Un carcere diverso è possibile di Filippo Giordano* e Luigi Pagano** Corriere della Sera, 20 luglio 2021 Caro direttore, abbiamo letto l’articolo di Gabanelli e Piccolillo del 12 luglio scorso titolato “Con le celle aperte aumentano le violenze”. Riteniamo importante che dopo i fatti drammatici di Santa Maria Capua Vetere si ritorni a parlare dei problemi del carcere, ma è necessario che il dibattito si sviluppi in termini globali partendo da una base di conoscenza delle norme e riconoscendo la complessità del sistema. Attribuire la genesi delle violenze in carcere all’apertura delle celle riteniamo sia operazione alquanto opinabile in quanto non è dimostrato il nesso causale che legherebbe i due fenomeni né si tiene conto di altri fattori che incidono sul verificarsi degli eventi quali lo stato delle strutture, il sovraffollamento, la mancanza di attività rieducative, la presenza in carcere di persone tossicodipendenti o con disturbi psichici. La soluzione non è ridurre gli spazi di libertà e non solo perché la pena non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità (articolo 27 della Costituzione), ma perché l’esperienza e la ricerca ci dicono che il rispetto dei diritti e della dignità delle persone oltre che ridurre le tensioni e le violenze, motiva il personale e incide sulla recidiva. Giustamente nell’articolo si ricorda che nel 2011 una circolare del Dap iniziò a concedere ai detenuti comuni più ore al di fuori della cella; una scelta di civiltà e legalità in quanto dal 1993 ad allora nulla era stato fatto per migliorare le loro condizioni di vita divenute drammatiche a causa del sovraffollamento è non a caso nel 2010 fu dichiarato dal governo lo stato d’emergenza nazionale delle carceri. Da quella circolare in poi si sono sviluppati gli altri interventi citati nell’articolo. È necessario ricordare che questa azione era appena iniziata quando la Cedu nel 2013 con la sentenza “Torreggiani” condannò l’Italia, la seconda volta in pochi anni, per le condizioni delle sue carceri definite strutturalmente inumane e degradanti e lo stesso presidente della Repubblica Napolitano sollecitò il varo di misure incisive con un messaggio indirizzato alle Camere in cui parlò di “mortificante conferma della perdurante incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena”. Fatte queste premesse non vogliamo a nostra volta cadere nella semplificazione. Certo che ci sono situazioni critiche, certo che in molti istituti i detenuti stazionano nei corridoi senza aver altro da fare, ma questo dovrebbe suggerire investimenti in programmi di riabilitazione e in strutture che ne favoriscano lo svolgimento. Nell’articolo si fa riferimento ai casi di Bollate e Padova come eccezioni all’interno di un sistema che si muove con regole diverse, laddove, invece, quelle esperienze dicono che un carcere diverso è possibile, un carcere che non degradi le persone, ne accresca il senso di responsabilità e miri a ridurre la recidiva. E questo è un risultato che un’accorta politica penitenziaria può estendere al sistema. * Professore Università Lumsa ** Vice-Capo Dap 2012-2015 Risponde Milena Gabanelli Gentile Pagano, in qualità di vice-capo del Dap non le sarà sfuggito il mio personale e ormai decennale impegno nel sollecitare le istituzioni ad occuparsi della dignità dei carcerati, anche mostrando concretamente cosa si sta facendo nelle altre carceri europee e i conseguenti risultati in termini di abbattimento di recidiva. La questione “celle aperte uguale ad incremento di violenza” è da parte vostra una lettura maliziosa: nell’articolo si specifica che potrebbe essere attribuita ad una eliminazione della sorveglianza negli spazi comuni (è specificato nella circolare del 2015). Una considerazione legittima confrontando i dati registrati dal Dap dal 24914 in poi, in merito al rilevante aumento di aggressioni e intimidazioni. L’impennata di tentati suicidi e atti di autolesionismo degli ultimi sei anni non ha precedenti. Atti che peraltro avvengono all’interno delle camere di pernottamento. Il Dataroom diceva chiaramente che è “civile” aprire le celle, ma non ci si può fermare lì, come invece è stato fatto. Con il “piano carceri” gli investimenti ci sono stati eccome. Cemento, non moduli. Ne hanno beneficiato i costruttori, non certamente i detenuti. Ci sono carceri con più personale che detenuti e dove c’era sovraffollamento, c’è ancora. Non abbiamo mai scritto che l’esperienza di Bollate e Padova non è replicabile, bensì che non basta sbandierare continuamente gli esempi straordinari senza fare nulla per replicarli. Come si può parlare di dignità se si continuano a tenere nelle stesse celle e negli stessi spazi i condannati in via definitiva, i detenuti psichiatrici, con quelli in attesa di giudizio? Il fatto che il numero dei detenuti negli ultimi dieci anni sia calato di 17.000 unità, mentre il tasso di recidiva continua ad essere del 70% (la più alta d’Europa), parla da solo. Contro il populismo penale, svuotiamo le carceri di Agnese Rapicetta beleafmagazine.it, 20 luglio 2021 Intervista a Stefano Anastasìa. “Ci vuol poco a mettere in ansia l’opinione pubblica su fatti di cronaca legati alle droghe, ma bisognerebbe anche saper spiegare che, con una diversa politica, si potrebbero facilmente superare tutte quelle situazioni che creano tanta preoccupazione”. Ne è convinto Stefano Anastasìa, Garante dei detenuti della Regione Lazio che non ha dubbi sul percorso da fare: bisogna depenalizzare i reati sulla droga. “L’unico modo per riformare le carceri e svuotarle è ridurre all’indispensabile: cioè mettere dentro solo chi ha commesso gravi reati contro le persone”, ci dice ancora, ricordando che chi ha commesso reati per droga non dovrebbe essere dentro un carcere. Eppure sono la percentuale più alta della popolazione carceraria. Il 35% dei detenuti infatti sono dentro per reati legati alla droga e in particolare per la violazione degli articoli 73 e 74 del Testo Unico sulle droghe. Si sa anche che la maggioranza dei detenuti scontano condanne minori di tre anni quindi si può facilmente ipotizzare che non si tratta di grandi traffici internazionali di droga, ma reati legati allo spaccio di strada. Insomma in carcere ci sono solo ‘i pesci piccoli’? “Sicuramente sì. Basta vedere i numeri di condannati per l’articolo 73 (spaccio di stupefacenti) e l’articolo 74 (traffico di stupefacenti in associazione, quindi legato ad organizzazioni criminali): nel 2020 i primi erano 12143, chi invece era stato condannato per entrambi gli articoli erano 5616, solo per l’articolo 74 erano in 938. Quindi si può dire, senza essere smentiti, che due terzi di chi sta in carcere sono piccoli spacciatori”. E perché sono in carcere se sono ‘solo’ piccoli spacciatori? “Ovviamente gli spacciatori e le persone tossicodipendenti sono quelli che suscitano più ansia nell’opinione pubblica e fra la società civile. E di solito sono anche quelli che hanno meno risorse per evitare il carcere. Difficilmente un colletto bianco implicato in fatti di droga finirà in cella, mentre un immigrato irregolare - perché la maggior parte degli spacciatori hanno quel profilo - non avendo garanzie da dare, è sicuro che andrà dentro”. Però con una condanna a pochi mesi. Sappiamo che la maggioranza della popolazione carceraria è dentro per pene inferiori o uguali a tre anni, come si può mettere in atto la funzione rieducativa e di reinserimento nella società con così poco tempo? “Non si può. E infatti queste persone sono anche quelle che hanno il più alto tasso di recidive. È difficilissimo fare un percorso di formazione professionale in tempi così brevi: per iniziare questa strada ci vuole tempo, tanta burocrazia e spesso accade che a metà del percorso il detenuto ha finito di scontare la sua pena ed esce. Immaginiamo quindi che senso può avere l’esecuzione di una pena per un detenuto che deve scontare due anni? Nessuna, se non un intento punitivo. Ci si limita a dare qualche rassicurazione temporanea ad una parte di popolazione che vede magari il suo quartiere pieno di spacciatori ma non risolve il problema. C’è una grande spreco di energia e di risorse pubbliche ma il risultato è sempre lo stesso: la droga gira uguale”. Il carcere è diventato un grande amplificatore delle disuguaglianze sociali? “Il carcere seleziona, purtroppo, fin dalla fase processuale. Soprattutto gli immigrati stranieri, che non capiscono pienamente cosa accade in queste fasi, subiscono dei processi rapidissimi che potrei definire sommari. Nella fase esecutiva poi, chi entra in carcere senza risorse esterne - sociali o relazionali- molto probabilmente finisce la sua pena in carcere. Quindi il carcere diventa la riproduzione delle disuguaglianze che ci sono nella società invece di essere, come ci dice la nostra Costituzione, un luogo di recupero e reinserimento. Purtroppo quando cominci a vivere esperienze di carcerazione, fossero anche soltanto di pochi mesi, ma ripetuti nel tempo, la tua vita diventa il carcere”. Ma quindi il problema del sovraffollamento carcerario non è un problema irrisolvibile, un modo per risolverlo ci sarebbe: cambiare le leggi sulle droghe “Con una diversa politica sulla droga certamente il problema potrebbe essere superato e le carceri sarebbero praticamente svuotate”. Ma manca la volontà politica per farlo… “Manca la volontà però nel resto del mondo le cose stanno cambiando e si potrebbe prenderne esempio. Quello che noi abbiamo è ancora l’influsso della War On Drugs di Reagan e delle Nazione Unite, che in Italia sono state recepite dalla legge Iervolino-Vassalli e inasprite ancor di più con la Fini-Giovanardi. Ma questa ormai è una posizione che è stata superata. Pochi Stati al mondo continuano su questa strada, solo la Russia e pochi altri”. Ma lei tutte queste informazione le ha date in Parlamento quando è stato audito in Commissione Giustizia? Cioè i parlamentari ne sono consapevoli? “Certamente. E non sono stato l’unico ad aver detto che servirebbe distinguere nettamente fra la repressione della criminalità organizzata dalla manovalanza che quelle organizzazioni utilizzano. Ma i tempi, evidentemente, non sono ancora maturi per superare l’ideologia su questo argomento”. Lei è a favore della depenalizzazione delle droghe ma è a favore anche della legalizzazione della cannabis? “Sicuramente è un percorso che va intrapreso anche nel nostro Paese. La cannabis è una sostanza di massa che coinvolge centinaia di migliaia di adolescenti e che ha bisogno non di repressione e proibizione ma di informazione. Rendere consapevole un ragazzo o una ragazza è molto meglio che proibire, ovviamente senza incentivare ad un abuso di questa sostanza. Anche su questo punto in altri Paesi si sono fatte sperimentazioni di consumo controllato che hanno coinvolto anche sostanze molto più pesanti, e che avevano l’obiettivo di ridurne l’utilizzo e togliere il controllo alle criminalità organizzate. I risultati sono stati ottimi”. Domande alla ministra Cartabia sul pestaggio di Stato in carcere di Nello Trocchia Il Domani, 20 luglio 2021 Finalmente la ministra della Giustizia Marta Cartabia risponde alla camera dei Deputati sul pestaggio di stato compiuto dagli agenti della polizia penitenziaria il 6 aprile nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. La ministra, all’atto dell’insediamento, ha ricevuto dai vertici del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, un fascicolo sui fatti di Santa Maria? La ministra intende rivedere l’utilizzo dei gruppi di supporto agli interventi, gli agenti che, nell’orribile mattanza, erano muniti di caschi e provenivano da altri istituti? Domani mattina la ministra della Giustizia Marta Cartabia riferirà alla Camera sul pestaggio di stato compiuto dagli agenti della polizia penitenziaria il 6 aprile del 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. La prima inchiesta di Domani sull’orribile mattanza risale al 29 settembre 2020. Il ministro della Giustizia era Alfonso Bonafede. Che ha deciso di non rispondere alle nostre domande. Il governo Conte II ha riferito in aula il 16 ottobre 2020, sollecitato da un’interrogazione di Riccardo Magi, deputato di +Europa. La risposta dell’allora sottosegretario Vittorio Ferraresi ha avallato la versione di chi ha ordinato la perquisizione e contribuito al depistaggio successivo: “Si è trattato di una doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto”. Ferraresi ha ripetuto notizie, false, che Domani aveva già smentito. Nessuna protesta violenta si era verificata il 5 aprile, nessuna resistenza da parte dei detenuti. Il governo Draghi si è insediato a febbraio e Marta Cartabia ha preso il posto di Bonafede. Nonostante fossero noti a tutti i nomi dei 57 agenti indagati per tortura che avevano partecipato alla spedizione punitiva, nessun provvedimento è stato adottato nei loro confronti. Eppure erano note anche l’indagine a carico del provveditore regionale Antonio Fullone che aveva disposto la perquisizione straordinaria; la morte di un detenuto, picchiato e messo ingiustamente in isolamento; persino la presenza di video con le immagini dei pestaggi contro i detenuti. Il 28 giugno il giudice Sergio Enea ha disposto 52 misure cautelari, l’indagine della procura di Santa Maria Capua Vetere riguarda 117 agenti. “La ministra Cartabia e i vertici del Dap rinnovano la fiducia nel corpo della polizia penitenziaria, restando in attesa di un pronto accertamento dei gravi fatti contestati”, si legge in un lancio Ansa di quel giorno. Il 29 giugno Domani pubblica i video, inviati prima alla portavoce della ministra. Il commento dal ministero è questo: “Mai come in queste ore valgono le parole dette dalla ministra alla festa della polizia penitenziaria: “Nessuna violenza può mai trovare giustificazione. Ogni violenza dovrà sempre essere condannata, fermata e punita. Ma soprattutto prevenuta”. Sono molte le domande alle quali la ministra non ha ancora risposto. Abbiamo provato a riassumerle: 1. Dopo il suo insediamento la ministra ha ricevuto dai vertici del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, un fascicolo sui fatti di Santa Maria? 2. Come intende procedere nei confronti dei vertici del Dap che hanno sottovalutato il caso? 3. La ministra intende introdurre il codice identificativo per gli agenti come chiesto da oltre 30mila persone che hanno firmato la nostra petizione su Change.org e da Amnesty? 4. Perché la ministra non ha adottato alcun provvedimento di sospensione prima dell’esecuzione degli arresti disposti dal giudice Enea? 5. Perché non ha trasferito Antonio Fullone, provveditore regionale, che aveva disposto la perquisizione straordinaria ed era indagato dallo scorso settembre? 6. Perché la direttrice, non indagata e non presente il giorno 6 aprile, ma che ha creduto alla tesi dei depistatori e ha detto che Lamine Hakimi era morto perché “strafatto”, è rimasta al suo posto? 7. La ministra ha parlato di assunzioni. Quando sarà rafforzato il corpo dell’amministrazione penitenziaria e verranno assunti educatori e psichiatri? 8. Perché non ha dato seguito al decreto del luglio 2020 di riordino e rafforzamento del Gom, gruppo operativo mobile? 9. La ministra intende rivedere le modalità di utilizzo dei gruppi di supporto agli interventi, gli agenti che, nella mattanza, indossavano caschi e provenivano da altri istituti? 10. La ministra ha intenzione di sospendere gli altri agenti coinvolti, indagati e ancora in servizio? 11. La ministra intende costituire il ministero della Giustizia come parte civile nel processo che si aprirà al termine delle indagini preliminari? 12. Le carceri sono piene di persone che hanno violato il testo unico sulle droghe (il 30 per cento degli ingressi nel 2020). La ministra promette di depenalizzare alcuni reati. Intende partire dall’articolo 73 del testo unico sulle droghe, depenalizzando le violazioni di lieve entità e affrontando la presenza di tossicodipendenti nei nostri istituti di pena? 13. Ha parlato con il leader della Lega Matteo Salvini che su carcere e depenalizzazione dei reati la pensa in maniera profondamente diversa da lei? Cpr, l’involucro vuoto della detenzione amministrativa in Italia di Gaia Pelosi e Pierfrancesco Albanese orizzontipolitici.it, 20 luglio 2021 Accade ciclicamente che i Centri di permanenza per i rimpatri (CPR) d’Italia salgano alla ribalta delle cronache. Spesso per episodi controversi. Altrettanto sovente per tragedie. Annunciate, si dice dopo. Come nel caso di Moussa Balde, 23enne originario della Guinea, giunto in Italia nel 2016 dopo la traversata dalla Libia. Accusato di un furto, viene sprangato a Ventimiglia da tre italiani. Chiuso nel CPR di Torino per la pendenza di un permesso di soggiorno scaduto e di un decreto di espulsione, è messo in isolamento. Dirà al suo legale di non riuscire a stare rinchiuso. Due giorni dopo si suicida. Alle statistiche, sarà il sesto detenuto morto nell’arco di un breve periodo. Prima di lui, in cinque muoiono nei CPR italiani dal giugno 2019 al dicembre 2020. Lo evidenzia il Garante dei Detenuti, Mauro Palma, nel riferire gli eventi tragici che si sono susseguiti nell’arco temporale considerato. Tanti. “Mai un numero così elevato”, scrive. Tanto che “Appare difficile non considerare tali serie di eventi infausti come il sintomo di realtà detentive gravemente e fisiologicamente problematiche non sempre in grado di proteggere la sicurezza e la vita delle persone”. Uno sguardo sui CPR in Italia - Le strutture di trattenimento per stranieri irregolari vengono create nel 1998 attraverso la Legge Turco-Napolitano, meglio conosciuta come T.U.I. (Testo unico sull’immigrazione), che le disciplina. Esse hanno cambiato nel tempo il proprio assetto e la propria denominazione: nel 1998 queste strutture vengono alla luce come Centri di permanenza temporanea e assistenza (CPTA) e vengono successivamente definite Centri di identificazione ed espulsione (CIE); nel 2017 invece, assumono la denominazione di Centri di permanenza per i rimpatri (CPR). Ma in cosa consistono concretamente? Quando un cittadino straniero è destinatario di un provvedimento di espulsione o di respingimento che, per ragioni attinenti alle politiche migratorie non è possibile mettere in pratica immediatamente, il Questore dispone il trattenimento dell’immigrato presso un centro di permanenza per i rimpatri. A seguito del decreto-legge 130/2020, il cosiddetto decreto Lamorgese, il tempo massimo di trattenimento in queste strutture passa da 180 a 90 giorni, durante i quali viene limitata la libertà personale del soggetto irregolare. Questa condotta è consentita dall’art.5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) che recita: “ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti (caso di respingimento ed espulsione) e nei modi previsti dalla legge”. La domanda sorge spontanea: perché un immigrato viene trattenuto? La detenzione non riflette l’esecuzione di una sanzione penale; in altre parole lo straniero trattenuto non ha commesso nessun crimine. Il trattenimento nei CPR infatti, è semplicemente legittimato da illeciti di tipo amministrativo come il mancato rinnovo del proprio permesso di soggiorno. Questa limitazione della libertà personale dovrebbe essere, in virtù della legislazione relativa agli stranieri, una modalità residuale a cui ricorrere in “extrema ratio”. In realtà, sebbene esista un’alternativa che non preveda misure detentive, i requisiti di affidabilità che lo straniero deve possedere sono spesso difficili da ottenere: egli deve, ad esempio, essere in possesso di documenti, passaporto e di un domicilio in cui essere rintracciato. Questo porta la detenzione amministrativa, in attesa dell’espulsione, ad essere la misura più ricorrente. Nonostante - dati alla mano - si dimostri spesso inefficiente: nel 2019 meno del 50 per cento dei detenuti nei CPR d’Italia è stato poi rimpatriato. Di questi, 515 detenuti sono stati rilasciati perché non identificati. E dunque, giocoforza, inseriti nel circuito della clandestinità. Con l’avvento della pandemia, poi, la chiusura delle frontiere ha fatto il resto: perché - hanno domandato associazioni e interessati - detenere i migranti in vista di un rimpatrio che non potrà essere effettuato? Le criticità dei CPR in Italia - La morte di Moussa Balde è la cartina al tornasole delle criticità dei CPR in Italia. Tra tutte - si diceva - la limitazione della libertà personale a fronte di un illecito amministrativo. Ma anche le problematiche corollarie a un sistema paracarcerario spesso sprovvisto delle garanzie concesse normalmente al detenuto. Lo scrive il garante, sottolineando come l’assenza di una rigida regolamentazione legislativa, nel