Lo Stato in ginocchio di Ezio Mauro La Repubblica, 1 luglio 2021 Il pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ma lo Stato dov’era? Mancava del tutto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, durante il pestaggio organizzato il 6 aprile dello scorso anno dagli agenti di polizia penitenziaria nei confronti dei detenuti che il giorno prima avevano organizzato una protesta per chiedere mascherine e tamponi dopo la comparsa del virus Covid nel penitenziario. Mancava la fedeltà alla Costituzione, che prescrive il senso di umanità nel trattamento dei prigionieri, l’ubbidienza alle leggi che regolano i diritti di ognuno, l’osservanza dei regolamenti che governano una comunità anomala e complessa come il carcere: e infine il rispetto per la democrazia e i suoi principi, e la coscienza della civiltà in cui viviamo, che è la cornice d’obbligo dentro la quale lo Stato opera a tutela del bene comune. Incredibilmente tutto questo è stato sospeso, come se fosse un optional e non un dovere, il sistema di garanzie che i cittadini si scambiano continuamente nella loro vita associata è saltato, le stellette sulle divise degli agenti penitenziari da simbolo di servizio dell’ordine repubblicano sono state stravolte nel lasciapassare per l’abuso, l’arbitrio e la violenza di gruppo. Ecco dov’era purtroppo lo Stato: una forza di polizia nata per tutelare l’ordinamento democratico nella libertà e nella dignità del cittadino, anche se in arresto, si trasforma in un corpo separato di picchiatori che si scatena a colpire, torturare, manganellare e umiliare i detenuti, in “un’orribile mattanza indegna di un Paese civile”, come scrive il Gip ordinando un anno dopo 52 misure cautelari, con 110 indagati. Protervia, indifferenza, imperizia o senso di onnipotenza hanno permesso al raid punitivo annunciato nelle chat degli agenti (“li abbattiamo come vitelli”, “domani chiave e piccone in mano”) di svolgersi sotto l’occhio delle telecamere di sorveglianza, che hanno documentato tutto. Dalle immagini, divulgate da Domani, emerge il quadro miserabile di un gruppo armato di scudi, caschi e manganelli che si scaglia contro uomini inermi, una folla di divise che circonda ogni volta un individuo isolato e lo getta a terra con calci, pugni, bastonate, ginocchiate nelle parti intime. Non solo i carcerati (sempre soli davanti all’attacco congiunto dei loro custodi) non possono in alcun modo proteggersi. Ma il pestaggio non ha nessun fine che lo spieghi, sia pure senza poterlo giustificare: non si tratta di sedare una rivolta, o di spingere in cella detenuti renitenti che non vogliono rientrare. Nei video ci sono i poliziotti disposti su due file, come doveva succedere per lo spettacolo dei gladiatori, e i prigionieri sono costretti a passare ad uno ad uno dentro questo corridoio umano tenendo le mani dietro la testa, mentre le guardie li colpiscono, li atterrano e non smettono, ma li prendono a calci, infieriscono col manganello. In piena Europa, nel cuore della civiltà occidentale, la civiltà italiana del 2021 espone così le immagini di uomini rannicchiati sul pavimento che si coprono la testa con le mani per ripararsi, giovani in ginocchio costretti a strisciare da una parte all’altra dello stanzone, persone con le ginocchia piegate contro il muro, il capo affondato tra le spalle sperando di evitare altri colpi, la disperazione di chi è totalmente esposto a una furia inconcepibile, fuori da tutte le regole, da ogni comprensione, da qualsiasi equilibrio. In questo modo la violenza diventa esemplare, spiega se stessa mentre si compie esaltandosi, non cerca nemmeno una proporzione, per quanto pretestuosa, o una spiegazione. Colpisce infatti, di fronte alla brutalità del sopruso e alla disumanità della ferocia, che nessuno degli agenti abbia avuto un moto di repulsione, un soprassalto di consapevolezza, un ritorno di coscienza del limite chiedendo di smetterla, di pensare alle conseguenze, di arrestare la vigliaccheria di una forza collettiva che abusava di sé, contro uomini isolati e soli. Evidentemente bisogna pensare che la sopraffazione è stata possibile proprio perché una mentalità comune la incoraggia, la introietta e la autorizza, in una sorta di controcultura antidemocratica della forza che crede di potersi testare liberamente nello spazio non solo chiuso, ma alieno, del carcere. La forza legittima si perverte in vessazione e oltraggio, possibili perché dall’altra parte ci sono dei detenuti cioè dei devianti, cittadini di serie B, ai margini della considerazione pubblica e fuori dal perimetro dell’attenzione sociale. Bisogna ricordare che tutto questo avviene dopo il caso Cucchi, risolto con una giustizia tardiva solo grazie all’ostinazione della sorella della vittima, perché l’assassinio aveva potuto contare per nove lunghi anni su una copertura istituzionalizzata, in un occultamento che si confermava risalendo il percorso gerarchico, via via rafforzandosi. Lo scandalo di quella vicenda non ha dunque insegnato nulla. E allora dobbiamo chiederci che idea di Stato, che concetto di democrazia trasmettiamo ai giovani agenti che entrano nelle nostre polizie: per capire dove nasce e come cresce quel malinteso spirito di Corpo capace di coalizzare pulsioni, pratiche e volontà in un accanimento contro gli esclusi e i marginali, trovando un’eco nel senso comune istintuale del Paese, e una tutela nell’impunità costante della storia italiana. È per questo che chi ha il dovere di guida e di indirizzo, nel governo come nelle polizie e nelle carceri, nei partiti, deve sentire la gravità di quando accaduto, senza derubricarlo a incidente: lo negano la natura della vicenda, la sua portata e la qualità. Anzi, nel vuoto della politica questa autonomia separata e isolata della forza è invece un cieco e inconsapevole gesto politico, in cui si condensa e si specchia l’insofferenza diffusa per il diverso, il deviante, il portatore di colpa. Insieme con uno spirito del comando sbrigativo e meccanico, libero dai freni delle regole, e con un nuovo concetto di autorità che si crea nei fatti, modellato dalle emergenze e non dalla faticosa consuetudine democratica. Così a Santa Maria Capua Vetere si smarriscono il sentimento dello Stato e la coscienza della responsabilità generale di ognuno nei confronti della legge, degli altri e della democrazia, sottoposta a pestaggio. Santa Maria Capua Vetere, il Pd invoca Cartabia: “La ministra riferisca in aula sulle violenze” di Alessio Ribaudo Corriere della Sera, 1 luglio 2021 I Dem chiedono alla ministra della Giustizia un confronto in Parlamento sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Intanto il ministero ha sospeso i 52 agenti sotto indagine da parte della procura casertana. Scontro Pd-Lega sulle parole di Matteo Salvini. Amnesty: “Applicare il reato di tortura”. Le intollerabili violenze subite da alcuni detenuti del carcere di Santa Maria Capua da parte di agenti della Polizia Penitenziaria arriveranno presto in Parlamento. Il Partito democratico ha chiesto alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, di riferire in aula sugli “abusi intollerabili”. “Sono violenze inaccettabili e vergognose in un Paese civile - ha spiegato Piero De Luca, vicepresidente Pd alla Camera - e il nostro gruppo chiede che la ministra Cartabia riferisca in Parlamento su quanto accaduto”. Le immagini dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, diffuse dal quotidiano Domani, per il segretario Dem, Enrico Letta, sono “così intollerabili che non possono avere cittadinanza nel nostro Paese, maggior ragione gravi perché ascrivibili a chi deve servire lo Stato con lealtà e onore”. Per Matteo Salvini, leader della Lega, “chi sbaglia paga soprattutto se indossa una divisa però non si possono coinvolgere tutti i 40mila donne e uomini di polizia penitenziaria e non si possono sbattere in prima pagina con nomi e cognomi, serve rispetto per uomini in divisa che ci proteggono in strada, i singoli errori vanno puniti, conosco quei padri di famiglia sotto accusa e sono convinto che non avrebbero fatto nulla di male”. Salvini aggiunge: “giovedì sarò a Santa Maria Capua Vetere per portare la mia solidarietà agli agenti della penitenziaria, la Lega sarà sempre dalla parte delle forze dell’Ordine”. Parole che hanno fatto divampare le polemiche. La presidente dei senatori del Pd, Simona Malpezzi, sui social parlato di “grave ambiguità e strumentalizzazione di Salvini”. Anche il senatore Franco Mirabelli, componente Pd della commissione nazionale antimafia, dice: “Salvini continua con la propaganda, il tema per noi non è schierarsi pro o contro la polizia penitenziaria, ma sapere che per difendere un corpo importante dello Stato bisogna punire chi si è macchiato di reati ed abusi proprio per difendere la credibilità di tutti gli altri. Essere ambigui come fa Salvini non aiuta: noi stiamo con chi in carcere fa un lavoro difficile e contro chi, coi propri comportamenti, rischia di screditare quell’impegno quotidiano”. Intanto oggi c’è stata una riunione straordinaria al ministero della Giustizia sulla situazione nelle carceri e proprio la ministra, Marta Cartabia, ha convocato il capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap), Bernardo Petralia; il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma e il sottosegretario Francesco Paolo Sisto. Per la ministra si è trattato di “un’offesa e un oltraggio alla dignità della persona dei detenuti e anche a quella divisa che ogni donna e ogni uomo della polizia penitenziaria deve portare con onore, per il difficile, fondamentale e delicato compito che è chiamato a svolgere”. Poi aggiunge: “è un tradimento della Costituzione: l’art.27 esplicitamente richiama il “senso di umanità”, che deve connotare ogni momento di vita in ogni istituto penitenziario e si tratta di un tradimento anche dell’alta funzione assegnata al corpo di polizia penitenziaria, sempre in prima fila nella fondamentale missione, svolta ogni giorno con dedizione da migliaia di agenti, di contribuire alla rieducazione del condannato”. In particolare, la ministra ha chiesto approfondimenti sull’intera catena di informazioni e responsabilità, a tutti i livelli. “Di fronte a fatti di una tale gravità non basta una condanna a parole. Occorre attivarsi - spiega la Guardasigilli - per comprenderne e rimuoverne le cause e perché fatti così non si ripetano. Ho chiesto un rapporto completo su ogni passaggio di informazione e sull’intera catena di responsabilità. Vicenda che ci auguriamo isolata e richiede una verifica a più ampio raggio, in sinergia con il capo del Dap, con il Garante nazionale delle persone private della libertà e con tutte le articolazioni istituzionali, specie dopo quest’ultimo difficilissimo anno, vissuto negli istituti penitenziari con un altissimo livello di tensione. Oltre quegli alti muri di cinta delle carceri - conclude la Ministra Cartabia - c’è un pezzo della nostra Repubblica, dove la persona è persona, e dove i diritti costituzionali non possono essere calpestati. E questo a tutela anche delle donne e degli uomini della Polizia penitenziaria, che sono i primi ad essere sconcertati dai fatti accaduti”. Inoltre sono state disposte le sospensioni di tutti i 52 indagati raggiunti da misure di vario tipo. Il Dap sta valutando ulteriori provvedimenti anche nei confronti di altri indagati, non destinatari di provvedimenti cautelari, e ha disposto un’ispezione straordinaria nell’Istituto del casertano, confidando nel pronto nulla osta da parte della magistratura. La Garante - Oggi però a puntare l’indice sulle condizioni del carcere di Santa Maria Capua Vetere Emanuela Belcuore, garante dei detenuti della provincia di Caserta: “Molti detenuti mi hanno segnalato che ieri un black out del carcere gli ha impedito di guardare la televisione e i giornali, regolarmente pagati, non sarebbero stati distribuiti, nessuna insinuazione, ma ora i detenuti neanche più informazione devono avere?”. La Garante va oltre. “Occorre già far fronte alla carenza d’acqua e alla presenza di insetti di ogni tipo vista la vicinissima discarica a cielo aperto - prosegue - ma temo che ci saranno anche meno agenti viste le misure cautelari. Sono vicina a coloro che ogni giorno indossano la divisa e svolgono il proprio lavoro ma le mele marce vanno tolte dal cestino. Dai video si notano pestaggi anche ai danni di una persona su sedia a rotelle. E questo sarebbe riportare l’ordine?”. Le toghe - Non ci stanno neanche alcune correnti delle toghe italiane. Magistratura democratica sottolinea come “a luglio 2021 saranno venti gli anni trascorsi dai fatti del G8 di Genova e Nomi come Diaz e Bolzaneto evocano quella “eclisse della democrazia” sulla quale ancora dobbiamo riflettere”. “Nell’anniversario di quel dramma, le immagini dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e le parole del comunicato stampa della procura della Repubblica di quella città dimostrano che abbiamo ancora davanti, e non alle spalle, i problemi della tortura, dell’uso eccessivo della forza - proseguono da Md - da parte chi detiene il monopolio della violenza, dei modelli organizzativi delle agenzie di polizia, dei depistaggi e delle coperture istituzionali, delle reticenze ascrivibili allo spirito di corpo, delle impunità, delle difficoltà a svolgere inchieste effettive sugli abusi”. Le toghe di sinistra sono dure. “Assistiamo profondamente feriti al ripetersi di dinamiche già conosciute anche in sede giudiziaria: pianificazione delle aggressioni, modalità dei pestaggi (dal “corridoio umano” ai colpi alle dita della mano), coperture, percezione di impunità, riduzione della persona detenuta a oggetto nelle mani del potere dei custodi - affermano ancora - anche a fronte dell’evidenza delle immagini non faremo l’errore di dare per accertata la responsabilità degli indagati. Dinamica dei fatti e responsabilità individuali sono rimesse all’accertamento dell’autorità giudiziaria. E, tuttavia, avvertiamo questa vicenda come l’ennesimo tradimento della democrazia. Magistratura democratica continuerà a porre il tema della violenza di polizia al centro della sua riflessione, nella convinzione che prevenzione e repressione degli abusi di polizia nell’uso della forza non passano soltanto attraverso le doverose sospensioni e rimozioni delle c.d. mele marce, dei singoli che eccedono, ma attraverso un serio ripensamento dei modelli organizzativi delle agenzie di polizia - a partire dall’adozione dei codici identificativi - e del concetto di ordine pubblico che siamo tutti chiamati a costruire a livello culturale, politico, simbolico”. Sempre fra le correnti della magistratura ha preso posizione anche il coordinamento di Area: “Quando la libertà, la sicurezza, la salute e la vita stessa delle persone viene affidata allo Stato a causa della detenzione non è in alcun modo accettabile che anche soltanto una delle persone che in quel frangente lo Stato rappresenta possa così gravemente violare il patto di fiducia con la comunità che gli ha affidato questa grande responsabilità”. “Senza mettere in discussione la professionalità del corpo di Polizia Penitenziaria al di là delle condotte di singoli suoi appartenenti, seppur in numero consistente, e senza anticipare giudizi di responsabilità che spettano esclusivamente agli organi giudiziari investiti dalla vicenda, è necessario in questo momento sottolineare - sostengono le toghe progressiste - l’offesa alla democrazia ed alla libertà documentato da queste immagini e sollecitare una profonda riflessione sui temi che vengono chiamati in causa affinché simili situazioni, purtroppo già avvenute in questo Paese, non debbano più ripetersi”. Le associazioni - Per il presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo si è trattato di “un pestaggio squadristico” mentre per Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia “come 20 anni fa a Bolzaneto, funzionari dello stato hanno infierito su persone in loro custodia immaginando che quei fatti non sarebbero diventati pubblici o comunque confidando nell’impunità ma a differenza del 2001, ora la parola “tortura” nel codice penale esiste e chiediamo che la legge adottata tardivamente nel 2017 sia ora applicata”. Cartabia: “Tradita la Costituzione. Offesa e oltraggio alla persona e alla divisa” di Liana Milella La Repubblica, 1 luglio 2021 “Ferma condanna delle violenze e umiliazioni inflitte ai detenuti”. La ministra chiede un rapporto su come possano essere accaduti i fatti contestati dalla procura nel carcere campano. Si procederà tempestivamente anche al ripristino dell’intera rete di videosorveglianza attiva negli istituti. “La più ferma condanna per la violenza e le umiliazioni inflitte ai detenuti, che non possono trovare né giustificazioni né scusanti”. È nettissima la reazione della Guardasigilli Marta Cartabia sulle violenze inaccettabili compiute dagli agenti penitenziari nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile dell’anno scorso. Cartabia annuncia anche una nutrita serie di provvedimenti per evitare che fatti simili possano accadere ancora. La ministra ha convocato stamattina già alle 9 il capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Dino Petralia, e il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma. Presenti anche il sottosegretario Francesco Paolo Sisto, mentre la sottosegretaria Anna Macina è stata aggiornata telefonicamente. La reazione di tutti i presenti è stata unanime: “Condanna per le violenze e le umiliazioni inflitte ai detenuti che non possono trovare né giustificazioni né scusanti”. “Un’offesa e un oltraggio alla dignità della persona dei detenuti e anche a quella divisa che ogni donna e ogni uomo della polizia penitenziaria deve portare con onore, per il difficile, fondamentale e delicato compito che è chiamato a svolgere”. Reagisce così Marta Cartabia davanti ai video. E parla di “un tradimento della Costituzione: perché l’articolo 27 esplicitamente richiama il senso di umanità, che deve connotare ogni momento di vita in ogni istituto penitenziario. Si tratta di un tradimento anche dell’alta funzione assegnata al corpo di polizia penitenziaria, sempre in prima fila nella fondamentale missione, svolta ogni giorno con dedizione da migliaia di agenti, di contribuire alla rieducazione del condannato”. Ma Cartabia va oltre. Perché “di fronte a fatti di una tale gravità non basta una condanna a parole, ma occorre attivarsi per comprenderne e rimuoverne le cause. E o occorre attivarsi perché fatti così non si ripetano”. La ministra spiega di aver chiesto “un rapporto completo su ogni passaggio di informazione e sull’intera catena di responsabilità, che ci auguriamo sia isolata” e di aver chiesto “una verifica a più ampio raggio, in sinergia con il capo del Dap, con il Garante Palma e con tutte le articolazioni istituzionali, specie dopo quest’ultimo difficilissimo anno, vissuto negli istituti penitenziari con un altissimo livello di tensione”. E Cartabia parla ancora di Costituzione: “Oltre quegli alti muri di cinta delle carceri c’è un pezzo della nostra Repubblica, dove la persona è persona, e dove i diritti costituzionali non possono essere calpestati. E questo a tutela anche delle donne e degli uomini della polizia penitenziaria, che sono i primi a essere sconcertati dai fatti accaduti”. Il vertice in via Arenula con Petralia e Palma - Per un’intera mattinata, ma già nelle ultime 48 ore, da quando è stata emessa l’ordinanza della procura di Santa Maria, Cartabia è stata in strettissimo e continuo contatto con i vertici del Dap, con Petralia e con il suo vice Roberto Tartaglia. Ed è con loro che, anche stamattina, Cartabia ha ricostruito il dossier sul carcere campano. E mentre dalle forze politiche - Letta del Pd “abusi intollerabili”, Fratoianni di Sinistra italiana “spedizione punitiva da parte di uomini in divisa”, Costa di Azione “quadro sconcertante” - giunge a Cartabia l’invito a riferire immediatamente in Parlamento sui fatti avvenuti in quel carcere dove i detenuti sono stati sottoposti a ripetute violenze, che, come dimostrano i contatti via chat, erano state pianificate nelle ore precedenti, la Guardasigilli prende una posizione netta. Ha chiesto approfondimenti sull’intera catena di informazioni e responsabilità, a tutti i livelli, che hanno consentito quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, oltre a un rapporto a più ampio raggio anche su altri istituti. Ma la ministra ha mosso anche altri passi. Una volta ottenuta in via formale, solo stamattina, dai magistrati di Santa Maria l’ordinanza di custodia cautelare con la relativa documentazione, Cartabia ha disposto le immediate sospensioni di tutti i 52 agenti indagati e raggiunti da misure di vario tipo. Ma il Dap sta valutando anche ulteriori provvedimenti nei confronti di altri indagati che non sono stati oggetto di iniziative cautelari. Partirà anche un’ispezione straordinaria nel carcere dopo aver ottenuto il nulla osta della magistratura. Hanno avuto un peso importante le parole del Garante Palma che parla di “deriva culturale che tali immagini evidenziano”. Ma i fatti gravissimi avvenuti a Santa Maria hanno spinto il Dap a procedere tempestivamente anche al ripristino dell’intera rete di videosorveglianza attiva negli istituti. Verrà rafforzata l’attività di formazione, già in corso, di tutto il personale, anche in via obbligatoria. L’obiettivo è evitare che fatti analoghi possano ripetersi, anche per tutelare la funzione e l’immagine della stessa polizia penitenziaria che evidentemente esce gravemente danneggiata dalle immagini di Santa Maria che fanno rivivere l’incubo di quelle di vent’anni fa a Bolzaneto che hanno compromesso l’immagine dell’Italia nel mondo. Rita Bernardini: “Qualcuno in alto ha autorizzato quelle violenze” di Concetto Vecchio La Repubblica, 1 luglio 2021 L’esponente radicale accusa il Dap. “A Salvini consiglierei più prudenza, ma trovo gli arresti non giustificati”. Rita Bernardini, consigliera generale del Partito radicale, per Matteo Salvini le divise vanno sempre difese... “E io invece gli consiglierei di essere più prudente, perché in questa vicenda i filmati parlano chiaro. Il carcere è un’istituzione chiusa, dove i controlli esterni su eventuali abusi sono già di per sé difficili, ma dalla pandemia in poi sono diventati quasi impossibili. Ciò detto trovo anch’io la custodia cautelare in carcere non giustificata”. Perché? “Arriva ad un anno dai fatti, gli indagati avrebbero avuto tutto il tempo per fuggire e, volendolo, di inquinare le prove. E poi solo il processo può accertare quello che è veramente è successo”. Ma non è una contraddizione affermare che le prove video sono schiaccianti e poi criticare gli arresti? “I presupposti di legge per la custodia cautelare in carcere sono chiari: escludo evidentemente che anche il terzo elemento, cioè il pericolo di reiterazione del reato, fosse concreto dopo le denunce e l’avvio delle indagini. Perché do per scontato che gli agenti indiziati non siano stati lasciati al lavoro in quello stesso istituto”. Non c’è imbarazzo nel ritrovarsi alleati di Salvini nei referendum sulla giustizia? “Non capisco quale dovrebbe essere l’imbarazzo. Abbiamo trovato un terreno d’incontro su temi e problemi che il Partito radicale ha affrontato in tutta la sua lunga storia. Ci dà semmai l’occasione di confronto e di dibattito sul tema del carcere e della costituzionalità della pena”. Che idea si è fatta della vicenda? “Che la gestione dell’allora ministro della giustizia Alfonso Bonafede e del direttore del Dap Francesco Basentini è stata pessima. Io già il 9 marzo 2020, quando scoppiarono le rivolte, dissi a Basentini che era stato un errore tagliare i colloqui dei detenuti senza prima dialogare con loro. Se togli i momenti d’incontro con i parenti a un detenuto gli togli tutto”. Ma erano i primi giorni dell’epidemia, cos’altro si poteva fare per difendere anzitutto gli stessi detenuti? “Dialogare, dialogare, dialogare. Ciò competeva in primo luogo ai direttori delle carceri. E poi dotare subito il personale e i detenuti delle mascherine e di altri sistemi di protezione, che invece sono stati forniti con molti mesi di ritardo. Il primo provvedimento che avrebbe dovuto prendere un governo serio era quello di ridurre drasticamente il sovraffollamento. È una necessità anche oggi”. Come spiega il caso di Santa Maria Capua Vetere? “Non si spiega. Perché in quel carcere non ci fu nemmeno una rivolta, ma una semplice protesta, e quindi la risposta degli agenti è stata del tutto gratuita. So, dalle segnalazioni dei parenti, che peraltro quella non fu l’unica violenza. Ce ne furono altre, in altri istituti. A Foggia, dopo la rivolta, centinaia di detenuti vennero trasferiti di notte, in pigiama, e successivamente pestati nel carcere di destinazione. Quelli dei penitenziari emiliani furono mandati a Tolmezzo, e portarono lì il Covid. Sono stati usati metodi fuori dalla legalità. Ma le responsabilità vanno cercate in alto”. In alto dove? “Nel Dap nazionale che ha autorizzato interventi di questo tipo”. È un’affermazione molto grave. “Ma è quello che emerge se si studia attentamente la vicenda. Il Dap ha usato il pugno di ferro perché non era in grado di affrontare con ragionevolezza la pur difficile situazione. Si disse che le rivolte erano opera della mafia, mentre è dimostrato che partirono dalla parte più disagiata della popolazione detenuta: tossicodipendenti e detenuti con problemi psichiatrici”. Cosa ci rivela questa vicenda? “Che il carcere deve essere l’extrema ratio, a tutti gli altri vanno applicate le misure alternative. E i diritti fondamentali vanno rispettati. Abbiamo 999 educatori in pianta organica, di questi sono in servizio soltanto in 700. E si devono occupare di una popolazione carceraria di 53.600 detenuti. Come fanno a svolgere degnamente il loro lavoro?”. Cosa si aspetta dalla ministra Cartabia? “Molto semplicemente che l’esecuzione penale cominci a rientrare nella legalità costituzionale, perché oggi è fuorilegge. Ho fiducia, è una persona straordinaria, può farlo davvero”. Santa Maria Capua Vetere: falsificati video, foto e relazioni per coprire la mattanza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 luglio 2021 Già a partire dal 7 aprile 2020, all’indomani dei pestaggi sistematici nei confronti dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, diversi ufficiali e agenti della Polizia penitenziaria hanno redatto e inoltrato una informativa di reato nei confronti di 14 detenuti, falsamente rappresentando la necessità, durante la perquisizione straordinaria del 6 aprile 2020 nella sezione “Nilo”, di aver dovuto operare un contenimento attivo delle persone denunciate. Foto false del rinvenimento di un arsenale - In sostanza hanno voluto far credere che gli agenti si sono dovuti difendere dalle violenze dei detenuti. Nulla di più falso secondo la procura sammaritana. Ma a questo si aggiunge un altro depistaggio. Accade che gli agenti penitenziari coinvolti nel pestaggio, hanno predisposto delle foto che rappresentavano falsamente il rinvenimento di un arsenale di strumenti atti ad offendere (eccedente di gran lunga quello poi oggetto di sequestro del 8 aprile), nonché di olio e liquidi bollenti, preparati all’interno di pentole e padelle, poste su fornelli per essere utilizzati ai danni degli Agenti di Polizia Penitenziaria. Una messa in scena per screditare i detenuti - Fotografie queste ultime, secondo la Procura, scattate abusivamente ed artatamente all’interno di celle vuote, sfruttando l’assenza dei detenuti. Lo scopo risultava chiaro. Una messa in scena finalizzata ad accreditare la tesi secondo cui le lesioni subite dai detenuti fossero causate dalla necessità di vincere la loro resistenza. Tali foto sono state inviate attraverso whatsapp ed acquisite a seguito del sequestro degli smartphone degli indagati. Sempre secondo la procura, all’esito della ricezione, le fotografie sono state oggetto dell’alterazione della data e dell’ora di creazione in modo da renderla coerente con quanto riportato in un’altra falsa relazione redatta precedentemente dal Comandante del Nucleo Operativo Traduzioni e Piantonamenti del Centro Penitenziario di Napoli Secondigliano, ritenuto uno dei principali responsabili della organizzazione della perquisizione del 6 aprile e delle conseguenti violenze, proprio afferente al rinvenimento di tali oggetti. Spezzoni di video alterati - L’altro depistaggio sono i video, avvenuti con l’ausilio della comandante del Nucleo Investigativo regionale di Napoli. Dalle chat acquisite sugli smartphone di alcuni degli indagati, si è potuto appurare che il 9 aprile 2020, erano stati acquisiti indebitamente cinque spezzoni delle video-registrazioni operate in data 5 aprile 2020 relative alla protesta dei detenuti per barricamento: spezzoni che, secondo la Procura, erano stati alterati mediante eliminazione dell’audio e della data ed orario di creazione. Il motivo? Creare una falsa prova sulla dinamica degli eventi per tentare di giustificare, ex post, le violenze avvenute durante lo svolgimento della perquisizione del 6 aprile. Simulata una dinamica inesistente - Dopo la manomissione di tale documentazione, gli spezzoni sono stati trasmessi dalla comandante del Nucleo Investigativo Nucleo Regionale di Napoli, facendole apparire falsamente come allegati alla precedente relazione redatta dal Comandante del Comandante del Nucleo Operativo Traduzioni e Piantonamenti del Centro Penitenziario di Napoli Secondigliano, simulando dunque una dinamica totalmente inesistente. Ancora, a seguire, gli stessi spezzoni di video sarebbero stati prodotti dal Provveditore Regionale per la Campania allo scopo di giustificare le violenze avvenute nella medesima data, facendole apparire come volte a vincere la resistenza dei detenuti. Secondo la procura redatta una falsa relazione di servizio - Secondo la Procura, per coprire la “mattanza”, sarebbero stati confezionati ulteriori falsi ideologici. In tempi postumi e prossimi al 20 aprile 2020, è stata redatta una falsa relazione di servizio datata 6 aprile 2020, con la quale venivano falsamente riferite informazioni come rese da inesistenti “fonti confidenziali”, collocate temporalmente in un momento successivo alla notte del 5 aprile ed antecedente alla perquisizione del 6 aprile pomeriggio. Tale relazione, richiesta dal Provveditore Regionale per la Campania ed allo stesso trasmessa, veniva prodotta dallo stesso per descrivere circostanze e fatti del tutto irreali, collocati temporalmente in modo da fornire una giustificazione, in tempi postumi, alla perquisizione del 6 aprile 2020 ed alle violenze consumate. Ovviamente, quest’ultimo, è un fatto tutto da dimostrare: il provveditore era conscio che quella relazione era artefatta? Le 60 ore di rivolte anti-Covid che infiammarono le prigioni italiane di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 1 luglio 2021 I manganelli alzati a Santa Maria Capua Vetere non sono stati i soli. Ventuno carceri si ribellarono tra l’8 e l’11 marzo 2020: tredici vittime tra i detenuti, 107 agenti feriti e nessun responsabile accertato. Ci sono sessanta ore - dalle 13.15 dell’8 marzo del 2020, alla notte dell’11, quando tutto è finito - che rischiano di diventare il punto di non ritorno della storia delle carceri del nostro Paese. Perché i manganelli alzati a Santa Maria Capua Vetere non sono stati i soli. Anzi. In quei due giorni e mezzo ventuno carceri si ribellarono, tra dirigenti impreparati e detenuti impauriti (alle volte strumentalmente) dall’ondata pandemica che stava attraversando il Paese. Il bollettino non necessita di commenti: 13 morti, tutti carcerati. Tre a Rieti, uno a Bologna, cinque a Modena, altri quattro trasferiti da Modena e deceduti ad Alessandria, Parma, Verona e Ascoli, 107 agenti feriti, 69 detenuti ricoverati. Sono passati 15 mesi. E non una sola responsabilità è stata accertata. Sullo sfondo dell’impunità, soltanto i nomi di persone morte mentre erano sotto la custodia dello Stato. Il racconto che fino ad oggi si è voluto accreditare è quello di detenuti che, dopo aver messo a ferro e fuoco gli istituti di pena, hanno assaltato le farmacie, facendo razzia di metadone e antidepressivi. Deceduti per overdose. Tutti: Marco Boattini (40 anni), Ante Culic (41 anni), Carlos Samir Perez Alvarez (28 anni), Haitem Kedri (29 anni), Hafedh Chouchane (37 anni), Erial Ahmadi (36 anni), Slim Agrebi (40 anni), Ali Bakili (52 anni), Lofti Ben Mesmia (40 anni), Abdellah Rouan (34 anni), Artur Iuzu (42 anni), Ghazi Hadidi (36 anni), Salvatore Cuono Piscitelli (40 anni). Nessuno però ha ancora spiegato quel che risulta dalle autopsie: denti rotti, ferite alla testa, ecchimosi. Nessuno ha voluto dar seguito a dettagliate lettere di denuncia dei loro compagni di cella, che hanno riportato, la loro versione di quanto accaduto nelle sessanta ore. A Modena è aperta un’inchiesta per l’omicidio colposo di Salvatore “Sasà” Piscitelli, 40 anni, una vita storta che sembrava aver preso una direzione diversa proprio in prigione, dove Sasà aveva scoperto un talento: quello di attore. Sasà è uno dei 471 detenuti che ha partecipato alla rivolta del carcere di Modena. Ed è morto, “per intossicazione di metadone”, nel pomeriggio del 9 marzo nel carcere di Ascoli. Secondo gli atti, Piscitelli e gli altri erano stati visitati prima di essere trasferiti. Ed erano in grado di viaggiare. “A Modena Sasà stava malissimo - scrive un suo compagno di carcere - ed è stato anche picchiato sull’autobus. Quando siamo arrivati ad Ascoli, non riusciva a camminare”. “Quando ci hanno scaricato - aggiunge un secondo detenuto, anche lui in una lettera in cui dice di temere ritorsioni - lo hanno trascinato fino alla cella. Buttato dentro come un sacco di patate... Hanno picchiato di brutto. A Modena era troppo debole. Non è riuscito a resistere a quelle botte”. E ancora: “Salvatore è arrivato ad Ascoli in evidente stato di alterazione da farmaci. Era stato brutalmente picchiato a Modena e durante il trasferimento. Non riusciva a camminare e doveva essere sostenuto”, riferiscono altri cinque detenuti. “Hanno picchiato con il manganello in faccia persone in stato di alterazione dovuta all’abuso di farmaci. Noi stessi siamo stati picchiati dopo esserci consegnati agli agenti. Molti vengono presi a calci, pugni e manganellate nelle celle”. Voci. Voci simili a quelle che arrivano da Rieti, dove sono morti Boattini, Perez Alvarez e Culic. “Chi è stato male - si legge in una lettera agli atti della procura reatina, prossima alla chiusura delle indagini - non è stato subito portato all’ospedale: hanno avuto un primo soccorso e sono stati riportati a morire in una cella soli e in preda ai dolori, abbandonati come la spazzatura. Per noi che invece eravamo lì, nei giorni a seguire non è stato facile: sono entrati cella per cella, ci hanno spogliato chi più chi meno e ci hanno fatto uscire con la forza, messi divisi in delle stanze e uno alla volta passavamo per un corridoio di sbirri che ci prendevano a calci, schiaffi e manganellate; per i più sfortunati tutto ciò è durato quasi una settimana tra perquisizioni, botte, parolacce, ci dicevano ‘merde, testa bassa!’, ‘vermi’ e quando l’alzavi per dispetto venivi colpito ancora più forte”. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha inviato ispettori a Modena per le denunce dei detenuti. Lo stesso, nelle prossime settimane, succederà altrove. Sul tavolo resta poco altro. Le dimissioni dell’allora capo dell’amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini. Le parole dell’ex ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, quando in Parlamento disse “le rivolte in carcere sono atti criminali di minoranza, lo Stato non indietreggia”. Guardando le immagini di Santa Maria Capua Vetere, leggendo le denunce dei detenuti di mezza Italia, si può dire che no, non ha indietreggiato. Ha fatto altro. Nomine e silenzi, perché il caso di Santa Maria Capua Vetere inguaia Bonafede di Giulia Merlo Il Dubbio, 1 luglio 2021 Fu Bonafede a nominare a capo del Dap Francesco Basentini, preferendolo a Nino Di Matteo. Proprio di questo ha parlato Luca Palamara in audizione alla commissione Antimafia. La vicenda dei pestaggi da parte della polizia penitenziaria nel carcere di Santa Maria Capua Vetere su cui c’è un’indagine è un grosso problema per l’ex ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. All’epoca dei fatti, il ministro, per bocca del sottosegretario Vittorio Ferraresi, aveva risposto a un’interrogazione del deputato di Più Europa Riccardo Magi, dicendo che “il 6 aprile 2020, è stata disposta l’esecuzione di una perquisizione straordinaria all’interno del reparto “Nilo”. Si è trattato di una doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto, alla quale ha concorso, oltre che il personale dell’istituto, anche un’aliquota di personale del gruppo di supporto agli interventi”. I pestaggi, documentati da Domani con i video, secondo l’ex guardasigilli erano dunque “una doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto”. Non solo, il ruolo di Bonafede nella vicenda è legato anche alla sua nomina ai vertici del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del magistrato Francesco Basentini, a cui hanno fatto seguito polemiche perché per quel posto era stato vagliato anche l’attuale consigliere del Csm, Nino Di Matteo. Nel suo ruolo di capo del Dap, Basentini rispondeva “Hai fatto benissimo” agli aggiornamenti del provveditore delle carceri della Campania, Antonio Fullone, sulla “perquisizione straordinaria” del carcere. Proprio oggi in commissione Antimafia è stato audito l’ex magistrato Luca Palamara, al quale è stato chiesto di raccontare come venne gestita proprio la nomina di Basentini e chi si era adoperato per favorirla, a scapito di Di Matteo. Palamara ha dichiarato che la nomina in quel ruolo così delicato e tenuto in alta considerazione dalla magistratura associata “non fu dettata dalle correnti della magistratura, ma fu frutto di una scelta diversa che in quel contesto si stava verificando all’interno del ministero della Giustizia”. Secondo Palamara, Basentini fu preferito a Di Matteo anche se non aveva i requisiti specifici per il ruolo perché “Basentini non si era mai occupato appieno di questioni carcerarie. Quindi restammo colpiti quando il suo nome cominciò a circolare”. Il capo del Dap, infatti, gestisce una serie di informazioni delicate che provengono da ambienti carcerari e il profilo richiede una specifica esperienza anche nel settore della lotta alla mafia. Sempre stando al racconto di Palamara, Di Matteo non venne nominato perché “quella gestione e mole di informazioni poteva rafforzare ancora di più il personaggio di Di Matteo nella magistratura. E quando si rafforza un personaggio così il sistema si preoccupa per trovare un punto di equilibrio”. Insomma, per non rafforzare il profilo di Di Matteo il ministro Bonafede “ha nominato Basentini, tenendo conto di questo meccanismo e ascoltando suggerimenti che sconsigliavano questa scelta”. Basentini, infatti, rappresentava il punto di equilibrio perché “da un lato, formalmente poteva essere ricondotto alla corrente di Unità per la Costituzione e, dall’altra, evitava il rafforzamento di Di Matteo”. Dopo queste dichiarazioni, il membro della commissione Antimafia Maurizio Lupi ha ipotizzato di ascoltare nuovamente proprio l’ex ministro Bonafede, per far luce