L’ambizione di Cartabia di riformare il carcere contro la sua maggioranza di Giulia Merlo Il Domani, 17 luglio 2021 La ministra vorrebbe mettere mano all’ordinamento penitenziario, ma si scontra con le ragioni politiche Lega e Cinque Stelle. Si fa presto a dire riforma dell’ordinamento penitenziario. In realtà, i buoni propositi della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, rischiano di infrangersi contro la politica reale di una maggioranza spuria. Sull’onda dei terribili video dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e sicuramente anche per personale sensibilità al tema di cui già si era occupata molto negli anni da giudice costituzionale, Cartabia ha esplicitato di voler mettere mano ai meccanismi che regolano la detenzione. Lo ha fatto con Mario Draghi alla sua destra, che annuiva e anzi rincarava l’impegno del governo in tal senso. Eppure se tenere insieme la maggioranza sulla riforma penale è stata impresa ardua, la stessa operazione sul carcere rischia di cominciare già sconfitta. Il muro di Lega e M5S - Le riforme, infatti, si fanno passare coi voti e, se sul ddl penale la defezione poteva e potrebbe ancora essere quella del Movimento 5 Stelle, su una riforma del carcere ai grillini si aggiungerebbe anche la Lega. Due partiti determinanti per i numeri della maggioranza ed entrambi contrari. Sul fronte dei Cinque stelle le ragioni di contrarietà risponderebbero ad una logica di coerenza. La riforma dell’ordinamento carcerario era uno dei fiori all’occhiello del governo del Pd, tentata da Andrea Orlando dopo il lungo lavoro prodotto dagli Stati generali del carcere. Una volta insediato, però, il governo Lega-Cinque stelle con Alfonso Bonafede al ministero della Giustizia ha immediatamente deviato il decreto legislativo su un binario morto. Le ragioni, secondo Bonafede, erano che si trattava di una legge “salva-ladri”, che andava bloccata per tutelare la certezza della pena. Oggi, veder ritornare a tre anni di distanza una riforma molto simile significherebbe un secondo smacco per i grillini e in particolare per Bonafede, dopo quello sulla prescrizione. Inaccettabile non solo politicamente ma anche culturalmente, visto l’orientamento del Movimento sul tema del penale. Anche da casa leghista lo stop a Cartabia è già arrivato: “Ragionare su alcune pene alternative ci sta, ragionare sul rafforzare la formazione professionale e il lavoro ci sta, svuotare le carceri con colpi di spugna no”, ha sintetizzato Matteo Salvini all’indomani delle parole della ministra. Nel caso del Carroccio, tuttavia, qualche accusa di incoerenza sarebbe giustificabile: se è vero che Salvini è famoso per il gergo del “buttare via la chiave”, è altrettanto vero che la Lega si sta impegnando in piazza per raccogliere le firme per un referendum, il cui quinto quesito propone di ridimensionare proprio i requisiti per la custodia cautelare in carcere. Di più, i leghisti siedono da settimane ai banchetti fianco a fianco con i radicali, per i quali le campagne sul carcere sono una delle bandiere culturali. Proprio su questa contraddizione della Lega vorrebbe fare leva chi, come il Partito democratico, è fortemente favorevole all’iniziativa di Cartabia (che recupererebbe proprio una delle riforme molto care all’area del partito che fa riferimento a Orlando). “Se si ha davvero una cultura delle garanzie il momento è ora in Parlamento e già nel processo penale si può investire di più su misure alternative e giustizia riparativa”, commenta la vicepresidente del Senato e responsabile giustizia e diritti del Pd, Anna Rossomando, “L’obiettivo è dare maggiore efficacia alla pena nell’ottica del recupero della persona e non certo l’impunità”. Il Pd ha subito abbracciato le aperture del governo e ha annunciato il pieno sostegno alla ministra, facendo già ieri un incontro con i garanti dei detenuti nazionale e territoriali: l’iniziativa è una delle tappe di ascolto di coloro che operano nella realtà carceraria e dell’esecuzione della pena, con il chiaro obiettivo di riprendere il filo degli Stati generali del carcere. “Bisogna approfittare di questa legislatura per lavorare sulle riforme. Dopo l’approvazione del ddl civile e penale, penso si debba riprendere in mano la riforma dell’ordinamento penitenziario, affossata dalla lega che ora raccoglie le firme per il referendum”, dice Rossomando. La sensazione in ambienti dem è che il vero nemico di una possibile riforma sia più la Lega che il Movimento. La speranza è che, una volta assestata la leadership di Giuseppe Conte, con i Cinque stelle sia possibile affrontare un discorso di merito sulla riforma dell’ordinamento carcerario, sulla falsariga di come si è fatto sul ddl penale. La strategia è quella dei piccoli passi, abbassando al minimo il livello delle polemiche e delle rivendicazioni politiche: nessun attacco a Bonafede, nessuna gioia sbandierata sui social per le modifiche alle leggi volute dal Movimento. Sviscerando le singole proposte coi parlamentari più disposti al dialogo (e all’alleanza), il Pd è convinto di poter trovare un punto di caduta anche sul carcere, nel lungo periodo. In realtà, le ipotesi al vaglio sarebbero due e alternative. Immaginare una riforma organica e ambiziosa come quella di Orlando potrebbe essere difficilmente percorribile per questo governo, dunque è al vaglio l’ipotesi di sfruttare il più possibile lo spazio di manovra che ancora consente il ddl penale. È vero che il maxi emendamento del governo è stato votato in consiglio dei ministri, ma prima dell’approdo in aula il 23 luglio il testo può ancora essere ritoccato (come già sta succedendo per la prescrizione, che dovrebbe venir corretta nel calcolo della prescrizione sostanziale della legge ex Cirielli). In particolare nel blocco, comunque già consistente, delle nuove previsioni in materia di sanzioni sostitutive. La riforma penale, infatti, prevede che sia il giudice della cognizione e non più quello di sorveglianza ad applicare le pene alternative alla detenzione, se ritiene che favoriscano la rieducazione del condannato e se non riscontra pericolo di recidiva: un cambiamento sostanziale, perché si sposta al giudice del processo l’individuazione delle sanzioni diverse dal carcere, che quindi vengono applicate al condannato immediatamente con la sentenza. Inoltre, sono già presenti norme che rafforzano le ipotesi di giustizia riparativa e le ipotesi di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Proprio in questo campo il Pd è pronto a presentare emendamenti che sostengano e allarghino le previsioni del maxi emendamento ragionando su entrambi i piani: si cercherà di far confluire quanto possibile nel ddl penale, lavorando in parallelo a una possibile riforma autonoma. La stessa Cartabia potrebbe guardare con favore questa scelta, piegando l’ambizione di una riforma dell’ordinamento carcerario alla possibilità di rimanere fedele alla promessa di intervenire in modo celere. “È vero che molte innovazioni sono già presenti nel ddl penale, in particolare con l’assegnazione di nuovi poteri al giudice della cognizione”, concede Enrico Costa di Azione, che è scettico sulla possibilità che si possa davvero scrivere una nuova riforma del carcere perché “Su riforme che mettono al centro le garanzie, il parlamento si scontrerà sempre con la demagogia populista, tanto della Lega quanto dei Cinque stelle”. Tradotto: la maggioranza faticherà sicuramente su un tema divisivo come il carcere e la ministra dovrebbe ritenersi soddisfatta se riuscirà a far approvare quanto è scritto nel maxi emendamento del penale. Rimane un eppure, però. Rispetto a molti altri temi di giustizia, il carcere è sicuramente una delle questioni su cui la ministra Cartabia è più decisa. “E lei ha già dimostrato che quando ha le idee chiare persegue i suoi obiettivi”, si dice in area di maggioranza. La strada è sicuramente impervia, ma proprio il clamore mediatico intorno al caso di Santa Maria Capua Vetere potrebbe essere utile strumento per portare avanti un progetto concreto. Tanto più che anche nel Pnrr sono previsti fondi che riguardano l’edilizia carceraria, non in ottica di costruzione di nuove carceri quanto di ampliamento e rinnovamento dell’esistente. Dal punto di vista legislativo, si tratterebbe di un progetto decisamente ambizioso: rispetto ai ddl civile, penale e dell’ordinamento giudiziario, tutti nati con il precedente governo e dunque con un testo base già scritto, una eventuale riforma del carcere potrebbe portare il marchio inequivocabile del governo Draghi. Insomma, potrebbe essere la prima riforma dell’esecutivo a non scontare la necessità di tenere in equilibrio i residui del passato, ma l’ambizione di Cartabia potrebbe non essere sufficiente a domare tutte le anime della sua maggioranza, tanto più nel corso del semestre bianco e a ridosso della nomina del nuovo presidente della Repubblica. Gozzini e Cartabia uniti dalla stessa idea: un carcere non più vendicativo di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 17 luglio 2021 Mario Gozzini era uno spirito cattolico inquieto e fermo, apparteneva a quella genia di cattolici che prima della caduta del fascismo e nell’immediato dopoguerra pensavano e si interrogavano su quale Paese volessero costruire, animati com’erano da spirito cristiano, impegnati nell’agire sociale, e pure coscienti che la politica, l’ordinamento statuale, le leggi scritte non fossero tutto quel che si potesse fare, e fossero anche poca cosa se non erano pervase dalla passione per l’umano, dal riscatto degli “ultimi”. Così, gruppi di giovani cattolici che agivano in autonomia, partendo proprio da un’esigenza di rinnovamento religioso e sociale che il partito dei cattolici, la Democrazia cristiana, pareva trascurare, negli anni Cinquanta avevano praterie davanti per un lavoro culturale. È tutto un interrogarsi e prendere le distanze dal misticismo, tutto un distinguere tra esistenzialismo ateo e religioso, tutto un ragionare sul concetto di civiltà cristiana. Era tutto un mondo quello, di forte impronta antifascista, che guardava al movimento operaio, al Partito comunista. Era, in sostanza, il confronto tra cristianesimo e marxismo. Parliamo di uomini con uno spessore culturale forte, che ebbero un peso enorme nella Costituente. È da questo “spirito” che nasce la legge Gozzini. La legge Gozzini non era “l’umanizzazione del carcere” - un concetto orrendo - non faceva che dare valore e attuazione all’articolo 27 della Costituzione, laddove dice che la pena è rieducativa, anzi di preciso recita così: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. E così, la Gozzini, che fu votata da tutto il Parlamento meno quelle teste di pietra del Msi, che allora volevano l’introduzione della pena di morte (la volevano sempre, per la verità), intervenne su permessi premio, l’affidamento al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà, la libertà condizionale, la liberazione anticipata. Insomma, allentò la presa. Erano tempi durissimi per le carceri, con una massa di detenuti politici (che tali non furono mai considerati) e di detenuti politicizzatisi, attraverso le rivolte degli anni Sessanta e Settanta e il lavoro della sinistra extraparlamentare prima e dei Nap dopo, e condizioni di vita sempre più restrittive, a fronte di una popolazione detenuta che aumentava. Si evadeva, si progettavano rivolte, si sparava per le strade. Persino agli architetti delle carceri sparavano. Eppure, invece di puntare a una maggiore militarizzazione e con una opinione pubblica sgomenta e disponibile forse a un discorso ancora più repressivo, Gozzini riuscì a ribaltare il punto di vista. Bisognava allentare la presa, non c’era altro modo per uscire da quella spirale viziosa, più repressione più violenza più repressione. Uno dei primi luoghi dove venne applicata la legge fu il carcere di Porto Azzurro. Quando nel 1987 scoppiò una rivolta e l’Italia restò per giorni con il fiato sospeso - perché c’erano ventotto ostaggi, tra cui il direttore, convinto “gozziniano”, nelle mani di sei ergastolani - Gozzini non si tirò indietro, e si schierò per la trattativa a oltranza, per il dialogo, contro chi voleva subito l’intervento delle forze speciali, anche a costo di lasciare dietro una scia di sangue. Ebbe ragione. A memoria d’uomo non si ricorda una visita in carcere di un presidente del Consiglio, accompagnato dal ministro di Giustizia - accolti dai detenuti al grido di “Draghi, Draghi, amnistia, indulto”. È successo ai Papi - nelle loro visite pastorali natalizie a Regina Coeli o a San Vittore. E a memoria d’uomo non si ricorda una visita in carcere di un presidente del Consiglio, accompagnato dal suo ministro della Giustizia, dopo un pestaggio spietato e disumano - in cui le parole pronunciate sono state: “Non può esserci giustizia dove c’è abuso. E non può esserci rieducazione dove c’è sopruso. Il Governo non ha intenzione di dimenticare. Le indagini in corso stabiliranno le responsabilità individuali. Ma la responsabilità collettiva è di un sistema che va riformato”. Parole riecheggiate in quelle del ministro Marta Cartabia: “È l’occasione per far voltare pagina al mondo del carcere. Bisogna correggere la misura penale incentrata solo sul carcere”. È questo il “filo rosso” della riforma presentata da Cartabia. Da un lato, con un’ampia casistica