La democrazia calpestata nelle carceri di Massimo Giannini La Stampa, 18 luglio 2021 Il 21 luglio 2001 la “macelleria messicana” alla Diaz. Vent’anni dopo, la “orribile mattanza” a Santa Maria Capua Vetere. Oggi come allora, la violenza di Stato resta la ferita più profonda inferta al cuore della democrazia. Per un macabro scherzo della Storia, lo scandalo delle violenze nelle carceri italiane deflagra negli stessi giorni in cui ricordiamo una pagina nera della nostra Repubblica. Il G8 di Genova resta “la più grave sospensione dei diritti democratici in Europa dopo la seconda Guerra Mondiale”, come la definì Amnesty International. Fatte le debite proporzioni, scopriamo adesso che dietro le sbarre di un abisso concentrazionario sul quale rifiutiamo colpevolmente di affacciarci c’è stata un’altra “sospensione dei diritti democratici”. Certo, meno cruenta. Ma non meno grave. La “scena del crimine” è sempre uguale: agenti in divisa, protetti da caschi e armati di manganelli, che si accaniscono su corpi inermi e indifesi. Allora erano manifestanti, oggi sono detenuti: la sostanza non cambia. Anche la “strategia difensiva” è sempre uguale: depistaggi e prove artefatte. Allora erano mazze ferrate e bombe molotov, oggi sono bastoni e biglie di olio bollente: di nuovo, la sostanza non cambia. Non cambia a Genova, a Santa Maria Capua Vetere e nelle altre patrie galere, dal Sant’Anna di Modena al Dozza di Bologna. E anche al Lorusso-Cutugno di Torino, dove la Procura ha concluso l’inchiesta sulle decine di violenze denunciate dai prigionieri, e dove è possibile che nei prossimi giorni si arrivi al rinvio a giudizio dei 25 indagati, tra i quali il direttore dell’Istituto e il responsabile delle guardie carcerarie. “Tortura”, potrebbe essere l’ipotesi di reato. I numeri li conosciamo. Le carceri italiane sono le più sovraffollate della Ue: 120 detenuti per ogni 100 posti disponibili. Abbiamo 53.661 reclusi rispetto a una capienza di 47.445. Di questi, 16.362 sono in attesa di sentenza definitiva, 15 mila hanno da scontare un residuo di pena inferiore ai tre anni e 1.212 hanno condanne inferiori ad un anno. Più di 2 mila lavorano per imprese e coop sociali, meno di 15 mila fanno lavoretti di pulizia e cucina in carcere. Solo in 20.263 frequentano un corso scolastico. Il 48% delle celle non ha doccia, il 30% non ha acqua calda, il 9% non ha riscaldamento. I suicidi in cella hanno raggiunto il record: 61 l’anno scorso. Ma quello che non abbiamo voglia di conoscere è l’inferno che si nasconde dietro i numeri. Quello che non abbiamo voglia di capire è tutto ciò che succede in quelle bolge dantesche, dove “il sole del buon dio non dà i suoi raggi”, come cantava il poeta De Andrè. Dove “i diritti democratici” non sono sospesi, ma calpestati. Dove non ha spazio la Costituzione che all’articolo 27 dice “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. I filmati di questi giorni fanno paura: violenza burocratizzata, pestaggi eseguiti come fossero adempimenti. Come ai tempi di Stefano Cucchi. A noi cittadini, in fondo, sta bene così. Un po’ è “benaltrismo”: siamo presi da problemi più gravi, il vaccino da fare e il mutuo da pagare, il lavoro che manca e la scuola che arranca. Un po’ è lo “Zeitgeist”: sono colpevoli? Tanto basta, li rinchiudiamo e “buttiamo la chiave”. Quante volte abbiamo sentito ripetere questa frase moralmente oscena, anche da cinici capipartito che oggi risciacquano i panni del populismo giudiziario nel fiume del garantismo referendario. E invece il carcere ci riguarda. Perché proprio dal modo in cui tratta le persone che hanno sbagliato si misura il grado di civiltà di una nazione. Dal processo a Gesù a Norimberga, dalla Magna Charta alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo: la cultura dell’Occidente riposa sulla forza del diritto, non sul diritto della forza. L’Habeas Corpus del 1215 parla ancora per noi: “Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, privato della sua indipendenza, della sua libertà, dei suoi diritti, messo fuori legge, esiliato, molestato in alcuna maniera, e non metteremo né faremo mettere le mani su di lui, se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo le leggi del paese”. Per me il paradigma di grandezza della nostra civiltà rimane custodita in un’altra tragedia, di cui in questi giorni ricordiamo il decennale: la strage di Utoya. A compierla è Anders Breivik, che il 22 luglio 2011 massacra 69 studenti. Un anno dopo, il 22 giugno 2012, i tg immortalano quel “mostro” nell’aula del tribunale di Oslo: circondato dai poliziotti, vestito da Cavaliere dei Templari, fa il saluto nazista mentre ascolta il suo giudice che lo condanna a 21 anni. L’immagine è ripugnante, ma anche potente: certifica la forza dello Stato, che ne detiene il monopolio in base alla legge e dunque la esercita. Senza abusarne. Mai. È di questo Stato che abbiamo bisogno. Per questo anche Draghi e Cartabia che visitano le celle del “Francesco Uccella”, il “carcere della vergogna”, ci restituiscono un’immagine forte. Come forte è il messaggio che lanciano: il governo non intende dimenticare quello che è successo, non può esserci giustizia dove c’è abuso, non può esserci rieducazione dove c’è sopruso, le indagini stabiliranno le responsabilità individuali ma la responsabilità collettiva è di un sistema che va riformato. Sono parole importanti. Ma solo a patto che si trasformino in fatti. Quello che serve lo ha spiegato Vladimiro Zagrebelski sul nostro giornale: ricorso più massiccio alle pene alternative, regime delle “celle aperte” da ricalibrare, percorsi di “risocializzazione” da rafforzare. C’è bisogno di una maggiore presenza della politica. I 102 milioni stanziati per le carceri dal Pnr sono una goccia nel mare. Occorre uno sforzo molto più massiccio, in termini finanziari e normativi. “Le nostre prigioni” devono diventare una priorità: Marta Cartabia, sensibile al tema già da presidente della Consulta, ha una buona occasione per passare dalla dottrina giuridica all’azione pratica. Ma c’è bisogno anche di una maggiore coscienza nell’opinione pubblica. Da un sistema carcerario più giusto e più dignitoso l’intera collettività ha tutto da guadagnare. Su questo occorre un grande lavoro culturale, che la Corte costituzionale ha meritoriamente iniziato a fare anche nelle scuole. Bisogna insistere. E spiegare ai cittadini quello che una ricerca di Giovanni Mastrobuoni e Daniele Terlizzese dell’Einaudi Institute for Economics Finance ha già dimostrato. E cioè che un carcere “aperto”, che realizzi il mandato costituzionale sulla rieducazione del detenuto rispettandone dignità e diritti fondamentali, riduce di quasi il 10% la “recidiva”, cioè il rischio che il reo, scontata la pena, torni a delinquere. Fa fede il carcere di Bollate: zero sovraffollamento, celle aperte tutto il giorno, piani di lavoro, studio, formazione, sport e graduale reinserimento in società grazie ai benefici per i meritevoli. Se questo modello diventasse “sistema”, considerato che annualmente entrano 9 mila detenuti e la metà è già recidivo, in prospettiva la popolazione carceraria diminuirebbe di 900 persone l’anno. Persone sottratte al crimine. Persone recuperate alla vita. Non è una posta in gioco sufficiente, per la nostra democrazia? Quel male inestirpabile di Luigi Manconi La Repubblica, 18 luglio 2021 Nel rileggere le cronache di vicende di violenza ai danni di persone inermi, capita di incontrare due definizioni tanto crude da richiamare i titoli di cupi racconti dell’orrore. O, meglio, di quel genere splatter, incline alla ricerca di effettacci macabri per compensare la carenza di talento degli autori. Eppure, espressioni quali “macelleria messicana” e “orribile mattanza” sono state utilizzate da funzionari dello Stato per dire lo sgomento davanti a crimini commessi da appartenenti alle forze di polizia, come nel caso della scuola Diaz (Genova, 21 luglio 2001) e del carcere campano (Santa Maria Capua Vetere, 6 aprile 2020). Di fronte a ciò, l’interrogativo di fondo, quello che più fatica a trovare una risposta, è il seguente: come può accadere che decine e decine di poliziotti e, tra loro, donne, padri di famiglia e persone presumibilmente mature, si dedichino con tanta “competenza professionale” a massacrare individui indifesi? Quale processo emotivo e mentale li induce a farsi, all’occorrenza, “volenterosi carnefici”? Se non si prova a rispondere a queste domande ultime e, in prospettiva, a de-costruire il clima psicologico e sociale e i modelli culturali dominanti all’interno delle carceri, è fatale che quanto già è accaduto si ripeta. Dunque, si impone la drammatica urgenza di una diversa - radicalmente diversa - formazione degli appartenenti ai corpi dello Stato. Questo comporta, innanzitutto, la piena acquisizione dei valori della democrazia e la convinzione irrinunciabile che il cittadino (detenuto o in libertà) non è un nemico da sopraffare, bensì un individuo da proteggere, all’interno e all’esterno delle mura della prigione. E che proprio il poliziotto è il primo tutore delle libertà individuali, dei diritti e delle garanzie della persona nella vita di tutti i giorni. Ecco, questa idea essenziale - fondativa tuttavia dello stato di diritto - appare lontanissima dalla mentalità che sembra prevalere nella gran parte degli operatori di polizia. Come afferma il magistrato di sorveglianza Riccardo De Vita, “non abbiamo avuto ancora il coraggio di affrontare la cultura e i modelli organizzativi” in questione (Il Riformista, 08.07.2021). Non si ha avuto il “coraggio”, cioè, di criticare alle radici quel senso comune regressivo attraverso un processo di profonda democratizzazione interna. Molte le ragioni. La prima è che la classe politica, il governo e i ministri competenti sembrano nutrire una sorta di complesso di inferiorità nei confronti di questi apparati. Non da ora. Si pensi che l’unico a trovare parole adeguate fu, nel 1985, l’allora Ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro, che - a proposito della morte di Salvatore Marino - disse: “Non è possibile che un cittadino entrato vivo in una stanza di polizia, ne esca morto”. Prima e dopo di lui, nessuno è stato capace di affermazioni altrettanto limpide, pur se ricordo un intervento di Giuliano Amato, nel 2007, affinché non venisse occultata la verità sulla morte di Federico Aldrovandi. Se nel corso di 75 anni di Repubblica, e in presenza di molteplici episodi di abusi e di violenze, i responsabili politici hanno costantemente taciuto, è inevitabile che quegli apparati abbiano sempre fatto prevalere lo spirito di corpo fino all’omertà. Di conseguenza, i tentativi di democratizzazione, promossi sin dagli anni 70 da gruppi di poliziotti coraggiosi, hanno subito un progressivo arretramento o si sono esauriti nell’attività sindacale, tutta concentrata su organizzazione interna e rivendicazioni economiche (per altro sacrosante, considerato il basso livello degli stipendi). Scarsissimo spazio hanno avuto la formazione culturale e lo sviluppo di una coscienza del proprio ruolo ispirata ai valori costituzionali. Ciò ha esasperato la tendenza, propria di tutte le “istituzioni totali”, a ripiegare su se stesse, costruite come sono sulla solidarietà di appartenenza e sul sospetto nei confronti di qualunque controllo esterno. Basti pensare che mai una volta sono stati dirigenti o sindacalisti a denunciare comportamenti illegali nell’imminenza dei fatti. Un uomo intelligente come l’ex capo della polizia Franco Gabrielli, intervistato da Carlo Bovini (La Repubblica, 19.07.2017), definì la gestione del G8 di Genova “una catastrofe”. Parole apprezzabili, ma giunte tragicamente in ritardo, a 16 anni da quelle giornate del 2001. Personalmente ho avuto modo di incontrare numerosi capi della polizia di Stato (De Gennaro, Manganelli, Pansa, Gabrielli) e dell’arma dei Carabinieri (Gallitelli, Del Sette, Nistri), accompagnando i familiari di vittime di abusi a opera di membri di quei corpi. Così abbiamo ascoltato dichiarazioni di “vicinanza” e promesse di impegno per l’accertamento della verità. Ma tutto ciò sempre dopo. Parole postume, pronunciate solo quando era diventato impossibile negare le responsabilità. Prima c’erano sempre il silenzio, le omissioni e la richiesta di “non criminalizzare l’intero corpo”. Mai una denuncia autorevole di quella sottocultura torva e paranoide, e sostanzialmente antidemocratica, che non appartiene certo a tutta la categoria ma che si ritrova diffusamente nelle chat e nei social di tanti poliziotti (e persino di alcuni sindacati). Questo forse contribuisce a spiegare perché mai, contro l’utilizzo dei poliziotti penitenziari come seviziatori, non siano stati gli stessi poliziotti penitenziari, mortificati in un ruolo di aguzzini, i primi a ribellarsi. “Al carcere serve una vera riforma. Ma al governo c’è chi affossò la mia” di Angela Stella Il Riformista, 18 luglio 2021 Le proposte della Commissione Giostra furono accantonate dal governo Gentiloni. Per Cartabia è giunta l’ora di intervenire, ma il professore non è ottimista: “Nella maggioranza coabitano le forze che non ebbero il coraggio di difenderla e quelle che la respinsero”. Il professor Glauco Giostra, ordinario di procedura penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, ci racconta di non essere fiducioso per una riforma dell’ordinamento penitenziario, come auspicato dalla Ministra Cartabia. Al Governo oggi ci sono le stesse forze politiche - Pd, Cinque Stelle e Lega - che per motivi diversi non fecero propria la parte più qualificata del lavoro della “Commissione per la riforma dell’ordinamento penitenziario nel suo complesso” da lui presieduta recependo gli stimoli e le riflessioni degli Stati Generali dell’esecuzione penale, istituiti tra il 2015 e il 2016 dal Ministero della Giustizia di Andrea Orlando. Un lavoro immane: 245 pagine di proposte con un articolato normativo che aspettava solo i decreti attuativi. 