dilatare i margini di informalità, estenda anche i rischi per la vita dei detenuti, già compromessa dalla fisionomia dei centri. Tra le annotazioni critiche vi rientrano, infatti, la configurazione degli spazi, spesso angusti e promiscui, privi di arredi e con varie carenze, dall’assenza di privacy per la mancanza delle porte nei bagni, ai guasti del sistema di riscaldamento. E ancora, l’assenza di una regolamentazione sull’uso della forza degli agenti e sulla tutela della salute dei detenuti; l’approccio securitario e la vita forzatamente oziosa, senza attività ricreative e gravata dal sequestro degli apparecchi telefonici ai detenuti, che già nel 2007 ha portato la commissione De Mistura a parlare di una tensione in grado di creare un circuito negativo che si autoalimenta. Sino al nodo problematico che tiene insieme molte delle criticità evidenziate: la gestione delle strutture affidate ai privati, con inadeguatezze che acuiscono la dimensione di marginalità sociale attribuita alla detenzione amministrativa. Lo stesso garante in un rapporto consegnato al parlamento nel 2019 aveva fatto presente che “L’affidamento a privati di compiti di gestione dei CPR non esonera lo Stato dalle sue responsabilità, che non sono in alcun modo ‘diluitè dalla circostanza del non avere la gestione diretta di tali Centri”. Ma i CPR finiscono spesso per avvitarsi su se stessi, anche grazie a un meccanismo che li rende difficilmente accessibili sin dal lontano 2004, quando - a seguito di alcune denunce che porteranno alla chiusura del Cpt di San Foca, in provincia di Lecce - il ministro Pisanu vara una circolare con cui impedisce ai terzi l’accesso ai Cpt. “Per una questione di privacy, è meglio che queste persone non siano disturbate, dopo viaggi così lunghi e faticosi, tanto più dai giornalisti”, scriverà. Così inaugurando un orientamento ancora oggi maggioritario. Da San Foca a Milano, quando i terzi entrano nei CPR - Quando però si riesce ad attraversare la frattura tra l’esterno e i CPR, i racconti che trapelano descrivono realtà molto lontane da un modello di convivenza sano. Succede agli esordi del sistema di detenzione amministrativa, ma anche di recente. Nell’estremo sud come al nord. È il 2002 quando una delegazione composta da politici, attivisti, medici e giornalisti varca i cancelli del Cpt Regina Pacis di san Foca, Lecce. Le testimonianze porteranno alla chiusura del centro. Nei giorni precedenti, il tentativo di evasione di 17 migranti conduce a un pestaggio brutale. I detenuti lo raccontano. Le sevizie sono ad opera dei carabinieri, dei collaboratori e del gestore: “Don Cesar, anche Don Cesar”, come riferiscono i reclusi alla delegazione nel riferire gli autori del pestaggio. Il gestore, dunque, Don Cesare Lodeserto - poi condannato a un anno e quattro mesi per violenza privata e abuso dei mezzi di correzione: ex direttore della caritas diocesana e segretario particolare dell’allora arcivescovo di Lecce Cosmo Francesco Ruppi. E gestore di un centro che darà la stura alle richieste di chiusura di tutti i Cpt d’Italia. Siamo a poche settimane fa, invece, quando i senatori Gregorio De Falco e Simona Nocerino, grazie alla funzione di parlamentare, riusciranno ad entrare nel CPR di Via Corelli, a Milano. Racconteranno di atti di autolesionismo davanti ai loro occhi. Dell’ingresso dell’ambulanza, due volte in sole tre ore, per soccorrere casi gravi. Dell’incapacità di gestione, di istituti peggiori di un carcere: “noi - dirà De Falco - critichiamo l’Egitto quando reitera la detenzione di Zaki, ma qui facciamo lo stesso in tutti i CPR d’Italia”. A sberle sulla giustizia di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 20 luglio 2021 La riforma della prescrizione è vera o è farlocca? Il garantismo è reale o immaginario? E i tempi potranno mai essere davvero contingentati? Un dialogo tra uno scettico e un entusiasta, sceneggiato da Fiandaca. La riforma della giustizia penale vali rata di recente dal Cdm presenta luci ed ombre. Certo è che essa si discosta in più punti dalle proposte della Commissione ministeriale Lattanzi, che avevo avuto occasione di valutare con prevalente favore in un precedente articolo su questo giornale (cfr. il Foglio 18 giugno 2021). Ma fino a che punto questo discostamento appare censurabile? Mi sia consentito proporre elementi e spunti di riflessione inscenando un dialogo immaginario tra due figure - per così dire idealtipiche - di giurista, di rispettivo orientamento idealistico e realistico. Giurista Idealista (G.I.) - La riforma Cartabia così come uscita dal Cdm è figlia del solito compromesso politico al ribasso: piuttosto che un equilibrato bilanciamento tra i principi di fondo che dovrebbero in teoria presiedere alla materia penale, ha infatti finito col prevalere un contingente bilanciamento politico-per riprendere una efficace formula giornalistica - tra gli “opposti mugugni” in campo (cfr. V. Valentini sul Foglio 11 luglio 2021). Giurista Realista (G.R.) - Secondo te, la politica politicante avrebbe dunque per l’ennesima volta violentato la ragione giuridica? Sei il solito idealista astratto propenso soprattutto a criticare. Davvero credi che esistano principi giuridici superiori immunizzatili dai condizionamenti politici? Ma in quale iperuranio vivi? Dovresti, finalmente, prendere atto che diritto e politica - specie oggi - sono così strettamente intrecciati, che una separazione netta tra i due ambiti è impossibile. G.I. Mi vuoi fare una lezione di filosofia del diritto? Il fitto intreccio di cui parli non giustifica, però, l’asservimento della razionalità giuridica a calcoli e convenienze politiche del momento. Un esempio emblematico di questo inammissibile asservimento è il pastrocchio della nuova prescrizione, divenuta metà-Bonafede e metà-Cartabia, un curioso ibrido che non si capisce bene alla fine a quali principi obbedisca. Valeva la pena cercare di accontentare Alfonso Bonafede - cioè uno, per dirla con Adriano Sofri, “che gli scherzi kafkiani della post-politica hanno fatto svegliare una mattina nel suo letto mutato in ministro della Giustizia” - restituendogli il giocattolo del blocco della prescrizione dopo il giudizio di primo grado, ma introducendo nel contempo vincoli temporali di durata del processo che rendono quel blocco un giocattolo rotto, cioè una disposizione più simbolica che produttiva di effetti concreti in quella prospettiva iperpunitivista cara ai pentastellati? G.R. Confesso che sul punto non è facile replicare efficacemente alle tue obiezioni. Ma vorrei, nondimeno, richiamare la tua attenzione su quello che a me pare un assunto su cui si dovrebbe almeno in parte convenire. Cioè, le stesse ragioni tradizionalmente sottostanti all’istituto della prescrizione (in estrema sintesi, da un lato il tempo dell’oblio, per cui al crescere della distanza temporale dal commesso reato progressivamente decrescono l’interesse dello Stato a punire e l’utilità della punizione; dall’altro, l’accertamento processuale diventa tanto più difficile quanto più il reato risulta lontano nel tempo), lungi dal rappresentare il riflesso di espliciti, puntuali e univoci principi di diritto, sono sempre state in non piccola misura condizionate da valutazioni politiche o di opportunità. Non è un caso, da questo punto di vista, che la prescrizione sia disciplinata nei vari ordinamenti giuridici nelle forme più disparate. G.I. Questo che tu dici contiene elementi di verità. Ma rimane il fatto che in teoria ci si dovrebbe sempre preoccupare di verificare anticipatamente fino a che punto vi sia non solo coerenza logica, ma anche congruenza empirica tra il modello di disciplina normativa progettata e i risultati pratici che con tale disciplina si intendono conseguire. è dimostrabile che questa nuova prescrizione potrà avere effetti concreti più positivi che negativi? G.R. Fai bene a sollevare questo interrogativo. In effetti, quel che come studiosi siamo soliti lamentare è che le riforme penali in Italia vengano concepite a tavolino, senza avere alla base studi empirici che aiutino a pronosticarne le ricadute nella prassi. Purtroppo, si tratta di un vizio antico. Sappiamo già che dal versante della magistratura è stata mossa una prevedibile obiezione: cioè la possibilità di rispettare i nuovi tempi processuali previsti dalla riforma richiede un ampliamento degli organici dei magistrati e un rafforzamento del personale amministrativo, insieme a una estensione dell’informatizzazione. Da giurista realista, attento cioè a tutto ciò che va al di là dei principi astratti e delle norme scritte, dal mio canto aggiungo che vi è un aspetto problematico ulteriore rispetto a quello delle risorse disponibili. Alludo ai riflessi pragmatici del tipo di cultura giurisdizionale che sta alla base delle indagini e dei processi: se ad esempio la parte politicamente più militante della magistratura d’accusa continuerà a promuovere indagini -come non di rado è accaduto specie nell’ambito della criminalità dei colletti bianchi - per esercitare un controllo di legalità che va alla ricerca di possibili reati da contestare, anziché muovere da ipotesi criminose sufficientemente profilate sin dall’inizio e da concreti elementi probatori, sarà sempre considerato necessario un prolungato accertamento, con la conseguenza che il principio della ragionevole durata del processo sarà di fatto destinato a recedere di fronte alla ritenuta priorità da accordare ad una lotta giudiziale a tutto campo contro le forme di criminalità considerate più gravi e minacciose. Insomma, la magistratura penale nel suo insieme (ed un analogo discorso vale, ancor prima, per l’intero fronte politico-partitico) dovrebbe maturare una più convinta interiorizzazione della necessità di un equilibrato contemperamento tra le concorrenti esigenze del contrasto della criminalità e del rispetto delle fondamentali garanzie individuali. Appare tra l’altro perciò opportuna, e meritevole di essere presa sul serio nella prassi, la progettata modifica normativa che subordina il rinvio a giudizio all’acquisizione di elementi che consentono una ragionevole previsione di condanna. G.I. Non vorrei tediarti insistendo col richiamo ai principi generali, ma c’è un profilo della nuova prescrizione che tocca appunto una questione di principio secondo me importante. Come sappiamo, secondo il modello misto Bonafede-Cartabia la vecchia prescrizione sostanziale legata al tempo dell’oblio viene combinata con una nuova prescrizione processuale, tecnicamente declinata in chiave di improcedibilità dell’azione penale per superamento dei limiti temporali relativi alle fasi successive al giudizio di primo grado (limiti fissati in 2 anni per il giudizio di appello e in 1 anno per la Cassazione, ma a loro volta eventualmente prorogabili con decisione giudiziale entro soglie massime normativamente prestabilite ai fini dell’accertamento di una serie non piccola di reati considerati - a torto o a ragione - più gravi e/o di più complessa verifica probatoria). Come ha già rilevato Massimo Donini (cfr. il Riformista 14 luglio 2021), se si ritiene che abbiano natura processuale le norme che disciplinano i tempi del processo, ne deriva che la disciplina dell’improcedibilità per decorso dei limiti temporali di fase non risulterà più soggetta al divieto di retroattività vigente per le norme penali sostanziali: per cui ad un futuro legislatore sarebbe possibile attuare ulteriori riforme volte ad allungare i predetti limiti temporali anche in rapporto a processi aventi ad oggetto reati commessi in precedenza. Da questo punto di vista, il regime normativo della improcedibilità dell’azione penale appare quindi meno garantistico rispetto a quello della prescrizione finora vigente, qualificata dalla stessa Corte costituzionale come istituto di diritto penale sostanziale e perciò soggetto al divieto di retroattività. G.R. Necessita senz’altro di essere approfondito quest’ultimo problema che tu hai sollevato nella scia di Donini. Ma intanto di chiedo se ci siano parti della riforma che tu, invece, sei disposto a condividere senza riserve. G.I. Incondizionatamente non mi sento di approvare quasi nulla. Ciò non toglie, però, che io apprezzi le linee ispiratrici della riforma delle sanzioni, col maggiore spazio assegnato alle misure alternative al carcere, il potenziamento della messa alla prova, l’allargamento dell’area della non punibilità dei fatti di lieve entità e l’ampliamento dei riti alternativi, ancorché si sarebbe nel complesso dovuto osare di più. Considero meritevole di apprezzamento anche la maggiore attenzione nei confronti dei paradigmi non punitivi della giustizia cosiddetta riparativa. Riconosco che queste novità segnano, finalmente, un mutamento di orizzonte rispetto all’irrazionale e dannoso estremismo punitivista del precedente guardasigilli grillino. G.R. Ritengo che tu abbia in linea di principio ragione nel sostenere che anche rispetto alle parti migliori della riforma si sarebbe dovuto osare con maggiore coraggio. Ciò però, appunto, in teoria. Da giurista realista, ti inviterei a non sottovalutare il principale fattore causale che continua a inibire nel nostro paese riforme più radicali della giustizia penale, cioè maggiormente conformi a quei modelli di garantismo costituzionale preso molto sul serio che tendiamo a vagheggiare come professori di diritto. Mi riferisco, come avrai forse intuito, all’eccesso di politicizzazione della questione penale, la quale continua a porsi come questione assai controversa e divisiva sui diversi fronti della politica partitica, della magistratura, dell’avvocatura e della stessa opinione pubblica. Non a caso, anche il giudizio dei cittadini sull’efficienza del sistema giudiziario e il loro livello di fiducia nella magistratura risultano pregiudizialmente influenzati dalle rispettive appartenenze politico-partitiche. Proprio l’elevato tasso di politicità conflittuale inerente ai temi del diritto e del processo penale, e la persistente tentazione di strumentalizzarli in vista di obiettivi politici più generali, per tornaconto elettorale o persino in funzione di contingenti giuochi di potere tra fazioni politiche contrapposte, costituiscono una tipica patologia italiana che ci trasciniamo, non curata, da anni e che perciò è andata addirittura aggravandosi. G.I. Con questo intendi implicitamente sostenere che una riforma penale come questa uscita dal Cdm sia quanto di meglio in questo momento storico si possa sperare di realizzare? Non credi che possa essere in vari punti migliorata, e non ritieni che sia anche necessario tenere conto dei suggerimenti provenienti dal mondo dell’avvocatura? G.R. Non escludo che possa essere migliorata. Ma soprattutto mi auguro che il polemico dissenso ideologico manifestato dall’ala tuttora manettara dei 5Stelle vada progressivamente ridimensionandosi. E auspico che il Conte politico, non rinnegando il precedente Conte professore di diritto, via via si ravveda, convincendosi che la demagogia punitiva - esplicitamente condannata anche da papa Francesco - non può fungere da stella polare di una intelligente e innovativa azione politica. La riforma Cartabia e la giustizia riparativa. Un nuovo ruolo per il giudice di Luciano Violante La Repubblica, 20 luglio 2021 La giustizia penale è da sempre il luogo dove lo Stato celebra la propria supremazia nei confronti dei cittadini. Nell’età premoderna la rappresentazione della supremazia avveniva durante l’esecuzione della pena, in forma pubblica e teatrale, mentre il processo era segreto. Nell’età moderna il terreno della rappresentazione è rovesciato, si sposta dalla esecuzione della pena alla pubblica celebrazione del processo, caratterizzato da adeguata teatralità: la toga nera, il rito scandito da passaggi noti solo ai clerici, il giudice su una pedana sopraelevata mentre le parti sono sotto di lui. L’esecuzione della pena, attraverso il carcere, è invece segreta. Nei tempi moderni, inoltre, superate le pene corporali, la punizione consiste nella determinazione, effettuata dal giudice del processo, del numero di anni durante i quali il condannato sarà chiuso in un luogo separato dalla società. In questa separazione sta l’essenza della pena, mentre c’è un generale disinteresse per la vita in carcere. Quel condannato potrebbe essere mandato dall’amministrazione penitenziaria nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove manca persino l’acqua corrente, oppure a Bollate, dove ci sono celle singole, offerte di lavoro, occasioni di formazione culturale. Per il codice è tutto uguale. La riforma Cartabia-Lattanzi rovescia questa prospettiva perché assegna al giudice del processo un compito diverso da quello di puro misuratore della durata della pena. Nei casi non gravi, il giudice dovrà favorire con misure concrete la ricostituzione del legame tra condannato e società, spezzato dal delitto. La Repubblica guadagnerà un cittadino; la criminalità perderà un suo potenziale manovale. L’estensione della non punibilità per la particolare tenuità del fatto, anche attraverso la valutazione della condotta tenuta dopo il reato, comporta la non inflizione della pena per le violazioni lievi per le quali si sia già manifestata resipiscenza. L’archiviazione “meritata” è prevista per i reati non gravi quando l’indagato spontaneamente ripara i danni arrecati con la propria condotta. L’applicazione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi da parte del giudice che pronuncia la condanna, evita al condannato il passaggio dal carcere, oggi necessario. La sospensione del procedimento con messa alla prova valorizza, in caso di reati che non suscitino allarme, la correzione di condotte lesive degli interessi pubblici. Gli interventi a favore delle vittime del reato mettono in campo tutte le forme di giustizia riparativa e attenuano l’umana reazione vendicativa di chi ha subito il reato. Lo Stato guadagna il proprio primato sul terreno della democrazia non del dispotismo, rieducando non separando, rispettando non schiacciando. Il Parlamento dovrà decidere se accettare il cambiamento e quindi scegliere coerentemente. La durata dei processi, in un moderno stato democratico, dev’essere determinata dalle procedure giudiziarie o dal giusto equilibrio tra libertà e autorità? Un processo pendente significa difficoltà con il passaporto, divieto di partecipare a gare pubbliche, carriera paralizzata, costi elevati, ludibrio della reputazione. Per quanto tempo è ragionevole che tutto questo perduri nella vita di un cittadino? Alcune Corti d’Appello non si ritengono in grado di rispettare i tempi proposti dal progetto. Va accolto l’allarme, intervenendo sulle cause. Rispetto al carico di lavoro, è inadeguato l’organico, l’organizzazione o il numero delle udienze mensili? Governo e Parlamento verifichino i dati per ciascuna Corte. Sono solo ventisei; sarebbe facile, ma forse non indolore. Conte-Draghi, tregua sul penale. Cartabia avvisa: il ddl non si tocca di Errico Novi Il Dubbio, 20 luglio 2021 L’ex premier a Palazzo Chigi: “Saremo costruttivi”. Ma il governo ribadisce: no ai processi senza fine. Grande è la confusione sotto il cielo pentastellato: situazione quindi eccellente per il governo? Il sillogismo maoista è tutto da verificare. Intanto ieri i tormenti contiani sulla prescrizione si sono riversati su Mario Draghi: l’ex premier ora leader del Movimento ha incontrato il proprio successore a Palazzo Chigi. Colloquio di 45 minuti, essenzialmente su giustizia e, appunto, prescrizione. “Un incontro proficuo e cordiale” in cui “ho assicurato il nostro contributo e l’atteggiamento positivo” sulla riforma del processo, assicura Giuseppe Conte alla fine, in una piazza Colonna rovente e affollata di microfoni, come nella conferenza stampa improvvisata a febbraio da Rocco Casalino. Però, aggiunge il leader 5S, “ho ribadito che saremo molto vigili nello scongiurare che si creino soglie di impunità”. Quindi il discorso non cambia nel merito, ma è addolcito nei toni. Quando Conte evoca le “soglie di impunità” si riferisce al limite dei 2 o 3 anni oltre il quale un giudizio d’appello si ferma per improcedibilità. Marta Cartabia ricorda che, seppure un processo estinto sia “una sconfitta per lo Stato”, la proposta da lei sottoposta al Consiglio dei ministri e depositata poi alla Camera serve a evitare “un danno tanto per le vittime quanto per gli imputati”. Ma secondo Giuseppe Conte e Alfonso Bonafede lo Stato, se vuole, deve poterti tenere appeso a un’accusa anche tutta la vita. Mentre Conte, col medesimo sorriso, rassicura e “avverte”, la guardasigilli gli regala dunque un promemoria: a un convegno a Firenze sull’ufficio del processo ricorda che il suo