sul perché della nomina di Basentini. Chi sta con i picchiatori del carcere: la politica che tace o non condanna di Federico Marconi Il Domani, 1 luglio 2021 Non tutta la politica condanna fermamente le violenze e le torture avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. C’è il silenzio del Movimento 5 Stelle, alle prese con i problemi interni sì, ma che allora era al governo con il Pd ed esprimeva il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. E poi ci sono Matteo Salvini e Giorgia Meloni: i due leader di Lega e Fratelli d’Italia si sono schierati al fianco degli agenti arrestati. Non solo loro: anche i sindacati più che prendersela con i loro colleghi, se la prendono con i quotidiani che informano sulla “orribile mattanza” avvenuta nell’istituto di pena campano e annunciano provvedimenti. Il silenzio del Movimento 5 Stelle - La “spedizione punitiva” degli agenti della polizia penitenziaria è avvenuta il 6 aprile 2020. Allora al governo c’era il Movimento 5 Stelle con il Partito democratico. Dopo l’uscita delle prime notizie sui pestaggi, il loro esecutivo aveva risposto a un’interrogazione parlamentare del 16 ottobre scorso dicendo che ciò che era successo era solo una “doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto”. Allora ministro della Giustizia era un pentastellato, Alfonso Bonafede. Domani ha chiesto all’ex capo del Dap Francesco Basentini - fortemente voluto proprio da Bonafede e che era stato informato della “perquisizione straordinaria” dal provveditore Antonio Fullone - se il ministro ne fosse stato messo al corrente, ma non ha voluto rispondere. Forse è per questo motivo, o forse perché è alle prese con la querelle Grillo-Conte, che dal Movimento non si è levata ancora nessuna ferma condanna dalle personalità di vertice. Dopo la pubblicazione dei video, abbiamo chiesto una dichiarazione al capo politico ad interim Vito Crimi, ma il suo portavoce ha detto che era irreperibile per le vicende interne ai 5 Stelle. La destra con i poliziotti - Non solo condanne e silenzi, c’è anche chi sta con i poliziotti. Come il segretario della Lega Matteo Salvini, che oggi alle 17 è atteso fuori dal carcere di Santa Maria Capua Vetere per testimoniare la sua solidarietà agli uomini delle forze dell’ordine coinvolti nell’inchiesta. Dopo la pubblicazione dei video, il segretario della Lega non ha voluto commentare su Domani le violenze perpetrate dagli agenti nel carcere campano. Si è espresso solo ieri mattina, affermando che “Serve rispetto per uomini in divisa che ci proteggono in strada, i singoli errori vanno puniti. Conosco quei padri di famiglia sotto accusa e sono convinto che non avrebbero fatto nulla di male”. E per dimostrare il suo sostegno si presenterà proprio fuori la prigione del “massacro”. Nessun commento invece dalla presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, che si è limitata a dare sostegno agli agenti arrestati nella giornata di lunedì, a cui aveva espresso “solidarietà e vicinanza”: “Fratelli d’Italia ha piena fiducia nella Polizia Penitenziaria, negli agenti e nei funzionari del Dap intervenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per reprimere la gravissima rivolta organizzata dai detenuti durante il lockdown”, aveva affermato in una nota alle agenzie lunedì. Il vicepresidente della Camera di Fdi, Fabio Rampelli, era stato ancora più netto esprimendo il suo “sconcerto” per gli arresti: “Qualcuno ha la memoria corta. Gli agenti furono completamente abbandonati dalle istituzioni. La magistratura forse dovrebbe indagare su quello e non su agenti che compiono quotidianamente il loro dovere senza risorse umane sufficienti, senza dotazioni adeguate”. I sindacati all’attacco (dei giornali) - Chi difende a spada tratta gli autori dei pestaggi sono i sindacati. Dopo gli arresti, tutte le sigle - dal Sappe, alla UilPa, fino alla Fp Cgil - avevano espresso la loro solidarietà ai 52 poliziotti arrestati. Nessuna marcia indietro c’è stata dopo la pubblicazione dei video e delle prove a carico dei loro colleghi. Al contrario, i vari segretari se la sono presa con quei quotidiani che hanno raccontato le violenze e hanno dato conto all’opinione pubblica dei funzionari di polizia coinvolti. Sia il segretario del Sappe, Donato Capece, sia quello di Fp Cgil, Stefano Branchi, hanno scritto due diverse lettere. Branchi protesta con il capo del Dap: “Appare del tutto discutibile ed aberrante, tenendo altresì conto delle eventuali violazioni normative in materia di privacy”, stigmatizzando “la diffusione mediatica, specie a mezzo stampa locale, delle specifiche generalità (compreso foto) dei poliziotti penitenziari coinvolti nei fatti argomenti”. Donato Capece invece parla di “gogna mediatica”: “La polizia penitenziaria è formata da persone che hanno valori radicati, un forte senso d’identità e d’orgoglio”. Poi annuncia una reazione: “Il Sappe intende anche costituirsi parte civile nei confronti di coloro i quali, con il loro scorretto comportamento professionale, hanno di fatto prodotto ed alimentato una campagna denigratoria verso tutta l’istituzione penitenziaria, che ogni giorno svolge delicati compiti istituzionali, e messo in serio pericolo l’incolumità delle persone”. La “macelleria messicana” e ora “abbattere i vitelli”. Torna la tortura in Italia di Riccardo Noury* Il Domani, 1 luglio 2021 Le immagini diffuse da Domani su ciò che avvenne il 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e che il giudice per le indagini preliminari ha definito “una orribile mattanza” lasciano senza fiato. Vedendole e rivedendole, ho sperato che arrivassero da un luogo lontano: dalla Colombia in stato d’emergenza, da Myanmar dopo il colpo di stato. Invece, provenivano da un luogo distante neanche 200 chilometri da Roma. Come 19 anni prima a Bolzaneto, funzionari dello stato italiano hanno infierito su persone in loro custodia immaginando che quei comportamenti non sarebbero diventati pubblici o comunque confidando nell’impunità. Nel primo caso, immaginarono male ma confidarono bene. L’impunità di Genova - Come già ricordato da Domani attraverso una serie di articoli sul ventesimo anniversario del G8 di Genova, nei confronti di persone inermi tanto alla scuola Diaz quanto nella caserma di Bolzaneto attrezzata a centro provvisorio di detenzione, venne praticata la tortura: pestaggi violentissimi (la “macelleria messicana” descritta dall’allora vicequestore di Genova Michelangelo Fournier), atti crudeli come lo spegnimento di sigarette sui corpi dei detenuti, umiliazioni degradanti. Sappiamo com’è andata a finire: col trionfo dell’impunità. Quella parola, tortura, ripetuta infinite volte nei dibattimenti giudiziari sui fatti di Genova non trovò spazio nelle sentenze perché nel codice penale ancora non era menzionata. E non sarebbe stata menzionata fino al luglio 2017 quando, grazie a un’ostinata campagna delle organizzazioni non governative, all’impegno di diversi parlamentari e a un’importante sentenza della Corte europea dei diritti umani dello stesso anno, il parlamento colmò un ritardo quasi trentennale e introdusse finalmente nell’ordinamento italiano il reato di tortura. La legge sulla tortura - La legge non è perfetta: è ridondante e infarcita di locuzioni e aggettivi inutili come se il legislatore, dopo 28 anni e mezzo di continui ostacoli all’approvazione di un testo, si fosse arreso a votarne uno sperando che la sua ampollosità ne avrebbe reso problematica l’applicazione. Ma da allora la legge contro la tortura è stata applicata. Due processi, relativi a episodi avvenuti nelle carceri di Ferrara e San Gimignano, si sono chiusi con condanne per tortura. Altre indagini sono in corso per presunte torture avvenute in altri istituti di pena italiani. C’è da sperare che la legge sarà applicata anche rispetto ai fatti, terribili, di Santa Maria Capua Vetere. Così lascia sperare la decisione del giudice per le indagini preliminari di disporre l’esecuzione di 52 misure cautelari, molte delle quali nei confronti di agenti della polizia penitenziaria, per vari reati tra cui, per l’appunto, torture pluriaggravate: l’”abbattimento dei vitelli”, come veniva descritta l’azione punitiva del 6 aprile 2020 nelle conversazioni tra gli agenti. Resta il fatto che c’è qualcosa, nel nostro paese, che da sole le leggi non saranno sufficienti a cambiare: stiamo assistendo, da anni, a una profonda erosione dell’idea di universalità dei diritti. Ribadita nei comizi e amplificata praticamente ogni giorno sui social, sta diventando sempre più accreditata la pericolosa teoria che i diritti non siano innati ma si abbiano comportandosi bene. Si meritino, dunque. E poiché chi è in carcere si suppone si sia comportato male, non merita diritti, ne è automaticamente privato. Così diventa un “vitello da abbattere”. Così accade che leader politici solidarizzino immediatamente con funzionari dello stato accusati di aver praticato torture e inequivocabilmente ripresi nell’atto di compierle. Sebbene accompagnate dal plauso dei social, si tratta di dichiarazioni irresponsabili che, oltretutto, procurano un danno enorme a tutti gli operatori delle forze di polizia che quotidianamente svolgono il loro lavoro, in condizioni spesso difficili, nel pieno rispetto dei diritti umani. P.S. Per una drammatica coincidenza, le immagini di Santa Maria Capua Vetere sono state diffuse mentre erano da poco in rete le riprese di un brutale intervento dei carabinieri a Milano, all’alba del 27 giugno. Sebbene le ricostruzioni di quanto accaduto nei minuti precedenti siano parziali e contraddittorie, le manganellate che si vedono costituiscono comportamenti inaccettabili. *Amnesty Italia Picchiare i detenuti è come una droga pesante di Adriano Sofri Il Foglio, 1 luglio 2021 I video dal carcere di Santa Maria Capua Vetere, gli agenti che manganellano i carcerati e la dipendenza che dà un gesto simile. Per uscirne occorre una terapia forte (e un ministro della Giustizia diverso da Bonafede). Ho guardato i video di Santa Maria Capua Vetere avendo in mente la frase del disgraziato che gli scherzi della vita avevano fatto ministro della Giustizia: “Una doverosa azione di ripristino della legalità”. Li ho guardati vedendovi attraverso gli innumerevoli episodi analoghi di cui non ci sono video. Il diavolo, amico dei prigionieri, ci ha messo la coda: gli agenti credevano di aver manomesso le telecamere di sorveglianza, ma erano stati maldestri. Qualcuno ha detto che episodi così bestiali non si dovranno più vedere. Qualcuno si è detto che per la prossima volta bisogna imparare a metterle davvero fuori uso, le telecamere di sorveglianza. Del resto i tempi nuovi entrano anche in galera: già qualche anno fa un pestaggio nei sotterranei di un carcere era stato ripreso e poi pubblicato dal telefono di un agente. Modernità ambigua: può esserci un agente che si sottrae a violenza e omertà, o uno che di botte e torture si vuole far bello. Ad Abu Ghraib, le torture fecero il giro del mondo perché una giovane torturatrice le filmò e si filmò per vantarsene coi suoi a casa. Nel filmato, viene manganellato anche un anziano detenuto sulla sedia a rotelle: la giustizia è uguale per tutti. Anch’io tendo ad augurarmi che non si protragga la carcerazione preventiva degli agenti impiegati per la mattanza. Manca il pericolo di fuga - dove potrebbero fuggire? E a vivere di che? - o quello di inquinare le prove - le avranno già inquinate meglio che potevano, dopo quindici mesi. Ma non si dica che non sussiste nemmeno il rischio della reiterazione del reato. Picchiare i detenuti è una di quelle cose che, una volta fatte, diventano un’abitudine, pressoché una dipendenza. Una droga pesante. Occorre una terapia forte, per uscirne. E non avere più grossisti delle doverose azioni di ripristino della legalità. “Urlavano: ‘vi uccidiamo!’, porto sul corpo i segni di quelle manganellate” di Conchita Sannino La Repubblica, 1 luglio 2021 Parla Salvatore, uno dei detenuti picchiati nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: “Io nel video sono quello incappucciato, quello che prende botte in testa, alla schiena, alle gambe, al volto”. “Arrivarono con i caschi per non farsi riconoscere. Mi colpirono in testa e sulla schiena. Nelle celle tremavano tutti”. Salvatore Q. detto Sasà, 45 anni, accusato di spaccio, è uno di quei detenuti pestati al Reparto Nilo, carcere di Santa Maria Capua Vetere, in quelle ore d’inferno del 6 aprile 2020. Accetta di parlare con Repubblica perché, dice, “per fortuna sono uscito da lì, ora sono agli arresti domiciliari, ma gli abusi devono finire, quello che è successo è stato uno schifo. E infanga le buone divise”. Il suo racconto è agli atti, piccolo rivolo nella maxi indagine che conta 27 faldoni, una ventina di video (per 4 ore di maltrattamenti), 2300 pagine di ordinanza del Gip che tirano dentro 117 indagati. Proprio i mesi più cupi del primo lockdown - con la giustizia alla quasi totale paralisi nella primavera 2020 - hanno visto invece totalmente mobilitata la Procura di Santa Maria Capua Vetere guidata da Antonietta Troncone, con l’aggiunto Alessandro Milita e i pm Daniela Pannone e Alessandra Pinto, impegnati in una corsa contro il tempo, e contro depistaggi e falsi, che alla fine ha mostrato lo squarcio raggelante già anticipato dalle denunce del garante Samuele Ciambriello e dell’associazione Antigone. Ieri, i primi 9 interrogatori del gip Sergio Enea: e qualche prima ammissione. “Sono stati commessi gravi errori”. Il buco nero in cui è entrato Salvatore, uno dei pochi a denunciare autonomamente i maltrattamenti, è lo stesso descritto nelle varie “sommarie informazioni” rese agli inquirenti da decine di altri reclusi picchiati a sangue. Come il povero algerino Hakimi Lamine: che a 28 anni, nonostante i suoi problemi di schizofrenia, durante la “carica” di torture, subì la frattura del naso e dopo un mese di abbandono in isolamento, la fece finita con un mix di psicofarmaci. Oppure, ancora, come Vincenzo Cacace, altro ex detenuto ormai scarcerato: è lui l’uomo che si vede, sempre nei fotogrammi dell’orrore, picchiato alla testa e al petto col manganello, nonostante sedesse su una sedia a rotelle. Ora dice: “Sono stati disumani”. Salvatore, come sta adesso? “Quello che è successo non lo posso dimenticare. Alcuni segni li porto sulla pelle, altri stanno dentro e non me li levo più di dosso”. Quale è stato il suo referto, quali danni conserva? “La mia schiena era diventata un bersaglio. Lividi, ematomi, versamento di liquidi portati per mesi. Ma parliamo degli effetti che si vedono. Poi ci sono quelli che non si vedono”. Si riferisce alle conseguenze psicologiche. “Parlo del fatto che, anche quando sono andato fuori dal carcere di Santa Maria, non ho più dormito per settimane. La rabbia, la paura, lo choc, l’impotenza. Non lo so che cosa è stato. So di avere visto, in quelle ore, in carcere, molti che tremavano vicino a me, nelle celle. E forse tremavo pure io e non lo sapevo”. Che cosa successe, quindi, il pomeriggio del 6 aprile, al Reparto Nilo? “Vennero queste guardie da fuori... Lo so, non si chiamano guardie né secondini, ma tra noi sapete c’è il linguaggio del carcere. Comunque un gruppo che si vedeva subito: intenzionato al peggio. Venuto per fare squadrismo”. Da cosa si vedeva? “Con i caschi, i manganelli, tutti coperti per non farsi riconoscere. Già quando li vedi così capisci subito che non stanno venendo in pace”. Può fare lo sforzo di ricordare, ancora una volta? “Ci presero con la forza. Alcuni li portarono in una sala ricreativa, a noi ci vennero a prendere nelle celle, uno per uno. Si fiondarono innanzitutto nei nostri armadietti: hanno preso i nostri rasoi, ci hanno tagliato le barbe”. Perché? “Dicevano: volete fare i boss? Ora ve li tagliamo noi questi peli”. E poi? “Si concentrarono su quasi tutti i piani del Reparto Nilo. Ci costringevano a uscire e ci buttavano nei corridoi. Dove c’erano decine di loro a destra e a sinistra. Noi passavamo in mezzo: arrivavano manganelli, calci, pugni. Io ho preso un sacco di cazzotti e colpi alla schiena, me l’hanno fotografata, sta agli atti...”. Impossibile reagire. “Ma ha capito che 300 detenuti in mano loro erano niente? Io li ho guardati negli occhi. Ma ci riempivano di maleparole. Mi dicevano: “Vi uccidiamo. Non vi illudete, qui comandiamo noi”“. Lei è stato uno dei pochissimi a denunciare, perché? “Perché io ho avuto la fortuna di uscire da lì dentro il 10 aprile, solo quattro giorni dopo che mi hanno abboffato di mazzate. Ho scritto su Facebook un post. Ho detto che era stata fatta un’infamia ai detenuti”. Lei ricorda dell’algerino Lamine? “Lo ricordo bene, era un mio compagno di cella: stava dentro per reati scemi, un bravo guaglione” Del tipo? “Furto. Invece le guardie lo hanno ammazzato di botte”. Non ha mai avuto paura di denunciare. “No, voglio raccontare. Io i miei conti con la giustizia li pago, di errori ne ho fatti. Ma non voglio essere un sacco di patate su cui si devono sfogare gli altri. La mia dignità deve restare a me”. Quella brutalità dice che la tortura è sempre di sistema di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 1 luglio 2021 Non c’è attenuante che regga: lo stress, le proteste dei giorni precedenti, il virus. Quella che abbiamo visto è una pratica pianificata di violenza machista di massa che coinvolge decine e decine di poliziotti. Le immagini interne al carcere di Santa Maria Capua Vetere parlano chiaro. Tutti abbiamo potuto vedere le violenze gratuite e brutali commesse da agenti di Polizia Penitenziaria su qualunque detenuto gli passasse sotto mano, finanche se su sedia a rotelle. È’ stata una rappresaglia indiscriminata, illegale, disumana che non ammette alcuna giustificazione. Non c’è attenuante che regga: lo stress, le proteste dei giorni precedenti, il virus. Quella che abbiamo visto è una pratica pianificata di violenza machista di massa che coinvolge decine e decine di poliziotti. È qualcosa che ci porta dentro l’antropologia della pena e della tortura. Ogni difesa acritica del loro comportamento è inammissibile in uno Stato costituzionale di diritto. Ogni sottovalutazione o tentativo di circoscriverne la portata non aiuta a riportare il sistema penitenziario nell’arco della legalità. In quel video non abbiamo visto mele marce al lavoro. Erano troppo numerosi i responsabili delle violenze e non si intravedevano mele sane che provavano a riportare i colleghi alla ragionevolezza. Questo non significa che le mele sane non vi siano. Sono fortunatamente tante, lavorano in silenzio, non vomitano odio sui social, non si fanno condizionare da chi inneggia alle forze di polizia russe o brasiliane, non fanno carriera quanto meriterebbero. La quantità di poliziotti coinvolti ci porta però dentro valutazioni di tipo sistemico. Dunque, in attesa del processo penale, proviamo a definire alcune vie di uscita da questo meccanismo di auto-esaltazione. In primo luogo vorremmo che le più alte cariche dello Stato dicano un no secco e senza eccezioni alla tortura e alla violenza istituzionale, preannunciando non solo un’indagine rapida amministrativa interna che porti a sanzioni disciplinari ma anche la volontà di costituirsi parte civile nel futuro procedimento penale. I provvedimenti del Dap di sospensione degli agenti coinvolti vanno in questa direzione. Così come le parole inequivoche della ministra della Giustizia Marta Cartabia che ha parlato di “tradimento della Costituzione” nonché “di oltraggio alla dignità della persona dei detenuti”. In secondo luogo vorremmo che l’organizzazione penitenziaria rimetta al centro figure professionali quali educatori, assistenti sociali, animatori, mediatori, psicologi e che si riapra