10mila detenuti erano in sciopero della fame, capitanati dalla radicale Rita Bernardini, per chiedere che si corresse l’ultimo miglio ma il Governo Gentiloni abbandonò la gara. Come scrisse Massimo Bordin quando tutto quel lavoro fu archiviato: “La sconfitta del governo è tutta politica. Hanno preferito arrendersi allo scomposto berciare di Salvini e dei Cinque stelle senza nemmeno combattere. A meno di due settimane dalle elezioni diventa un segnale equiparabile al peggiore dei sondaggi”. E infatti la sconfitta arrivò impietosa. Ora la Ministra Cartabia torna a parlare di una riforma organica del sistema carcere. Probabilmente riprenderà in mano anche i risultati della Commissione Giostra, ma il professor Giostra teme che non ci sono le condizioni politiche. Vediamo perché. Professore, nel suo discorso a Santa Maria Capua Vetere la Ministra ha detto: “Ritengo che sia anche giunta l’ora di intervenire sull’ordinamento penitenziario e sull’organizzazione del carcere”. Lei ha presieduto la Commissione che ha realizzato un vero articolato, che poi fu messo nel cassetto dal Pd per paura di perdere le elezioni. Oggi Lei ritiene che i tempi siano diversi da allora per poter pensare ad una riforma seria? Spero molto, ma non credo. Sostengono l’attuale governo, in precarissima coabitazione, le forze politiche che non trovarono allora il coraggio per difendere le proprie idee e quelle che quelle idee respinsero recisamente. Se è possibile che le prime tornino ad impegnarsi per la loro riaffermazione, non credo che le altre possano abbandonare la raffi nata ideologia del “chi sbaglia, paga”, “certezza della pena”, “sbattiamoli in galera e buttiamo le chiavi”, “deve marcire in galera”. Il tema carcere è comunque tornato al centro del dibattito politico. Cosa ha provato nel guardare i video dei pestaggi di Santa Maria Capua Vetere? Non riesco ancora a capacitarmi di tanta cinica, preordinata brutalità. Non meno inquietante è l’idea che sta dietro a quella spedizione punitiva, che nessun antefatto può giustificare. Mi sono tornate alla mente le parole del direttore del carcere nel fi lm “Fuga da Alcatraz”: “Se disobbedisci alle regole della società, ti mandano in prigione. Se disobbedisci alle regole della prigione, ti mandano da noi. Noi non creiamo buoni cittadini. Però creiamo dei buoni detenuti”. La nostra Costituzione vuole proprio invece che la pena tenda a restituire alla società dei buoni cittadini. Un obiettivo, per coloro che hanno subìto quel forsennato pestaggio, irreparabilmente compromesso. Anzi è verosimile che restituiremo alla società persone animate da un aggressivo rancore: se persino coloro che dovrebbero rappresentare lo Stato e il diritto ricorrono a ogni forma di sopruso per far valere le loro distorte ragioni, quale remora dovrebbero trattenere dal ricorrere alla violenta sopraffazione per raggiungere i propri obbiettivi coloro che su questa strada si erano già incamminati e che ora vi hanno incontrato addirittura i tutori della legalità? Cosa pensa invece della visita della Cartabia e di Draghi nel carcere sammaritano? Penso, anzitutto, che sia di per sé un’iniziativa dal grande valore simbolico: lo Stato non distoglie lo sguardo dalle ignominie commesse in suo nome. Ribadisce che non ci possono essere zone franche sottratte al diritto, meno che mai là dove lo Stato toglie la libertà a suoi cittadini per riaffermarlo, il diritto. Le parole usate dal premier e dalla ministra, poi, dimostrano la consapevolezza che non si tratta solo di un gravissimo ed isolato episodio da stigmatizzare e da punire, ma del preoccupante tralignamento di un sistema, che richiede, appunto, riforme di sistema. Il Governo precedente ha parlato di ‘ripristino della legalità’. Ha detto che non poteva allontanare in autotutela gli agenti indagati perché, seppur conosceva i loro nomi, non sapeva il reato contestato. Che ne pensa di questo? Si poteva gestire diversamente la situazione? La risposta è esattamente speculare a quella data alla domanda precedente. Non so dire se si trattò di condotta “colposa” o “dolosa”. Di certo, fu - come è da sempre del resto - quella su cui i violenti sopraffattori pensavano di poter far affidamento. Ma non mi interessa dare pagelle politiche. Anzi, questo è un terreno su cui vorremmo vedere meno bandierine partitiche e più conoscenza della realtà, meno interesse a coniare slogan elettoralmente redditizi e più impegno a creare le condizioni per fare in modo che il carcere torni ad appartenere alla comunità, accrescendone il livello di civiltà e di sicurezza ad un tempo. Dovevamo vedere quei video dell’orribile “mattanza” per capire davvero cosa accade nelle nostre prigioni, non essendo quei fatti un caso isolato? Se il carcere è il luogo della extraterritorialità legale e civile, lo dobbiamo proprio a questa rimozione sociale, a questa volontà di non sapere e di non vedere. Entro quelle mura segreghiamo le persone che hanno violato fondamentali regole della convivenza sociale, e con esse tutte le nostre paure. Poi, quando una evasione, una rivolta, una brutale repressione escono da quel pozzo d’ombra, torniamo nostro malgrado ad occuparcene con preoccupazione o con riprovazione per il tempo breve dell’attenzione mediatica. Spenti i riflettori, ci affrettiamo subito a risospingere quel mondo, con inconfessato sollievo, fuori dal nostro sguardo e dalla nostra coscienza. Fatalmente l’implicito messaggio sociale e politico che arriva ai responsabili di quel mondo mentre torna nel buio è: “Non importa come, ma non dateci più altri problemi, non turbate più la serena quotidianità della società libera e giusta”. La proposta della Commissione Giostra quale ruolo prevedeva per la Polizia penitenziaria? In una realtà carceraria come quella che abbiamo immaginato, in cui ai detenuti si dovrebbe richiedere ed offrire molto di più, il compito della polizia giudiziaria si farebbe ancor più delicato e complesso. Non un compito assimilabile a quello di altre forze dell’ordine, con la sola particolarità di essere svolto entro il perimetro delle mura di un penitenziario. Mentre le altre forze dell’ordine hanno l’arduo compito di assicurare delinquenti alla giustizia, le donne e gli uomini della polizia penitenziaria dovrebbero avere il non meno impegnativo compito, garantita la sicurezza di questi soggetti e da questi soggetti (usando metodi rispettosi della loro dignità, ma non imbelli), di collaborare con gli altri operatori del trattamento per cercare di riconsegnarli migliori alla società. Dovrebbero saper essere agenti di custodia e di recupero. Tanto che si era ipotizzato che dovessero seguire e controllare anche lo svolgimento di alcune delle misure alternative al carcere, in quella delicatissima fase di “convalescenza sociale” rappresentata dal graduale ritorno alla vita libera. Per questa complessa funzione, sin dagli Stati generali, si raccomandava che alla valorizzazione del ruolo corrispondesse una più impegnativa e multidisciplinare formazione professionale. Sì al carcere dei diritti, per raggiungere la finalità rieducativa della pena di Pietro Perugini Il Dubbio, 18 luglio 2021 L’analisi del presidente della Camera penale di Cosenza Pietro Perugini sulla situazione carceraria anche alla luce dei recenti episodi di violenza. I recenti episodi di violenza, in alcune carceri italiane, mettono in evidenza la necessità di esprimere, con forza, una indignata protesta contro simili incivili fatti e nel contempo di rinnovare l’impegno, a garantire il rispetto del dettato costituzionale (art.27) della umanità e della finalità rieducativa della pena. Punire chi compie un reato vuol dire, sicuramente, sanzionarne la condotta illecita, ma nello stesso tempo deve esprimere il grado di civiltà di un Paese, attraverso la predisposizione di adeguati strumenti, che garantiscano il concreto ed effettivo perseguimento del fine risocializzante della pena. Il carcere non è, sicuramente, lo strumento più adeguato per il perseguimento della finalità rieducativa della pena e, nel tempo, probabilmente sarà gradualmente sostituito da altre modalità di esecuzione della stessa, più coerenti con il principio espresso nella Carta costituzionale, ispirata alla prioritaria tutela della persona umana. E’ auspicabile, inoltre, che nel tempo cambi l’intero sistema punitivo penale, in modo che non sia fondato essenzialmente sulla privazione della libertà personale. In attesa, però, che l’evoluzione legislativa, nazionale e sovranazionale, indichi nuovi orizzonti e migliori obiettivi di civiltà è indispensabile riaffermare la necessità dell’inderogabile rispetto della dignità umana del condannato. Nicolò Amato, autore di “Oltre le sbarre” e direttore generale per gli istituti di pena negli anni 80, scriveva: “il carcere della speranza è possibile. È possibile un carcere della speranza per prigionieri della speranza. E se può allora deve essere costruito, giacche l’alternativa al carcere della speranza è la speranza di fare a meno del carcere, dunque l’attesa inerte di un meglio, almeno per ora irraggiungibile, cioè di qualcosa che non possiamo avere, ovvero è il carcere senza speranza, dunque l’inerte rassegnazione a un peggio da tempo inaccettabile, cioè qualcosa che non vogliamo avere “. I denunciati episodi di violenza contraddicono, però, vistosamente tutti gli sforzi, anche normativi, di costruire, con le riforme che si sono succedute nel tempo sin dal 1975, il Carcere della speranza; quel luogo “aperto” dove l’individuo non venga umiliato, degradato, emarginato e dimenticato, ma sostenuto nel suo percorso di recupero. Un carcere “aperto”, così come auspicato dalla legge Gozzini, non può contemplare l’uso della violenza, del controllo invadente, umiliante e degradante dell’individuo; dovrebbe, di contro, garantire i diritti dei condannati, elevarne la umanità, la cultura, la sensibilità, la comprensione degli errori, eventualmente compiuti, attraverso la prospettiva di un nuovo possibile orizzonte di vita, da coltivare in un ambiente dove prevalga il senso rieducativo e non quello vendicativo della pena. La rieducazione è possibile solo in un ambiente dove trionfi l’umanità e non il degrado. La Corte europea per i diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dei diritti dei detenuti a causa del sovraffollamento delle carceri, considerato strutturale, e per trattamento inumano, tanto da ritenere violato l’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che vieta la tortura e i trattamenti inumani o degradanti. Le condizioni di vita, all’interno degli istituti penitenziari, censurate dalla Corte di Strasburgo, riguardano tra l’altro gli spazi ridotti, celle molto piccole (meno di 3 mq.), mancanza di acqua calda e scarsa illuminazione. In un contesto, così rappresentato, è veramente difficile pensare, ipotizzare e sperare nell’affermazione della risocializzazione. Il tempo della pena diventa, così, vuoto, dalle prospettive nulle e può generare solo disperazione e, a volte, gesti di autolesionismo. I suicidi o i tentativi sono una drammatica realtà, che evidenziano l’assenza di speranza, sottolineano il trascorrere di un tempo inutile, che alimenta il disagio, la disperazione, il dolore. In questo ambito è facile ipotizzare che, l’assenza di prospettive di una nuova vita oltre le sbarre, possa, di contro, favorire il potenziamento criminale del detenuto. Il carcere della speranza e della solidarietà non può essere costruito con la violenza e la vigilanza invadente ed umiliante, che ne costituiscono, invece, l’antitesi ed alimentano solo odio, rancore, degrado e frustrazione. Questi drammatici fatti demoliscono tutto l’impegno profuso, anche dal legislatore, per ipotizzare modalità alternative all’esecuzione in carcere della pena detentiva, fondate essenzialmente su un rapporto di fiducia tra lo Stato e il detenuto, in forza del quale quest’ultimo viene ammesso al lavoro esterno, ai permessi premio, alla semilibertà, all’affidamento in prova, alla detenzione domiciliare, proprio in considerazione di un graduale percorso fiduciario, finalizzato alla sua completa risocializzazione, nel carcere “ aperto”. “La pena deve essere aperta alla speranza” così ha detto, ai detenuti di Regina Coeli, Papa Francesco, ma per esserlo effettivamente è indispensabile che, all’interno delle strutture penitenziarie, vengano garantiti i diritti dei detenuti: -quello alla salute, le recenti rivolte, sorte in alcune carceri nel corso dell’emergenza sanitaria a causa dell’assoluta inadeguatezza dei controlli sanitari e delle cautele per evitare la diffusione del virus, hanno drammaticamente evidenziato l’insufficienza del sistema sanitario penitenziario;-alla istruzione, la possibilità di frequentare scuole, anche professionali, e università, al fine di accrescere la cultura, la sensibilità del detenuto e di offrirgli maggiori possibilità di inserimento nella società; -al lavoro, la concreta risocializzazione passa attraverso l’impegno lavorativo, che produce autonomia, autostima, possibilità di progettare il proprio futuro;-alla valorizzazione della personalità, attraverso la pratica sportiva, artistica e più in generale mediante lo svolgimento di tutte quelle attività che stimolino la creatività ed il talento, spesse volte sconosciuti, delle persone. Il carcere dei diritti potrà, così, rappresentare adeguatamente una importante condizione per raggiungere la finalità rieducativa della pena e per accogliere l’invito di Papa Francesco, sempre ai detenuti di Regina Coeli, di rinnovare lo sguardo. Ma nel carcere dei diritti non c’è spazio per la violenza, per la umiliazione, per il degrado e le Autorità politiche dovranno garantire il concreto esercizio dei diritti dei detenuti, non solo prevedendo la figura istituzionale del Garante dei diritti dei detenuti, ma investendo notevoli risorse finanziarie per creare strutture adeguate e nello stesso tempo per evitare, attraverso incisivi controlli preventivi, che i recenti episodi di violenza possano nuovamente verificarsi. La pena potrà, così, essere concretamente umana ed aperta alla speranza e non rappresentare, un percorso che, inevitabilmente, porti alla crocifissione. Anche qui è importante ricordare la straordinaria partecipazione, con Papa Francesco, alla Via Crucis, dei protagonisti della vita penitenziaria. In conclusione, credo che tutti auspichiamo un mondo senza carcere, ma, come sosteneva e scriveva Nicolò Amato, in attesa di individuare qualcosa di migliore del carcere, lavoriamo tutti per avere un carcere migliore. Riforma Cartabia, la mediazione Pd sull’improcedibilità dei processi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 18 luglio 2021 Ipotesi allungamento dei termini per tutti i reati. In alternativa sconti di pena. Si svolgerà domani mattina l’atteso faccia a faccia tra il premier Mario Draghi e il suo predecessore e leader 5 Stelle Giuseppe Conte. Sul tavolo la riforma della giustizia penale e soprattutto il tema della improcedibilità sul quale restano le divisioni tra le forze politiche di maggioranza e tra magistrati e avvocati. Ad affacciarsi, nelle ultime ore, è l’ipotesi di una mediazione targata Pd con un pacchetto di integrazioni alle proposte Cartabia che sarà formalizzato martedì. A confermarlo è il relatore al provvedimento, Franco Vazio, “stiamo valutando interventi come gruppo. Per attenuare alcune criticità che sono state evidenziate, fermo restando che l’impianto normativo è pienamente condivisibile. Non intendiamo snaturare la riforma, piuttosto proporre miglioramenti nel solco tracciato dalla Ministra. Resta poi lo spazio del relatore per accogliere e ulteriormente limare le proposte emendative presentate da tutti i gruppi. Sarà un lavoro molto attento che faremo insieme alla ministra Cartabia”. Nel merito, due sono le proposte che potrebbero costituire un punto di caduta condiviso anche dal Movimento 5 Stelle. La prima si muove sui binari della improcedibilità, sanzione processuale che sarebbe confermata se il processo non rispettasse tempi predefiniti. Dove la novità starebbe nella cancellazione di una lista chiusa di reati peri quali i limiti di 2 anni in appello e di i in Cassazione possono essere aumentati. Si darebbe invece all’autorità giudiziaria davanti alla quale si svolge il giudizio di allungare i termini nei parametri previsti (1 anno in appello e 6 mesi in Cassazione), quando il processo è particolarmente complesso (per numero, parti, per pluralità di capi d’imputazione, per difficoltà delle questioni di fatto e di diritto da trattare), per tutte le tipologie di reato. Con la possibilità eventuale di un’estensione più ampia solo per alcune categorie di reati. Una soluzione che permetterebbe di potere contare su una finestra più ampia di tempo, tale da impedire nei fatti casi di improcedibilità soprattutto nei sette distretti di Corte d’appello più in difficoltà. L’altra soluzione, che si allontanerebbe però almeno in parte dagli emendamenti Cartabia, potrebbe passare, per il Pd, dalla sostituzione dell’improcedibilità immediata con sconti di pena se i processi sforano i limiti previsti. Lasciando però una disposizione di chiusura che sancisca sotto forma di prescrizione oppure, meglio, di improcedibilità, la fine di quei procedimenti che restano giacenti per troppo tempo. Quanto ai tempi, Vazio non alza le barricate, pur confermando in linea di massima, l’approdo in aula per il 23, in ogni caso “il nostro compito ora non è fare battaglie sulle date, ma è lavorare con attenzione e intensità. La volontà è quella di chiudere al più presto. Andare a dopo la pausa estiva non mi pare percorribile”. Per Enrico Costa di Azione, però i tempi sono del tutto irrealistici: “con la data di martedì alle i8 per la presentazione dei sub-emendamenti, è impossibile iniziare a votare prima di mercoledì pomeriggio 70o emendamenti circa. Poi bisogna mandare il testo alle altre commissioni per i pareri e dare mandato al relatore. Tutto entro giovedì?”