testo sul penale “non è la riforma Cartabia: se proprio dobbiamo trovare uno slogan, dovremmo parlare di “mediazione Cartabia”“, giacché è stata “approvata dall’intero governo dopo mesi di dialoghi, confronti a 360 gradi e lunghe e pazienti trattative a cui hanno partecipato e dato il loro contributo tutti i protagonisti politici della maggioranza, nessuno escluso”. Non cita Conte, ma non ce n’è bisogno: la ministra della Giustizia è fin troppo chiara. Ma appunto, il disordine c’è ed è palpabile. Nella sua conferenza stampa volante all’uscita da Palazzo Chigi, il leader M5S è sibillino, a proposito dell’urgenza di approvare le riforme ribaditagli da Draghi: “I tempi stanno molto a cuore, ma mi rimetto alla dialettica parlamentare per delle soluzioni che non siano ideologicamente convincenti ma tecnicamente sostenibili”. Il punto è che la ragionevolezza dei toni un po’ stride con l’impossibilità di superare quella “mediazione” evocata da Cartabia. Sul ddl penale, e la “improcedibilità”, sarà dura spingersi oltre. Certo, domani a piazza del Parlamento sarà di scena la base più inquieta dei 5 Stelle: a organizzare il sit-in “per non retrocedere sulla prescrizione e sui punti chiave della riforma Bonafede” è il coordinamento “Parola agli attivisti”. “La riforma Cartabia rappresenta ciò che abbiamo sempre combattuto, mi aspetto che tutti i portavoce che in questi giorni l’hanno criticata, tutti i magistrati che non sono d’accordo, ci mettano la faccia”, dice all’Adnkronos una dei pentastellati a capo della mobilitazione, la consigliera in Regione Lazio Francesca De Vito. Ma dalla commissione Giustizia cosa ci si deve aspettare? Oggi scade il termine lasciato ai partiti per depositare subemendamenti al pacchetto Cartabia. Di certo ci saranno le proposte pentastellate che cancellano la soglia di improcedibilità, e propongono di sostituirla con sconti di pena per chi era stato condannato in primo grado. Ma ci saranno anche controproposte come quella “minacciata” da Enrico Costa, che punta ad annullare del tutto la norma Bonafede e a ripristinare la prescrizione del reato in appello (e in Cassazione). Scontro in vista. Ma è chiaro che i contiani si troveranno in minoranza. Al di là delle aperture al dialogo venute nelle ultime ore dai deputati dem, Enrico Letta si dice rallegrato dal “positivo incontro” Draghi-Cointe, e soprattutto aggiunge che “quella portata avanti dalla ministra Cartabia è una buona riforma”. Pensare a un soccorso parlamentare del Pd ai 5S sul ritorno alla prescrizione di Bonafede pare complicato. Solo che Conte dovrà vedersela con gli “attivisti”. Ed ecco perché le conseguenze politiche generali dell’inevitabile resa pentastellata sulla prescrizione restano imprevedibili, anche per il governo.Da Palazzo Chigi filtra pochissimo: si dà per possibile qualche aggiustamento tecnico ma “senza stravolgimenti”. Tradotto: il limite oltre il quale il processo deve fermarsi resterà. Si fa notare anche un’altra cosa, molto rilevante: dare spazio a modifiche significative può provocare rilanci da FI e Lega, quindi la via è quanto meno pericolosa. In ogni caso la fermezza dei toni a cui ha fatto ricorso ieri Cartabia non lascia intravedere praterie, per Conte. Intanto, quando la guardasigilli dice che “ora compito del ministero è andare in soccorso di ogni distretto in difficoltà, per fare in modo che ovunque i processi si possano concludere nei termini della ragionevole durata stabiliti dalla legge Pinto, appunto due anni per l’appello e uno in Cassazione”, sembra replicare anche all’altolà dell’Anm sulla “prescrizione processuale”. Poi c’è quel passaggio sul danno alle vittime ma anche agli imputati, lasciati, ricorda Cartabia, “per anni in un limbo che il più delle volte condiziona l’intera esistenza: teniamo sempre in mente entrambe le prospettive”. Vuoi vedere che Conte e il Movimento 5 Stelle non ci avevano mai pensato? Conte cerca l’intesa con Draghi: via le bandierine, ma no all’impunità di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 20 luglio 2021 Giustizia, l’incontro a Palazzo Chigi. L’ex premier su Cingolani: fiducia, però ora i fatti. L’ex premier: “Il M5S avrà un atteggiamento positivo. I tempi mi stanno a cuore, ma mi rimetto al Parlamento per soluzioni sostenibili”. “Mettiamo da parte le bandierine, le ideologie”, ma il Movimento sarà “molto vigile nello scongiurare soglie di impunità, molto attento”. L’incontro tra il premier Mario Draghi e il suo predecessore alla fine, stando alle parole di Giuseppe Conte, è stato “proficuo” e “cordiale”. Non si è parlato solo di giustizia. Tanto che al termine Conte ci ha tenuto a ribadire la “piena fiducia” a Roberto Cingolani. “È un ministro che sta lavorando molto”, ha specificato assicurando che il “M5S darà un grande contributo, perché tutti parliamo di Transizione ecologica, ma bisogna rimboccarsi le maniche e passare dagli slogan ai fatti concreti”. Frase che ha generato allarme nella componente M5S in commissione Ambiente: “Le parole di pieno sostegno a Cingolani - riferiscono fonti parlamentari - hanno lasciato perplessa la maggior parte dei componenti della commissione. Proprio in queste ore stiamo lavorando per dare un aspetto più green al decreto Semplificazioni, e queste parole non aiutano”. Ma il punto cruciale era la riforma Cartabia. E le contestazioni del mondo giudiziario, condivise da molti Cinque Stelle, al testo che prevede l’improcedibilità se non c’è la sentenza dopo soli 2 anni di Appello e 1 di Cassazione. Conte promette l’”atteggiamento positivo del M5S, che si era già distinto e aveva lavorato per l’accelerazione dei processi”. E garantisce: “Anche durante il percorso parlamentare daremo il nostro contributo per migliorare e velocizzare ancor più i processi”. Ma non si è parlato di blindare il testo con la fiducia, assicura. Conte in Aula non ci sarà: “Non mi candido alle suppletive, la politica è dappertutto”, dice. Però mette in chiaro: “I tempi mi stanno molto a cuore, ma mi rimetto alla dialettica parlamentare per delle soluzioni non ideologicamente convincenti, ma tecnicamente sostenibili”. La ministra della Giustizia, da Firenze, chiude alle trattative fuori tempo massimo: “Sono riforme approvate dall’intero governo dopo mesi di dialoghi, confronti a 360 gradi, lunghe e pazienti trattative. Ciascuno dei partiti della maggioranza ha adeguato la sua posizione dove necessario”, ripete. Ora, dunque, è l’implicito sprone, si chiuda. All’ostilità del M5S fa da sponda il Pd, chiedendo modifiche tecniche: più flessibilità dei tempi, assegnando al giudice la decisione sulla complessità del processo che fa allungare i tempi dell’Appello di un anno e della Cassazione di sei mesi. E una norma transitoria. Per questo ieri Enrico Letta si è “rallegrato” dell’esito positivo dell’incontro. “Sono convinto che debba essere approvata rapidamente una riforma buona qual è quella della ministra”, commenta. Ma Salvini avverte: “Non si tocca una virgola. È strano che Letta ritenga intoccabile il ddl Zan e toccabile una riforma della giustizia che l’Italia attende da anni”. Intanto monta la protesta anche tra i giudici amministrativi: 300 magistrati si sono rivolti al presidente Mattarella e alcuni membri del Csm della giustizia amministrativa (il Cpga) minacciano le dimissioni perché con un emendamento al dl sul Pnrr ne è stata modificata la composizione: due membri in più di diritto a scapito dell’equilibrio con i giudici eletti. Giustizia, Draghi offre “qualche modifica”. Ma da votare in fretta di Andrea Colombo Il Manifesto, 20 luglio 2021 Il premier difende l’impianto della riforma e Conte non alza barricate. La ministra Cartabia: “Una mediazione c’è già stata”. Come in un sistema di porte girevoli esce il Conte ruggente, quello che aveva infiammato l’ammaccato popolo dei 5 Stelle promettendo barricate contro la riforma Cartabia, e al primo incontro con Mario Draghi dal giorno dello scambio di consegne si presenta il Conte prudentissimo della mediazione pacata. Il colloquio dura 40 minuti. Tre temi sul tavolo e sul primo, l’emergenza Covid, l’accordo è totale. Sulla transizione ecologica, fronte incandescente per i 5S che ce l’hanno a morte con il ministro Cingolani, l’avvocato del popolo avanza appena qualche distinguo: “Piena fiducia nel ministro” anche se “ora bisogna passare dalle parole ai fatti”. Non è l’assalto all’arma bianca che si aspettavano i 5S. Non gli somiglia neppure. Il piatto forte è la giustizia e l’intesa sembra rapida. Conte avanza le sue critiche. Draghi concede la possibilità di “studiare qualche modifica ma senza modificare l’impianto”. L’ex premier, all’uscita, rispolvera il lessico leguleio: “Mi rimetto al parlamento e a soluzioni che non siano ideologicamente convincenti ma tecnicamente sostenibili. Il Movimento sarà molto attento per miglioramenti che possano scongiurare soglie di impunità”. Ai 5S non piace neppure questo passaggio. Si aspettavano Dibba il Radicale. Si ritrovano Conte il Temporeggiatore. Sui tempi Draghi è irremovibile: almeno un ramo del parlamento, cioè la Camera, deve approvare la riforma nei tempi concordati con Bruxelles, dunque prima della pausa estiva. Messi da parte i toni comme il faut, i guai cominciano qui. “Di fiducia non si è parlato”, giura Conte e almeno per ora ha ragione. Ma il problema non svanisce per non essere stato nominato. La legge, attualmente in commissione, dovrebbe arrivare in aula il 23. Il termine per la presentazione dei subemendamenti scade oggi. È probabile che l’approdo in aula slitti, ma non di moltissimo: sino alla prima settimana di agosto nell’ipotesi più vertiginosa, la prossima settimana in quella più probabile. Se ci fosse un accordo sarebbe tutta discesa: il governo assumerebbe le “modifiche tecniche” in un emendamento sul quale porre subito la questione di fiducia. Fine dei giochi. Solo che quell’accordo non sembra affatto a portata di mano. La ministra Marta Cartabia fa capire di non essere affatto favorevole: “È sbagliato dire ‘riforma Cartabia’. La mia è invece la ‘mediazione Cartabia’ ed è frutto di una responsabilità condivisa approvata dall’intero governo dopo mesi di dialoghi”. Traduzione: la mediazione c’è già stata e non c’è più nulla da trattare. Pare infatti che lo stesso premier abbia suggerito al suo predecessore di provare a confrontarsi direttamente con la guardasigilli. Il Salvini-pensiero, invece, non richiede traduzioni di sorta: “Sulla giustizia non si cambia una virgola”. Forza Italia e Italia viva concordano. Per il Pd e Leu, al contrario, una possibilità d’incontro c’è. Il segretario dem Letta, dopo aver aperto alle richieste di modifica dei contiani tra gli applausi di metà del suo partito e i mugugni dell’altra metà, si “rallegra” per un’intesa che in realtà non c’è. Il relatore Pd in commissione, Franco Vazio, ipotizza una soluzione: lasciare al giudice la facoltà di prorogare per tutte le fattispecie di reato da due a tre anni i tempi dell’appello prima che si abbatta la mannaia dell’improcedibilità. Per ora, nel testo, la facoltà di proroga è limitata a mafia, terrorismo e reati contro la Pubblica amministrazione ma solo nei casi più complessi. La corelatrice 5 Stelle Giulia Sarti è più sbrigativa: “La mia opinione non è cambiata”. Con riferimento alle parole dialoganti pronunciate a caldo: “Non voterò mai questa schifezza anticostituzionale”. LeU infine propone di riprendere la riforma Orlando affidando al giudice la facoltà di raddoppiare i termini per l’appello in caso di condanna in primo grado: “Se la riforma complessiva funziona i casi saranno in realtà pochi e per portare a casa un impianto complessivamente garantista mi sembra un prezzo che si può pagare”, spiega Federico Conte, esponente di LeU in commissione. Già, ma cosa succede se l’accordo non si trova? Ci sono due sole strade: rinviare tutto a settembre, ipotesi che Draghi aborre, o battere i pugni sul tavolo con quel voto di fiducia, magari su un emendamento non concordato al 100%, di cui ieri non si è parlato. Quattro motivi per cui i magistrati contestano la riforma Cartabia di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 20 luglio 2021 La riforma del processo penale ha unito i magistrati, oltre le correnti, in una contrarietà tutt’altro che scontata. Chat, mailing list, interviste e dichiarazioni pubbliche: al di là dei giochi tattici della politica, un effetto strategico la riforma del processo penale l’ha già ottenuto: unire i magistrati, oltre le correnti, in una contrarietà tutt’altro che scontata e pregiudiziale. Contrarietà a dispetto della stima di cui godono, nella larga maggioranza dei magistrati, la stessa ministra della Giustizia Marta Cartabia (ex presidente della Corte costituzionale); il presidente della commissione tecnica che ha istruito le ipotesi di riforma, Giorgio Lattanzi (ex giudice in Cassazione, ex presidente della Corte costituzionale); i membri della commissione, tra cui quattro magistrati; i magistrati nel gabinetto e nell’ufficio legislativo del ministero. Colpisce, in particolare, la esplicita e plateale contrarietà dei magistrati progressisti. Eppure a loro dovrebbe piacere una ministra dalla cultura giuridica garantista e avanzata in materia di diritti. E dovrebbero gradire una riforma improntata al superamento della cultura forcaiola della “certezza della pena”, della logica “carcerocentrica” della sanzione, dell’inflazione del processo penale come rifugio di tutti i peccati della società. E invece, paradossalmente, la contrarietà alla riforma ha unito le due anime della magistratura progressista da un anno in aperta discordia. Se Area ha espresso la sua posizione in modo univoco con diversi esponenti (a partire dal segretario Eugenio Albamonte), Magistratura Democratica ha corretto il tiro, inizialmente non sfavorevole, con un editoriale sulla rivista online Questione Giustizia, firmato dal direttore ed ex membro del Csm Nello Rossi. Tecnica e politica - L’articolo è una disamina tecnica dei motivi per cui la riforma rappresenta “un mediocre compromesso”. Ma sottende una tesi politica di fondo: la riforma non ha un’anima. Per allargare il consenso politico ha depotenziato tutte le misure proposte dalla commissione Lattanzi, con il risultato - politicamente controproducente - di “drammatizzare ulteriormente” il tema della prescrizione, il più sensibile e divisivo. La ricerca dell’accordo tra partiti come unico obiettivo, presentando “all’opinione pubblica riforme mal calibrate e inadeguate come interventi risolutori” e “scaricando sui magistrati il peso dei possibili fallimenti”. Rossi rivendica la coerenza della sua corrente, argomentando che la percezione contraria dipende da un “rapido e inaspettato cambio di prospettiva” tra “il meditato e organico contributo” della commissione Lattanzi e la successiva “mediazione politica che ne ha alterato in più punti l’originaria fisionomia”. L’obiettivo di ridurre del 25% la durata dei processi penali, portandola a una misura “ragionevole” secondo standard europei, era conseguito nella relazione Lattanzi con quattro interventi “innovativi e coraggiosi”, per incidere sulle diverse fasi del processo. Su tre dei quattro interventi la successiva riforma Cartabia ha fatto grandi “passi indietro”, con una “repentina rinuncia a punti qualificanti”. Meno processi - La commissione Lattanzi aveva introdotto “l’archiviazione meritata”, già sperimentata in altri Paesi, per chiudere indagini rivelatisi “oggettivamente superflue” alla luce dei “comportamenti virtuosi dell’indagato nei confronti delle vittime o della collettività”. La riforma Cartabia l’ha cancellata. La commissione Lattanzi aveva proposto di allargare il perimetro dell’archiviazione delle notizie di reato per “particolare tenuità del fatto”. Una regola introdotta nel 2015 dall’allora ministro Orlando per evitare processi su fatti minori. Classico esempio: il tentato furto al supermercato. La riforma Cartabia ha circoscritto l’allargamento. Allo stesso modo, la commissione Lattanzi aveva proposto di estendere l’istituto della “messa alla prova”, che sospende il processo consentendo all’imputato un percorso di risocializzazione (risarcimento del danno, lavoro di pubblica utilità, divieti specifici relativi al reato) e, se va a buon fine, lo estingue. La riforma Cartabia ha circoscritto l’estensione. I riti speciali - I riti speciali (o alternativi) sono procedure come il patteggiamento: si negozia una pena ridotta evitando il processo. Nei sistemi anglosassoni, così si risolvono più di tre quarti delle inchieste. In Italia, non più del 10%. La commissione Lattanzi aveva proposto un significativo allargamento delle maglie del patteggiamento, ampliando lo sconto di pena al 50% ed eliminando le preclusioni per accedervi. La riforma Cartabia non ha recepito la proposta, limitandosi a un modesto allargamento alle pene accessorie. Il processo di appello - “Del tutto abbandonata l’incisiva riduzione dei giudizi di appello” proposta dalla commissione Lattanzi “attraverso numerose ipotesi inappellabilità: delle sentenze di condanna e di proscioglimento da parte del pubblico ministero; per l’imputato delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa; delle sentenze di proscioglimento e dei capi civili delle sentenze di condanna ad opera della parte civile in sede penale”. La riforma Cartabia “si limita a riproporre le limitate ipotesi di inappellabilità già contemplate nel ddl Bonafede” per particolari e residuali categorie di reati. La prescrizione - Il tema dei temi, nel dibattito politico, sebbene nell’architettura sistematica del processo penale sia (dovrebbe essere) un tema residuale, una patologia. È come se per allestire un’automobile prima di un viaggio si discuta molto di dove sistemare la ruota di scorta, dimenticando di verificare livello dell’olio, pieno di benzina, efficienza dei freni e pressione degli pneumatici. La commissione Lattanzi aveva proposto due soluzioni per la prescrizione. Proposta 1: resta la prescrizione, si sospende dopo la sentenza di primo grado (come nella riforma Bonafede), ma riprende a correre se i processi in appello e Cassazione sforano un tempo limite previsto dalla legge di due anni e un anno. Proposta 2: la prescrizione si estingue nel momento in cui si esercita l’azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio. Da quel momento, però, lo Stato deve portare a termine il processo di primo grado in cinque anni, quello di appello in tre, quello in Cassazione in uno. Altrimenti salta tutto. La riforma Cartabia ha scelto, nella mediazione politica, una terza strada. Quella della improcedibilità se il processo di appello dura più di due anni. Un sistema che, secondo l’associazione nazionale magistrati, potrebbe portare a morte 150mila processi l’anno, stando alle attuali medie di durata dei processi di appello, che in almeno 10 distretti giudiziari (tra cui Napoli, Reggio Calabria, Roma, Catania, Venezia) su 29 sono più lunghi di due anni. Secondo Rossi, la riforma ha sostituito “la razionalità processuale con un comando politico astratto e velleitario”, con “effetti paradossali” su processi rapidamente conclusi in primo grado ma destinati a morire in appello. “Alla politica spetta naturalmente il compito di scegliere ed essa è oggi nelle migliori condizioni per farlo, rispettando le incalzanti scadenze previste per l’erogazione dei fondi europei per la giustizia. Ma scegliere non significa confezionare l’ennesima soluzione farraginosa e confusa lasciando gli operatori della giustizia l’onere di aggirarsi nel labirinto creato dal gioco perverso dei veti, dei postulati pseudo ideologici, delle necessità propagandistiche”. Ecco perché i magistrati sono contro la riforma Cartabia. Che peraltro, dice la stessa ministra, “riforma Cartabia” non è “perché più che di riforma Cartabia potremmo parlare di mediazione Cartabia ed è frutto di una responsabilità condivisa”. Dalla strage di Viareggio a Rigopiano, i procedimenti a rischio con la riforma di Grazia Longo La Stampa, 20 luglio 2021 Per l’Anm sono 150mila i fascicoli che con la riforma non arriverebbero a sentenza. Decine impigliati nella rete di una giustizia troppo lenta. La prescrizione, così come stabilita dalla riforma della ministra della Giustizia Marta Cartabia rischia di affossare molti processi. L’Associazione nazionale magistrati lancia l’allarme e dichiara che “sono 150 mila i processi a rischio”. Ma vediamo, nel dettaglio, in cosa consiste la nuova norma. Viene confermata l’attuale disciplina, che prevede lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado (sia in caso di condanna sia in caso di assoluzione). Inoltre, si stabilisce una durata massima di due anni per i processi