di pene alternative alla detenzione. Si potrà intervenire sulla detenzione domiciliare: per le pene fino a 4 anni; oppure, sulla semilibertà; oppure, per i lavori utili: per le pene fino a tre anni. Dall’altro rimettere mano all’ordinamento penitenziario, la legge Gozzini n. 663 del 1986, e che ha progressivamente perso la sua “spinta propulsiva”. Il carcere non può essere “vendicativo”. È un principio che Cartabia ha ripetuto più volte, estesamente. Una, a esempio, è stata la presentazione a febbraio, del libro “Un’altra storia inizia qui. La giustizia come ricomposizione”, scritto insieme a Adolfo Ceretti, professore di Criminologia all’Università di Milano-Bicocca e coordinatore scientifico dell’Ufficio di mediazione penale di Milano - in cui si riattraversa l’insegnamento del cardinal Martini sulla giustizia, sul senso della pena e sulle carceri. Martini, peraltro, ricordano gli autori, iniziò la sua attività pastorale come arcivescovo di Milano scegliendo come luogo di elezione proprio San Vittore. Martini, negli anni Novanta, ragionava su una giustizia non solo punitiva ma riparativa, capace di rimarginare le ferite delle vittime e della società, una “giustizia dell’incontro”. Una giustizia che vedeva nel riconoscimento della colpa e non nella crudeltà della vendetta la via per ricomporre i conflitti di società ferite, come avvenuto in Sudafrica. Un’altra, sempre a esempio, è la lectio magistralis tenuta all’università di Roma tre, a Roma, nel gennaio dello scorso anno, quando Cartabia era presidente della Corte costituzionale: “Una parola di giustizia. Le Eumenidi dalla maledizione al logos”. Qui, Cartabia, rileggendo la tragedia di Eschilo, ragiona sul passaggio dalla antica giustizia vendicativa, rappresentata dalle Erinni, al nuovo ordine fondato grazie a Atena, dea della sapienza, “su un istituto di giustizia che resterà saldo per sempre”, cioè il processo davanti a un tribunale. Il ragionare prende il posto dell’istinto vendicativo, dell’immutabilità insensata di una giustizia-vendetta che esige solo il versamento di altro sangue, la generazione di altro dolore, la proliferazione di altro male. Ogni controversia giurisdizionale reca sempre in sé una dimensione collettiva, che trascende la singola vicenda individuale. È qui che Cartabia ricorda l’esperienza del Sudafrica dopo l’apartheid - l’incontro tra le vittime e i loro carnefici d’un tempo. Una giustizia che guarda in avanti e allude alla possibilità di una rinascita: senza cancellare nulla - anzi ricordando tutto - apre una prospettiva nuova per la singola esistenza individuale e per l’intera comunità. Forse davvero è il momento per far voltare pagina al mondo del carcere. Carceri, durata del processo e corruzione. I suggerimenti di Ainis a Cartabia di Federico Di Bisceglie formiche.net, 17 luglio 2021 Il costituzionalista sulla riforma della Giustizia elaborata dalla ministra Cartabia: “Una soluzione costituzionalmente compatibile, se applicata risolverebbe il problema della durata dei processi”. Ma mette in guardia sul tema della corruzione. Da Santa Maria Capua a Vetere il premier Mario Draghi e la ministra della Giustizia Marta Cartabia si sono spinti a fare una dichiarazione impegnativa: “Mai più violenze”. Il penitenziario nel quale il capo del Governo si reca con la guardasigilli è stato teatro del pestaggio che gli agenti hanno perpetrato nei confronti dei detenuti. “L’orribile mattanza”, l’ha definita il gip che si sta occupando del caso. “Ora più che mai - hanno detto Draghi e Cartabia - occorre una riforma dell’ordinamento penitenziario”. Per capire in che modo l’esecutivo con la riforma della Giustizia che sta portando avanti potrebbe agire efficacemente, abbiamo chiesto un parere al costituzionalista Michele Ainis, ordinario di istituzioni di diritto pubblico all’università di Teramo. Professore, l’intenzione di revisionare il sistema carcerario non è certo di oggi. Ma, attraverso la riforma Cartabia, come si potrebbe intervenire in modo da imprimere un cambio di passo che si attende da tempo? Innanzitutto occorre tagliare alla radice le ragioni del sovraffollamento del sistema carcerario. Fenomeno determinato da un numero esorbitante di fattispecie di reati previsti dal nostro ordinamento. Si può dire che c’è un eccesso di diritto penale, quando invece dovrebbe essere l’extrema ratio. Dunque, il primo antidoto al sovraffollamento che risolverebbe gran parte dei problemi che si verificano negli istituti carcerari è questo. Si potrebbero avere ambienti meno tossici. Che cosa intende dire? Molti fatti poco commendevoli che si verificano all’interno degli istituti penitenziari derivano proprio dall’eccessivo affollamento degli ambienti, che genera tensioni, comportamenti aggressivi, autolesionistici e sadici. Perciò ritengo che occorra partire da qui. Dal punto di vista dell’ordinamento penale, come valuta le misure proposte dalla Guardasigilli? La riforma Cartabia mi pare un tentativo onesto di contemperare due principi: la ragionevole durata del processo, la tutela del diritto alla difesa e l’esigenza dell’accertamento dei reati. Evitando peraltro che cadano in prescrizione 130mila delitti, come accade ogni anno nel nostro Paese. Proprio la prescrizione, è tema delicatissimo e terreno di scontro politico. Qual è la sua idea? In linea di massima l’impianto previsto dalla riforma proposta del governo è condivisibile. C’è tuttavia un passaggio che non mi convince. È infatti previsto, per i reati più gravi, che si possano sforare i tempi fissati (sia in appello che in Cassazione), qualora se ne dovesse ravvedere la necessità. Fino a qui nessun problema. Quello che mi lascia perplesso è l’aver inserito tra i reati più gravi - punibili con l’ergastolo - il reato della corruzione. È il frutto di una mediazione politica... È evidente. Ma si corre il concreto rischio di trattare situazioni difformi in modo uguale. Questa irragionevolezza che scaturisce dal compromesso politico, rischia di non reggere dal punto di vista giuridico. In linea generale, a livello di impostazione, l’impegno di Cartabia nella riforma è poderoso... Certo. Ma in fondo una riforma si può valutare solamente in base alle situazioni di fatto nelle quali viene applicata. Già il fatto che la soluzione individuata dall’Esecutivo sia costituzionalmente compatibile non è cosa da poco. Tuttavia la riforma della Giustizia nel nostro Paese è un nervo scoperto. Siamo passati dall’essere iper garantisti all’essere giustizialisti fino al midollo. Il fatto che si prefigga come obiettivo quello di definire una ragionevole durata del processo, è già una svolta epocale. Sarebbe un grande cambiamento, una svolta per una situazione tutta italiana. “No a sistema carcere-centrico: cella solo per reati gravi” di Carmine Massimo Balsamo ilsussidiario.net, 17 luglio 2021 Il sottosegretario Francesco Paolo Sisto: “Visita di Santa Maria Capua Vetere segnale del livello di attenzione del governo sul sistema carcerario”. Carcere solo per i reati gravi: questa l’indicazione di Francesco Paolo Sisto. Il sottosegretario alla Giustizia ha rilasciato una lunga intervista ai microfoni de Il Mattino ed ha elogiato la visita del premier Draghi e del ministro Cartabia al carcere di Santa Maria Capua Vetere dopo i recenti fatti di cronaca, un segnale che dimostra “il livello di attenzione del governo sul sistema carcerario”. Francesco Paolo Sisto ha messo in risalto che tra le priorità troviamo gli incrementi degli organici tra gli agenti penitenziari e il personale amministrativo, ma non mancano riflessioni sulle strutture: “Stiamo procedendo con i necessari monitoraggi per impiantare un controllo di videosorveglianza a tappeto nei luoghi in comune tra agenti e detenuti a garanzia della sicurezza di tutti”, senza dimenticare l’intensificazione della formazione degli agenti e la predisposizione di un presidio clinico-medico specifico anche per gli agenti. Governo al lavoro sulle carceri, dunque, ma il problema principale è senz’altro quello del sovraffollamento. Francesco Paolo Sisto ha sottolineato la necessità di intervenire sulle manutenzioni e sull’edilizia, ma anche “di una più razionale distribuzione dei detenuti e di una nuova filosofia del processo penale”. Riflettori accesi sulla valorizzazione dei riti alternativi così da non rendere il carcere l’unica pena possibile. No, dunque, a un sistema penale carcere-centrico: “La messa alla prova, il lavoro socialmente utile, il fatto di speciale tenuità, l’allargamento della procedibilità a querela sono terapie che, nella loro diversità, costituiscono strumenti perfettamente in linea con l’articolo 27 della Costituzione”. Per Francesco Paolo Sisto e per il governo, dunque, è fondamentale porre al centro la funzione rieducativa della penda: “Per troppo tempo, ha prevalso una filosofia solo repressiva, che non teneva conto che il detenuto andava aiutato a “tornare”, secondo principi e trattamenti di umanità, e sempre in sicurezza”. Ma le carceri italiane sono ancora in Italia? di Mauro Barberis micromega.net, 17 luglio 2021 Le carceri, ancora. Come a Bolzaneto nel 2001, così a Santa Maria Capua Vetere, vent’anni dopo. Ci sono volute le immagini di una telecamera di sicurezza dimenticata accesa, e la visita ufficiale di un Presidente del Consiglio e di una Ministra della Giustizia, per accorgerci improvvisamente di quanto non volevamo vedere. Era il marzo dell’anno scorso, l’inizio della pandemia, e forse avevamo altro a cui pensare. Se non fosse che quando si parla di carceri c’è sempre qualcosa di più importante a cui pensare. Così, la rivolta è scoppiata in ventuno penitenziari sovraffollati, nell’indifferenza generale, mentre noi cominciavamo a preoccuparci dei nostri assembramenti. S’è detto che era perché le visite erano state sospese, o che c’era dietro un piano di una delle tante mafie. Ci sono stati tredici morti, nove solo nel carcere di Modena, uno anche a Santa Maria Capua Vetere, ma era solo un algerino pestato a sangue e poi lasciato morire senza cure. Strano carcere, questo, con i reparti indicati da nomi di fiumi - Nilo, Senna, Danubio… - e nessuno che, in anni di celebrazioni dantesche, abbia pensato a chiamarne uno Stige, come il fiume infernale. I tredici morti erano tutti detenuti, molti per overdose di metadone, anche se portavano segni di violenze sulle quali nessuno ha mai indagato seriamente. Oltre ai morti, ci sono stati duecento feriti e 12 milioni e passa di danni, ma nemmeno un responsabile indicato al pubblico ludibrio, come usa da noi per una firma mancante. Ci fosse stato un Giulio Regeni, un Patrick Zaki, semplicemente non l’avremmo saputo: queste cose, si sa, capitano sempre altrove, in Egitto, Turchia o Corea del Nord, non nella patria del diritto. Forse i reparti sono chiamati con nomi di fiumi stranieri proprio perché le carceri italiane non stanno legalmente in Italia. Legalmente sono extraterritoriali: non ci vigono le leggi italiane, ma una legge più antica, quella della jungla. Quando la porta del carcere si chiude alle spalle di qualcuno, che potremmo anche essere noi stessi o i nostri figli, le leggi italiane non valgono più. Neppure per quegli altri abitanti delle prigioni che sono gli agenti carcerari: i quali non possono finire in carcere solo perché, banalmente, ci stanno già, e neanche un’eventuale impunità compenserebbe le condizioni in cui lavorano. Giusto per trovare un responsabile anche stavolta, viene da chiedersi cosa abbiano fatto in tutti questi anni, almeno dalla legge Gozzini (1986) in poi, i politici. È presto detto: hanno piantato bandierine, scommettendo se gli elettori fossero più attratti dalla bandierina giustizialista o da quella garantista. A partire dagli anni Novanta, senza troppe differenze fra destra e sinistra, si sono accorti che elettoralmente paga di più la sicurezza penale che sanità, scuola e pensioni, e costa pure meno. Guai però ad approvare una legge sulla tortura, come ci siamo obbligati a fare firmando la Convenzione di New York nel 1984. Perché si può anche finire in galera per una cambiale non onorata, ma non perché si torturano persone private della loro libertà personale. Così, ci sono voluti un ex banchiere centrale e una ex docente di diritto costituzionale, l’una e l’altro eletti da nessuno, per accorgersi che nelle carceri italiane la gente muore, anche solo per incuria. E pensare che per rimediare basterebbe costruire nuove prigioni, o trovare misure alternative al carcere, o sfoltire la lista dei trentacinquemila reati. Forse, in questo stesso momento, ognuno di noi ne sta commettendo uno, senza saperlo, per il solo fatto di respirare. Carcere: uno sguardo oltre il muro e oltre i video dell’orrore di Francesco Lo Piccolo* huffingtonpost.it, 17 luglio 2021 Non so se la visita di Draghi e Cartabia avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere a oltre un anno dalla mattanza (e già questo dice molto) sia il segno di un cambiamento. C’è da augurarselo davvero perché il cambiamento - che riguarda tutto il sistema carcere (sono almeno 17 i procedimenti penali che hanno per oggetto abusi, maltrattamenti e torture dal 2011 a oggi - fonte Antigone) - richiede uno sforzo e un impegno che vanno ben oltre alle parole e alle promesse, ben oltre all’amnistia e all’indulto (più che mai necessarie) e che attengono