. E per Costa la responsabilità è da attribuire soprattutto ai 5 Stelle che guidano la Commissione Giustizia con Mario Perantoni. Letta: “Sulla giustizia possibili aggiustamenti, Cartabia guidi il confronto” di Giovanna Vitale La Repubblica, 18 luglio 2021 Gioca in casa Enrico Letta, ma neanche troppo. “So di rischiare”, confida ai dirigenti del Pd senese arrivando a Montalcino, prima tappa della campagna elettorale nel collegio toscano che, in ottobre, dovrebbe schiudergli le porte di Montecitorio. Qui tre anni fa Padoan vinse con tre soli punti di scarto sul centrodestra e lui sa di giocarsi tutto, perché “è evidente che se i cittadini mi rifiuteranno, ne trarrò le conseguenze”. Significa dire addio al Nazareno, non solo alla speranza di entrare in Parlamento. E certo, le voci di un possibile agguato renziano non rassicurano. “Ma intorno a me sento un buon clima”, sorride, “vincere questa battaglia, per me totale, è possibile. Rifiutarsi sarebbe stata diserzione”. Di ritorno da Ancona, dove ha incontrato i lavoratori di Elica, la fabbrica di elettrodomestici che con “un piano inaccettabile” ha deciso di delocalizzare la produzione in Polonia, il leader dem si gode il colpo d’occhio regalato dal chiostro duecentesco di Sant’Agostino. Tanta gente e un entusiasmo che scalda il popolo democratico come non si vedeva da un po’. Cominciamo dalla giustizia. Il testo approvato in Cdm ha bisogno di modifiche, come sostengono M5S e Forza Italia, o va approvato così com’è, ponendo la fiducia? “Non c’è alcun dubbio che la riforma sia giusta e necessaria: dopo molti anni si va finalmente nella direzione di superare lo scontro politico tra giustizialismo e finto garantismo che ha tenuto in ostaggio il Paese troppo a lungo. Ma proprio perché è di importanza strategica, penso che il Parlamento abbia il diritto, direi il dovere, di contribuire a migliorarla”. Palazzo Chigi però teme che la dialettica interna ai partiti possa dilatare i tempi e stravolgere il testo... “Io credo che i tempi stretti chiesti dal governo, e che io condivido, siano compatibili con qualche piccolo aggiustamento, in prima o anche in seconda lettura. A patto di non stravolgerne l’impianto”. Quindi lei non asseconderà la guerriglia minacciata da Conte per ripristinare i cardini della legge Bonafede, specie sulla prescrizione? “Mi fido molto della ministra Cartabia. Se vogliamo affrontare il percorso in modo ordinato occorre affidare a lei il volante, la guida di questo confronto nelle Camere”. Domani Conte incontrerà Draghi. C’è il rischio che il M5S si sfili, magari durante il semestre bianco? “Come tutti sanno il Pd lavora molto bene con Draghi, così come ha lavorato bene con Conte, con il quale vogliamo costruire un’alleanza solida. Non solo non vedo rischi di rottura, ma sono convinto che questo dialogo darà più stabilità al governo”. Peccato che Renzi non sia della stessa idea. Dopo la battaglia sul ddl Zan pensa ancora che Iv voglia e possa far parte della coalizione di centrosinistra? “La nostra disponibilità c’è, ma i comportamenti non sono indifferenti. Io però preferisco guardare cosa accade nei territori, a quel che è successo a Bologna, dove Isabella Conti ha gareggiato alle primarie e sono sicuro giocherà un ruolo rilevante anche domani. Io non caccio nessuno, ma far parte di una coalizione significa starci dentro con diritti e doveri, anche di lealtà”. Le alleanze nelle città, spesso mancate, non segnalano però che la coalizione allargata al M5S gode di salute precaria? “È un processo complesso, che non si improvvisa. Per questo abbiamo lanciato le Agorà democratiche. Sarà il più grande esercizio di democrazia partecipativa mai offerto ai cittadini. La prossima settimana partiremo con incontri pilota a Palermo, Bologna, Napoli. E nomineremo un “osservatorio degli indipendenti” formato da personalità esterne di grande autorevolezza. Da oggi chiunque potrà iscriversi alla piattaforma. Dove, dal primo settembre, si potranno fare proposte per costruire insieme il programma del centrosinistra”. A proposito delle norme contro l’omotransfobia, Salvini le ha chiesto di incontrarvi per trovare un accordo salva-legge. Lo farà? “Il Pd su questo tema vuole discutere con persone che hanno una sola faccia. Non trovo sia serio appoggiare le iniziative anti-Lgbtqi+ di Orbàn in Europa e poi disinvoltamente proporsi per una trattativa a difesa di quella comunità a livello italiano. Se vuole confrontarsi con noi sulla Zan rinneghi pubblicamente le norme anti-Lgbtqi+ approvate in Ungheria”. Ma non è meglio un compromesso pur di portare a casa il risultato? “Abbiamo deciso di verificare passo passo in Parlamento gli sviluppi di questa vicenda, la cui tempistica non è ancora chiara. L’unica cosa certa è che se io non fossi rimasto fermo sul testo approvato alla Camera, a quest’ora non saremmo neanche arrivati nell’aula del Senato, staremmo ancora negli scantinati della commissione Giustizia a fare audizioni con il leghista Ostellari, che ha fatto di tutto per affossare la legge”. Neanche Conte ha pronunciato una sola parola a favore, anzi - sollecitato - si è sottratto. Questa cosa non la disturba? “No, perché in queste settimane Conte si è concentrato su questioni interne al M5S. E i loro parlamentari stanno facendo con noi un lavoro comune per far passare la Zan”. È giusto aver escluso dalla Rai l’opposizione? “Bisogna chiedere al centrodestra, sono tutti giochi dentro il loro campo. Il Parlamento ha votato ed è sovrano. Ora grazie alle scelte di Draghi ci sono le condizioni per una Rai molto più indipendente dai partiti. Vedo una svolta rispetto alla disastrosa gestione Foa-Salini”. I test Invalsi sono la prova che la chiusura delle scuole ha aumentato le diseguaglianze fra famiglie e territori. Come si può recuperare il debito di conoscenza accumulato dagli studenti? “Sono dati drammatici e a me ha molto colpito che non siano diventati la prima notizia dei tg. La priorità assoluta è lasciare aperte le scuole, dire basta alla Dad perché le disuguaglianze partono sempre dal gap di conoscenza e formazione. Perciò faccio un appello al governo: nel Pnrr ci sono tante iniziative per ridurre i deficit educativi, si acceleri sull’utilizzo dei fondi”. E sulla vaccinazione obbligatoria nelle scuole: favorevole o contrario? “Più vaccini si fanno meglio è. Ma non pensiamo che i guai della scuola si risolvano solo con una iniezione”. Riguardo al Green Pass, va fatto alla Macron o all’italiana? “Il Green pass va fatto, punto. Alla Draghi. Noi ci fidiamo del premier e del ministro Speranza, che hanno sempre deciso con serietà e sulla base delle evidenze scientifiche, non di soluzioni estemporanee proposte solo per acchiappare voti. Servono soluzioni che coniughino libertà di movimento e apertura delle attività economiche in sicurezza. Ma non le dettano Meloni e Salvini”. Avete votato per il rifinanziamento delle missioni di supporto alla guardia costiera libica. La mediazione Pd si è risolta in un semplice invito al governo a verificare la possibilità di superarla, passando però gli stessi compiti all’Europa. Non è un po’ poco? “Avevamo solo un’alternativa: votare contro e lasciare che la missione italiana proseguisse così com’è; oppure negoziare con il governo per ottenere la fine della missione dal primo gennaio e il passaggio alla Ue. È quello che è accaduto. Far politica vuol dire lavorare per gradi. Avrei voluto di più, ma si tratta già di un grande passo in avanti”. Prescrizione, ira dell’Anm sulla Cartabia: “Così saltano i processi” di Angela Stella Il Riformista, 18 luglio 2021 A quattro giorni dal deposito dei sub-emendamenti al pacchetto di emendamenti della Ministra Marta Cartabia alla riforma del processo penale e ad una settimana dell’approdo in aula, la massima convergenza tra tutte le parti coinvolte sembra davvero difficile. Prova ne sono le audizioni tenute ieri in Commissione Giustizia della Camera. Il nodo centrale resta sempre il nuovo istituto dell’improcedibilità dopo la sentenza di primo grado, su cui sarà decisivo il prossimo incontro di lunedì tra il premier Draghi e Giuseppe Conte. Lo ricordiamo: due anni per finire l’appello, uno per la Cassazione. Se non si rispettano i tempi, il processo muore ma il reato non si estingue. Partiamo dall’avvocatura: “Dire no all’imputato a vita e difendere il diritto pieno al secondo grado di giudizio sono le priorità dei penalisti italiani che appaiono nel complesso recepite dagli emendamenti governativi”, così Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione Camere Penali. Tuttavia, sul terreno scivoloso dell’improcedibilità, si legge in un documento della Giunta dell’Ucpi che “la prima proposta della Commissione Lattanzi, modellata -in senso per di più migliorativo- sulla riforma Orlando, sarebbe stata a nostro avviso preferibile, ma l’obiettivo politico è tuttavia inequivocabilmente raggiunto”. Per quanto concerne le impugnazioni, accolgono “con soddisfazione l’abbandono dell’idea, da sempre propugnata dalla magistratura italiana ed in un primo momento fatta propria dalla bozza Lattanzi, di trasformare l’appello penale in un giudizio cosiddetto “a critica vincolata”, così trasfigurandolo da giudizio sul fatto a giudizio sull’atto. Debbono però essere stigmatizzate le residue proposte che mirano ad ostacolare l’accesso al giudizio di appello”. Infine “sulla riduzione dei tempi del processo, occorre più coraggio sui riti alternativi, ma soprattutto investire in strutture, personale, magistrati”. In pratica per i penalisti “le ambizioni riformatrici della cultura penalistica liberale non vedono certo qui realizzata una autentica e coerente riforma del processo penale”. Critiche anche dalla magistratura associata: la nuova prescrizione processuale “non sembra sia un istituto di accelerazione del processo. L’obiettivo di una riduzione dei tempi dei processi è da noi condiviso ma questo non è uno strumento adatto, non accelera ma elimina i processi”. Quanto alle deroghe ai tempi previste per i reati più gravi, a giudizio di Santalucia “si tratta di un catalogo poco ragionevole, che va implementato” perché “esclude e dimentica alcuni reati di grande allarme sociale”. D’accordo sul doppio binario anche Armando Spataro, ex procuratore della Repubblica di Torino, che ha suggerito di aggiungere a quelli già previsti contro la pubblica amministrazione anche “quelli relativi alle morti sul lavoro”. Spataro si è poi detto contrario alla possibilità che al Parlamento vengano attribuiti i criteri di scelta dell’azione penale, seppur in termini generali. Ma l’ex magistrato sottolinea che “anche gli imputati devono avere i propri diritti, la durata dei processi deve essere certa e nota. Le reazioni di certa magistratura mi sembrano eccessive”. A difendere l’impianto della riforma ci ha pensato il professore avvocato Vittorio Manes, Ordinario di Diritto penale presso l’Università degli Studi di Bologna, tra i componenti della stessa Commissione Lattanzi: “a me sembra che il dibattito si stia concentrando solo su un aspetto - la prescrizione -. Si rischia di guardare il dito e non la luna, ossia l’intero impianto di riforma meritevole di apprezzamento sotto vari punti di vista: filtrare i procedimenti che meritano di essere portati avanti, considerare il carcere come extrema ratio, rivitalizzare l’udienza preliminare e il patteggiamento, così come le pene pecuniarie”. A titolo personale, poi, il professor Manes ha ammesso di preferire l’ipotesi A per intervenire sulla prescrizione, quella sostanziale, evidenziando, peraltro, che “la proposta inserita negli emendamenti ha cura di precisare che in caso di risarcimento del danno per la parte civile, una volta arrivata l’improcedibilità, il giudice penale può trasmettere gli atti al giudice civile. È una giusta preoccupazione sia per le vittime che per l’imputato, ed andrebbe ulteriormente chiarita, specificando che la condanna in primo grado poi divenuta improcedibile non può lasciar residuare effetti, ad esempio sul piano della confisca o sul piano extra-penale e disciplinare: altrimenti significherebbe lasciar residuare un’ombra di colpevolezza - per citare le parole della Corte EDU - sul soggetto, in spregio della presunzione di innocenza”. Infine, il professor Manes auspica che si possa ripristinare “l’archiviazione meritata e il potenziamento di altri riti speciali”, come l’abbreviato condizionato. Date tali premesse, si potrebbe davvero aprire la strada alla fiducia, per evitare di andare oltre l’estate. Referendum sulla giustizia: le anomalie che i quesiti non risolvono di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 18 luglio 2021 L’ipotesi che l’iniziativa sia stata messa in atto al fine di condizionare il percorso riformatore già avviato dal Governo, non è del tutto peregrina. Nonostante le lusinghiere affermazioni dei promotori, è alquanto improbabile che la proposta referendaria depositata presso la Corte di Cassazione possa effettivamente condurre ad una autentica riforma della giustizia. Non concorrono a tale eventualità in primo luogo le tempistiche, che rappresentano un vero e proprio percorso ad ostacoli per giungere alle urne. Infatti, dopo la raccolta delle necessarie 500 mila firme almeno, le stesse dovranno essere depositate presso l’Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione il quale dovrà verificarne la validità. A seguire l’incartamento passerà nelle mani della Consulta, per il vaglio di legittimità costituzionale dei quesiti, e soltanto una volta superato anche quest’ultimo scoglio, sarà possibile giungere alla votazione che, secondo calcoli realistici, potrà avvenire in una domenica compresa tra la metà di aprile e il 15 giugno. Poiché si tratta di valutazioni che certo non sono sfuggite ai promotori del referendum, l’ipotesi che l’iniziativa sia stata messa in atto al fine di condizionare il percorso riformatore già avviato dal Governo, non è del tutto peregrina, tanto più se si considera la singolarità dovuta al fatto che ad assumerla sia stata una forza politica di governo. Inoltre, stiamo parlando di un referendum abrogativo, un’arma politica normalmente in mano ai partiti di opposizione, che ha assunto gradualmente un significato sempre più marcatamente politico a seguito dell’aggravamento della crisi della rappresentanza politica ritenuta responsabile di inerzia legislativa. Ma il punto sostanziale è comprendere se il referendum o per meglio dire i sei quesiti referendari, possano effettivamente rappresentare uno strumento di trasformazione istituzionale, nello specifico della giustizia, ovvero, al contrario, un intralcio al raggiungimento di tale scopo. Prescindendo dalla criptica formulazione dei quesiti e dalla loro eterogeneità, questioni che verosimilmente rappresenteranno gli ostacoli alla ammissibilità del referendum, va detto con onestà intellettuale che le tematiche affrontate effettivamente necessitano di un intervento legislativo. I quesiti sulla responsabilità civile dei giudici e la separazione delle carriere degli stessi sulla base della distinzione tra funzioni giudicanti e requirenti, rispondono ad esigenze sostanziali volte, tra l’altro, ad attenuare la profonda crisi di efficienza e di legittimazione della magistratura. Ma tali problematiche non sono certo risolvibili con la richiesta di abrogazione di disposizioni normative senza una adeguata e preordinata rete riformatrice che disegni percorsi formativi utili a distinguere le funzioni dei giudici, preservandone comunque la loro autonomia e indipendenza. Un discorso analogo può essere fatto per quanto riguarda il quesito sulla custodia cautelare. Se esaminato correttamente nel merito, è possibile accertare che lo stesso, operando su una semplice abrogazione di una norma, non risolve ma anzi aggrava il problema. I quesiti relativi ad una implementazione del ruolo dei laici nei Consigli Giudiziari e quello delle candidature dei magistrati al Consiglio Superiore della Magistratura, sono irrilevanti ai fini dell’obiettivo che si vorrebbe raggiungere. Parimenti il quesito relativo alla abrogazione della legge Severino, nella parte in cui prevede la sanzione accessoria della incandidabilità a cariche pubbliche in ipotesi di condanna per alcuni reati, pur avendo un’evidente fondamento essendo la misura sproporzionata rispetto allo spirito della norma, rischia seriamente l’inammissibilità alla luce dei vari