Il giusto equilibrio per una giusta pena di Alessandro De Nicola La Stampa, 19 luglio 2021 La visita del premier Mario Draghi e del ministro Marta Cartabia al carcere di Santa Maria Capua Vetere non è stata una gita, ma un atto di grande responsabilità istituzionale. Entra adesso di prepotenza nel dibattito pubblico in Italia il problema della funzione della pena. Per chi ritiene che essa abbia una funziona meramente afflittiva, un trattamento severo (non illegale, ma duro) dei detenuti può avere senso. Le colonie penali esistenti fino a non molti decenni fa anche in stati democratici ne sono un esempio. Le condizioni terribili di molti penitenziari in paesi autoritari rappresentano bene questa attitudine. La nostra Costituzione risolve la questione sancendo all’art 27 che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Si tratta di un principio di civiltà assolutamente condivisibile ed in più è pure efficiente per la società nel suo insieme. Vediamo di capire il perché. La sanzione nei confronti di chi viola le regole sociali, soprattutto quelle penali, è sempre stata oggetto di riflessione profonda. Dall’”occhio per occhio, dente per dente” al “chi è senza peccato scagli la prima pietra” neppure la Bibbia fornisce indicazioni univoche. Partendo dalla legge del taglione, che è la più antica (prima della Legge ci si affidava alla vendetta personale o di clan), essa è alla base della funzione retributiva della pena. Il senso di giustizia diffuso in tutte le società umane richiede che chi commette il male sia punito. Si può perdonare l’offesa personale, ma nessuno ha il diritto di scusare il male fatto ad altri. Naturalmente è il diritto che si prende carico di questo ruolo punitivo affinché, come dicevano i giuristi romani, ne cives ad arma veniant (i cittadini non si scannino tra loro). Lo scopo della pena, però, non si esaurisce qui. Quando essa significa privazione della libertà, per esempio, essa ha anche l’obiettivo di togliere di circolazione un elemento socialmente pericoloso che potrebbe nel frattempo delinquere ancora. Vengono poi in gioco l’effetto deterrente speciale e quello generale. Speciale perché si presuppone che a chi sia stata inflitta una sanzione per un comportamento illecito passerà la voglia di cadere nuovamente in errore per non essere ancora castigato. Generale, poiché è l’intera comunità di cittadini che è scoraggiata dal commettere reati per paura delle conseguenze. Sotto questo profilo, verso la fine del secolo scorso sono fioriti gli studi di analisi economica del diritto per risolvere la questione se sia meglio infliggere sanzioni pesanti più raramente o pene lievi molto frequentemente. Spieghiamoci: se il bottino di un crimine vale 10, il delinquente razionale sarà scoraggiato dal commetterlo se la sanzione che si può aspettare è più alta e tale sanzione si calcola moltiplicando il valore della stessa, diciamo 100, per le probabilità di beccare il reo, assumiamo 20% (ossia 0,2). Quindi 100 x 0,2 = 20, che è più alto di 10 e perciò la pena è un deterrente sufficiente a scoraggiare l’illecito. Lo stesso risultato, 20, tuttavia, lo si raggiungerebbe con il 40% di possibilità di infliggere una sanzione di 50: 50 x 0,4=20. E allora cosa scegliere? A parità di deterrenza, meglio la prima soluzione, perché costa meno allo Stato. Pensiamo alle multe per divieto di sosta. Per avere il 40% di possibilità di beccare tutte le auto in divieto ci vogliono molti più vigili che se ci si accontenta del 20%, senza contare i costi di riscossione (o di imprigionamento nel caso la pena sia il carcere). Ma non è mai semplice: se le punizioni sono irragionevolmente alte, si rischia che i fuorilegge optino per commettere il crimine più grave: perso per perso… Inoltre può darsi ci sia una crisi di rigetto da parte della popolazione. A rinforzare la complessità che il legislatore affronta, si aggiunge il fine rieducativo che non necessariamente si traduce in permessi o scarcerazioni facili come a volte si ha l’impressione: la certezza della pena è un elemento di rieducazione. Rieducare vuol dire che il carcerato deve vivere in un ambiente che rispetta la legalità, in condizioni umane dove possa anche lavorare (l’accidia cui sono condannati gli ospiti dei penitenziari è deleteria) o studiare e, solo in caso di buona condotta e ravvedimento, godere altresì di ragionevoli sconti di pena o permessi. Il tutto è molto conveniente non solo per i condannati ma per l’intera società pure da un punto di vista economico perché meno recidivi ci sono, meno si spende per prigioni e polizia e meno crimini si perpetrano. Ecco perché ribadire questa essenziale funzione da parte di Draghi e Cartabia non è stato unicamente un atto di richiamo alla legalità, ma un’esortazione a migliorare il benessere sociale complessivo. Oltre Santa Maria Capua Vetere di Marta Rizzo La Repubblica, 19 luglio 2021 L’Associazione Antigone segnala i 18 processi in corso per abusi e morti in altri Istituti ti pena. E Amnesty International rilancia la Campagna “Mettici la faccia” sui codici identificativi degi agenti. “L’Italia è tra gli ultimi cinque stati dell’UE a non avere strumenti di riconoscibilità delle forze dell'ordine. L’Associazione Antigone ricorda tutti i processi nei quali è coinvolta in difesa di detenuti abusati o morti in carcere. Contemporaneamente, Amnesty International (AI) rilancia la Campagna “Mettici la faccia” (la Campagna per le misure di identificazione degli agenti impegnati nell'odine pubblico) arrivata a 143.450 firme: molte, ma non sufficienti perché l’Italia crei una legge ad hoc sui codici identificativi alfanumerici, per le forze di polizia in servizio di ordine pubblico, con lo scopo di proteggere gli agenti stessi e i cittadini, liberi o detenuti che siano. “Il Potere si esercita più di quanto se ne possieda”. Michel Foucault, nel citatissimo Sorvegliare e punire (1975), segnala che contenere il potere di chi ne abusa, a scapito di chi non lo fa, è cosa difficilissima, ancor più lo è dietro le sbarre, perché “La prigione è il solo luogo in cui il potere può manifestarsi allo stato bruto, nelle sue dimensioni più eccessive e giustificarsi, all’esterno, come potere morale”. I video sui pestaggi dell’aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere mettono in crisi l’intero assetto sociale e segnalano lo spaesamento della collettività verso quella parte di realtà che ci si ostina a non voler conoscere, relegata in carcere e in alcuni casi abusata fino alla morte. E che esiste solo se mostrata nella sua quotidianità più violenta. Eppure, da sempre, l’Associazione Antigone diffonde informazioni su tutto ciò che accade dietro le sbarre delle prigioni e sui 18 processi per pestaggi e/o morti, alcuni risalenti al 2011. Antigone da sempre contro gli abusi in carcere. I fatti di Santa Maria Capua Vetere sono stati segnalati da Antigone, assieme agli altri, sin da subito e, da subito, l’Associazione aveva cominciato a seguire quel processo, assieme agli altri (questo articolo di Mondo Solidale lo aveva segnalato circa un anno fa). I 18 procedimenti penali per torture e/o morti seguiti da Antigone. Qui si può vedere la distribuzione geografica dei procedimenti penali, con la cronistoria e le imputazioni): 1. Gennaio 2011- Novembre 2021, Processo Rotundo: violenze inferte al detenuto da parte di alcuni agenti di polizia penitenziaria nella Casa circondariale di Lucera, in provincia di Foggia. 2. Marzo 2013 - Dicembre 2020: Processo Liotta: morto nella cella della Casa circondariale di Siracusa. Nove persone sono imputate per omicidio colposo, cinque di esse vengono condannate. 3. Agosto 2015 - Luglio 2021: Processo Borriello: a carico di un medico della Casa circondariale di Pordenone per la morte del giovane, avvenuta il 7 agosto 2015. Dal 2016, il processo è stato chiuso il 2 luglio 2021. 4. Marzo 2016 - Ottobre 2020: Procedimenti per le violenze che sarebbero state commesse presso la Casa circondariale di Ivrea da parte di agenti di polizia penitenziaria a danno di alcuni detenuti. 5. Febbraio 2017 - Settembre 2020: Processo Guerrieri, sulla presenza illegittima in carcere di Valerio Guerrieri e la morte dello stesso, avvenuta in data 14.02.2017 presso la Casa circondariale di Regina Coeli. 6. Luglio 2019 - indagini in corso: Procedimento per presunte violenze commesse da agenti di polizia penitenziaria a danno di alcune persone detenute presso la Casa circondariale di Viterbo. 7. Agosto 2019 - Luglio 2021: Procedimento per presunte violenze commesse da agenti di polizia penitenziaria a danno di U.M., detenuto presso la Casa circondariale di Monza. 8. Ottobre 2019 - Luglio 2021: Processo per presunte torture commesse da agenti di polizia penitenziaria a danno di M.A., detenuto presso la Casa di reclusione di San Gimignano, nonché per rifiuto d'atti d'ufficio a carico di un medico della struttura. 9. Ottobre 2019 - indagini in corso: Procedimento per l'ipotesi di tortura commessa da agenti di polizia penitenziaria a danno di diversi detenuti presso la Casa circondariale “Lorusso e Cotugno” di Torino 10. Gennaio 2020 - indagini in corso: Procedimento penale per preseunte violenze commesse da agenti di polizia penitenziaria a danno di una persona detenuta presso la Casa Circondariale “Pagliarelli” di Palermo. 11. Marzo 2020 - indagini in corso: Procedimento penale per presunte violenze commesse da agenti di polizia penitenziaria a danno di diversi detenuti presso la Casa di reclusione “Opera” di Milano in seguito alle rivolte scoppiate per il rischio di contagio da Covid 19. 12. Marzo 2020 - Giugno 2021: Procedimento penale per omicidio colposo dopo la morte di nove persone detenute presso la Casa circondariale di Modena, avvenute in seguito alle rivolte scoppiate in istituto per il rischio di contagio da Covid 19. Il 16 giugno 2021, il Giudice emette l’ordinanza con cui dichiara inammissibile l'opposizione alla richiesta di archiviazione avanzata da Antigone e dal Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, perché: “trattandosi di soggetti privi della qualifica di persone offese in riferimento ai reati ipotizzati” e rigetta l'opposizione avanzata dai familiari di una delle vittime. 13. Marzo 2020 - Giugno 2021: Procedimento penale per presunte violenze commesse da agenti di polizia penitenziaria a danno di alcune persone detenute presso il carcere di Melfi in seguito alla rivolta scoppiate per il rischio di contagio da Covid 19. 14. Aprile 2020 - indagini in corso: Procedimento penale per presunte violenze e torture commesse da agenti di polizia penitenziaria a danno di vari detenuti presso la Casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere in seguito alle proteste per il rischio di contagio da Covid 19. 15. Marzo 2020 - indagini in corso: Procedimento penale per presunte violenze e torture commesse da agenti di polizia penitenziaria a danno di diversi detenuti presso la Casa circondariale di Pavia in seguito alla rivolta scoppiata per il rischio di contagio da Covid 19. 16. Luglio 2020 - Febbraio 2021: Procedimento penale per l'ipotesi di omicidio colposo in seguito al decesso per impiccagione di una persona detenuta presso la Casa circondariale “Poggioreale” di Napoli. 17. Dicembre 2020 - Gennaio 2021: Procedimento penale per presunte violenze commesse da agenti a danno di alcuni detenuti. Le violenze sarebbero accadute durante il trasferimento dal carcere di Modena a quello di Ascoli Piceno, ma anche nell'istituto di Ascoli. Il procedimento riguarda anche il decesso di Salvatore Piscitelli, avvenuto dopo l'arrivo presso la Casa circondariale di Ascoli Piceno. 18. Luglio 2020 - aprile 2021: Procedimento penale per l'ipotesi di omicidio colposo in seguito al decesso per impiccagione di una persona detenuta presso la Casa circondariale di Salerno. “Interventi contro torture e morti, dentro e fuori dalle carceri”. “Quanto accade in alcune carceri italiane - osserva Patrizio Gonella, presidente dell’Associazione Antigone - per le cui atrocità verificatisi sono in corso o appena conclusi processi dove viene contestato il reato di tortura a dei pubblici ufficiali, ci ricorda come la tortura sia un crimine ancora praticato. Oggi però abbiamo il reato e nei nostri Tribunali si può usare questa parola. E dobbiamo usarla affinché cambi definitivamente un comportamento di sopraffazione presente, anche se in una minoranza, tra coloro che indossano una divisa. Ma non basta la repressione. Occorrono: una migliore formazione della polizia penitenziaria; l'accettazione di un codice deontologico, così come prescritto dall'ONU; l'aumento nelle carceri di mediatori, psicologi, educatori; una video-sorveglianza in tutte le aree del carcere, come scale e sezioni di isolamento. Associazione Antigone e AI per la dignità di tutti. Tanto l’Associazione Antigone, quanto AI chiedono quindi una legge che sia in grado di identificare e isolare casi di violenze e abusi di chi, tra la Polizia di Stato e quella Penitenziaria, usa la violenza come atto di potere, a scapito di tutti gli agenti che svolgono civilmente, con rigore e rispetto delle norme il oro lavoro. Le due Associazioni sono tuttavia consapevoli delle difficoltà culturali per far accettare una Campagna sui codici identificativi delle forze dell’ordine che non venga percepita come un'iniziativa ‘contro’ chi difende il cittadino, ma una tutela per tutti. “Codici identificativi a tutela dei poliziotti onesti”. “L’Italia è tra gli ultimi cinque stati dell’Unione Europea a non avere in vigore una norma che preveda la riconoscibilità degli operatori delle forze di polizia in servizio di ordine pubblico - sottolinea Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia - ad opporsi sono le stesse forze politiche, gli stessi sindacati di polizia e gli stessi commentatori che per quasi 30 anni, dal 1989 al 2017, si opposero al reato di tortura: si tratterebbe, sostengono, di un provvedimento criminalizzante o comunque pericoloso per gli agenti, quando in realtà non farebbe altro che tutelare la reputazione dell’istituzione, facilitando l’accertamento delle singole responsabilità. Quanto questi codici siano urgenti lo dimostrano le terribili immagini di Santa Maria Capua Vetere”. La violenza nelle carceri è frutto anche del silenzio delle persone “perbene” di Carmelo Musumeci welfarenetwork.it, 19 luglio 2021 “Eseguimmo ordine”. Molti pensano che quello che è accaduto a Santa Maria Capua a Vetere sia un caso isolato, purtroppo non lo è. E se non ci fossero stati quei video nessuno lo avrebbe mai saputo. La prigione è un mondo ignoto per tutti coloro che sono liberi ed è difficile far conoscere alla società e ai nostri politici l’inferno che hanno creato e mal governano. Alcuni detenuti vivono come cani bastonati e all'ordine del giorno vi sono: autolesionismo, suicidi, tensioni interne che sfociano a volte in condotte aggressive dell’uno o dell’altro, abusi, soprusi, ingiustizia istituzionali, pestaggi, e la lista sarebbe troppo lunga per andare avanti. Ma le botte che fanno più male sono quelle che l’Assassino dei Sogni, come chiamo io il carcere, dà ai cuori e alle anime dei prigionieri e dei loro familiari. L’altro giorno facendo ordine nelle mie carte mi è capitato fra le mani un vecchio verbale del lontano 1992, quando ero detenuto nel carcere dell’Asinara. Ed ho riletto letto una frase che avevo urlato durante un Consiglio di disciplina: “I buoni hanno bisogno dei cattivi e del carcere per apparire buoni”, che mi era costata 15 giorni di cella di rigore e una pioggia di manganellate. Purtroppo molti “buoni”, comunque e nonostante tutto, continuano a vedere nel carcere una soluzione e non capiscono che il problema, sia per le guardie sia per i detenuti sia per la società, è proprio il carcere, perché una pena che fa male è come buttare benzina sul fuoco. Nessuno parla dei morti del carcere di Modena, purtroppo di quell’evento non ci sono video e poi sembra che siano morti di metadone e non è certo colpa degli infermieri, dei medici o della polizia penitenziaria... Forse erano occupati a fare altro, visto che non si sono accorti che stavano male. Margherita Hack, commentando il mio libro “Gli Uomini Ombra”, mi scrisse: “Quando si legge di casi reali di giovani rei di aver partecipato a qualche manifestazione, o di aver reagito alla forza pubblica, che entrati in carcere in piena salute ne escono avvolti in un lenzuolo e con sul corpo i segni di pestaggi selvaggi, si vuol credere che si tratti di casi eccezionali, poi si pensa a quello che è successo durante il G8 a Genova e si comincia a dubitare. Il carcere che dovrebbe essere scuola di riabilitazione si rivela un centro di abbrutimento per i carcerieri e di annullamento della personalità dei carcerati a cui questi si ribellano con la violenza, carcerieri e carcerati egualmente vittime di un sistema degradante”. Quanto costano allo Stato le detenzioni ingiuste ilpost.it, 19 luglio 2021 Tanto: il motivo è l'eccessivo ricorso al carcere come misura cautelare, soprattutto nelle regioni del Sud. Nel 2020 il ministero dell’Economia ha emesso 750 ordinanze di pagamento per risarcire le persone che erano state detenute ingiustamente in carcere: complessivamente i risarcimenti sono costati 36 milioni e 958 mila euro, mentre nell’anno precedente 43,4 milioni. I dati sono stati pubblicati nella “Relazione al Parlamento per il 2020”, un report annuale realizzato