odio si propaga più facilmente anche perché dimentichiamo in fretta? “Dobbiamo ricordarci di chi è morto e sapere perché è morto. Penso che alcuni norvegesi non vogliano ricordare perché è difficile ammettere che Breivik è uno di noi e che qualcosa di orribile può accadere anche nel nostro Paese”. Nel documentario lei sembra molto forte, uscita quasi indenne da quei tragici eventi. Posso chiederle qual è il peso che si porta addosso a distanza di 10 anni? “Mi sento in colpa per essermi tuffata e non aver salvato molti ragazzi che non hanno voluto nuotare con me. E da quel giorno non posso più entrare in un luogo chiuso senza controllare dove sono le vie d’uscita. Ricordo di essere andata al cinema un paio d’anni fa con un’amica e averle detto come se fosse una cosa normale: se qualcuno inizia a sparare dobbiamo correre da quella parte”. Il Sudafrica e lo spettro dell’identità tribale, così un paese sprofonda nel caos di Christian Putsch* La Repubblica, 21 luglio 2021 Saccheggi, incendi dolosi, blocchi stradali: il colosso del continente africano è scosso da violenti disordini dopo l’arresto dell’ex presidente Jacob Zuma. La violenza è frutto delle sue tattiche di “mobilitazione etnica” degli zulu e la pacificazione sembra difficile. L’esercito sudafricano si stava preparando per una delle sue missioni più delicate. Giovedì 15 luglio è iniziata la sua partecipazione alla lotta al terrorismo islamista nella provincia di Cabo Delgado, in Mozambico, assieme alle truppe di altri Paesi dell’Africa meridionale. Un’iniziativa indispensabile per la stabilità della regione, dal momento che oltre 700.000 persone sono state costrette a fuggire nel Paese vicino. Ma lunedì 5 luglio l’esercito ha annunciato che il suo intervento si rendeva assolutamente necessario anche sul suolo nazionale. Si tratta di una misura estremamente rara, ma urgente. I manifestanti e i criminali violenti hanno scatenato il caos come raramente è accaduto nella storia democratica del travagliato paese. Su Twitter domina il grido di battaglia digitale #ShutdownSA - “paralizza Il Sudafrica”. Un appello che molti interpretano in modo brutale e con opportunismo. Nella metropoli costiera di Durban si bloccano strade importanti, si incendiano centri commerciali e camion. A Durban, ma anche nell’hub economico di Johannesburg e in altre città, i negozi vengono saccheggiati su larga scala. La polizia è completamente sopraffatta. Almeno sette persone sono state uccise, si stanno formando gruppi di vigilanti armati contro i criminali. I danni alle proprietà ammontano a centinaia di milioni di euro. Il “presidente dalle nove vite” in carcere - Non si tratta più solo del detonatore delle proteste, l’incarcerazione dell’ex presidente sudafricano Jacob Zuma. Mercoledì 8 luglio il politico settantanovenne ha finalmente iniziato la sua pena detentiva di 15 mesi, a cui era stato condannato dalla Corte costituzionale per aver violato una disposizione giudiziaria. Non si trattava affatto dei suoi reati di corruzione ben documentati, ma del suo rifiuto di testimoniare davanti a una commissione d’inchiesta. “Come Al Capone”, ha efficacemente sintetizzato il Financial Times, “Zuma è stato incarcerato per un crimine minore”. Per quasi vent’anni Zuma, il proverbiale “Presidente dalle nove vite”, era sopravvissuto a molti casi di impeachment e a numerose accuse, o perlomeno continuava a rimandare i procedimenti. Familiari e seguaci si sono schierati in difesa di Zuma, lui stesso ha paragonato le indagini a suo carico all’amministrazione della giustizia ai tempi dell’apartheid. La scorsa settimana migliaia di sostenitori si sono radunati fuori dalla tenuta di campagna di Zuma nella provincia di KwaZulu-Natal per impedire il suo arresto. Zuma si è arreso e si è costituito solo tre giorni dopo la data stabilita per l’inizio della carcerazione, quando, poco prima della scadenza dell’ultimatum, la polizia si è avvicinata in forze alla proprietà, con oltre 100 veicoli. Un’impunità durata fin troppo, che gli ha consentito di sopravvivere, ma che ne ha anche rivelato la fragilità. Il tradizionalista Zuma, che alla domanda sulla sua identità si definisce “Zulu al 100%”, deve la sua carriera in gran parte al pensiero tribale, che è ben lungi dall’essere oscurato dalle strutture democratiche. E ha utilizzato proprio questa dinamica per impostare la propria difesa. Il pericolo del pensiero tribale - Questa realtà sociale è ignorata dal partito al governo, l’African National Congress (Anc). Dopotutto, qualsiasi altra cosa