a un’analisi dell’essenza del carcere, ovvero per citare Aristotele a “ciò per cui una certa cosa è quello che è, e non un’altra cosa”. Insomma riguardano la natura di un’istituzione “fortificata” e isolata dove da una parte sono rinchiuse migliaia di persone (53 mila oggi i detenuti in Italia) tutte costrette a vivere in stato di minorità e dall’altra sono state incaricate altrettante migliaia di persone (quasi quarantamila oggi gli agenti di polizia penitenziaria) a osservare, programmare e governare le giornate, le settimane, i mesi e gli anni. Detenuti i primi, detentori gli altri. In definitiva, è il senso e il compito che è stato assegnato a una istituzione come il carcere che costruisce il carcere stesso, ed ancora è il senso e il compito che è stato assegnato a priori alle persone che in carcere ci vivono e ci lavorano (detenuti e detentori) che determina poi le loro azioni. Cosa, come è noto, ben evidenziata da Zimbardo nel 1971 a Standford grazie al suo famoso esperimento sul comportamento delle persone in base al gruppo di appartenenza e al ruolo assegnato. Esperimento ancora ignorato. Purtroppo. E così, come ciechi che pur vedendo non vedono (per dirla con Saramago) vediamo persone agire, le classifichiamo in buone o cattive, in mele marce o mele buone, senza chiederci ad esempio cosa sia accaduto prima della mattanza in quel carcere campano, o meglio che rapporto era stato istituito nel tempo passato e in forza di quale regolamento, compito e ruolo quelle persone si relazionavano tra loro. E non soltanto all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere, ma in tutte le carceri italiane. Ecco dunque che per capire (e quindi cambiare e correggere e non a parole o con passerelle adatte solo per il momento e l’eccezionalità) occorre tornare all’essenza, a quel cosa è il carcere, cosa fa il carcere, cosa succede lì, qual è la vita dei detenuti. Domande che si era posto nel 1971 Michel Foucault quando diede vita con Sartre e Deleuze al Gruppo di informazione sulle prigioni (Gip). Domande che possono cominciare a trovare una prima risposta guardando la divisione che esiste all’interno del carcere tra due realtà opposte tra loro: la realtà delle guardie e la realtà dei ladri, divisione che si articola all’interno di un unico codice che alla fine è uguale per tutti. Sintetizzo al massimo questi pensieri, frutto di tanti studi sull’istituzione totale: il sistema deve funzionare e per funzionare si sviluppa in un gioco di collaborazione, favori, scambi, benefici, vantaggi e meccanismi di adattamento. Perfetto equilibrio in un sistema gerarchico e poliziesco dove qualcuno comanda più di un altro e che si realizza sia tra detenuti e guardie, e sia tra detenuti e detenuti. Un equilibrio dove c’è una regola condivisa con le buone e con le cattive. Violenza simbolica (dolce e meno dolce, come aveva analizzato Weber nel descrivere lo Stato), ma sempre violenza. Con o senza episodi o mattanze tipo Santa Maria Capua Vetere. Senza sminuire la gravità delle violenze da parte di alcune centinaia di agenti contro i detenuti nel reparto Nilo, al contrario ricordando che oltre un anno fa, negli stessi giorni del pestaggio di Santa Maria Capua Vetere, in altre carceri italiane ci sono stati 13 detenuti morti (caso addirittura archiviato), vorrei che insieme qui osservassimo la vita dentro queste istituzioni attraverso alcune fotografie pubblicate nell’ultimo numero di Voci di dentro e che sono immagini di ordinaria quotidianità e dove si vedono persone nei cosiddetti passeggi, all’interno delle loro celle e nei corridoi. Le immagini sono state scattate nel luglio del 2015 al Don Bosco di Pisa (ma oggi in alcuni reparti è anche peggio) da Veronica Croccia e Francesca Fascione, e fanno parte di un reportage fotografico della Camera penale di Pisa “Come sabbia sotto al tappeto” in collaborazione con la direzione della casa circondariale “Don Bosco”, patrocinato dall’Unione delle Camere Penali, dal Comune di Pisa e dall’Ordine degli Avvocati e realizzato da Serena Caputo, segretario della Camera penale (promotrice del progetto). Foto scattate in un giorno qualunque e che si possono scattare in qualunque altro giorno e in tantissimi carceri. Soffermatevi un momento sulla foto dove si vedono le mani di un uomo che passano attraverso le sbarre sostenendo due piatti di plastica, quelli che solitamente usiamo per picnic o altro. Solo un cane, forse nemmeno un cane si tratta così. Totalmente dipendente da qualcun altro, da chi ha deciso il momento della sbobba, da chi ha così organizzato quella parvenza di vita. Oppure soffermatevi sulle aree passeggio in quelle vasche di cemento o sulla cella col wc a vista. Immagini d’altri mondi e d’altri tempi. Altro che “detenuti troppo liberi” come li definisce Milena Gabanelli: le sarebbe sufficiente un giro all’interno, al giudiziario, ad esempio, tra tossicodipendenti arrestati e persi nel nulla, per buttare alle ortiche quell’articolo fatto solo con il cinismo della statistica. E per capire che cosa è e cosa fa un carcere e a chi. Carcere “per rendere i detenuti disciplinati e docili” scriveva Foucault nel suo magistrale Sorvegliare e Punire. Forse sbagliando, da un certo punto di vista, come ci ha mostrato Kubrick in Arancia Meccanica. Perché la violenza, dolce o meno dolce che sia, e perché la divisione tra chi comanda e chi ubbidisce, e tra chi è e chi non è, o tra chi ha e chi non ha, come aveva detto Franco Basaglia… perché tutto questo costruisce e dà il senso al carcere, è la sua essenza. Perché tutto questo costruisce un luogo al quale nelle tante epoche della nostra storia umana, di volta in volta, si è cercato di dare un nuovo senso e una nuova funzione in aggiunta alle precedenti. Un luogo che non può avere senso, e non ha alcuna ragione di esistere. Un luogo per il quale non ci sono, non possono esserci, passerelle, buoni propositi o promesse di cambiamento a meno che a monte non ci sia una rivoluzione culturale e una visione meno ideologica o populista. Una rivoluzione che passi prima nel far apporre un codice identificativo sulle divise e sui caschi degli agenti e poi ad eliminare tout court dal carcere la stessa polizia, idea peraltro già ipotizzata negli anni della riforma del 1975, portando all’interno non agenti, ma maestri, libri, sapere, lavoro. Senza coercizioni soprattutto ed eliminando l’idea del forgiare e punire attraverso la sottomissione (la cosiddetta pedagogia nera di D.G. Moritz Schreber) così cara a chi vuole far marcire la gente in galera. Senza più quella extraterritorialità su cui si basa la fortezza del carcere. Senza media e penale ben alleati nel nascondere, travisare e costruire la loro patologica e ansiolitica arealtà. *Giornalista, direttore di “Voci di dentro” Draghi e Cartabia a S.M. Capua Vetere vera svolta politica, ma ora meno magistrati al Dap di Alberto Cisterna Il Riformista, 17 luglio 2021 Non sarà stata una semplice visita, era imprevista e fuori da ogni protocollo. È come se i massimi esponenti del governo del tempo fossero entrati nella Bolzaneto o nella Diaz dalle mura e dai pavimenti imbrattati di sangue. La presenza di Draghi e della Cartabia tra i detenuti di Santa Maria Capua Vetere assume un valore simbolico e politico di una certa importanza e non sembra un atto di mera circostanza. Non deve essere stato facile aggirarsi tra le rovine della Ground Zero della politica penitenziaria italiana; nel luogo in cui è stato infranto l’ultimo diaframma tra la tutto sommato accettata percezione collettiva del carcere come luogo del disagio e del sovraffollamento e la denuncia inascoltata di una condizione di generalizzata sopraffazione. Come il G8 di Genova ha marcato la latitanza e l’impreparazione dei capi dell’ordine pubblico nel controllare la violenza di strada, così la mattanza di Santa Maria Capua Vetere ha disvelato i contorni di una coabitazione tra detenuti e agenti penitenziari precaria, fragile, incline al conflitto al primo cenno di reazione e di protesta, una pentola in ebollizione. Uno stato di belligeranza che immagini e testimonianze dell’inchiesta penale hanno restituito agli occhi della pubblica opinione in tutta la loro crudezza e in tutti i suoi inevitabili gesti di abbrutimento e di umiliazione. La presenza dello Stato tra quelle mura non ha, quindi, il solo significato di una, pur tardiva, riparazione ai torti subiti, ma segna il visibile impegno delle istituzioni pubbliche affinché “mai più” possa ripetersi quel che è accaduto. Perché questa promessa possa avere un seguito sono indispensabili condizioni che, tuttavia, sono solo in parte nelle mani del premier e del suo più prestigioso ministro. Ricondurre la dimensione carceraria alla sua prospettiva rieducativa e riabilitativa esige, in primo luogo, che sia drasticamente contenuta la custodia cautelare. Troppi detenuti restano, troppe volte per anni, in attesa del completarsi del loro lungo iter processuale e durante questo tempo sono totalmente esclusi dalle prospettive del reinserimento che vengono riservate ai definitivi, ossia a coloro i quali scontano condanne passate in giudicato. Una massa enorme di persone si trovano recluse con la sola speranza di poter usufruire di qualche attenuazione del regime custodiale da parte dei giudici e su questa massa, soprattutto quando si tratta di presunti appartenenti a organizzazioni malavitose, la pressione dei pubblici ministeri e delle forze di polizia è enorme. L’intercettazione dei colloqui con i familiari e, non poche volte, anche di quelle con i difensori, il controllo della corrispondenza, le limitazioni nell’accesso ai beni di uso quotidiano, la promiscuità di celle, le perquisizioni personali spesso umilianti sono tutti fattori che alimentano un risentimento e una rabbia che a stento gli apparati di controllo riescono a tenere a bada. È solo la speranza di uscire, la volontà di ubbidire per non precludersi quale spiraglio di libertà a mantenere un certo ordine nelle carceri italiane e in quelle ad alta e massima sicurezza innanzitutto. Siamo un paese in cui si commina il carcere duro (il 41-bis per capirci) a chi è stato appena arrestato perché additato come un boss o un gregario pericoloso o solo perché appare il ventre molle su cui posare i bisturi della restrizione per eviscerare verità appetibili per gli inquirenti. Tutto questo, forse, a occhio e croce poteva avere un barlume di senso negli anni della grande emergenza criminale, nei tempi bui che seguirono alle stragi quando, si sussurra - a bassa voce - cose terribili siano accadute negli istituti di massima sicurezza dove erano ristretti capimafia e picciotti. Ma oggi, alla vigilia di una svolta politica e istituzionale che si profila importante per i destini del paese, è indispensabile che si restituisca serenità alla popolazione carceraria e alla polizia che la vigila. Una volta si chiamavano agenti di custodia e quella parola aveva un significato deteriore che si è voluto dismettere. Ma proprio agenti di custodia essi sono perché chiamati a custodire l’integrità fisica e morale dei detenuti loro affidati e non a trasformarsi in propaggini degli inquirenti a caccia di propalazioni, di confessioni e di pentiti. Ecco il primo punto che dovrebbe impegnare il premier e il ministro è proprio quello di isolare totalmente la dimensione carceraria dalle esigenze di sicurezza che provengono dall’esterno e dalla pressione degli investigatori, restituendo alle mura penitenziarie quella dimensione di intimità, di sobrietà, di riflessione che subisce le quotidiane e massicce scorrerie di quanti considerano invece il detenuto una fonte da spremere, da controllare minutamente, da scandagliare in ogni sua dimensione interiore per indurlo alla resa. È necessario, forse, che il carcere recuperi la propria neutralità rispetto all’aspra e giusta contesa che fuori di esso vede contrapposti inquirenti e delinquenti. Per farlo è necessario anche che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sia alleggerito della presenza di tanti, pur autorevoli, pubblici ministeri e protagonisti dell’antimafia, inevitabilmente proclivi ad accogliere le istanze antagoniste e securitarie che provengono dai loro colleghi che operano fuori dalle mura. Costoro consegnano, per la loro stessa provenienza professionale, alla popolazione penitenziaria un’immagine non coerente con la terzietà che sarebbe richiesta al custode del corpo in cella. Il ché non vuol dire che il carcere debba essere sottratto al controllo dello Stato con il pericolo di trasformarsi nell’Ucciardone di antica memoria, ma è indispensabile che le restrizioni siano solo ed esclusivamente orientate in direzione di questo obiettivo senza dilatarsi verso esigenze diverse che hanno visibilmente avvelenato i pozzi della convivenza e della civiltà. Dal no alle scarcerazioni allo sdegno per i pestaggi: ecco i professionisti dell’indignazione di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 luglio 2021 Tutto è iniziato con lo “scoop” de L’Espresso, poi ripreso dal programma “Non è l’arena”, condotto da Massimo Giletti, e addirittura, per conto del presidente Nicola Morra, è stata scomodata la commissione Antimafia per far luce sulla vicenda scarcerazioni. Parliamo ovviamente della polemica “scarcerazioni dei boss mafiosi”, che poi boss non erano, tranne