dal ministero della Giustizia, e mostrano con chiarezza uno degli effetti causati dal notevole ricorso alla custodia cautelare in carcere, che in Italia è la misura più utilizzata (riguarda il 30,3 per cento delle misure cautelari) nonostante la legge la consideri un provvedimento di extrema ratio. Incidendo sulla libertà personale di persone “non colpevoli fino a sentenza definitiva”, la custodia cautelare in carcere dovrebbe essere disposta con estrema prudenza, solo quando le altre misure coercitive risultino inadeguate, ma questo principio è poco applicato dai giudici, che nel 2020 hanno deciso la carcerazione preventiva per 24.928 persone. Spesso la custodia cautelare dura mesi o anche anni e i dati sulle carcerazioni ingiuste, piuttosto freddi, aiutano solo in minima parte a comprendere le conseguenze che queste decisioni hanno sulla vita delle persone detenute ingiustamente e su quella delle loro famiglie. Sono comunque dati importanti per dare una dimensione a un problema di cui si parla poco e che riguarda anche le condizioni delle carceri in Italia, un paese con un tasso di sovraffollamento altissimo, oggi pari al 106,2 per cento. La riparazione per ingiusta detenzione garantisce alla persona imputata il diritto ad ottenere un’equa riparazione per la detenzione subita ingiustamente prima del processo, in seguito a un proscioglimento secondo le diverse modalità del sistema giudiziario italiano: quando “il fatto non sussiste”, per “non aver commesso il fatto”, perché “il fatto non costituisce reato” o “non è previsto dalla legge come reato”. Questa riparazione non va confusa con l’errore giudiziario che si verifica quando una persona viene riconosciuta innocente dopo una sentenza di condanna, in seguito a un nuovo processo chiamato “di revisione”. L’indennizzo massimo è stato quantificato in un miliardo di lire, oggi 516 mila 456 euro e 90 centesimi, per la durata massima della custodia cautelare in carcere, che è di sei anni. In linea generale, è previsto un indennizzo di 235 euro per ogni giorno di detenzione ingiusta in carcere e 117 euro per ogni giorno trascorso agli arresti domiciliari. “Qualsiasi cifra però non basterà a compensare tutti i danni che una detenzione può apportare”, ha detto Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Regione Campania, in un’intervista al Riformista. “Basti pensare alla diffusione di notizie a mezzo stampa o social. Non ci sarà nessun risarcimento per quello, una volta che sei stato messo alla gogna ci rimani”. Nella relazione del ministero viene segnalato un calo delle domande accolte, passate dalle mille del 2019 a 750 nel 2020, e che tra le ordinanze definitive, senza la possibilità di impugnazione, 203 sono seguite a sentenze di proscioglimento e 80 a casi di riparazione per illegittimità dell’ordinanza cautelare. Molte delle pronunce di accoglimento seguite alle detenzioni ingiuste hanno riguardato le Corti d’Appello nelle regioni del Sud. Sui 37 milioni di euro complessivi, 7,9 milioni di euro sono stati pagati per le 90 pronunce di accoglimento seguite alle custodie cautelari disposte dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria, mentre sono stati pagati 4,3 milioni a Palermo, che è la Corte d’Appello con l’importo medio più alto: 95.647 euro. A Napoli le detenzioni ingiuste sono state 101 per 3,1 milioni di indennizzi, a Roma 77 per 3,5 milioni di euro. Sono dati piuttosto significativi, anche se per avere un confronto più completo sarebbe opportuno rapportare gli indennizzi sul totale dei provvedimenti di carcerazione preventiva delle singole Corti d’Appello, non riportati nella relazione del ministero. Analizzando la distribuzione territoriale, il presidente della Corte d’Assise di Reggio Calabria, Roberto Lucisano, ha notato che le corti in cui sono state liquidate le somme più alte sono quelle nelle quali si celebra un numero rilevante di maxiprocessi contro la criminalità organizzata, nell’ambito dei quali spesso si registra un divario significativo tra il numero di persone per cui viene decisa la custodia cautelare e quello di coloro che poi vengono condannati con sentenza definitiva. Questo divario è dovuto soprattutto ai tempi molto lunghi dei processi. “Si tratta di procedimenti che per il numero degli imputati, la mole delle contestazioni, la complessità dell’attività istruttoria che li accompagna, si protraggono spesso per diversi anni”, ha scritto Lucisano in un articolo pubblicato da Questionegiustizia. “E non è raro che si arrivi all’assoluzione ed alla conseguente scarcerazione del soggetto solo dopo che la Cassazione ha pronunciato sentenza di annullamento con rinvio”. Secondo Lucisano, l’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva, che porta ad avere un rischio più alto di detenzioni ingiuste, è anche dovuto all’identificazione dell’inchiesta come momento centrale sia da parte dell’opinione pubblica, sia di chi dirige le indagini. “Si è verificato un clamoroso rovesciamento di prospettiva”, ha spiegato Lucisano. “Come se, acquisita la verità dei fatti e delle responsabilità nella fase delle indagini, tale certezza storica debba essere necessariamente recepita nel processo, magari constatando con scalpore che in qualche caso le decisioni del giudice non siano state pienamente (o per nulla) conformi alle richieste dell’accusa”. ra i dati più interessanti riportati dalla relazione del ministero ci sono anche quelli relativi ai procedimenti disciplinari che hanno coinvolto magistrati in seguito alle pronunce di ingiusta detenzione. Negli ultimi tre anni sono state promosse 61 azioni di illecito disciplinare, di cui 57 avviate dal ministero della Giustizia e 4 dalla procura generale della Cassazione. A questi procedimenti sono seguite quattro censure. Gli altri casi sono stati conclusi con 12 assoluzioni, 17 “non doversi procedere”, mentre 25 risultano ancora in corso. Nella relazione, il ministero avverte però che il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione non può essere ritenuto di per sé un indice di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto perché gli istituti riparatori, che valutano le richieste di indennizzo, hanno “presupposto e obiettivi diversi e operano su piani distinti ed autonomi rispetto a quello della responsabilità disciplinare dei magistrati”. Il senso del limite di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 19 luglio 2021 Lo scorso 12 luglio sono state depositate le motivazioni con le quali la Corte di Assise di Roma ha condannato alla pena dell’ergastolo (con isolamento diurno per due mesi) gli imputati (diciannovenni all’epoca dei fatti) dell’omicidio del carabiniere Cerciello Rega. Non conosco la vicenda nei dettagli, e dunque mi asterrò da un’analisi delle risultanze processuali; altri sono i luoghi ove verrà sottoposta ad analisi critica la sentenza di primo grado. Qualche riflessione può invece farsi sull’antefatto e sull’epilogo, ma soprattutto su ciò che si legge a pg. 281, su cui torneremo a breve. Antefatto, di cui la Corte non sembra occuparsi (eppure la foto ha fatto il giro del mondo): un ragazzo bendato (per mezz’ora, o forse un’ora) negli uffici dei carabinieri dopo il suo arresto. Chissà cosa diranno a Strasburgo tra qualche anno. Epilogo: l’immonda pena dell’ergastolo (pena congrua, secondo la Corte), che ancora trova spazio in un ordinamento che aspira ad aprirsi a soluzioni sanzionatorie di altro tipo e nel frattempo si appoggia all’alibi della liberazione condizionale per giustificare la pena perpetua (guardare i numeri, prima di darli). Dunque, fine pena mai, poi si starà a vedere. Come tutte le vicende processuali contraddistinte dall’attenzione mediatica, anche questa, drammatica, non può dirsi esente da condizionamenti, magari neanche percepiti fino in fondo dall’estensore della sentenza nella loro profondità. Si allude, e non può che esser così, a quanto si legge a pg.281, ove si affronta il tema dell’attendibilità del teste Varriale, unico teste oculare ed escusso ex art.210 c.p.p. Nell’occorso, dopo aver confutato tutte le argomentazioni difensive, la Corte si chiede “perché dileggiare la condotta delle vittime e metterle sul banco degli imputati come reiteramente è stato fatto in questo processo, esercitando il diritto di difesa al limite del consentito e della decenza?” Com’è evidente, non è possibile arrestare l’analisi di questo passaggio sul piano del bon ton processuale, che certo non dovrebbe consentire ad un giudice (neanche se sottoposto ad una difficile ricostruzione dei fatti - soprattutto in questi casi) di “dileggiare” le difese. L’oggetto della prova è regolato dall’art.187 del codice di rito, e per quel che riguarda la prova testimoniale l’art. 194/2 consente di valutare la personalità della persona offesa alle condizioni ivi previste. Ovviamente, il giudice è chiamato a valutare (e a non ammettere) le domande nocive, suggestive, lesive del rispetto del teste, ma non può affatto impedire che la difesa proponga la sua tesi e le sue ipotesi ricostruttive, neanche laddove (come la Corte segnala, quasi fosse una bestemmia in chiesa) ciò implichi l’ipotesi di reati commessi da altri. Se così fosse, il diritto di difesa verrebbe ridotto a un simulacro, né può pretendersi che solo difensori timidi e inconsapevoli del proprio ruolo possano trovare spazio nell’agone processuale; laddove si tratti di misurarsi con evidenti tensioni probatorie non è consentito pensare a zone franche, quasi che indossare una divisa consegni una verginità che nessuno può mettere in discussione. Di più; la sottoposizione al vaglio critico del teste e di ogni prova di accusa costituisce uno dei momenti salienti dell’attività difensiva nel momento del contraddittorio su cui si regge l’acquisizione della prova. Diversamente opinando, il processo assumerebbe una matrice autoritaria che speriamo di poter lasciare in disparte. Infine, indigna ogni difensore dover leggere (senza che si offra argomentazione in proposito) che si è esercitato “il diritto di difesa al limite del consentito e della decenza”. Non è dato comprendere se il passaggio alluda ad un’incontinenza delle domande (non indicate) o alla tesi sviluppata. Conosco i difensori di questo processo e le loro capacità professionali. So per certo che mai userebbero espressioni lesive nei confronti di chicchessia, e con altrettanta certezza che mai tirerebbero indietro la gamba per difendere il loro assistito. Non è “L’inquisito” di Saviane il loro modello. Al contrario; la verità sta più sovente nelle domande che nelle risposte: “le parole sono protagoniste del fare ordine, e per fortuna hanno ancora i loro difensori” (Sepulveda). Se la difesa si mantiene “nel limite” delle regole processuali (il processo costruisce regole quali limite alla forza dello Stato, a tutela dell’imputato) il porre ostacoli al suo esercizio rivela una concezione che va respinta, perché “oltre ogni limite” c’è una voce sola, oppure il silenzio. *Avvocato La riforma penale arretra su patteggiamento e giudizio abbreviato di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 19 luglio 2021 Gli emendamenti del Governo incentivano i riti speciali ma con meno coraggio rispetto alle proposte della commissione ministeriale. La riforma penale del Governo fa un passo indietro sui riti alternativi al giudizio ordinario. Gli emendamenti approvati dal Consiglio dei ministri e presentati alla commissione Giustizia della Camera provano infatti ad aumentare l'appeal del patteggiamento e del giudizio abbreviato ma perdono alcune delle misure più incisive proposte dalla commissione di studio voluta dalla ministra Marta Cartabia e presieduta da Giorgio Lattanzi. Eppure il potenziamento dei riti speciali, oggi poco usati, è fondamentale per ridurre i tempi dei processi penali, che la riforma punta a tagliare del 25 per cento. Sono infatti riti che permettono di chiudere i procedimenti più rapidamente rispetto al giudizio ordinario e con sconti di pena e che - secondo gli operatori - dovrebbero assorbire la maggior parte del contenzioso per riservare il rito ordinario, più garantito e articolato, a pochi casi. Ma il rischio è che le misure in Parlamento non bastino a estendere l'uso dei riti alternativi. L'anno scorso, di fronte al Tribunale monocratico (competente sui reati meno gravi ma più numerosi) solo il 12% dei procedimenti definiti è stato chiuso con abbreviato, mentre il patteggiamento (applicazione della pena su richiesta) è stato scelto nell'8,3% dei casi. I169% dei procedimenti ha seguito la strada del giudizio ordinario. E le percentuali sono più basse nei giudizi di fronte al Tribunale collegiale, che si occupa dei reati più gravi. La ragione principale di un così scarso successo, sottolineata più volte anche dai presidenti di Cassazione, sta nella scarsa appetibilità per gli imputati, in termini di benefici e riduzioni di pena, rispetto all'aspettativa della prescrizione, alimentata dalla durata dei processi (salita del 54% in tribunale negli ultimi dieci anni). Le novità degli emendamenti Far crescere la convenienza dei riti alternativi era uno degli obiettivi indicati dalla commissione Lattanzi. Gli emendamenti governativi ci provano, ma con il freno a mano tirato. Il compromesso tra le forze politiche che ha portato al difficile (e contestato) accordo sulla prescrizione, ha infatti ridimensionato le proposte della commissione ministeriale. In tema di patteggiamento, lo sconto di pena per l'imputato che rinuncia a contestare l'accusa rimane a un terzo, mentre la commissione Lattanzi proponeva di portarlo al 5o per cento. L'innalzamento dello sconto di pena avrebbe aperto il patteggiamento a reati con pene più elevate che, con un taglio della metà, sarebbero rientrati nel tetto di 5 anni di reclusione residua (quella che rimane dopo lo sconto). Limitata anche l'estensione alla confisca, che riguarderà solo quella facoltativa. La cancellazione dello sconto di pena fino alla metà è “un errore strategico” secondo il pm di Roma e segretario di Area Eugenio Albamonte perché “avrebbe potuto attrarre an che i procedimenti in corso, riducendo l'arretrato. Un effetto importante anche nell'ottica di sgravare le Corti d'appello in vista del regime di improcedibilità”. Quanto alla confisca, “oggi viene disposta solo se è obbligatoria, ipotesi esclusa dal patteggiamento”. Per Albamonte, sui riti speciali la riforma è “inefficace rispetto sia alle aspettative indotte dalla relazione Lattanzi che agli obiettivi di riduzione dei tempi dei processi”. Gli emendamenti recepiscono invece le proposte sull'estensione del patteggiamento alle pene accessorie e sulla riduzione degli effetti extra penali della condanna: non si ripercuoterà sui giudizi disciplinari. Per il rito abbreviato viene introdotta un'ulteriore riduzione di pena di un sesto in caso di rinuncia all'impugnazione. Quando serve un'integrazione probatoria, il giudice dovrà però valutare la convenienza rispetto al dibattimento. Non recepita invece la proposta di ridurre la pena fino a un terzo. “Reintrodurre la clausola di economicità è un passo indietro - dice Gian Domenico Caiazza, presidente dell'Unione camere penali. Purtroppo sui riti alternativi le indicazioni della commissione Lattanzi sono state svuotate e l'utilizzo non aumenterà: un'occasione mancata”. La retromarcia sui riti alternativi non è isolata. Anche altre proposte della commissione ministeriale pensate per alleggerire il carico degli uffici giudiziari e quindi sveltire i processi sono state ridimensionate. Così, negli emendamenti è sparita “l'archiviazione meritata” per i reati meno gravi, che avrebbe consentito di chiudere già durante le indagini preliminari, e si riduce rispetto alle proposte della commissione la portata dell'ampliamento della messa alla prova. Patto Conte-Letta sulla prescrizione, ma Draghi non si fida e chiede lealtà di Ilario Lombardo La Stampa, 19 luglio 2021 Oggi il premier vede il leader M5S. Il segretario Pd: il pacchetto Cartabia da approvare entro l’autunno. Pochi giorni. Questo chiede il Pd a Mario Draghi. Pochi giorni per ritoccare la riforma del processo penale e ridefinire i canoni della prescrizione. Per Enrico Letta una scelta che con il passare dei giorni si è fatta obbligata, dopo la protesta dei magistrati, degli alleati del m5S e per i mal di pancia sempre più difficili da nascondere anche tra i democratici. Questa mattina Giuseppe Conte si presenterà all’incontro con Draghi con il sollievo di avere incassato la sponda nel Pd per cambiare la legge della ministra della Giustizia Marta Cartabia. Il premier e il suo predecessore si vedono per la prima volta dopo la crisi che a febbraio ha portato l’ex banchiere centrale a Palazzo Chigi. Per Conte è anche il primo confronto politico da leader del M5S, pur se non formalmente incaricato. I due sanno che le strade della mediazione possono essere infinite, ma conoscono anche le insidie che si presenteranno immediatamente, appena si renderà possibile riaprire i giochi sulla giustizia. È il grande timore di Draghi, quello che esporrà oggi a Conte: aprire uno spiraglio di modifica significa spalancare la porta ai veti reciproci, cosa che dilaterebbe i tempi e decreterebbe il rinvio forse definitivo. Forza Italia e Italia Viva sono già sul piede di guerra, pronti a controproporre modifiche che andranno in senso opposto alle richieste sulla prescrizione di 5 Stelle e Pd. “Molto