d’appello e di un anno per quelli di Cassazione. È prevista la possibilità di una ulteriore proroga di un anno in appello e di sei mesi in Cassazione per processi complessi relativi a reati gravi (per esempio associazione a delinquere semplice, di tipo mafioso, traffico di stupefacenti, violenza sessuale, corruzione, concussione). Decorsi tali termini, interviene l’improcedibilità. Sono esclusi i reati imprescrittibili (puniti con ergastolo). La riforma sulla prescrizione punta a non sforare i tempi degli iter processuali. È, insomma, una clausola di garanzia contro i processi-lumaca. Ma il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia è preoccupato: “Con la riforma la sentenza di primo grado cadrà nel nulla e l’accertamento penale sarà definitivamente precluso. E ciò, si badi, senza che il reato sia stato estinto dalla prescrizione, dal decorso del tempo. Il diritto alla durata ragionevole dei processi, che certo va assicurato e tutelato, deve essere più attentamente bilanciato con l’interesse collettivo all’effettività della giurisdizione penale”. Il disastro di Viareggio: La prescrizione poteva scattare ancora prima - L’incidente ferroviario si verificò nella notte tra il 29 e il 30 giugno 2009 alla stazione di Viareggio: l’esplosione a causa del gpl trasportato da un treno merci deragliato invase i quartieri vicini allo scalo della città della Versilia. Il bilancio fu di 32 morti e 35 feriti. Ma sono stati dichiarati prescritti gli omicidi colposi per la strage di Viareggio a seguito dell’esclusione dell’aggravante della violazione delle norme sulla sicurezza nel lavoro. La decisione è stata presa dalla Cassazione rinviando alla corte d’Appello di Firenze la riapertura dell’appello bis anche per l’ex ad di Fs e Rfi, Mauro Moretti. Essendo un processo lungo, se fosse stata in vigore la riforma Cartabia la prescrizione sarebbe scattata ancora prima. Strage di Rigopiano: Udienze rinviate 12 volte, proteste delle parti civili - Ad alto rischio è anche l’iter per il processo di Rigopiano, la strage nel resort seppellito da una valanga ai piedi del Gran Sasso, il 18 gennaio 2017, che conta 29 morti. In tre anni e mezzo si sono susseguiti ben dodici rinvii per la conclusione dell’udienza preliminare. Le proteste non sono mancate anche a suon di carte bollate: tantissimi gli appelli di familiari e avvocati. Ma tra scioperi degli avvocati e slittamenti legati all’emergenza Covid, è stato tutto un procrastinare nel tempo. Visti i ritardi attuali è difficile che il processo prenda un’accelerazione. Lo striscione delle famiglie delle vittime è inequivocabile: “Dodici udienze e dodici rinvii”. Ndrangheta: Alla sbarra 325 imputati, difficile rispettare i tempi - Il processo “Rinascita Scott” contro la ‘ndrangheta del vibonese si preannuncia dalle enormi dimensioni. Quindi è molto difficile che possa rispettare i tempi imposti dalla riforma Cartabia. Il pericolo che venga affossato per colpa della prescrizione è purtroppo abbastanza realistico. In tutto ci sono 325 imputati, cui si aggiungeranno altre 4 persone già a processo con il giudizio immediato. Le parti offese individuate dalla Procura distrettuale sono 224, ma meno di 30 si sono costituite parti civili e fra loro figurano diversi Comuni del Vibonese. I capi di imputazione sono in totale 438. Circa 600 gli avvocati impegnati nel collegio di difesa degli imputati. Il traghetto in fiamme: Una fine anticipata per il caso Moby Prince - Nella nostra storia giudiziaria ci sono esempi degli effetti che avrebbero potuto essere generati dalla riforma se fosse stata già in vigore. Un esempio è il disastro del Moby Prince, avvenuto il 10 aprile 1991, quando il traghetto entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo nella rada del porto di Livorno portando alla morte di 140 persone. Tutto a causa dell’incendio seguito all’urto. Purtroppo, la sentenza ha rigettato l’istanza dei familiari per intervenuta prescrizione, giustificando il fatto che l’ultimo processo della sezione penale della Corte di Appello di Firenze risulta chiuso a febbraio 1998. Se fosse stata in vigore la riforma Cartabia la prescrizione sarebbe stata ancora più veloce. Trattativa Stato-mafia: In ballo c’è la conferma delle condanne inflitte - I fatti risalgono a ben 10 anni fa e a settembre il reato cadrà in prescrizione. Si tratta della morte di Martina Rossi, la studentessa genovese di 20 anni precipitata la notte del 3 agosto 2011 dal sesto piano di un albergo a Palma di Maiorca, dov’era in vacanza con le amiche, mentre, secondo l’accusa, sfuggiva a un tentativo di stupro. Lo scorso aprile sono stati condannati, in appello bis, a tre anni di carcere per tentata violenza di gruppo Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi. Entrambi erano già stati condannati in primo grado, poi assolti in appello e infine, dopo una sentenza della Cassazione, tornati al giudizio di secondo grado a Firenze. Omicidio Martina Rossi: Tra due mesi scadono i termini per l’aula - I fatti risalgono a ben 10 anni fa e a settembre il reato cadrà in prescrizione. Si tratta della morte di Martina Rossi, la studentessa genovese di 20 anni precipitata la notte del 3 agosto 2011 dal sesto piano di un albergo a Palma di Maiorca, dov’era in vacanza con le amiche, mentre, secondo l’accusa, sfuggiva a un tentativo di stupro. Lo scorso aprile sono stati condannati, in appello bis, a tre anni di carcere per tentata violenza di gruppo Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi. Entrambi erano già stati condannati in prido grado, poi assolti in appello e infine, dopo una sentenza della Cassazione, tornati al giudizio di secondo grado a Firenze. Digitalizzare la giustizia, i tablet agli ufficiali giudiziari? di Agnese Stracquadanio Il Fatto Quotidiano, 20 luglio 2021 Dopo 3 anni il progetto pilota di Milano non è mai partito. E nessuno sa perché. La riforma della giustizia passa per la digitalizzazione. Lo dicono praticamente tutti, soprattutto in questi mesi in cui il governo è chiamato ad accorciare i tempi dei processi civili e penali per accedere ai fondi del Recovery. Proprio a questo scopo, nel 2018 era partito un progetto-pilota finanziato dal ministero della Giustizia che forniva agli ufficiali giudiziari del Tribunale di Milano 110 tablet - ognuno valeva circa 1.100 euro - per ricevere le richieste di notifica o di esecuzione di un atto da parte degli avvocati, inviare i verbali e utilizzare sistemi di pagamento elettronici. Un’accelerazione non da poco, visto che attualmente gli avvocati devono recarsi fisicamente presso gli Uffici notifiche esecuzione protesti (Unep), quelli degli ufficiali giudiziari, o spedire i documenti via posta. Il progetto doveva partire dal Circondario di Milano, in via sperimentale, per poi allargarsi ai tribunali del resto del Paese. Salvo arenarsi subito: nessuno sa bene per quale ragione. E non sono servite a nulla le numerose sollecitazioni fatte dalle organizzazioni sindacali ai ministri competenti. Il progetto - Tutti gli ufficiali giudiziari impiegati a Milano hanno ricevuto un tablet nel 2018, correlato di lettore scheda e connettore per la linea internet. Erano stati svolti anche alcuni giorni di corsi di formazione per introdurre il nuovo modus operandi: tramite Posta elettronica certificata gli utenti, ovvero gli avvocati, avrebbero potuto richiedere la notifica di un atto o l’esecuzione di un pignoramento o di uno sfratto all’ufficiale giudiziario che avrebbe inviato l’esito con il verbale sempre tramite Pec. Inoltre, il tablet avrebbe dovuto facilitare il lavoro di raccolta di materiale fotografico durante i sopralluoghi degli stessi ufficiali giudiziari. Una pratica - quella di scattare le foto dei beni del debitore passati in rassegna - prevista e obbligatoria, secondo l’art. 518 del codice di procedura civile, ma che spesso molti devono mettere in pratica con il proprio cellulare privato. Ma nonostante la fornitura dei dispositivi e i corsi di formazione, il progetto non è mai decollato. Così, gli avvocati hanno continuato a presentarsi presso gli uffici Unep, gli ufficiali giudiziari a redigere verbali che poi inviano per posta o riconsegnano a mano ai legali: insomma, tutto è rimasto come prima. E i tablet? Che fine hanno fatto i tablet? Ognuno li ha impiegati a proprio piacimento. “C’è chi lo tiene impilato tra le carte della scrivania, chi lo ha riposto chissà dove, chi lo impiega per altro e persino chi intanto è andato in pensione e lo ha restituito”, racconta Giuseppe Marotta, ufficiale giudiziario da sempre attento alle problematiche del settore. Eppure, continua, “su ogni dispositivo l’ufficio Unep paga anche un’assicurazione annua per furto e danno incidentale”. Le sollecitazioni - La lettera inviata dalla Cisl Fp e firmata dal coordinatore generale Eugenio Marra alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, porta la data del 5 maggio 2021 ed è solo l’ultima di un lungo rapporto epistolare. Nella lettera - visionata dal fattoquotidiano.it - si chiede che gli Unep entrino a pieno titolo nel processo civile telematico, avviato nel 2014 che ha tradotto alcune delle attività finora realizzate in forma cartacea in via telematica, ma di fatto ancora “monco”, si legge. Come fa notare un addetto ai lavori, se il Processo civile telematico ha svuotato le cancellerie, il progetto-tablet avrebbe sortito l’effetto di svuotare gli sportelli degli ufficiali giudiziari e ridurre al minimo gli spostamenti che richiedono tempo e denaro. Un’altra lettera inviata nel gennaio dell’anno scorso dall’Associazione ufficiali giudiziari in Europa all’ex gurdasigilli Alfonso Bonafede, e all’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, citava il piano d’indirizzo politico-istituzionale per l’anno 2020 redatto dal ministero della Giustizia a settembre 2019, secondo cui nel Circondario di Milano “si procederà a breve con la sperimentazione con avvio del servizio di richiesta di notificazioni telematiche agli Unep da parte degli avvocati e all’introduzione dell’utilizzo di tablet per la redazione delle relazioni di notificazioni e dei verbali dell’attività esecutiva”. I dispositivi, però, erano stati forniti già nel 2018, senza mai entrare in funzione. Nel piano per il 2021, invece, non si fa alcun riferimento ai tablet, ma ci si augura la stessa cosa dell’anno precedente, ovvero la diffusione della versione più aggiornata del software ministeriale - il Gsu-Unep - “installata solo su Milano, su tutto il territorio nazionale”. Sono molteplici, infatti, le versioni e i programmi in uso nei vari uffici Unep di tutta Italia. La pandemia - La puntuale entrata in funzione del progetto-tablet, in grado di trasferire gran parte delle interazioni online, sarebbe stato utile in periodo di pandemia, visto che il sistea rende ovviamente più agevole il lavoro da remoto. L’emergenza sanitaria ha infatti paralizzato la già arrancante macchina della giustizia italiana. E proprio di “quasi paralisi” aveva parlato la procuratrice generale di Milano, Francesca Nanni, a gennaio, in occasione dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario, confrontando i dati “impressionanti” - come li aveva definiti - del periodo aprile giugno 2020, con quelli dell’anno precedente: le udienze penali in Corte d’Appello sono diminuite del 73%, mentre quelle civili del 70%. Il lavoro degli ufficiali giudiziari - racconta l’ufficiale giudiziario Marotta - in quel periodo si è ridotto anche “dell’80 o 90%”. Una percentuale che sarebbe potuta essere molto inferiore se il progetto tablet fosse già stato esteso al resto d’Italia. Cartabia non blocchi la firma digitale di Virginia Fiume, Lorenzo Mineo, Marco Perduca Il Riformista, 20 luglio 2021 La Ministra Cartabia è al centro di uno dei dossier più delicati per il Governo, ciò non toglie che la riforma della giustizia non passi anche attraverso l’ampliamento al dominio digitale del pieno godimento dei diritti civili e politici. Il giusto processo, i suoi tempi o l’accesso alla difesa necessitano della stessa rimozione di irragionevoli, cioè contra legem, ostacoli frapposti da leggi inadeguate o inadatta a garantire il rispetto della nostra Costituzione e degli obblighi internazionali della Repubblica italiana. In queste ore la Commissione Affari costituzionale della Camera deve votare un emendamento a prima firma del radicale Riccardo Magi presidente di Più Europa, sottoscritto da tutti i gruppi di maggioranza, che in occasione della conversione in legge del decreto semplificazioni introduce da subito prevede la firma digitale (anche) per i referendum. Non è una novita, alla fine dell’anno scorso era stata decisa tale possibilità a partire dal gennaio 2022, né di un escamotage escogitato dai promotori dei referendum per rendere la raccolta firme più semplice bensì di una delle varie misure predisposte dal legislatore per rispondere a quanto denunciato dalle Nazioni unite nel 2019 a seguito dell’attivazione da parte di Mario Staderini, Michele De Lucia e Cesaro Romano di un meccanismo ONU per denunciare violazioni dei diritti civili e politici. Il caso, presentato nel 2015 e relativo a una raccolta firme referendarie di due anni prima, elencava una serie di norme contrarie all’articolo 75 della Costituzione mettendo in mora la Repubblica italiana per gli irragionevoli ostacoli al pieno godimento del diritto di partecipare direttamente alla vita politica del paese. Il Ministero della Giustizia blocca una soluzione normativa elaborata dal Ministro Colao andando contro gli impegni presi con l’ONU. Secondo la Giustizia dovrebbero poter avere accesso alla firma digitale solo persone con disabilità mentre la fase di certificazione dovrebbe avvenire con passaggi cartacei che annullerebbe la smaterializzazione tipica delle attività telematiche. Il 12 luglio, Marco Gentili, co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni, capoifila di questa battaglia, ha scritto alla Ministra a Cartabia prmettendo di essere “una persona affetta da SLA dalla nascita” impossibilitato a muoversi in autonomia e a parlare con la sua voce ma attivo nel “partecipare alla vita democratica del Paese come studente, consigliere comunale e co-promotore del referendum per l’eutanasia legale”. Gentili, che a oggi non ha ricevuto risposta, sottolinea di scrivere non perché impossibilitato a firmare personalmente quello che promuove né a nome di chi ha problemi simili ai miei o dei milioni di anziani, disabili, o degli oltre 5 milioni di residenti all’estero e regolarmente registrati all’AIRE o dei cittadine e cittadini che preferiscono restare a casa in tempi di emergenza sanitaria ma “perché i miei diritti di cittadinanza attiva sono fortemente limitati dalla riformulazione dell’emendamento per la firma digitale”. Non si tratta di andare incontro alle richieste dei promotori di un referendum, si tratta di ricordare al Presidente Draghi di porre il dettato costituzionale al centro dell’operato del Governo per garantire la transizione digitale della democrazia in tempi in cui si torna a parlare di misure emergenziali di confinamento a causa delle nuove varianti del virus. A sostegno di tutto ciò da venerdì è in corso uno sciopero della fame per invitare il Governo ad accantonare la riformulazione predisposta dal Ministero della Giustizia e dar prova di rispetto della Costituzione. G8 Genova. La Caporetto dell’idea di polizia democratica di Lorenzo Guadagnucci Il Manifesto, 20 luglio 2021 Alcuni processi, qualche condanna, molte omissioni e una travolgente voglia di rimozione. Il dopo G8 per le istituzioni repubblicane è stato un calvario. Costituzione e diritti umani, nell’estate di vent’anni fa, furono accantonati per fare spazio a un’oscena strategia della tortura. Giustizia - possiamo ben dirlo - non è stata fatta. E dire che i due principali processi contro le forze di polizia - per i casi Diaz e Bolzaneto - si sono chiusi con sentenze di condanna passate in giudicato. Ma sono state sentenze così deficitarie, con pene così lievi, mitigate oltretutto da prescrizione e indulto, che l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per i diritti umani con parole che avrebbero dovuto scuotere opinione pubblica e commentatori, classe politica e vertici istituzionali. La Corte ha scritto fra molte altre cose che la polizia italiana ha “ostacolato impunemente l’azione della magistratura”, che l’ordinamento italiano ha un deficit strutturale nel punire ma anche nel prevenire gli abusi di potere, ha notato con disappunto che nonostante la gravità dei fatti nessun agente o funzionario ha fatto un solo giorno di galera (salvo i brevi periodi di arresti domiciliari scontati da alcuni condannati nel processo Diaz, non ammessi alle misure alternative). L’impegno, la lealtà, l’indipendenza di un pugno di pm e di giudici, rimasti indifferenti alle pressioni venute dal Palazzo e capaci di condurre a termine i due complicati processi, non sono bastati a risparmiare all’Italia gli sferzanti giudizi dei togati di Strasburgo. La democrazia italiana è così uscita umiliata dal G8 e ancor più dal post G8. Se è vero, come è vero, che le garanzie democratiche furono sospese nel luglio genovese, dobbiamo chiederci se quegli abusi siano stati ripudiati, se la credibilità democratica delle nostre polizie sia stata recuperata. La risposta è no. La reazione delle istituzioni rappresentative alle parole dei giudici di Strasburgo è stata il silenzio, un imbarazzato e imbarazzante silenzio. Un silenzio però non casuale, anzi la premessa logica della rimozione in atto. Nel Palazzo non si parla e non si vuole che si parli dell’eredità lasciata dal G8: una prova generale - mai davvero rinnegata - di sovversione legalizzata dei princìpi costituzionali. Nemmeno la magistratura, che pure ha ottenuto risultati importanti nei processi Diaz e Bolzaneto, può dirsi assolta. L’omicidio di Carlo Giuliani è una spina che non smette di farci soffrire e l’archiviazione decisa a suo tempo dal gip continua a non convincere. Le conoscenze acquisite durante il processo ai manifestanti e grazie al lavoro della famiglia Giuliani dimostrano che un dibattimento sarebbe stato a dir poco opportuno; da esso, con ogni probabilità, sarebbe disceso un altro (doloroso) procedimento, stavolta per vilipendio del cadavere di Carlo, colpito in fronte con un sasso da una mano rimasta ignota. La magistratura ha peccato poi per omissione e per eccesso di zelo. Mancano all’appello le inchieste per le violenze sui detenuti nel Forte San Giuliano, quartiere generale dei carabinieri, e quella per la carica “illegittima e ingiustificata”, parole del tribunale, al corteo delle tute bianche di venerdì 20 luglio. Mancano le inchieste sugli abusi compiuti per strada, sugli arresti arbitrari, sugli innumerevoli falsi nei verbali, sui fermi avvenuti negli ospedali. L’eccesso di zelo è ben espresso da un’evidenza paradossale: le condanne più pesanti e l’ingresso in carcere sono toccati non già ai responsabili di violenze, falsi e torture, ma a un gruppo di manifestanti colpiti dalla mano della giustizia armata di una scure: una figura di reato - devastazione e saccheggio - che prevede pene abnormi, da otto a 15 anni. Stiamo parlando di imputati che non hanno compiuto alcuna violenza contro le persone. E nessuno, nonostante l’evidente sproporzione fra entità del crimine e pena prevista, ha pensato di cancellare questa norma, residuo dell’epoca fascista, dal codice penale. La giustizia d’altronde non si afferma solo nei tribunali. Dev’essere pretesa e vissuta dall’insieme delle istituzioni. I vertici di polizia hanno però rifiutato di compiere un’autocritica e anche di chiedere scusa alle vittime degli abusi, alla cittadinanza, agli stessi lavoratori delle polizie. Hanno accettato che l’espressione “polizia di Genova” passi alla storia come una delle opzioni in campo quando si parla delle scelte da compiere in materia di ordine pubblico. Hanno scelto, i vertici di polizia, d’essere strumento degli interessi politici del momento anziché d’essere garanti, con la propria autonomia, del disegno democratico indicato dalla costituzione. Il post G8 è stata una caporetto per l’antica idea di una polizia democratica al servizio dei cittadini. I silenzi e le omissioni di parlamenti e governi di ogni colore hanno fatto il resto, trasmettendo un messaggio di cinismo e complicità. Il disastro di Genova poteva essere un incidente, è diventato un precedente. Genova 2001 è l’inquietudine che ci porteremo dentro ancora a lungo. G8 Genova. Lo scandalo di quelle giornate una lezione per i giudici di oggi di Riccardo De Vito Il Manifesto, 20 luglio 2021 Venti di Genova. Le “due magistrature”. Una fu più restìa a mettere