i tre al 41 bis malati gravemente, scaturita a detta dei professionisti dell’indignazione, dalla “famigerata” nota circolare del 21 marzo del Dap. Tra di essi, i professionisti delle indignazioni, anche giornalisti che ora falsamente spacciano per scoop la notizia data con mesi di ritardo sui pestaggi di Santa Maria Capua Vetere. Unica eccezione il professor Luigi Manconi che dalle colonne di Repubblica ha sempre mantenuto una coerenza encomiabile. Addirittura, il magistrato Nino Di Matteo, intervenendo sempre alla trasmissione di Massimo Giletti, disse: “Con quella Circolare del 21 marzo del Dap, che ha consentito a boss mafiosi di uscire dal carcere, il segnale di resa dello Stato è nei fatti. Ed è un segnale devastante, perché evoca, appunto, resa e arrendevolezza da parte dello Stato”. Ovviamente chi non è a digiuno di diritto penitenziario e conosce il sistema carcerario fin da subito ha detto una circolare è un atto amministrativo, non decide la “scarcerazione” dei reclusi. Sullo specifico si parla di una circolare maturata in un periodo di grave emergenza, quella del Covid 19 che si stava diffondendo nelle carceri. Quindi il pensiero è andato a tutti quei soggetti che per età e patologie potessero essere più esposti alla mortalità una volta contratto il virus. La nota ha dato il via alle “scarcerazioni”? No. In realtà già prima della sua diramazione, alcuni giudici avevano iniziato a concedere i domiciliari anche ai detenuti in regime di Alta sicurezza. Di tutti quelli che hanno usufruito della detenzione domiciliare, una parte era relativa al pericolo Covid, ma la gran parte era dovuto dalle patologie gravi che li rendevano incompatibili con la carcerazione. L’allora ministro della giustizia Alfonso Bonafede cedette alle pressioni ed emanò di fretta e furia il decreto antiscarcerazione. Il risultato? Tra il decreto e la pressione mediatica, i magistrati si sono irrigiditi e la concessione del differimento pena è diventata rarissima. Ciò sta provocando la messa in pericolo di diversi detenuti incompatibili con il carcere. Alcuni sono morti in carcere. Altri sono su quella via. Basti pensare al caso che Il Dubbio ha affrontato oggi sulla stessa pagina. Il vaccino per migliorare la salute dei detenuti: Pisa capofila di un progetto europeo La Nazione, 17 luglio 2021 L’obiettivo dell’iniziativa proposta dall’Università è ridurre il numero di nuovi casi di malattie infettive prevenibili da vaccino all’interno della popolazione carceraria. Con l’obiettivo di aumentare i tassi di vaccinazione nelle carceri di tutta Europa, è stato lanciato nelle scorse settimane il progetto “RISE-Vac: Reaching the hard-to-reach: increasing access and vaccine uptake among the prison population in Europe”, che nei prossimi tre anni opererà per ridurre il numero di nuovi casi di malattie infettive prevenibili da vaccino all’interno della popolazione carceraria. Guidato in Italia dall’Università di Pisa con il supporto delle principali istituzioni accademiche e sanitarie di diversi altri paesi, tra cui i Servizi Sanitari dei Paesi partecipanti, il progetto è stato finanziato dall’Unione Europea con oltre 1.5 milioni di euro. Il team di ricerca pisano è coordinato dalla dottoressa Lara Tavoschi, ricercatrice in Igiene generale e applicata al Dipartimento di Ricerca traslazionale dell’Università di Pisa e include anche la professoressa Laura Baglietto del Dipartimento di Medicina clinica e sperimentale, l’assegnista Davide Petri e la dottoranda Sara Mazzilli. Il principio chiave alla base del lavoro di RISE-Vac è che la salute nelle carceri è un problema di salute pubblica: molti detenuti trascorrono solo un breve periodo in carcere, con un rapido ricambio e rientro nella società dove possono mettere a rischio di malattia infettiva anche altre persone. Vaccinare i detenuti contro le malattie infettive protegge anche le comunità a cui appartengono. “Più che mai, la pandemia di Covid-19 ha messo in luce la necessità di concepire e attuare interventi preventivi inclusivi - dichiara la dottoressa Lara Tavoschi - Avendo come obiettivo i detenuti, il progetto mira a migliorare lo stato di salute di questa popolazione e ad aumentare la consapevolezza del valore della assistenza sanitaria di qualità nelle carceri quale strumento per contrastare le disuguaglianze in salute e contribuire all’obiettivo globale fissato dall’OMS “Leave no one behind”“. Gli operatori sanitari e i ricercatori utilizzeranno metodi basati sui dati epidemiologici e sulle evidenze scientifiche per valutare lo stato dei servizi vaccinali nelle carceri, elaborare linee guida e identificare buone pratiche per programmi di immunizzazione efficaci. Verranno inoltre sviluppate risorse per la formazione e l’istruzione e per migliorare la conoscenza dei vaccini tra i detenuti e personale. “I detenuti hanno tra i più bassi tassi di copertura vaccinale in Europa - continua la dottoressa Tavoschi - Le conseguenze per la loro salute sono tanto maggiori in quanto sono anche uno dei gruppi di persone più a rischio per una serie di malattie infettive che i vaccini possono prevenire. Diversi fattori li rendono più vulnerabili: tendono a provenire da ambienti socialmente svantaggiati, spesso hanno scarsi livelli di istruzione, hanno maggiori probabilità di intraprendere comportamenti ad alto rischio e hanno scarso accesso a cure sanitarie adeguate. Di conseguenza, l’introduzione di programmi di immunizzazione più diffusi, coerenti ed efficaci nelle strutture carcerarie di tutta Europa ha il potenziale per offrire enormi benefici in termini di salute e benessere non solo ai detenuti, ma anche al resto della popolazione generale”. Nell’affrontare il problema, il progetto Rise-Vac riunisce le competenze e l’esperienza di numerosi esperti provenienti da più settori che lavorano nel campo della salute carceraria. I partner del progetto sono: Frankfurt University of Applied Sciences (Germania), ASST Santi Paolo e Carlo Presidio Ospedale San Carlo Borromeo (Milano), Department of Health - Public Health England (UK), National Administration of Penitentiaries (Moldova), Centre Hospitalier Universitaire Montpellier (Francia), Health Without Barriers (Italia), Cyprus National Addictions Authority (Cipro), Ministry of Justice and Public Order - Cyprus Prison Department (Cipro). Riforma della Giustizia. Draghi pensa alla fiducia e Di Maio teme la crisi di Ilaria Lombardo La Stampa, 17 luglio 2021 Il ministro non esclude che Palazzo Chigi minacci la caduta del governo. Grillini divisi tra voglia di cambiare la norma e ricerca del compromesso. A Palazzo Chigi cominciano a temere davvero che la riforma della giustizia possa finire in un incubo parlamentare senza alcuna via d’uscita. Attorno a Mario Draghi lo temono a tal punto che non escludono che il presidente del Consiglio possa chiedere di apporre il voto di fiducia tra venerdì 23 luglio, giorno in cui è previsto che il maxi-emendamento arrivi alla Camera, e il 26. Il banchiere vuole che il pacchetto di proposte sul processo penale e sulla prescrizione preparato dalla Guardasigilli Marta Cartabia passi integro, senza modifiche, entro luglio alla Camera, e pochi giorni dopo al Senato. Solo così Draghi crede di assicurarsi l’ok alla riforma a cui sono vincolati i finanziamenti europei del Piano nazionale di rinascita e resilienza (Pnrr), e intende farlo prima che il semestre bianco, quando non sarà più possibile sciogliere le Camere, consegni ai partiti la libertà di sbarazzarsi della disciplina di governo. Draghi è impensierito dal M5S. In attesa di incontrare, lunedì o martedì, Giuseppe Conte il premier ha sondato Luigi Di Maio. Il ministro degli Esteri non può nascondere che la gran parte dei 5 Stelle chiede di cambiare il testo e sa che questa è anche l’intenzione di Conte. Tra i ministri grillini Di Maio è stato il principale artefice della mediazione, a sostegno del compromesso a cui ha lavorato con Cartabia la sottosegretaria Anna Macina. Un compromesso che è stato disconosciuto dall’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, molto legato a Di Maio e amareggiato per il cedimento dei ministri a cui deputati e senatori avevano consegnato il mandato di astenersi in Cdm. L’ex capo politico è molto preoccupato. Sente che l’umore a Palazzo Chigi non è dei migliori e teme che Draghi possa tornare a minacciare di salire al Quirinale per dimettersi come ha fatto per convincere i ministri 5 Stelle a dire sì alla riforma. Votare no o astenersi, è la preoccupazione di Di Maio, potrebbe significare un’immediata crisi di governo. Cosà farà, si chiede, il Movimento in caso di fiducia? C’è chi ricorda il precedente sul Tav Torino-Lione. Agli sgoccioli del Conte 1, quando fu chiaro che il premier e il governo non potevano più fermare i lavori, come i grillini avevano promesso per anni, il Movimento 5 Stelle in Aula votò comunque contro. Quasi in solitaria: il voto si ridusse a pura testimonianza. Potrebbe succedere di nuovo. Ma questa volta portandosi dietro un’incognita: quale sarà la reazione di Draghi? Il premier dovrebbe accettare una prima seria sbavatura nella sua maggioranza e andare avanti così. Lo farà? Di Maio ha paura di no. Per questo, e per quanto può, sta consigliando prudenza, nella convinzione che la riforma poteva essere sì migliore, “ma potrebbe ancora essere peggiorata”, se il testo verrà aperto alle modifiche del Parlamento. La leadership di Conte ha già aperto una nuova fase. I deputati e i senatori del M5S cercano una dialettica più vivace con il governo e con Draghi. E sulla giustizia la maggioranza di loro ha ritrovato toni di intransigenza. Poi c’è qualcun altro che nelle chat si fa portavoce degli stessi timori di Di Maio, pensa che andare allo scontro con il premier possa rivelarsi controproducente e rilancia i sondaggi che danno i 5 Stelle in calo di due punti percentuali in appena un mese. Da giurista però Conte ne fa una questione di merito, oltre che di principio politico. Per chi - come lui e altri - difende il vecchio testo della riforma Bonafede l’improcedibilità dopo i tempi prefissati per il giudizio in secondo grado e in Cassazione non può valere per reati anche gravi e per tutti i processi. Il clima è tesissimo. E lo prova cosa è accaduto ieri. È bastato che dal ministero della Giustizia arrivasse per errore un testo con la precedente formulazione dei tempi della prescrizione, peggiorativa per i grillini, per scatenare la rabbia del Movimento. Un piccolo incidente a cui hanno subito rimediato gli uffici di Via Arenula inviando una nota a Palazzo Chigi e trasmettendo alla Commissione Giustizia “il testo conforme e corretto a quello approvato dal Consiglio dei ministri”. Quello che i ministri 5 Stelle hanno votato controvoglia e che ora i parlamentari proveranno in tutti i modi a cambiare. Giustizia, errori nella riforma della prescrizione. Ma per i grillini è un nuovo vulnus di Liana Milella La Repubblica, 17 luglio 2021 Solo un “errore materiale”, dice via Arenula. Macché, ribattono i 5stelle, “una repentina marcia indietro rispetto a una norma che ci vedeva favorevoli”. Sulla prescrizione della Guardasigilli Marta Cartabia scoppia un nuovo attrito. In un venerdì in cui i “professoroni” arrivano a Montecitorio per giudicare la riforma, è un comma di cinque righe a riaccendere lo scontro. Che riguarda però una legge famosa, la ex Cirielli di berlusconiana memoria. Succede questo: alla Camera, in commissione Giustizia, mercoledì approda il testo della riforma del processo penale. Fresco di bollinatura della Ragioneria. All’articolo 14, tutto sulla prescrizione, contiene un comma che piace ai 5stelle. Lo aveva già proposto l’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi incaricato da Cartabia di presiedere il gruppo di lavoro sul processo penale, e loro erano d’accordo. Prevede che la durata della prescrizione sia pari al massimo della pena più la metà. Viene cancellata così la legge di Berlusconi, la ex Cirielli del 2005 che invece la rende pari al massimo della pena più soltanto un quarto. Ma ecco la sorpresa. Ieri mattina giunge da via Arenula un altro testo, con la firma digitale di Cartabia. La ex Cirielli resta com’è. E le righe spariscono sostituite da altro. M5S s’insospettisce e s’arrabbia. Anche perché gli emendamenti di Cartabia erano già stampati e pronti per essere subemendati. È mezzogiorno, e gli animi si scaldano. Nel frattempo parte la sfilata degli esperti, l’Anm, toghe famose, notissimi avvocati, le Camere penali. A ridosso delle 19 una netta precisazione del ministero della Giustizia. Nessuna marcia indietro sulla prescrizione, ma solo un “errore materiale”. Già chiarito con palazzo Chigi. Cosa sarebbe accaduto? Via Arenula ha inviato a Chigi un testo sbagliato della riforma rispetto a quello discusso in consiglio dei ministri. Un testo con la modifica della legge Cirielli che non figurava invece tra gli emendamenti ufficiali discussi e approvati durante il consiglio dei ministri di venerdì scorso. Chigi ha passato il testo alla Ragioneria che lo ha “bollinato”. Tornato di nuovo alla Giustizia è stato girato alla commissione della Camera presieduta da Mario Perantoni di M5S. Ovviamente l’articolo 14, quello sulla prescrizione, rappresenta il focus del testo. Il M5S lo legge e lo approva. Ieri mattina la doccia fredda. Ieri