dipenderà da quanto si inasprirà il confronto in Commissione - spiega Carmelo Miceli - noi del Pd siamo consapevoli dell’importanza della riforma e della necessità che tutte le parti in causa debbano rinunciare a qualcosa”. Il Pd asseconderà la battaglia di resistenza del M5S e deve farlo anche perché in ballo c’è il seggio per le suppletive di Siena dove Letta non può permettersi di perdere il sostegno del Movimento. Allo stesso tempo, però, i dem non seguiranno gli alleati fino allo strapiombo. “Sono sicuro che domani sarà una giornata positiva, nella quale si troveranno le giuste soluzioni” ha detto il leader Pd alla vigilia dell’incontro. Il patto tra Conte e Letta si poggia su una condizione: che i tempi siano celeri. Il segretario dem aveva dato questa garanzia a Draghi e vorrebbe mantenere la parola, anche se ora sposta all’”autunno” il termine per approvare l’intero pacchetto della riforma, che comprende anche il processo civile e il Csm, “perché alla base dei soldi del Pnrr”: un modo per guadagnare tempo e aprire alla possibilità di un ulteriore slittamento. Ieri anche la vicepresidente del Senato Anna Rossomando ha detto di “non temere una perdita di tempo, se si tratta di pochi giorni per arrivare alla meta”. Bastano interventi mirati: “Non serve smantellare tutto, ma risolvere qualche criticità”. “Le soluzioni tecniche ci sono”, dice, e “la mediazione deve trovarla il governo e in particolare la ministra Cartabia”. Anche fonti vicine a Conte assicurano che non c’è alcuna volontà di sabotaggio. L’avvocato invita a guardare al modello tedesco e propone sconti di pena contro l’irragionevole durata del processo. Non solo. Nel M5S e nel Pd chiedono di allargare i reati per i quali la tagliola dell’improcedibilità (la prescrizione non più sostanziale ma processuale) interviene più tardi, a tre anni e non a due per l’appello, e a un anno e mezzo e non a uno per la Cassazione. In alternativa, I grillini non escludono di riesumare il lodo Conte - prescrizione sospesa dopo il primo grado per chi è condannato e non per chi è assolto - che fu ideato a inizio 2020 per scongiurare la crisi che si stava apprestando a scatenare Renzi prima che intervenisse la pandemia. Tra i 5 Stelle c’è anche chi vorrebbe far partire il calcolo dell’improcedibilità del secondo grado non al momento del ricorso ma quando il fascicolo arriva in Corte d’Appello, ma è un’ipotesi che è già stata bocciata al tavolo della maggioranza al ministero della Giustizia. In realtà le uniche soluzioni possibili sono quelle impossibili, che mettano d’accordo tutti, da Forza Italia ai 5 Stelle. È lo scenario che Draghi delineerà a Conte: il pantano potrebbe rinviare l’approvazione a data da destinarsi, e lo slittamento - altra ipotesi a cui lavorano Partito democratico e Movimento - è l’esito peggiore per il premier. Il capo del governo non si fida. Vuole capire fino a che punto è disposto a spingersi Conte. Se, cioè, si accontenterà di poche modifiche di facciata (per esempio la diversificazione dei tempi in base ai reati) o se davvero è intenzionato a votare contro o ad astenersi, rimanendo comunque al governo ma creando un precedente inaccettabile per il banchiere. La legge passerebbe comunque, ma Draghi potrebbe tornare a minacciare le dimissioni, come ha già fatto con i ministri 5 Stelle per convincerli a dire sì. Sempre che non decida di sfidare a sua volta Conte, mettendo la fiducia sul testo. Il secco no dei due Matteo: “La riforma non cambia, basta melina o salta tutto” di Amedeo La Mattina La Stampa, 19 luglio 2021 Il Carroccio e Italia Viva blindano il testo Cartabia approvato in Consiglio dei ministri. “Basta traccheggiare, perdere altro tempo o qui salta tutto”. Dal centrodestra arriva un avvertimento forte agli alleati. A differenza del ddl Zan sulla omotransfobia, che non tira in ballo il governo anche se vede nettamente contrapposti i partiti della maggioranza, la riforma della giustizia entra invece nel cuore di Palazzo Chigi. E soprattutto è un tema centrale del Pnrr: se non vengono tagliati sensibilmente i tempi del processo penale del 25% e del 40% per quello civile, l’Italia rischia di non avere non solo i 2,7 miliardi legati alla giustizia, ma l’intera torta di 191 miliardi del recovery Plan. È un allarme lanciato di recente dalla stessa ministra Marta Cartabia e ripetuta in diverse occasione dallo stesso Mario Draghi a tutti i protagonisti del suo esecutivo. Oggi il premier incontrerà Giuseppe Conte per capire fino a dove il nuovo leader dei 5 Stelle intende spingersi. Anche perché il premier e la Guardasigilli hanno ben chiaro che i margini di modifica della riforma Cartabia, proprio perché approvata all’unanimità in Consiglio dei ministri (obtorto collo anche dai grillini), sono minimi, per non dire nulli. Anche Enrico Letta ora parla di “piccoli cambiamenti”. Non vuole certo tornare allo stop della prescrizione introdotta dalla riforma Bonafede. Il segretario del Pd tenta di venire incontro all’alleato con il quale vuole costruire un’alleanza elettorale stabile. Ma di mezzo ci sono il cosiddetto centrodestra di governo ovvero Lega e Forza Italia, e Italia Viva. L’avviso ai naviganti è chiaro: ogni cambiamento, “piccolo o grande che sia”, deve ritrovare un accordo con tutti i partiti che sostengono Draghi. Il leader leghista non ha alcuna intenzione di favorire la corrispondenza di amorosi sensi tra Enrico e Giuseppe. Si sente forte della raccolta delle firme per i sei referendum che sta andando a gonfie vele”. “Se raccogliamo un milione di firme saranno gli italiani a dire sì o no alla riforma della giustizia. Sono 30 anni che il Parlamento promette la riforma. Firmare è la cosa giusta perché fidarsi è bene, non fidarsi è meglio”, avverte il capo leghista. Per Giulia Bongiorno il superamento della riforma Bonafede non si discute, non si possono mettere le lancette indietro. “Basta con la melina, non possiamo restare ostaggi per sempre dei processi”, spiega l’avvocato e senatrice Bongiorno. Nel centrodestra ovviamente non c’è nessuno che vuole farsi carico delle fibrillazioni della base parlamentare grillina e vengono considerate ridicole alcune proposte che circolano sui tempi della prescrizione, diversificandoli ad esempio in base alla gravità dei reati. Un’altra ipotesi che gira è quella di eliminare l’improcedibilità processuale quando scade il termine e introdurre uno sconto di pena. In sostanza se il processo d’appello supera i due anni, l’imputato ha diritto a una pena più bassa. Al di là dei tecnicismi, il problema che si troverà di fronte Draghi è tutto politico. Conte, alla sua prima prova da leader di M5S, vuole battere un colpo e raddrizzare almeno la bandiera della giustizia. Ma rischia di trovarsi con il classico cerino tra le dita e un pugno di mosche in mano. A dare fastidio è in particolare la mano tesa di Letta all’ex premier. Enrico Costa di Azione è sarcastico: “Il Pd ha resistito ben una settimana a difesa della riforma Cartabia...”. Al contenuto di questa riforma è fermo Renzi perché ci allontana da “peggior Guardasigilli della storia, Alfonso Bonafede”. Ettore Rosato avverte che “se qualcuno vuole minare il lavoro del presidente Draghi si prenderà le sue responsabilità”. “Italia Viva - assicura il coordinatore del partito renziano - farà di tutto affinché non solo i contenuti ma anche i tempi di approvazione siano rispettati”. E il capogruppo Davide Faraone dice di pensarla come Letta, cioè che la riforma Cartabia è ottima ma può ancora essere migliorata in Parlamento, “naturalmente in direzione contraria a quanto auspica Conte. C’è ancora qualche piccolo residuo giustizialista da limare”. Cerca di gettare l’acqua sul fuoco il sottosegretario alla Giustizia Paolo Sisto di FI. Si augura che, qualora ci fossero “propositi di belligeranza ad oltranza, possano rientrare”. Del resto, ricordano i forzisti, la riforma Cartabia è già una mediazione e tornare indietro è davvero molto difficile e pericoloso per la tenuta della maggioranza. E se poi il Pd dovesse insistere nel dare una sponda a Conte, allora potrebbe succedere che gli alleati-coltelli del centrodestra potrebbero chiedere, in maniera provocatoria, di tornare alla proposta di riforma di Andrea Orlando o a quella simile avanzata dalla commissione ministeriale Lattanzi, che i 5 Stelle non hanno voluto prima della mediazione della ministro Cartabia: sospensione della prescrizione di un anno e mezzo dopo il primo grado e altrettanto dopo l’appello; se non si celebra il processo in questi tempi, riparte la prescrizione conteggiando gli anni spesi inutilmente. Giustizia, chi deve aiutare la riforma di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 19 luglio 2021 Il successo ha bisogno del contributo di tutti. Di magistrati e avvocati difensori, ma anche dell'opinione pubblica e di chi, la politica e l'informazione, maggiormente la influenza e ne determina l'orientamento o se ne fa espressione. Non è facile prevedere se la riforma Cartabia riuscirà a ridurre la durata dei processi del 25%. Certo è però che deve essere considerato l’insieme complessivo dei provvedimenti adottati, a cominciare dalle risorse finalmente disponibili, dopo decenni, tanto che l’Italia ad oggi spende in questo settore meno della media europea e, come rileva la Commissione, ha anche un numero inferiore di magistrati in rapporto alla popolazione (addirittura metà rispetto alla Germania). Su questo punto, grandi speranze sono riposte sull’Ufficio del processo, con l’assunzione triennale di 16.500 collaboratori, per coadiuvare giudici e Pm. Ciò premesso, gli emendamenti in tema di processo penale rappresentano un tentativo coerente per ridurne i tempi, nelle condizioni politiche date da cui è impossibile prescindere, come dimostra la tormentata modifica della prescrizione. La Guardasigilli ha previsto una serie di strumenti come l’ampliamento dei casi di perseguibilità a querela, delle ipotesi di estinzione per lieve entità del fatto e di messa alla prova, insieme ad alcuni - modesti - miglioramenti della disciplina dei casi di patteggiamento e di giudizio abbreviato, per consentire la definizione dei procedimenti senza arrivare al dibattimento. Peraltro, in molti di questi casi e con l’attenzione dedicata alla giustizia riparativa e alle esigenze delle vittime, si persegue anche l’importante obiettivo di prevedere sanzioni diverse dalla detenzione, con una condivisibile inversione di tendenza rispetto alla legislazione “carcero-centrica” degli ultimi anni. Ancora nel senso di limitare il numero dei dibattimenti, va poi la drastica modifica dei criteri di giudizio in sede di archiviazione, di udienza preliminare e di udienza-filtro per i processi davanti il giudice monocratico. A oggi, il procedimento deve andare avanti se esiste anche solo una ragionevole probabilità di sostenere l’accusa, con la riforma il giudice dovrà archiviare o disporre il “non luogo a procedere” se gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentiranno una ragionevole previsione di condanna. Un netto capovolgimento della logica attuale. Tutto questo non inciderà tuttavia sul numero dei processi nella fase delle indagini preliminari e il carico di lavoro di un Pm italiano resterà otto volte quello di un suo collega europeo. È un dato, questo, citato raramente ma che è alla base della maggiore durata dei procedimenti e, in particolare, delle indagini. Su di esso potrebbe incidere solo una drastica depenalizzazione, o quanto meno un’amnistia, su cui però non si coglie alcuna disponibilità in sede politica. Stando così le cose, a poco serviranno le modifiche proposte per il rispetto dei termini delle indagini preliminari e di quelli relativi alla loro conclusione. Desta allarme anche l’abbandono delle proposte della commissione Lattanzi per una prima - modesta, ma significativa - limitazione dei casi in cui è possibile l’appello da parte dell’imputato. Una rinunzia, questa, che rischia di restringere ulteriormente quello che già oggi è il vero collo di bottiglia del sistema. Rischia, ancora di più, di determinare la “morte” di migliaia di processi, anche per gravi delitti, per improcedibilità per l’assoluta impossibilità di giungere a sentenza nel termine di due anni (o tre, per alcuni reati), termine che molte importanti Corti d’appello non sono, oggi come oggi, assolutamente in grado di rispettare. Anche questi temi dovranno essere oggetto di attenzione, specie da parte del Comitato tecnico scientifico, per verificare se le nuove misure - in particolare l’aumento, mirato e non a pioggia, delle risorse, anche nel campo decisivo dell’informatica, gli strumenti deflattivi di cui si è detto e il mutamento del parametro di valutazione per il rinvio a giudizio - saranno sufficienti per raggiungere gli obiettivi prefissati. Resta che il successo della riforma, proprio perché incide su punti essenziali del sistema vigente, ha bisogno del contributo di tutti. In primo luogo dei magistrati e degli avvocati difensori, cui si richiede un forte cambio di mentalità, ma anche dell’opinione pubblica e di chi, la politica e l’informazione, maggiormente la influenza e la determina o, al contrario, se ne fa espressione. Se dopo i primi fatti di cronaca che dovessero suscitare l’emozione dei cittadini, la risposta di istituzioni e mass media fosse - come in larga misura è stato finora - “sbattiamo il colpevole in galera e buttiamo la chiave”, tutti i tentativi e gli sforzi compiuti in direzione dei riti alternativi e degli strumenti deflattivi, della valutazione rigorosa dei requisiti per il giudizio e la condanna, delle alternative al carcere e della giustizia riparativa, ritornerebbero ben presto, fatalmente, ad essere solo buoni propositi e noi continueremmo a lamentarci per l’eccessiva durata dei processi. Mentre l’Europa si interrogherebbe legittimamente sul diritto del nostro Paese a incassare i fondi del Piano di Rinascita. Scontro sulla giustizia. Per la ministra Cartabia la mediazione è finita di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 19 luglio 2021 Scetticismo al ministero della giustizia sull’apertura di Letta a miglioramenti al testo. Salvini: “I dem e i Cinque Stelle vogliono ostacolare Draghi”. Non bastava il dissidio interno ai Cinque Stelle e i malumori per la rinuncia allo stop sine die della prescrizione previsto dalla legge Bonafede. Ora ad addensare nubi sulla riforma Cartabia arriva anche la proposta del segretario dem Enrico Letta di trovare miglioramenti a quel testo, osteggiato dai magistrati che temono metta a rischio 150mila processi, troppo complessi per essere risolti nei limiti temporali fissati. La Guardasigilli, stando alle voci di via Arenula, non avrebbe accolto con entusiasmo il rilancio di una possibile discussione, sia pure di dettagli tecnici, fatta da Letta. “La trattativa è chiusa”, spiegano fonti del ministero della Giustizia. “La riforma è stata discussa e poi condivisa da tutto il Consiglio dei ministri che ha varato il provvedimento all’unanimità”, fanno notare. Al punto che la Guardasigilli avrebbe detto più volte che “non è la Riforma Cartabia, ma la riforma del governo Draghi”. Il tempo per ripensamenti poi - sarebbe il pensiero della ministra - è scaduto, visto che preme la scadenza ravvicinata per avere i fondi del Recovery, per quali la riforma è un prerequisito necessario. E lo spazio temporale per discuterlo deve già fare i conti con una situazione di sovraffollamento di provvedimenti in aula a Montecitorio, dove c’è il dl Semplificazione. La data prevista del 23 per l’inizio della discussione sembra già destinata a slittare almeno a lunedì 26. Molto dipenderà dall’incontro di oggi tra il premier Mario Draghi e il leader M5S Giuseppe Conte. Ma il Pd insiste che una mediazione è possibile. “Credo che i tempi stretti chiesti dal governo, e che io condivido, siano compatibili con qualche piccolo aggiustamento in prima o in seconda lettura. A patto di non stravolgerne l’impianto”, dice Letta. Una mediazione che potrebbe trovare sponda proprio nei M5S che non digeriscono una riforma che introduce al posto della prescrizione del reato quella del processo con l’improcedibilità. L’iniziativa però mette in subbuglio le altre componenti della maggioranza. Il leader della Lega, Matteo Salvini, spiega ai suoi che il testo della riforma era “il massimo che la Lega potesse ottenere. Ma certo non va toccato”. E approfitta per rilanciare i referendum sulla giustizia: “Non so se Pd e 5 Stelle vorranno andare fino in fondo. Cercheranno di ostacolare Draghi e le riforme in ogni maniera, la Lega sarà la forza più leale sulla via del cambiamento che vuole Draghi”. Il calendiano Enrico Costa accusa: “I dem continuano a dialogare con i giustizialisti M5S, mettendo a serio rischio l’approvazione della riforma. Il Pd chiede alla Ministra Cartabia di mediare sulla giustizia? Dopo avere votato in Cdm, scarica il problema sulla Guardasigilli, dimenticando che il testo attuale è già una mediazione”. E il renziano Ettore Rosato chiosa: “Se qualcuno vuole minare il lavoro di Draghi si prenderà le sue responsabilità”. Palazzo Chigi dice no a rinvii, sì a ritocchi: “Siamo qui per fare, se no è un problema” di Annalisa Cuzzocrea La Repubblica, 19 luglio 2021 Mario Draghi vuole capire cosa c'è dietro agli slogan. Cosa si nasconde, dietro al gioco al rialzo di Giuseppe Conte sulla riforma della giustizia. Così, nell'incontro di