interventi della Corte Costituzionale relativi alla improponibilità di norme regolatrici della incandidabilità. Pur essendo difficile non convenire sulla attuale anomalia del potere giudiziario, e sulla necessità di una sua complessiva ed organica riforma, sarebbe con franchezza impensabile che ciò possa avvenire al di fuori di un quadro legislativo istituzionale meditato. Bene l’amnistia, ma guai a dimenticare le riforme di Paolo Itri Il Riformista, 18 luglio 2021 Che l’Italia sia il Paese delle amnistie e degli indulti è un dato inconfutabile. I provvedimenti di clemenza approvati dal Parlamento dal 1944 fino a oggi sono 34, segno evidente di come un istituto per sua natura eccezionale e legato a fattori di carattere contingente si sia tramutato in uno strumento di ordinaria gestione dei mali endemici della giustizia italiana. Tradizionalmente, infatti, nei Paesi a democrazia avanzata amnistia e indulto seguono eventi di natura straordinaria e contingente, come la fine di un regime o di un conflitto bellico, oppure si legano a provvedimenti legislativi che segnino una radicale discontinuità col passato. In Italia, invece, tali provvedimenti clemenziali sono stati periodicamente utilizzati al di fuori di ogni logica strategica, non quindi come uno strumento a cui fare ricorso in via eccezionale, con l’obiettivo di dare una soluzione definitiva alle storiche criticità del nostro sistema penale e penitenziario, quanto piuttosto come un modo sbrigativo e superficiale per far fronte al sovraffollamento delle carceri e per sgombrare gli armadi dei giudici dai fascicoli arretrati. Col risultato che, mentre gli effetti deflattivi dei provvedimenti di clemenza sono stati mediamente assorbiti nell’arco di un paio di anni, i problemi della giustizia penale si perpetuano almeno dal 1989, senza che nessuno si ponga seriamente il problema della riforma di un sistema nel quale amnistie e indulti sono diventati un mero escamotage per rinviare ogni decisione e far convivere obbligatorietà dell’azione penale, processo con tre gradi di giudizio e ipertrofia del diritto penale. Risultato: secondo gli ultimi dati disponibili, il numero medio dei detenuti nel carcere di Poggioreale si aggira intorno ai 2.100 a fronte di 1.571 posti regolamentari disponibili, con una percentuale di sovraffollamento pari a circa un terzo. Mentre circa 56mila sono i procedimenti penali pendenti presso la Corte di appello di Napoli, per una durata media di 1.560 giorni a processo. Numeri da far tremare i polsi, comunque tali da risultare incompatibili con la ragionevole durata del processo in un Paese civile. Spiace doverlo dire, ma pare che neppure la prossima riforma voluta dalla guardasigilli Marta Cartabia sfugga alla solita logica dell’approssimazione elevata a sistema. In particolare, non sono previsti interventi strutturali concreti per rendere le carceri più vivibili e consone alla finalità rieducativa della pena, né si intravede un serio disegno strategico per ridurre le intollerabili lungaggini processuali, al di là delle solite periodiche logiche “svuota-carcere” e “svuota-armadi”. Gli stessi rimedi ipotizzati dalla riforma Cartabia (notifiche telematiche, digitalizzazione e ufficio del processo, inappellabilità delle sentenze di assoluzione, improcedibilità dell’azione penale una volta superati i termini della ragionevole durata del processo e così via), sebbene ispirati da buone intenzioni, appaiono del tutto insufficienti e non in grado di incidere sulle cause strutturali dei mali cronici dai quali è afflitto il nostro sistema penale. A dimostrazione dell’assunto, tra le varie proposte di riforma è previsto che, in caso di irragionevole durata del processo, il condannato possa chiedere una congrua riduzione della pena e che, se la diminuzione è superiore alla pena inflitta dal giudice, quest’ultimo possa addirittura dichiararla ineseguibile. Altrimenti detto, di fronte alla acclarata incapacità dello Stato di assicurare una giustizia in tempi brevi, si prevede una sorta di “risarcimento in natura” per cui la durata della pena viene ridotta in misura proporzionale alla durata del giudizio, ovvero si rinuncia del tutto all’esecuzione della pena secondo una logica ancora una volta del tutto simile a quella sottostante le decine di provvedimenti di amnistia e indulto periodicamente adottati dal legislatore per rimediare alle incongruenze e alle insufficienze del nostro sistema processuale e penitenziario (analogo discorso è ovviamente legato ai condoni fiscali rispetto alle croniche difficoltà che incontra l’Erario nella identificazione degli evasori e nel recupero delle entrate sottratte al Fisco). Purtroppo, fino a quando la logica del compromesso continuerà a prevalere sulla consapevolezza che la giustizia è un bene che appartiene a tutti, anche la cultura dell’emergenza - a cui è in ultima analisi legato nel nostro Paese il continuo ricorso ai provvedimenti indulgenziali - continuerà a prevalere sulla ragione del diritto e la giustizia rimarrà un insensato terreno di scontro tra le opposte forze politiche. Senza contare che il ciclico ricorso a provvedimenti di indiscriminata clemenza ha inevitabilmente indotto nella collettività la non del tutto infondata opinione per cui, alla fine dei conti, per chi si imbatte nella giustizia penale, prima o poi il problema si risolverà a tarallucci e vino. Il problema, giova ripeterlo, non sono perciò l’amnistia e l’indulto in sé, quanto piuttosto l’uso improprio e dissennato che di tali istituti si è fatto e probabilmente si continuerà a fare in Italia. A dimostrazione del fatto che, quando l’emergenza assurge a normalità, anche la certezza della pena va a farsi friggere G8 di Genova 20 anni dopo: la Cedu conferma le condanne ai poliziotti di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 18 luglio 2021 Respinto il ricorso di sette condannati per l’irruzione alla scuola Diaz. Per la Corte europea le condanne “non sembrano né ingiustificate né irragionevoli”. Nel 2015 l’Italia era già stata condannata per violazione dei diritti umani. A venti anni esatti dal G8 di Genova e nel giorno in cui le violenze di quei giorni tornano a essere al centro di discussioni e rievocazioni, la Corte Europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha chiuso definitivamente il capitolo processuale: è stato infatti dichiarato inammissibile il ricorso presentato da alcuni poliziotti condannati per l’irruzione alla scuola Diaz, uno degli episodi più sanguinosi legato alle manifestazioni del 2001. Gli agenti si erano appellati alla Cedu ritenendo che il processo a cui erano stati sottoposti sia stato ingiusto per aver violato alcune norme contenute nella Convenzione per i diritti umani. “Alla luce di tutte le prove di cui dispone - si legge nella sentenza -, la Corte ritiene che i fatti presentati non rivelino alcuna apparenza di violazione dei diritti e delle libertà enunciati nella Convenzione o nei suoi Protocolli”. Ne consegue che le “accuse” mosse dai ricorrenti “sono manifestamente infondate” e il ricorso è “irricevibile”. Le motivazioni dei giudici europei sono molto tecniche e in sostanza affermano che la Cedu non può funzionare come “quarta istanza” rispetto ai tre gradi di giudizio dei tribunali nazionali. “La parte ricorrente - ecco un altro passaggio della sentenza - ha potuto presentare le sue ragioni davanti ai tribunali che hanno risposto con decisioni che non sembrano essere né arbitrarie né manifestamente irragionevoli, e non ci sono elementi per dire che il procedimento sia stato iniquo per altre ragioni”. La decisione della Corte in composizione di giudice unico è definitiva e non può essere oggetto di ricorsi davanti a un comitato, a una camera o alla Grande Camera. Il fascicolo in questione sarà distrutto entro un anno dalla data della decisione, conformemente alle direttive della Corte in materia di archiviazione. La Corte di Cassazione italiana aveva confermato in via definitiva le condanne per l’irruzione alla scuola Diaz nel luglio del 2012: la sentenza aveva riguardato 25 appartenenti alla Polizia, dai piani più alti della catena di comando (a partire dal comandante del reparto mobile di Roma, Vincenzo Canterini) fino agli agenti ritenuti responsabili dei pestaggi ai danni delle persone che si trovavano all’interno della scuola (che in quei giorni funzionava come centro di accoglienza per i partecipanti alle manifestazioni no global). Gli episodi della scuola Diaz seguirono di poche ore la morte di Carlo Giuliani. Gli agenti entrarono nella scuola ritenendola un covo di “black bloc”, arrestarono una novantina di persone (tutte poi prosciolte) e ferendone 60. La Corte europea dei diritti dell’uomo si era già dovuta occupare dei fatti legati al G8 di Genova, ma in seguito a un ricorso presentato da Arnaldo Cestaro, uno dei manifestanti vittima delle violenze delle forze dell’ordine nel 2001. Nel 2015 la Cedu aveva condannato lo Stato italiano a risarcire Cestaro (che a causa dei pestaggi aveva subito la frattura di un braccio e di alcune costole) con 45.000 euro per violazione dell’articolo 3 della Convenzione sui diritti dell’uomo (“Nessuno può essere sottoposto a trattamenti degradanti”). In seguito alla sentenza Cestaro altre 29 vittime delle violenze alla scuola Diaz avevano presentato ricorso alla Cedu, ottenendo tutti risarcimenti tra i 40 e i 55milas euro. Quei ragazzi della Diaz bastonati a sangue oggi stanno vincendo di Jacopo Iacoboni e Francesca Paci La Stampa, 18 luglio 2021 La crisi ambientale, il dramma dei migranti, la battaglia Lgbt, la tassazione delle finanze globali. Nelle rivendicazioni di allora molti temi che solo ora sono diventati patrimonio comune. È difficile adesso, tornando a quei giorni, non restare schiacciati su due fotogrammi, la spaventosa repressione poliziesca alla scuola Diaz, o il corpo maciullato di Carlo Giuliani riverso in piazza Alimonda, colpito ad altezza uomo dallo sparo di un giovanissimo carabiniere, Mario Placanica. Eppure il G8 di Genova fu anche un’immensa manifestazione di popolo prima del populismo, e di ragazzi che si dicevano no global ma erano di fatto la prima generazione globalizzata e interconnessa (dai progetti Erasmus, più che da Internet). Un fine settimana in cui speranza e tragedia si confusero, ma arrivarono alla ribalta alcuni temi che sarebbero entrati nell’agenda delle maggiori istituzioni internazionali. Soltanto, vent’anni dopo: la crisi ambientale del pianeta, il bisogno di regolare il capitalismo finanziario e i suoi guadagni, la differenza di genere, i migranti. C’è stata una Greta Thunberg prima di Greta. Si parlava di tassare le finanze globali da molto prima della recentissima tassa sulle multinazionali. E c’era la necessità di trovare una soluzione alle migrazioni da prima che divenissero una tragedia quotidiana, ogni estate, nel nostro Mediterraneo: il corteo per i migranti aprì simbolicamente le manifestazioni di Genova, cadenzato dalla musica e dalla presenza fisica di Manu Chao, che dopo aver dormito con gli attivisti allo Stadio Carlini cantava in corteo Clandestino. Le soluzioni magari non c’erano. O a volte erano di una ingenuità disarmante. Ma i problemi sì, erano tutti nell’agenda del G8 di Genova, ma in piazza, più che nella zona rossa. E poi chi oggi ha 50 anni allora era giovane. È sbagliato pensare che fosse solo teatro, come la scenografia bellica delle “Tute bianche” disobbedienti guidate da Luca Casarini, con la “Dichiarazione di guerra” ai potenti della Terra, usata come alibi alla mattanza feroce operata dalle forze dell’ordine, mentre ai black-bloc che scorrazzavano indisturbati per Genova non fu fatto quasi nulla mentre devastavano vetrine, macchine, banche. Il governo Berlusconi-Fini, e la polizia di Gianni De Gennaro, fallirono spaventosamente, e molti agenti sono stati, sia pure tardi, condannati (alcuni hanno fatto carriera). Ci furono errori di visione e di organizzazione tra i manifestanti, a partire dal servizio d’ordine, strutturato intorno alle bandiere della Cgil ma impreparato alla trincea. Eppure i simboli contarono tantissimo, in quel movimento, e erano nati in pace, non in guerra. Uno dei nomi che venivano gridati nel corteo era quello di Julia Hill, soprannominata “Butterfly”, la farfalla, un’americana di 23 anni che nei giorni del popolo di Seattle si era arrampicata su “Luna”, una sequoia secolare nella foresta di Headwaters, contea di Humboldt, California, fino a dicembre del 1999, per impedirne l’abbattimento da parte di una multinazionale del legno. Battaglia che fu irrisa allora dai parrucconi, gli stessi che oggi ci insegnano il Green New Deal. In piazza Manin la polizia bastonò a sangue i più pacifici dei militanti No global, la Rete Lilliput - un network di “piccoli” composto da associazioni cattoliche come Mani tese o Nigrizia, da femministe e attiviste pink, da militanti di sinistra con Le Monde diplomatique sotto braccio - c’era Attac, e la sua costola italiana, la cui battaglia principale era la Tobin Tax, una semplice tassa su singole transazioni finanziarie. La tassa da poco approvata dai ministri delle finanze europei sulle multinazionali è più radicale. C’erano già le bandiere arcobaleno fiere e poliglotte, molto prima che il ddl Zan portasse in Parlamento la battaglia Lgbtq+. Poi c’è stata la crisi finanziaria del 2007-2008. Mario Draghi, che allora sarebbe stato visto come l’icona del più nascosto potere finanziario, è diventato il salvatore dell’euro “whatever it takes”, e l’autore di una battaglia anti-austerity combattuta nientemeno che dalla Bce. Qualche seme è forse entrato nel dibattito, in mezzo a tante retoriche e zapatismi già al tempo insopportabili. Se Margareth Thatcher aveva detto “non c’è alternativa”, quei ragazzi scandivano “un altro mondo è possibile”. Oppure “no logo”, dal titolo bestseller di Naomi Klein: allora le multinazionali erano quelle degli Ogm, Monsanto, o Danone, o Coca Cola. Oggi, chissà, sarebbero le giant tech, Google, Facebook, Amazon. Le profilazioni, i furti di dati, gli scandali alla Cambridge Analytica. Chi, come una degli autori di questo articolo, era alla Scuola Diaz la sera della “macelleria messicana” (definizione del vicequestore dell’epoca), ricorda i grumi di sangue rappresi sui muri, le pozze di materiali umani per terra, i capelli annodati sulle maniglie dei termosifoni, l’andirivieni delle barelle. Un incubo che avrebbe annegato nel sangue le ambizioni della meglio gioventù: titolo che fu concesso solo dopo averla massacrata di botte. Franco Gabrielli, che oggi è il sottosegretario del governo Draghi delegato alla sicurezza, fu il primo poliziotto ad ammettere il disastro repressivo di Genova: “Al posto di De Gennaro mi sarei dimesso”, disse a Repubblica, ma era ormai il 2017. Tardi. Ci furono errori e sottovalutazioni in piazza. Ma anche sogni genuini, benché non sempre a fuoco. Uno dei leader di allora, il veneziano Beppe Caccia, ha detto: “Certo solidarismo sembra ritrovarsi persino nel pontificato di Francesco. Noi, che eravamo considerati i duri veneti, in realtà avevamo fatto tutto un percorso per staccarci dall’Autonomia violenta dei nostri padri”. I Toni Negri del ‘77. Il suo Impero (2002), con tanto di elucubrazioni neo-autonome, è però uno dei libri simbolo di quella stagione. A Genova, anche lui allo stadio Carlini, passò Pablo Iglesias, che poi fondò Podemos. Doveva arrivare Tsipras che, smesso il codino e indossata la cravatta, nella notte cruciale in Europa si batté per la Grecia dentro, non fuori. Fu fermato al porto di Ancona con altri greci, e rimandato indietro. C’era a Genova anche chi, come Giovanni Favia, sarebbe poi finito, primo consigliere eletto, nel Movimento di Grillo e Casaleggio, “che - dice Favia - è come se avessero hackerato la disillusione di parte di quei giorni, impossessandosene”. Ha scritto Susan Sontag che quello fu “il primo movimento di massa della storia che non chiedeva niente per sé, ma solo giustizia per il mondo intero”. E in un certo senso è vero: certo non ci ha politicamente lucrato Luca Casarini, da allora si era ritirato, e dopo