sera la “netta incredulità” rispetto alla precisazione del ministero. M5S non crede che un simile errore sia stato possibile proprio nell’articolo più importante di tutto il testo. Di certo c’è che la ministra Cartabia nega recisamente qualsiasi arretramento. Ma per M5S quella che invece viene considerata “una marcia indietro” finirà sul tavolo di Giuseppe Conte quando lunedì incontrerà Mario Draghi. Le audizioni confermano intanto i pro e i contro sulla riforma, anche a sorpresa. L’avvocato Franco Coppi, che sembrava contrario, rettifica il tiro. “La prescrizione di Bonafede era una follia, il processo per l’eternità, oltre la vita degli interessati. Due-tre anni per Appello e uno, o uno e sei mesi, per la Cassazione mi paiono una dolorosa necessità”. Per una Anm che con il presidente Giuseppe Santalucia boccia la riforma perché “più che accelerare il processo, lo elimina”, ecco l’ex procuratore di Torino Armando Spataro “favorevole all’improcedibilità” perché “già oggi una larghissima maggioranza delle corti di Appello riescono a chiudere i processi in quei tempi”. Certo, magari “un’amnistia per i reati minori sarebbe realistica”. Ma Santalucia ribatte con un esempio: “Mi chiedo se il processo Rinascita Scott con tanti imputati si può concludere anche in tre anni”. E se l’ex sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, oggi giudice in Cassazione e vice presidente del centro Livatino, prevede che “tutti proporranno Appello anche per condanne minime, le corti tratterranno i nuovi processi e lasceranno al loro destino quelli precedenti provocando due amnistie”, il penalista bolognese Vittorio Manes giudica la prescrizione “solo un frammento”, mentre vede nella riforma molti aspetti positivi, a partire “dal pm che chiede l’archiviazione se la condanna non è certa, al gup che interviene sul non luogo a procedere”. E poi bene il patteggiamento, bene le sanzioni pecuniarie, bene la giustizia riparativa, bene l’irrilevanza del fatto e la procedibilità a querela. Anche il presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza depone l’ascia di guerra e dice di “non condividere affatto quel terrorismo comunicativo e mediatico secondo cui avverrà un cataclisma perché in due anni non si riuscirà a pronunciare sentenza di Appello”. Il M5S si prepara comunque alla battaglia della prossima settimana. Martedì le audizioni del procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri chiesto dai grillini, che ha già bastonato la riforma definendola un’amnistia, e del procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho. I subemendamenti scadranno nel corso della giornata. Gli ultimi, alle 18, sulla norma che piaceva ai 5stelle, ma che adesso non c’è più. Il traguardo della riforma in aula già venerdì 23 sembra davvero complicato. Anche se i partiti favorevoli a Cartabia, tutti tranne M5S e FdI, potrebbero ritirare gli emendamenti. Ma la discussione potrebbe slittare alla settimana successiva. Comunque prima di agosto. E prima del semestre bianco che Draghi vuole evitare. M5S, Conte: appoggio Draghi ma sulla giustizia si cambi di Annalisa Cuzzocrea La Repubblica, 17 luglio 2021 Mario Draghi riceverà Giuseppe Conte lunedì mattina. Dopo aver visto il segretario del Pd Enrico Letta, il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani, il leader della Lega Matteo Salvini. È la prima volta, passaggio di consegne a Palazzo Chigi a parte, che i due si vedono faccia a faccia. Si sono già parlati al telefono però. Ancor prima che Conte si avviasse, come fa in queste ore, a prendere definitivamente la guida del Movimento. I temi in agenda sono molti, dalla gestione della pandemia all’attuazione del Pnrr. Ma quello che preoccupa più di tutti, è la giustizia. “Per prima cosa confermerò l’appoggio del Movimento al governo”, ha detto l’ex premier nelle riunioni di queste ore. Allarmato dalle voci che lo vedrebbero pronto a far saltare tutto una volta che sarà iniziato il semestre bianco, il periodo in cui - in attesa dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica - è impossibile che si sciolgano le Camere. Massimo sostegno, dice quindi Conte. Con un ma che però potrebbe mettere tutto in gioco. “Sulla giustizia, anche il presidente del Consiglio deve capire che noi non possiamo vedere le riforme cui abbiamo lavorato e che avevamo promesso agli elettori smantellate una ad una”. Non si tratta di bandierine, è il ragionamento. Non sono baluardi ideologici, ma impegni presi, mantenuti e ora messi in discussione con troppa facilità dalla nuova maggioranza. “Non potete chiederci di venire meno a promesse che avevamo fatto e che ci hanno consentito il successo del 2018”, sosterrà il leader in pectore dei 5 stelle. Ma su questo, anche Draghi ha intenzione di essere molto chiaro. La riforma del processo penale alla quale ha lavorato la ministra Marta Cartabia non è un capriccio. È una precisa richiesta dell’Europa, una condizionalità del Pnrr. Chiunque la fermerà dovrà assumersi la responsabilità delle conseguenze. Su questa e sulle altre riforme il premier vuole piuttosto accelerare il più possibile perché “ogni rallentamento costerebbe molto caro al Paese”. In casa 5 stelle negano qualsiasi tentativo di dilazione. Dicono piuttosto di avere in mente molte proposte che potrebbero cambiare la riforma senza tornare indietro al modello Bonafede, ma garantendo quel che considerano prioritario: che non ci siano processi che finiscono d’un colpo senza arrivare a un giudizio a causa dei tempi troppo brevi dell’appello. “Il Movimento aveva già proposto delle soluzioni durante il lavoro preparatorio con la ministra Cartabia, ripartiamo da lì”, chiederà Conte. Perché “bisogna guardare alla situazione reale nei tribunali”. Il punto però non è la trattativa con Draghi o con Cartabia. E neanche con il Partito democratico, che difende la riforma. “un’occasione storica per uscire dalla guerra dei trent’anni tra giustizialisti e garantisti per convenienza”. dice la responsabile giustizia in segreteria Anna Rossomando. Il punto è che se si riapre un testo che era il punto di caduta di richieste tra loro lontanissime (il pacchetto di emendamenti di Forza Italia lo aveva preparato Niccolò Ghedini), sarà molto complicato trovarne un altro. Il Pd mette a disposizione il cosiddetto “lodo Orlando”, quello per cui in appello se non si arriva a giudizio entro i due anni il processo non decade, ma riparte la prescrizione (cui va sottratto il tempo già trascorso per il procedimento). Ma nel caso si aprano spazi emendativi, ha anche tutta un’altra serie di proposte. “Noi rimaniamo fedeli all’idea che la riforma Cartabia vada nella giusta direzione”, dice sempre Rossomando. Ma “siamo pronti a valutare aggiustamenti e noi stessi ne abbiamo, in particolare valorizzando ancora di più le pene alternative e la giustizia riparativa”. Insomma, i dem non intendono lasciare ai 5 stelle la bandiera della lotta a corruzione e concussione, per le quali hanno chiesto anche loro tempi più lunghi. Né a Italia Viva quella del garantismo e della preoccupazione per quel che avviene nelle carceri. Sulle quali ieri il Nazareno ha avviato una road map che parte dall’incontro con i Garanti di tutt’Italia e si concluderà con la presentazione di un piano per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Conte prepara le barricate: riforma Cartabia a rischio di Paolo Delgado Il Dubbio, 17 luglio 2021 L’ex premier chiederà modifiche radicali agli emendamenti sulla Giustizia e ora Draghi sarà costretto a mediare con i partiti sulla road map promessa a Bruxelles. Il rientro in scena sarà spettacolare. Con la regia di Rocco Casalino, che in queste cose è un maestro, si può scommettere a colpo sicuro. Ma anche senza le sue sapienti arti, lo spettacolo sarebbe stato comunque garantito. Giuseppe Conte era tornato in camerino nelle vesti del politico più popolare del Paese, al termine di una crisi nella quale tre partiti che bastano a fare maggioranza alla Camera e quasi anche al Senato lo avevano trasformato in una bandiera: “Conte o morte”. Non è andata così. Quei tre partiti, M5S Pd e LeU, nonostante la defenestrazione sono oggi tutti nel nuovo governo. Ma la cacciata si è lasciata dietro, tra i rappresentanti e tra i rappresentanti soprattutto 5S e LeU, una scia di malumori e risentimenti ben più ampia e profonda di quanto non appaia: le “vedove di Conte” non sono solo una pittoresca invenzione giornalistica. Ora, dopo mesi di quasi totale assenza, dopo una rissa con Beppe Grillo che gli ha fatto perdere qualche punto nella hit parade dei più dove comunque è sempre in posizione altissima, dopo un pranzo a base di spigola a Marina di Bibbona con Grillo, “l’uomo più popolare del Paese” (secondo la nota definizione di uno che di popolarità se ne intende, sia pure per difetto, come Massimo D’Alema) sta per tornare sul palco. La foresta di telecamere sempre accese è sicurissima. Cronisti e commentatori ci andranno a nozze. Ma la vera sfida, per l’avvocato pugliese, comincia solo ora. Se conosce la politica, o se ne ha imparato a proprie spese la dura lezione, sa che i fasti passati non gli serviranno a niente. Puntare sui consensi accumulati da palazzo Chigi sarebbe un calcolo suicida. A palazzo Chigi Conte era un uomo senza partito: in fondo non troppo diverso, come ruolo almeno, da Mario Draghi. Ci teneva a far sapere spesso e volentieri di non avere in tasca la tessera del M5S, sgusciava ogni volta che qualche importuno provava a identificarlo in un modo o nell’altro: di destra o di sinistra, giustizialista o garantista? Sciocchezze. Il compito di un premier senza tessera e senza alcuna esperienza politica è governare bene, non prendere parte e partito. È saper amministrare “nell’interesse esclusivo del Paese”, come inossidabile retorica comanda. Da domani, anzi da lunedì quando debutterà ufficialmente incontrando Mario Draghi, Conte dovrà invece prendere appunto partito. Schierarsi. Fare battaglie. Assumere decisioni spesso difficili. Scegliere. Dall’amministrazione è tagliato fuori: il “bene del Paese” deve farlo nelle vesti del capo fazione, non più in quelle del premier che si dipinge come “al di sopra delle parti”. Altro film. Ruolo nuovo e tutto diverso. Se saprà interpretarlo Conte diventerà davvero una presenza politica centrale, forse determinante nei prossimi anni. Se si rivelerà miscast, la persona sbagliata per quella difficile parte, tornerà in camerino e stavolta per sempre. Ma non è il solo per cui sta per scoccare il momento della verità. Mario Draghi sin qui ha avuto vita facilissima. Stampa e commentatori gareggiano per osannarlo. L’opposizione parlamentare abbaia poco e morde meno di un cucciolo. La maggioranza mugugna, qualche volta sul serio, spesso solo per scena, ma scatta allo schioccare di dita del campionissimo. L’ingresso di Conte cambierà le cose e le cambierà subito, sulla riforma della giustizia. Il neoleader dei 5S invocherà modifiche radicali alla legge: non è un’opzione ma una scelta obbligata. Sarà come aprire le gabbie. Senza più quel vincolo di lealtà al testo votato in Cdm sul quale non a caso Draghi aveva martellato, ognuno presenterà le proprie modifiche, e la maggioranza, saltata la mediazione, diventerà un corpicino tirato da destrieri che galoppano in direzione opposta. Ad alto rischio di squartamento. In questi casi, di solito, presidenti del consiglio anche molto meno forti e decisionisti di Draghi se la cavano riportando l’ordine a suo di fiducia. Stavolta però vorrebbe dire rendere inevitabile un cozzo frontale proprio con Conte. Anche la faticosa ricerca di una nuova mediazione e di un diverso punto di equilibrio tra le anime opposte della maggioranza implicherebbe però rischi grossi, prezzi salati. Una volta accertato che le scelte del Cdm non sono il punto d’arrivo ma quello di partenza per la lunga e prevedibilmente estenuante mediazione tra i partiti, il modello si ripeterebbe a ogni riforma. La tabella di marcia da guerra lampo di Draghi si trasformerebbe in una chimera. Sin qui anche Draghi non ha dovuto far altro che amministrare. Nelle prossime settimane e nei prossimi mesi dovrà anche lui fare politica e anche per lui la prima vera prova sarà questa. Giustizia, una riforma dimezzata di Riccardo Arena ilpost.it, 17 luglio 2021 Velocizzare i processi, alleggerire il carico dei dibattimenti, incrementare i riti alternativi e riformare il sistema delle pene. Erano questi, in sintesi, i punti di riforma più importanti che la Ministra Cartabia aveva affidato alla Commissione Lattanzi. L’obiettivo: presentare degli emendamenti al disegno di legge Bonafede per ridurre del 25 % i tempi dei giudizi penali. Esattamente come ci ha chiesto l’Europa, sempre se vogliamo ricevere i fondi del Piano di ripresa e resilienza. Bene, anzi no. Infatti, l’intero lavoro svolto in tempi record dalla Commissione Lattanzi, dove tutto si teneva e si armonizzava, è stato sostanzialmente svuotato dei suoi contenuti più significativi. Il risultato? Gli emendamenti votati dal Consiglio dei Ministri, e che ora sono al vaglio del Parlamento, rappresentano una riforma dimezzata. Una riforma dimezzata che difficilmente riuscirà a ridurre i tempi dei processi del 25 %, come ci ha chiesto l’Europa. Di positivo c’è il fatto che, di quel lavoro svolto dalla Commissione Lattanzi, è stata