stamattina a Palazzo Chigi - il primo dal rito del passaggio della campanella - il premier inviterà subito il suo predecessore a scoprire le carte. Il leader in pectore del Movimento dovrà dire se intende essere la guida di un partito che fa convintamente parte del governo, o se ha deciso - per una questione elettorale interna - di mettersi a capo di una forza politica di opposizione. Perché le dichiarazioni di queste ore, una al giorno da quando l'ex presidente del Consiglio ha sconfessato il lavoro dei suoi stessi ministri, non sembrano andare tanto nella prima direzione, quanto nella seconda. Non si tratta di un'impuntatura, per il premier, ma di un ragionamento preciso: approvare la prima parte della riforma della Giustizia prima della pausa estiva almeno in un ramo del Parlamento significa dare un messaggio all'Europa: l'Italia non rallenta, è capace di rispettare gli impegni presi nei tempi previsti. A settembre, ci sarà ancora da mettere mano alla riforma del Consiglio superiore della magistratura e a quella del processo civile, sempre con l'assillo dei tempi da rendere più giusti e ragionevoli. È per questo che ogni intento dilatorio somiglia, per Draghi, a una sorta di boicottaggio. “Il governo è qui per fare le cose, se i partiti non lo mettono più in condizioni di farle, è un problema molto grosso”. Questo il ragionamento fatto nell'inner circle del capo del governo. Queste le ragioni che lo porteranno a parlare molto apertamente con Conte. E a interrogarlo con assoluta franchezza. Se l'obiettivo è apportare al testo dei miglioramenti che garantiscano alle procure di non veder annullati interi processi per reati gravissimi, come sostiene una nutrita parte dei 5 stelle, qualche modifica si può sempre fare. Con un lavoro blindato in aula e in commissione e la promessa di non alimentare tensioni ulteriori. Ma Draghi non ha davanti solo Conte: alla porta c'è Forza Italia, pronta a presentare 50 emendamenti che smantellerebbero gran parte del lavoro fatto. Per non parlare della Lega, che non vorrà essere da meno. Quindi se anche il Pd - come ha fatto capire Enrico Letta nell'intervista a Repubblica - è pronto a dare una mano, c'è il resto della maggioranza da sedare e convincere. E non è stato facile già la prima volta. Molto, moltissimo, dipenderà dall'atteggiamento del futuro presidente del Movimento 5 stelle. Draghi ha tutto l'interesse a instaurare con lui lo stesso rapporto di collaborazione che ha stabilito con gli altri leader di partito, che finora - davanti al momento delle scelte, anche delle più complicate - non si sono mai messi di traverso. Se potrà fare delle concessioni di merito le farà, se si troverà davanti a un atteggiamento pregiudiziale e ideologico, però, non esiterà ad andare avanti mettendo la fiducia sul testo una volta in aula. E provando a forzare dove la persuasione non sarà arrivata. I ministri M5S hanno finora agito in piena concordanza col governo. Hanno trattato quando c'era da farlo, ma non hanno mai messo in dubbio la permanenza del Movimento in un esecutivo in cui sono entrati convintamente. A costo di perdere pezzi, da Nicola Morra a Barbara Lezzi al Senato. Seguendo la strada indicata alle consultazioni col premier dal loro fondatore Beppe Grillo. Se Conte vorrà imprimere ai suoi 5 stelle una direzione diversa, nel nome di battaglie storiche da difendere e promesse da mantenere, si vedrà subito, a questo primo tornante. Potrà cercare una mediazione che accontenti una maggioranza tanto ampia da contenere, sulla giustizia e non solo, visioni opposte. O potrà tentare di strappare modifiche talmente grandi da rischiare di costringere il governo a far passare la riforma senza i voti 5 stelle. “Se accadesse una cosa del genere - dice un ministro grillino ben consapevole della partita - bisogna che tutti capiamo quale sarà l'esito: il governo cadrebbe e ci sarebbe il rischio di andare al voto anticipato”. Perché a differenza di Conte, definito ai tempi di Chigi “il temporeggiatore”, se c'è una cosa che Draghi non intende concedere ai partiti che hanno scelto di sostenere il suo governo è proprio il tempo. Tempo per arrivare al semestre bianco e agire con ancor più irrequietezza. Tempo per le loro campagne elettorali e i loro distinguo. “Se non approviamo presto le riforme legate al Pnrr l'Italia andrà incontro a problemi enormi e qualcuno dovrà assumersene la responsabilità”. Questa la linea dettata da Draghi solo pochi giorni fa. Quella che oggi chiarirà a Giuseppe Conte, senza mezze misure, Il segnale di Conte al governo su giustizia e reddito: mantenere le nostre riforme di Giuseppe Alberto Falci Corriere della Sera, 19 luglio 2021 L’ex premier: “Non accetteremo che siano cancellate, no all’impunità”. E sul reddito: “Qualcuno oggi per interessi di bottega vorrebbe cancellarlo, ma non è la strada per aiutare gli italiani. Piuttosto miglioriamolo”. Alle sei e trenta del pomeriggio, puntale come un orologio svizzero, Giuseppe Conte si presenta sui social per tratteggiare il nuovo corso dei 5 Stelle. E, dunque, per annunciare la votazione dello Statuto e della Carta dei valori. Indossa già i panni del presidente in pectore di un Movimento che, per dirla con le sue parole, “riparte con slancio e nuova forza”. È vero, ammette, “sono stati mesi difficili”, “di smarrimento”. Da ora in avanti, però, il Movimento farà sentire il suo peso all’interno del governo di Mario Draghi. E lo farà di certo lunedì quando varcherà l’ingresso di Palazzo Chigi per un faccia con l’ex presidente della Bce. L’”avvocato del popolo” è già pronto e lancia una serie di messaggi bellicosi all’indirizzo del governo: “Non accetteremo che le nostre riforme siano cancellate”. Conte si riferisce al reddito di cittadinanza, un totem per i 5 Stelle: “Qualcuno oggi per interessi di bottega vorrebbe cancellarlo, ma non è la strada per aiutare gli italiani. Piuttosto miglioriamolo”. E poi si riferisce alla riforma della giustizia, oggetto della contesa tra Palazzo Chigi e la galassia pentastellata. Non a caso si schiera con chi oggi, nel M5S, non intende accettare la mediazione che ha portato alla riforma Cartabia. Rivendica quindi l’approvazione della legge Spazza-corrotti e manda un altro avvertimento sulla riforma della prescrizione: “Siamo quelli che vogliono processi veloci ma non accetteremo mai che vengano introdotte soglie di impunità e venga negata giustizia alle vittime dei reati. Non accetteremo mai che il processo penale per il crollo del ponte Morandi possa rischiare l’estinzione”. Insomma, è un Conte che non recede sui valori identitari del Movimento, che cita solo una volta Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, e che in un passaggio sottolinea un aspetto che lo riguarda. “Nello statuto troverete quelle che considero le basi per rilanciare la nostra azione comune: la piena agibilità politica del presidente del Movimento, una chiara separazione fra ruoli di garanzia e quelli di indirizzo politico”. Tradotto, l’ex premier sembra voler dire che è finita la stagione della diarchia. Eppure leggendo lo Statuto si scopre che “la consultazione in Rete per la conferma della sfiducia al Presidente è indetta senza indugio dal Garante”. Sia come sia, guarda avanti l’ex premier, promette che non mollerà di un centimetro, che crede in questa comunità e che girerà tutto lo Stivale mettendo al centro i cittadini. Spazio dunque ai forum territoriali, alla scuola di formazione, non abbandonando “la lotta agli sprechi e ai privilegi, la lotta alle disuguaglianze”. Il suo Movimento mira ad essere un contenitore interclassista: si rivolgerà al mondo delle imprese, a quel ceto medio “che oggi fatica ad arrivare a fine mese”, senza dimenticare gli ultimi. Fondamentale però sarà “essere uniti e tanti”. Infine, ecco l’appello ai vecchi e ai nuovi iscritti: “Fateci sentire il vostro calore e il vostro sostegno”. Ma prima di entrare nell’era Conte, dovranno essere approvate le modifiche statutarie. Vito Crimi, in qualità di presidente del comitato di garanzia, ha convocato l’assemblea degli iscritti “dalle ore 10 alle ore 22 dei giorni 2 e 3 agosto in prima convocazione e dalle ore 10 alle ore 22 dei giorni 5 e 6 agosto in seconda convocazione”. Dopodiché sempre l’assemblea sarà chiamata a votare per l’elezione del presidente, “indicato dal Garante, Beppe Grillo, nella persona del professor Giuseppe Conte”. L’inchiesta siciliana che svela i depistaggi sul caso Borsellino di Enrico Deaglio Il Domani, 19 luglio 2021 L’indagine del presidente della Commissione antimafia regionale smonta tutti i depistaggi sule stragi e riporta alla luce le vere piste d’indagine che nessuno ha mai seguito, dal mercato dell’eroina ai finanziamenti ai partiti. Era l’ultima speranza per evitare che la più nefasta ignominia della storia giudiziaria italiana si perdesse nell’oblio. E - forse -c’è riuscita, per un pelo. La settimana scorsa sono stati depositati i materiali e le conclusioni dell’inchiesta sui risvolti di carattere nazionale del “depistaggio sul delitto del giudice Borsellino e della sua scorta”. L’inchiesta, la seconda sull’argomento, è stata voluta e realizzata da Claudio Fava, presidente della Commissione antimafia dell’assemblea regionale siciliana; si è svolta negli ultimi quattro mesi, con 22 audizioni di persone “informate dei fatti” e l’acquisizione di materiale prezioso, dimenticato non si sa se volutamente o per banale incuria. (Chi scrive questo articolo ha avuto l’onore di essere chiamato a partecipare ai lavori come consulente, per aver seguito la vicenda - in solitudine, purtroppo - da almeno un ventennio). Stiamo parlando di fatti avvenuti 29 anni fa, tuttora avvolti nel mistero e nell’omertà delle più alte istituzioni statali; fatti che però contribuirono a cambiare il corso della storia italiana (sicuramente in peggio). Il giudice Paolo Borsellino venne ucciso a Palermo la domenica 19 luglio 1992, 57 giorni dopo il suo amico Giovanni Falcone. Le due stragi, vere e proprie azioni di guerra, attribuite a Cosa nostra, non hanno precedenti, né seguenti, in Europa. Non corrispondono solo alla volontà di uccidere due nemici, quanto di terrorizzare un’intera nazione: un’autostrada e un palazzo fatti saltare in aria; tre magistrati e otto poliziotti uccisi, cinque feriti. In queste azioni di guerra Cosa nostra non ebbe una sola perdita, né un intoppo nella loro realizzazione. Lo stato non se lo aspettava, ma subito dopo mandò l’esercito in Sicilia e instaurò il 41 bis nelle carceri, dove vennero trasferiti centinaia di boss. A gennaio 1993 venne arrestato “il capo dei capi” Riina, presentato come il responsabile di tutto, ma per tutto l’anno si susseguirono attentati dinamitardi ed uccisioni che fecero pensare che l’Italia fosse sull’orlo di un colpo di stato. Nel marzo del 1994, alle elezioni politiche, invece della sinistra, candidata favorita e molto impegnata sul tema della lotta alla mafia, vinse la Forza Italia di Silvio Berlusconi che certo non aveva la lotta alla mafia nella sua agenda. La pista Scarantino - A luglio 1994, con grande clamore, il procuratore di Caltanissetta annunciò che il delitto Borsellino era risolto: era stato Vincenzo Scarantino, uno scimunito di quartiere, insieme ad un’accolita di poveracci a fare tutto. Solo quindici anni dopo - casualmente, o forse perché ormai i tempi erano maturi? - si seppe che era tutto falso, e una dozzina di innocenti fu liberata (in silenzio, però). Ancora oggi non si sa chi ha ucciso Borsellino; e naturalmente non si sa (meglio: non si vuole sapere) perché sia stata organizzata la falsa pista. Ci sono, in verità, processi in corso, a carico di poliziotti che “gestirono” il pentito Scarantino (ovvero autorizzarono le torture cui fu sottoposto, insieme ai suoi correi), ma sono minuzie e con ogni probabilità finiranno in niente. In 29 anni, da parte della magistratura che ha diretto, avallato o coperto il depistaggio non si è mai alzata una voce per denunciare lo scandalo. Piuttosto, molte carriere - e non piccole - si sono costruite su quell’inganno. Ma veniamo al lavoro della “commissione Fava”. Da una parte si è dedicata, con le testimonianze di importanti testimoni dell’epoca: ministri, magistrati, membri del Csm, a ricostruire la catena di comando che portò al depistaggio. Che andò così: le indagini, fin dalla sera del delitto, vennero affidate dal capo della polizia Parisi ai servizi segreti (Sisde) nella persona di Bruno Contrada; procedura contro la legge. Poi - per decisione del governo nazionale - al capo della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera (anch’egli membro dei servizi), estromettendo i più valenti investigatori, peraltro collaboratori stretti di Falcone e Borsellino. Si trattò, nei fatti, di un “colpo di stato” all’interno delle indagini. La Barbera usò metodi “sudamericani” (in una eccezionale testimonianza, il detenuto Vincenzo Pipino li ha raccontati, con tanto di particolari grotteschi), riuscì a subornare magistrati che si occupavano del caso, e soprattutto eliminò dalla scena tutte le piste alternative. E dire che queste erano cospicue. La Commissione Fava, per esempio, ha riportato alla luce un rapporto della Dia (allora direttore Pippo Micalizio) di inquadramento generale della stagione delle stragi, che venne inviato a tutte le procure interessate all’inizio del 1994. Il testo fa venire i brividi ancora adesso, perché la strategia di Cosa nostra viene inserita (con una quantità notevole di fonti di prova) all’interno di una strategia “economica e finanziaria” tesa a cambiare il volto del nostro paese. Si parla di nuovi partiti da costruire, delle trame massoniche e di quelle leghiste, dei collegamenti stretti tra mafia e servizi segreti e soprattutto della “finanziarizzazione” dell’industria dell’eroina di cui la mafia siciliana era all’epoca monopolista. Lo scenario è tanto realistico quanto pauroso: i soldi dell’eroina avevano conquistato l’economia italiana. Falcone e Borsellino furono uccisi perché l’avevano capito. Il passato che non passa - Perché questa pista investigativa non fu seguita? Perché, per almeno dieci anni, tutte le istituzioni (dalla procura nazionale antimafia, alle Dda, al Csm, alla politica) bocciarono questa interpretazione? Lo dirà - chissà, tra un secolo? - la famosa Storia. Per adesso si può solo dire che il piccolo commissario La Barbera, il piccolo procuratore di Caltanissetta Gianni Tinebra (ambedue morti) furono funzionali a che la storia prendesse un altro corso. Solo gli ingenui sperano che ci sia un “pentito” tra i magistrati che hanno assistito allo scempio, in vita e in morte, di Paolo Borsellino. (Tra le audizioni è stata particolarmente drammatica quella di Bruno Contrada, un lucidissimo 92enne dal volto scavato, un Re Lear gentile; Contrada fu il dirigente del Sisde prima nominato dominus dell’indagine Borsellino e poi arrestato nel dicembre 1992, protagonista di una trentennale vicenda giudiziaria da cui è uscito assolto). Tutte queste storie del secolo scorso possono risultare attraenti quanto le colpe degli ammiragli del Savoia alla battaglia di Lissa (1866) su cui si appassionarono i nostri bisnonni, ma forse questa volta è diverso. Durante i lavori della commissione, ci si è imbattuti nel passato che non passa. Era infatti stato pubblicato un libro importante, in cui si diceva finalmente la verità sul delitto Borsellino. Michele Santoro (e chi non lo ricorda?) aveva raccolto le confessioni di Maurizio Avola, un killer catanese, chiacchierino da trent’anni, considerato un fanfarone, sedicente autore di 80 omicidi. Si era dimenticato il più importante; e infatti confida a Santoro che l’omicidio Borsellino l’ha fatto lui! È una cosa ridicola, con particolari da film di serie C: ero vestito da poliziotto, eravamo pronti anche con i bazooka - che Avola aveva cercato già di smerciare, ma Santoro ci casca con tutti due i piedi. Non solo, ma va in tutte le televisioni a dire che lui ha scoperto finalmente la verità, e fa me culpa per aver sospettato che ci potesse essere lo zampino di Berlusconi o addirittura lo stato…. No, no, credetemi! implora Santoro. È stata solo la mafia, me l’ha detto Avola! La testimonianza di Avola - Ricorderò per un bel po’ la testimonianza alla Commissione Fava dell’agente di polizia Antonio Vullo, l’unico scampato alla strage di via D’Amelio. Spiegò che tutto quello che raccontava Avola era falso, perché lui era lì, aveva visto, sapeva, conosceva metro per metro quella scena, il prima, il durante e il dopo, aveva visto la morte in faccia, era tornato innumerevoli volte a ricordare i suoi colleghi uccisi. Ma l’agente Vullo, in 29 anni, non era mai stato sentito. Avola mentiva, era chiaro. Come Scarantino trent’anni fa. Ma lo scimunito Scarantino, oggi si sa, fin nei minimi dettagli, era stato imbeccato, preparato, torturato per giocare quella parte così importante. Oggi, chi imbecca quel vecchio arnese di Maurizio Avola? Perché? Perché questo depistaggio è eterno? Che cosa c’è di così pauroso, di così indicibile nel delitto Borsellino? Oggi ci saranno le celebrazioni rituali del 19 luglio 1992. Nessuno saprà cosa dire. (La relazione, le appendici, le conclusioni della Commissione sono pubbliche e richiedibili presso l’Assemblea regionale siciliana). Tre decenni di depistaggi e misteri: ecco perché la mafia uccise Borsellino di Francesco La Licata La Stampa, 19 luglio 2021 Le indagini sul mondo