aver fatto vari lavori oggi ha messo su (con Caccia) una nave, Mare Ionio, per soccorrere migranti nel Mediterraneo. Francesco Caruso fece un passaggio in Parlamento con Rifondazione, poi ebbe un incarico universitario come sociologo a Catanzaro, e un lavoro nel parco del Gran Sasso. Qualcuno ha fatto il politico di professione, Nicola Fratoianni (Sinistra italiana), o Gennaro Migliore (Italia Viva). Il prete No global, don Vitaliano della Sala, era stato sospeso a divinis, ed è stato da qualche anno reintegrato. Vittorio Agnoletto, professore a contratto all’Università di Milano, ha un blog sul Fatto quotidiano. José Bové, il contadino coi baffi di una bizzarra Vandea nutrizionista, criticato da chi lo vedeva come il collettore dei fondi europei per l’agricoltura ai danni dei contadini africani, divenne poi europarlamentare (oggi ex). Carlo Cottarelli, che allora lavorava al Fondo Monetario, ha dichiarato che quei movimenti guardavano in avanti, e “chi allora guidava l’economia e la finanza internazionale si rendeva solo in parte conto dell’entità dei fenomeni che stavano accadendo”. Una delle battaglie totalmente dimenticate fu per introdurre eccezioni ai brevetti, per esempio nella sanità pubblica. Ci abbiamo ripensato quando, poche settimane fa, in piena pandemia Covid, ne ha parlato addirittura il presidente americano Joe Biden. Campania. Oltre 3mila dietro le sbarre per pene inferiori a 5 anni di Viviana Lanza Il Riformista, 18 luglio 2021 Il caso Santa Maria Capua Vetere non può limitarsi a essere solo un reato per cui indignarsi e di cui accertare le singole responsabilità. Il caso Santa Maria Capua Vetere deve segnare anche una svolta. In questi giorni lo si è detto più volte e tutti i discorsi che si stanno facendo avranno un senso se alle parole seguiranno i fatti. Affinché, però, i fatti possano davvero seguire alle parole, ai propositi della politica e alle riflessioni degli esperti, è necessario analizzare la realtà a cui i fatti da concretizzare sono destinatati. E allora guardiamola la realtà delle carceri, la fotografia più attuale della popolazione carceraria. Guardiamola attraverso i dati ministeriali che ci dicono chi sono i detenuti che attualmente popolano le celle delle carceri, e confrontiamo questi dati con la proposta di allargare il ricorso alle misure alternative per alleggerire gli istituti di pena dal sovraffollamento e da tutti i problemi che ne derivano. Se si volesse considerare, per esempio, il tetto dei cinque anni di reclusione come residuo massimo di pena da poter scontare anche con misure alternative, circa la metà della popolazione carceraria potrebbe lasciare la cella. In Campania, sarebbero 3.002 persone. A voler considerare, invece, un tetto più basso, sono 2.128 i detenuti con un residuo di pena inferiore ai tre anni di reclusione. Considerando, inoltre, che in Campania, secondo dati ministeriali aggiornati al 30 giugno, si sono raggiunti i 6.533 reclusi, è facile calcolare di quanto si sfollerebbero le 15 strutture penitenziarie della regione. In Campania, infatti, risultano 753 detenuti che hanno una pena residua inferiore a un anno di reclusione, 733 detenuti con una pena residua che va da uno a due anni di reclusione, 642 reclusi con un residuo di pena incluso tra i due e i tre anni, mentre sono 874 i detenuti con un residuo di pena tra i tre e i cinque anni. Sommando questi numeri, si scopre che una buona parte della popolazione che attualmente vive all’interno degli istituti penitenziari della Campania potrebbe usufruire di misure alternative al carcere, con l’opportunità di poter meglio affrontare percorsi di recupero, di responsabilizzazione e di rieducazione, e indirettamente con la possibilità di decongestionare le carceri dove il sovraffollamento continua a essere il principale e più grave problema. Lo ha ricordato anche la ministra Marta Cartabia durante la sua visita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, mercoledì scorso, insieme col premier Mario Draghi: “Sovraffollamento significa spazio dove è difficile anche muoversi, dove d’estate, e lo abbiamo sperimentato anche oggi - ha detto in occasione della visita nel carcere dei pestaggi che sono al cuore di un’inchiesta della Procura - si fa fatica persino a respirare. Una condizione che si traduce in difficoltà nel proporre attività che consentano alla pena di favorire, nel modo più adeguato, percorsi di recupero dei detenuti”. Il vero nodo del problema, quindi, sta nel numero spropositato di persone che finiscono in carcere. Anche su questo punto la ministra Cartabia è intervenuta, sottolineando la necessità di “un uso più razionale delle sanzioni alternative alle pene detentive brevi”. In Campania, su una popolazione complessiva di 6.533 detenuti, 4.013 dei quali con almeno una condanna definitiva, sono 76 quelli condannati all’ergastolo, 35 quelli con una pena da scontare superiore ai 20 anni, 212 quelli con una pena residua compresa tra i 10 e i 20 anni di reclusione, e 688 i reclusi con una condanna tra i 5 e i 10 anni da scontare. In tutta Italia, su un totale 37.203, 1.806 hanno condanne all’ergastolo, 432 con condanne superiori ai 20 anni di reclusione, 2.427 con condanne tra 10 e 20 anni, 5.986 con condanne tra i 5 e i 10 anni. Ciò significa che in cella, a scontare condanne che non superano i cinque anni di reclusione, ci sono attualmente in Italia 26.552 persone su una popolazione carceraria che, tra detenuti condannati e in attesa di giudizio definitivo, conta 53.637 unità a fronte di una capienza di 50.779 posti. Olbia. Riapre l’ufficio del Garante comunale dei detenuti La Nuova Sardegna, 18 luglio 2021 Incarico a Ornella Careddu, che prende il posto di Edvige Baldino. Ritorna, a Tempio, un importante servizio. Riapre, infatti, l’Ufficio del garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Il Comune di Tempio ha recepito le disposizioni di legge con l’approvazione del regolamento dell’Ufficio del garante e la nomina del primo garante, l’avvocata Edvige Baldino, rimasto in carica fino allo scorso mese di giugno. Dopo le dimissioni di Baldino l’incarico è stato conferito alla dottoressa Ornella Careddu. “Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale - spiegano dal Comune - è un organismo indipendente istituito nel 2013 presso il Ministero della giustizia, che opera per migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale dei detenuti anche mediante la promozione di iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani e dell’umanizzazione delle pene e la promozione di iniziative volte ad affermare per le persone private della libertà personale il pieno esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e della funzione dei servizi presenti sul territorio comunale, attivando relazioni e interazioni cooperative anche con gli altri soggetti pubblici competenti in materia”. Il Garante nazionale ha, inoltre, il compito di monitorare i rimpatri degli stranieri extra-comunitari irregolarmente presenti sul territorio italiano e di fare azioni di prevenzione contro la tortura e altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti. L’Ufficio apre il giovedì dalle ore 16 alle ore 18, su appuntamento, chiamando al numero di telefono 079 679963). Treviso. “Oltre quegli alti muri di cinta”: ecco l’ultima riflessione di Cittadinanzattiva di Federica Florian trevisotoday.it, 18 luglio 2021 Dopo i vari Comuni capoluogo del Veneto, anche la Città di Treviso dovrebbe nominare la figura del “garante”, il cui compito è occuparsi della tutela delle persone ristrette o limitate nella loro libertà personali. Comincia così l’ultima frase delle dichiarazioni della Ministra della Giustizia italiana Marta Cartabia, in merito ai gravi fatti occorsi nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere. La frase completa è: “Oltre a quegli alti muri di cinta, c’è un pezzo della nostra Repubblica, dove la persona è persona, e dove i diritti costituzionali non possono essere calpestati. E questo a tutela anche delle donne e degli uomini della Polizia penitenziaria, che sono i primi ad essere sconcertati dai fatti accaduti”. In quella stessa occasione, la Ministra aveva detto che ciò che era accaduto era “un oltraggio alla dignità della persona e della divisa”. La Ministra Marta Cartabia è una persona che ha fatto del suo impegno alla giustizia e all’affermazione della legalità e dei diritti delle persone, una battaglia di vita. L’ultima sua carica prima di essere Ministra della Giustizia, nel Governo Draghi, è stato essere la Presidente, prima donna nella storia, della Corte Costituzionale. Nella cultura popolare sono state da sempre luogo di paura e di avversione. Ricordo che i vecchi dei nostri paesi, oltre a sperare che si buttassero via le chiavi di tutte le carceri, lasciando marcire i detenuti, istruivano i loro nipoti a stare lontano anche dal perimetro carcerario, per evitare che “i brutti” in evasione facessero del male alle persone che passavano. Le carceri italiane sono 189. Sono parte integrante, distaccate e ignorate delle nostre città. Anche se spesso le Amministrazione pubbliche si dimenticano della loro presenza, malgrado siano, almeno quelle di vecchia data, nei centri città, come succedeva a Treviso. In questi luoghi le persone detenute sono 53.637 (contro una capienza regolare di 50.779, quindi esiste un sovraffollamento). i questi 17mila circa sono i detenuti stranieri (sono in calo rispetto agli scorsi anni) e i detenuti collegati ai reati di droga sono 18.757, mentre i detenuti per ergastolo sono 1.784. Le donne sono complessivamente 2.228 (4,2%). Quindi, si può affermare che in Italia la criminalità ha un volto decisamente maschile. Nel 2020 sono stati 61 i detenuti che si sono suicidati, molti sono quelli che hanno fatto delle gesta autolesionistiche. Sovente si tratta di gesta di richiamo d’attenzione e forme di protesto. Oltre a questo fatto italiano, diciamo di casa nostra, sono detenuti nelle carceri del mondo 2.113 italiani. Cinquecento di loro sono in paesi dove il regime carcerario è pesante. Millesettecento sono nelle carceri europee, di cui 966 stanno già scontando una condanna, 1.113 sono in attesa e 34 sono quelli per i quali è stato richiesta l’estradizione. Diciassette, infine, sono le carceri cosiddetti minorili (istituti penali per minorenni). Uno di questi è a Treviso, inserito nella casa circondariale di Santa Bona. Qui si stima siano 12/14 persone minorenni detenute, per la gran parte stranieri. Il carcere di Treviso è una “casa circondariale”. Questa espressione sta a identificare che in questo carcere ci sono detenute persone in attesa di giudizio o quelle condannate a pene inferiori o con residuo di pena, inferiore ai 5 anni. Qui si trovano 191 detenuti (secondo i dati ufficiali, aggiornati al mese di giugno 2021). Tutto questo mondo sin qui descritto è quello che la Ministra Cartabia considera al di là delle alte mura di cinta. A garantire queste “alte mura di cinta” c’è quanto stabilito dall’articolo 27 della Costituzione Italiana che così, e in modo chiaro si esprime (“L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”) e più nel dettaglio collegato a quanto già sancito dall’Ordinamento Penitenziario (legge 354 del 26 luglio 1975, aggiornato il 28 febbraio 2017). All’articolo 1 si scrive e ci si impegna: “il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto delle dignità della persona. È improntato ad assoluta imparzialità, senza discriminazione in ordine a nazionalità, razza e condizioni... deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi “. Su tutto ciò è garante la politica attraverso il Ministro di Giustizia, e tutta la sua corte di collaboratori. Lo Stato, come dice la Ministra Cartabia, dovendo garantire un pezzo della sua dignità, di Repubblica democratica e della sua Costituzione, non può accettare che un manipolo di suoi servitori possano non convenire a ciò ed accettare questo. Quello che è successo a Santa Maria Capua a Vetere, a Modena ed in altri istituti di pena, è un fatto grave poiché sono stati messi in discussione i principi della democrazia e del diritto della Costituzione. Non c’è alcuna giustificazione verso tale barbarie. Al reo, che oggi fa schifo più di ieri, e sul quale vi è un sistematico linciaggio mediatico, che semina odio e voglia di vendetta, è sufficiente la pena inflitta dai Tribunali. Questo è il prezzo che chi sbaglia deve pagare. Le torture, gli atti barbarici e le intimidazioni sono metodi mafiosi non degni di un paese, che in tema di diritti civili, anche nei secoli scorsi è stato un modello al quale ispirarsi. Tutto questo non è magnanimità bensì diritto di e per tutti, sia delle vittime, alle quali è stata impostata, giustamente anche una legislazione specifica europea (Direttiva 2012/29/Unione Europea), sia dei carnefici. Infine, un’ultima considerazione politica. Essendo il problema delle libertà e dei diritti delle persone, tutte, una cosa importante e seria, a cui si deve fare riferimento tenendo conto dei tanti equilibri e delle relazioni, spesso infrante, anche in modo drammatico dagli eventi criminosi, è stata istituita la “figura del garante”. La sua missione principale è quella di occuparsi della tutela dei diritti delle persone ristrette o limitate nella libertà personale. Nella Regione Veneto esiste questa figura con relativi servizi attribuitigli dalla Regione. Ad esso fanno riferimento quelli comunali. Tutti i Comuni capoluogo del Veneto, ne hanno nominato uno (Belluno, Padova, Rovigo, Venezia, Verona e Vicenza). Assente “ingiustificato” è il Comune di Treviso. Crediamo sia tempo e ora che lo nomini, vista anche l’evoluzione delle sensibilità che le forze politiche di maggioranza hanno suoi temi della libertà e della giustizia. Giancarlo Brunello Coordinatore provinciale di Cittadinanzattiva Treviso. I segnali della macelleria sociale c’erano: bastava ascoltare chi li lanciava di Vincenzo Imperatore Il Fatto Quotidiano, 18 luglio 2021 “Mi dispiace, il tema è interessante e ben trattato, ma in questo periodo la nostra linea editoriale punta a trasmettere agli italiani un messaggio di ripresa, positività e ottimismo”. Ecco la risposta che l’ufficio stampa della mia casa editrice (Chiarelettere) ha ricevuto, nell’ultimo mese, da molte redazioni di programmi televisivi, radiofonici e testate giornalistiche che venivano sollecitate per la promozione di Salviamoci! Nascondere la polvere sotto il tappeto, questa la strategia di comunicazione adottata da buona parte del sistema mediatico. È vero che fino a qualche settimana fa eravamo ancora fortemente preoccupati, addolorati e comunque distratti dai morti e i contagiati dal virus e sul “come” combattere la pandemia. Eppure i segnali della macelleria sociale che si sarebbe realizzata dopo il lockdown c’erano, e chi doveva percepirli e predisporre rimedi ha tralasciato di ricercarne le cause e di soffermarsi sugli effetti che la pandemia avrebbe avuto sul mondo del lavoro, per incompetenza, inefficienza o comunque rassicurato dalla condizione del “mal comune, mezzo gaudio”. In queste ultime due settimane si sono risvegliati tutti perché è stato presentato un conto salatissimo alla comunità in termini di licenziamenti ex abrupto. Come ribadito la settimana scorsa, ora tutti si scandalizzano ma, come più volte ripetuto nel libro, siamo stati troppo concentrati sul “come” combattere la pandemia. In parte abbiamo anche tralasciato di ricercarne le cause. Figuriamoci se ci soffermavamo sugli effetti che avrebbe avuto sul mondo del lavoro e sulle tasche degli italiani. E sapete perché? Perché nell’immaginario collettivo il rapporto tra la pandemia e il lavoro era ed è percepito solo come congiunturale. Ma fin dai primi momenti della chiusura generale dovuta alla diffusione del virus, è apparso chiaro a tutti come la pandemia avrebbe avuto forti ripercussioni sull’economia. Per questo motivo il governo, allora rappresentato dal presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte, si mobilitò per adottare immediatamente le giuste soluzioni al fine di tutelare l’economia e in