in discussione la presunzione di legittimità dell’operato della polizia; l’altra fin da subito coltivò il dubbio. Le migliaia di persone che a luglio 2001 arrivano a Genova da ogni parte del mondo e d’Europa hanno le idee chiare: la storia non è finita. La globalizzazione neoliberista, uscita vincitrice dal “secolo breve”, non ha liberato le persone dal bisogno. I conflitti sociali e politici - affermano i movimenti riuniti sotto lo slogan “voi G8 noi 6.000.000.000” - non sgorgano più dalle ideologie (spesso tradite), ma dalle drammatiche condizioni di vita dei popoli e degli individui tagliati fuori dal paradigma dello sviluppo quantitativo illimitato, dai miti del progresso cari sia al capitalismo occidentale sia a molte esperienze del socialismo reale. C’è un sud per ogni nord, una periferia per ogni centro: sono questi gli assi - simbolici oltre che territoriali - lungo i quali si dipanano le nuove lotte. Tanti esclusi contro pochi integrati si potrebbe dire, se non fosse che è proprio quel termine, “contro”, a non essere più capace di spiegare la realtà del conflitto che i movimenti portano a Genova. La nuova aspirazione non è costruire qualcosa “contro”, ma qualcosa “per”. L’idea che si coagula nei dibattiti pubblici a Genova non è di proporre un mondo a specchio, ma, come suggerisce un’ispirazione culturale che ha nella Pedagogia degli oppressi di Paulo Freire la sua radice più nitida, quella di superare una volta per tutte la contraddizione per cui l’oppresso “non aspira a liberarsi, ma a identificarsi con il suo opposto”. È per questo che il movimento fa paura e a Genova trova, come unica risposta, una nuova gestione dell’ordine pubblico, funzionale alla tutela e alla conservazione della città dei garantiti. Nel bel libro di Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci - L’eclisse della democrazia, 2021 (nuova edizione) - si racconta la storia di Oronto Douglas (avvocato di Ken Saro-Wiwa e conoscitore del carcere per aver difeso il popolo Ogoni contro gli scempi della Shell nel Delta del Niger), il quale, mentre si trova sulla via di Genova, viene fermato alla frontiera olandese a causa della mancanza delle somme di denaro necessarie per il visto di ingresso. Racconterà così quell’esperienza: “C’è una lezione che ho imparato dal mio fermo alla frontiera olandese: essere poveri è un crimine che può costare la galera”. Non c’è immagine migliore dello “stato penale”. Le persone che a luglio arrivano a Genova da ogni parte del mondo imparano, letteralmente sulla loro pelle, qualcosa di ancora peggiore della galera: “la più vasta e cruenta repressione di massa della storia europea recente”. Sono le parole dell’indagine di Amnesty International e non sono distanti da quelle contenute nella prima sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sui fatti della Diaz (Cestaro c. Italia, 7 aprile 2015). Lo scandalo di quella sospensione della democrazia, tuttavia, non è solo negli scenari militari e di guerra applicati alla gestione della piazza, nella violenza delle forze di polizia, nelle torture alla Diaz e a Bolzaneto; risaltano, anche e soprattutto, le falsificazioni e i depistaggi che le agenzie di polizia e i loro vertici hanno realizzato: a monte, per giustificare arresti illegali di massa (basti pensare alle famose molotov fatte apparire come il frutto della perquisizione e in realtà introdotte dagli stessi dirigenti di polizia); a valle, per ottenere l’impunità nei processi sui maltrattamenti e le torture (coperture, mancati riconoscimenti, false testimonianze). A fronte di questo scenario, inutile nascondersi, si sono delineate due magistrature. Una più restìa a mettere in discussione l’idea che le polizie, soprattutto in un Paese democratico, siano assistite sempre e comunque da una sorta di presunzione assoluta di legittimità del loro operato. È questa l’ottica di fondo sottesa alla richiesta - sulla base di verbali che si dimostreranno falsi - delle convalide degli arresti e di misure cautelari nei confronti di 78 persone arrestate alla Diaz e all’impegno di tutte le risorse nel processo per devastazione e saccheggio a carico di 25 manifestanti responsabili degli episodi di danneggiamento più eclatanti. Vi sono stati invece, su un altro versante, giudici che da subito hanno coltivato il dubbio e che non hanno esitato a rifiutare la convalida di ben 66 arresti su 78, restituendo gli atti alla Procura per indagare sui reati di polizia. Pubblici ministeri, poi, che hanno preso sul serio quelle denunce e hanno cominciato a indagare a tutto tondo sulle forze di polizia, scavando a mani nude nelle prove false, facendosi spazio passo dopo passo in una realtà fatta di omertà, silenzi, distorsioni della verità, ostilità dei vertici di polizia e spesso anche degli uffici giudiziari, mancate collaborazioni. È il lavoro di questi magistrati che rende almeno un po’ meno urticante il senso di ingiustizia dovuto alle mancate risposte della politica e della polizia stessa. Quella magistratura, sia pure a fatica, ha potuto operare forte dello statuto di indipendenza di un pubblico ministero integrato nella giurisdizione e di un giudice soggetto soltanto alla legge. A questo dobbiamo pensare quando - a distanza di vent’anni e con davanti agli occhi i fatti di Santa Maria Capua Vetere -, come giudici e giuristi, ci interroghiamo oggi sullo scandalo di Genova. Bufera sulla sentenza Cerciello Rega: “I giudici censurano il diritto di difesa” di Valentina Stella Il Dubbio, 20 luglio 2021 Finiscono sul tavolo della ministra Cartabia le pesantissime parole usate dalla prima Corte di Assise di Roma nelle motivazioni della sentenza con cui il 5 maggio ha condannato all’ergastolo Finnegan Lee Elder e Gabriel Natale Hjorth per l’omicidio del vice brigadiere Mario Cerciello Rega: “Ma perché dileggiare la condotta delle vittime - si legge nel dispositivo - e metterle sul banco degli imputati come reiteratamente è stato fatto in questo processo, esercitando il diritto di difesa al limite del consentito e della decenza? Perché tutte quelle insinuazioni volte a screditare l’operato dei carabinieri ipotizzando finanche dei reati? Si tratta di una ricostruzione insostenibile, fuori da ogni logica, smentita dalla descrizione che plurime fonti dichiarative hanno fornito della vittima e del suo operato”. Ma a cosa si riferiscono di preciso i giudici nella sentenza (Presidente estensore: Marina Finiti, giudice a latere: Elvira Tamburelli)? Alla condotta assunta dai legali Fabio Alonzi, Renato Borzone, Roberto Capra e Francesco Petrelli durante il processo basato sostanzialmente sulle testimonianze dei due imputati e sulle dichiarazioni dell’unico testimone oculare dell’omicidio, il carabiniere Andrea Varriale, anch’egli aggredito. I legali hanno contestato più volte le sue dichiarazioni e lo hanno accusato di aver inquinato le indagini con le sue bugie, prima fra tutte quella accertata relativa al possesso dell’arma di ordinanza la notte dei tragici eventi. Questo suo comportamento, insieme a quello di altri suoi colleghi dell’Arma, ha portato ad ipotizzare omissioni e depistaggi per coprire condotte non professionali di singoli appartenenti all’Arma. Alle giudici però questo atteggiamento dei difensori non è piaciuto e nelle 346 pagine delle motivazioni hanno trovato lo spazio per esprimere un giudizio soggettivo sull’operato della difesa. Gli avvocati però non sono rimasti inermi e ieri hanno inviato un esposto alla Guardasigilli per l’adozione di eventuali iniziative nei confronti della Finiti e della Tamburelli e ai Consigli dell’Ordine forensi di appartenenza per rimettere ai propri organi di disciplina ogni valutazione circa il loro comportamento processuale. La vicenda ha suscitato anche la ferma reazione delle Camere Penali, a partire dalla Giunta di quella nazionale: “È un fatto certamente estraneo ai più elementari canoni di legalità processuale e di correttezza professionale del magistrato quello di formulare, addirittura all’interno delle motivazioni di una sentenza, apprezzamenti personali e professionali nei confronti dell’intero collegio difensivo. È sorprendente come non si comprenda che simili arbitrarie intemperanze lessicali ed argomentative siano inesorabilmente destinate ad alimentare il dubbio di un indebito coinvolgimento emotivo e di un condizionante pregiudizio del Giudice. Se un’accusa di tale eclatante gravità avesse mai avuto un qualche reale e concreto fondamento in specifici episodi, essi non solo sarebbero di già noti, ma - ed è quel che più conta - avrebbero dovuto imporre a quei giudici immediati interventi di censura e di denuncia propri del potere-dovere di governo della udienza che compete a quella altissima funzione”. Hanno aggiunto le Camere penali di Roma e del Piemonte Occidentale e della Val D’Aosta: “La sentenza afferma un nuovo e inaudito principio di diritto: la difesa ha un doppio limite, etico e giuridico. Quando un giudice richiama l’Etica come principio informatore ed ispiratore della sua decisione non possiamo non percepire il rischio di una inquietante deriva moralista che si affianca e rafforza quella giustizialista. La Difesa non è più soltanto inutile, ma è anche indecente, scabrosa, provocatoria. Quello che forse la Corte di Assise di Roma non coglie è che questa deriva “moralista” potrebbe investire anche la Magistratura e la legittimazione delle sue decisioni”. Si spinge oltre la Camera Penale di Napoli che critica anche l’ergastolo ai due imputati: “Feroce. È l’unico aggettivo che ci viene in mente leggendo la sentenza. È feroce nel dispositivo poiché - fermo restando l’oggettiva ed indiscutibile gravità della vicenda - condannare a pena perpetua due ragazzi poco più che adolescenti ed incensurati per il raptus di un momento significa non credere minimamente alla finalità rieducativa della pena e, di fatto, aderire ad una logica meramente vendicativa della sanzione penale. Ma questo ai giudici non deve essere sembrato sufficiente. Nella motivazione hanno deciso di infierire anche sugli avvocati. Senza infingimenti è ben chiaro cosa la Corte imputa ai difensori: di aver - udite, udite! - messo in dubbio la parola dell’accusa e della polizia giudiziaria (alcuni dei quali, peraltro, escussi quali testimoni, sono tuttora sottoposti ad indagini). Cioè, di aver assolto al proprio compito”. E concludono che i giudici “non hanno, invero, alcuna legittimazione né tantomeno alcuna superiorità morale che gli consenta di ergersi a censori delle scelte difensive degli imputati e dei loro avvocati”. Per la Camera Penale di Milano “quelle opinioni, di cui ora si ha conoscenza autentica, paiono viziare l’obiettività del giudizio di colpevolezza espresso e quindi, oltre a eventuali conseguenze processuali, si pone il significativo e inquietante problema di come mettere gli individui al riparo dalla mancanza di obiettività dei giudici; l’intemerata determinazione dei giudici di esternare le proprie opinioni personali sullo svolgersi del processo appare come l’evidente dimostrazione di un sentimento diffuso di pretesa impunità rispetto all’autorità disciplinare”. Non entrano nel merito della discussione invece gli avvocati di parte civile, Franco Coppi, Roberto Borgogno, Ester Molinaro, Massimo Ferrandino: “Quali difensori di parte civile della famiglia Cerciello Rega e del Carabiniere Varriale riteniamo che sia stata assicurata alla difesa degli imputati ogni possibilità di difesa, come testimonia la durata stessa del dibattimento e non intendiamo interferire nelle polemiche che si sono sviluppate circa alcune valutazioni espresse dalla sentenza sulla condotta degli avvocati difensori. Nel processo di appello ci sarà sicuramente spazio per discutere dei temi che si sono oggi sollevati”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). “Trasferito perché ho denunciato, ora penso al suicidio” di Rossella Grasso Il Riformista, 20 luglio 2021 “Ho denunciato quello che è successo a Santa Maria Capua Vetere, poi mia moglie lo ha raccontato in alcune interviste e ora il Dap mi ha fatto un altro regalo: essere trasferito a Spoleto. Questa cosa mi sta uccidendo”. Con queste parole Ciro Esposito descrive in una lettera il suo inferno che è iniziato il 6 aprile 2020 nel reparto Nilo del Carcere di Santa Maria Capua Vetere e non è mai più terminato. Sua moglie Flavia, qualche giorno fa aveva denunciato in varie interviste le pressioni subite da parte degli agenti affinché ritirassero le denunce. Ma Flavia e suo marito Ciro non ne hanno voluto sapere “perché quello che è successo è troppo brutto e chi ha sbagliato deve pagare”, aveva detto Flavia in varie interviste. Ciro prima fu trasferito al carcere di Secondigliano e ora è ancora più lontano, a Spoleto. “Mi ha telefonata dal carcere dicendo che lo riempiono di farmaci - ha raccontato Flavia al garante dei detenuti di Napoli Pietro Ioia - Sta facendo lo sciopero della fame e della sete perché non riesce più nemmeno a parlare. Dice che alle 7 del mattino lo svegliano e gli fanno ingoiare i farmaci davanti a loro, sta facendo lo sciopero perché vorrebbe una visita psichiatrica che ancora non ha avuto da una settimana e mezzo che sta là. Si è rimesso nuovamente le lamette in bocca perché questa terapia lo sta buttando giù in tutti i sensi, fisicamente e mentalmente. Lo hanno trasferito a Spoleto subito dopo la mia intervista”. La preoccupazione e l’angoscia per il marito sbattuto sempre più lontano da casa per Flavia cresce ogni giorno di più. “Ora mi ha detto che lo metteranno in una cella liscia sorvegliato dalle telecamere. Piangeva dai nervi, mi ha detto che lo stanno facendo uscire pazzo”. E per sfogarsi di tutta questa situazione ha scritto una lettera “a chi di dovere”, chiedendo che possa essere riavvicinato alla sua famiglia. “Ho 8 figli dei quali 5 minori. Già a Secondigliano ero in difficoltà per fare i colloqui - scrive Ciro nella lettera - Poi dopo quello che abbiamo visto nei video e dopo che mia moglie ha rilasciato qualche intervista in cui ha raccontato che la chiamai per riferirle cosa fosse successo (in carcere a Santa Maria, ndr) come avrebbe fatto chiunque per quello che stavamo subendo e che ancora oggi mi porto dentro. Quando ho rivisto quelle immagini mi è venuto da piangere perché l’ho subito e con me lo sta subendo anche la mia famiglia”. “Io ho già avuto un brutto periodo nel passato e sto ancora qua grazie a una dottoressa del carcere di Benevento che mi ha salvato la vita quando stavo morendo nel carcere di Benevento per il mio gesto estremo. Ora prendo ancora farmaci ma solo per dormire, perché come inserimento non c’è nulla. Ora ho ricevuto ancora un altro regalo del Dap: essere trasferito a Spoleto. Dopo ciò che è accaduto le conseguenze chi le sta pagando? Io e la mia famiglia che mi è impossibile rivedere. Questa cosa mi sta uccidendo”, continua ancora nella lettera. “Io al Ministro e a chi di dovere chiedo in quanto già ho subito quella tortura di Santa Maria cui si parla, ora dovrò continuare a subire dopo avermi portato lontano dalla mia famiglia. Ho richiesto una comunità ma per qualche ragione sto ancora in carcere - scrive ancora Ciro - Lo avevo chiesto anche perché ho passato una brutta vita anche per colpa della droga e ora assumo farmaci che mi fanno solo dormire tutta la giornata. Chiedo con tutto il cuore di riportarmi a Secondigliano dove mi trovavo o a Poggioreale. I miei figli già stanno soffrendo per colpa mia e quell’ora di colloquio con loro è importantissima per noi da passare insieme. Se poi non si potrà, io a star così a dormire tutto il giorno con l’ansia e la paura per quello che è successo non voglio: do il mio consenso a farmi una siringa così solo potrò stare in pace e la mia famiglia potrà rifarsi una vita. Fin quando Dio mi darà la forza sto qui in sciopero della fame”. Pisa. Il nostro impegno per carceri secondo giustizia e umanità di Controluce, associazione di volontariato penitenziario Avvenire, 20 luglio 2021 Caro direttore, desideriamo esprimere tutta la riprovazione per i pestaggi avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il giorno 6 aprile 2020, le cui testimonianze audiovisive sono state ampiamente diffuse da tv, reti social e stampa. Riprovazione, e senso di profonda preoccupazione. È nostra convinzione, infatti, che accadimenti del genere ci mettano di fronte a un pericoloso restringimento, se non a una vera e propria negazione, di uno dei diritti fondamentali dell’individuo: quello alla tutela dell’integrità psicofisica, massimamente quando i soggetti più deboli sono affidati alla tutela dello Stato. Quelle vergognose immagini, oltre a introdurre un vulnus nei rapporti tra istituzioni e cittadino, sollevano anche la questione, non più rimandabile, di una più aggiornata, moderna, consapevole formazione degli agenti di polizia penitenziaria, per i quali non deve essere mai lecito il ricorso alla violenza, segnatamente quando pianificata e programmata come appare chiaro dalle immagini di quella “mattanza”, più degna di Stato governato da un regime autoritario o peggio, e non di un Paese ad alta tradizione giuridica come il nostro. Com’è potuta accadere una simile degenerazione? Chi sono i responsabili? Cosa si sta facendo per intervenire sulle implicite responsabilità ai vari livelli istituzionali che hanno reso possibile un tale imbarbarimento? In questo momento compete a tutti gli organismi interessati, istituzionali, del volontariato, ai detenuti stessi, alle loro famiglie operare affinché nei luoghi di detenzione e pena si crei, pur nel rispetto dei ruoli diversi, un rapporto di fiducia e collaborazione reciproca. Nella prospettiva di un carcere inteso come luogo dell’educazione per tutti alla responsabilità individuale e collettiva: un percorso, lungo, certo, ma che fin da subito abbisogna di uomini preparati e mezzi adeguati. Noi già da tempo operiamo in tale direzione: per l’umanizzazione delle pene, per l’attuazione di misure di comunità sempre più larghe e condivise, attenendoci allo spirito e alla lettera dell’articolo 27 della Carta costituzionale che recita tra l’altro: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Questa da sempre. e anche per il futuro, è la nostra stella polare. Napoli. Ercolano, messa alla prova per dieci detenuti negli Scavi Corriere del Mezzogiorno, 20 luglio 2021 Firmato protocollo d’intesa tra ministero Giustizia, Sovrintendenza e Tribunale. Ad Ercolano è stato firmato un singolare protocollo tra Ministero della Giustizia, Tribunale di Napoli e Parco Archeologico di Ercolano per lo svolgimento di lavori di pubblica utilità all’interno dell’area archeologica da parte dei detenuti. “Ci affidiamo alla nostra storia ed alla nostra bellezza per sconfiggere il disagio. Arte e giustizia possono camminare insieme per favorire pene alternative alla detenzione e quindi garantire il reinserimento in società di chi commette reati”, dice il sindaco di Ercolano, Ciro Buonajuto. Messa alla prova - Una firma che arriva proprio nel giorno dell’anniversario della morte di Paolo Borsellino. Una nuova applicazione del percorso di “messa alla prova” che permetterà a dieci giovani per volta contemporaneamente di poter estinguere la pena effettuando la guida o lavori di pubblica utilità all’interno del Parco Archeologico di Ercolano: “La firma del protocollo si inserisce nel solco delle tante azioni messe in campo ad Ercolano in questi anni per sostenere e promuovere cultura, turismo e legalità. Diamo inizio ad un bellissimo percorso e sono sicuro che rappresenterà un volano per analoghi progetti da attuare in altre realtà. Un risultato raggiunto grazie al lavoro e alla determinazione del direttore del Parco, Francesco Sirano, al quale va il mio ringraziamento e quello della comunità per aver voluto favorire sempre di più l’integrazione tra città moderna e città antica”. Piacenza. Marmellate e passate, così “germoglia” il lavoro nel carcere piacenzasera.it, 20 luglio 2021 Lanciato nel 2016 dalla cooperativa sociale L’Orto Botanico con lo scopo di coinvolgere alcuni detenuti della Casa Circondariale di Piacenza nella coltivazione di fragole e ortaggi e nella produzione di miele, “Ex Novo” si appresta dunque ad estendere la propria attività con la produzione di trasformati. “Dopo l’ultimazione della seconda serra, realizzata con il contributo del 8xmille della Chiesa Valdese, stiamo iniziando, nonostante le difficoltà legate alla pandemia covid-19, una nuova fase - spiega Fabrizio Ramacci, presidente de L’Orto Botanico -. Per valorizzare la raccolta delle fragole e degli ortaggi ed aumentare l’occupazione delle persone vogliamo realizzare all’interno della Casa Circondariale di Piacenza un laboratorio