del grande capitalismo. Il giudice martire sapeva di rischiare la vita, ma non si fermò. Le stragi mafiose in Sicilia, quella del 19 luglio 1992 che sterminò il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta, e la precedente, del 23 maggio, che massacrò Giovanni Falcone insieme con la moglie, Francesca Morvillo, e i ragazzi che li proteggevano, rappresentano - ancora oggi a quasi trent’anni di distanza - la più grave perdita che il paese abbia subìto dopo la tragedia della guerra mondiale. Una perdita resa ancora più incolmabile dall’assenza di verità e giustizia che concorre ad acuire il dolore dei familiari, privati del giusto risarcimento, e dei tanti cittadini onesti che non si rassegnano a “non sapere” ciò che accadde all’inizio degli Anni Novanta in Italia. Già, non soltanto nella periferica e bizzarra Sicilia, dove può accadere tutto e il contrario di tutto, ma nell’intera Nazione. Perché ciò che è avvenuto nell’Isola (ormai solo chi non vuol vedere non vede e capisce) ha origini molto meno anguste della patria di Cosa nostra. Paolo Borsellino è stato ucciso dalla mafia e questo è assodato. Ma tre decenni di indagini, rivelazioni di pentiti (buoni e inaffidabili), certezze giudiziarie e dubbi sostenuti dalla logica, tre decenni di depistaggi - alcuni sfrontatamente ostentati - ci dicono che dietro la macchina da guerra diretta da Totò Riina c’era (e forse c’è ancora) un mondo contaminato che si nasconde dietro la patina della politica e degli interessi economici nazionali e transazionali che toccano le inviolabili stanze dei soldi, tanti soldi: il “gioco grande”, per dirla con le parole con cui Giovanni Falcone descriveva la trappola in cui si era cacciato mentre cercava di superare i ristretti limiti di una mafia rozza per entrare nel bel mondo delle grandi fortune, dei grandi appalti e dei finanziamenti pubblici. Cosa nostra non aveva interesse a riproporre, dopo appena 57 giorni, la sceneggiatura di Capaci. Un replay che le avrebbe portato pochi vantaggi e un mare di guai, in termini di repressione e di carcere per i propri affiliati. E tuttavia, raccontano i pentiti, Riina si assume la responsabilità per intero e ordina: “Borsellino si deve fare e basta”. Come se fosse intervenuto qualcosa di esterno e di nuovo a spingere per il “secondo colpo” e addirittura a pretendere un’accelerazione, come se il tempo giocasse contro gli interessi non di Cosa nostra (che è abituata ai tempi biblici e alla vendetta come piatto servito “freddo”) ma di qualcuno che guardava un po’ più lontano. Paolo Borsellino non è stato ucciso per vendetta, o quantomeno non solo per vendetta, movente che potrebbe essere stato invocato da Riina per dare soddisfazione al suo popolo e per nasconderne un altro più vero: la prevenzione. Borsellino andava fermato perché si era avvicinato al vaso di Pandora ed aveva capito il vero motivo per cui era stato ucciso il suo amico Giovanni Falcone. Lo affermò chiaramente nell’ultima uscita pubblica, nell’atrio di Casa Professa: “Io sono testimone - disse - e ho il dovere di riferire all’autorità giudiziaria”. Purtroppo non fece in tempo, perché il giudice che avrebbe dovuto interrogarlo non lo chiamò mai. E a quanti, cronisti compresi, gli suggerivano di andare via e salvarsi, rispondeva: “Non posso, lo devo a Giovanni Falcone e ai tanti cittadini che hanno creduto e credono in noi”. Per questo si può parlare del giudice come di un martire: sapeva che andava a morire ma non ha valuto tradire la propria coscienza e il proprio dovere etico e morale. Qualcuno guidò e utilizzò la protervia mafiosa, qualcuno che non aveva in tasca la tessera di Cosa nostra e proteggeva segreti tanto grandi da poter dire di agire nell’interesse nazionale. Paolo Borsellino aveva intrapreso la strada che portava ai grandi appalti e al grande capitalismo. Aveva chiesto ai carabinieri di riesumare il dossier intitolato “Mafia e appalti” che, apprendiamo, altro non era che il prologo di una inchiesta che avrebbe portato direttamente alla Tangentopoli milanese, esplosa quasi in contemporanea con lo stragismo mafioso e chiusa con il crollo della Prima Repubblica e con la destabilizzazione del Parlamento. Quel dossier rappresentava forse la miccia adatta per innescare una bomba nel mondo politico, economico e finanziario. Dice oggi Antonio Di Pietro, che Tangentopoli la conosce bene: “Prima di noi di Milano, il sistema corrotto della spartizione degli appalti e delle tangenti per il finanziamento della politica lo aveva scoperto il pool antimafia di Palermo. Falcone ci aiutò per le rogatorie internazionali e ricordo che aveva le idee chiare”. Borsellino, quindi, rappresentava un pericolo per la stabilità politica del paese. Questo potrebbe spiegare la fretta e la determinazione nell’approntare l’attentato di via D’Amelio. E potrebbe spiegare la grande attività depistatoria del dopostrage (dall’agenda scomparsa al falso pentito Scarantino “inventato” istituzionalmente per collocare saldamente la strage dentro un movente esclusivamente mafioso), che non si è mai fermata e continua ad avere risultati altalenanti nei vari gradi degli infiniti processi. E probabilmente la strategia del muro di gomma avrebbe avuto risultati ancora più vincenti se le vicende di Borsellino e Falcone non fossero state supportate dall’ostinato impegno delle famiglie dei due giudici che, senza indietreggiare di un passo e sempre nel rispetto delle regole istituzionali, hanno eretto delle vere e proprie dighe in difesa della memoria dei loro cari e in difesa del diritto ad ottenere verità e giustizia come risarcimento per le loro perdite. Commovente e, nello stesso tempo, lucida l’analisi di Fiammetta Borsellino nella sua requisitoria contro i tentativi di insabbiamento giudiziario. Con parole semplici ricorda che se il depistaggio su Scarantino viene considerato dalla stessa magistratura “il più grande della storia giudiziaria recente” ci deve essere una spiegazione a questa ferita, “ci devono spiegare perché le istituzioni si comportarono in modo così poco istituzionale”. Forse perché aveva appena avuto inizio il tentativo di approccio, la famigerata trattativa con Cosa nostra? Ma questo è un altro capitolo della triste storia della lotta alla mafia. Il ventennio lungo delle destre, dal G8 al carcere di Santa Maria di Piero Ignazi Il Domani, 19 luglio 2021 Per capire la differenza tra un governo di destra e un governo ispirato a valori costituzionali si faccia il confronto tra gli interventi del presidente del Consiglio Mario Draghi e della ministra della Giustizia Marta Cartabia di fronte al pestaggio dei detenuti nelle carceri di Santa Maria Capua Vetere e quello dl Silvio Berlusconi e di tutti i suoi ministri all’indomani del G8 di Genova del 2001, di cui ricorre oggi il ventesimo anniversario. Mentre oggi i responsabili delle istituzioni hanno pubblicamente fatto ammenda di comportamenti vergognosi e illegali della polizia penitenziaria, allora dai banchi della maggioranza nessuno si alzò a denunciare le inaudite violazioni commesse. La scelta di Berlusconi - Da presidente del Consiglio in carica, Silvio Berlusconi illustrò in parlamento le prove delle intenzioni violente degli occupanti della Diaz esibendo una serie di “armi”, comprese le due bottiglie molotov portate lì dalla polizia per incastrare i manifestanti. A supporto di questa opera di falsificazione venne un silenzio di tomba sulle violenze compiute dagli apparati di sicurezza. Non una parola sui pestaggi di persone inermi incontrate per strada, non una parola sulla macelleria messicana dell’irruzione alla scuola Diaz, non una parola sulle torture - come le ha finalmente definite 16 anni dopo (un po’ tardi…), l’ex capo della polizia Franco Gabrielli - inflitte agli arrestati. E, infine, non una parola sulla sospensione dei diritti civili, a incominciare dalle garanzie costituzionali degli arrestati. Quanto successe nella caserma di Bolzaneto non aveva paragoni nell’Europa democratica del dopoguerra. Soltanto negli angoli più bui dell’America Latina si potevano trovare esempi simili (e persino peggiori, com’è tristemente noto). L’incubo proiettato attraverso le immagini di film come Garage Olimpio a Nuevo Orden, o nel passaggio sulla repressione della manifestazione studentesca nel Roma di Alfonso Cuaron, si è materializzato nei tre giorni maledetti del luglio 2001. Soltanto la giustizia, oggi trascinata nel fango dalle sue manchevolezze e dalla lunga, incessante, tambureggiante opera di delegittimazione della destra, riuscì a fare luce su quel buco nero. Tuttavia, alla ricostruzione giudiziaria degli eventi e delle responsabilità non sono corrisposte adeguate sanzioni penali e politiche. Uomini degli apparati di sicurezza hanno schivato le pene tra prescrizioni e sentenze benevoli, e il livello politico non ha pagato alcun pegno. Far finta di niente - È proprio quest’ultimo aspetto il più inquietante. Come è possibile che tutto il governo Berlusconi abbia potuto continuare indisturbato e tranquillo a ignorare quanto accaduto, come fosse una quisquilia di nessun conto, senza aver dovuto affrontare non tanto i tribunali formali quanto quelli dell’opinione pubblica? Quanto accaduto vent’anni fa e negli anni successivi ha evidenziato una società ancora troppo incerta nella difesa dei diritti civili di fronte alla cosiddetta “autorità costituita” e senza la forza per delegittimare i responsabili politici. E quindi, nel caso, si può ritornare a praticare quei metodi, perché il rischio è minimo. Non per nulla in un tweet del 12 luglio 2018 (non un secolo fa), la leder di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni scrisse che era necessario “abolire il reato di tortura che impedisce agli agenti di fare il loro mestiere”; un tweet che le era uscito dal cuore, visto che fu poi corretto dai suoi accorti consiglieri. Cosa direbbe Meloni del comportamento delle forze di polizia durante il G8 di Genova? Loderebbe il loro coraggio e la loro abnegazione, o ne condannerebbe le violenze? Starebbe dalla parte dei massacrati della Diaz e dei torturati della caserma Bolzaneto, incarcerati senza poter vedere un avvocato, oppure considererebbe tutto ciò una legittima azione della parte dello stato? Allora tutto ciò scivolò come acqua sulla destra al potere mostrando la sua intima natura illiberale e una società civile troppo acquiescente. Oggi il quadro è diverso o si affacciano ancora delle pulsioni autoritarie? “Voglio i pieni poteri”, smaniava l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini nell’estate di due anni fa. Il giudizio sui fatti di Genova non è una questione di archeologia politica: fornisce la cartina di tornasole della piena adesione o meno ai valori costituzionali. Il G8 di Genova raccontato a chi oggi ha vent’anni di Marco Imarisio Corriere della Sera, 19 luglio 2021 Le devastazioni dei black bloc e l’attacco al corteo pacifico. La morte di Carlo Giuliani, il blitz alla Diaz, i processi: i passaggi salienti della manifestazione di luglio 2001. A guardare nei ricordi, viene in mente l’ultimo momento di quiete prima della tempesta. Erano le nove del mattino di un venerdì soleggiato. Il colonnello dei carabinieri Giorgio Tesser e il questore di Genova Francesco Colucci si erano presentati “per un veloce saluto agli organi di informazione” nella hall dell’hotel di Genova che raccoglieva i giornalisti venuti da tutto il mondo. Per “un caffè tranquillizzante”, questa la frase che resta su un taccuino ormai scolorito, che doveva fugare i timori e le ansie che secondo loro i media diffondevano “con inspiegabile esagerazione”. Parlò solo il militare, un uomo massiccio, ex giocatore di rugby. “Fidatevi, non succederà nulla e voi vi annoierete”. Strizzando l’occhio, spiegò che era tutta una gigantesca recita, che i black bloc avrebbero fatto un po’ di casino, ma con gli altri, gli organizzatori del grande corteo che sarebbe sceso nel centro della città partendo dallo stadio Carlini, c’era un accordo “quasi scritto”. Li avrebbero fatti sfilare, avrebbero consentito a qualche militante di violare la zona rossa che proteggeva gli otto grandi della terra giunti nel capoluogo ligure per discutere tra loro. “E poi ce ne andiamo tutti cena”. Salutò con virili pacche sulle spalle, augurò buon lavoro a tutti. Mentre usciva ripetè ad alta voce che tutto sarebbe andato bene. Dietro di lui, il questore che non aveva pronunciato parola, si mise la mano nella tasca dei pantaloni e procedette a un gesto scaramantico che rivelava i suoi dubbi sul buon esito di quelle manifestazioni. Appena fuori dall’hotel, nel grande piazzale davanti alla stazione di Brignole, i black bloc stavano cominciando a picconare l’asfalto per fare scorta di pietre e sassi. Il movimento no global - Sono passati vent’anni, da quei tre giorni che dovevano essere pieni di abbracci e divennero un’orgia di violenza. Il G8 di Genova fu il punto d’arrivo e l’inizio della fine del movimento no global, chiamato così perché si batteva contro la globalizzazione, e a cavallo tra il vecchio e il nuovo secolo assunse una dimensione mondiale, mai più raggiunta da nessun’altra organizzazione non governativa. Era così grande che non aveva una sola anima. Ne aveva molte, forse troppe. La caratteristica principale di Genova 2001 fu che all’interno della sigla del Genoa Social Forum (GSF) confluirono associazioni che operavano in campi molto diversi l’uno dall’altro, unite però da una visione condivisa, senz’altro anticapitalista, soprattutto contro il potere delle multinazionali, lo sfruttamento della manodopera nel terzo mondo e non solo in quello, la perdita di controllo del singolo individuo rispetto ai meccanismi spesso oscuri della grande finanza mondiale. Lo slogan valido per tutti era che “un altro mondo è possibile”. I black bloc - Ci arrivarono male, i no global, a quell’appuntamento così in anticipo sui tempi di una esperienza ancora gracile, perché fatta di embrioni che ancora dovevano coagularsi in una sola entità. Abbiamo detto che in quel movimento confluivano esperienze dissimili. Per limitarci al campo italiano, c’erano partiti politici di sinistra, sindacati, associazioni studentesche, movimenti cattolici come i Beati i costruttori di pace, c’era la Rete Lilliput, che operava nel Sud del mondo, c’erano gli “intellettuali” di Attac, una associazione nata in Francia che si opponeva alle politiche neoliberiste. C’era di tutto. Nell’anno precedente il G8 di Genova, divenne chiaro che il movimento era diventato veicolo anche di soggetti indesiderati, il cosiddetto Blocco nero, termine che in origine indica una tattica di protesta violenta. Ci furono scontri violenti a Davos durante il Forum economico mondiale, a Göteborg per il summit dell’Unione europea, e nel marzo del 2001 a Napoli, in quella che fu una prova generale di Genova anche in termini di repressione delle manifestazioni di piazza. I primi segnali - I segni che qualcosa di molto brutto sarebbe potuto accadere erano ovunque. Ma il G8, la riunione annuale dei grandi della terra, era diventato una ossessione. Bisognava esserci, anche se ormai si parlava quasi solo di ordine pubblico e non dei contenuti della variegata piattaforma No global. I capi del GSF caddero nella trappola, che era anche mediatica. Dichiararono guerra, in senso figurato, imposero condizioni, senza capire, precedenti alla mano, che il manganello dalla parte del manico ce l’avevano gli altri, non solo in senso figurato. Se questa è la premessa, tutto ciò che accadde dopo non ha alcuna giustificazione. Se esiste una memoria condivisa, basata sui fatti, allora non esistono neppure le ragioni dell’uno dell’altro. Esistono i torti di una parte, lo Stato italiano, e le ragioni delle vittime, al netto dei loro peccati di presunzione che comprendevano una ostinata sottovalutazione dell’ostilità nei loro confronti da parte degli uomini in divisa. Ma quella mattina, il giorno della grande manifestazione, tutto sembrava andare come previsto dal colonnello dei carabinieri. Il copione riscritto - I black bloc avanzavano verso le alture della città devastando, saccheggiando. Le pattuglie li accompagnavano nel loro percorso, quasi scansandosi. Tutto cambia all’improvviso nel primo pomeriggio. Come se il copione fosse stato riscritto senza avvisare la maggior parte degli attori. A poca distanza dai black bloc, le quarantacinquemila persone che stanno scendendo dallo stadio Carlini vengono attaccate da una carica laterale dell’Arma che spezza il corteo. È un attacco violentissimo, che ancora oggi non trova alcuna spiegazione plausibile. Cosa è successo per giustificare un tale cambio di strategia? Si possono fare solo ipotesi. L’unica cosa certa è che mentre venivano trasmesse in mondovisione le immagini delle devastazioni dei black bloc, l’allora vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini si presenta alla caserma San Giuliano dei Carabinieri, una visita non prevista, forse per imporre una reazione, di qualunque genere, rispetto al piano definito in precedenza. Alle 14.58 dalla centrale operativa dei “cugini” della Polizia si sentono le bestemmie del dirigente genovese che doveva coordinare le varie mosse delle pattuglie. “Noo… hanno caricato l’altro corteo porco giuda… I carabinieri dovevano andare dall’altra parte e non in via Tolemaide, che c… ci fanno lì, ma perché attaccano?”