particolar modo i lavoratori. Di fronte a crisi del genere, infatti, è sempre la forza lavoro dei gradi più bassi a farne le spese, in quanto i licenziamenti e i tagli di stipendio sono gli strumenti più veloci a disposizione delle aziende per risparmiare sulle spese. In tale ottica il 17 marzo 2020 è stato emanato un decreto legislativo (Cura Italia), dove fra tutti gli articoli spicca in particolar modo il numero 46 a tutela, contro il licenziamento. In esso viene specificato il blocco dei licenziamenti di massa messi in atto dal 23 febbraio precedente, cioè dal primo lockdown, ovvero il divieto per le aziende di effettuare il licenziamento dei propri dipendenti per ragioni economiche o di massa (sono però concessi altri motivi, come ad esempio il fallimento dell’azienda). Il decreto, in secondo luogo, specifica che sono state estese le possibilità per le aziende di poter ricorrere agli ammortizzatori sociali anche in deroga (soprattutto alla cassa integrazione), in modo da non avere ripercussioni troppo pesanti sul proprio fatturato. Il Cura Italia aveva una validità iniziale di sessanta giorni, che sono stati estesi successivamente fino al 31 marzo 2021. Il decreto Sostegni ha poi ulteriormente prorogato il blocco dei licenziamenti fino al 30 giugno 2021 per i lavoratori delle aziende che dispongono di Cig (Cassa integrazione guadagni) ordinaria e Cig straordinaria (soprattutto industria e agricoltura) e fino al 31 ottobre 2021 per i lavoratori delle aziende coperte da Cig in deroga (soprattutto terziario). Però, come dicevamo, i “segnali” di quello che sarebbe accaduto erano già visibili. Bastava osservare, leggere o ascoltare le denunce che evidenziavano “le modalità” utilizzate, nel periodo comunque protetto, per eludere una legge fatta male (per urgenza o incompetenza) o i cavilli per aggirarla. Nonostante il blocco dei licenziamenti, le aziende hanno trovato e usato molti escamotage per ridurre drasticamente il proprio personale. Com’è stato possibile? Perché c’erano molti casi in cui il decreto non aveva effetto. Il legislatore ha dimenticato qualcuno per strada. Innanzitutto sono stati esclusi i rapporti lavorativi, sebbene di natura subordinata, che riguardano la collaborazione domestica. In secondo luogo non sono stati tutelati i lavoratori che avevano rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co). Un altro aspetto interessante da sottolineare è che il decreto non escludeva la possibilità di licenziamento dei dirigenti. Infatti l’articolo parla di tutti i rapporti di lavoro di natura subordinata, ambito in cui invece non rientra la classe dirigenziale, che quindi può essere soggetta a licenziamento per motivi economici. Non solo. Ma anche in questo caso infine non sono mancati i soliti “furbetti”. Moltissimi lavoratori, infatti, nonostante la tutela del decreto, hanno risentito fortemente della crisi per effetto di una confusa interpretazione o delle subdole strategie dei disperati datori che, in molti casi, hanno messo i lavoratori nelle condizioni di ridurre “consensualmente” le proprie ore di lavoro o persino di dare “volontariamente” le dimissioni. Il più delle volte questi casi sono stati motivati da promesse “verbali” da parte delle aziende di dare un corrispettivo per il lavoro effettuato, di assegnare delle mensilità extra e così via. Ma, come sappiamo, queste non hanno alcun valore legale di fondo, quindi non concedono nessuna garanzia ai dipendenti. Per non parlare poi della tragedia vissuta dai lavoratori in cassa integrazione. Durante il lockdown molti sono stati costretti a rimanere a casa senza la possibilità di andare al lavoro, ma con la garanzia che sarebbe comunque arrivata la cassa integrazione. Il problema è che spesso questa non è stata erogata per niente, si sono verificati numerosi ritardi e le cifre corrisposte sono state minori rispetto a quanto pattuito. La sintesi di tutto ciò ce la comunica l’Istat con il suo report occupati e disoccupati: a maggio 2021 il tasso di disoccupazione è salito al 10,5% (+0,8 punti rispetto all’anno precedente) e tra i giovani al 31,7% (+2,7 punti), mentre il tasso di inattività è salito al 36% (+1,1 punti). Un dato, quest’ultimo, sintomatico del grado di fiducia dell’italiano medio sulla possibilità di trovare un lavoro in futuro e che deve far riflettere. Gli inattivi sono quegli italiani che non fanno parte della forza lavoro e non sono né occupati né disoccupati, perché non hanno un’occupazione né la cercano. Come se si fossero convinti che non ci potrà mai essere un’opportunità. “L’ottimismo è il profumo della vita!” come recitava Tonino Guerra in un celebre spot. Sì, peccato che ottimismo e positività non si possano mangiare. Così i sindacati di base lottano ancora in nome di Adil di Carmen Baffi Il Domani, 18 luglio 2021 È trascorso un mese esatto dal giorno in cui è morto Adil Belakhdim, il sindacalista investito e ucciso da un tir durante un presidio dei Cobas davanti allo stabilimento Lidl di Biandrate, in provincia di Novara. In questi giorni i suoi compagni hanno continuato a lottare in nome degli stessi diritti per i quali Adil si era sempre battuto. Il 18 giugno il sindacato di base del Si Cobas aveva indetto uno sciopero nazionale e una manifestazione a Roma. Doveva esserci anche Adil, ma è morto poche ore prima. Quattro giorni dopo, il 22 giugno, i lavoratori di Biandrate si sono radunati sotto il palazzo della prefettura di Novara. Ci sono volute sei ore di trattativa per ottenere una risposta dai vertici aziendali della Lidl. Ma una prima conquista è arrivata. La Lidl ha garantito al sindacato di cessare le vessazioni nei confronti dei lavoratori, rimuovere i caporali dall’impianto, adeguare i contratti alle ore svolte e intervenire sui livelli salariali. Il risultato più importante è stata la salvaguardia dell’auto-organizzazione dei lavoratori contro il tentativo aziendale di escludere il Si Cobas dalle future negoziazioni. Il giorno della morte di Adil è stato un giorno di sgomento. I sindacalisti del Si Cobas da tempo denunciavano sabotaggi e attacchi, ma non erano preparati a vedere morire un loro compagno. A Roma, 24 ore dopo, lo sconcerto si era già tramutato in rabbia. In più di mille si sono incamminati verso il ministero del Lavoro chiedendo, in nome di Adil, le dimissioni del ministro Andrea Orlando. La rabbia monta - Martedì 6 luglio una delegazione nazionale del Si Cobas, composta dai membri dell’esecutivo nazionale Mohammed Arafat, Alessandro Zadra e Peppe D’Alesio e dal delegato Tnt Fedex di Piacenza Bayoumi Ziad, è riuscita a farsi ricevere dal ministro in persona. Il risultato raggiunto dall’incontro con i vertici Lidl a Novara è una vittoria parziale, non basta. È l’intero settore della logistica in ginocchio. È per questo che il portavoce nazionale dell’Adl Cobas, Gianni Boetto, porta sul tavolo del ministero la vertenza nazionale Fedex, con particolare attenzione alla chiusura del sito di Piacenza. L’incontro era stato inizialmente fissato la settimana prima, ma poi è stato rinviato a causa del concomitante incontro tra governo e confederali sullo sblocco dei licenziamenti. La rabbia, quindi, ha continuato a montare. Mentre i rappresentanti sono faccia a faccia con Orlando, fuori, duecento lavoratori Fedex aspettano risposte. Al tavolo prendono parte anche i collaboratori del ministro e, da remoto, il direttore generale Romolo De Camillis. Nelle due ore di confronto, la delegazione del Si Cobas ripercorre le vicende che, a partire dalla chiusura dello stabilimento di Piacenza, hanno portato a quella che i sindacalisti definiscono “un’escalation di violenza senza precedenti contro i lavoratori della logistica in sciopero”. Gli attacchi ai lavoratori - Prima della morte di Adil erano state diverse, infatti, le aggressioni verso i lavoratori durante gli scioperi e i picchetti. Il ministro Orlando, dopo aver manifestato la sua disponibilità a un confronto permanente sulle problematiche nazionali della logistica, secondo quanto riportato dalla delegazione che l’ha incontrato, avrebbe garantito di assumere personalmente l’impegno a contattare il Mise per verificare la disponibilità di quest’ultimo a una convocazione congiunta di un tavolo di trattativa con Fedex, accusata dai rappresentanti Cobas di volerli estromettere dalla propria filiera per portare a termine il piano di ristrutturazione che prevede 6.300 licenziamenti, non solo sul territorio nazionale. Il ministro avrebbe inoltre garantito che il tutto sarebbe accaduto entro una settimana e che, in caso di indisponibilità Fedex, avrebbe convocato i vertici della multinazionale. “Dopo quattro mesi di lotta fuori ai cancelli Fedex e nelle piazze di tutta Italia, il ministero del Lavoro ha finalmente ufficializzato la propria volontà di svolgere un ruolo attivo in questa vertenza”, commentava soddisfatto il sindacato. Tuttavia, una risposta da Orlando non è ancora arrivata. L’escalation continua - Se da un lato l’omicidio di Adil ha fatto luce sui problemi che investono il settore della logistica, portando a dei risultati tangibili per le lotte dei lavoratori sfruttati dalle multinazionali operanti in diversi settori, dall’altro non è riuscito a evitare l’ennesimo attacco contro un gruppo di lavoratori in sciopero. Il 30 giugno, infatti, durante un presidio degli operai della Miliardo Yida di Pontecurone in provincia di Alessandria, un camioncino si è diretto ad alta velocità verso i manifestanti. Uno degli operai è stato travolto, per fortuna senza gravi conseguenze. Alla guida del mezzo il responsabile interno dell’azienda. Il picchetto era stato organizzato per chiedere il reintegro di sei colleghi licenziati e la messa a norma dei contratti di lavoro e degli stipendi. I manifestanti denunciano la gravità di quanto accaduto e invitano tutti a unirsi alla protesta. Lo sciopero prosegue fino a quando, dopo una lunga trattativa mediata dalla questura, i lavoratori della Miliardo Yida riescono a strappare la convocazione di un tavolo in prefettura per affrontare, in presenza dei vertici aziendali, le problematiche interne, in particolare la messa in sicurezza della fabbrica, ritenuta “pericolosa e inquinante” da chi ci lavora ogni giorno. La lotta vince - Il 16 giugno è arrivato un altro annuncio positivo per le lotte del sindacato di base. La vertenza dei lavoratori degli appalti dell’hotel Excelsior Gallia di Milano, una trattativa che durava da un anno, si è conclusa con la riassunzione degli impiegati dell’azienda Papalini, che ora gestirà i servizi di pulizia e facchinaggio nell’hotel per i prossimi tre anni. L’azienda ha accettato di migliorare i contratti di lavoro, trasformandoli in indeterminati, a differenza di quanto fatto dalla Ho Group lo scorso anno quando, in piena crisi, era stato chiesto ai lavoratori di sottoscrivere una conciliazione per auto licenziarsi, promettendo loro il pagamento del tfr e l’accesso alla Naspi. Il Gallia intanto ha affidato la gestione della riapertura, tra agosto e dicembre, a una terza azienda, la KeepUp, che però si serviva di personale esterno, non richiamando al lavoro gli aventi diritto. A gennaio è intervenuta la Papalini e la lotta dei lavoratori, affiancati dal sindacato, ha portato finalmente i suoi frutti. Le lotte del Si Cobas, dunque, pare siano riuscite ad arrivare dove nemmeno i sindacati confederali erano riusciti, ma a che prezzo? Adil Belakhdim aveva 37 anni, il 1° luglio è stato sepolto in Marocco, sua terra d’origine. Alcuni dei suoi colleghi lo hanno accompagnato per un ultimo saluto, gli altri, invece, hanno continuato a battersi come lui aveva insegnato. “3 milioni di lavoratori irregolari, per 79 miliardi di euro”: la maglia nera dell’agricoltura di Noemi Penna La Stampa, 18 luglio 2021 I dati dell’Osservatorio Placido Rizzotto e della Caritas non lasciano spazio a dubbi sulla salute dell’economia agricola nel nostro Paese. Con un approfondimento su quanto la pandemia abbia aggravato la situazione. 180 mila vittime del caporalato su oltre 2,6 milioni di lavoratori irregolari. La maglia nera dell’economia illegale italiana spetta proprio all’agricoltura. Un lato oscuro del cibo che troppo spesso dimentichiamo, per poi indignarci davanti agli ultimi casi di cronaca che coinvolgono i braccianti così come alla mancanza di manodopera, quando sentiamo dire c’è tanto lavoro nei campi ma nessuno lo vuole fare. Le stime Istat sull’economia non osservata - che comprende sia l’economia sommersa che quella illegale - ne quantificano il volume in 211 miliardi di euro, con un’incidenza sul Pil dell’11,9%. “Il ricorso al lavoro irregolare, eludendo la normativa fiscale e contributiva, è da reputare al connotato strutturale del mercato del lavoro nazionale. Nel 2018, erano 2.656.000 i lavoratori subordinati in posizione irregolare e da sola l’occupazione irregolare, intesa come occultamento di valore economico riconducibile al ricorso al lavoro sommerso, vale 79 miliardi di euro”, si legge nel V Rapporto Agromafie e caporalato a cura dell’Osservatorio Placido Rizzotto, che ha fotografato la situazione degli ultimi due anni. E’ stato stimato che nel 2017 le vittime del caporalato sono state fra le 140 e le 150 mila. Nel 2018 anche il Ministero del Lavoro ha prodotto una stima a riguardo, che ammontava a circa 160 mila mentre l’Osservatorio ha spostato ancora più in alto la stima, portandola a circa 200 mila unità: 180 mila è la media. “Le organizzazioni mafiose, in maniera diretta o indiretta, riescono ad infiltrarsi nel settore agroalimentare dirottando a loro vantaggio parti della ricchezza prodotta lungo la catena di valore che parte dalla semina fino al mercato, quindi al consumatore. Alle pratiche di sfruttamento vanno contrapposti i diritti dei lavoratori, diritti che vanno tutelati e garantiti a prescindere dalla nazionalità delle maestranze. E a questo si vanno a sommare anche le condizioni alloggiative: poiché una parte di questi ultimi vive all’interno di insediamenti di fortuna, come ghetti o baraccopoli, incrociando tale situazione con le basse retribuzioni si genera un circolo vizioso che rende praticamente impossibile fuoriuscire da questo perverso meccanismo emarginante”. L’agricoltura costituisce poi il settore dove si riversano gran parte delle donne migranti. “In questo ambito - proseguono dall’Osservatorio - emerge un maggior isolamento delle lavoratrici agricole che specularmente tende a caratterizzarsi con una forte dipendenza dal datore di lavoro, rendendo i rapporti particolarmente permeabili a forme di abuso, incluse quelle a sfondo sessuale. Anche le donne, come gli uomini, sono reclutate da caporali - o dalla “caporala”, come accade nel brindisino e tarantino - o da datori di lavoro che mirano a sfruttare a loro vantaggio la loro maggior vulnerabilità e ricattabilità, soprattutto in presenza di figli o genitori a carico”. “Nonostante i successi sul piano investigativo e giudiziario favoriti dalla legge 199/2016 - ricordano i segretari generali della Cgil Puglia, Pino Gesmundo, e della Flai Puglia, Antonio Gagliardi nell’anniversario della morte della bracciante Paola Clemente in un vigneto di Andria, diventata simbolo della lotta al caporalato e allo sfruttamento nelle campagne - ancora migliaia di lavoratori e lavoratrici sono vittime di sfruttamento, violazione dei diritti e sottosalario. E in questi anni altri lavoratori hanno pagato con la vita le insostenibili condizioni di lavoro imposte dai caporali, ultimo il 27enne maliano Camara Fantamadi, deceduto nelle campagne del brindisino”. Ma su 260 procedimenti monitorati, più della metà - per l’esattezza, 143 - non riguardano il Sud Italia. Tra le regioni più colpite, oltre a Sicilia, Calabria e Puglia, ci sono il Veneto e la Lombardia, seguite da Emilia Romagna, Lazio e Toscana. In ogni area censita nella decennale attività dell’Osservatorio Placido Rizzotto “si registra la coesistenza di diverse categorie di lavoratori agricoli. A fianco degli occupati con contratti regolari sono attive componenti irregolari sottoposte a forme variegate di sfruttamento, con differenti gradazioni di stato di