conservata la parte che riguarda la riforma del sistema delle pene. Così, e finalmente visto che se ne parla da anni, è stato proposto che il Giudice di merito, quando deve irrogare una pena entro i 4 anni, possa applicare sanzioni diverse da quella detentiva come la detenzione domiciliare, la semilibertà e il lavoro di pubblica utilità. Di negativo, invece, c’è tutto il resto. Ovvero la parte che riguarda il processo penale che, prima di quel Consiglio dei Ministri, è stato oggetto di bizzarri veti incrociati e di incomprensibili compromessi politici. Veti e compromessi che di fatto hanno scartato gli elementi più innovativi e importanti del lavoro svolto dalla Commissione Lattanzi. Elementi che non rappresentavano di certo una rivoluzione Copernicana, ma che avrebbero contribuito a ridurre il carico di lavoro nei Tribunali e che potevano aiutare a velocizzare i processi. Che poi è quello che ci chiede l’Europa. Colpisce, ad esempio, che è stata eliminata gran parte delle riforme che incentivavano il ricorso ai riti alternativi. Un aspetto centrale questo, visto che i riti alternativi (patteggiamento o abbreviato) sono essenziali sia per smaltire l’enorme arretrato sia per far girare la macchina del processo accusatorio. Ebbene, siccome da noi si politicizza tutto senza per altro capire, questa parte centrale della riforma è stata colpita e affondata. E così è stata depennata la possibilità di patteggiare fino alla metà della pena e, sempre con un tratto di penna, è stata cancellata la possibilità di chiedere il giudizio abbreviato anche dinanzi al Giudice del dibattimento. Difficile, davvero difficile, capire il motivo di scelte tanto assennate e che tra l’altro ora appaiono come un tentativo di truffa nei confronti dell’Europa. Come appare difficile capire il motivo per cui la Ministra Cartabia non abbia lei stessa posto dei veti su una parte della riforma così importante. Domandaccia da maligni: forse la Ministra non voleva scontentare nessuno per una sua inconfessata ambizione di salire al Colle? Al di là delle malignità, resta il fatto che nulla cambierà sul fronte del processo penale. Processo penale che, anche se venissero approvati quegli emendamenti così come sono, resterà lento, intasato e, quindi, ingiusto come lo è adesso. Ma il Movimento 5 Stelle, che è uno dei massimi oppositori a questa riforma, ha capito che proprio grazie ai suoi diktat, raggiungerà risultati opposti a quelli voluti? Avrà capito che opponendosi a riforme che possono portare a un processo minimamente efficiente, finirà per favorire il colpevole e danneggiare l’innocente? Misteri della mente. Riforma del processo penale, basta compromessi o esce un pasticcio di Mario Griffo Il Riformista, 17 luglio 2021 La bozza di riforma Cartabia sollecita riflessioni di non poco momento. Segna, innanzitutto, l’epocale passaggio dal processo parlato al processo documentale avallando le spinte giurisprudenziali degli ultimi anni. Ne sono prova il rafforzamento dei riti alternativi, con l’ulteriore incentivo per chi rinuncia a impugnare, e il complessivo depotenziamento dell’istruzione dibattimentale. Il tutto per far fronte alle endemiche carenze di organico degli uffici giudiziari e all’ipertrofia dei ruoli delle Corti di appello, ormai vicini al collasso. La riforma incide su un passaggio cruciale della sequenza procedimentale: l’udienza preliminare, intendendo introdurre un rafforzamento valutativo incompatibile con la funzione propria della fase, che evidentemente non è “di merito”, a meno di non voler considerare il rinvio a giudizio una pre-condanna. Ma è chiaro che il potenziamento dell’udienza preliminare è direttamente proporzionale allo svilimento dell’appello, dimenticando che il pm è portatore dell’onere probatorio e l’imputato, all’opposto, della presunzione di non colpevolezza costituzionalmente riconosciuta. Il punto focale della riforma, però, è la prescrizione, terreno del compromesso politico che ne ha consentito la definitiva approvazione in Consiglio dei ministri. Alla prescrizione sostanziale si affianca ora la prescrizione dell’azione, introducendosi una innovativa causa di improcedibilità. Si tratta di un ibrido non agevolmente decifrabile, in chiave sistematica e “culturale”, con implicazioni pratiche per nulla irrilevanti. In entrambi i casi il processo si estingue: per estinzione del reato in un caso, per improcedibilità nell’altro. Con la differenza che, stante il regime di obbligatorietà della azione penale, l’idea che un processo possa estinguersi, pur restando in vita il reato, costituisce bizzarria dagli indubbi riverberi sul fronte della incostituzionalità della disciplina. Peraltro, le condizioni di procedibilità sono legate alle modalità e alla tipologia del reato. Nel caso di specie, l’improcedibilità sarebbe connessa ai tempi del processo con un effetto singolare: se il pm impugna la sentenza di assoluzione in primo grado e sopraggiunge l’improcedibilità per decorso dei tempi processuali, l’assoluzione si converte in improcedibilità. Si invera una sorta di reformatio in peius per decorso del tempo, dunque, non essendovi margini per valutazioni di merito “più favorevoli”. Il vigente articolo 129 del codice di procedura penale, infatti, “impone” al giudice di pronunciare l’assoluzione in presenza di una causa estintiva del reato; in presenza di una causa di improcedibilità, invece, è preclusa ogni valutazione di merito. In definitiva, quando la risposta giudiziaria tarda oltre il limite ragionevole e non sopraggiunge la prescrizione del reato, si possono contemplare misure risarcitorie e riparatorie per l’imputato, sanzioni per i magistrati negligenti e vari altri rimedi. Si potrebbe persino stabilire che, se una sentenza di merito perviene dopo un certo termine, il processo può proseguire in grado di impugnazione solo nell’interesse dell’imputato (il che equivarrebbe a rendere inappellabile l’assoluzione e insuscettibile di riforma in peius la condanna). Ma fino a quando non si modificherà l’articolo 112 della Costituzione, che sancisce l’obbligatorietà dell’azione penale, non è ammissibile che, perdurando la punibilità del reato, il processo evapori con una sentenza di non doversi procedere. Una simile definizione, a reato non estinto, in regime di azione penale obbligatoria, costituisce un’anomalia senza precedenti, un monstrum inclassificabile in termini dogmatici poiché refrattario a qualsivoglia inquadramento giuridico. Che il decorso del tempo possa estinguere il reato, segnando la fine del processo, è commendevole; che estingua direttamente il processo, lasciando in vita il reato, è abnorme. Quanto, infine, al novellato istituto della non rinnovabilità dell’istruzione dibattimentale in caso di mutamento della persona fisica del giudice, trattasi dell’epilogo naturale del percorso tracciato dalla sentenza delle Sezioni Unite Bajrami che, d’un sol colpo, ha cancellato i canoni irrinunciabili dell’oralità e dell’immediatezza. Si dice che il sistema accusatorio non esiste più, che le “prove” si formano nella indagine per mano del pm, che il processo inquisitorio è all’ordine del giorno. Orbene, che il processo inquisitorio sia in agonia è vero, ma non costituisce buon approccio intellettuale rassegnarsi all’ordine esistente, accettando come inevitabile ciò che ci viene propinato. Il processo accusatorio, fondato sulla formazione della prova nel contraddittorio, è prossimo alla morte ma così procedendo con lui morirà anche il giusto processo sancito dalla Costituzione. Questo significa che le riforme in materia processuale penale non possono mai essere il frutto di contingenze del momento, men che meno di compromessi al ribasso dettati da istanze di dialettica politica. I nostri riformatori non immaginino il processo “per gli altri”, ma operino pensando di essere loro i stessi i destinatari dell’accertamento penale. Questo approccio, forse, contribuirà a rendere più ragionevoli e meno improvvisati gli interventi sul processo penale, da sempre emblema della democraticità delle istituzioni di uno Stato che si dica di diritto. Riforma del processo penale: l’improcedibilità scontenta tutti di Valentina Stella Il Dubbio, 17 luglio 2021 Si sono tenute ieri le audizioni in Commissione Giustizia alla Camera: critiche anche da Manes, membro della squadra Lattanzi. La sensazione è che il tempo sia poco e i nodi da sciogliere sulla riforma del processo penale ancora tanti, come emerso dalle audizioni tenute oggi in Commissione Giustizia alla Camera. Lunedì il premier Mario Draghi incontrerà Giuseppe Conte e sul tavolo ci sarà la riforma della giustizia. Dall’incontro dipenderà anche il clima con cui si affronteranno le tappe successive: martedì il deposito dei sub-emendamenti e venerdì la riforma in aula. Il lavoro del ministero della Giustizia è stato di dialogo con tutti gli attori interessati dalla riforma - magistratura, avvocatura, accademia - ma sperare di trovare un consenso unanime su una riforma di ampio respiro sarebbe utopistico. Sicuramente la parte più critica resta quella della improcedibilità e non si comprende come mai il Governo abbia optato per questa soluzione, quando in molti, compresi alcuni membri della Commissione ministeriale, sono favorevoli all’altra proposta, quella della prescrizione sostanziale. Lo ha detto a titolo personale lo stesso professore avvocato Vittorio Manes, membro della Commissione Lattanzi, che ha aggiunto: “La proposta inserita negli emendamenti ha cura di precisare che in caso di risarcimento del danno per la parte civile, una volta arrivata l’improcedibilità, il giudice penale può trasmettere gli atti al giudice civile. È una giusta preoccupazione sia per le vittime che per l’imputato, ed andrebbe ulteriormente chiarita, specificando che la condanna in primo grado poi divenuta improcedibile non può lasciar residuare effetti, ad esempio sul piano della confisca o sul piano extrapenale e disciplinare: altrimenti significherebbe lasciar residuare un’ombra di colpevolezza - per citare le parole della Corte Edu - sul soggetto, in spregio della presunzione di innocenza”. Stessi dubbi sono arrivati anche dall’Unione delle Camere Penali Italiane, con il presidente Gian Domenico Caiazza: “La prima proposta della Commissione Lattanzi, modellata - in senso per di più migliorativo - sulla riforma Orlando, sarebbe stata a nostro avviso preferibile, ma l’obiettivo politico è tuttavia inequivocabilmente raggiunto”. In generale, per Caiazza, “dire no all’imputato a vita e difendere il diritto pieno al secondo grado di giudizio sono le priorità dei penalisti italiani che appaiono nel complesso recepite dagli emendamenti governativi”. Per quanto concerne le impugnazioni, accoglie “con soddisfazione l’abbandono dell’idea, da sempre propugnata dalla magistratura italiana ed in un primo momento fatta propria dalla bozza Lattanzi, di trasformare l’appello penale in un giudizio cosiddetto “a critica vincolata”, così trasfigurandolo da giudizio sul fatto a giudizio sull’atto. Debbono però essere stigmatizzate le residue proposte che mirano ad ostacolare l’accesso al giudizio di appello”. Infine “basta con il terrorismo che mette all’ultima fila il diritto fondamentale del cittadino a conoscere la sua sorte in un processo penale entro un tempo predeterminato e ragionevole. Non c’entrano i privilegi o la casta o gli avvocati ricchi”. Critiche anche dall’Anm: per il presidente Giuseppe Santalucia, la nuova prescrizione processuale “non sembra sia un istituto di accelerazione del processo. L’obiettivo di una riduzione dei tempi dei processi è da noi condiviso ma questo non è uno strumento adatto, non accelera ma elimina i processi”. Per il segretario, Salvatore Casciaro, “facendo una prima stima sono oltre 150mila i procedimenti che non rispetterebbero la tempistica” prevista dagli emendamenti governativi, e “sono molti i distretti che sarebbero interessati dal rischio di amputazione di moltissimi procedimenti penali, tra cui Roma e Napoli”. Tra gli auditi anche Armando Spataro, ex procuratore della Repubblica di Torino, che sul tema dell’improcedibilità ha rigettato le critiche di coloro che sostengono che gli imputati rimarrebbero in una condizione indeterminata, perché “essi possono rinunciare all’improcedibilità e chiedere di andare a sentenza”. Si è poi detto contrario alla possibilità che al Parlamento vengano attribuiti i criteri di scelta dell’azione penale, seppur in termini generali. Ha concluso sottolineando che “appare di natura sostanzialmente lessicale la proposta per cui, al termine dell’indagine preliminare, il pm deve chiedere l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna, così come il giudice dell’udienza preliminare deve, per le stesse ragioni, pronunciare sentenza di non luogo a procedere. Questo accade già. La cultura del pubblico ministero è già improntata a ragionare come il giudice”. Intervenuto anche il professore avvocato Franco Coppi che ha tenuto subito a precisare che le sue recenti dichiarazioni sulla riforma sono state distorte e condotte a conclusioni che non erano nel suo spirito. Si riferiva probabilmente all’articolo del Fatto che qualche giorno fa ha titolato “Prescrizione, anche il più celebre degli avvocati boccia Cartabia”. Nulla di tutto questo: “L’altro giorno ho discusso in Cassazione un caso