equivarrebbe a un’ammissione di fallimento, poiché i padri fondatori dell’Anc avevano già indicato come priorità la lotta al “demone del tribalismo”. Le parole pronunciate domenica 11 luglio dal presidente Cyril Ramaphosa sono tanto più significative. Erano state programmate già da tempo di fronte alla terza (e finora peggiore) ondata della pandemia di Covid nel Paese, ma ora Ramaphosa ha anche chiesto la fine delle “attività criminali” - e ha stigmatizzato apertamente la “mobilitazione etnica” che tutti i sudafricani dovrebbero condannare: “Costi quel che costi”. Da giorni, quello che è di gran lunga il principale partner politico ed economico dell’Europa in Africa discute sulla portata del pensiero tribale che si sta manifestando. Helen Zille, che è stata a lungo primo ministro della provincia del Capo occidentale come leader del partito di opposizione “Alleanza Democratica”, ha scelto parole provocatorie, come spesso ha fatto negli ultimi anni. “In sostanza, questa tragedia affonda le sue radici nell’enorme complessità della nostra decisione collettiva di imporre una moderna democrazia costituzionale a una società feudale africana ancora ampiamente tradizionale”, ha scritto in un saggio pubblicato sul sito “News24”, bollato come “antropologia a buon mercato” dal commentatore politico Eusebius McKaiser. L’Anc ha sottolineato il suo “chiaro impegno” per la Costituzione. Sulla carta, la legislazione sudafricana è una delle più progressiste al mondo. L’Anc ha dato un contributo decisivo alla sua elaborazione in anni di profonda trasformazione sociale, godendo del sostegno di ampi settori della società. Ma l’appartenenza etnica è stata un fattore importante in Sudafrica fin dai primi giorni della democrazia. E questo non vale solo per il rapporto tra bianchi e neri. A differenza dello zulu Zuma, i suoi predecessori Nelson Mandela e Thabo Mbeki appartenevano agli xhosa. Già negli anni Novanta, dopo la fine dell’apartheid, celebrata in tutto il mondo, si parlava spesso delle scelte preferenziali a favore di questo gruppo etnico negli affari e nella politica. Gli zulu - peraltro il gruppo etnico più numeroso del Sudafrica - inveivano contro “Cosa Nostra” e per lungo tempo hanno sostenuto un altro partito, l’”Inkatha Freedom Party” (Ifp). Solo con l’ascesa politica di Zuma molti si sono spostati nel campo ben più conveniente dell’Anc - portando con sé la cultura retrograda del nazionalismo etnico dell’Ifp. Corruzione e crisi economica - Probabilmente questo è stato possibile solo perché il successo del modello sociale sudafricano dipende dallo sviluppo economico per tutti. Nonostante la forte crescita economica iniziale, divenne subito chiaro che le disuguaglianze sociali sarebbero rimaste tra le più elevate del mondo. E che della crescita avrebbe beneficiato soprattutto una piccola minoranza. Con il diffondersi della corruzione nell’Anc, ma anche con il crollo dei prezzi delle materie prime, così importanti per l’export sudafricano, si sono deteriorate le condizioni economiche generali. E, come è avvenuto in tutto il mondo in tempi di crisi economica, l’attenzione si è spostata sempre più sulla politica dell’identità. In Sudafrica si sono moltiplicati gli attacchi retorici alla minoranza bianca, mentre l’amministrazione di Zuma dominata dagli zulu ha lavorato in parallelo per smantellare i meccanismi di controllo democratico. Zuma è stato “eletto costituzionalmente, ma ha agito come un capo tribù”, ha dichiarato Zille a proposito dei quasi nove anni nei quali l’ex presidente ha esercitato il suo mandato, conclusosi nel 2018 con le dimissioni forzate e la promessa del suo successore Ramaphosa di liquidare le strutture corrotte. A distanza di tre anni, ciò non è avvenuto nella misura sperata, anche perché Zuma continua ad applicare gli stessi principi e a minare sistematicamente la fiducia nelle istituzioni statali. Zuma mette in conto che nel corso degli attuali disordini vi siano anche violenze xenofobe contro i migranti africani, come nel caso dei camionisti stranieri. Egli lucra politicamente anche sulla rabbia provocata dalle rigorose misure di contrasto alla pandemia di Covid, per effetto delle quali la disoccupazione è aumentata a livelli da record. “Per salvarsi la pelle, ha liberato i demoni del tribalismo”, ha scritto Mondli Makhanya, caporedattore di “City Press”. “In questo modo, sta riportando indietro di un secolo il lavoro dei membri dell’Anc e delle altre correnti della lotta di liberazione sudafricana”. *Traduzione di Carlo Sandrelli