bisogno e vulnerabilità. Una situazione che determina un’accentuata sofferenza occupazionale riassumibile nel vassallaggio e nella sottomissione ai caporali e agli sfruttatori”. E a una situazione già grave, si è sommata la pandemia che ha inevitabilmente avuto conseguenze anche su questo settore. Renzi: “La mia proposta per sbloccare il ddl Zan: un patto per fissare tempi e modifiche” di Fabio Martini La Stampa, 18 luglio 2021 “Il vero partito contrario è il Pd, pensa di usare questa battaglia per le Amministrative. Ma Letta farà marcia indietro”. Matteo Renzi, sul ddl Zan oramai siamo allo “stallo alla messicana”: lei, Letta e Salvini vi tenete sotto tiro a vicenda, in modo che nessuno possa attaccare senza essere contrattaccato, col risultato che la legge sta per essere insabbiata e rinviata all’autunno. Senza sparigliare, non se ne esce? “La legge è ancora aperta soltanto perché il Pd la sta rinviando. L’ostruzionismo lo ha fatto per mesi la Lega. Ma oggi il vero partito no-Zan è il Pd. Faccio una proposta per sbloccare l’impasse: i capigruppo di maggioranza del Senato coinvolgano quelli della Camera per stabilire assieme un cronoprogramma stringente: si approva la legge Zan con le modifiche concordabili e al tempo stesso alla Camera si impegnino subito a calendarizzare la terza e ultima lettura. Il prima possibile”. Letta è arrivato a negare la possibilità di discutere di modifiche, ma ora con la presentazione degli emendamenti si capirà chi è in buona fede: lei crede davvero che la Lega presenterà testi votabili anche dagli altri? Da qualche tempo lei non si fida molto di Salvini? “A me della Lega non interessa niente. Siamo avversari politici e partecipiamo alla stessa esperienza di governo, come chiesto dal Capo dello Stato. La Lega ha fatto un passo avanti enorme nella persona del presidente della Commissione Giustizia Ostellari, bravo nell’ascoltare le posizioni altrui. Ha abbandonato una posizione ostruzionistica e va riconosciuto. Dall’altra parte ci saranno emendamenti da parte dei socialisti, dei mondo delle autonomie. A me non interessa della Lega, ma delle migliaia di giovani omosessuali, transessuali e disabili che potrebbero avere una legge, che invece viene impedita dall’atteggiamento arrogante di una parte del Pd che preferisce tenere alta la bandierina a fini di consenso piuttosto che trovare una soluzione”. Lei propone un “lodo”, che metterà alla prova la buona fede di tutti, anche la sua, ma sul piano delle proposte come se ne esce? “Il Parlamento non è il regno degli influencer, ma un luogo dove si devono fare i conti con i numeri. Modificando gli articoli 1, 4 e 7 la legge si chiude col consenso se non di tutti, di tanti. La politica è accordo, altrimenti diventa velleitarismo arrogante e inconcludente”. In questa vicenda il Pd ha assunto una posizione legittimamente ma insolitamente rigida: come se lo spiega, al netto delle buone ragioni diverse dalle sue? “Trovo incredibile che quei movimenti e chi nel Pd avevano posto i problemi dell’identità di genere e della scuola - penso alle senatrici Fedeli e Valente, al movimento femminista di sinistra, a “Se non ora quando”, ad Arcilesbica - non siano stati ascoltati dal segretario del Pd. Qualcuno in quel partito pensa di utilizzare questa battaglia in vista delle amministrative. Ma io penso che nelle prossime ore Letta sarà costretto ad una marcia indietro evidente”. Nella lotta al Covid lei invoca la “dottrina Macron”: ma sino in fondo o condivide con la destra la riserva su ristoranti, bar e non solo? “Sono macroniano spinto. Il contagio da Covid tornerà a crescere in modo molto significativo ma con una differenza fondamentale rispetto al passato: nel Regno Unito nel novembre 2020 c’erano circa 30mila contagi al giorno e 1500 morti, oggi c’è lo stesso numero di contagiati ma i morti sono quindici. Il “generale vaccino”, con gli anticorpi, blocca la gravità della pandemia. Dunque, vaccino, vaccino, vaccino e tra Macron e Salvini, scelgo Macron tutta la vita”. Renzi, in Toscana la sua classe di età poteva prenotare il vaccino da fine maggio e lo stesso in Lombardia: lei e Salvini, pur potendo vaccinarvi da un mese e mezzo, siete ancora “renitenti”. Siete per il vaccino, ma non ve lo fate: sarà pure un messaggio in codice, ma non le pare incoerente? “Guardi, se lei non me lo avesse chiesto non lo avrei detto, per evitare le foto. Ma io sto per mettermi in coda: mi vaccino questa sera al Mandela Forum alle 21,02. Ho la prenotazione e come tutti i cittadini ho aspettato il mio turno. Poi, è vero, ho perso due settimane, perché ho dovuto fare un viaggio all’estero. Vorrei sommessamente notare che tre mesi fa, nella mia veste di professore a contratto alla Stanford University, avrei potuto vaccinarmi. Non l’ho fatto per evitare polemiche. Trovo abbastanza surreale che uno col mio curriculum di difensore del vaccino possa essere sia pure velatamente accusato di essere addirittura un no-vax”. I personaggi pubblici sono “costretti” a rendere conto: Salvini farà il vaccino ad agosto e Conte non si sa… “Non ci sono immagini di Salvini e Meloni e mi pare neppure di Giuseppe Conte, che è solito mostrarsi in foto in tante situazioni. Ma non mi interessa quello che fanno loro, io da stasera sono vaccinato”. Approda in Parlamento la riforma della giustizia penale che è costata un faticoso compromesso in Cdm: voi proverete a cambiarlo? Su una materia delicata, non c’è il rischio di rimettere tutto in discussione? “So che la riforma Cartabia non risolve tutti i problemi della giustizia: è il primo passo che ti toglie da dove sei, ma non ti porta dove vuoi. Intanto ci allontana da quello scandalo che era il governo della giustizia da parte del peggior Guardasigilli della storia, Alfonso Bonafede, che assieme a Conte è il responsabile politico di ciò che è accaduto nelle carceri nel terribile 2020 e che è il responsabile anche di quella assurdità che è il processo senza fine. Una prevaricazione dello Stato”. Gli emendamenti Conte-Grillo sono di bandiera e saranno tutti respinti? Alla fine il “Cartabia” resterà come è uscito da palazzo Chigi? “Se ci saranno emendamenti Cinque stelle, noi porteremo i nostri ma nonostante ci sia ancora molto da fare nella riforma della giustizia e nei comportamenti dei magistrati e della politica, penso che andare oltre il “Bonafede” sia in ogni caso un passo in avanti”. Da 46 anni nel Cda Rai non è mai mancato un esponente dell’opposizione, fosse comunista o missino: perché - esattamente come nel caso Copasir, sempre con la Lega sugli “scudi” - lei è restato indifferente all’esclusione di un esponente della minoranza, in questo caso indicato dal Fdi? “Due vicende diverse. Sul Copasir ci siamo rimessi all’orientamento espresso nelle diverse fasi dai presidenti delle Camere. Un comportamento del tutto cristallino. Sulla vicenda Rai non siamo stati minimamente coinvolti né considerati da Pd, Cinque stelle, Lega e Forza Italia. Abbiamo preso atto e non abbiamo partecipato alla votazione. Dopodiché il modello della legge di riforma della governance Rai, che ho voluto io, prevedeva che il Parlamento nominasse quattro membri del Cda, due di opposizione e due di maggioranza. Sotto il mio governo è accaduto: questo tema lei non lo deve porre a me”. L’equilibrio di potere nei Cinque stelle li porterà a ricercare un po’ dell’identità perduta e dunque a logorare il governo? “Ogni giorno che passa il governo Draghi è più forte e il Movimento Cinque stelle è più debole. Sono incerti e divisi: un giorno per Draghi e un giorno contro. Mi sembra che si siano riportate le persone al loro habitat naturale: Conte a pranzo con Grillo, Draghi con Biden, Credo siano destinati ad esplodere e il loro redde rationem finirà per essere un bene”. Sta per aprirsi il semestre bianco. Occasione ghiotta per guastatori abili a tirare la corda senza romperla? Una festa per Renzi? “Però questo semestre bianco mi vede impegnato con un’altra maglietta: quella di principale sostenitore e difensore del governo. Mi consenta un parallelo: così come Donnarumma, dopo la parata decisiva, non si è accorto di aver vinto la finale, non avendo seguito il computo dei rigori, così diversi italiani nei primi mesi non si sono accorti che, aver cambiato Conte con Draghi, è stato come parare un rigore che consente ora all’Italia di essere campione d’ Europa. L’Europa politica”. Migranti. Scontro (nascosto) Italia-Libia sui visti legati all’operazione navale europea di Nello Scavo Avvenire, 18 luglio 2021 I militari in missione per la Ue che non hanno ottenuto il permesso di ingresso nel Paese sarebbero almeno cinque, non solo quindi il comandante Agostini. Manovre anti Ue di Tripoli. La notizia della mancata concessione del visto di ingresso a Tripoli per il comandante ed altri ufficiali dell’operazione navale europea “Irini” ha suscitato preoccupazione in ambienti del governo italiano. La rivelazione di Avvenire, infatti, ha messo a nudo una serie di contraddizioni finora taciute. Fonti di vertice di Irini confermano la ricostruzione di Avvenire. “I visti non sono stati ancora concessi nonostante non una ma ben due note diplomatiche di sollecito. Dobbiamo considerare normale che dopo tre mesi i visti non siano stati concessi?”. Una irritazione più che giustificata, se si considera che proprio Eunavfor Med dovrebbe ereditare, secondo quanto assicurato dal governo al momento del voto per il rifinanziamento dei guardacoste libici, la responsabilità della formazione e del raccordo con la guardia costiera di Tripoli. Le premesse, visto il boicottaggio dei visti, non sembrano però delle migliori. Fonti anonime del governo italiano hanno spiegato alle agenzie di stampa che non vi è stato “nessun diniego al rilascio del visto per la Libia al comandante dell’operazione Irini, l’Ammiraglio Fabio Agostini”. A quanto risulta, però, gli ufficiali che non hanno ottenuto il permesso di ingresso a Tripoli sarebbero almeno cinque e non il solo comandante Agostini. Le fonti citate dalle agenzie tuttavia riconoscono che le cose non vanno per il giusto verso, se è vero che “si è in attesa di una risposta ad una nota verbale inviata due mesi fa al Dipartimento Relazioni Internazionali del Ministero della Difesa libica”. Le stesse fonti, hanno rivelato che sono “pendenti due richieste: la prima con nota verbale dell’Ammiraglio diretta all’Ambasciata libica a Roma e la seconda con nota verbale della Missione europea in Libia diretta a Tripoli per una visita di vertice della cui delegazione farebbe parte lo stesso Agostini”. Nonostante questo, il nulla osta non è ancora arrivato. Il tentativo di smentire la ricostruzione di Avvenire in realtà offre spunti per nuove domande. Raccogliendo le precisazioni del governo italiano, le stesse fonti hanno spiegato all’Ansa che il ritardo nella concessione del visto d’ingresso, richiesto prima di Pasqua, sono frutto del “consueto approccio da parte libica”. E si scopre così che “il consueto approccio” ha riguardato anche “il personale militare italiano presente a Misurata”. Tuttavia le stesse fonti anonime escludono che vi sia stata una “pressione turca per impedire il rilascio del visto”. Dunque la questione sarebbe esclusivamente da leggere nelle tensioni tra Tripoli e Roma e tra Tripoli e Bruxelles, a causa di una “nota diatriba da tempo in atto che vede la parte libica lamentarsi per il mancato rilascio dei visti per missioni in Italia o in generale per altre finalità come peraltro più volte sottolineato sia dal primo Ministro Dbeibah che dal ministro dell’Interno libico Mazen”. Resta invece attivo il canale privilegiato della “diplomazia sanitaria” che consente di far arrivare rapidamente in Italia, specialmente a Milano e in provincia di Como, militari e miliziani feriti in battaglia che ricevono cure nel nostro Paese in strutture sanitarie private. Alcuni dei quali coinvolti in operazioni su cui sta investigando la procura internazionale dell’Aja per crimini contro i diritti umani. I nomi dei “degenti” non sono però mai stati resi noti. Migranti. Questi duri muri d’Europa che non scandalizzano più di Maurizio Ambrosini Avvenire, 18 luglio 2021 Spiace dirlo: il Governo italiano e il Parlamento hanno perso un’occasione per voltare davvero pagina sulla sciagurata collaborazione con le autorità libiche nella gestione degli arrivi dal mare di profughi e migranti. L’auspicato passaggio di consegne alla Ue con l’operazione Irini-Eunavfor Med, o l’evocazione di una risoluzione dell’Onu, o le promesse di discutere prossimamente dello smantellamento dei campi di detenzione in Libia non cambiano l’approccio di fondo. Oggi si continua a foraggiare la delega ai libici del lavoro sporco di blocco dei transiti delle persone in fuga, domani si discuterà (forse) della tutela dei loro diritti nell’instabile ex-colonia italiana: un tema peraltro su cui la maggioranza governativa è tutt’altro che unanime. Né c’è da aspettarsi molto dall’eventuale passaggio di responsabilità alla Ue. L’operazione Irini, infatti, non ha per oggetto il salvataggio di chi rischia la vita attraversando il mare, ma la retorica della lotta al traffico di armi e di esseri umani attraverso il Mediterraneo: è una missione di rafforzamento delle frontiere, non di protezione dei diritti umani. La posizione della Ue in materia di confini e diritti umani, del resto, è resa plasticamente evidente dalle notizie che giungono da un altro punto critico delle frontiere europee: il fiume Evros, che divide Turchia e Grecia. Lì è stata appena completata una recinzione metallica lunga 40 chilometri e alta cinque metri per impedire gli attraversamenti dei profughi, provenienti in larga parte dai conflitti mediorientali e afghani. Radar, telecamere e a quanto sembra anche cannoni sonori vengono impiegati dalle autorità greche per scovare e respingere chi cerca di attraversare il confine. Nonostante qualche occasionale distinguo sui mezzi utilizzati, la Ue da anni appoggia la Grecia nelle più dure misure di contrasto degli ingressi ‘non autorizzati’, come sono quasi sempre quelli dei rifugiati. Buona parte dell’opinione pubblica europea e italiana si è indignata per l’aggressivo rilancio di Trump del muro ai confini tra Usa e Messico, ma non si è lasciata commuovere da un muro analogo che ci riguarda più da vicino. Né i mass-media se ne sono granché occupati. La solidarietà verso chi cerca asilo è più intensa quando altri sono chiamati ad accoglierli, mentre i muri fanno più ribrezzo quando sono lontani di quando ci riguardano da vicino. L’idea sottostante della necessità di scongiurare flussi, come si dice, incontrollati, è ancora una volta sconfessata dai dati. Lasciando da parte il banale dettaglio per cui chi fugge da una guerra, in Siria o in Afghanistan, non ha molte possibilità di ottenere un visto e di viaggiare con mezzi legali, secondo Eurostat nel 2020 le persone respinte ai confini di un paese della Ue sono state 137.800, contro 670.800 nel 2019: più di un quarto in Ungheria (36.500), un quinto in Polonia (28.100), seguite da Croazia e Romania. Non si vede nessun assalto alle frontiere, ma solo una crescente ostilità verso migranti e rifugiati, inalberata da alcuni governi nazionali come un simbolo di sovranità nazionale a fini di consenso interno. È triste constatare che la Ue di fatto segua questo modello, sebbene con toni felpati e retoricamente ineccepibili, rafforzando una politica di esternalizzazione delle frontiere e di contrasto degli ingressi ammantato da lotta al traffico di esseri umani. Ancora più triste che l’Italia, sul fronte libico, si confermi portabandiera di questa stessa strategia. In carcere senza processo una persona su tre nel mondo aduc.it, 18 luglio 2021 Lo studio, pubblicato alla vigilia dell’International Nelson Mandela Day il 18 luglio, esamina le tendenze a lungo termine della detenzione. Mostra che negli ultimi due decenni, tra il 2000 e il 2019, il numero di detenuti nel mondo è cresciuto di oltre il 25%, mentre la popolazione mondiale è cresciuta del 21% nello stesso periodo. Alla fine del 2019 erano incarcerate 11,7 milioni di persone. È una