dappertutto il carcere alla società esterna. C’è chi per motivi economici avrebbe voluto cooptare gli educatori nel corpo di Polizia. Un errore di visione che avrebbe cambiato la fisionomia del carcere, a scapito della trasparenza e delle finalità costituzionali. Ogni occhio che arriva da fuori le mura è una forma di prevenzione dalla tentazione di maltrattamenti. Il direttore di carcere deve essere inequivocabilmente messo al vertice della gerarchia interna, senza cedere alle pressioni corporative delle organizzazioni sindacali autonome di Polizia penitenziaria. I sindacati confederali devono essere un’avanguardia democratica e mai cedere alla competizione securitaria con quelli che chiedono più taser per tutti. È necessario che si adottino linee guida nazionali su come gestire situazioni di rischio, affidandosi anche a una formazione interdisciplinare e interprofessionale. La video-sorveglianza deve coprire tutte le aree del carcere, anche quelle oscure, come le scale o le sezioni di isolamento. I medici non devono mai sentirsi costretti dentro rapporti di tipo gerarchico con chi ha funzioni di controllo. Devono essere messi nelle condizioni di visitare in libertà e riservatezza le persone che hanno subito violenza. Infine vorremmo che vi fosse una visione costituzionale e condivisa della pena. La Costituzione non va tollerata, elusa, ridicolizzata. La Costituzione va rispettata, applicata. Sarebbe un gran bel segnale se all’indomani dell’inchiesta di Santa Maria Capua Vetere fosse adottato un nuovo regolamento di vita penitenziaria (il precedente è del 2000) ispirato ai principi di responsabilità, integrazione, normalità e rispetto della dignità umana. Quel video terribile sui pestaggi andava pubblicato? di Valentina Stella Il Dubbio, 1 luglio 2021 Difficile trovare un compromesso tra diritto di cronaca e rispetto delle regole. Ma una cosa dobbiamo chiedercela: chi ha fatto arrivare alla stampa quelle immagini di Santa Maria Capua Vetere? È innegabile la portata di drammaticità emersa dal video pubblicato dal quotidiano Domani in cui si vedono chiaramente le violenze subìte dai detenuti lo scorso 6 aprile 2020 per mano di centinaia di agenti di polizia penitenziaria. Quelle sequenze di aggressività e sopraffazione dei (finti) custodi verso i loro custoditi, la riproposizione del “sistema Poggioreale” come metodo illegale di punizione, lo svilimento della dignità dei detenuti: tutto ciò è stato un pugno nello stomaco per moltissimi di noi, che pure da anni ci occupiamo di queste vicende, ma soprattutto per altri colleghi che spesso si mostrano indifferenti alle criticità dell’esecuzione penale, e per una grande fetta della società civile. Probabilmente quelle immagini hanno anche spinto la Ministra Cartabia a prendere una posizione più netta nei confronti di quegli accadimenti. Sicuramente quel video ha disvelato qualcosa per molti inimmaginabile. Come spesso ricorda il sociologo dei fenomeni politici, Luigi Manconi, “il carcere e la caserma sono istituzioni totali, secondo la classica definizione di Erving Goffman: sono strutture chiuse, sottratte allo sguardo esterno e al controllo dell’opinione pubblica e della rappresentanza democratica”. Ora invece tutti possono vedere. Ma nonostante il valore pedagogico, siamo sicuri che quel video andava pubblicato? Ci siamo posti la stessa domanda relativamente alle immagini degli ultimi istanti di vita dei passeggeri nella funivia del Mottarone. Non è semplice dare una risposta: c’è il gioco il diritto di cronaca, la necessità di denunciare pubblicamente misfatti così terribili, ma non dobbiamo dimenticare il rispetto delle regole e del codice di rito. Si tratta di un documento che, seppur non coperto da segreto istruttorio, ai sensi dell’articolo 114 comma 2 c.p.p. non può essere pubblicato, in quanto relativo a procedimento in fase di indagine preliminare. E allora ci si chiede: chi ha fatto arrivare ai colleghi del Domani il video? La procura aprirà un fascicolo di indagine per stabilire eventuali responsabilità? Violenze inaudite. Ma i diritti degli indagati valgono per tutti, senza eccezioni camerepenali.it, 1 luglio 2021 La nota della Giunta con l’Osservatorio Carcere Ucpi. I gravissimi fatti di violenza avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, da subito denunziati dai detenuti e dai loro familiari, nonché dai loro difensori, devono essere accertati con la massima rapidità possibile. Si tratta di una inconcepibile violazione del diritto delle persone detenute ad un trattamento rispettoso della loro persona, della loro integrità fisica e della loro dignità, oltre che del dovere delle istituzioni penitenziarie di garantire la sicurezza delle persone loro affidate, nella prospettiva del percorso rieducativo della pena voluto dalla Costituzione repubblicana. Atti di brutale violenza contro persone detenute da parte di chi ha il compito di sorvegliarne la incolumità violano in radice il principio di affidamento che la intera comunità sociale sa di dover riconoscere allo Stato. Questa vicenda conferma l’urgente necessità della profonda riforma del sistema della esecuzione penale, irresponsabilmente abbandonata sin dal primo Governo di questa legislatura, che affronti e risolva le drammatiche condizioni di vita nelle carceri dei detenuti e degli stessi operatori penitenziari, rispetto alla cui struttura organizzativa si impongono interventi urgenti per assicurare un continuo ed efficace controllo. Al tempo stesso, l’Unione delle Camere Penali denunzia l’ennesimo caso di indebita spettacolarizzazione di una indagine penale. La diffusione di foto e video dei denunciati atti di violenza -certamente raccapriccianti ed indegni per un paese civile- che hanno accompagnato l’esecuzione dei numerosi provvedimenti cautelari, prima ancora di qualsiasi forma di contraddittorio con le difese degli indagati, resta inammissibile e gravemente lesiva del principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza. I diritti e le garanzie delle persone indagate restano intangibili, quale che sia l’accusa, così come deve essere ribadita la più ferma condanna di ogni forma di esposizione mediatica delle ragioni dell’Accusa. È inderogabile principio di civiltà che il processo si celebri nelle aule di giustizia, e non sui media, e che dunque sia sempre respinta la tentazione di anticipare giudizi di colpevolezza prima ancora dell’intervento della difesa e della valutazione delle prove da parte di un giudice. Walter Verini (Pd): “Salvini soffia sul fuoco, ma quelle immagini sono inaccettabili” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 1 luglio 2021 Walter Verini, tesoriere e deputato dem, spiega che le immagini delle violenze in carcere “rischiano di far perdere credibilità non solo ai protagonisti di quei fatti, ma all’intero corpo che invece è di straordinaria importanza per il paese e per la sua sicurezza” e che “stavolta la propaganda di Salvini rischia di incendiare la situazione nelle carceri”. Onorevole Verini, cosa farà il Pd perché si accerti la verità sui fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere? Il Pd ha chiesto che la ministra venga prima possibile a riferire in Aula, così come chiedemmo all’allora ministro Bonafede. È giusto che vicende come queste vengano affrontate alla luce del sole. Oggi Salvini sarà nella cittadina campana, cosa si aspetta? I primi annunci, le prime dichiarazioni del leader della Lega, rischiano di essere qualcosa di incendiario. Sottolineo che qui non sono in discussione il ruolo e la credibilità della Polizia penitenziaria. Tutti noi proviamo ammirazione per il lavoro quotidiano che oltre 37mila agenti svolgono ogni giorno in situazioni difficilissime. Ma alla luce dei video diffusi emergono comportamenti di una gravità intollerabile e inaccettabile per un paese civile. Quelle immagini rischiano di far perdere credibilità non solo ai protagonisti di quei fatti, ma all’intero corpo che invece è di straordinaria importanza per il Paese e per la sua sicurezza. Salvini non può soffiare sul fuoco, perché se dentro le carceri si crea un clima particolarmente acceso si rischiano situazioni di enorme gravità. Oltre alle immagini sono state rese pubbliche anche le foto degli agenti indagati. Occorre evitare la gogna? Condivido quanto ha detto il garante nazionale per i diritti dei detenuti. Guai a mettere qualcuno alla gogna ed è grave pubblicare le foto degli agenti coinvolti. E va ribadito che dal punto di vista penale fino a sentenza definitiva c’è la presunzione d’innocenza. Noi non siamo un tribunale ma è del tutto evidente che quei video dimostrano comportamenti che non hanno nulla a che vedere con politiche di trattamento in linea con l’articolo 27 della Costituzione. Eppure Salvini dice di voler esprimere solidarietà alla Polizia penitenziaria... Non si può andare lì per esprimere solidarietà indistintamente, perché significa esprimere solidarietà anche per quei comportamenti e questo non è accettabile. Al di là del rilievo penale, quei video chiedono, impongono una presa di distanza. L’allora Capo della Polizia Manganelli, che purtroppo non c’è più, qualche tempo dopo la Diaz chiese scusa per quei fatti. Quando rappresentanti dello Stato compiono errori, sbagli, reati, o commettono gesti inaccettabili, chiedere scusa da parte dello Stato stesso è segno di forza e autorevolezza, non di debolezza. Cosa contestate al leader della Lega? Un leader politico che sostiene il governo ha il dovere non di scaldare ulteriormente gli animi ma di pretendere l’accertamento dei fatti, evitando gogne ma al tempo stesso lasciando che la giustizia faccia pienamente il suo corso. Il garantismo cui si è convertito Salvini, che va nelle piazze a promuovere i referendum, deve essere verso tutti, anche nei confronti di chi è detenuto. Salvini è sempre propagandistico, ma stavolta è una propaganda che rischia di incendiare la situazione nelle carceri. Cosa chiedete alla ministra Cartabia? Di venire a riferire quanto di sua conoscenza. Tra l’altro lei - come ruolo e come persona - dimostra sensibilità ai temi del trattamento dei detenuti e del rapporto con la Polizia penitenziaria. Ad esempio, quella spedizione era a conoscenza degli allora vertici del Dap? Oggi in quei ruoli ci sono persone come Petralia e Tartaglia, di grande affidabilità. Ma è importante sapere quali gangli della filiera, all’epoca dei fatti, fossero a conoscenza dell’iniziativa nel carcere. In secondo luogo, occorre fare in modo che accanto ai necessari provvedimenti di sospensione ci sia rapidità nel dare una sorta di corsia preferenziale agli aspetti giudiziari. Se ci sono stati comportanti gravi e inaccettabili, quei comportamenti vengano accertati e giudicati. Non possiamo rimanere appesi a delle immagini, pur gravi. Nel tempo tra oggi e l’ultimo grado di giudizio si possono creare tensioni e speculazioni come quella di Salvini che possono mettere in discussione la situazione interna alle carceri. Con quali rischi? Se c’è tensione nelle carceri si rischia anche che settori della criminalità organizzata possano utilizzarla per causare rivolte insostenibili che mettono in discussione la sicurezza del personale, dei detenuti e infine degli stessi cittadini come accaduto dopo la rivolta di Foggia. L’approccio deve essere radicalmente diverso. Quali provvedimenti e misure dovrebbero essere adottati? Dovrebbe essere completata la dotazione organica della Polizia penitenziaria, aumentando numero di figure come psicologi, medici e mediatori culturali in carcere, animatori, volontari. Un lavoro già iniziato dallo scorso governo grazie al lavoro del sottosegretario Giorgis, che ne aveva la delega. Bisogna accelerare anche sul telecontrollo, perché sviluppare il controllo a distanza attraverso le telecamere significa avere maggior consapevolezza della situazione in vigilanza dinamica ma anche contrastare la piaga dell’autolesionismo e dei suicidi in carcere. Più in generale, il carcere deve essere riservato a reati gravi. Occorre sviluppare pene alternative, e sia dentro che all’esterno, sviluppare formazione, lavoro, socialità, recupero. Un cittadino che sconta una pena ed esce rieducato, socializzato, difficilmente torna a delinquere. Lo ripetiamo: investire in pene certe e carceri umane significa investire anche nella sicurezza di chi lavora nelle carceri e di tutta la società. Teme che le tensioni di questi giorni con Cinque Stelle e Lega possano rallentare la riforma della giustizia? Mi auguro di no, perché l’Italia secondo noi ha l’occasione di riformare il civile, il penale e il Csm, dando finalmente una giustizia europea al nostro Paese. Mettere i bastoni tra le ruote del governo significa essere poco responsabili davanti ai cittadini. In secondo luogo, anche alla luce del finto garantismo che vediamo su questa drammatica vicenda carceraria, mi chiedo: cosa c’entra Salvini con i referendum radicali quando sul tema carceri ha una visione così incendiaria? Il Garante nazionale dei detenuti: immagini devastanti come quelle di Genova di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 1 luglio 2021 Le telecamere interne agli istituti di detenzione sono fondamentali, dice Mauro Palma, ma non sempre ci sono e soprattutto quando servono le registrazioni molto spesso sono già state cancellate. Mauro Palma, garante nazionale dei detenuti, si è chiesto che impressione fanno all’estero le immagini dei detenuti massacrati dalla polizia penitenziaria in un carcere italiano? Sono immagini distruttive la cui portata e gravità è comparabile alle vicende del G8 di Genova, giusto venti anni fa. Quei video testimoniano di un’operazione progettata a freddo, sotto gli occhi delle telecamere quindi con la certezza della impunità. Sono immagini che certo gireranno all’estero, credo che la questione sarà portata davanti al parlamento europeo e alla commissione Ue. Ce ne chiederanno conto, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione si apre con un richiamo alla dignità umana e l’articolo 4 vieta la tortura e i trattamenti inumani e degradanti. Lei pensa che l’operazione sia stata fatta malgrado l’impianto video, non perché gli agenti pensavano fosse disattivato? Credo entrambe le cose. Può esserci una sensazione di impunità anche con il circuito interno attivo perché queste registrazioni vengono molto presto cancellate. Lo spazio di archiviazione è limitato, quando le si cerca non ci sono più. Merito della magistratura di sorveglianza, questa volta, è averle messe in sicurezza per tempo. (Nell’ordinanza del Gip di Santa Maria Capua Vetere si legge che i carabinieri hanno cercato di acquisire i filmati interni al carcere il 10 aprile 2020, quattro giorni dopo i fatti, ma sono riusciti a farlo solo il 14, con qualche buco, a causa degli ostacoli tecnici avanzati dalla polizia penitenziaria, ndr). In generale le carceri italiane sono controllate da telecamere interne affidabili? Purtroppo no. Non tutti gli istituti sono coperti e anche quelli che lo sono presentano zone oscure. Le telecamere sono spesso decisive, lo sono state recentemente a San Gimignano e a Torino. Ovviamente non si possono tenere sotto osservazioni le celle perché si violerebbe la privacy dei detenuti, ma quando i corridoi e gli ambienti comuni sono sotto sorveglianza si riescono a ricostruire bene gli episodi. Puoi capire dove viene portato un detenuto e in quali condizioni è. Nella riunione di emergenza che abbiamo tenuto al ministero si è parlato di estendere le video registrazioni. Bene. Aggiungo che va creato un archivio capiente in maniera che queste registrazioni siano sempre utili. Stavolta siamo di fronte a un gravissimo episodio collettivo, ma è difficile che il maltrattamento di un singolo venga denunciato subito e quando serve il video non è più disponibile. Gli agenti protagonisti di queste violenze sono indagati da oltre un anno, c’era bisogno del video per intervenire? Sicuramente qualcosa nella catena di comunicazione non ha funzionato, considerando che a ottobre dello scorso anno il ministero della giustizia rispose in parlamento che a S. M. Capua Vetere c’era stata una normale e regolare operazione per riportare l’ordine. A meno che il ministro Bonafede non abbia considerato “normale” quello che è successo, e francamente mi sento di escluderlo, bisogna pensare che non era stato informato. Non gli avevano mostrato i video e dunque la comunicazione interna non aveva minimamente funzionato. Questo apre degli interrogativi sulla responsabilità del Dap di allora. Dobbiamo rimediare, episodi come questa cosiddetta “perquisizione straordinaria” bisogna che siano riportati immediatamente e formalmente. Ho letto che invece non c’è nulla di scritto, ma il ministro e il parlamento devono conoscere gli elementi oggettivi, anche per evitare al paese pesanti censure. Si sottovaluta il colpo che questa vicenda assesta all’immagine e agli interessi nazionali. Nella riunione di emergenza al ministero è stata decisa la sospensione degli agenti coinvolti. Che però sono indagati da oltre un anno. Il Dap non poteva intervenire prima? In effetti è grave che sia andata in questo modo. Confesso che in un primo momento anche io mi ero posto la domanda se la custodia cautelare per questi agenti non fosse eccessiva, visto che è trascorso tanto tempo dai fatti. Ma quando ho visto che molte delle persone accusate e riprese dalle telecamere in azioni violente erano rimaste nello stesso istituto ho cambiato idea. Forse se fossero stati trasferiti non ci sarebbe stato bisogno di arrestarli. La sensazione di impunità degli agenti ha a che vedere con la sottovalutazione che c’è stata a livello politico dell’emergenza Covid nelle carceri? I detenuti erano terrorizzati, molte proteste si spiegano così, e fuori c’era chi definiva le carceri il luogo più sicuro contro il virus... A partire dalla rivolta di Modena non si è voluto capire cosa ha prodotto la paura del contagio in un ambiente già teso. Il Covid nelle carceri ha creato il panico. L’idea che gli istituti fossero sicuri perché sigillati è crollata di fronte ai primi contagi, come appunto a S. M. Capua Vetere. L’effetto è stato deflagrante. Certamente anche a causa di un discorso pubblico, all’esterno del carcere, assai irresponsabile. Vent’anni dopo Genova, la tortura esiste ancora. Ma ora c’è la legge per punirla di Riccardo Noury* Corriere della Sera, 1 luglio 2021 Tra meno di un mese ricorrerà il ventesimo anniversario del G8 di Genova, dove le forze di polizia si resero responsabili di quella che all’epoca Amnesty International definì “una violazione dei diritti umani di proporzioni mai viste in Europa nella storia più recente”. A Genova, 20 anni fa, nei confronti di persone inermi tanto alla scuola Diaz quanto nella caserma di Bolzaneto, si praticò la tortura: pestaggi violentissimi, atti crudeli come lo spegnimento di sigarette sui corpi dei detenuti, umiliazioni gratuite come l’obbligo di spogliarsi, inginocchiarsi e fare flessioni nudi. Sappiamo com’è andata a finire: quella parola, tortura, ripetuta infinite volte nei dibattimenti giudiziari non trovò spazio nelle sentenze perché nel codice penale non esisteva. Non sarebbe esistita fino al luglio 2017 quando, a seguito di una campagna decennale delle organizzazioni non governative e di una sentenza della Corte europea dei diritti umani, il parlamento colmò un ritardo di quasi 30 anni e introdusse finalmente nel codice penale il reato di tortura. La legge non è perfetta: è ridondante e infarcita di locuzioni e aggettivi inutili, come se il legislatore volesse renderla difficile da applicare. Ma da allora è stata applicata. Due processi, relativi a episodi avvenuti nelle carceri di Ferrara e San Gimignano, si