. La domanda non ha ancora trovato risposta. È saltato il tappo, saltano i freni inibitori. La morte di Giuliani - Sotto i portici di corso Gastaldi, dove sono riparati manifestanti e giornalisti feriti soccorsi dai medici volontari, i militari fanno scorrerie colpendo a caso, infierendo su anziani, passanti, ragazzi. Muore un ragazzo di 23 anni, ucciso in piazza Alimonda da un colpo di pistola sparato da una giovane recluta rimasta intrappolata in una Jeep assediata dai manifestanti inferociti. Aveva 23 anni, si chiamava Carlo Giuliani. Era uscito di casa insieme ad alcuni amici per andare a vedere. In quello che ormai è diventato un delirio di violenza, anche lui lancia pietre, raccoglie un estintore, sta per scagliarlo verso la Jeep blu. Muore sul colpo. Il suo corpo verrà sfregiato da alcuni ufficiali desiderosi di dissimularne la causa della morte. La faccia che talvolta riaffiora sui muri delle città italiane è la sua. Carlo non era un no Global, ne sapeva poco di quella storia. Ma ne diventerà un simbolo. Il peggio è accaduto, il peggio deve ancora accadere. Il giorno seguente, la manifestazione di chiusura del GSF è una follia di violenza. I black bloc infiltrano il corteo, la Polizia alla quale è stato affidato il compito di sostituire i Carabinieri li insegue e non fa distinzioni tra manifestanti pacifici e infiltrati. “Una macelleria messicana” - A sera, sembra finita. Invece no. La scuola Diaz è il luogo dove dormivano alcuni black Bloc, che intanto hanno lasciato la città. All’interno ci sono un centinaio di no Global che stanno trascorrendo la loro ultima notte a Genova. L’irruzione del reparto mobile di Roma guidato da Vincenzo Canterini verrà ricordata con la definizione data al processo da uno dei suoi uomini, “una macelleria messicana”. Sangue sui muri, teste spaccate, violenze di ogni genere su persone inermi. Una spedizione punitiva, una vendetta. Appare chiaro che è successo qualcosa di enorme. Il tentativo maldestro di giustificare quell’intervento fabbricando prove false, una bomba molotov portata all’interno della scuola da uno degli uomini di Canterini, sarà oggetto di una lunga vicenda processuale che si concluderà solo dieci anni dopo, con la condanna dell’intera catena gerarchica della Polizia per falso, mentre le accuse di lesioni sono andate prescritte. Per le violenze della Diaz e per le sevizie accadute nella caserma di Bolzaneto, dove venivano portati i manifestanti arrestati, umiliazioni, abusi sessuali sulle donne, sfregio su persone private della loro libertà, pagheranno in pochi. Perché a quell’epoca non esiste nel nostro Codice penale il reato di tortura, l’unico adatto a definire quel che è accaduto. Vent’anni dopo - Sono passati vent’anni, e non è vero che non sappiamo nulla. (Per chi vuole approfondire, sono appena usciti molti libri. Genova vent’anni dopo, con un sottotitolo eloquente: storia di un fallimento, di Giovanni Mari mantiene un approccio equilibrato; Genova per chi non c’era, curato da Angelo Miotto è un resoconto preciso anche delle istanze ancora attuali dei no global; Diaz. Processo alla Polizia, di Alessandro Mantovani è la ricostruzione basata sugli atti giudiziari dell’irruzione alla scuola mentre Fai qualcosa! di Fabio Geda, è appunto il tentativo riuscito di spiegare quei fatti ormai lontani ai ragazzi di oggi). Almeno esiste una percezione chiara di chi fu l’aggredito e di chi era l’aggressore. La giustizia dei tribunali, con i suoi tempi, è arrivata a delineare un quadro preciso, ancorché asimmetrico: nessun ufficiale dei Carabinieri ha mai pagato per quella decisione scellerata che diede il via alle violenze. Il movimento no global sopravvisse alla ferita cambiando pelle. Fu obbligato a farlo, perché due mesi dopo ci fu l’undici settembre di New York. Iniziò la stagione delle grandi mobilitazioni contro la guerra in Iraq, poi ognuno andò per la sua strada, disperdendosi in mille rivoli. Il reato di tortura - L’eredità di quei giorni sta nella legge che introduce il reato di tortura, approvata sedici anni dopo, nel luglio del 2017. Genova 2001 non è stato l’inizio di nulla, anche se qualcuno sostiene che quei fatti hanno aperto la strada al populismo in voga oggi. Al massimo, ha segnato l’inizio di un modo di fare politica, o di un modo della politica di commentare ogni vicenda, dove i fatti vengono ignorati e si può dire ogni cosa e il suo contrario. E allora, perché raccontare questa storia un’altra volta. Forse, per quell’esercizio necessario della memoria che in Italia viene quasi sempre trascurato. Perché fu una pagina ignobile della democrazia, che allontanò dalla partecipazione una intera generazione. E perché ricordare è l’unico modo possibile per dire che non deve accadere mai più. L’era nuova dell’egolibertà di Ezio Mauro La Repubblica, 19 luglio 2021 La pandemia ha modificato il quadro di riferimento in cui ci muoviamo, investendo inevitabilmente anche il principio di libertà, fino a trasformarlo. Ogni volta che l'ideologia prende possesso di una parola, mutandola in bandiera, la deforma mentre la santifica. Sta capitando esattamente questo al concetto di libertà. È la formula base della democrazia liberale, il principio costitutivo della civiltà costituzionale su cui si appoggiano i diritti di ognuno, gli obblighi reciproci, la rete di riconoscimento e il sistema di garanzie che ci scambiamo costantemente in quella comunità politica chiamata società. In questo senso, come fondamento della democrazia riconquistata e della casa comune che stiamo continuamente ricostruendo, la libertà appartiene a tutti e non può essere appannaggio di una parte perché è insieme una condizione, un interesse e un obiettivo in cui si riconosce per intero la collettività dei cittadini. Finché con la pandemia l'emergenza modifica il quadro di riferimento in cui ci muoviamo, investendo inevitabilmente anche il principio di libertà, fino a trasformarlo. Per due anni il mondo ha vissuto in una sorta di stato d'eccezione permanente. Davanti alla minaccia di morte, al pericolo di contagio, alle persone che si sono scoperte contemporaneamente vittime e veicolo del virus, la domanda di sicurezza ha preso il sopravvento dominando la scena, a svantaggio dell'esercizio dei diritti. Siamo entrati nella pandemia chiedendo protezione al potere pubblico, come si faceva nelle epoche passate di fronte al maleficio della peste e del colera: regredendo all'infermità in balia di un pericolo ancestrale e modernissimo, abbiamo rinunciato coscientemente a quote di autonomia e indipendenza in cambio di una garanzia di tutela e salvaguardia, nella salute ma non solo. Al potere infatti abbiamo chiesto prima di tutto un'interpretazione del fenomeno che dovevamo fronteggiare, una sua definizione e l'identificazione delle forme di contrasto e di attacco, operazioni che non potevamo condurre da soli. In cambio, abbiamo accettato per tutta la fase acuta dell'infezione la potestà disciplinare del governo, controllato dal parlamento. In questo senso, dunque, è avvenuta da parte dei cittadini una sottomissione volontaria allo stato di necessità, che è stata anche una prova di fiducia vicendevole col potere legittimo, un test di funzionalità del meccanismo democratico sotto pressione. Abbiamo così sperimentato che anche le libertà, pur rimanendo un bene supremo e insieme fondamentale della civiltà in cui viviamo, sono tuttavia comprimibili nei casi eccezionali di una prova estrema. Appena l'emergenza assoluta è passata, e siamo entrati in una fase precaria e instabile, ma relativamente meno pericolosa, è saltata questa disciplina collettiva e questa subordinazione consapevole alla regola speciale dell'urgenza. Le ragioni sono evidenti. Prima di tutto un meccanismo naturale di ripristino dell'autonomia individuale e di gruppo, a lungo contratta e compressa: la voglia di indipendenza, il bisogno di riprendere il controllo dello spazio pubblico dopo la chiusura materiale e metafisica nel privato di una dimensione domestica separata, impedita e mutilata. Poi l'ansia di perdere il lavoro o di non ritrovarlo più per i dipendenti, l'urgenza per gli imprenditori, i commercianti, gli esercenti, gli artigiani di riaprire bottega per recuperare il mercato, il reddito, la sopravvivenza e il futuro dopo un lungo black out che ha soffocato l'economia individuale e del Paese fin quasi a strangolarla. L'esigenza psicologica di riprendersi pienamente la vita, centellinata per mesi a scartamento ridotto, si è dunque incrociata con un interesse materiale potente a difendere la dimensione del lavoro e dell'impresa, generando un'insofferenza crescente per tutti i vincoli, per ogni prudenza e infine per qualsiasi regola. La politica ha evidentemente il dovere di raccogliere queste sollecitazioni, dando loro un orizzonte e una prospettiva. Ha però anche l'obbligo di garantire la tenuta del Paese di fronte a una minaccia virale che non è affatto sparita, ma anzi si sta riproducendo mentre muta la sua conformazione per riproporre l'assedio. Più che l'unità nazionale di una maggioranza politicamente inconciliabile, sarebbe servita semplicemente un'etica condivisa, consapevole della gravità di questa sfida. E invece la politica si è spaccata radicalmente, le etiche sono diventate due. Mentre il governo si è trovato solo a farsi carico della sicurezza, invitando i cittadini alla prudenza, richiamando le insidie ancora presenti, contemperando politiche di apertura e provvedimenti di salvaguardia, la destra estrema di Salvini e Meloni si è schierata all'opposizione di ogni misura di precauzione, cavalcando la spinta alla gestione individuale degli spazi e dei rischi di questa fase della pandemia: trasformandola così da fattore sociale in fenomeno politico. “Mi rifiuto di vedere qualcuno che insegue mio figlio con una siringa”, ha detto ieri Salvini, aggiungendo che “bisogna lasciar lavorare la gente in sicurezza”, mentre invece oggi “uno deve fare il Green Pass per andare a prendere il caffè in piazza e intanto sbarcano a carrettate in Sicilia senza Green Pass”. Giorgia Meloni ha addirittura chiamato in causa Orwell, scomodando il “Grande Fratello” per le misure di Draghi. La spiegazione di questo atteggiamento è semplice, e rivela la vera natura della destra italiana. L'estremismo nazional-populista avverte il deposito di istinti, energia e vitalità che c'è nella parte di popolazione che chiede piena autonomia, ma invece di indirizzare questa carica in una dimensione d'equilibrio a tutela del collettivo nazionale preferisce eccitare il suo ribellismo, sfiorare il pregiudizio no vax che la pervade, corteggiare il vecchio sentimento antistatuale che la influenza, incoraggiare la fobia normativa che l'attraversa, cercando di trasformare una platea dispersa in un blocco sociale di riferimento, da sfruttare politicamente. Per questo è necessario l'ultimo passaggio, dalla politica all'ideologia: battezzando queste esigenze, queste aspettative, questi interessi e queste pulsioni in una battaglia per la libertà, da contrapporre a Draghi e alla sinistra, con la loro ossessione regolamentare. Come se la sicurezza fosse a carico di una parte del Paese soltanto, e il populismo potesse disinteressarsene, tanto c'è qualcun altro che ne porta il peso: e come, soprattutto, se la libertà fosse divisibile, e da obiettivo di tutti potesse immiserirsi nella bandiera politica di una fazione. Così la destra separa la responsabilità dalla libertà, mutandone la natura, la portata e il significato: sono libero non perché posso esercitare i miei diritti ed esprimere le mie facoltà a pieno titolo sapendo di far parte di una comunità interessata al bene comune, ma semplicemente perché respingo ogni vincolo nei confronti degli altri. Libero perché liberato, dunque. Entriamo disarmati e inconsapevoli nell'era sconosciuta dell'egolibertà. Pandemia e riforme: i tre punti deboli di un paese di Sabino Cassese Corriere della Sera, 19 luglio 2021 Sanità, scuola e giustizia, cioè più della metà del settore pubblico, hanno mostrato cedimenti. La pandemia ha messo a dura prova strutture, procedure e personale dello Stato. Le forze dell’ordine, la difesa, il vertice dell’apparato esecutivo e anche il Parlamento hanno retto bene. Sanità, scuola e giustizia, cioè più della metà del settore pubblico, hanno mostrato cedimenti. La sanità è dovuta ricorrere all’esercito per la realizzazione del piano vaccinale. Ha concentrato gli sforzi sui contagiati, ma tralasciando le altre patologie. Ha dato segni preoccupanti di scoordinamento: pensavamo che vi fossero due sanità, abbiamo scoperto che ve ne sono venti, con protocolli e tempi diversi; insomma, la sagra del regionalismo differenziato, con una preoccupante indefinizione dei compiti tra centro e periferia. La sanità ha pagato, inoltre, il costo della riduzione degli osservatori epidemiologici e delle strutture di sorveglianza e di promozione della salute. Ha mostrato il vuoto o la debolezza della medicina territoriale. Ha tradito il disegno del 1978, quello del Servizio nazionale, cioè della rete: questa o non c’è, o è piena di buchi. Alle difficoltà conseguenti a queste carenze ha sopperito il personale sanitario: messo sulla linea del fuoco, è riuscito a fronteggiare i momenti più difficili ed ora riesce a reggere la pressione della esecuzione di compiti estesi come la vaccinazione. La scuola italiana ha chiuso i battenti più a lungo degli altri sistemi educativi europei, ricorrendo per troppo tempo alla didattica a distanza, come se questa potesse sostituire quella in presenza. Si sono trasposte alla leggera le lezioni frontali in classe con quelle “on line”, senza capire che la didattica a distanza richiede metodi diversi, differente articolazione dell’insegnamento, apposite procedure di accertamento dell’apprendimento. Il personale insegnante non è stato aggiornato sull’uso dei nuovi mezzi di trasmissione. Gli studenti si sono sentiti soli, spesso anche privi degli strumenti tecnici necessari per ascoltare le lezioni. Per questi differenti motivi, l’apprendimento mostra ora molte carenze e la dispersione scolastica è aumentata. A differenza della sanità, il personale, salvo meritorie eccezioni, non ha cercato o non è stato in grado di far fronte alla nuova situazione, e i sindacati della scuola, che vociano solo quando si tratta di sistemare in ruolo precari, hanno perduto un’altra occasione per mostrare che hanno a cuore l’istruzione degli italiani. La giustizia è il servizio pubblico uscito più tardi dal “lockdown”, mettendo in seria crisi non solo gli avvocati, ma anche tutti gli altri utenti che hanno bisogno degli uffici giudiziari. I procedimenti definiti si sono ridotti di un quarto, quelli iscritti di un quinto, con un effetto complessivo di riduzione delle pendenze. Il ritardo ha influito in due modi sulla giustizia, perché l’ha rallentata, ma ha anche scoraggiato chi voleva rivolgersi ai giudici. La contrazione, nelle materie di lavoro e previdenza, è stata anche maggiore. Nonostante la riduzione dei nuovi procedimenti iscritti, il risultato è un aumento dell’arretrato, che ammontava già a sei milioni di procedure. I rappresentanti della magistratura, nonostante questa situazione, dichiarano ora che fissare i tempi dei giudizi “significa togliere serenità ai giudici”. Il corpo degli addetti alla giustizia, con qualche eccezione, si è comportato come se la situazione non lo riguardasse, come se non potesse, con un maggiore impegno, almeno compensare il costo dei disagi patiti dagli utenti. Ecco un altro effetto del disegno errato della giustizia italiana, costruita come un insieme di monadi isolate, versione estrema della indipendenza concepita quasi come libertà da ogni vincolo o dovere. Si aggiunge ora una opposizione a far decorrere la prescrizione, come se questa non fosse un rimedio alla lentezza dei processi, la cui velocità è in ultima istanza nelle mani dei giudici stessi. In qualche carcere, poi, per far fronte alle tensioni prodotte dallo “stress test” della pandemia, invece che all’arma della cura e della comprensione, si è ricorso a quella del manganello. Come si vede, i cedimenti segnalati hanno riguardato elementi diversi (la rete nella sanità, la cultura educativa nella scuola, una motivazione collettiva nella giustizia), hanno prodotto disfunzioni di differente natura e di disuguale peso e sono stati compensati dalla dedizione del personale nel primo caso, non negli altri due. Il Piano nazionale di ripresa e di resilienza prevede soluzioni specifiche ai problemi elencati (tra le riforme orizzontali e nelle missioni 4 e 6). Ma le disfunzioni mostrate dalla prova da sforzo, imposta dalla pandemia e dalle chiusure che sono seguite, vanno al di là di un piano di sei anni, indicano cedimenti strutturali, che richiedono anche altri interventi, di più lungo periodo. Ddl Zan, il no dei Dem alla mediazione di Renzi: “Trattiamo con chi è serio” di Fabio Martini La Stampa, 19 luglio 2021 Respinta la proposta di Italia Viva su un compromesso dell’ultima ora. Letta punta al muro contro muro in cerca dei voti di giovani e donne. Sul far della sera Enrico Letta lascia il “Cremlino”, il caseggiato al quartiere Testaccio dove abita e dove hanno abitato fior di intellettuali e dirigenti comunisti, si dirige verso la Festa dell’Unità di Roma e le sue parole anticipano il Pd con l’elmetto dei prossimi mesi. Il “lodo” Renzi sul ddl Zan? “Ma davvero dobbiamo fidarci di Salvini? Noi ci fidiamo di chi ha