popolazione paragonabile per dimensioni a intere nazioni come Bolivia, Burundi, Belgio o Tunisia. Il numero delle donne in carcere è aumentato - Il rapporto indica che alla fine del 2019 si contavano circa 152 detenuti ogni 100.000 abitanti. Mentre il Nord America, l’Africa subsahariana e l’Europa orientale hanno visto cali a lungo termine dei tassi di detenzione fino al 27%, altre regioni e Paesi, come l’America Latina, l’Australia e la Nuova Zelanda, sono cresciuti negli ultimi due decenni fino al 68%. La maggior parte delle persone in carcere nel mondo, il 93%, sono uomini. Tuttavia, negli ultimi due decenni, il numero di donne in carcere è cresciuto più rapidamente, aumentando del 33% rispetto al 25% degli uomini. In qualità di detentore dell’insieme delle regole minime delle Nazioni Unite per il trattamento dei prigionieri - le cosiddette regole di Nelson Mandela - l’Unodc ha anche esaminato i dati sul sovraffollamento carcerario. Sebbene i tassi varino notevolmente da regione a regione, in quasi la metà dei Paesi per i quali sono disponibili dati, i sistemi carcerari operano a più del 100% della loro capacità pianificata. Sovraffollamento carcerario durante la pandemia di Covid-19 - Il fascicolo indica anche che la pandemia di Covid-19 ha evidenziato il problema del sovraffollamento carcerario. Secondo un’analisi globale del governo e delle fonti aperte, nel maggio 2021 quasi 550.000 prigionieri in 122 Paesi sono stati infettati da Covid-19, con quasi 4.000 morti nelle carceri di 47 Paesi. In risposta alla pandemia, alcune carceri hanno limitato la ricreazione, le opportunità di lavoro e i diritti di visita, che sono tutti componenti essenziali dei programmi di riabilitazione. Le misure di prevenzione sono spesso difficili da attuare nelle carceri, soprattutto quando sono sovraffollate. Alcuni Paesi hanno nel frattempo scelto di rilasciare, almeno temporaneamente, un gran numero di persone detenute, in particolare quelle accusate e condannate per reati non violenti. A marzo 2020, almeno 700.000 persone in tutto il mondo - o circa il 6% della popolazione carceraria mondiale stimata - sono state autorizzate o considerate idonee al rilascio attraverso meccanismi di rilascio di emergenza adottati da 119 Stati membri. Il dossier indica misure che possono aiutare a ridurre l’uso eccessivo della custodia cautelare e della carcerazione e alleviare le conseguenze negative del sovraffollamento carcerario. Ad esempio, garantire che un’ampia gamma di alternative alla detenzione sia disponibile e sostenibile nel diritto, nella politica e nella pratica in ogni fase del procedimento penale, o affrontare le strozzature procedurali nei procedimenti penali, i sistemi di giustizia penale, migliorare la gestione dei casi e la capacità di perseguimento e servizi di polizia. Inoltre, il rapporto indica che possono essere adottate misure per contrastare l’aumento relativo della popolazione carceraria femminile, come, ad esempio, lo sviluppo e l’attuazione di opzioni di diversione specifiche per genere e misure non detentive. Irlanda del Nord. Crimini di guerra, lo spettro del colpo di spugna di Enrico Terrinoni Il Manifesto, 18 luglio 2021 A novembre legge in discussione al parlamento inglese. Johnson dopo le scuse ci prova. Sconcerto dei repubblicani e dei famigliari delle vittime. Ma anche il Dup è contrario. In questi giorni si aggira per l’Irlanda lo spettro di quella che viene già definita “la madre di tutti gli insabbiamenti”, e che di fatto potrebbe tradursi in una sorta di amnistia per un numero incalcolabile di criminali ancora in libertà. Il segretario di Stato per l’Irlanda del Nord, Brendan Lewis, ha infatti annunciato al parlamento inglese l’intenzione di presentare a novembre una legge per bloccare ogni nuova indagine, civile o penale, sui crimini di guerra perpetrati nel Nord. La decisione lascia di stucco principalmente le centinaia di famiglie repubblicane che cercano da decenni giustizia per i loro cari, vittime della storica collusione tra agenti delle forze della Corona e squadracce lealiste. I crimini di guerra segnano la storia dei cosiddetti Troubles, ossia il Conflitto nordirlandese, e quelli da parte britannica portano con sé anche la deprecabile onta della collaborazione criminale tra apparati britannici e paramilitari. Questi includono il massacro di Ballymurphy, che vide l’uccisione da parte dei paracadutisti inglesi, di dieci civili tra il 9 e l’11 agosto del 1971 a Belfast, ma anche il famoso Bloody Sunday del 20 gennaio 1972, avvenuto a Derry nel quartiere del Bogside, durante il quale furono uccisi, sempre dai parà, tredici civili che partecipavano a una manifestazione per i diritti civili (la quattordicesima vittima morì il giorno seguente). Entrambi gli eventi sono stati oggetti di maxi inchieste che hanno sancito a vario titolo la collusione tra l’esercito britannico e i paramilitari. Proprio il massacro di Ballymurphy e la relativa sentenza pubblicata a maggio, in cui le vittime venivano dichiarate totalmente innocenti e non appartenenti all’Ira, come invece depistaggi e disinformazione avevano dichiarato per anni, ha costretto il primo ministro Boris Johnson a scuse pubbliche e “senza riserve”. Lo stesso Johnson, ora, forse proprio per non vedersicostretto a ripetere ulteriori scene simili, ha dichiarato in parlamento: “Stiamo finalmente risolvendo la questione per consentire al popolo dell’Irlanda del Nord di mettere una pietra sopra ai Troubles e consentirgli di andare avanti”. Da associazioni e partiti che fanno riferimento alla comunità repubblicana la scelta governativa e la sua giustificazione sono tacciate di totale malafede. Il gruppo chiamato Relatives for Justice (Parenti per la giustizia) ha subito dichiarato, tramite il suo presidente, Mark Thompson - fratello di Peter, ucciso dai soldati inglesi a Belfast nel 1990 - che si tratta de facto di impunità, aggiungendo che il governo si sta mostrando indifferente verso i diritti umani e la legge. Gli fanno eco le famiglie delle dieci vittime di Ballymurphy che, per nome di Eileen McKeown, figlia di uno degli uccisi, Joseph Corr, ha dichiarato: “Da cinquant’anni cerchiamo di provare l’innocenza dei nostri cari. Di famiglie come le nostre ce ne sono tantissime e tutte vogliono sapere la stessa cosa”. La reazione di netta contrarietà di Sinn Féin non si è fatta ovviamente attendere, come anche quella del Ministro della giustizia del Nord e leader del partito trasversale Alliance, Naomi Long, secondo cui la decisione porterebbe a un’infinità di cause legali davanti alla Corte europea dei Diritti umani. Voci di dissenso si sono alzate anche dal fronte opposto. Il primo ministro, Paul Givan, appartenente al DUP, ha chiamato i partiti tutti a unirsi per fare fronte comune contro una legge che lascia scontenti anche gli unionisti, perché “l’opportunità delle vittime e delle loro famiglie di perseguire la giustizia non deve essere negata”. Nella giornata di ieri si è tenuto un incontro a distanza tra i leader del parlamento di Belfast e i governi britannico e irlandese. Alla prevedibile solidarietà del governo della Repubblica si sono opposte le ragioni incrollabili dei britannici, la cui solidità per il momento non sembrerebbe scalfita dagli appelli alla ragionevolezza. Il Social Democratic and Labour Party, che fa riferimento principalmente alla comunità nazionalista, ha chiesto che il parlamento di Belfast si riunisca la settimana prossima per varare una mozione comune, e la segretaria di Sinn Féin, Mary Lou McDonald, dovrebbe presiedere la conferenza dei leader. Si è però alzata la voce di protesta di Doug Beattie, capo dello UUP (Ulster Unionist Party), secondo cui si tratterebbe del solito tentativo di Sinn Féin di approfittare della situazione per fare mera propaganda. Stati Uniti. Bocciato il piano per i “dreamers”: migliaia di migranti a rischio espulsione di Anna Lombardi La Repubblica, 18 luglio 2021 Il Texas giudica incostituzionale il programma Daca, voluto da Obama, che regolarizzava chi era entrato negli Usa da bambino. L’ira di Biden: farà ricorso. Un giudice distrettuale di Houston, Texas, ha dato ragione al ricorso presentato da un gruppo di Stati a guida repubblicana, dichiarando “anticostituzionale” il programma Daca: quel Deferred Action for Childhood Arrivals fortemente voluto da Barack Obama per i circa 800mila “dreamers”. Sì, i “sognatori”, i figli di clandestini arrivati in America quando erano ancora bambini, che finora potevano così rimanere nel Paese a studiare e provare a farsi una posizione. Nella sua decisione contenuta in un documento di 77 pagine, il giudice Andrew Hanen ha dato ragione a Texas, Alabama, Arkansas, Kansas, Louisiana, Mississippi, Nebraska, Carolina del Sud e Virginia, affermando che il Dipartimento per la sicurezza interna, con la creazione del Daca nel 2012, violò una preesistente legge amministrativa americana e l’allora presidente Obama peccò di “abuso d’autorità”. La conclusione del giudice nominato da Bush figlio, però, non influirà sui 650mila già accettati nel programma (200mila dei quali hanno trovato lavori considerati “essenziali”, soprattutto negli ospedali). Ma potrebbe invece pesare sulle migliaia di domande pendenti. Il giudice ha infatti ammesso che sarebbe troppo caotico e crudele avviare le espulsioni di chi è già entrato nel programma: e dunque consente il rinnovo delle attuali protezioni, garantendo il permesso temporaneo di residenza e lavoro ai suoi beneficiari. Ma mina la possibilità di ammetterne di nuovi. Gettando di fatto nel limbo il destino di migliaia di ragazzi e ragazze, perché l’Homeland Security potrà continuare ad accettare nuove richieste, ma non potrà approvarle fino a quando la cornice legale non sarà chiarita. Non solo: pure coloro che per ora potranno continuare a restare, vedono le loro speranze complicarsi. Le protezioni, infatti, potrebbero sfumare da un momento all’altro se il governo non troverà modo di stabilizzarne le posizioni. Il presidente Joe Biden, che aveva rafforzato il programma minato dal suo predecessore Donald Trump nel suo primo giorno alla Casa Bianca, non l’ha presa bene. E ha subito chiesto al Dipartimento di Giustizia di fare appello contro la decisione del tribunale texano. Chiedendo pure al Congresso di intervenire per ripristinare completamente il programma: un’eventualità tutt’altro che certa, visto la traballante maggioranza dei dem al Senato, anche se c’è chi spera di poter ottenere la stabilizzazione del Daca - che ha sostegno bipartisan - cedendo qualcosa ai Repubblicani nell’ambito del dibattito sul budget alle Infrastrutture. Se non si dovesse arrivare a una nuova, più solida legge, la sorte degli 800mila finirà quasi certamente davanti alla Corte Suprema a maggioranza conservatrice. Certo, un anno fa, a giugno 2020, la più Alta Corte impedì a Trump di chiudere il programma giudicando la decisione “arbitraria e capricciosa”: ma all’epoca Trump non aveva ancora nominato la sua fedelissima, Amy Coney Barrett. Oggi una decisione finale sulla sorte dei sognatori è tutt’altro che scontata. Nigeria. La sconfitta più grande: chiudere le scuole contro i rapimenti di Roberto Saviano Corriere della Sera, 18 luglio 2021 È la decisione a cui sono giunti sei stati del Nord del Paese dopo l’ennesimo attacco a un istituto pubblico. Il 5 luglio un gruppo armato ha rapito 140 studenti, è il quarto assalto dall’inizio dell’anno: oltre 1.000 ragazzi portati via, 9 uccisi, 200 sono ancora nelle mani di chi li ha prelevati. Tra loro anche bambini piccoli. Sarebbe importante che, per onestà, chi ritiene che l’Italia e l’Europa non debbano accogliere chi scappa dall’Africa, raccontasse anche quali sono i motivi che spingono molte persone a decidere di lasciare i propri luoghi di origine. Allo stesso modo, sarebbe importante che chi dice “aiutiamoli a casa loro” avesse almeno una vaga idea di come fare a portare reale sostegno. Aiutarli a casa loro si può, ma si tratta di un processo lungo, che non si può liquidare con una manciata di post e che comporterebbe un totale ripensamento anche delle nostre politiche. Aiutarli a casa loro si può, sostenendo organizzazioni che si occupano di creare progetti di lavoro in Africa e di emancipazione femminile; che si preoccupano di costruire scuole perché i bambini, da adulti, possano avere un futuro che non sia di stenti. Ma tra pensiero e azione, volontà e risultato spesso i tempi sono molto lunghi. Perché le cose cambino, lavorando duramente, occorrono decenni. Sarebbe importante aggiungere questa fondamentale informazione quando si dice: “Io mica sono contro gli immigrati! Dico solo che invece di accoglierli qui, dovremmo aiutarli a casa loro”. Poche parole per descrivere un progetto immenso, difficile, complesso, che per dare frutti dovrebbe vedere coinvolte molte energie e soprattutto la reale volontà di cambiamento. Volontà più nostra che loro. Mi ha colpito una notizia che, per motivi quasi ovvi per un Paese come l’Italia - che ha dimenticato il proprio passato coloniale e che si ritiene marginale negli equilibri geopolitici, pur aumentando di anno in anno le esportazioni di armi verso luoghi in guerra - è stata trattata qui da noi in maniera del tutto marginale. Nella foto, in primo piano, un libro di matematica, delle brande, lenzuola, una maglietta rossa: è ciò che resta della presenza di 160 studenti nella scuola ostello Bethel Baptist della città di Kaduna, in Nigeria. Lunedì 5 luglio, 140 studenti sono stati rapiti da gruppi armati che chiederanno un riscatto per liberarli. Dall’inizio dell’anno questo è il quarto assalto nelle scuole dello stato di Kaduna, dove le autorità non trattano con i rapitori. Oltre 1.000 studenti rapiti, 9 uccisi e 200 ancora nelle mani dei rapinatori; tra loro anche bambini di meno di 3 anni. Domenica 4 luglio mattina, molto presto, altri gruppi armati avevano fatto irruzione al Centro nazionale per la tubercolosi e la lebbra di Zaria; contemporaneamente, come diversivo, alcuni probabili complici aprivano il fuoco su una stazione di polizia. Un gruppo attaccava la polizia mentre l’altro assaltava i dormitori degli operatori del centro sanitario, dove hanno rapito 12 persone, tra cui tre bambini piccoli e un adolescente. Per contrastare questo fenomeno non esiste strategia vincente: i rapimenti hanno luogo sia dove i riscatti vengono pagati, sia dove non si è disposti a scendere a patti. Laddove si mostra maggiore indisponibilità a trattare, come nello stato di Kaduna, gli attacchi sono più frequenti. Provate a immaginare di vivere in un luogo dove sotto attacco si trovino ospedali e scuole, luoghi fondamentali, di cui non si può fare a meno. E che non si possa fare a meno di ospedali e scuole funzionanti lo abbiamo sempre saputo, ma da quando il Covid ha devastato le nostre vite, ne abbiamo avuto forse maggior contezza. Basta leggere i rapporti di Save the Children per comprendere l’entità dei danni che le scuole chiuse nel sud Italia hanno prodotto in termini di dispersione scolastica e di mancata occupazione femminile per immaginare, moltiplicando per mille, cosa possa significare per i popolosi stati africani non poter contare su scuole e ospedali. Sì perché presidiare le scuole si è dimostrato inutile; i rapitori saranno sempre di più, più violenti e meglio armati, ecco perché in 6 stati del nord della Nigeria, per prevenire attacchi e rapimenti, si è deciso di chiudere le scuole pubbliche. Avete letto bene: una sconfitta per tutti. La prossima volta che sentirete qualcuno dire “aiutiamoli a casa loro” ripensate a questa foto, ripensate a questo libro di matematica, tutto ciò che resta del rapimento dei 140 studenti della scuola Bethel Baptist di Kaduna, in Nigeria, dove le scuole non sono un luogo sicuro. Da studenti, da genitori, da cittadini, cosa fareste se il mondo che vi circonda fosse tanto feroce? Vivreste la vostra vita con fatalismo o provereste a darle una direzione diversa? Non si tratta di migrare per avere qualche possibilità in più, un posto fisso in luogo di un lavoro precario. Si tratta di migrare per sopravvivere.