per un reato commesso nel 1986. Il processo è già una pena, figuriamoci uno che dura più di 30 anni. Le lungaggini della giustizia sono un problema terrificante. Si è detto che sono passato dalla parte di Bonafede. La sua proposta di un processo infinito era una follia”. Spigarelli: “La prescrizione processuale ridurrà lo spazio di difesa” di Giulia Merlo Il Domani, 17 luglio 2021 Eppure la prescrizione come costruita dal governo non risolve il grande problema dell’eccessiva durata dei processi, secondo il penalista romano ed ex presidente dell’Unione camere penali italiane, Valerio Spigarelli. Per farlo, bisognerebbe intervenire principalmente sull’obbligatorietà dell’azione penale. Il ddl penale è stato assorbito da una sola questione: la riforma della prescrizione. È su questo che si è concentrata anche gran parte delle audizioni, che continuano a svolgersi in commissione Giustizia alla Camera prima dell’approdo del testo in aula. Eppure la prescrizione come costruita dal governo non risolve il grande problema dell’eccessiva durata dei processi, secondo il penalista romano ed ex presidente dell’Unione camere penali italiane, Valerio Spigarelli. Per farlo, bisognerebbe intervenire principalmente sull’obbligatorietà dell’azione penale. Perché si discute solo di prescrizione? Perché è diventata una bandiera politica, impugnata spargendo retorica e anche informazioni inesatte. Quali sono le inesattezze? Tutti sanno benissimo che i motivi per cui i processi si prescrivono non sono legati alla procedura, basta guardare i dati. Il maggior numero di prescrizioni matura nel corso delle indagini preliminari, quindi prima che si celebri il processo e prima che gli avvocati possano toccare palla. C’è chi obietta, però, che le lungaggini architettate dagli avvocati permettano di far scattare la prescrizione, prima quella sostanziale e oggi quella processuale in appello... È una affermazione fondata sull’ignoranza sia della giurisprudenza che delle norme processuali. Ogni richiesta di legittimo impedimento che riguardi l’assistito o il difensore, ma anche le richieste di ricusazione, provocano una stasi del decorso della prescrizione. Qualche escamotage potrebbe essere trovato con i due anni tassativi previsti per l’appello e l’uno per la cassazione? In appello i tempi sono brevissimi perché si tratta di un grado di giudizio che effettua un controllo di merito su una sentenza già emanata, dunque tendenzialmente si risolve in una sola udienza di discussione, che al massimo può essere dilazionata di più udienze se particolarmente gravosa. In Cassazione si tratta di un falso problema perché viene dichiarato inammissibile più del 60 per cento dei ricorsi presentati e quelli ammessi vengono smaltiti in un tempo inferiore agli otto mesi dettati dai desideri dell’Ue. Nessuna possibilità di allungamento dei tempi, quindi? L’unico che potrebbe portare all’allungamento dei tempi dell’appello è il caso della richiesta di rinnovazione del dibattimento. Tuttavia si tratta di una richiesta accolta in via eccezionale e solo se ritenuta indispensabile. In questo caso, in appello possono essere sentiti nuovamente alcuni testimoni, si può rinnovare una perizia e dunque servono più udienze. Tutto, però, passa per il vaglio del giudice. Eppure la prescrizione in alcuni casi scatta e i processi in Italia durano molto più che nel resto d’Europa. Quali cause ha questo allungamento dei tempi? I tempi dei processi sono determinati da due diversi aspetti. Il primo sono le carenze della macchina organizzativa, basti pensare che a Roma il tribunale penale e la corte d’appello distano 50 metri ma un fascicolo per passare da un palazzo all’altro impiega un anno. Il secondo è un problema di carico generale, causato dall’obbligatorietà dell’azione penale. Il ddl penale, preso nel suo complesso, affronta questi aspetti? La commissione Lattanzi li ha messi sul tavolo. Ha rilevato che non tutte le corti d’appello hanno problemi di smistamento: comparando corti simili per dimensioni, emerge che alcune hanno tempi più che accettabili e altre no e questo dimostra che il problema è la cattiva organizzazione. Quanto all’obbligatorietà dell’azione penale, per sturare un sistema intasato è necessario un filtro a monte che ingolfi di meno la macchina giudiziaria e si era immaginato di introdurre forme di discrezionalità controllata. Poi però non sono confluite nel testo definitivo... No, per questo penso che il ddl penale sia un’occasione mancata, che anzi solleva in me alcuni timori. Non ultimo quello che, a causa della prescrizione processuale nel grado d’appello, diventerà ancora più raro e difficile vedere accolta la richiesta di rinnovare il dibattimento. Teme una contrazione del diritto di difesa? Sono pronto a scommettere che la tagliola dei due anni in appello si tradurrà in una giurisprudenza restrittiva per la difesa, con una riduzione ulteriore dei casi di rinnovazione dibattimentale. In pochi anni, la prescrizione è cambiata tre volte: riforma Orlando, riforma Bonafede e ora quella di Cartabia. Lei quale preferisce? Piu razionale era quella di Orlando perché manteneva l’istituto della prescrizione sostanziale, a cui inseriva dei periodi di sospensione. Sia pure forse troppo ampi. Quella attuale non la convince, quindi? Quella attuale è una sorta di riforma Orlando, camuffata per motivi politici perché bisognava permettere ai Cinque stelle di dire che la prescrizione rimane stoppata dopo il primo grado. Il risultato è un ibrido a due teste, con la prescrizione sia sostanziale che processuale che - temo - provocherà grossi problemi. Per esempio? Se si ritiene che la norma sulla prescrizione in appello e in cassazione sia di tipo processuale, allora vale il principio del “tempus regit actum”, ovvero che l’atto è regolato dalla legge vigente. Risultato: l’istituto processuale si applica anche ai procedimenti passati e anche nel caso in cui ciò sia sfavorevole. Il tutto potrebbe produrre ricorsi alla Corte costituzionale, che potrebbe dover valutare se la prescrizione, pur essendo processuale, provochi effetti sostanziali e quindi non valga il “tempus segit actum”. Come si sarebbe potuto evitare questo problema? Nel modo più semplice per l’ordinamento ma impossibile per la politica: ripristinando la prescrizione sostanziale e calibrando le sospensioni come faceva la legge Orlando. Tra i problemi della riforma Cartabia, qualcuno sottolinea anche il fatto che, in astratto, il processo di primo grado potrebbe svolgersi in tempi rapidissimi ma poi potrebbe prescriversi comunque per colpa di appello e cassazione, anche prima del termine di prescrizione sostanziale che si interrompe col primo grado... Ma potrebbe succedere anche il contrario. Prendiamo un reato con un tempo di prescrizione molto lungo come l’estorsione: la sentenza di primo grado arriva dopo 10 anni meno un giorno e quindi la prescrizione non scatta, così ai 10 anni se ne sommano altri tre tra appello e cassazione. Quale sarebbe la soluzione migliore in assoluto, secondo lei? Partendo dalla riforma Orlando, si sarebbe dovuto calcolare quale è la congrua durata di un processo, calcolata però a partire dalle indagini preliminari e fino alla sentenza passata in giudicato. L’errore è stato quello di dividere e fissare i tempi per fasi processuali. Prendendo il ddl penale nel suo complesso, si ridurrà la durata dei processi? Non credo. Per me esiste un errore di fondo: questo governo ripete che sta facendo riforme epocali, allora questo era il momento di una riforma costituzionale. L’eccessiva durata dei processi è causata dall’obbligatorietà dell’azione penale e più in generale da uno squilibrio del sistema processuale, che si possono correggere solo mettendo mando alla Costituzione. Le si può obiettare che non ci sono i tempi per come chiesti dall’Ue... Io credo che, se fosse esistita la stessa determinazione politica che Mario Draghi ha usato su altre questioni, una soluzione come quella della riforma costituzionale avrebbe risolto una volta per tutte il problema dei tempi della giustizia. E l’Europa non si sarebbe certo messa di traverso, bloccando i fondi del Recovery. Che cosa imputa a questo governo, quindi? La mancanza di coraggio nel seguire le indicazioni corrette che la commissione Lattanzi aveva dato. Un coraggio politico che temo mancherà anche su un altro aspetto: per far ripartire sistema come quello della giustizia, bisogna prima svuotarlo e ripulirlo. In due parole, servirebbero un’amnistia e anche un indulto, viste le condizioni delle nostre carceri. Ma dubito che si faranno. Tribunali carenti sui diritti delle donne. Mancano formazione e strutture di Marina Della Croce Il Manifesto, 17 luglio 2021 Presentato il rapporto su violenza di genere e giustizia. “La Convenzione di Istanbul, che prescrive di rendere concreto il diritto delle vittime alla protezione, resta in larga parte ancora disattesa” in Italia, nonostante molto sia stato fatto e alcuni tribunali presentino best practice da diffondere. Questa è una delle conclusioni del rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria approvato dalla commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio presentato ieri nel corso di un convegno a Palazzo Giustiniani. L’indagine è stata svolta somministrando attraverso un’applicazione informatica appositi questionari a procure, tribunali ordinari, di sorveglianza, Csm, scuola superiore della magistratura, consiglio nazionale forense e ordini degli psicologi focalizzando l’attenzione sul triennio 2016-2018. In ambito giudiziario, la conclusione, “serve molta più formazione e specializzazione per riconoscere e con affrontare con efficacia la violenza contro le donne, sanzionarla, prevenire escalation, sostenere le donne che denunciano”. Quanto alle procure, la ricerca ha indagato la specializzazione dei pubblici ministeri sulla violenza di genere e l’organizzazione degli uffici. Su un totale di 2045 magistrati requirenti, il numero di quelli assegnati a trattare, nel 2018, la materia specializzata della violenza di genere e domestica è pari a 455, il 22% del totale. Tuttavia non necessariamente i magistrati specializzati si occupano soltanto di violenza contro le donne. Nel 90% delle procure esistono dunque magistrati specializzati, ma i provvedimenti per violenza non vengono per forza affidati a loro. Nel complesso, solo nel 12% delle procure emerge attenzione ai temi della violenza e un elevato livello di consapevolezza. Per quanto riguarda i tribunali ordinari “nel 95% dei casi non vengono quantificati casi di violenza domestica emersi nei casi di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili di matrimonio e in quelle sui provvedimenti riguardo ai figli, come pure non sono quantificate le cause in cui il giudice dispone una Ctu nella materia. Ciò attesta una sostanziale sottovalutazione della violenza contro le donne”, è l’accusa del rapporto. Sotto i riflettori anche i tribunali di sorveglianza, ovvero gli “uffici che sovrintendono all’esecuzione penale e che, per esempio, concedono i benefici ai condannati, dal permesso premio alla semilibertà: è chiaro che l’adozione di queste misure alternative al carcere, nei casi di violenza domestica, non possono prescindere dal fondato accertamento di non mettere a rischio le donne e i figli offesi dal reato - sottolinea il rapporto - Soltanto in un numero limitatissimo di tribunali di sorveglianza si è rilevata la buona prassi di coinvolgere anche le vittime nell’istruttoria finalizzata alla concessione dei benefici penitenziari”. Esistono poi buone pratiche. Alcuni tribunali “verificano i rapporti con la vittima anche successivi alla condanna” (Torino); “valutano anche il contesto familiare e sociale nel quale il condannato dovrebbe rientrare” (Roma); “ascoltano anche il congiunto (coniuge) ove la difesa del condannato asserisca il completo superamento della conflittualità familiare” (Trento); “valutano le risultanze circa i rapporti con la vittima” (Brescia); “valutano l’attuale rapporto con la vittima del reato e anche il luogo in cui abita la vittima stessa” (Genova). Insomma qualche luce e tante ombre. “Uno dei problemi fondamentali - ha sottolineato la senatrice del Pd Valeria Valente, presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, nonché di ogni forma di violenza di genere - resta che le cause civili di separazione e quelle penali per violenza domestica non dialogano, per cui le donne vittime di abusi possono addirittura vedersi portare via i figli con la forza pubblica, sulla base di consulenze tecniche d’ufficio che non leggono la violenza. Leggere correttamente la violenza e non derubricarla a conflitto significa, per esempio, far scattare la Convenzione di Istanbul che dispone l’allontanamento dei minori dalla violenza stessa e quindi dal padre maltrattante”. “Comprendiamo quanto ci dobbiamo impegnare per sanzionare comportamenti illeciti e prevenire le violenze. Il quadro che ci avete presentato è molto critico, anche se non mancano isole felici o più accettabili”, ha detto il primo presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio. Per Curzio l’iniziativa al Senato è un’occasione “imperdibile per un confronto continuo e una comune crescita culturale”. “Per ciò che è nelle sue competenze - ha proseguito - il Consiglio superiore della