sono chiusi con condanne per tortura. Ieri, accogliendo la richiesta della procura locale, il giudice per le indagini preliminari di Santa Maria Capua Vetere ha disposto l’esecuzione di 52 misure cautelari, molte delle quali nei confronti di agenti della polizia penitenziaria, per vari reati tra cui torture pluriaggravate commesse il 6 aprile 2020 ai danni di numerosi detenuti del carcere locale che avevano avviato una rivolta nei giorni precedenti. Il giudice per le indagini preliminari ha scritto queste parole: “orribile mattanza”. Ricordano la “macelleria messicana” descritta dall’allora vice questore di Genova Michelangelo Fournier a proposito dell’assalto alla scuola Diaz. Nelle chat degli agenti di polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere si parla di “abbattimento di vitelli”. Vent’anni dopo Genova, tra macellerie, mattanze e abbattimenti, pare che passi avanti non siano stati fatti. In realtà, qualcosa è cambiato: ora c’è il reato di tortura e l’auspicio è che sia usato per punire i colpevoli e per evitare il ripetersi di orrori del genere. *Amnesty Italia I Garanti territoriali: “Preoccupazione per i gravi episodi di Santa Maria Capua Vetere” Ristretti Orizzonti, 1 luglio 2021 “Suscitano profondo turbamento e grande preoccupazione i gravi episodi criminosi ai danni delle persone detenute di Santa Maria Capua Vetere, definiti ‘una orribile mattanza’ dal Gip che ha emesso sulla base di plurimi riscontri oggettivi 52 misure cautelari di diversa specie nei confronti dei poliziotti penitenziari e di qualche dirigente individuati dalla Procura come possibili responsabili”. Così la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà. “Che personale addetto alle carceri - prosegue la Conferenza dei Garanti territoriali - abbia potuto, nell’aprile 2020 - secondo l’ipotesi accusatoria - reagire con torture, violenze e intimidazioni di vario genere alle proteste inscenate dai detenuti dell’istituto di pena casertano, in seguito alla scoperta al suo interno di un caso di positività da Covid-19, è un fatto di una gravità inaudita che non può non destare indignazione e allarme, specie in un contesto come quello odierno in cui daremmo ormai pressoché per scontato che il rispetto della vita, dell’incolumità personale, della dignità umana e degli altri diritti connessi sia imposto da obblighi costituzionali inderogabili che non ammettono, in linea di principio, discriminazioni di trattamento tra cittadini liberi e persone recluse per motivi di giustizia”. “Poiché però la realtà effettuale talora continua, purtroppo, a smentire la teorica pretesa che la legalità legislativa e costituzionale debba fungere da stella polare anche della gestione “concreta” delle carceri, riceve - tra l’altro - conferma l’indispensabilità della figura del garante dei diritti dei detenuti, prevista nel nostro ordinamento secondo una articolazione territoriale differenziata (cioè a livello nazionale, regionale e locale): è stata infatti la sollecita e coraggiosa denuncia del garante campano prof. Samuele Ciambriello a rendere note all’autorità giudiziaria competente le violenze subìte dai detenuti”. “Come garanti, ribadiamo pertanto al valoroso collega Ciambriello il nostro apprezzamento e la nostra solidarietà. I plurimi e corposi elementi di prova raccolti dalla Procura competente (attraverso telecamere di videosorveglianza, analisi di chat, sequestri di smartphone ecc.) convergono nell’attestare la serietà delle gravi contestazioni delittuose ipotizzate, e sarà comunque compito dei giudici delle fasi successive vagliarne l’effettivo livello di fondatezza nel massimo rispetto - auspichiamo - di tutte le garanzie processuali. Ma resta il fatto che la magistratura interviene ex post, dopo che le reali o presunte condotte illecite sono state realizzate. Mentre l’attività di prevenzione, sotto diversi aspetti ancora più rilevante, spetta ad altri organi istituzionali individuabili in questo caso nel Dap e nei suoi vertici: i quali dovrebbero - appunto - farsi nel futuro maggiormente carico di orientare la formazione professionale dei poliziotti e di tutto il personale penitenziario alla stregua di modelli culturali, criteri e metodi in grado di inibire alla radice il possibile manifestarsi di una mentalità contrappositiva e di atteggiamenti aggressivo-ritorsivi nei confronti della popolazione detenuta. Mentalità e atteggiamenti tanto più inammissibili, se si considera che al poliziotto penitenziario l’ordinamento vigente affida, oltre al compito di tutelare l’ordine e la sicurezza, quello di partecipare al trattamento rieducativo. È evidente come la possibilità di contemperare in maniera equilibrata le due funzioni suddette richiede un elevato livello di preparazione e professionalizzazione. Sollecitare non solo nel capo e nei dirigenti del Dap, ma in primo luogo nella neoministra Marta Cartabia un supplemento di riflessione e di impegno in vista di una sempre più adeguata formazione culturale di tutto il personale carcerario, appare a questo punto necessario sia per scongiurare il ripetersi di eventi gravi e incresciosi del tipo di quelli verificatisi a Santa Maria Capua Vetere, sia per migliorare più in generale le condizioni complessive della vita detentiva”. “Sarebbe, tuttavia, sbagliato prendere spunto da questa drammatica vicenda casertana per formulare giudizi di generalizzata censura nei confronti dell’intero corpo della polizia penitenziaria, i cui componenti in larga maggioranza sono invece soliti operare nel rispetto delle leggi, con dedizione al lavoro e spirito di sacrificio; sottoponendosi spesso per di più, anche a causa di carenze o mancate coperture di posti in organico, a turni stressanti che producono a loro volta usura fisica e disagi psicologici di varia natura. Ed è giusto, altresì, dare in questo momento atto agli agenti e al restante personale penitenziario di avere molto contribuito, con competenza e scrupolo, a fronteggiare l’emergenza sanitaria, così impedendo una diffusione di contagi intramurari che avrebbe altrimenti potuto assumere proporzioni assai allarmanti”. “Piuttosto che occasione di una ingiustificata e ingenerosa critica a tutto campo, quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dovrebbe, allora, costituire motivo di una rinnovata attenzione politico-istituzionale verso l’intero pianeta-carcere. Ciò ad un duplice, auspicabile scopo. Da un lato, per promuovere quelle iniziative e realizzare quegli interventi che appaiono da tempo necessari per riorganizzare e rendere più moderna ed efficiente l’amministrazione penitenziaria; e, dall’altro, per riprendere il cammino delle riforme, la cui interruzione ha finito col provocare non solo una situazione di stallo, ma anche una delusione di aspettative foriera - a sua volta - di effetti ulteriormente pregiudizievoli nell’esperienza quotidiana di quanti vivono il carcere da reclusi, o vi espletano a vario titolo attività funzionali. Sarebbe, in verità, coerente con gli obiettivi di fondo perseguiti con la riforma della giustizia oggi in discussione concepire una prosecuzione del programma riformistico mirante, in una fase immediatamente successiva a quella della riforma del processo e della prescrizione, a ridurre le distanze tra il carcere così com’è e il carcere così come dovrebbe essere alla luce della Costituzione. Una prospettiva di avvicinamento - conclude la Conferenza dei Garanti territoriali - tra essere e dover essere, questa, che certamente sta molto a cuore all’attuale guardasigilli, mostratasi anche nella sua veste di costituzionalista ed ex presidente della Consulta attenta al tema dei diritti fondamentali, e culturalmente sensibile alla più ampia valorizzazione dei paradigmi della rieducazione e della riparazione quali criteri ispiratori di un sistema sanzionatorio conforme allo spirito del nostro tempo”. Dal carcere, al ddl Zan e alle droghe: così la giustizia torna a polarizzarsi di Errico Novi Il Dubbio, 1 luglio 2021 Dem mobilitati sui pestaggi in cella anche per marcare le distanze dalla Lega. Che fa muro sulla cannabis. Uno guarda il calendario e si rasserena. Il calendario della capigruppo di Montecitorio, non quello gregoriano. Quest’ultimo dice che siamo a luglio e che per il Parlamento è partito il “countdown trolley”, cioè il conto alla rovescia che precede il giorno della grande fuga dei deputati verso le vacanze. Manca un mese e pochissimo più, un margine irrisorio per le riforme della giustizia. Ma appunto il calendario della capigruppo può illudere: ieri infatti la conferenza dei presidenti ha riaggiornato i turni d’Aula, cioè le date di arrivo dei ddl e, pensate un po’, ha fissato al 23 luglio - che comunque non è dietro l’angolo - la discussione sul ddl penale, cioè la riforma più problematica per i Cinque Stelle spaccati. In uno sforzo ulteriore di ottimismo, la capigruppo ha addirittura previsto che tre giorni dopo, lunedì 26 luglio, si passerà al voto. È fatta? Macché: come spiegano dalla commissione Giustizia, dov’è incardinato il ddl su processo e prescrizione, si tratta di un mero automatismo. La data d’arrivo del ddl in Aula era stata fissata al 28 giugno, che ormai è passato. La dicitura “Disegno di legge delega sul processo penale” è lì in elenco e, un po’ burocraticamente, i capigruppo di Montecitorio la ripropongono. Ma dietro il nuovo calendario non c’è alcuna novità concreta. Non ce ne sono in commissione, dove l’esame degli emendamenti non è mai partito, e non ce ne sono da parte del governo, perché gli altri decisivi emendamenti, quelli della ministra Marta Cartabia, non sono ancora stati illustrati al Consiglio dei ministri e difficilmente lo saranno nelle prossime ore. Falso allarme, insomma. La giustizia resta al palo, anzi si balcanizza. Non può affrontare i nodi strutturali del processo penale e del Csm, divaga perciò verso declinazioni che meglio fanno emergere le distanze fra destra e centrosinistra. Il carcere, innanzitutto. Ieri, prima ancora che Cartabia sferrasse il proprio colpo durissimo (di cui si dà conto in altro servizio, ndr) sull’ “oltraggio alla dignità della persona e della divisa” perpetrato coi pestaggi di Santa Maria Capua Vetere, il pm aveva le chiesto di riferire in Parlamento su quegli “abusi intollerabili”. Il segretario Enrico Letta ha detto a Domani che i dem sono “profondamente indignati per le violenze degli agenti”. È, sì, la naturale sensibilità della maggiore forza progressista sui diritti dei detenuti, ma è anche un modo per segnare le distanze dalla destra. Sulla mattanza in carcere, Matteo Salvini pensa bene di esibirsi, oggi, in una visita agli agenti del penitenziario campano “per portare la mia solidarietà” (sic!), e si rifiuta, come la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, di rilasciare altri commenti sulle violenze. Con la propria vigorosa indignazione, il Nazareno insomma ricorda che esiste pur sempre una giustizia di sinistra lontana da quella dei partiti legge e ordine, partiti dei quali il Pd pure è alleato nel governo Draghi. Sono diversivi nella pausa delle riforme causata dalla crisi grillina. E se ne possono fare altri esempi. Nella commissione Giustizia della Camera in cui non c’è ombra di convocazioni su penale e Csm, ci si divide ancora, fra il centrodestra e le altre forze, a proposito di legge sulle droghe. Tanto che il deputato del Carroccio Jacopo Morrone lascia l’incarico di relatore al 5 stelle che della commissione è presidente, Mario Perantoni, e lo fa in polemica con quello che per lui è un deragliamento antiproibizionista: il leghista era per il testo del suo capogruppo a Montecitorio Riccardo Molinari, tutto centrato sull’inasprimento delle pene; Pd e 5 stelle sono più attratti dalle proposte che prevedono anche la coltivazione legale della cannabis. Perantoni assicura che si sforzerà di trovare un punto di equilibrio. Ma è chiaro come destra e sinistra, sulle droghe, siano abbastanza lontane da rendere ancora più sbilenca la reciproca convivenza sotto lo stesso governo. Vogliamo continuare? Spostiamoci un attimo a Palazzo Madama, dove le solite indicibili difficoltà permangono per il ddl Zan: in teoria domani scadrebbe il termine per gli emendamenti, in pratica il tavolo di maggioranza riunitosi ieri ha lasciato addosso al presidente della commissione Giustizia, Andrea Ostellari della Lega, la croce di un’improbabile sintesi tra favorevoli e contrari, da presentare al nuovo summit di martedì. Visto il clima di sospetti e diffidenze che l’implosione pentastellata sembra esasperare fra destre, moderati e progressisti, è difficile intravedere schiarite per la legge antiomofobia. Volete un lapsus? Rieccoci di nuovo alla Camera. A mostrare quanto la banalità dell’episodio sia spesso rivelatrice è un tweet del deputato Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione: “Il voto sul testo base della legge eutanasia è saltato. Motivo? La sala individuata era troppo piccola per contenere tutti i deputati delle commissioni Giustizia e Affari sociali e la seduta è stata sciolta. Non stupiamoci se fanno i referendum”. Ultima chiosa: “Si può essere favorevoli o contrari al testo proposto, ma è sconcertante che il voto su una materia così delicata dipenda da ragioni logistiche”. Ma appunto, dietro il rischio assembramenti si nascondono in realtà contrasti pure su quel dossier. Infine, è slittato ad oggi il termine per gli emendamenti, sempre in commissione Giustizia alla Camera, sull’equo compenso: la legge che tutela le retribuzioni dei professionisti, e degli avvocati in particolare, è a trazione FdI-Lega-FI, eppure è tra le poche materie che, come ricordato da Perantoni, mette d’accordo tutti, grillini inclusi. Ma figuriamoci se, col caos e l’isteria che regnano sovrani, su quell’unico dossier condiviso ci si poteva aspettare un’ansia di far presto. Riforma giustizia, Guglielmi: “Le toghe italiane rischiano l’effetto museruola” di Liana Milella La Repubblica, 1 luglio 2021 La segretaria di Magistratura democratica, alla vigilia del congresso di Firenze, lancia l’allarme sul rischio che in Italia prevalgano atteggiamenti repressivi nei confronti delle toghe. Un giudizio netto contro i referendum radical-leghisti, mentre ci sono valutazioni positive sulle riforme della Guardasigilli Cartabia, dall’ufficio del processo alla giustizia riparativa. Nel mare in tempesta della giustizia, Magistratura democratica, la storica corrente di sinistra delle toghe, d’ora in avanti navigherà da sola. Nella pienezza del suo lungo passato. Nella certezza che, soprattutto in questo momento, ci sia bisogno di chi è convinto che i giudici italiani potrebbero rischiare in futuro l’effetto “museruola”, dal nome della legge che in Polonia è stata battezzata così e che punisce con sanzioni disciplinari i magistrati che osano parlare criticamente delle riforme della giustizia del loro paese. Maria Rosaria Guglielmi, “Maro” per gli amici, la pm di Roma scelta da poco dal Csm come sostituto procuratore europeo, segretaria uscente di Md, paventa la “museruola” non certo per mano della Guardasigilli Marta Cartabia, da cui anzi arrivano idee riformatrici che condivide come quella sull’ufficio del processo e sulla giustizia riparativa, ma quando assiste agli attacchi della destra contro il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia e quando scorre i temi dei sei referendum radical-leghisti, e ancora quando si materializza l’attacco alla giurisdizione che sfrutta a suo uso e consumo il caso Palamara. A dieci giorni dal congresso di Magistratura democratica, che si svolgerà a Firenze dal 9 all’11 luglio nel palazzo dei congressi, “Maro” Guglielmi rende pubblica la sua relazione. Venti pagine pubblicate su Questione giustizia, la rivista online di Md diretta dall’ex avvocato generale della Cassazione Nello Rossi, con le due vice Ezia Maccora e Rita Sanlorenzo, la prima presidente aggiunta dei gip di Milano, la seconda sostituto procuratore generale della Suprema Corte, due toghe “rosse” da sempre. Rivista che, in queste settimane, ha affrontato più volte il tema dei referendum e degli aspetti potenzialmente critici delle riforme di Cartabia, come nel caso del gip che vigila sul pm per l’iscrizione del reato e può costringerlo a farla. Dopo una lunga stagione al vertice delle toghe “rosse” Guglielmi passerà la mano. Ma a chi prenderà il suo posto consegna dei presupposti fermi. Innanzitutto il cammino autonomo di Md che si lascia definitivamente alle spalle la pagina di Area, il cartello di sinistra della magistratura, che univa sia Md sia il Movimento per la giustizia, la corrente dell’ex procuratore di Torino Armando Spataro per intenderci, ma che vedeva al suo interno anche degli “areisti” puri, non iscritti a nessuna delle due correnti. Nata come cartello elettorale, Area è divenuta un soggetto autonomo, dove più di un protagonista ha chiesto e spinto perché Md decidesse di sciogliersi. Ma Md non ne aveva alcuna intenzione. Chi aveva la doppia tessera ha lasciato quella di Md, come alcuni componenti del Csm, ma Md ha deciso di andare avanti. E in questo congresso spiegherà come intende proseguire il suo cammino da sola. Perché, come dice Guglielmi, “vuole fare la sua parte, in quanto molte sfide attuali sui diritti, sulla democrazia, sui cambiamenti culturali della magistratura, che rivelano tendenze corporative, richiedono la sua presenza”. E conviene partire da quell’immagine della “museruola” - che certo fa impressione - per descrivere sommariamente i contenuti della relazione di Guglielmi. Da sempre magistrata impegnata anche in Medel, il gruppo che raccoglie le toghe di sinistra in Europa. Toga dalla visione internazionalista, che tante volte ha denunciato la cancellazione dei diritti in Turchia anche per gli stessi giudici messi in galera, attenta al destino degli ultimi, come i 13mila migranti respinti in Libia quest’anno, paese sul libro nero “per le gravissime violazioni dei diritti fondamentali, con i campi di detenzione arbitraria e la tortura”. “A chi oggi vorrebbe museruole e bavagli, dobbiamo ricordare che non siamo in Polonia, non siamo in Ungheria, non siamo in Turchia” scrive Guglielmi. “Siamo in uno Stato di diritto. E ci aspettiamo di trovare un fronte ampio di difesa sul diritto di parola: dall’avvocatura, donne e uomini della parola, a tutti coloro che hanno a cuore la democrazia”. L’episodio che ha sconvolto Guglielmi è quello dell’attacco della destra, di Salvini, al presidente dell’Anm Santalucia, che aveva parlato di “ferma reazione” dei giudici di fronte ai referendum radicali-leghisti. Parliamo di quelli che vogliono la separazione delle carriere, la responsabilità diretta dei giudici, la cancellazione della legge Severino sull’incandidabilità di chi è condannato, ma anche un’attenuazione della custodia cautelare. Secondo Guglielmi quella levata di scudi mette a rischio la libertà dell’Anm e quindi degli stessi giudici. Tant’è che lei ricorda come proprio l’Anm “sia stata già sciolta dal fascismo che ne perseguitò i dirigenti”. Da qui si arriva alle leggi “museruola”, Polonia, Ungheria, Turchia, e a quello che “può succedere quando si nega il diritto di parola e quello di associarsi ai magistrati, ai giornalisti, agli avvocati, ai cittadini”. Ma non si esaurisce certo in questo “allarme” la relazione di Guglielmi. Che necessariamente parte dal caso Palamara, stretto nella polemica “sempre più inestricabile fra cause irrisolte delle degenerazioni e delle cadute, analisi incompiute e letture strumentali, proposte di cure sbagliate, tentativi di rinnovamento di facciata e progetti concretissimi, capaci di travolgere l’assetto costituzionale voluto a tutela di una giurisdizione indipendente”. Oggi Guglielmi