una faccia sola”. Troppo rigido il Pd? “Se non lo fossimo stati, non saremmo arrivati sin qui: all’approvazione alla Camera di un testo che sarà pure perfettibile ma la legge perfetta non esiste”. Quindi niente mediazioni neanche al minimo? “Discutiamo con chi è serio”. Di fatto Letta soffoca sul nascere il “lodo Renzi”, la proposta che l’ex presidente del Consiglio ha lanciato in un’intervista a La Stampa: sul ddl Zan concordiamo tre modifiche e le blindiamo attraverso un cronoprogramma Senato-Camera che consenta di approvare il testo “il prima possibile”. Certo, Letta non ci sta perché non si fida di Renzi e di Salvini. Ma soprattutto - ecco la novità di “sistema” - il leader dem in qualche modo scommette sulla rottura: ha programmato, in vista delle decisive elezioni amministrative di ottobre, un Pd di lotta e in questo contesto il “ddl Zan”, il disegno di legge anti-discriminazioni, è diventato l’icona, la battaglia-simbolo del “nuovo” Pd. Di un Pd intransigente sui valori, che punta a recuperare il voto dei giovani e delle donne - e dunque il “lodo” proposto da Matteo Renzi per provare ad uscire dal muro contro muro, va demolito prima che faccia proseliti. O produca fumo negli occhi, almeno secondo la lettura del Pd. Il diffidente Letta è convinto - ma non lo può dire - che Renzi abbia un patto strategico con Salvini e che tra gli “scalpi” ci sia anche il ddl Zan. Risultato: il muro contro muro produrrà questa settimana un inevitabile rinvio a settembre del disegno di legge. E a quel punto - ecco quel che i due fronti non ammettono pubblicamente - il ddl Zan entrerà a vele spiegate nella importante tornata elettorale di autunno, quando si voterà a Roma, Milano, Torino, Bologna, Napoli. Con Letta e Salvini che diventeranno gli alfieri di due schieramenti: il Pd sarà profeta della legge anti-discriminazioni, la Lega di una legge “fatta bene”. Con Renzi che incolperà il Pd di aver fatto saltare tutto pur di non cercare la mediazione. Certo, la partita del disegno di legge contro omofobia e transfobia vedrà consumarsi un passaggio dirimente martedì, quando saranno depositati gli emendamenti di tutti i gruppi parlamentari. In particolare sui tre punti caldi - identità di genere, tutela della libertà di tutte le opinioni, Giornata nazionale contro tutti gli odi a sfondo sessuale - il tenore degli emendamenti consentirà di misurarne la duttilità e dunque la volontà di approdare ad un accordo da parte della Lega e di Italia Viva, che si propone mediatrice tra gli opposti. Se le proposte di modifica saranno tutte spigolose ed esplicitamente “chiuse” alla mediazione, si aprirà la strada allo stallo, perché l’alto numero di emendamenti leghisti di fatto imporrà il rinvio del ddl Zan a settembre. Ma davanti ad un articolato più flessibile, tutto potrebbe riaprirsi. Per ora nessuno ci crede. Per una ragione che va oltre le apparenze. Enrico Letta sta cominciando a trovare segnali incoraggianti per la sua linea intransigente, quella che posiziona i Dem secondo uno schema bideniano: “riformisti nei metodi e radicali nei contenuti”. E dunque a “tutta” su Zan, tassa sulle grandi eredità. Certo, si tratta di sondaggi - oramai il nuovo mantra per politici e media - ma in questo caso si tratta di sondaggi ben fatti, perché riflettono orientamenti testati nel corso dei mesi e che finiscono per esprimere trend. Secondo l’istituto che lavora per il Pd, nel mese di giugno i Dem si attestano al secondo posto (dietro la Lega) ma soprattutto riguadagnano, con una certa evidenza, consensi tra giovani e donne. Certo, si tratta di piccoli numeri, segnali che hanno bisogno di tempo, per potersi trasformare in tendenze e percentuali. Ma per Letta la scommessa è tracciata. Secondo un’analisi confrontata con interlocutori non solo italiani e non solo politici: nelle società post-pandemia si imporranno risposte precise e alla sinistra si richiederà coerenza con i propri valori Migranti. Lavoro nero e stranieri: l’Italia dei ritardi. Badanti ancora ai margini di Paolo Riva Corriere della Sera, 19 luglio 2021 Un anno fa il provvedimento di emersione e regolarizzazione per badanti, colf e braccianti. Ma sono stati rilasciati solo 11mila permessi contro 220mila richieste. A Roma zero su 16mila. Intanto sui vaccini è il caos. “Mi vergogno. Ogni volta che la mia collaboratrice familiare mi chiede notizie, io non so cosa dirle. Aspettiamo. Da quasi un anno”, dice arrabbiata Tiziana Simonini, una dei tanti datori di lavoro che ha usufruito della sanatoria per mettere in regola cittadini stranieri senza permesso di soggiorno impiegati in nero. La data in cui ha presentato la domanda per la sua collaboratrice familiare lo scorso anno ce l’ha appuntata: 8 agosto 2020. All’8 luglio di quest’anno, mentre andiamo in stampa, non ha ricevuto ancora il permesso di soggiorno che ne sanerebbe la posizione. Non è l’unica. E questa situazione crea molti problemi, anche dal punto di vista sanitario. Ma andiamo con ordine. Nel giugno 2020 il Governo Conte approva un provvedimento di emersione e regolarizzazione dei lavoratori in nero impiegati in agricoltura, allevamento, assistenza agli anziani e cura della casa. Se i lavoratori in nero sono migranti irregolari ottengono, oltre al contratto, anche un permesso di soggiorno. Complessivamente vengono depositate circa 220mila domande. In larghissima parte sono di cittadini stranieri, riguardano colf e “badanti” (l’85 per cento del totale) e sono presentate dai datori di lavoro (un’altra opzione riguardava migranti irregolari disoccupati, ma è stata poco usata, con sole 13mila domande). Il caso di Simonini e della sua colf, quindi, è emblematico. Ed è emblematico anche il ritardo con cui le istituzioni stanno trattando la pratica. Secondo un monitoraggio della campagna “Ero straniero - L’umanità che fa bene”, al primo giugno di quest’anno “solo 11mila delle 220mila persone che hanno fatto richiesta hanno in mano un permesso di soggiorno per lavoro, mentre circa 20mila sono in via di rilascio”. Il rapporto, realizzato da una coalizione della società civile per la riforma della legge sull’immigrazione, è stato compilato sulla base dei dati raccolti da Ministero dell’Interno, prefetture e questure. Evidenzia una situazione critica soprattutto nelle grandi città. “A Roma, al 20 maggio, su un totale di circa 16mila domande ricevute, solo due pratiche sono arrivate alla fase conclusiva e non è stato ancora rilasciato alcun permesso di soggiorno. A Milano, su oltre 26mila istanze ricevute, poco più di 400 sono i permessi di soggiorno rilasciati”. Questa attesa di mesi e mesi lascia le persone in un limbo pieno di incertezza e difficoltà, non ultime quelle legate alla pandemia. La copertura sanitaria: diritti e doveri - Per quanto riguarda la copertura sanitaria di queste persone il Ministero della Salute, nel luglio dello scorso anno, aveva in effetti emanato un’apposita circolare. E in essa spiegava che i cittadini stranieri “in emersione” hanno non solo il diritto, ma proprio l’obbligo d’iscriversi al sistema sanitario nazionale “dalla data di presentazione della domanda di emersione o del permesso temporaneo”. Eppure questo, troppo spesso, non è avvenuto e non avviene. Lo spiega l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione. “Molte strutture sanitarie rifiutano l’iscrizione in mancanza della dimostrazione dell’avvenuto versamento dei contributi da parte del datore di lavoro”, scrive l’associazione in una nota. Questo mix di ritardi amministrativi e incomprensioni burocratiche ha impedito a molti di questi lavoratori di vaccinarsi, creando rischi per la salute loro e delle persone di cui si occupano, a maggior ragione se anziane. Un paradosso al quale si sta provando a porre rimedio. I ritardi nell’esaminare le pratiche, secondo le prefetture, sarebbero dovuti alla mancata assunzione di personale aggiuntivo. La norma sulla sanatoria lo prevedeva, poiché la regolarizzazione avrebbe causato un logico aumento del lavoro, ma per mesi non ve ne è stata traccia. Carichi e assunzioni - Poi, lo scorso maggio, una nota del Ministero dell’Interno alle organizzazioni sindacali riportava che “hanno assunto servizio presso le Prefetture 676 lavoratori”. Sono meno degli 800 inizialmente previsti, ma dovrebbero comunque contribuire a smaltire i carichi accumulati. Anche le Regioni possono agire: la Lombardia, per esempio, ha annunciato che ci si potrà registrare al portale per i vaccini anche con il codice fiscale provvisorio, del quale sono forniti i cittadini stranieri che fanno fatto domanda di regolarizzazione. Simonini si augura che la situazione migliori presto. Intanto ha scritto persino al Presidente del Consiglio Draghi. “Una email con tanto di posta certificata”, spiega: “Ho ribadito quanto questa situazione sia assurda, ma al momento non ho avuto nessuna risposta”. C’è da augurarsi che arrivi prima il permesso di soggiorno della sua colf. Migranti. La Libia e il realismo degli straccioni di Luigi Manconi La Stampa, 19 luglio 2021 Esiste una soglia oltre la quale la violazione sistematica dei diritti fondamentali della persona e la mortificazione della dignità umana impongono di rifiutare qualsiasi calcolo politico, anche quando fondato su interessi nazionali o regionali e su valutazioni geo-strategiche? È possibile, cioè, individuare una misura di sofferenza e di vergogna, di efferatezza e di barbarie, superata la quale risulti riprovevole, e alla lunga improduttivo, stringere compromessi con gli artefici dell’orrore? Penso di sì, e penso che quanto accade nel tratto di mare tra le coste italiane e quelle libiche abbia oltrepassato, appunto, il confine - convenzionalmente e storicamente tollerabile - dell’ignominia. Tuttavia, la stragrande maggioranza della Camera dei Deputati, compreso il gruppo di Fratelli d’Italia e con l’eccezione di una quarantina di parlamentari, ha rinnovato il finanziamento della missione di cooperazione con la Libia e della sua cosiddetta guardia costiera. Viene da dire: realismo politico, quanti misfatti in tuo nome. La categoria di realpolitik ha una sua fosca grandezza. Muove da una concezione tragica della natura umana e da una idea disincantata dell’agire politico e delle dinamiche del potere: e persegue l’obiettivo della massima capitalizzazione dei rapporti di forza presenti, spogliati da qualunque riferimento a un’etica che non sia quella dell’utile immanente e circoscritto. Eppure, non è detto che una simile concezione sia la più conveniente, sui tempi medi, sotto il profilo morale, ma anche politico. La cancellazione del giudizio etico nei processi decisionali e tra le motivazioni delle scelte politiche può risultare un parametro di corto respiro e rivelarsi controproducente. D’altra parte, la realpolitik ottocentesca del principe Otto Eduard Leopold von Bismarck operava in un mondo estremamente “più piccolo”, dove la formazione degli stati nazionali costituiva una forza rivoluzionaria in grado di rovesciare le categorie classiche della politica e i fondamenti degli ordinamenti giuridici. Oggi, tutto è cambiato, e il realismo politico che si invoca è, in genere, un espediente retorico (talvolta miserevole) per giustificare la torpida conservazione dello status quo. Una condizione dove si consumano tutte le ingiustizie e si legittimano tutte le atrocità. Quella adottata nei confronti della Libia costituisce, in realtà, la supina accettazione di uno stato delle cose da cui sembrano trarre profitto solo due soggetti: la Turchia del despota Tayyip Erdogan e quell’accozzaglia, scissa in mille fazioni ma aggregata da una sola volontà criminale, fatta di milizie, gang, pezzi di apparati statali e di consorterie tribali, dedita alla tratta di esseri umani e alla loro riduzione in schiavitù; e, poi, a rapimenti, stupri, torture e assassinii. Tutto ciò, assai spesso, a opera di appartenenti a strutture militari ufficiali e a quella stessa guardia costiera finanziata, formata e addestrata dall’Italia. Si tratta di crimini documentati, ormai da anni, dall’Onu e da tutti gli organismi internazionali. E, più di recente, da un filmato ripreso da un aereo della Ong Sea Watch, dai tracciati navali e aerei registrati da Sergio Scandura di Radio Radicale e dall’accurato rapporto di Amnesty International. Come non rendersi conto che questo orrore, destinato a perpetuarsi, è un fattore di acutissimo disordine per tutta la regione e un elemento di permanente instabilità per la Libia e per il Mediterraneo? Un serio realismo politico avrebbe voluto, piuttosto, che l’Italia e l’Europa elaborassero una strategia di cooperazione, fondata sulla tutela dei diritti universali della persona e sull’intervento umanitario in tutta l’area che va dai confini del Sahel al Mediterraneo. Al contrario, la scelta compiuta sembra destinata, fatalmente, a rivelarsi una distopia: una meschina utopia andata a male. Un caso esemplare di realismo politico straccione. Software per lo spionaggio usato da diversi governi contro giornalisti, attivisti e politici di Davide Casati Corriere della Sera, 19 luglio 2021 Pegasus, un programma sviluppato dalla società israeliana NSO Group, è stato usato in modo illegale da diversi governi contro oppositori e giornalisti. Il governo ungherese guidato da Orban ne avrebbe fatto uso, e tra gli obiettivi ci sono 37 persone legate al giornalista ucciso Jamal Khashoggi e la direttrice dell’FT. Un software israeliano creato per offrire alle autorità militari, di polizia e di intelligence la capacità di seguire e intercettare terroristi e criminali è stato utilizzato in modo illegale da diversi governi in tutto il mondo per spiare migliaia di giornalisti, attivisti per i diritti umani, politici, autorità religiose, avvocati. La rivelazione arriva dalle 16 organizzazioni giornalistiche mondiali - tra le quali il Guardian e il Washington Post - che hanno riunito gli sforzi in un consorzio chiamato Pegasus project, dal nome del software in questione. Tra i governi che avrebbero utilizzato il programma - venduto da una società privata israeliana, la NSO group, sotto il rigido controllo del ministero della Difesa israeliano - ci sarebbe, secondo il “Guardian”, quello dell’Ungheria, guidato da Viktor Orban. Il governo ungherese ha negato ogni addebito. Il governo ungherese è l’unico dell’Unione europea coinvolto nell’indagine. Gli altri governi accusati di aver usato il software in modo illegale sono quelli di Azerbaigian, Bahrain, Kazakistan, Messico, Marocco, Ruanda, Arabia Saudita, India ed Emirati arabi uniti. Ruanda, Marocco e India hanno negato di aver usato il software per scopi illegali. Il “leak” che ha dato origine all’indagine, cui hanno avuto originariamente accesso Amnesty International e l’organizzazione giornalistica francese Forbidden Stories, si compone di 50 mila numeri di telefono che potrebbero essere stati spiati attraverso il programma. Non è possibile sapere se tutti i numeri siano stati effettivamente colpiti, poiché per farlo occorre controllare ogni singolo telefono cellulare. I numeri di telefono che potrebbero essere stati messi sotto controllo si trovano in 45 Paesi; nella sola Europa sono oltre mille i telefonini che potrebbero essere stati spiati. Nei prossimi giorni i media collegati al Pegasus project pubblicheranno i nomi di alcuni dei potenziali obiettivi dello spionaggio, tra i quali - secondo il “Guardian” - ci sono “centinaia tra uomini d’affari, autorità religiose, accademici, operatori di Organizzazioni non governativi, sindacalisti, funzionari governativi, ministri, presidenti e primi ministri”. Tra le potenziali vittime dello spionaggio, i cui numeri di telefono sono inclusi nella lista, ci sono più di 180 giornalisti di organizzazioni come “Financial Times”, “Cnn”, “New York Times”, “France 24”, l’”Economist”, “Al Jazeera”, “Mediapart”, “El Pais”, “Bloomberg”, e le agenzie di stampa Associated Press, Agence France-Presse e Reuters. Roula Khalaf, direttrice del “Financial Times”, è tra le potenziali vittime dello spionaggio. Secondo quanto riferito dal “Washington Post”, 37 persone legate a Jamal Khashoggi - il reporter saudita ucciso nel 2018 nel consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul, in un piano che le intelligence occidentali fanno risalire fino al principe saudita Mohammed Bin Salman - sono state spiate con il software Pegasus. Tra loro anche la fidanzata di Khashoggi, che sarebbe stata intercettata 4 giorni dopo l’assassinio. Analisi tecniche hanno confermato che tra i telefoni “infettati” ci sono quelli di almeno due giornalisti ungheresi del sito investigativo Direkt36 - tra cui Szabolcs Panyi, uno dei più noti reporter ungheresi; una giornalista investigativa dell’Azerbaigian, Khadija Ismayilova; Siddharth Varadarajan e Paranjoy Guha Thakurta, reporter indiani del sito “Wire”, colpiti nel 2018 mentre indagavano sull’utilizzo, da parte del governo indiano di Narendra Modi, di Facebook per delle operazioni di disinformazione online; Omar Radi, un giornalista marocchino che il governo di Rabat accusa di essere una spia britannica; e Bradley Hope, giornalista statunitense che vive a Londra e all’epoca dello spionaggio lavorava per il “Wall Street Journal”. Tra i numeri di telefono presenti nel database ci sono quelli della giornalista messicana Carmen Aristegui, quello di Ben Hubbard, a capo dell’ufficio di Beirut del New York Times, e quello di Cecilio Pineda Birto, che è