per la trasformazione di questi prodotti. La produzione avverrà poi nella stessa Casa Circondariale e nell’azienda agricola della nostra cooperativa ad Alseno”. Il progetto ha ricevuto un contributo da 80mila euro della Fondazione di Piacenza e Vigevano - 40mila per il 2021 e 40mila per il 2022 -, oltre donazioni di privati per 55mila euro. “Nella prima fase - informa Ramacci - ci focalizzeremo sulla produzione di marmellate, composte e passate. Grazie al coinvolgimento di un esperto esterno, inizialmente verranno occupati sei detenuti con contratto part time di 20 ore, impiegati su due turni giornalieri da 4 ore dal lunedì al venerdì. La produzione iniziale prevista, perché il conto economico sia da subito sostenibile, è di 90mila vasetti, ovvero 25mila chili di frutta e verdura lavorata. Lo sviluppo futuro dell’attività - aggiunge Ramacci - può poi portare ad un significativo aumento delle persone occupate, sia nella trasformazione che nella produzione della materia prima internamente al carcere e nell’azienda agricola della cooperativa”. Quali saranno i profili dei lavoratori coinvolti nel nuovo progetto? “L’aumento occupazionale riguarderà i reclusi, impiegati nell’orto interno; i beneficiari ammessi al lavoro all’esterno, questi impiegati nella coltivazione delle fragole, e gli inseriti nell’attività lavorativa che escono della Casa Circondariale per aver raggiunto il fine pena o l’affidamento sociale, coinvolti invece nella produzione presso l’azienda agricola di Alseno”. I “frutti” di questo lavoro verranno poi immessi nel mercato come qualsiasi altro prodotto, a disposizione di chiunque voglia acquistarlo. “Puntiamo ad utilizzare diversi canali di commercializzazione - informa il presidente de L’Orto Botanico -: negozi specializzati in vendita di prodotti di alta qualità, e-commerce, chiosco realizzato presso la Casa Circondariale e mercati Agricoli di Campagna Amica. Prevediamo inoltre di sviluppare sinergie con altre realtà del territorio che si occupano di agricoltura sociale per migliorare la commercializzazione dei prodotti, creando una filiera dell’agricoltura sociale piacentina e per un eventuale acquisto della materia prima necessaria alla trasformazione”. Ramacci entra poi ulteriormente nel dettaglio del nuovo progetto di produzione di trasformati. “I locali per la realizzazione dell’attività si trovano all’interno della Casa Circondariale. Per renderli idonei occorrono però una serie di interventi: piastrellare le pareti; creare i punti per le prese elettriche; cambiare la pavimentazione e dotarla di idonei scarichi; creare gli scarichi per i lavelli e posizionare le prese dell’acqua. In una logica di minor consumo dell’acqua verranno installati rubinetti ad alta pressione. L’intervento si dovrebbe realizzare in collaborazione con la Scuola Edile di Piacenza, utilizzando persone detenute che riceveranno formazione e una retribuzione. La cooperativa ha inoltre già attivato un leasing di 50mila euro per il finanziamento dell’acquisto di una macchina Qbo che è un sistema di trasformazione completo, compatto e brevettato, capace di integrare macchinari diversi in un unico processo di lavorazione. È un sistema all-in-one, perché consente di immettere in vasca tutti gli ingredienti in un’unica operazione, stravolgendone il normale ordine e riducendo le diverse fasi di lavorazione a un ciclo unico ininterrotto. È un sistema one for all, perché risponde alle esigenze e alle richieste di chi lo utilizza, perché è capace di adattarsi a diversi settori di applicazione”. Il Progetto Exnovo - Il termine Exnovo vuole rimandare ad un “nuovo inizio”. Al ricominciare da capo. Ad una nuova opportunità, quindi ad un “riscatto sociale” della condizione della persona: dal passato di “ex” (delinquente e carcerato) al futuro di “novo” (lavoratore). Ed il passaggio avviene nel presente, attraverso il lavoro, l’apprendimento di un mestiere “frutto del lavoro del Carcere di Piacenza”. Exnovo identifica sia prodotti “creati dal nulla” sia lavoro svolto dove, fino a poco tempo fa, era impensabile. Oggi all’interno del Carcere ci sono due serre, campi coltivati ad orto e piccoli frutti, una ventina di arnie e un laboratorio di confezionamento. Il senso del progetto è anche quello di creare possibilità di futuro dove non ce n’erano e concrete opportunità laddove non c’era speranza. Roma. Pane e prodotti di gastronomia preparati dai detenuti: a Rebibbia apre bar tavola calda romatoday.it, 20 luglio 2021 Vendita al pubblico dei prodotti di panificazione e gastronomia realizzati all’interno del laboratorio presente nell’intercinta. Un bar tavola calda ha aperto le porte all’esterno delle mura del carcere di Rebibbia. Si tratta di Cookery, un luogo che permetterà ai detenuti della Casa Circondariale Terza Rebibbia la vendita al pubblico dei prodotti di panificazione e gastronomia realizzati all’interno del laboratorio presente nell’intercinta. L’iniziativa nasce dalla collaborazione tra la Direzione penitenziaria e il Gruppo CR S.p.A. che il primo dicembre dello scorso anno, in pieno lockdown, ha permesso la riattivazione dell’opificio e la selezione di 7 detenuti di cui 2 semiliberi per essere avviati all’attività di Fornaio. Al centro dell’iniziativa il progetto d’inclusione sociale #Ricomincio da 3#, rivolto ai reclusi della struttura carceraria per consentire loro di rimettersi in gioco puntando sui propri punti di forza: abilità personali, impegno, creatività e, soprattutto, disponibilità al cambiamento. Lo scopo originario di Cookery Rebibbia è quello di ampliare l’offerta trattamentale attraverso uno degli elementi fondanti la rieducazione dei detenuti, il lavoro. Grazie alla direttrice Annamaria Trapazzo e all’imprenditore Edoardo Ribeca il progetto - già nato nel 2013, ma arenatosi a causa di problematiche relative alla vecchia gestione - rinasce con un entusiasmo nuovo e con la consapevolezza che la persona detenuta può riacquistare la propria dignità e la consapevolezza del suo valore. Cremona. Solidarietà in carcere: donati 7 tablet ai detenuti di Francesca Morandi La Provincia, 20 luglio 2021 Grazie ai proventi della mostra “Il Chiaroscuro del carcere” si potranno videochiamare avvocati e famigliari, mentre le visite sono ancora sospese. Giovedì 7 novembre 2019. Per iniziativa della Camera Penale di Cremona e Crema ‘Sandro Bocchi’, a Cà del Ferro fu inaugurata la mostra Il Chiaroscuro del carcere, 28 foto in bianco e nero scattate dall’avvocato milanese Alessandro Bastianello che raccontano il percorso del detenuto, dall’ingresso alla cella. Una settimana dopo, la mostra fu trasferita al Palazzo di Giustizia. E fu un successo. Gli scatti erano così belli, soprattutto suggestivi, che vennero venduti tutti, anzi “in alcuni casi abbiamo dovuto fare la ristampa”. E con i circa 1600 euro netti ricavati, da ieri i detenuti del carcere hanno in dotazione sette tablet con all’interno la SIM per fare le videochiamate agli avvocati, ma anche per poter parlare con i familiari. I tablet sono stati consegnati alla direttrice Rossella Padula dal presidente della Camera Penale, Alessio Romanelli con il segretario Laura Negri e Marilena Gigliotti, referente carcere per la sezione. Accanto alla direttrice Padula, il Commissario Pierluigi Parentera e la capo area trattamentale Vincenza Zichichi. “Avevamo chiesto alla direttrice come potevamo impegnare la somma in favore del carcere - spiega il presidente Romanelli. La direttrice, sentiti Parentera e Zichichi, ha chiesto l’acquisto di tablet con inserimento di SIM per consentire ai detenuti di parlare con gli avvocati. Ho dato atto alla direttrice che Cremona è stato uno degli istituti che ha sempre consentito, anche in periodo di emergenza sanitaria, a parte i primi mesi dello scorso anno, ai difensori i colloqui in presenza, le video chiamate e di averle incrementate. Non era scontato”. “Il senso del nostro andare in carcere - prosegue Romanelli - non era solo la consegna dei tablet, ma anche per vedere di accendere i riflettori sull’argomento. Il carcere di Cremona, al di là del nostro ottimo rapporto con la direttrice, per quello che ci risulta ci sembra un carcere dove si sono fatti anche dei grossi passi in avanti rispetto al periodo precedente. Il carcere è ben gestito. Non ci risultano segnalazioni, poi tutto si può migliorare. Qui lavorano molto bene e molto seriamente”. La consegna dei tablet è stata anche l’occasione “di chiedere alla direttrice il permesso di consentire la raccolta delle firme sulla riforma della giustizia in carcere. Ed anche questo, non per raccogliere quattro o cinque firme, ma per dare un segno della nostra presenza in carcere. Il permesso andrà autorizzato dall’amministrazione penitenziaria. In proposito, la settimana prossima ci saranno tre giorni di raccolte firme: il 28 a Cremona, il 29 a Crema, il 30, se sarò possibile, anche in carcere, perché il senso è di andare in carcere”. Arienzo (Be). Teatro nel carcere, il progetto di Fabio Fiorillo e Gaetano Battista di Marilena Maresca laprovinciaonline.info, 20 luglio 2021 Rinascere con il teatro all’interno di un carcere è possibile, grazie a Fabio Fiorillo e a Gaetano Battista che hanno coinvolto i detenuti con grande sensibilità ed intelligenza. Come ci spiega Fiorillo “L’Associazione Polluce APS dal 2019 ad oggi è riuscita a far nascere un progetto ambizioso di formazione e inclusione sociale attraverso l’arte: il Progetto Teatro Inclusivo”. Da questo percorso è nata la Compagnia “La Flotta” che coinvolge detenuti, ex detenuti, familiari e professionisti dello spettacolo. Grazie al Garante dei Detenuti regionale Samuele Ciambriello e al Fondo di Beneficenza di Intesa Sanpaolo, il laboratorio teatrale si è trasformato in laboratorio alle arti sceniche, inserendo corsi di formazione per la creazione di costumi teatrali e corsi di scenotecnica; un ringraziamento particolare anche alla direttrice del carcere di Arienzo Annalaura de Fusco e a tutta la polizia penitenziaria per il grande sostegno dato. Come ci racconta Fiorillo “un caso esemplare è quello di Marco Duro, giovane ventisettenne di Ponticelli, parte attiva del laboratorio, che dopo la concessione della semilibertà e del ritorno a casa, che ha scelto di continuare a seguire il progetto”. Grazie alla lungimiranza del Magistrato di Sorveglianza, la Dott.ssa Maria Picardi, e all’impegno degli educatori Gaetano Battista e Fabio Fiorillo dell’Associazione Polluce, Marco ha ottenuto l’opportunità di continuare ad entrare in carcere solo per il laboratorio di teatro e per le messe in scena finali previste per luglio 2021. Dopo tanta attesa, per questo periodo di pandemia ancora in corso, la compagnia La Flotta della casa circondariale di Arienzo metterà in scena lo spettacolo “Alterazioni”: il 20 luglio alle ore 18.00 l’anteprima e le due repliche nei giorni 21 e 22 luglio sempre alle ore 18.00. La selezione musicale e gli arrangiamenti sono di Fabio Fiorillo e Franco Ponzo, scenografie curate da Gennaro Vallifuoco e i costumi originali di Teresa Papa e Nicola Criscibaffico. Modena. Sognalib(e)ro, i detenuti scelgono “Almarina” di Valeria Parrella adnkronos.com, 20 luglio 2021 Nei giorni scorsi la premiazione alla Casa Circondariale Sant’Anna di Modena della Terza edizione del concorso letterario per le carceri promosso da BPER Banca, Comune di Modena e Ministero della Giustizia. Premiate anche quattro opere scritte dai detenuti. Si è conclusa nei giorni scorsi, con la cerimonia di premiazione in collegamento video dalla Casa circondariale di Sant’Anna di Modena, la terza edizione di “Sognalib(e)ro”, il Premio Letterario di respiro nazionale che mira a promuovere lettura e scrittura negli istituti penitenziari come strumento di riabilitazione sociale. L’iniziativa, nata da un’idea di Bruno Ventavoli, direttore di Tuttolibri-La Stampa, è promossa dal Comune di Modena e dal ministero della Giustizia, Dipartimento di Amministrazione penitenziaria, con il sostegno di BPER Banca. Il progetto consiste in un concorso letterario che prevede l’assegnazione di due premi: uno a un’opera letteraria letta e votata dai detenuti, l’altro a un elaborato (romanzo, racconto o poesia) prodotto dai detenuti stessi che potrà essere pubblicato in ebook, da solo o in antologia con altri, dal Dondolo, la casa editrice digitale del Comune di Modena. L’edizione 2021 di “Sognalib(e)ro”, nonostante le difficoltà dovute alla pandemia, ha visto la partecipazione di circa cento gruppi di lettura distribuiti nei 17 istituti penitenziari di tutta Italia. Per la sezione Letteratura italiana, la vittoria è andata al romanzo “Almarina” di Valeria Parrella, ambientato nel carcere minorile di Nisida, che ha superato “La misura del tempo” di Gianrico Carofiglio e “Lo splendore del niente e altre storie” di Maria Attanasio. La vincitrice, come previsto dal regolamento del Premio, ha scelto quattro testi significativi per la sua vita che saranno donati da BPER Banca e dal Comune di Modena alle biblioteche degli istituti penitenziari che hanno partecipato. Valeria Parrella ha scelto “Resurrezione” di Tolstoj, “Jane Eyre” di Charlotte Brontë, “Quaderni dal carcere” di Antonio Gramsci e “L’agente segreto” di Joseph Conrad. Tra le oltre quaranta opere inedite inviate dai detenuti che hanno partecipato al progetto sul tema “Il mio lato positivo”, assegnato per questa edizione, la giuria di esperti, presieduta da Ventavoli e composta dagli scrittori Barbara Baraldi, Simona Sparaco e Paolo di Paolo, ha premiato il romanzo di Daniele dal carcere di Torino, il racconto di Marco e quello di Glay (entrambi da Pisa), e le poesie delle detenute del carcere di Pozzuoli. Le opere sono state pubblicate dal Dondolo in un ebook disponibile sul sito della casa editrice. Alla cerimonia di premiazione, condotta dal Sant’Anna da Bruno Ventavoli hanno partecipato, in collegamento, Eugenio Tangerini, Responsabile del servizio External Relations & CSR di BPER Banca, Andrea Bortolamasi, Assessore alla Cultura del Comune di Modena, e la stessa Valeria Parrella. In collegamento erano presenti anche rappresentanti dei detenuti degli istituti penitenziari di Castelfranco, Sassari, Pisa, Brindisi, Milano, Pozzuoli e Ravenna che hanno partecipato al progetto. “Lettura e scrittura sono per BPER Banca due forme di espressione attraverso le quali si compie il riscatto sociale dell’individuo - ha dichiarato Eugenio Tangerini - e per questo sosteniamo in tutta Italia numerosi premi letterari e iniziative di natura culturale. Il premio Sognalib(e)ro, che stimola i detenuti a scrivere e leggere ha un valore sociale ancora più elevato. Quel valore che ogni anno generiamo e restituiamo in gran parte alla comunità”. “È stato un anno molto difficile - ha commentato l’assessore Bortolamasi - per le conseguenze della pandemia che hanno portato alla sospensione di molte attività formative all’interno delle carceri e per i fatti di cronaca purtroppo ben noti a tutti. Ma anche per questo abbiamo deciso di impegnarci al massimo per riproporre questo progetto insieme agli educatori, che hanno fatto un lavoro enorme. Perché siamo convinti che sia un momento importante di condivisione, confronto, crescita personale e anche, ci auguriamo, occasione per un cambiamento di prospettiva, per una speranza in più nelle vite dei detenuti”. In tre anni, ha aggiunto Bruno Ventavoli, “abbiamo ricevuto oltre duecento scritti, tra poesie, racconti, memoir, semplici sfoghi e persino tre romanzi (uno è diventato ebook con Giunti). Quasi trecento detenuti hanno letto, criticato, meditato, votato i romanzi del premio. Sognalib(e)ro è la prova concreta, e incoraggiante, che il carcere può non essere solo detenzione, violenza, emarginazione, rabbia. Oltre alla certezza della pena, c’è la certezza che il libro è un potente aiuto per cambiare la situazione”. La cerimonia di premiazione è stata anche l’occasione per lanciare la quarta edizione di “Sognalib(e)ro”, per la quale nei prossimi giorni saranno inviati alle carceri gli inviti a partecipare, che avrà come tema “La promessa che ho fatto a me stesso”. Se la politica produce paura e non cultura di Massimo Cacciari La Stampa, 20 luglio 2021 Nessuno nasce libero - un solo essere (per quanto si sa), l’uomo, nasce con la possibilità di diventarlo. È un lavoro difficile e faticoso. Occorre combattere pregiudizi, ignoranze, abitudini e costumi che ci sembrano “naturali”. Occorre l’esercizio della critica nei confronti di ogni forma di potere, che intenda affermarsi a prescindere dalla ragionevolezza e coerenza dei propri fini, semplicemente in virtù della propria forza. Ma prima di tutto diventare liberi significa liberarsi dalle passioni e dalle paure che ci imprigionano continuamente. E mai queste pesano tanto sui nostri comportamenti e sulle nostre idee come nei momenti di crisi, di “salto d’epoca”. È inevitabile che il potere giochi su di esse; è sempre accaduto e sempre accadrà. Il sentimento di paura favorisce la naturale (questa sì davvero naturale) tendenza dell’uomo ad affidarsi a chi crede sia, magari per l’espace d’un matin, il suo buon pastore. Chiedimi quello che vuoi, ma rassicurami. Ci sarà a volte chi rassicura davvero, ma quasi sempre ci troveremo a che fare con chi sa fingerlo con abile spregiudicatezza. E quando una Fortuna propizia ci fa dono di una leadership adeguata, state pur certi che essa saprà far leva sulla partecipazione intelligente, sulla collaborazione di tutti i suoi governati mille volte più che su norme e pene. Sono vent’anni che rispondiamo alle paure che la “grande trasformazione” produce promettendo soluzioni e ingigantendole, rassicurando e terrorizzando a un tempo. Un velleitario regime di sorveglianza universale si è andato formando all’interno delle maglie delle nostre democrazie. Le forze politiche sembrano cercare sempre più la propria legittimazione nel dimostrare di averne in testa il modello migliore. Rassicura chi sorveglia e punisce con maggiore efficacia - di ciò sono convinte e questo pare oggi il destino. È iniziato da tempo, dall’attimo successivo alle grandi speranze con la nascita dell’euro. Prima il terrorismo islamico, poi la crisi economica e sociale, il brutale “ritorno all’Ordine” imposto alla Grecia, poi la tragedia dell’immigrazione, prodotto inevitabile di una globalizzazione priva di ogni governo, infine la pandemia. Nessuno di questi momenti è stato davvero superato; chiodo in questo caso non scaccia chiodo, ma lo fa per un po’ dimenticare. Le minacce, i pericoli sono realissimi. Non di questo si discute, ma della risposta che a essi si dà, e della cultura che questa sottende. E la risposta segue un paradigma univoco: drammatizzazione della paura; informazione a base di “si si-no no”, aut-aut, bianco-nero; un balbettante consolare-rassicurare privo di analisi, sostanza, progetto; enfasi straordinaria sulla dimensione normativistico-penalistica degli interventi. Fino a qualche tempo fa quest’arte sembrava essere saldamente in mano alla destra. Chiudere le frontiere contro il terrorismo, sbarrare qualche porto per combattere l’immigrazione. Pene durissime per i barbari che ci vorrebbero invadere. La paura per il crollo dell’Occidente e le invasioni barbariche è stato il territorio d’elezione della propaganda e delle rassicurazioni delle destre europee nazionaliste e sovraniste. Ben più efficace l’azione della destra europeista che facendo leva sulla paura per la perdita di stabilità e lo spettro di Weimar, ha nei fatti annichilito dopo il 2007 nei Paesi del continente lo spazio per qualsiasi reale, autonomia in campo economico-finanziario. Ormai, però, il modello è dilagato. Ogni forza politica si va specializzando in un ramo particolare del complesso paura-rassicurazione, in cui la rassicurazione è tanto più efficace quanto più cresce la paura, come per San Paolo si tengono peccato e legge. Si tratta di specializzazione competitiva: la mia sì è paura reale, fondata, non la tua! La mia sì va rassicurata, la tua invece è mera strumentalizzazione! Chi si specializza nel prendersi cura del timore per le invasioni barbariche e la perdita di sovranità, chi in assistenzialismo in materia di reddito, chi in omofobia e covid. Denominatore comune è l’assoluta vaghezza delle analisi che dovrebbero sostenere tali progetti di cura, la occasionalità e contraddittorietà degli stessi. Nessuna paura viene razionalizzata, nessuna informazione viene fornita così da consentire che essa non si trasformi in fuga, ma diventi azione responsabile di ciascuno. Chi sono i terroristi? Dove abitano? Come isolarli nel loro ambiente? Interrogativi superflui; alla guerra come alla guerra, punto e basta. Chi sono gli immigrati? quali