vede “una magistratura che appare immobile, percorsa da divisioni e contrapposizioni al suo interno, incapace di dare segnali riconoscibili di una svolta unitaria verso il necessario cambiamento”. Ma soprattutto non vede “un’assunzione di responsabilità collettiva rispetto alla necessità di affrontare i tanti nodi venuti al pettine”. Certo è che la crisi esiste, come dimostra “la frequenza di indagini per fatti gravi e gravissimi che coinvolgono giudici e pm” che esigerebbe “risposte immediate agli inquietanti interrogativi sull’attualità, gravità e ampiezza della nuova questione morale”. Ma quali sarebbero le risposte giuste? Non certo quelle che “si esauriscono nelle sanzioni penali e disciplinari”. Urge invece una riflessione “sugli scenari che si intravedono dietro inchieste, arresti, contesti ambientali nei quali fatti e condotte si collocano, e sulla necessità di fare luce su tutte le zone d’ombra dove si annidano i fattori di degenerazione”. Perché il rischio è che venga intaccata “l’imparzialità della giurisdizione e la fiducia della collettività nell’imparzialità del giudizio e delle decisioni”. Come dimostra il tentativo “di chi teorizza l’esistenza di un sistema e in questa chiave riscrive anche la storia di indagini e processi”. Quasi che ad indagare ed emettere sentenze sia stata una magistratura ideologizzata e quindi politicamente orientata. E qui Guglielmi lancia il suo messaggio ai colleghi delle altre correnti, perché “ogni gruppo deve fare i conti con il suo passato e rileggere in questa chiave la sua storia, interrogandosi sulle degenerazioni subite con la nascita di potentati; le dinamiche interne e le condotte nell’autogoverno comunque condizionate dall’obiettivo di acquisizione del consenso e di rafforzamento di presenza nei territori e negli uffici; il consolidamento di posizioni di potere individuale di singoli, sino ad arrivare alle zone d’ombra e di incontro con i poteri esterni”. Md, dice Guglielmi, ha già fatto la sua parte, assumendosi le necessarie responsabilità. Adesso tocca agli altri farlo. Caso Mottarone. Il Consiglio giudiziario: “Illegittima la sostituzione del Gip di Verbania” di Giulia Merlo Il Domani, 1 luglio 2021 Il parere, che però aggiungerebbe anche che la gip avrebbe sbagliato nell’auto-assegnarsi quel fascicolo, verrà inviato al Csm dove è già aperta una pratica. La gip Banci Bonamici: “Mi sono assegnata procedimento d’accordo con presidente, come già centinaia di volte”. La sostituzione del gip nel caso del crollo della funivia del Mottarone non è stata corretta. A scriverlo è stato il consiglio giudiziario di Torino (l’organo territoriale di autogoverno della magistratura, una sorta di mini Csm), che ha esaminato la decisione del presidente del Tribunale di Verbania Luigi Montefusco di sostituire la gip Donatella Banci Buonamici con la gip Elena Ceriotti per ragioni “tabellari”. Il ragionamento del consiglio giudiziario è più articolato, però: la gip non avrebbe seguito la procedura corretta nell’auto-assegnarsi quel fascicolo, tuttavia una volta assegnato non avrebbe potuto venirle tolto per le ragioni addotte dal presidente del tribunale. Sarebbe infatti, stato violato il cosiddetto principio di concentrazione, ovvero quello che prevede che - una volta che l’assegnazione di un fascicolo è avvenuta e un gip ha preso una decisione - quel fascicolo resti nelle mani dello stesso giudice per tutto l’iter giudiziario, in questo caso delle indagini preliminari. Il parere ora verrà inviato al Consiglio superiore della magistratura, dove è già aperta una pratica sulla questione per valutare sia la liceità della scelta del presidente del tribunale che eventuali profili disciplinari. Davanti al consiglio giudiziario, che aveva ricevuto memorie scritte sia dalla gip che dal presidente del tribunale di Verbania, entrambe le parti in causa sono state ascoltate di persona. La posizione della gip - Il consiglio giudiziario ha valutato la condotta di entrambi e ha valutato anche che la gip Banci Bonamici avrebbe sbagliato nell’auto-assegnarsi il fascicolo. Una valutazione che non è stata condivisa dalla diretta interessata, che ha rilasciato diverse dichiarazioni sul punto, dando la sua versione dei fatti e specificando che quel fascicolo lei lo ha gestito in accordo proprio con il presidente del tribunale che poi glielo ha tolto. “Mi sono assegnata procedimento d’accordo con presidente, come già centinaia di volte”, ha dichiarato, aggiungendo che “La cosa chiara è che il fascicolo non mi poteva essere tolto. Che mi si dica che non potevo fare il gip è un’accusa falsa, infamante, lesiva della mia dignità”. La gip ha infatti spiegato che in un piccolo tribunale come Verbania, dove i togati sono pochi, tutti esercitano sia le funzioni di giudice per le indagini preliminari che di giudici per il dibattimento. Inoltre Banci Bonamici ha esercitato funzioni esclusivamente di gip per 13 anni al tribunale di Milano occupandosi di mafia e terrorismo, “dunque sono assolutamente qualificata per esercitare quel ruolo”. Ha aggiunto che il fascicolo con la richiesta di convalida del fermo con custodia cautelare in carcere dei tre indagati per i fatti della funivia “è arrivato alle 6 di sera, ho autorizzato l’apertura della cancelleria perché era chiusa, non c’era nessuno. Mi sono consultata con il presidente che non c’era, avevo i termini che scadevano sabato alle 18 e d’accordo con il presidente, come ho fatto in altri centinaia di casi, ed è documentato, mi sono, nelle mie facoltà presidenziali, assegnata il procedimento e ho provveduto nei termini su una convalida con due, tre persone che erano da 96 ore in stato di custodia cautelare”. In sostanza, dice Banci Bonamici, lei era sola in tribunale, i termini stavano per scadere e due persone erano in carcere da quattro giorni: bisognava decidere in tempi rapidi e lei ha provveduto, decidendo per la scarcerazione. La posizione del pg Saluzzo - Al pasticcio al tribunale di Verbania si aggiungerebbe un ulteriore dato che riguarda il procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo (che è parte del consiglio giudiziario che ha preso la decisione). Secondo una ricostruzione del Riformista, infatti, esisterebbe una mail che Saluzzo avrebbe inviato al presidente del tribunale di Verbania per esercitare pressioni contro la gip Banci Buonamici. Della mail esisterebbero conferme che provengono da fonti vicine al Consiglio superiore della magistratura, tuttavia Saluzzo nega categoricamente qualsiasi tipo di coinvolgimento nella questione e aggiunge: “?Eserciterò le azioni giudiziarie nei confronti di chiunque abbia fatto queste affermazioni”. Reggio Calabria. Detenuti, parla la Garante comunale: le persone prima delle “carte” di Federico Minniti Avvenire di Calabria, 1 luglio 2021 Giovanna Russo, è la Garante per i diritti dei detenuti. Si occupa delle “libertà” dei carcerati. In apparenza può sembrare un ossimoro, ma l’impegno ci dice altro. Dietro l’abito da avvocato, c’è un “occhio materno”. Entrata in sordina, durante l’emergenza pandemica, si sta affacciando al dibattito pubblico distinguendosi per determinazione e stile. Il 12 giugno è stata tra le prime reggine ad accogliere il nuovo arcivescovo di Reggio Calabria - Bova, monsignor Fortunato Morrone, in occasione della sua visita presso il carcere di Arghillà. Perché una giovane donna reggina decide di fare il Garante per i diritti dei detenuti? Una domanda intensa che spiega il senso dell’intera intervista. Proverò in poche semplici parole a esporlo. Ho sempre trovato il senso di ciò che faccio quando il mio operato è utile a far valere i diritti altrui. Studiare Legge mi ha portato a sviluppare ulteriore sensibilità ai diritti degli ultimi ed a dar voce alle loro legittime pretese. La mia forte vocazione alla difesa dei soggetti più fragili e vulnerabili ha definito il quadro. Reggio è la città nella quale ho scelto di rimane perché sono fermamente convinta che con spirito di sacrificio, serietà, abnegazione, collaborazione su più livelli, rispetto delle competenze altrui e occhio materno si possano ottenere grandi risultati. Ci può raccontare una giornata “da Garante”. Quali sono le attività che ordinariamente portate avanti? Il garante cittadino si muove tra impegni istituzionali al fine di promuovere e dare il giusto impulso al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute, allo sport, per quanto nelle attribuzioni e competenze del comune. Opera per migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà personale e l’aspetto più delicato sono le visite nei luoghi di detenzione ed i colloqui. È lì che incontri il volto dell’uomo smarrito, delle paure che si agitano nell’animo di ciascun recluso. È lì che devi spogliare te stesso e porti sempre la domanda: e se fossi io? Il superamento cui un garante deve sempre tendere è sapere che qualunque sia il reato commesso dal detenuto, risponde a principi ben più nobili: la tutela dei loro diritti in quanto essere umani. Sabato 12 giugno, ha accolto l’arcivescovo Morrone nel carcere di Arghillà. Quali sono state le sue emozioni di quel momento? Emozionata e felice perché ho assistito all’importanza che l’arcivescovo Morrone ha prestato ai detenuti. Cella per cella, mano per mano, incrociando gli occhi ed i volti di chi spesso è troppo solo. Ci siamo abituati a scartare, non ad educare e la prima visita ricaduta sul plesso penitenziario di Arghillà segna l’avvio di un concreto apostolato. Il ministero di “speranza” nelle carceri dove mi auspico, in tal senso ho già ricevuto il conforto di alcuni sacerdoti della città, che le parrocchie accompagnino con numerose iniziative i detenuti. Non senza difficoltà certo, ma si realizzerebbe un notevole supporto alle famiglie dei detenuti accompagnandoli in questo periodo di grande prova. Dalla detenzione alla redenzione, non mi stanco mai di ripeterlo. La cittadinanza come può cooperare con le Istituzioni per favorire i processi di riscatto sociale di chi vive una misura detentiva? Reggio è una città difficile e la diffidenza iniziale del reggino spesso le fa da padrona. Io però credo che da qualche tempo sta soffiando il vento del cambiamento. C’è buona parte della cittadinanza che vuole conoscere le realtà e soprattutto essere protagonista del nuovo, di ciò che verrà. Importante in questo spazio di inversione di rotta, non mi stanco di ripeterlo, saranno le relazioni tra istituzioni ed il rispetto dei ruoli e dell’operato altrui. Si sta lavorando alla stesura di alcuni protocolli ed altre attività che vedranno Reggio protagonista di una riforma di umanizzazione dei processi sociali. Anche Roma guarda al futuro di Reggio Calabria. Ma questo è un tema di cui parleremo presto. Milano. Detenuti coinvolti nella manutenzione e tutela del verde pubblico nova.news, 1 luglio 2021 A breve verrà stipulato il protocollo d’intesa tra il Comune di Milano e il ministero della Giustizia. Coinvolgere i detenuti che ne facciano richiesta in attività di tutela e valorizzazione del patrimonio pubblico, verde in particolare, come occasione di reinserimento sociale, opportunità di formazione e recupero rieducativo, anche in una prospettiva di avvicinamento al mondo del lavoro. Queste le finalità del Protocollo d’intesa che verrà stipulato a breve tra il Comune di Milano e il ministero della Giustizia - Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria - e di cui l’amministrazione ha approvato le linee guida. Un percorso in linea con le finalità rieducative della pena sancite dalla Costituzione, volto anche a ridurre il rischio di recidiva per le persone detenute consentendo, in sinergia con la magistratura e con gli enti territoriali, l’individuazione di progetti di più ampia riabilitazione e reinserimento sociale. Si partirà con il coinvolgimento diretto di 20 detenuti all’anno (il Protocollo avrà durata triennale) nelle attività di associazioni di volontariato e del Terzo settore che già operano nelle zone individuate per potenziare interventi di gestione ordinaria e straordinaria di aree pubbliche verdi, a partire dal parco di Porto di Mare, nel quartiere di Rogoredo e Santa Giulia. Prima di iniziare il lavoro, i volontari verranno inseriti in un percorso formativo e di orientamento volto a sviluppare le competenze necessarie per poter svolgere la mansione di operatore del verde, attraverso una parte di formazione teorica e una successiva di tirocinio. Il coinvolgimento di soggetti volontari per la tutela del parco di Porto di Mare fino a questo momento ha fatto conseguire risultati apprezzabili nel recupero di ampie aree, oggi pienamente fruibili dai cittadini in modo sicuro. Nel tempo, si è consolidato un rapporto di collaborazione molto virtuoso tra il Comune e diverse associazioni particolarmente attive nella cura del verde e in contesti di rigenerazione urbana (come il Cfu - Centro di riforestazione urbana di Italia nostra e Associazione giacche verdi), che contribuiscono in modo efficace a organizzare e promuovere attività di coesione sociale, volontariato e di educazione civica. Napoli. Storia di Mirea, la scultrice che è “nata” a Nisida di Francesca Sabella Il Riformista, 1 luglio 2021 Dal carcere minorile di Nisida alla scoperta dell’arte della scultura e di un talento straordinario: è la storia di Mirea raccontata nell’omonimo docufilm realizzato dal regista Salvatore Sannino e prodotto dalla Fondazione Banco di Napoli, guidata dalla presidente Rossella Paliotto. In questi frame Mirea fa rima di riscatto, speranza e rinascita. È la storia di chi è riuscito a immaginare oltre le sbarre della cella una nuova vita e ha avuto il coraggio di inseguirla. “L’idea è nata mentre frequentavamo il carcere minorile di Nisida - racconta Sannino - Lì abbiamo visto che, laddove esistono istituzioni capaci e famiglie che seguono i propri figli, la possibilità del riscatto esiste”. Mirea vuole anche distruggere gli stereotipi di una Napoli che non lascia scampo e dove chi nasce in un posto ha già un destino scritto. “Abbiamo raccontato il riscatto di una giovane donna con delle immagini che vanno contro la narrazione che solitamente si alimenta su Napoli, fatta solo di delinquenza, omicidi e assenza delle istituzioni - prosegue il regista - Ecco, Mirea è un atto di speranza verso i giovani e verso la nostra città”. La pellicola è stata finanziata e prodotta dalla Fondazione Banco di Napoli, sempre attenta al sociale e alle problematiche che affliggono la città. “È una storia meravigliosa - commenta la presidente Rossella Paliotto - che racconta la scoperta di un talento durante la detenzione rieducativa. Mirea, infatti, scopre di essere un’artista mentre sconta la sua pena in carcere e lo scopre con l’aiuto del maestro Lello Esposito”. L’artista napoletano, famoso in tutto il mondo per le sue opere che interpretano l’iconografia partenopea, trascorre molto tempo nell’istituto penitenziario cercando di insegnare i segreti della scultura ai giovani detenuti. “Nisida è e deve essere un’occasione per questi ragazzi di riscattarsi - racconta Esposito - Mirea, attraverso l’arte, ha trovato la sua strada, è diventata un’artista e ha vissuto in qualche modo anche l’infanzia perduta: attraverso la cultura si rinasce”. Un messaggio di speranza e di coraggio, dunque, ma anche la dimostrazione che, quando le istituzioni sono presenti, i risultati arrivano e tanti ragazzi si lasciano alle spalle una vita che non avrebbe riservato loro nulla di buono. “Il ruolo delle istituzioni è fondamentale e deve essere sinergico. Ognuno deve fare la sua parte - afferma Paliotto - E poi vorrei sottolineare che la pena non deve essere solo la privazione della libertà, ma anche un’occasione per aiutare i ragazzi in questa loro adolescenza così difficile e insegnare loro dei mestieri affinché, usciti da Nisida, non ripetano gli stessi errori: solo l’inclusione lavorativa e l’autonomia economica possono tenerli lontano da certi ambienti”. Mirea è una ragazza con un passato difficile e un presente tutto da riscrivere: a interpretarla è Giovanna Sannino. “È stato un impegno importante dal punto di vista emotivo - racconta la giovane attrice - In questa pellicola doniamo quello che abbiamo ricevuto da Nisida e lanciamo un messaggio di speranza: con sofferenza e attraversando un percorso lungo e tortuoso, si può vincere”. Cagliari. Teatro-carcere, i detenuti emozionano il pubblico con “Arcipelaghi” sardegnareporter.it, 1 luglio 2021 Grande emozione ieri pomeriggio nella biblioteca della Casa circondariale di Uta dove venti detenuti/attori, sotto la direzione di Pierpaolo Piludu e Alessandro Mascia, registi e drammaturghi del Cada Die Teatro, hanno messo in scena “Arcipelaghi”, un racconto forte e importante, di violenza, vendetta e omertà, ma anche di debolezze e difficoltà che possono spingere qualsiasi essere umano a compiere azioni delittuose. Lo spettacolo conclude la terza edizione del progetto nazionale “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere con la cultura e la bellezza”, promosso da Acri (Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio) e sostenuto da 10 Fondazioni bancarie, tra cui la Fondazione di Sardegna e che da 3 anni coinvolge circa 250 ospiti degli istituti penitenziari di 12 carceri italiane in percorsi di formazione artistica e professionale nei mestieri del teatro. “Siamo qui in questi corpi privati della libertà che si muovono in ristretti confini, che premono, che ci spingono e a volte ci affogano. Siamo qui ma in fondo liberi, liberi dentro, liberi di viaggiare ogni volta con la mente, liberi di volare con la fantasia, liberi di sentirci ancora uomini liberi”. Sono le note della canzone scritta e musicata da due dei partecipanti ai laboratori che chiude lo spettacolo. Accanto alla recitazione e alla drammaturgia, i detenuti/attori hanno potuto frequentare i seminari di musica e scenografia, tenuti rispettivamente da Giorgio Del Rio e Marilena Pittiu. Il risultato è una messa in scena interessante e credibile. C’era l’emozione nei volti degli attori e dei musicisti, certamente anche la paura di sbagliare, ma di sicuro la consapevolezza di star facendo qualcosa di importante, soprattutto per se stessi. Oltre ai dirigenti del carcere, ai docenti del Cpia 1 di Cagliari e agli agenti di polizia penitenziaria, ha potuto assistere allo spettacolo anche un gruppo di altri detenuti che non hanno fatto mancare il loro supporto ai compagni sul palco. Roma. “Un calcio per la libertà”: l’iniziativa per i giovani detenuti di Casal del Marmo di Valerio Marcangeli cittaceleste.it, 1 luglio 2021 L’iniziativa ideata dall’Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria in collaborazione con l’Associazione Culturale Litorale Romano. Nel pomeriggio di ieri i è andato in scena un quadrangolare di solidarietà nell’istituto penale minorile di Casal del Marmo. “Un calcio per la libertà”, questo il nome dell’iniziativa ideata dall’Associazione Nazionale Polizia Penitenziaria (Anppe) in collaborazione con l’Associazione Culturale Litorale Romano e resa possibile dalla direttrice dell’istituto, Maria Teresa Iuliano il comandante Rosario Moccaldo, gli educatori della struttura e gli organi di vigilanza che hanno sorvegliato l’iniziativa per l’intero pomeriggio. Solidarietà per i giovani detenuti - Prima del calcio d’inizio, il responsabile dell’evento e appartenente all’Anppe, Luigi Zaccaria, ha voluto parlare così a cuore aperto ai giovani detenuti: “Siamo convinti che da un evento sportivo può nascere qualcosa di importante. Il decalogo dello sportivo è dentro ognuno di noi, una persona che ama il proprio corpo può dare tanto. Magistrati e poliziotti sono qui per dare un segnale chiaro: la giustizia esiste. Non