stato ucciso dopo essere stato individuato dai suoi killer in un autolavaggio. Il suo telefonino non è mai stato ritrovato, ed è dunque impossibile sapere se fosse stato infettato. Pegasus, dopo aver “colpito” un telefonino, consente di controllare ogni tipo di informazioni, tra cui messaggi, fotografie, email o il contenuto delle telefonate. Il programma consente anche di attivare a distanza dei microfoni. Claudio Guarnieri, a capo dell’Amnesty Security Lab (partner tecnico del consorzio) ha spiegato che una volta che Pegasus consente anche di leggere i messaggi di app criptate, come WhatsApp, Telegram e Signal, e di controllare la posizione del cellulare in tempo reale. La società israeliana NSO ha sempre sostenuto che dopo aver venduto il software a governi “accuratamente selezionati”, non ne ha più il controllo operativo, né ha accesso ai dati delle persone spiate. Raggiunta dai giornali del consorzio, ha sostenuto che il numero di telefonini controllati - 50 mila - rappresenterebbe “un’esagerazione”, e ha affermato che quella lista non può essere “una lista di numeri di telefono colpiti da governi che usano Pegasus”. L’azienda vende il suo programma soltanto a forze armate, polizie e agenzie di intelligence di 40 Paesi (che non vengono specificati), e sostiene di controllare con estrema cura che gli acquirenti rispettino i diritti umani. Egitto. Liberata attivista simbolo della rivoluzione e altri 5 colleghi, dopo pressioni Usa di Viviana Mazza Corriere della Sera, 19 luglio 2021 Esraa Abdel-Fattah aveva contribuito a creare il movimento “6 aprile”. Gli Stati Uniti hanno espresso “preoccupazione” sulle detenzioni del regime di Al Sisi. La giornalista e attivista egiziana Esraa Abdel-Fattah, uno dei simboli della rivoluzione del 2011, è stata rilasciata dopo quasi 22 mesi di detenzione preventiva. Era accusata di “appartenenza ad organizzazione terroristica” e “diffusione di notizie false atte a creare destabilizzazione nel Paese” e screditare lo Stato. Nel 2008, tre anni prima del rovesciamento del presidente Hosni Mubarak, la 43enne Abdel-Fattah è stata co-fondatrice del movimento “6 aprile” (e della sua pagina Facebook) per sostenere i lavoratori in sciopero e chiedere riforme politiche. Il movimento fu poi determinante anche nella rivoluzione di piazza Tahrir. Gli altri rilasciati - Oltre a Abdel-Fattah sono stati rilasciate domenica 18 luglio altre cinque persone: gli avvocati Mahienour el-Masry, conosciuta per l’attivismo sindacale e in favore dei rifugiati siriani e palestinesi, e Gamal e-Gamal, noto per i suoi articoli critici verso il regime di Al Sisi; i giornalisti Mustafa el-Aasar e Moataz Wadnan e il vice-capo del partito socialista Abdel-Nasser Ismail. Le indagini contro i sei attivisti e giornalisti continueranno però nonostante il loro rilascio. La “preoccupazione” del dipartimento di Stato Usa - La pressione da parte degli Stati Uniti sarebbe stata fondamentale. Il portavoce del dipartimento di Stato americano Ned Price ha espresso “preoccupazione”, mercoledì scorso, per la detenzione di accademici, giornalisti e attivisti in Egitto, dichiarando in conferenza stampa che Washington “in quanto partner strategico” si è fatta sentire con il governo di Al Sisi. Price ha citato il caso di Hossam Bahgat, il presidente dell’Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr), una delle principali organizzazioni per il monitoraggio dei diritti in Egitto. Bahgat è stato incriminato lo scorso 12 luglio per un tweet nel quale un anno fa aveva criticato la commissione elettorale (è accusato di aver insultato le autorità elettorali e diffuso notizie false). Price ha spiegato che “individui come Bahgat non dovrebbero essere sotto attacco per aver espresso le loro opinioni”. Rispondendo ad una domanda sulla vendita di armi all’Egitto, il portavoce ha poi osservato che il presidente Biden ha discusso in passato sulla situazione dei diritti umani con Al Sisi e che si tratta di qualcosa che gli Stati Uniti “prendono in seria considerazione” in queste decisioni. Zaki resta in prigione - Queste dichiarazioni giungono mentre al Cairo i giudici confermavano altri 45 giorni di detenzione cautelare per Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna arrestato l’8 febbraio del 2020 con l’accusa di “azioni volte a destabilizzare lo Stato”. Anche Zaki è un collaboratore dell’Eipr, da cui sta ricevendo sostegno legale. Cuba è al bivio fra repressione e svolta socialdemocratica di Emanuele Felice Il Domani, 19 luglio 2021 Le proteste mostrano ancora una volta che sotto la retorica rivoluzionaria c’è una dittatura che calpesta i diritti umani. L’ipotesi di una “transizione dolce” per cambiare salvando le riforme buone, come il welfare. Cuba è un piccolo paese. Ma la sua rivoluzione è stata, per l’impatto nel mondo, la terza in ordine di importanza nel Novecento, dopo le rivoluzioni russa e cinese. Fidel Castro rompe l’equilibrio della Guerra fredda, la divisione dell’emisfero occidentale sancita a Yalta. Era un gioco pericoloso, che peraltro lui ha inizialmente condotto in modo irresponsabile. Sappiamo oggi che durante la crisi dei missili cubana, nell’ottobre 1962, quando il mondo si ritrovò sull’orlo della terza guerra mondiale e dell’autodistruzione, lui esortava i sovietici a colpire per primi, a sferrare un attacco nucleare preventivo contro gli Stati Uniti. Per fortuna (di noi tutti), Kruscev non lo ascoltò e alla fine scese a patti con Kennedy. Intanto nella sua isola Castro aveva realizzato la riforma agraria, posto fine a discriminazioni razziali che duravano da secoli, ma anche imposto il partito unico. Che Guevara fu inizialmente presidente della Banca centrale (1959-1961) e poi ministro dell’Industria e dell’economia (1961-1965). Promosse il lavoro “volontario”, che in realtà voleva dire “non pagato”: ogni buon cittadino era chiamato a svolgerlo, in aggiunta al normale orario di lavoro, per consolidare le vittorie della rivoluzione. Camilo Cienfuegos, comandante vittorioso che entrò a L’Avana il 1° gennaio 1959 accanto a Fidel, di cultura libertaria e dal carattere solare, era forse più amato del “Che” (benché all’estero sia molto meno noto). Non era entusiasta della svolta autoritaria cui sembrava avviato il regime. Ma morì misteriosamente durante un volo notturno nell’ottobre 1959: il suo aereo non fu mai ritrovato, le autorità cubane non sono mai riuscite a dare una spiegazione di quanto accaduto. Pure, a conti fatti, quello cubano non è stato il peggiore fra i regimi comunisti. Forse, anzi, in assoluto quello meno oppressivo (assieme alla Jugoslavia, ma solo dopo il 1961). Eppure, come tutti i regimi comunisti che si sono visti nella storia, nessuno escluso, Cuba non garantisce le fondamentali libertà dell’uomo: la libertà di stampa, di espressione, di associazione sono seriamente compromesse e possono costare il carcere. Dal 1965 al 1968 ci furono addirittura campi di lavoro forzato, per dissidenti e omosessuali (ospitarono più di trentamila persone). Il regime può presentarsi con un volto espansivo, allegro e caraibico. Ma è un regime, ancora ai nostri giorni: secondo la ong americana Freedom House Cuba è oggi il tredicesimo paese meno libero al mondo; meglio certo della Corea del Nord (terza), meglio anche dell’Arabia Saudita (settima), ma peggio perfino della Russia di Putin (ventesima). Il reddito - Quanto al reddito, la performance del regime non è certo brillante, ma non è nemmeno disastrosa come in altri casi (la Germania Est rispetto alla Germania Ovest, la Corea del Nord rispetto a quella del Sud). Alla vigilia della rivoluzione, l’isola aveva un livello di reddito per abitante relativamente elevato, il doppio di Haiti e quasi il doppio della Repubblica Dominicana. Oggi a Cuba il reddito è di poco superiore a quello della Repubblica Dominicana, mentre entrambe sono molto meno povere della sfortunata Haiti. Dati sessant’anni di embargo statunitense (solo in parte bilanciati da trent’anni di sovvenzioni sovietiche), poteva andare peggio. Ma va detto che stiamo comunque confrontando economie poco complesse, rispetto a quelle industrialmente molto avanzate dell’Europa o dell’Asia orientale. Bisogna poi considerare che Cuba è in relativo declino demografico, rispetto alla Repubblica Dominicana. Nel 1960 aveva più del doppio degli abitanti (7 milioni contro 3,2), oggi i due paesi sono quasi alla pari (11 milioni). Anche questo può spiegare la tenuta del reddito medio, in un paese a base agricola; ma è dubbio se in sé rappresenti un male, o un bene (la crescita esponenziale degli abitanti, verificatasi nel mondo negli scorsi decenni, è un serio problema ambientale). Si dirà, negli Usa vivono circa 2 milioni di cubani (spesso erano l’élite economica e professionale dell’isola, fuggita dal regime); ma la popolazione di immigrati dominicani è analoga. Pure, la rivoluzione cubana può vantare importanti successi. Nella sicurezza personale, ad esempio, tenuto conto che in quel quadrante vi sono alcuni paesi con i più alti tassi di omicidi al mondo: per le strade di L’Avana in genere si può passeggiare senza paura, anche di sera, a differenza di altre città dell’America Centrale, o del Venezuela, o perfino della California (Los Angeles, San Francisco). Ma i risultati più importanti sono nella scolarizzazione e nella speranza di vita, nei diritti sociali. Nel 1960 a Cuba la speranza di vita era inferiore di 6 anni a quella degli Stati Uniti (64 contro 70). Oggi i due paesi sono alla pari (79), nonostante gli enormi divari di reddito. Va detto però che la Repubblica Dominicana - il paese storicamente più simile a Cuba prima della rivoluzione, che assieme ad Haiti si estende sull’isola gemella, Hispaniola - nel 1960 aveva una speranza di vita di soli 52 anni e oggi è arrivata a 74: le differenze in quel caso si sono accorciate. L’Italia nel 1960 aveva una speranza di vita di 69 anni (+5 su Cuba); oggi è a 83 (+4). Cuba si è avvicinata a noi, ma non è stato un trend uniforme: nella seconda metà degli anni Settanta, aveva raggiunto il nostro stesso livello; poi ha incominciato a perdere terreno. Questo dato, da solo, può dire molto sulla parabola del socialismo cubano. Tre opzioni - Dopo il crollo dell’Urss, il regime aveva sostanzialmente tre possibilità. Provare a democratizzare l’isola, magari prendendo una strada socialdemocratica, come aveva tentato di fare Gorbaciov in Unione Sovietica (ma a lui non andò bene). Provare a resistere, lasciando tutto così com’è. Prendere la strada cinese (e poi vietnamita): liberalizzare l’economia ma mantenendo il monopolio politico del Partito comunista. La prima opzione era complicata dall’influenza americana e della comunità cubana in Florida, che faceva temere ai dirigenti comunisti la perdita di ogni privilegio o la galera, se avessero provato a democratizzare il paese (a differenza di quanto successo, invece, in Russia o nelle nazioni dell’Europa dell’est, dove questo rischio non c’era e anzi una parte dell’élite capì che aprendo il paese poteva arricchirsi). Il regime scelse allora la seconda opzione, finché c’era Fidel, per poi iniziare a contemplare (timidamente) il modello cinese. Dopo le prime liberalizzazioni, avviate da Raul Castro nel 2011, l’economia è andata meglio ma anche le disuguaglianze sono aumentate, di solito a vantaggio dell’élite politica. Oggi a Cuba l’indice di Gini, che misura le disuguaglianze, è 38. Nella Repubblica Dominicana sfiora 44, in Cina arriva a 46,7 (gli Stati Uniti svettano a 48,5). Ma l’Italia, per dire, ha un valore di 33,4. Da noi, e più in generale in Europa continentale, c’è oggi meno disuguaglianza che a Cuba. In questo contesto, il regime ha sbagliato la gestione della pandemia: aprendo ai turisti, pensando così di potere approfittare della crisi di altre destinazioni; e fallendo il piano di vaccinazione. La recente liberalizzazione di internet e la crisi economica (e alimentare) legata al Covid hanno fatto il resto. Il regime è in crisi, ma in fondo oggi ha di fronte lo stesso bivio di trent’anni fa. Liberalizzare l’economia, provando a mantenere il partito unico, sul modello cinese? O imboccare, con coraggio, la strada che aveva tentato Gorbaciov in Unione Sovietica, cercando di salvare quello che di buono la rivoluzione ha portato (la sanità, il welfare)? Proprio come allora, questa seconda strada, quella più auspicabile, è anche la più coraggiosa, e per questo difficilmente verrà presa: ci vorrebbero rassicurazioni da parte degli Stati Uniti nei confronti dei dirigenti del regime per una “transizione dolce”, ma queste non si vedono, nemmeno con l’amministrazione Biden. Se gli Usa non capiscono che devono avviare un dialogo per favorire la democratizzazione dell’isola, e che embargo e sanzioni non servono (non sono mai serviti, anzi hanno fornito una giustificazione al regime), più probabile che la via scelta sarà quella del capitalismo autoritario, che sta funzionando così bene in Cina: aprire e liberalizzare ancora di più l’economia, ma senza democratizzare il sistema politico; crescita, ma senza diritti. Con una patina di retorica rivoluzionaria, ma dietro cui c’è solo ormai la sostanza della dittatura. È un film già visto e che, proprio per questo, chi ha veramente a cuore i diritti umani dovrebbe cercare di evitare. Cuba. “Mia sorella Neife torturata in carcere” di Paolo Mastrolilli La Stampa, 19 luglio 2021 Felix Pablo Rigau: “Arrestata nelle proteste che seguiva come giornalista. Non ha un avvocato e le hanno negato l’habeas corpus. Il mondo ci aiuti”. “Le forze di sicurezza cubane stanno abusando di mia sorella Neife Rigau, in questo momento, mentre parliamo. È stata arrestata domenica scorsa a Camagüey, durante le proteste che seguiva come giornalista. La polizia non ci ha dato alcuna notizia sulle sue condizioni, ma sappiamo che è stata trasferita presso la Segunda Unidad de la Policía Nacional Revolucionaria, in un sito noto come “todo el mundo canta”, perché chiunque ci finisce confessa qualsiasi cosa. Non ha un avvocato, le hanno negato l’habeas corpus, è probabile che la stiano torturando. Mi appello all’intera comunità internazionale, l’Unione Europea, la Santa Sede, gli Usa, l’Onu, per lei e tutti gli altri detenuti nelle stesse condizioni, affinché venga fatta la massima pressione possibile su L’Avana per la loro liberazione, o quanto meno il rispetto delle più elementari norme del diritto”. Felix Pablo Rigau sa che rischia grosso a parlare con i media, ma lo fa perché ormai ha perso ogni speranza. Sua sorella Neife Rigau, 22 anni, è scomparsa da domenica con Henry Constantin e Iris Mariño, colleghi del sito di informazione indipendente “La Hora de Cuba”. E non è l’unica, anzi. Secondo alcune stime, i detenuti della repressione seguita alla protesta sono centinaia, in tutto il Paese. Non si tratta di dissidenti di professione o complottisti, ma gente normale. Come Isabel Maria Amador Pardìas e Karem del Pilar Refeca Ramon, due ragazze molto impegnate nella loro parrocchia di Bayamo, che secondo la denuncia del Movimiento Cristiano Liberación sono state prese dalla polizia nelle loro case e scomparse. Cosa è successo a Neife? “È stata arrestata durante le manifestazioni di domenica dalla Unidad Técnica Investigativa del Ministerio del Interior, a Camagüey. Quindi è stata trasferita alla Segunda Unidad de la Policía Nacional Revolucionaria (Pnr)”. Di cosa è accusata? “Un delitto che non ha commesso, la protesta violenta. Neife è una persona molto pacifica, non era neanche andata a manifestare. Fa la giornalista per “La Hora de Cuba”, stava solo seguendo gli eventi”. Le avete parlato? “No, nessun familiare ha potuto farlo”. Come sapete dove si trova? “Il marito di una detenuta ha seguito la polizia, poi i familiari sono rimasti ore davanti al carcere. Il Tribunale provinciale avrebbe dovuto rispondere del caso entro 96 ore, ma non lo ha fatto. Lo ha trasferito alla Fiscalìa, la procura, prendendo così altre 72 ore per emettere un’accusa. Le hanno negato l’habeas corpus, non ha un avvocato, ci hanno impedito anche di consegnarle acqua, cibo o effetti personali”. L’unità dove si trova è nota come “Todo el mundo canta”. Temete abusi? “Certo, è famigerata come le peggiori carceri dell’Avana. È presumibile che venga torturata, la sua salute non è buona”. Cosa vi aspettate? “Non ne abbiamo idea. Avrebbero già dovuto avviare il procedimento legale, ma non è accaduto. È scomparsa”. Neife ha 22 anni, che persona è? “Una giovane studentessa come tante altre, interessata soprattutto all’ambiente. Fa la giornalista indipendente per “La Hora de Cuba”. È una militante politica? “No. Il suo impegno politico è l’indipendenza dell’informazione, alternativa alle notizie ufficiali”. Perché è andata a protestare? “Non era andata a protestare, ma a seguire la manifestazione per lavoro. Poi certo, milioni di cubani sono scesi in strada, per i motivi che conoscete. Manca tutto, dal cibo alla libertà. I cubani sono stanchi di decenni di repressione, non sanno più come sopravvivere. Il governo pensa solo a mantenersi al potere, ignorando i cittadini”. Cosa chiede alla comunità internazionale? “Mi appello all’Ue, gli Usa, il Vaticano, l’Onu, il mondo intero, non solo per mia sorella, ma per tutti i cubani e le centinaia di arrestati. Sono persone normali che protestavano pacificamente: vanno liberati e ascoltati. Non è più una questione ideologica, ma di sopravvivenza”.