politiche possono fronteggiare la loro tragedia? masturbazioni intellettuali; muraglie, fili spinati e lager libici occorrono, altro che balle. Chi sono i morti? Chi rischia davvero? Quali sono i reali limiti per ospedali e terapie intensive? Come può accadere che dopo tante vaccinazioni i contagi siano maggiori che nello stesso periodo dell’anno scorso? Vaghe, elusive risposte - alle quali fanno riscontro decisioni fantapolitiche come l’autorizzazione di manifestazioni di massa per le nostre vittorie sportive. È davanti agli occhi di tutti: la competizione politica si sta sempre più svolgendo su questo terreno. E potrebbe anche andare se ognuno, per la sua parte, avesse proposte corrispondenti alla gravità delle questioni, e non solo si appellasse alla nostra fede sulle sue capacità di risolverle. E risolverle come? E qui davvero è evidente tutta la “miseria” in cui ci troviamo: risolverle con norme e pene, norme all’inseguimento della situazione, incapaci di prevedere e governare - pene sempre più dure, per un numero sempre più ampio di fattispecie, come se non si sapesse da secoli che non esiste corrispondenza tra severità della pena e crimini commessi. “Quid leges sine moribus?” chiedevano i fondatori romani dell’idea di Diritto - che valgono le leggi se manca l’ethos? Se i nostri politici cominciassero, anche da questo punto di vista, a riconoscere l’assoluta centralità della scuola e dei processi formativi? Perché non provarci, pur sotto la pioggia di norme e di pene? L’incuria educativa ignorata di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 20 luglio 2021 Preoccupa il disinteresse di chi è nelle posizioni apicali dei diversi settori (politica, economia, cultura) per il livello di preparazione della maggior parte dei giovani. Tema: la classe dirigente italiana e i processi educativi. Svolgimento: spiegare come mai per la suddetta classe dirigente sia irrilevante l’impoverimento in corso del capitale umano a disposizione del Paese. Collegare tale implicito giudizio di irrilevanza al disinteresse, ampiamente comprovato, di politici di primo piano, imprenditori, banchieri, leader sindacali, grandi professionisti, alti prelati, intellettuali di rango eccetera, per ciò che riguarda la condizione delle scuole e dell’Università. Chiedersi se, per questa ragione, si possa ipotizzare che in Italia una classe dirigente non esista più. In caso di risposta affermativa fare qualche considerazione sulle cause di tale scomparsa. Lasciando a chi ne avesse voglia il compito di svolgere il suddetto tema, faccio qualche considerazione sulle ultime notizie, ancora una volta allarmanti, sulla condizione dei processi educativi in Italia. “La Dad ha fatto crac”. Così iniziava (Corriere del 15 luglio) l’articolo di Gianna Fregonara e Orsola Riva sui risultati dei test Invalsi. Il Covid si è abbattuto su una scuola che in tante parti d’Italia era già malissimo in arnese, le ha inferto un colpo devastante. Risulta che il 70 per cento degli studenti del Meridione sia impreparato in matematica. Malissimo anche l’apprendimento dell’italiano. I pessimi risultati di tante scuole meridionali però non possono nascondere un generale arretramento della qualità della preparazione degli alunni. Il Covid ha semplicemente esasperato fenomeni già in atto da molti anni e, in virtù dei quali, la scuola italiana ottiene sempre pessimi punteggi nelle classifiche Ocse. Chiara Saraceno (La Stampa) lo ha definito un “disastro antropologico”. Concordo e sottoscrivo. Qui, nell’indifferenza generale, si stanno mandando al macero generazioni di studenti. E si sta preparando un pessimo futuro per l’Italia. Che si farà quando il Paese avrà un numero ancora più grande (sono già tantissimi) di analfabeti funzionali e tuttavia diplomati? Sarà una buona notizia per l’economia? Una buona notizia per la democrazia italiana? È certamente giusto discutere se gli insegnanti debbano vaccinarsi o no (proporrei di non “conculcare”, come dice qualche buontempone, la libertà dell’insegnante che non si vuole vaccinare, basta escluderlo dall’insegnamento). Ma poi, c’è anche un’altra faccenduola che richiederebbe l’attenzione di tutti: che fare con gli insegnanti che hanno le classi più disastrate? Come convincerli a lavorare meglio per concorrere a raddrizzare la baracca? Forse i lettori non sono a conoscenza del fatto che alcuni sindacati della categoria (molto ascoltati, pare, dai 5 Stelle e non solo) vorrebbero ottenere la soppressione dei test Invalsi. In modo che nessuno più si accorga dell’esistenza di buone e cattive scuole, nonché di insegnanti bravi e anche bravissimi che, con pari stipendio, convivono con insegnanti mediocri e pessimi. Il ministro della Pubblica istruzione, che è anche un docente universitario ed ex rettore, a opinione di chi scrive, dovrebbe parlare al Paese. Spiegare quali provvedimenti intende prendere per fare in modo che le scuole peggiori si avvicinino agli standard delle migliori, per arrestare la tendenza delle scuole in molte aree del Paese (ma attenzione che scuole così ce ne sono un po’ ovunque in Italia) a trasmettere impreparazione e incompetenza, ad allevare generazioni di semi-analfabeti. Forse occorrerebbe la formazione di una sorta di “gabinetto di guerra” (con il premier, il ministro della Pubblica istruzione, dell’Università, della Pubblica amministrazione, del Sud e la coesione territoriale) per stabilire le contro-misure. Da un lato, occorre inviare un messaggio agli studenti: se non vi preparate, e se non pretendete il massimo sforzo dai vostri insegnanti, il vostro futuro sarà nero. Non troverete lavoro o vi dovrete accontentare di pessimi impieghi. Ma un messaggio del genere non arriva a destinazione se si risolve solo in qualche predica moralistica. Si tratta di mandare segnali chiari. Per esempio, rendere difficoltoso l’accesso alle università, rendere molto più rigorosi e severi i concorsi pubblici eccetera. Il messaggio sarebbe: studiate duro, altrimenti troverete solo porte sbarrate. È evidente però che la responsabilità dei ragazzi e delle loro famiglie (che pure c’è: escluse infanzia e prima adolescenza, chiunque è responsabile di ciò che fa) è comunque limitata. Qui si tratta di mandare anche un messaggio forte agli insegnanti. In Italia non è ipotizzabile nemmeno per celia che un insegnante di comprovata incapacità venga licenziato. Ma è inaccettabile, e anche disfunzionale, che un bravo e un cattivo insegnante ricevano lo stesso trattamento. Si ricorra a un sistema di incentivi e disincentivi: i professori con i migliori risultati in termini di preparazione degli studenti ottengano un (cospicuo) premio annuale aggiuntivo. Essi vengano anche premiati con cerimonie pubbliche nelle scuole di appartenenza: per rimarcare la differenza fra i bravi e gli altri e per costringere questi ultimi, se ne sono capaci, a darsi una mossa. Ritorniamo al punto di partenza: esiste una classe dirigente? Il disinteresse di chi occupa posizioni apicali nei diversi settori (della politica, dell’economia, della cultura) per i processi educativi fa propendere per una risposta negativa. Una classe dirigente si preoccuperebbe assai nel momento in cui si accorgesse che i meccanismi mediante i quali si forma il capitale umano si sono inceppati. Una classe dirigente sa che non basta che una minoranza di giovani raggiunga posizioni alte e anche eccellenti (cosa che naturalmente avviene) nell’istruzione universitaria e post-universitaria. Una classe dirigente sa che se il livello di preparazione della maggior parte dei giovani è inadeguato ciò comprometterà il futuro del Paese. Se non ora quando? Per un colpo di fortuna o della Provvidenza, c’è in Italia un governo che ha le qualità e la visione per comprendere quale sia la posta in gioco. Dovrebbe imporre la propria volontà, anche in questo settore, a stuoli di praticoni indifferenti. Con la stessa energia con cui cerca di imporla sul Recovery fund. Pegasus, cyberspionaggio globale contro dissenso e giornalisti di Michele Giorgio Il Manifesto, 20 luglio 2021 Forbidden Stories e 80 giornalisti, con l’assistenza tecnica di Amnesty International, hanno dato vita al Pegasus Project per denunciare quanto lo spyware israeliano sia un’arma a disposizione di governi che vogliono stroncare il dissenso e ridurre al silenzio la stampa. “Fatti estremamente scioccanti”, li definisce il portavoce del governo francese Gabriel Attal riferendosi alla trentina di giornalisti transalpini di Le Monde, Canard Enchaine, Figaro, Afp e altri ancora, spiati da servizi di intelligence marocchini tramite il software Pegasus della società israeliana NSO. Se ne parla da anni. Solo ora Parigi, e in senso più ampio l’Ue, scoprono l’insidia rappresentata da Pegasus, il software che la NSO vende, con l’autorizzazione delle autorità israeliane, in giro per il mondo a governi e regimi per spiare giornalisti, uomini politici, oppositori e attivisti dei diritti umani. Rapporti di ong internazionali, rivelazioni, denunce, neppure il caso del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, ucciso nel 2018 dall’intelligence saudita grazie anche a informazioni raccolte con Pegagus, non hanno scosso le “democrazie occidentali”. Si è dovuto attendere l’inchiesta pubblicata su 16 testate tra cui Le Monde, The Guardian, The Washington Post e Süddeutsche Zeitung per provocare una reazione vera. La NSO si proclama innocente. “Vendiamo i nostri prodotti solo a governi riconosciuti, con un processo che abbiamo descritto in piena trasparenza” ha scritto in un comunicato, ripetendo la versione ben nota che “la nostra tecnologia previene atti di terrorismo, pedofilia, traffico di stupefacenti e aiuta nella ricerca di persone scomparse. La nostra società salva vite umane”. In breve, la NSO si considera una sorta di ente benefico al servizio dell’umanità nella lotta contro il male e non una azienda che ha trovato il modo per realizzare fatturati da centinaia di milioni di dollari all’anno. E nega che Pegasus abbia dato una mano agli agenti sauditi per rintracciare e seguire i movimenti di Jamal Khashoggi. “NSO ha già dichiarato in passato - prosegue il comunicato - che la sua tecnologia non ha alcun legame con la terribile uccisione del giornalista Khashoggi. Quelle affermazioni si sono rivelate infondate”. Solo un ingenuo può credere che quelle delle NSO siano delle normali attività commerciali se non addirittura un sostegno tecnologico decisivo per la cattura di qualche narcotrafficante e di alcuni pedofili. L’azienda con sede a Herzliya, a nord di Tel Aviv, è stata fondata nel 2010 da Niv Carmi, Shalev Hulio e Omri Lavie, tutti ex componenti dell’unità 8200 delle forze armate israeliane incaricata di sorvegliare i telefoni cellulari e le comunicazioni in rete dei palestinesi. Informazioni, spesso sulla vita privata, che secondo alcune denunce e le rivelazioni fatte qualche anno fa da componenti dell’unità 8200, sono utilizzate per costringere i sorvegliati a lavorare come informatori per i servizi di sicurezza israeliani. Occorre impegnarsi parecchio per credere che Carmi, Hulio e Lavie e gli altri dirigenti della NSO non siano consapevoli che il Pegasus è stato usato in prevalenza come strumento non per sorvegliare i criminali ma i difensori dei diritti umani, oppositori, giornalisti, dissidenti e tutti coloro che danno fastidio a regimi autoritari in giro per il mondo. E fa comodo anche a qualche leader europeo, come l’ungherese Viktor Orban. D’altronde le stesse autorità israeliane considerano Pegasus un’”arma” e in quanto tale deve ottenere una autorizzazione governativa prima di essere venduta ai determinati paesi. In ogni caso la NSO non ha mai affrontato restrizioni particolari e continua le sue attività. Sono 50mila nel mondo le utenze telefoniche controllate da Pegasus che ha facilitato violazioni dei diritti umani e su scala massiccia. La ong Forbidden Stories e 80 giornalisti di 17 mezzi d’informazione di 10 paesi, con l’assistenza tecnica di Amnesty International, hanno dato vita al Pegasus Project per denunciare a livello globale quanto lo spyware israeliano della Nso Group sia un’arma a disposizione di governi che vogliono ridurre al silenzio i giornalisti, attaccare gli attivisti e stroncare il dissenso. L’indagine ha identificato possibili clienti della Nso Group in 11 Stati: Arabia Saudita, Azerbaigian, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, India, Kazakistan, Marocco, Messico, Ruanda, Togo e Ungheria. “La NSO sostiene che il suo spyware venga usato solo per indagare legalmente su criminalità e terrorismo, ma è evidente che la sua tecnologia facilita sistematiche violazioni dei diritti umani. Afferma di agire legalmente, mentre in realtà fa profitti attraverso tali violazioni”, spiega Agnés Callamard, segretaria generale di Amnesty. I fatti parlano chiaro. Pegasus quando s’installa subdolamente sul telefono della vittima consente di accedere ai messaggi, ai contenuti media, alle mail, al microfono, alla telecamera, alle chiamate e ai contatti. L’ideale contro gli oppositori e gli attivisti dei diritti umani. Armi, boom nell’anno del Covid: in Italia licenze cresciute del 10% di Stefano Iannaccone Il Fatto Quotidiano, 20 luglio 2021 “Più controlli sulla salute psicofisica di chi le detiene”. La pandemia non ha frenato la corsa alle armi. Anzi, nel 2020 c’è stata un’accelerazione sulle licenze per detenere pistole in casa, nonostante le chiusure del Covid-19. Insomma, tra una zona rossa e l’altra, decine di migliaia di italiani hanno avviato e chiuso la pratica per il porto d’armi, sfidando lo slalom degli uffici chiusi o comunque a mezzo servizio. I numeri ufficiali della Polizia di Stato, che Ilfattoquotidiano.it ha visionato, parlano di un milione e 286.247 licenze (incluse quelle per le guardie giurate, salite a 39.083 rispetto alle precedenti 27.809) con una crescita di quasi il 10% rispetto al 2019, anno in cui si era verificata una diminuzione complessiva. Ma il dato che balza all’occhio è l’aumento delle licenze per tiro sportivo, tornate sopra 580mila: sono precisamente 582.531 (dalle 548.470 del 2019), appena 3mila in meno in confronto al 2018, anno record per questo tipo di porto d’armi. Del resto la questione è legata alla sostanziale facilità con cui si ottiene una licenza. Bastano alcune visite mediche generali, senza alcun approfondimento, e il pagamento di marche da bollo, con istanza da presentare alla Questura. Di contro c’è una lieve flessione (-22.491) delle licenze per la caccia, ferme a 649.841. Una tendenza che conferma la “sostituzione” della licenza per uso sportivo a quelle della caccia, che peraltro è una tradizione in calo anche per ragioni anagrafiche. Restano sostanzialmente stabili, invece, quelle per difesa personale, poco sopra i 15mila. La ragione è semplice: è molto più difficile da ottenere, perché necessita di richiesta da inoltrate alla Prefettura. Eppure la questione attiene anche al campo della trasparenza. Si conosce il numero di licenze, ma non quello preciso delle armi: “I dati della Polizia di Stato non fotografano la situazione, perché non riportano il numero di licenze di nulla osta, un tipo di licenza che permette, al pari delle altre, di tenere armi in casa”, commenta Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza e difesa (Opal). “Inoltre - aggiunge Beretta - le cifre non specificano quante siano le effettive nuove licenze e quante invece siano attribuibili a un semplice cambio di tipologia di licenza, cosa che fanno spesso molti anziani detentori di licenza per uso caccia che la sostituiscono con quella per uso sportivo”. “Per questo - conclude Beretta - l’Opal insieme alla Rete pace e disarmo chiedono da anni che il Viminale pubblichi un rapporto annuale”. Lo scopo? Riportare “nel dettaglio i dati di tutte le licenze rilasciate, compresi i nulla osta in stato di validità, il numero di nuove licenze per le diverse tipologie, le licenze ritirate e quelle negate e, soprattutto il numero di armi regolarmente detenute dagli italiani (con una licenza si possono infatti detenere un ampio numero di armi) e il numero di omicidi, tentati omicidi e minacce commessi con armi da legali detentori di armi”. C’è da valutare un ulteriore aspetto, come osserva Gabriella Neri, della Onlus Ognivolta, fondata dopo l’omicidio del marito Luca Ceragioli e del suo collaboratore Jan Hilmer: “Una licenza di porto d’armi a uso sportivo in Italia viene rinnovata ogni 5 anni. Un intervallo infinitamente lungo, se pensiamo a quanti eventi possono accadere nella vita di una persona in un tale arco temporale. Quanti momenti di fragilità, di sconforto, senza pensare purtroppo ai frequenti disturbi psicofisici che possono colpire l’individuo?”. “E il Covid - aggiunge Neri - lo ha fatto capire bene. Un’arma in casa, per qualsiasi motivo ci sia entrata, è sempre una minaccia, per chi potrebbe usarla contro se stesso o contro altri. Sono tante, troppe le tragedie esplose a causa di armi nella maggior parte dei casi legalmente detenute”. Il problema dunque non è solo di durata del porto d’armi, ma c’è un risvolto sociale. E di impatto sulla vita delle persone. “Il tema è sempre quello di un popolo diventato schiavo di una paura. La sicurezza personale viene fatta coincidere con la sicurezza economica. Così un cittadino farà di tutto per difendere quello che ha in possesso”, afferma Luca Di Bartolomei, autore del saggio Dritto al cuore che racconta la volontà e i pericoli che si nascondono dietro il possesso di un’arma da fuoco. “Se poi una persona non ha tantissimo - prosegue - allora scatta una grande paura sociale, una voglia di rivalsa e quindi la possibilità di sfociare in violenza. Questa è una certezza diffusa e di cui va tenuto conto sotto l’aspetto politico”. La questione investe proprio le istituzioni, nella loro interezza, compreso il Parlamento che sembra muovere qualche passo. “L’aumento delle licenze di armi in un anno di chiusure lascia sorpresi e sgomenti. Anche perché gli esperti ci spiegano come spesso le pistole siano causa di tragedia domestiche, tra cui tanti femminicidi”, dice a Ilfattoquotidiano.it la deputata del Movimento 5 Stelle, Azzurra Cancelleri. “La nostra posizione - aggiunge - è storicamente contraria alla diffusione di armi, che diventano strumento di morte nell’illusione che possano essere un mezzo di difesa”. Tuttavia, sul piano dell’azione di controllo sulla diffusione delle armi non si vedono grossi passi in avanti. Spiega Gianluca Ferrara, vicepresidente del gruppo M5S al Senato: “Un anno fa ho presentato un ordine del giorno che impegnava il governo a creare un coordinamento tra le forze di polizia e le strutture sanitarie. L’obiettivo è quello di togliere le armi a persone che hanno sviluppato disturbi”. Lo sforzo ha prodotto risultati minimi. “Abbiamo iniziato un tavolo di lavoro con il ministero - prosegue Ferrara - ora bisogna velocizzare. Conto sull’ausilio del sottosegretario alla Salute, Pierpaolo Sileri, che dà pieno sostegno a questa iniziativa”. Le pressioni lobbistiche, in tal senso, spingono a dilatare i tempi di una soluzione, lasciando almeno le cose così come stanno. E dire che negli ultimi mesi ci sono state numerose vittime per armi detenute legalmente: i fatti di Ardea sono la punta di un iceberg. Tanto per citare qualche caso, ad aprile a Rivarolo Canavese, in provincia di Torino, un uomo di 83 anni ha ucciso moglie, figlio disabile e una coppia di vicini, prima di puntare il fucile contro se stesso. Un’ordinaria storia di strage regolarmente armata. Cannabis fuori della giungla. La fase due della legalizzazione negli Usa di Federico Varese La Repubblica, 20 luglio 2021 La legalizzazione della marijuana procede a ritmi incalzanti negli Usa: 37 Stati hanno legalizzato la cannabis terapeutica, mentre è possibile consumarla anche a scopo ricreativo in altri 19. Sembra che il Paese abbia raggiunto un punto di non ritorno. Ma dietro questa apparente marcia inarrestabile si nascondono misure confuse e contraddittorie, che mettono in pericolo la salute degli americani e ignorano l’ingiustizia sociale provocata dalla war on drugs inaugurata da Richard Nixon nel 1970. Ora una iniziativa legislativa del leader della maggioranza democratica al Senato, Chuck Schumer, promette di mettere ordine nella materia, ma si scontra con l’opposizione di molti rappresentati in entrambi i partiti e la freddezza del Presidente Biden. In “Il Punto critico”, un fortunato saggio del 2000 (Rizzoli), il giornalista scientifico Malcolm Gladwell mostrava come per alcuni fenomeni epocali il cambiamento è repentino, inarrestabile e non pianificato. Questo è avvenuto nel caso della legalizzazione della cannabis negli