è vero che fuori dal carcere non ci sono opportunità. Oggi potevamo andare tutti al mare, invece siamo qui per dirvi che all’esterno c’è una società che funziona che vi può sostenere”. Al signor Zaccaria hanno fatto seguito il segretario nazionale dell’Associazione Nazionale Magistrati, il dottor Salvatore Casciaro, e il direttore generale del dipartimento di giustizia minorile, il signor Giuseppe Cacciapuoti, con il seguente messaggio: “Sport, sicurezza e legalità, questi sono i temi principali di questa iniziativa. Sport è disciplina e rigore oggi, qui, vogliamo far comprendere che il mondo è pronto a offrirvi una seconda opportunità”. Wilson tra le vecchie glorie - Presenti anche alcune vecchie glorie del calcio come Gigi Corino, ex Lazio, Carlo Cherubini ex Fiorentina e attuale procuratore, e infine l’ex capitano della Lazio del primo scudetto, Pino Wilson, il quale si è espresso così sull’evento: “Un onore partecipare a tale iniziativa. Da parte mia c’è tutta la voglia di supportare questi eventi. Spero che organizzazioni del genere possano ripetersi spesso per aiutare questi ragazzi”. Tutti in campo - Dopo le dichiarazioni largo al quadrangolare che è consistito in gare da mezz’ora (due tempi da 15 minuti) tra l’Anppe, l’Anm, le vecchie glorie coadiuvate da alcuni ragazzi dell’Astrea, società di Eccellenza e una selezione dei giovani detenuti dell’istituto di Casal del Marmo. A trionfare nel rettangolo verde sono stati i magistrati, ma i giovani detenuti sono stati elogiati senza sosta con applausi e cori dai coetanei dell’istituto recatisi a bordocampo per fare il tifo. In seguito alle partite andate in scena sotto il sole cocente della capitale largo alle premiazioni con coppe e targhe. L’evento è terminato con un rinfresco, in un pomeriggio ricco di gioia, solidarietà e senza pregiudizi nell’IPM di Casal del Marmo. Parità di genere. Le donne hanno bisogno di risultati e non di retorica di Melinda French Gates* Corriere della Sera, 1 luglio 2021 Leader e attivisti sono a Parigi per iniziare a dare forma concreta alle promesse di 26 anni fa a Pechino. Ventisei anni fa, gli attivisti per la parità di genere si riunirono a Pechino in occasione di una conferenza mondiale decisiva dedicata alle donne e alle ragazze per difendere una rivendicazione semplice: “i diritti delle donne sono diritti umani”. In risposta, i leader mondiali si impegnarono a “promuovere l’indipendenza economica delle donne” e ad “adottare tutte le misure necessarie per eradicare qualsiasi forma di discriminazione contro le donne”. Ma a tali annunci non seguirono nuovi mezzi finanziari né politiche di grande impatto. Per questo motivo, malgrado i graduali passi avanti compiuti, ciò che era vero nel 1995 resta vero ancora oggi: non importa dove nasci, la tua vita sarà più dura se sei una donna o una ragazza. Tra il 30 giugno e il 2 luglio quest’anno, a Parigi e online in tutto il mondo, attivisti e leader si riuniscono di nuovo, questa volta per iniziare a dare una forma concreta alle promesse formulate una generazione fa a Pechino. Mi unirò a loro in occasione del Generation Equality Forum che ci permetterà, lo spero, di cominciare finalmente a colmare il divario tra ambizioni e azioni. Questo significa assumersi importanti impegni di finanziamento, creare programmi di politiche basati sui fatti per garantire che il cambiamento avvenga per davvero, e giungere a un piano condiviso che permetta a tutti di sentirsi responsabili dei risultati. La pandemia di Covid-19, che ha costretto il Forum a celebrare il venticinquesimo anniversario della conferenza di Pechino con un anno di ritardo, ha brutalmente evidenziato la necessità di cambiamento. Quando si è scatenata la pandemia, il rischio di perdere il proprio posto di lavoro era quasi doppio per le donne rispetto agli uomini. In parte, ciò è dovuto al fatto che le donne sono sovra-rappresentate in quelle professioni che più duramente sono state colpite dalle misure di distanziamento sociale, negli ambiti per esempio della ristorazione e del turismo. Ma in parte ciò è anche dovuto al fatto che, con la chiusura delle scuole e una maggior presenza a casa, la domanda di cura dei bambini e di altre forme di lavoro domestico non retribuito è salita alle stelle, e sono state principalmente le donne a soddisfare tale domanda. Già prima le donne svolgevano circa tre quarti del lavoro non retribuito; ora la ripartizione del lavoro è ancor più asimmetrica e alcune donne sono state persino costrette ad abbandonare completamente la propria attività professionale. In molti Paesi, l’economia sta iniziando a riprendersi, ma questo non vale per le donne. Recenti dati dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro indicano che mentre gli uomini, considerati come gruppo, hanno già praticamente recuperato tutti i posti di lavoro andati persi dall’inizio della crisi sanitaria attuale, le donne continuano a perdere il lavoro. Quest’anno, altre 2 milioni di donne perderanno il proprio lavoro, andando a sommarsi ai 9 milioni di donne disoccupate dal 2019. Questi dati mettono in luce la fragilità latente di un’economia mondiale basata sul fatto che molte donne hanno due lavori, uno retribuito (solitamente meno rispetto agli uomini) e un altro svolto gratuitamente. Poiché gli ostacoli all’avanzamento delle donne indeboliscono l’economia, eliminare tali ostacoli la rafforzerà: una ripresa basata sulla parità di genere non permetterà solamente di rimettere in marcia la crescita del Pil nel breve termine, ma aiuterà anche a gettare le basi di una prosperità sostenibile, dando valore all’energia, alla creatività e allo sconfinato potenziale di metà della popolazione mondiale. Ad esempio, recenti studi dell’Eurasia Group dimostrano che ripensare i programmi statali di trasferimento di fondi a beneficio diretto delle donne potrebbe far uscire dalla povertà fino a 100 milioni di persone, innescando reazioni a catena positive per molte generazioni future. Tali ricerche indicano inoltre che garantire l’accesso ai servizi di cura dei bambini potrebbe tradursi in un aumento fino a 3 mila miliardi di dollari del Pil mondiale. Secondo le stime di McKinsey, focalizzare gli sforzi per la ripresa sulle donne potrebbe, nel tempo, generare una crescita del Pil mondiale di circa 13 mila miliardi di dollari, equivalenti al 16%, da qui al 2030. Perché quando le donne prosperano, prosperano a cascata anche le loro famiglie e le loro comunità. Per la prima volta nella storia, quest’anno i governi del G20 sotto la presidenza italiana hanno firmato la Dichiarazione di Roma e hanno concordato di rendere i bisogni delle donne una priorità nella risposta globale e coordinata alle pandemie. Questo è un passo fondamentale per rendere più inclusivo il modo in cui gestiremo le future crisi globali. Per riassumere, la parità di genere è una necessità economica. Le previsioni mondiali per una ripresa durevole dopo la crisi di Covid-19 dipendono dalla nostra capacità di cogliere l’occasione per fermare la marginalizzazione delle donne e delle ragazze. Ed è per questo che l’obiettivo del Generation Equality Forum deve essere il passaggio dalla retorica ai risultati. A sostegno di questa importante missione, la Bill & Melinda Gates Foundation investirà 2,1 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni, in tre degli ambiti ai quali il Forum è dedicato: empowerment economico; pianificazione familiare e salute delle donne; donne nella leadership. In collaborazione con i nostri partner, lavoreremo affinché le liquidità arrivino nelle tasche delle donne e sosterremo le donne che assistono le persone malate, attraverso lo sviluppo di nuovi e migliori metodi di contraccezione, assicurando che le donne vi abbiano accesso, nonché monitorando che nell’ambito sanitario, economico e giuridico vi sia un’equa rappresentanza delle donne a livello manageriale, perché possano pesare sui processi decisionali che determinano il domani. Ventisei anni fa, le persone riunite a Pechino condividevano una visione di parità per il futuro e strapparono al mondo delle promesse. Ma troppo spesso le promesse fatte alle donne sono promesse non mantenute. Oggi abbiamo una seconda chance. Abbiamo bisogno di impegni decisivi e di un’assunzione di responsabilità da parte dei leader rispetto al futuro, per garantire che, per le nostre figlie e le nostre nipoti, la vita di una donna non sarà più dura di quella di un uomo. Così facendo, la vita sarà migliore per tutti. *Co-presidente della Bill & Melinda Gates Foundation Ddl Zan, è muro contro muro. Al tavolo di confronto la Lega propone la riscrittura della legge di Giovanna Casadio La Repubblica, 1 luglio 2021 Una settimana di tempo per le “modifiche informali”. Il Pd: il 13 luglio si discuta in aula. Le posizioni sul ddl Zan non potrebbero essere più distanti. Il tavolo di confronto - convocato per trovare un accordo tra la destra e i giallo-rossi - dà solo la misura del disaccordo. È muro contro muro sulla legge contro l’omotransfobia, su cui si è abbattuta la scure del Vaticano con tanto di nota diplomatica di contrarietà. La riunione a Palazzo Madama finisce con un nulla di fatto. Ma viene aggiornata a martedì prossimo. Una settimana di tempo per presentare modifiche “informali”. Pd-M5Stelle e Leu non ci pensano affatto. “Il Pd non propone alcuna modifica, per noi resta il ddl Zan e vogliamo se ne discuta in aula il 13 luglio, quella deve essere la data certa”, chiarisce la capogruppo dem, Simona Malpezzi. A metà riunione oggi, dalla commissione Giustizia - dove si svolge il dialogo, voluto dal presidente, il leghista Andrea Ostellari - trapela che c’è la disponibilità a trattare. È lo slogan delle buone intenzioni. Le modifiche chieste dalla Lega significano una riscrittura del disegno di legge che porta il nome del deputato dem e attivista Lgbt, Alessandro Zan. Tutti gli articoli del testo Zan sono da ritoccare per i leghisti, che puntano a una cosa precisa: cancellare ogni riferimento all’identità di genere nel ddl. Massimiliano Romeo e Simone Pillon ipotizzano di unire i due testi, lo Zan (approvato alla Camera il 4 novembre scorso) e il ddl Ronzulli-Salvini. Ovviamente, dicono, l’esame va continuato in commissione. Lo scontro è servito. Il Pd ha un mandato preciso del segretario Enrico Letta: stabilire la data per discutere del ddl contro l’omotransfobia in aula: il 13 luglio. Malpezzi e Franco Mirabelli non derogano da questa linea. “Le distanze sono siderali. Il sospetto è che la Lega continui a simulare il dialogo per prendere altro tempo”, si spazientisce Mirabelli. Nota che il forzista Malan lascia la riunione per andare in tv a parlare del Concordato. Per la sinistra, Loredana De Petris conferma che il testo è e resta il ddl Zan. A smarcarsi sono i renziani. Illustrano le possibili modifiche e insistono per trovare una qualche intesa “altrimenti si rischia il pantano parlamentare”. Davide Faraone, il capogruppo di Italia Viva, spiega però che cercare un accordo non significa smantellare o affossare la legge contro l’omofobia. Dice: “Il tavolo politico che abbiamo voluto si è rivelato utile come avevamo detto, perché ogni forza politica ha potuto esprimere il proprio pensiero e confrontarlo con gli altri. Siamo finalmente entrati nel merito. Entro venerdì ogni forza politica presenterà le sue proposte e martedì ci sarà una nuova riunione. Però se l’intesa non si trova, Iv voterà per portare il ddl in aula”. Il fronte del centrosinistra quindi resta compatto. Alessandra Maiorino, che per i 5Stelle ha seguito passo passo la legge, ribadisce che la tabella di marcia che i giallo-rossi si sono dati, verrà rispettata: il 6 riunione dei capigruppo in cui confermare l’approdo in aula del ddl Zan il 13, nello stesso giorno in cui Ostellari riconvoca il tavolo di dialogo perché insieme le forze politiche valutino le modifiche cosiddette informali. In realtà quando in Parlamento si vuole modificare qualcosa si presentano gli emendamenti al testo in esame. In questo caso si tratta di un pre-partita. Il leghista Ostellari, che è anche il relatore della legge, insiste per cambiare subito gli articolo 1, 4 e 7 del ddl Zan e arrivare alla discussione dell’aula con una proposta radicalmente diversa. Legge Zan. Iv tratta con la Lega, ma la rottura è solo rimandata di Daniela Preziosi Il Domani, 1 luglio 2021 Fra una settimana l’ora della verità. Da destre e giallorossi letture opposte. Il leghista Ostellari è “ottimista” sulla possibilità di accordo. Per il Pd restano “distanze siderali”. Finisce con un passetto in avanti il tavolo di un accordo di maggioranza per modificare la legge contro l’omofobia. Ma è un passetto così piccolo da sembrare inutile. I due fronti, le destre di governo e gli ex giallorossi, danno letture opposte della riunione di ieri al senato. Il presidente della commissione giustizia, il leghista Andrea Ostellari, si dichiara “ottimista” sull’ipotesi di un testo condiviso. Il collega Franco Mirabelli, Pd, racconta invece un dettaglio rivelatore: “Quando uno come Malan (Lucio, senatore di Forza italia, ndr) si siede al tavolo per trovare una mediazione e si alza poco dopo per andare a una conferenza stampa dal titolo “La legge Zan viola il Concordato”, diciamo che i motivi per sospettare ci sono tutti”. Sospettareche Lega e Fi vogliano fare con altri mezzi l’ostruzionismo fatto fino a qui per rimandare l’ora della verità, il voto dell’aula. Le destre giocano su due tavoli. Da una parte c’è quello di maggioranza, in cui fanno professione di dialogo, dall’altra la commissione, dove il presidente manda avanti la serie infinita di audizioni per lo più a senso unico. Il tavolo della maggioranza è riconvocato martedì 6 luglio alle 11. Entro venerdì i gruppi dovranno presentare le proposte di modifica al testo Zan, che resta il testo base. Ostellari tenterà una sintesi. Scettici e pronti alla rottura Pd e M5S: “Le distanze restano siderali”, secondo Mirabelli, “la mediazione continua ad apparire difficile e non c’è chiarezza sulla necessità di chiudere il provvedimento al più presto, cosa che abbiamo chiesto come priorità. E resta il legittimo sospetto che sia l’ennesimo tentativo di perdere tempo”. In mezzo ai due fronti c’è la strana partita di Italia viva. Davide Faraone, come le destre, propone qualche modifica alla legge (dopo che Iv l’ha scritta e sostenuta insieme agli ex alleati giallorossi). Nel merito riscrive l’art.1 cancellando la contestata definizione “identità di genere” (ma inserita alla camera proprio su suggerimento della ministra della Famiglia Elena Bonetti, renziana), cancella l’art.4 (quello che fa salva “la libera espressione di convincimenti od opinioni” purché “non idonee determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”) e infine inserisce nell’art.7 il rispetto dell’”autonomia scolastica” - del resto ovvio - nella prescrizione alle scuole di organizzare cerimonie e incontri contro le discriminazioni nel giorno della (istituenda) giornata nazionale contro l’omofobia. Se il testo arriverà in aula senza accordo qualche emendamento potrebbero passare a voto segreto. sarebbe uno smacco per il Pd e il suo segretario Letta innanzitutto, che ha chiesto ai suoi senatori di andare avanti verso l’aula. E anche uno smacco per la vecchia e ormai malconcia maggioranza giallorossa. Due sconfitte che piacciono a una parte di Italia viva. Dalla quale invece vengono indicati i grillini come possibili franchi tiratori perché ormai fuori controllo. C’è anche un pugno di senatori e senatrici dem tentati da qualche voto in dissenso. Mirabelli non chiude la porta ai correttivi di Iv: “Il punto è che non vanno bene alla Lega dalle cose che abbiamo sentito al tavolo. Per una mediazione serve il consenso di tutti”. Per i dem resta fermo il voto dell’aula, piega la presidente dei senatori Simona Malpezzi: il 6 luglio alle 16 e 30 il calendario, a maggioranza dovrebbe passare la scelta del 13 luglio come data certa per l’inizio del dibattito. Migranti. Il governo e l’Europa non possono più chiudere gli occhi di Erasmo Palazzotto Il Manifesto, 1 luglio 2021 Dobbiamo ripristinare, ora, un dispositivo europeo di soccorso in mare sul modello di Mare Nostrum e interrompere immediatamente il finanziamento alla cosiddetta Guardia Costiera libica gestita dagli stessi trafficanti. La notizia dell’ennesimo naufragio a poche miglia da Lampedusa ci impone una riflessione seria sulla sostenibilità etica e morale delle nostre politiche migratorie. Non possiamo più chiudere gli occhi su quanto sta accadendo nel Mediterraneo centrale. La dismissione dei dispositivi di soccorso europei, l’accanita criminalizzazione del soccorso in mare insieme alla limitazione dell’operatività delle Ong sta determinando una sostanziale sospensione del Diritto internazionale ad opera dei governi europei, in particolare delle convenzioni a tutela della difesa della vita in mare e dei diritti umani. Ritengo che abbia centrato il punto la Presidente del Pd Valentina Cuppi quando, qualche giorno fa, richiamava il Pd e le forze del campo progressita alle proprie responsabilità rispetto ad una politica migratoria che si fonda sull’esternalizzazione della frontiera (e il cui scopo è il contenimento dei flussi), che chiude gli occhi sulla drammaticità delle condizioni sulla terraferma dall’altra parte del Mediterraneo. Considerare la Libia come un porto sicuro, organizzare e coordinare i soccorsi di una organizzazione criminale come la guardia costiera libica con l’obiettivo di deportare donne, uomini e bambini nello stesso inferno dei lager libici da cui sono fuggiti, comporta una corresponsabilità grave nella sistematica violazione dei diritti umani che avviene in quei luoghi, testimoniate da diversi rapporti delle Nazioni Unite e delle Ong presenti sul campo. L’ultima in ordine di tempo è la drammatica denuncia di Medici senza Frontiere che pochi giorni fa ha reso pubblica la necessità di sospendere le attività in due centri di detenzione a Tripoli. Drammatico il comunicato che sottolinea ‘ripetuti episodi di violenza contro migranti e rifugiati’ oltre alla mancanza delle condizioni di sicurezza per il proprio personale. La vita nei lager libici è spaventosa: stupri, abusi quotidiani, violenze, torture. Dai report delle organizzazioni che faticosamente operano sul campo e che si sommano alle diverse inchieste giornalistiche, emerge un quadro drammatico. Davvero pensiamo di poter continuare a delegare alla Libia la gestione dei flussi migratori, di casi vulnerabili, di donne, uomini e bambini detenuti e i cui diritti vengono quotidianamente violati? Siamo consapevoli, ne conosciamo i dettagli, abbiamo migliaia di testimonianze. Ciononostante continuiamo a promuovere e a sostenere politiche disumane che contemplano respingimenti illegali, abusi e violenze. Sappiamo per esempio che a gestire i centri detenzione ci sono persone come Rahman al Milad detto Bija, noto trafficante di esseri umani, tra i capi della guardia costiera di Zawiya, sotto inchiesta per crimini contro l’umanità e che, dopo una brevissima detenzione, è stato promosso al grado di maggiore della Guardia costiera libica. Non può non riguardarci la condizione di vita delle donne e delle bambine stuprate nei centri di detenzione in Libia. Non può non riguardarci la disumanità del contenere e respingere chi cerca di fuggire dall’inferno. Abbiamo il dovere di invertire la rotta per difendere la civiltà giuridica dell’Europa. Dobbiamo ripristinare, ora, un dispositivo europeo di soccorso in mare sul modello di Mare Nostrum e interrompere immediatamente il finanziamento alla cosiddetta Guardia Costiera libica gestita dagli stessi trafficanti. Dobbiamo sostenere la Libia nel