Usa. Nel 2012 il Colorado e Washington furono i primi due Stati a votare a favore della legalizzazione per uso ricreazionale. Oggi più di 146 milioni di americani vivono in territori dove il consumo è legale (45% della popolazione) e più del novanta per cento può farne uso per ragioni mediche. Quasi il settanta per cento degli intervistati è favorevole alla legalizzazione (nel 2004 era il 34%). Politici moderati e prima fermamente contrari si sono converti alla causa. Sono aumentati i prodotti a base di cannabis e c’è una borsa valori di aziende produttrici. Anche Amazon si è schierata per la legalizzazione e in diversi Stati vi sono compagnie che offrono la consegna a domicilio. La guerra alla cannabis sembra essere giunta al termine, come recita il sottotitolo dell’ultimo, documentato e molto utile saggio di Leonardo Fiorentini (L’onda verde. La fine della guerra alla droga, 2021). Eppure le trasformazioni sociali possono essere caotiche. Ad esempio, nel Distretto di Columbia la legge del 2014 permette il consumo ma non la vendita. Continua a essere illegale il possesso nelle zone della città di proprietà del governo federale. Bisogna stare attenti in quale lato del marciapiede si cammina, altrimenti si rischia l’arresto. Diversi negozi vendono cartoline e souvenir per centinaia di dollari, e “regalano” dosi di marijuana. La confusione regna sovrana anche nei dispensari di marijuana medica. Gli autori di una rassegna pubblicata di recente nell’International Review of Psychiatry scrivono: “I prodotti (medici) non sono standardizzati quanto a dosaggio, potenza e composizione chimica”. Lo status d’illegalità rende difficile condurre studi di natura causale su rischi e benefici del prodotto e d’identificare l’equilibrio giusto tra ingredienti e livello di tossicità. Nel frattempo, nel periodo 1995-2014 vi è stato un aumento medio di tre volte del contenuto del principio attivo Thc nei prodotti derivati dalla cannabis. Infine, mentre è legale produrre e vendere in molti Stati, rimane un reato federale depositare i proventi di quelle attività nelle banche, le quali sono regolate da una legge federale. Qualche giorno fa il leader della maggioranza democratica al Senato, Chuck Schumer, insieme a due colleghi, ha presentato una proposta di legge per riordinare l’intera materia. Se passasse, il consumo non sarebbe più un reato federale, verrebbero cancellate le condanne per reati non violenti e si avvierebbe un programma di studi medici e sociali sugli effetti, positivi e negativi, della cannabis. La legge prevede anche tasse federali per finanziare progetti di giustizia retributiva per le comunità che più hanno sofferto a causa del proibizionismo. “La guerra alla droga è stata una guerra alle persone, in particolare alle persone di colore” hanno dichiarato i tre senatori. Cadrebbe anche il divieto di depositare denaro frutto del commercio di cannabis nelle banche. Per ora la proposta non ha la maggioranza (servono almeno 10 repubblicani oltre a tutti 51 democratici) e il Presidente Biden rimane contrario. È nondimeno un tentativo meritorio per frenare una legalizzazione caotica e pericolosa. Speriamo che anche questa legge diventi presto un punto di non ritorno. Orbán non si è inventato nulla, risorge l’incubo di un’altra Europa di Roberta De Monticelli Il Domani, 20 luglio 2021 Perché la Dichiarazione per il futuro dell’Europa che il premier ungherese Viktor Orbán ha preso l’iniziativa di lanciare, e alla quale hanno aderito i leader dei partiti sovranisti italiani, ha suscitato così poco scalpore? Forse perché non tutti sanno, o ricordano, che c’era già un’idea di Europa tutta diversa da quella che l’Unione europea pur con tutti i suoi limiti incarna. L’altra idea di Europa era quella di un impero, erede di quelli antichi, con il suo cuore germanico: una sorta di faro e fortezza contro l’ondata bolscevica e l’internazionalismo comunista, certo, ma anche contro l’americanismo, i “valori materialisti”, il capitalismo finanziario internazionale dominato dai senza-radice. L’Europa sarebbe dovuta essere un bastione che resistesse all’urto della modernità, con i suoi “mediocri” ideali di libertà e benessere per tutti, la “chiacchiera” della sua stampa quotidiana, il disordine delle democrazie e il vero potere delle sue élites cosmopolitiche, l’universalismo mercatista con l’astratta filosofia dei diritti e la ragione “calcolante” delle sue istituzioni e burocrazie, il dominio della tecnica e del suo freddo linguaggio distruttivo delle comunità, delle identità, degli antichi legami, il disprezzo per le gerarchie naturali e sociali di potenza e virtù, la compressione dei valori vitali a vantaggio di un razionalismo soffocante, il perenne tarlo critico, il radicalismo, la distanza dal vero popolo dei suoi intellettuali. Un’altra Europa - A tutta questa sradicata e smemorata modernità si doveva opporre la sovranità dei veri individui storico-universali, coloro che interpretano lo spirito di un popolo, le sue tradizioni, la sua lingua, le sue viscere. C’erano una filosofia del diritto e un pensiero politico opposti a quelli che nell’ultimo mezzo secolo di storia hanno rielaborato, in Europa, l’intera tradizione illuministica, l’universalismo giuridico e quello etico, il pensiero politico delle tradizioni liberale, socialista, repubblicana, federalista e perfino comunitarista. Un pensiero che diceva - anzi gridava, e persuadeva la gente nelle piazze: basta con l’astratto imperio del diritto, basta con il governo della legge superiore a quello degli uomini, basta con il formalismo delle cieche regole - vero sovrano è chi decide negli stati d’eccezione, e rinnova la forza della nazione, e incarna, con il destino del suo popolo, il destino di questa Europa. Un’idea che sopravvive - A quella idea Orbán e i suoi seguaci romani stanno tornando, anche se tanto ci era costato sconfiggerla, perfino in noi stessi - e non fu sufficiente una guerra mondiale. Ci volle il kairós storico che combinò le linee di forza della situazione geopolitica di allora col pensiero di alcuni visionari, e questa combinazione unica produsse il seme da cui sarebbe nata l’Unione Europea, quella che oggi così chiamiamo. Ma l’altra idea d’Europa non finì certamente a processo, a Norimberga o a Gerusalemme, come ci finirono alcuni fra gli uomini che avevano provato a realizzarne gli aspetti più sanguinari. Anzi in un certo senso, per vie inaspettate, una forte componente dell’altra idea di Europa vinse nelle università e nelle scuole del continente la battaglia che aveva perduto sul terreno delle armi, ma soprattutto su quello dell’esperienza morale di milioni di persone. Successe qualcosa di simile a quello che era accaduto al pensiero greco nel mondo seguìto alla vittoria romana, ma a parti rovesciate: il pensiero peggiore si apriva nelle menti il varco che i vincitori avevano sbarrato al governo degli uomini e delle cose. L’altra idea d’Europa non si limitò affatto a sopravvivere in silenzio. Rimasero ben più che le sue tracce: l’ossatura stessa di quel pensiero pervade opere del Novecento che ancora oggi si studiano con passione. E non semplicemente perché studiare è sempre giusto e indispensabile, ma per trarne insegnamenti contro obiettivi polemici dalla strana, inquietante assonanza con quelli di allora. La finanza internazionale. Le élites cosmopolitiche. L’universalismo mercatista e l’astratta filosofia dei diritti. La ragione “calcolante”, il dominio della tecnica. Il radicalismo critico e sradicante degli intellettuali, il loro moralismo. Con un più di metafisica complottista: la “macchinazione universale” (effetto di tutte quelle perfide potenze della modernità sradicante), il suo esito smemorante rispetto a ciò che eravamo autenticamente (l’oblio dell’essere). Sono “classici” come Martin Heidegger o Carl Schmitt, il primo dei quali ha sostanzialmente, per tutta la seconda metà del secolo scorso, costituito il secondo pilastro del canone della filosofia detta “continentale” nell’insegnamento europeo, scolastico e universitario. L’altro pilastro essendo la tradizione storicistica hegeliana e post (marxismi compresi). Con la sua mitologia radicalmente anti-illuministica della storia, per la quale - qualcuno forse ricorda ancora la Dialettica dell’Illuminismo di Adorno-Horkheimer (1947) - l’Illuminismo, appunto, “conduce ai campi di sterminio”. Diritto alla cittadinanza - Non sono, il pilastro heideggeriano e quello hegeliano e post, i soli: ma certo sono stati determinanti per il canone di insegnamento di molte generazioni. Quello stesso insegnamento che così raramente, per non dire mai, trasmette la conoscenza precisa dell’idea di Europa che invece sta a fondamento dell’Unione Europea. Ma quale sia la straordinaria audacia e novità di quest’idea in duemila anni di filosofia politica, quali radici di esperienza morale e di pensiero filosofico la nutrano, quali siano le questioni ancora aperte, quali i punti critici, quali gli aspetti da rivedere: su tutto questo l’insegnamento medio e universitario con poche eccezioni, ma anche il dibattito pubblico italiano non ha che una parola: ignorabimus. Parliamo fin troppo di valori “europei” - dimenticando che la Carta dei diritti dell’Unione europea fa riferimento al pensiero universalistico dei diritti umani incarnato nella Dichiarazione del 1948. Ma anche che per molti aspetti l’approfondisce, integra e rinnova. Sono precisamente quegli aspetti che chiamano i cittadini europei come tali a esistere ed esprimersi, come fonti principali di una “sovranità” democratica che è sovraordinata, e non subordinata a quella delle rispettive nazioni. Fra i sei valori che aprono la Carta dei diritti, spicca quello di Cittadinanza: si intende, l’esercizio della propria capacità di contribuire alle decisioni e alle norme che riguardano tutti. Paradossalmente, proprio i sovranisti che cercano di creare un movimento politico sovranazionale interpretano questo valore meglio di chi ignora altre questioni che quelle della politica spicciola del suo paese. Ma i sovranisti lo interpretano anche in direzione contraria a quella degli altri cinque valori. La dignità dell’individuo a prescindere dalla sua identità personale, culturale, etnica e di genere. La libertà e l’eguaglianza (nell’essere essere come si è, ed essere protetti nelle proprie legittime aspirazioni). La solidarietà che deve ispirare norme capaci di promuoverla per tutti, questa eguale libertà, e non di coartarla per alcuni. La giustizia, che tutte queste condizioni riassume. Che risposta stanno dando gli altri cittadini, e i partiti che li rappresentano, a una Dichiarazione per cui “la sovranità in Europa è e deve rimanere in capo alle nazioni europee”, che chiama “strumento di forze radicali” al servizio di un “Super-stato europeo” quel po’ di esistente struttura istituzionale di una Federazione, senza la quale la solidarietà fiscale degli Eurobond (fra l’altro) non ce la potremmo sognare? È “iperattivismo moralista” il nostro? È in corso, appunto, una Conferenza sul futuro dell’Europa, che è una grande opportunità di esercizio di cittadinanza, aperta a ciascuno e naturalmente ai partiti: qualcuno se ne è accorto, oltre ai sovranisti? Ma allora, basta invocare l’atlantismo per rispondere a Orbán (come fa Emanuele Felice su Domani del 10 luglio)? Non sarà certo la geopolitica atlantica, soprattutto ai confini orientali dell’Europa, a curare il male che Orbán rievoca: l’esperienza di un altro “Super-stato”, quello sovietico. La cognizione del dolore dei suoi popoli d’Europa ha radici diverse. Riconoscere questa nostra memoria plurale e dolente è parte essenziale di una buona idea di Europa. Siria. Nove anni fa la rivoluzione dei curdi nel nord-est di Davide Grasso Il Fatto Quotidiano, 20 luglio 2021 Perché serve un riconoscimento internazionale. Oggi ricorre l’anniversario dell’insurrezione popolare curda in Siria del luglio 2012 che, protetta dalle appena formate Unità di protezione del popolo (Ypg), da Afrin a Kobane e Derik iniziò un percorso rivoluzionario nella Siria in guerra. Migliaia di comuni e consigli popolari furono affiancati da un governo provvisorio nel 2013, dichiarati parte di un’Autonomia democratica regolata da un contratto sociale nel 2014, quando le Ypg intervennero insieme al Pkk in soccorso degli ezidi iracheni sterminati dall’Isis. Anche per questo furono attaccate dai jihadisti a Kobane poche settimane dopo, con malcelata soddisfazione del governo turco. La vittoria e il contrattacco contro l’Isis portarono alla liberazione di territori a maggioranza araba e all’alleanza con battaglioni popolari arabi e assiri che avrebbe preso il nome di Forze siriane democratiche. Essa stabilì una cooperazione militare con la Russia ad Afrin e con la coalizione anti-Isis a guida Usa nell’est. Il Rojava non più soltanto curdo si trasformò nel 2016 in Federazione democratica della Siria del nord promulgando un nuovo e più radicale contratto sociale, animato dall’adozione di tutte le convenzioni internazionali sui Diritti umani, dalla regolazione dell’iniziativa privata, dall’equa rappresentanza delle comunità linguistiche, dei giovani e delle donne nelle istituzioni civili, economiche e militari, dal principio del rispetto dell’equilibrio ecologico tra società e ambiente. La guerra contro l’Isis procedette sottraendo in quei mesi ai jihadisti la strategica città di Manbij, in parallelo con la creazione di organi politici ed economici liberi ed egualitari sotto la guida del movimento confederalista e del congresso delle donne Kongra Star. Dopo la liberazione di Raqqa nel 2017 la Russia aprì però la strada all’invasione turca di Afrin. Dopo la distruzione delle ultime sacche di resistenza di Daesh nel 2019 a Deir el-Zor - e la creazione dell’Amministrazione autonoma del nord-est, sancita da un nuovo Documento d’intesa con le comunità locali - gli Usa fecero spazio ai carri armati turchi a Tell Abyad e Serekaniye. Da allora l’Aanes è il più grande autogoverno al mondo animato da un rifiuto della cultura capitalista, bigotta e nazionalista che imperversa in Siria e nel pianeta. Forse per questo, nonostante il ruolo regionale svolto e le sue implicazioni globali, nonostante le vittorie al prezzo di decine di migliaia di cadute e caduti in battaglia, non è mai stata riconosciuta dallo stato siriano, da altri stati (compresi quelli con cui coopera militarmente) o da organizzazioni internazionali, Onu compresa. Una piccola rivoluzione militarmente occupata, zeppa di profughi interni e rifugio per molti profughi dall’esterno, sotto embargo economico turco-iracheno dal 2015, affronta da oltre un anno l’emergenza Covid senza che l’Onu o lo stato siriano offrano le risorse minime per il tracciamento, per le cure e per la campagna di vaccinazione. Su pressione della Russia dal luglio 2020 è chiuso l’unico passaggio di frontiera per aiuti umanitari verso l’Aanes, Al-Yarubiya. Oggi, a nove anni dall’inizio di quella rivoluzione politica, sociale e di genere, mentre viene lentamente strangolata dallo Stato siriano e dalle potenze regionali e globali, dobbiamo chiedere con forza che ciò che è stato creato nei fatti venga riconosciuto e che anche a una popolazione che tenta di resistere fuori dalle logiche di guerra e di odio siano concessi cibo, cure, assistenza umanitaria e vaccini. Non si evita il baratro politico e morale su cui sembra affacciarsi il pianeta senza assegnare dignità e valore agli sforzi di chi ha iniziato, pur nel peggiore contesto al mondo, a cambiare le logiche di fondo di una società che nessuna catastrofe sembra distrarre dall’imperativo assoluto della concorrenza e della competizione. Egitto. Dopo le torture, sei prigionieri politici di al-Sisi tornano liberi di Pino Dragoni Il Manifesto, 20 luglio 2021 Sono tutti nomi di spicco dell’opposizione interna, in carcere da due anni senza processo. Nel fine settimana il regime egiziano ha inaspettatamente liberato sei prigionieri politici di spicco. Si tratta dell’avvocatessa per i diriti umani Mahienour el-Massry, dei giornalisti Mostafa al-Asar, Moataz Wadnan, Esraa Abdel Fattah, Gamal al-Gammal, e del dirigente del partito Alleanza popolare socialista Abdel Nasser Ismail, tutti sottoposti a detenzione preventiva da quasi due anni in attesa di processo. Le notizie hanno rimbalzato per ore, poi finalmente la conferma, mentre sui social network una dopo l’altra iniziavano a circolare le foto degli attivisti rilasciati, i volti stremati e pallidi, ma finalmente sorridenti, tra l’abbraccio dei propri cari e le telefonate degli amici che li chiamavano per congratularsi. Quasi tutti erano finiti dietro le sbarre nell’autunno del 2019, nell’ambito della più vasta campagna di arresti messa in atto dal regime di Abdel Fattah al-Sisi, in seguito alle rare proteste di piazza che a settembre avevano attraversato diverse città del paese. Pur essendo state in gran parte manifestazioni spontanee, il governo aveva immediatamente stretto la morsa intorno ai pochi militanti ancora a piede libero, per evitare che il malcontento sociale potesse saldarsi a una leadership politica. Mahienour el-Massry, l’instancabile militante vicina ai movimenti dei lavoratori egiziani, era stata arrestata davanti alla procura della Sicurezza di stato, proprio mentre tentava di fornire assistenza legale ad alcune delle migliaia di persone arrestate in quei giorni. Esraa Abdel Fattah, co-fondatrice del movimento 6 Aprile e figura di spicco della rivolta popolare del 2011, era stata prelevata dalla propria auto e condotta in una località sconosciuta, per poi essere sottoposta a pestaggi e torture prima di finire in carcere. Insieme a Mahienour, pochi mesi fa aveva denunciato in tribunale i maltrattamenti disumani a cui erano sottoposte loro e le altre detenute nel carcere di Qanater, tra cui la privazione degli oggetti personali, delle coperte, dei materassi e la negazione delle visite da parte dei parenti. Il continuo rinvio della carcerazione preventiva, attraverso udienze farsa prima ogni 15 giorni poi ogni 45 giorni, è una pratica comune della magistratura egiziana nei confronti di attivisti e giornalisti, che intrappola i detenuti in un limbo senza fine, anche se la legge prevede che i rinnovi possano estendersi fino a un massimo di due anni. Proprio per contestare il prolungamento arbitrario della sua detenzione, in violazione persino delle draconiane leggi egiziane, il 10 luglio il militante e giornalista socialista Hesham Fouad ha dichiarato l’inizio dello sciopero della fame in carcere, chiedendo ai solidali in tutto il mondo di sostenere la sua lotta. Il suo gesto di protesta va ad aggiungersi a quello dello studente universitario Ahmed Samir Santawy, arrestato a dicembre al suo rientro da Vienna, ed entrato in sciopero della fame oltre tre settimane fa dopo l’assurda condanna a quattro anni per aver “pubblicato notizie false”, similmente a quanto accaduto a Patrick George Zaki, studente all’università di Bologna. Alla protesta dei detenuti si sono unite numerose figure di spicco della società civile egiziana, che hanno proclamato scioperi della fame in segno di solidarietà con tutti i detenuti. Tra questi il giornalista Karem Yehia, che per due giorni ha presidiato la sede del sindacato dei giornalisti chiedendo il rilascio di tutti i colleghi in carcere (27, secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti). Negli ultimi giorni la grave situazione dei diritti umani in Egitto è finita nell’occhio del ciclone grazie anche alla condanna espressa dal portavoce del dipartimento di Stato Usa Ned Price, in seguito al rinvio a giudizio di Hossam Bahgat, direttore dell’Egyptian initiative for personal rights (Eipr), rinviato a giudizio per accuse legate all’uso dei social media. “Gli Stati uniti sono preoccupati dalle continue detenzioni, condanne e persecuzioni nei confronti di leader della società civile, accademici e giornalisti egiziani”, ha dichiarato Price. Le recenti scarcerazioni sembrano un segnale positivo, ma il quadro generale resta drammatico. Domenica c’è stato un altro arresto eccellente: l’ex direttore del quotidiano governativo Al Ahram, Abdel Nasser Salama, è finito in manette dopo aver scritto un articolo in cui chiedeva le dimissioni di al-Sisi. La scorsa settimana un detenuto è morto nel carcere di Tora, dopo che per 5 ore i compagni di cella avevano invocato invano soccorsi. Solo nell’ultimo mese un nuovo processo è appena cominciato contro sei attivisti laici, colpevoli di aver tentato la costruzione di una coalizione elettorale democratica, mentre 10 leader della Fratellanza musulmana sono stati condannati all’ergastolo e altri 12 stanno per essere consegnati al boia.