suo processo di stabilizzazione senza appaltargli la gestione della nostra frontiera. Dobbiamo pretendere la chiusura di tutti i campi di detenzione ed evacuare le circa 6000 persone che vi sono detenute con corridoi umanitari che devono diventare una strutturale via di accesso legale verso l’Europa per tutti coloro che fuggono da condizioni di guerra e di violazione dei propri diritti. È da questo che dipenderà la qualità della nostra democrazia e il livello di civiltà della nostra società. È su questa sfida che l’Europa ritroverà una sua identità e dal modo in cui saprà affrontarla dipenderà il suo, il nostro, futuro. Migranti. Il Pd voti “no” ai soldi alla guardia costiera libica, meglio tardi che mai di Giuditta Pini* Il Domani, 1 luglio 2021 Un anno fa, infatti, il Partito democratico alla Camera e al Senato votò a favore di quel finanziamento e addirittura lo aumentò. Al senato del Pd solo in tre votarono contro, alla camera fummo otto. Il voto causò un grande clamore tra gli iscritti e i militanti del partito. Ci furono raccolte firme per chiedere chiarimenti, circoli che si auto convocarono, direzioni provinciali e regionali infuocate. La motivazione di tanta rabbia e scompiglio era semplice: pochi mesi prima, a gennaio, durante la stessa assemblea che aveva eletto Cuppi presidente del Pd era stato votato un ordine del giorno a mia prima firma, che aveva raccolto decine e decine di firme da parte di tutta l’assemblea, in cui si chiedeva di interrompere immediatamente i rapporti con la Guardia Costiera libica e il suo finanziamento. Gli impegni erano quelli della lettera inviata pochi giorni prima dal Consiglio d’Europa al nostro ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Il voto parlamentare fu quindi contrario all’espressione unanime dell’organismo più alto del Pd. E questo non passò inosservato agli occhi dei nostri iscritti. Scrissi allora alla presidente Cuppi, per sapere se e quali iniziative avrebbe intrapreso a difesa delle decisioni dell’assemblea da lei presieduta che erano state palesemente ignorate. La risposta arrivò poche ore dopo con una lettera pubblica in cui la presidente annunciava implicitamente che non ci sarebbero state conseguenze e in cui provava a giustificare il rifinanziamento, sostenendo, tra le altre cose, che quei soldi andavano in realtà alla Guardia di Finanza che avrebbe addestrato la guardia costiera e con altre argomentazioni piuttosto deboli. Purtroppo nessuno degli auspici contenuti in quella lettera si è avverato. I campi di concentramento in Libia continuano a funzionare a pieno regime, Rahman al Milad detto Bija, tra i capi della guardia costiera di Zawaiya, condannato per crimini contro l’umanità e tra i promotori di una serie di minacce che hanno portato il giornalista Nello Scavo a vivere sotto scorta, dopo una breve detenzione è stato promosso a maggiore della Guardia costiera libica. Il Memorandum non è stato modificato di una sola virgola e nel 2020 la Guardia costiera libica ha intercettato in mare 12mila persone. Queste persone sono state poi sottoposte a sparizione forzata, detenzione arbitraria, tortura, stupri, lavoro forzato ed estorsione, secondo l’ultimo rapporto pubblicato da Amnesty. Insomma la situazione, non solo non è migliorata, ma è peggiorata. Mi fa quindi piacere vedere il cambio di linea da parte della presidenza. Certo sarebbe stato probabilmente più semplice per noi cambiare quei decreti l’anno scorso, quando eravamo in un contesto governativo completamente diverso. Ma non dispero. Il nostro compito è quello di legiferare e cambiare le cose. Quegli accordi vanno cancellati e spero che il Partito democratico sia coerente con le decisioni che prese ormai diciotto mesi fa, più di quanto non lo sia stato nel recente passato. *Deputata Pd Progetto Migranti in difesa dei diritti: Fondazioni bancarie per l’inclusione di Paolo Foschini Corriere della Sera, 1 luglio 2021 Terza edizione del programma Acri con un budget di 1,2 milioni e una rete di sostegno sempre più ampia. Righetti: “Non possiamo più accettare una privazione di diritti che definiremmo intollerabile se toccasse noi”. Interventi divisi in tre linee: corridoi umanitari, assistenza sanitaria e giuridica, soccorso in mare. Nel 2020, secondo i dati di Unhcr, sono giunti in Europa 94.080 migranti. Quasi tutti via mare (86.649). Un terzo sono quelli che c’entrano con l’Italia. Dire se siano tanti o pochi è una valutazione molto personale, che non può comunque prescindere dal confronto rispetto al numero complessivo degli abitanti d’Europa: 740 milioni di persone. Tanti rispetto al numero dei migranti sono in ogni caso, invece, i morti e/o dispersi durante il viaggio: il conteggio ufficiale dice 1.066 ma va da sé che il pallottoliere calcola solo quelli di cui si ha notizia. Certo è che quest’anno saranno di più: a neanche sei mesi dall’inizio del 2021 siamo già a 807. Dopodiché, a parte il discorso dei “quanti”, quella che sta sul tavolo come un macigno è la questione del “come” e cioè dei diritti che tutte queste persone hanno o - meglio - dovrebbero avere: “Perché ciò che non possiamo più accettare è una privazione dei diritti di esseri umani che definiremmo intollerabile se semplicemente toccasse noi”. Il virgolettato è di Giorgio Righetti, direttore generale di Acri e cioè dell’organismo che riunisce la Fondazioni italiane di origine bancaria. Ed è questa la riflessione con cui egli ha presentato la terza edizione del Progetto Migranti, iniziativa promossa dalla Commissione per la cooperazione internazionale di Acri con l’obiettivo di proporre risposte concrete rispetto ai problemi dei flussi migratori che interessano l’Italia. Un budget di 1,2 milioni di euro, una rete di 13 Fondazioni di origine bancaria più Fondazione Con il Sud, più 9 tra organizzazioni del Terzo settore e ong, più altri 50 partner pubblici e privati sui territori, per la traduzione pratica delle idee in realtà. Tre le linee di intervento: consolidamento del meccanismo dei corridoi umanitari; sostegno per attività di assistenza sanitaria e giuridica a migranti giunti da poco o di passaggio; supporto alle attività di soccorso in mare. “Le nostre Fondazioni - ha sottolineato Righetti - sono estremamente orgogliose di dare avvio a questa terza edizione del Progetto. La pandemia non ci ha scoraggiati. Al contrario, questa edizione ha visto un numero di adesioni ancora più alto delle precedenti. Tutte unite per contribuire, insieme alle ong che realizzeranno i progetti, a tutelare i diritti fondamentali delle persone che arrivano in Italia”. Senza la pretesa di “risolvere il problema, ovviamente, ma con “l’ambizione di sperimentare e consolidare alcune buone pratiche realizzate dal privato sociale, che possano indicare al pubblico possibili strade da percorrere, replicare ed estendere su scala più ampia”. Gli interventi in programma sono sei, distribuiti nelle diverse linee d’azione. Sul tema dei Corridoi umanitari si parte con un percorso di accoglienza e integrazione, in collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio, rivolto a 50 profughi in arrivo attraverso la Grecia. Saranno accolti presso “appartamenti diffusi”, aiutati per le prime necessità, riceveranno beni e servizi primari, assistenza legale e medica, verranno accompagnati in percorsi di formazione fino a un inserimento lavorativo. Nello stesso ambito si muoverà “La nuova frontiera dell’accoglienza”, in collaborazione con le Chiese evangeliche, per 40 migranti provenienti dai corridoi umanitari aperti tra Italia e Libia: ad accoglierli sarà la “Casa delle Culture” di Scicli (Ragusa). Nel capitolo dei Corridoi universitari si inserisce invece il progetto “Unicore 3.0” portato avanti con Caritas Italiana per 43 studenti etiopi con protezione internazionale: da inserire in 24 Università di tutta la penisola. Per i minori, in parallelo, è pensato il progetto “Pagella in tasca” (con Intersos) per 35 ragazzi provenienti dal Niger, da avviare alle scuole secondarie. Poi, sul fronte dell’assistenza sanitaria e giuridica, ci sarà il progetto “D(i)ritti al confine” che nell’arco di dodici mesi interverrà dove si concentrano i migranti in transito: Trieste (in entrata dai Balcani), Ventimiglia e Oulx (in uscita verso la Francia). Infine il progetto #TogetHerForRescue, con Sos Mediterranée Italia, per co-finanziare le operazioni di soccorso in mare che saranno realizzate nel 2021 attraverso la nave Ocean Viking. Droghe. Il governo ascolta le comunità. Nuove regole e conferenza nazionale di Viviana Daloiso Avvenire, 1 luglio 2021 Necessario riprendere il confronto e individuare nuovi percorsi. Che sia il momento di svolta - tanto atteso, tanto invocato - lo si capisce da chi si siede al tavolo virtuale convocato ieri mattina dalle comunità terapeutiche in occasione della Giornata contro la droga celebrata appena lo scorso weekend. Ovvero, tutto il mondo degli operatori pubblici e privati impegnati nel campo delle dipendenze (nessuno escluso: i progressisti, i conservatori, i vecchi e i nuovi, i sostenitori delle liberalizzazioni, i prudenti, i visionari), ma soprattutto il governo, nella persona del ministro con deleghe alle Politiche antidroga Fabiana Dadone e il numero uno del dipartimento, Flavio Siniscalchi, appena sbarcato qui dopo una lunga esperienza alle Politiche giovanili e alla Protezione civile. Lo Stato c’è, finalmente, dopo anni di latitanza sul punto. E c’è perché le dipendenze - la droga, l’alcol, l’azzardo, Internet - non possono più essere dimenticate. Quello che sta succedendo nella carne viva del Paese, tra i giovani e i giovanissimi inghiottiti sempre più dall’abisso dell’emergenza educativa, è sotto gli occhi di tutti: non basta indignarsi, non serve gridare al lassismo sui social, alle colpe della pandemia e del lockdown, alla generazione iperconnessa che non vuol sentir parlare di regole e spesso anche di scuola. Adesso bisogna intervenire. La parola chiave è Conferenza nazionale: un appuntamento disertato da oltre dieci anni. A quel momento fondamentale di confronto, da cui sono nate negli anni Novanta e Duemila le buone pratiche che avevan messo l’Italia sul podio dei servizi di prevenzione e di accoglienza dei tossicodipendenti, si era rinunciato per inerzia, per disinteresse: altre le priorità del Belpaese, tanto che nel corso degli anni i fondi si sono sempre più assottigliati, Sert e comunità sono stati abbandonati a loro stessi, i ragazzi un puntino invisibile relegato nei parchetti e nelle discoteche. Basterebbe guardare a come il tema delle dipendenze è scomparso dalle campagne di comunicazione istituzionali e dai percorsi di prevenzione organizzati nelle scuole. Il ministro Dadone, quella parola, la pronuncia immediatamente: “Sarà convocata entro l’anno - annuncia -, i tavoli di confronto e di interlocuzione partiranno già nei prossimi giorni”. Ed è così, perché le comunità vengono convocate dal Dipartimento già per il prossimo 5 luglio. Un primo momento di confronto, alla mano la Relazione annuale pubblicata sempre ieri e l’esito di un altro confronto molto atteso, fissato per la mattina dello stesso giorno, con i delegati delle Regioni. Si fa sul serio, insomma. L’appello delle comunità è chiaro e unanime: dopo un anno e mezzo di pandemia, e dopo un decennio di indifferenza assoluta, serve ricominciare dalle relazioni e dalle persone. “Mai come in questo periodo abbiamo toccato con mano l’inadeguatezza del sistema normativo e la solitudine dei servizi” insiste Biagio Sciortino, presidente di Intercear. E Dadone è d’accordo, “il paradosso che ci ha mostrato la pandemia è che tutto si è fermato tranne le tossicodipendenze. Dalla Relazione annuale al parlamento sulle droghe si evince che l’utilizzo della cocaina si è quadruplicato e sono state censite più di cento nuove sostanze psicoattive. Inutile andare dietro alle sostanze, dobbiamo lavorare sulle persone e sulla prevenzione”. Il capo del Dipartimento Siniscalchi le fa eco: “Dobbiamo cogliere gli spunti di innovazione e la capacità di resilienza che i servizi hanno mostrato nel periodo della pandemia. Abbiamo bisogno di voi per un ragionamento sulla metodica e sulle modalità con cui vogliamo ripensare il sistema” spiega alle comunità. È il segnale che il cambiamento è possibile. Il primo a raccoglierlo è Luciano Squillaci, presidente della Federazione italiana delle comunità terapeutiche: “Vogliamo ricostruire il sistema delle dipendenze su basi differenti per essere capaci di rispondere ai bisogni che negli ultimi 30 anni sono profondamente cambiati e differenziati. Per raggiungere questo obiettivo abbiamo bisogno dell’unità e del coinvolgimento di tutte le realtà che operano nelle dipendenze, delle Reti istituzionali e soprattutto delle Reti territoriali. Consapevoli che la riforma della normativa 309/90 è ormai necessaria e che si costruisce sui territori”. Il Testo unico sulle dipendenze, fermo al mondo del 1990 (eroina in vena, Aids, tossici come fantasmi per le strade) è il primo tabù da infrangere. Il mondo delle comunità, in accordo con le società scientifiche, ha lavorato in questi anni su una proposta di riforma del sistema che si fonda su tre pilastri: la centralità della persona e non della sostanza, appunto, “ovvero un processo integrato di presa in carico globale della persona. Il sistema di intervento si è tarato sempre più su un livello prestazionale per singola fase (prevenzione, presa in carico iniziale, disintossicazione, cura e riabilitazione, reinserimento sociale e lavorativo) - spiega Suqillaci -. Dobbiamo superare queste “categorie” in cui la persona viene inserita e per così dire “spacchettata”, ripartendo dalla prossimità, dalla complessità delle persone, pensando ad un intervento integrato, sociale e sanitario, includendo anche le dipendenze comportamentali, come il gioco d’azzardo”. Altro tema sul tavolo, la governance: serve costruire un modello capace di garantire il lavoro di rete e la condivisione, a livello nazionale ed a livello territoriale, dei diversi servizi del pubblico e del privato, senza limitarsi ad occuparsi delle singole competenze. “Un sistema sociosanitario di presa in carico che si completa con tutti gli attori chiamati ad interagire sui processi di prevenzione, cura, riabilitazione ed inserimento sociale e lavorativo” puntualizza Riccardo De Facci di Cnca. “Siamo partiti trent’anni fa da 1.300 morti di overdose e dall’emergenza Aids, con due tipologie di comunità. Oggi ne abbiamo 14 tipi, le nuove sostanze sono mille all’anno, 25mila i ragazzi che ci chiedono accoglienza nelle strutture. Dobbiamo esserci ed esserci in modo diverso: ripensare il sistema educativo, quello della riduzione del danno e della prossimità, arrivare prima, dimenticare che il carcere possa servire a superare il problema”. Ancora, a livello nazionale si deve consentire la proposizione, seppure nel rispetto delle autonomie sancite dal Titolo V della Costituzione, di indirizzi e linee guida capaci di superare l’attuale eccessiva frammentazione e difformità di intervento tra le diverse Regioni: “Attualmente abbiamo venti modalità differenti di affrontare la questione dipendenze, una per regione, che comporta una grande disparità di trattamento e di cura” ricorda Paolo Merello. Infine il nodo delle risorse: è fondamentale, insistono le comunità, rifinanziare il fondo di intervento per la lotta alla droga per sostenere i percorsi di prevenzione, di cura e riabilitazione e di inserimento socio-lavorativo, tramontati con la legge 328/2000. Risorse imprescindibili per un reale rilancio della sfida alle dipendenze. Egitto. Il tripudio mediatico e le impiccagioni, doppia narrazione di 8 anni sotto al-Sisi di Chiara Cruciati Il Manifesto, 1 luglio 2021 Il governo dà indicazioni a giornali e tv: nascondere le cattive notizie, descrivere una nazione prospera che non c’è. Intanto il paese scala la classifica e si piazza terzo per esecuzioni: 32 condannati a morte nel 2019, 107 nel 2020, già 51 nel 2021. La chiama “rivoluzione” nel messaggio affidato a Facebook, la sua salita al potere: Abdel Fattah al-Sisi festeggia i suoi otto anni di regime ringraziando gli egiziani che il 30 giugno 2013, dopo giorni di proteste contro l’allora presidente islamista Morsi, avallarono il golpe militare del 3 luglio successivo, inconsapevoli di quel che ne sarebbe seguito. In piazza in quei giorni c’erano laici, liberali, c’era la sinistra egiziana, persone che avevano fatto la vera rivoluzione, quella del gennaio 2011, e che si ritrovavano al potere i Fratelli musulmani e un’evidente deriva autoritaria. Gli ultimi otto anni impediscono di parlare di rivoluzione: quella di al-Sisi è stata la restaurazione, in forma se possibile ancora più brutale, del regime di Mubarak. Negli ultimi giorni a ricordarlo sono stati gli arresti preventivi e gli abusi arbitrari contro normali cittadini, fermati per le strade e le piazze delle città egiziane dalla polizia e dai servizi segreti, perquisiti, privati dei cellulari per verificarne l’attività sui social e in alcuni casi detenuti per impedire che qualsivoglia protesta potesse essere messa in piedi in concomitanza degli otto anni dal golpe. Qualcuno è sparito per giorni, interrogato nelle sedi della National Security. Notizie introvabili nel dorato mondo della stampa di regime. L’agenzia indipendente Mada Masr, che intervista in condizione di anonimato redattori e caporedattori delle principali testate cartacee e televisive egiziane, spiega cosa c’è dietro la copertura entusiastica di otto anni di presidenza al-Sisi. Titoli, articoli e inserti speciali da settimane narrano di un paese che non esiste, “una nuova repubblica”, una “nazione dell’abbondanza”, una società trasformata dal progresso portato dal regime. Secondo le fonti di Mada Masr, la stampa ha ricevuto specifiche indicazioni dal governo per nascondere le cattive notizie (dalle proteste ad Alessandria contro le demolizioni di case alla chiusura di fabbriche storiche alle condanne al carcere di giovani tiktoker) ed esaltare quelle buone, di cui è stata fornita una lista pronta per l’uso. E poi c’è l’interpretazione funzionale delle notizie, quella specifica strategia mediatica che tramuta in successo un palese abuso. È il caso dell’aumento vertiginoso di condanne a morte, numeri così alti da scaraventare l’Egitto in cima alla classifica mondiale del ricorso alla pena capitale, terzo dopo Cina e Iran. Il tema è stato riacceso dalle proteste delle organizzazioni per i diritti umani e delle famiglie degli ultimi condannati all’impiccagione, 12 membri dei Fratelli musulmani incarcerati per la manifestazione di piazza Raba’a (mille uccisi dall’esercito a un mese e mezzo dal golpe, calzante ouverture della futura capillare repressione di Stato). Dal 2018 sono state giustiziate 241 persone (88 per motivi politici). Il picco si è registrato negli ultimi anni: se nel 2019 sono stati giustiziati 32 detenuti, nel 2020 il numero è quadruplicato, 107. Nel 2021 sono già 51; 64 i prigionieri nel braccio della morte. Il caso dei 12 fratelli musulmani ha attirato l’attenzione perché si tratta di leader del movimento, condannati insieme a oltre 700 membri del partito dopo un processo di massa giudicato internazionalmente privo degli standard minimi di correttezza ed equità. Human Right Watch in un recente articolo descrive la pena di morte come mezzo “di sradicamento di tutte le potenziali opposizioni”, insieme alla “ingannevole narrativa” della minaccia terroristica, al totale controllo della magistratura, leggi liberticide e tribunali speciali: “Le esecuzioni sono il prodotto dell’enorme sforzo per rimodellare le sfere politiche e sociali dell’Egitto secondo la visione autocratica del regime”.