magistratura farà tesoro particolarmente con riguardo ai nodi critici, delle indicazioni che emergono dal documento, per supportare e implementare l’esportazione di adeguati modelli organizzativi e pratiche efficienti”. Omicidio stradale, in caso di pena di 6 mesi legittima la sospensione della patente per 2 anni di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 17 luglio 2021 Non necessita di motivazione rafforzata la decisione del giudice di applicare la sospensione della patente in luogo della revoca. In caso di patteggiamento per omicidio stradale - non aggravato e attenuato dalla riparazione del danno - il condannato non può contestare la sanzione accessoria della sospensione della patente per due anni, sostenendo che sarebbe spropositata a fronte di una condanna a sei mesi per aver commesso la fattispecie meno grave del comma 7 dell’articolo 590bis del Codice penale. Secondo la sentenza n. 27476/2021 della Cassazione penale il giudice ha correttamente motivato la durata della sospensione riferendosi all’articolo 133 del Codice penale che tiene conto della natura del reato e di tutti gli altri elementi di fatto che lo abbiano determinato. Ma soprattutto - tenuto conto dell’articolo 222 del Codice della strada che prevede in caso di imputazione per omicidio stradale o lesioni colpose gravi una sospensione minima di quattro anni - non risulta che il computo non abbia tenuto conto della riduzione dovuta al patteggiamento applicando per due anni la misura. Inoltre, l’applicazione della sospensione è possibilità aperta anche a seguito della decisione della Consulta che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma del Codice della strada nella parte che imponeva invece l’automatica revoca della patente in caso di omicidio o lesioni colpose stradali senza distinguere tra ipotesi aggravate e quelle meno gravi. Quindi nel caso di specie il giudice stabilendo la sospensione ha fatto corretto esercizio della gradazione della sanzione accessoria nell’ambito del patteggiamento senza difetto di motivazione. Al contrario, fa rilevare la Cassazione come in caso di revoca disposta a seguito di ipotesi non aggravate di omicidio o lesioni personali stradali il giudice è chiamato fornire una motivazione più penetrante, cioè rafforzata. Santa Maria Capua Vetere. Hanno denunciato le torture, trasferiti a 700km dalle famiglie di Viviana Lanza Il Riformista, 17 luglio 2021 “È una seconda punizione”. Sulla visita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere la ministra della Giustizia Marta Cartabia riferirà a Camera e Senato il 21 luglio prossimo, mentre il 3 agosto il garante regionale Samuele Ciambriello incontrerà il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Bernardo Petralia, per discutere dei trasferimenti di 46 detenuti allontanati dal carcere sammaritano dopo aver denunciato i pestaggi e le umiliazioni subiti la sera del 6 aprile 2020 da parte di agenti della penitenziaria. Il tema carcere resta, dunque, sotto i riflettori. Da via Arenula si apprende che la ministra riferirà in Aula sui fatti di Santa Maria alla luce della visita nel carcere casertano fatta mercoledì insieme al premier Mario Draghi. È un nuovo segnale di come il Governo intenda affrontare la questione senza perdere tempo prezioso. Un segnale che l’Osservatorio Carcere dell’Unione Camere penali italiane, guidato dall’avvocato Riccardo Polidoro, ha accolto con fiducia e speranza. “E la speranza e la fiducia - si legge in una nota dell’Osservatorio - aumentano se ripensiamo alle infelici affermazioni sin dall’inizio diffuse dall’allora capo del Dap e dall’allora ministro Bonafede”. “Adesso ci attendiamo che alle parole seguano i fatti perché il carcere e l’esecuzione penale nel suo complesso siano plasmate in maniera efficace e definitiva verso un sistema rispettoso della dignità, dei diritti fondamentali e realmente teso alla risocializzazione del reo - si legge ancora -. È giunto il momento di una riforma complessiva. Occorre con forza realizzare non nuove carceri ma un carcere nuovo, cioè rinnovato quanto all’assistenza, al trattamento, alla produttività, all’affettività, alla formazione, per renderlo finalmente conforme alla Costituzione”. Intanto a Santa Maria Capua Vetere il tema centrale in questo momento sono le sorti dei 46 detenuti trasferiti. Il più lontano è recluso a Palermo, a 735 chilometri di distanza dalla Campania. Il più vicino, si fa per dire, a Rieti: 258 chilometri. Il loro trasferimento è stato voluto dalla Procura sammaritana, che coordina le indagini sulle violenze di un anno fa, proprio per tutelarli dal clamore e da possibili tensioni con gli agenti all’interno del carcere. “Tuttavia, la scelta del Dap di distribuire su di un territorio molto vasto gli spostamenti in questione rischia di assumere il carattere di una ritorsione più che di una protezione” afferma il garante regionale Samuele Ciambriello che, insieme al garante di Napoli Pietro Ioia e al garante di Caserta Emanuela Belcuore, ha incontrato ieri il capo della Procura di Santa Maria Capua Vetere, Maria Antonietta Troncone. Il procuratore ha confermato che il trasferimento è stato chiesto dalla Procura per quei reclusi che hanno reso dichiarazioni con l’obiettivo di tutelarli e di rendere più serena la loro permanenza in carcere. L’indagine è ancora in corso e dei 293 agenti della polizia penitenziaria, che secondo la ricostruzione di quel che accadde il 6 aprile 2020 avrebbero partecipato ai pestaggi piombando in tenuta antisommossa nel reparto Nilo del carcere sammaritano, circa cento sono stati identificati e indagati mentre sono ancora moltissimi quelli sconosciuti agli inquirenti; inoltre si tratta di agenti impiegati in diversi istituti di pena campani. Di qui la decisione di trasferire i detenuti vittime delle violenze: ma perché in strutture così lontane, distanti 400 o 700 chilometri che diventano irraggiungibili per le famiglie più indigenti? Il garante regionale ha girato questa domanda al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: “La scelta di trasferimenti in un territorio molto vasto (da San Gimignano a Firenze, da Palmi o Vibo Valentia a Civitavecchia, Rieti, Spoleto, Perugia, o ancora Prato, Sollicciano, Palermo, Modena) rischia - dice Ciambriello - di diventare, più che una forma di tutela, una sorta di punizione per detenuti che già hanno subìto un trattamento orribile, una sorta di isolamento nell’isolamento”. Per i garanti Ciambriello, Belcuore e Ioia “questi reclusi devono essere ospitati in istituti più vicini alla Campania in modo da garantire la territorialità della pena e da agevolare i familiari negli spostamenti e gli avvocati nella loro difesa”. “Il mantenimento delle relazioni interpersonali di questi detenuti e un clima privo di tensioni nell’ambito detentivo - concludono i garanti - risultano per noi imprescindibili fattori di protezione per attutire il clamore generato da questa vicenda”. Santa Maria Capua Vetere. Violenze in carcere, i parenti: “Inferno anche per noi” Corriere del Mezzogiorno, 17 luglio 2021 Parlano i genitori dei detenuti. La garante Belcuore: “Al carcere militare di Santa Maria dove sono reclusi gli agenti funziona tutto, nel penitenziario niente affatto”. Il Riesame conferma tre misure restrittive per gli agenti accusati. “Da quando sono usciti i video delle violenze al carcere di Santa Maria mia moglie non vive più, prende psicofarmaci. Nostro figlio ci ha detto di non essere stato picchiato il 6 aprile, ma non ci crediamo. Forse aveva e ha ancora paura”. C’erano anche i genitori di alcuni detenuti del Reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), oggi, alla conferenza stampa della garante provinciale dei detenuti Emanuela Belcuore nella sede della Provincia di Caserta. L’unico miglioramento, ha aggiunto l’uomo, “è la visita di una psicologa, dopo due anni che mio figlio è in cella finalmente è arrivato un psicologo che ha voluto ascoltarlo”. “Ci vuole più attenzione per i detenuti - incalza l’anziana madre di un recluso - anche perché sono esseri umani. Al carcere di Santa Maria Capua Vetere non funziona nulla. Anche le mail inviate dagli avvocati vengono lette sempre in ritardo”. La Belcuore durante l’incontro ha parlato dei disagi che ancora stanno vivendo i carcerati dopo gli arresti scattati lo scorso 28 giugno in relazione ai pestaggi del 6 aprile 2020. “Il giorno prima dell’arrivo di Draghi e della Cartabia - spiega - è stato detto ai detenuti di pulire le celle, i muri e i battiscopa, poi il giorno dopo la visita è saltata la corrente, così Internet, rendendo più difficile dialogare con i detenuti. E ciò sta avvenendo dal 28 giugno”. Secondo quanto rende noto l’anziana madre di uno dei carcerati del Nilo, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere “non funziona nulla: anche le mail inviate dagli avvocati vengono lette sempre in ritardo”. La Belcuore, divenuta garante dei detenuti nel giugno 2020, chiede più figure professionali per il carcere, “per dar concretezza al principio della rieducazione della pena”, e ritiene che la visita di Draghi e della Cartabia “non è stata una passerella, ma un momento molto importante per provare a cambiare il sistema carcerario; la loro mi è sembrata una reale volontà di intervenire. Io non sono stata invitata a parlare - prosegue Belcuore - nonostante fossi la più competente per la situazione di Santa Maria Capua Vetere, né è stata ascoltata una delegazione di detenuti, ma non fa nulla; ciò che conta è rendere il carcere più umano”. Nei giorni scorsi sono stati trasferiti dal carcere sammaritano in altre strutture 49 detenuti del reparto Nilo che avevano denunciato i pestaggi. La Belcuore che annuncia un incontro con il capo del Dap Petralia il tre agosto, spiega che “i detenuti rimasti, che sono stati pestati ma non hanno denunciato per paura, ora stanno comunque più tranquilli, visto che le guardie sono cambiate e possono ricevere le visite dei familiari, al contrario dei detenuti trasferiti. Un recluso mi ha detto: ho fatto bene a non denunciare, altrimenti mi trasferivano”. La garante racconta poi di aver visitato anche il carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, dove sono reclusi alcuni agenti penitenziari arrestati per i pestaggi. “I poliziotti incontrati - dice - mi hanno detto di aver agito il 6 aprile 2020 per paura di sottrarsi agli ordini ricevuti. Mi sono sembrati consapevoli di ciò che di grave hanno commesso”. La garante dice poi che nel carcere militare funziona tutto, c’è una palestra, ampi spazi, “così dovrebbe essere in tutte le carceri”. Intanto continuano a reggere, davanti ai giudici del Tribunale del Riesame di Napoli, le ipotesi d’accusa formulate dalla Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere in relazione alle violenze ai danni di detenuti avvenute il 6 aprile 2020 nel carcere sammaritano. Proseguono con cadenza quotidiana, e andranno avanti ancora per giorni, le udienze dei 52 agenti della penitenziaria e funzionari raggiunti dalle misure cautelari emesse il 28 giugno scorso dal Gip Sergio Enea. Oggi sono state confermate tre misure restrittive, mentre altre due sono state revocate per mancanza di esigenze cautelari; per tutte le posizioni esaminate sono stati comunque ritenuti sussistenti i gravi indizi di colpevolezza. Da lunedì dovrebbero iniziare a essere discusse anche le posizioni degli indagati raggiunti da misure interdittive, come il provveditore (sospeso) alle carceri campane Antonio Fullone, ritenuto dalla Procura il regista della “perquisizione straordinaria” trasformatasi, come evidenziò il giudice, in “un’orribile mattanza”. Nei giorni scorsi erano state confermate altre misure cautelari. Salerno. Rapper suicida nel carcere di Fuorni, aperto nuovo fascicolo di Verdiana Sasso occhionotizie.it, 17 luglio 2021 Il pm ha chiesto l’archiviazione in merito all’accusa ipotizzata poco dopo il decesso del 23enne residente a Scafati. La svolta è stata registrata dopo le perquisizioni disposte dalla Procura negli uffici dell’istituto di via del Tonnazzo. È finita sotto la lente d’ingrandimento la disposizione di servizio datata il 24 luglio, due giorni prima della morte del rapper con cui si dispone la misura della “grandissima sorveglianza”. Si tratta di un regime di sicurezza speciale resosi necessario sulla base degli episodi e delle forme di protesta intraprese dal detenuto. Il 23enne, infatti, aveva iniziato lo sciopero della fame e della sete sostenendo di non tollerare più il regime carcerario. La disposizione di servizio, secondo l’ipotesi del magistrato, “non fu mai eseguita non risultando annotata nel registro di reparto di detenzione né il 24 luglio, né nei giorni successivi: la mancata esecuzione della disposizione inoltre è stata confermata anche dagli ufficiali e dagli agenti della polizia penitenziaria di turno che hanno dichiarato di non avere mai ricevuto tale disposizione, di non esserne mai venuti a conoscenza e, di conseguenza, di non avervi dato esecuzione”, si legge nelle carte redatte dalla Procura. Il provvedimento sarebbe stato materialmente redatto dopo il decesso. Parma. Ha il cancro, gli hanno già tolto un polmone, ma gli negano il differimento pena di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 luglio 2021 Era entrato con le sue gambe nel carcere di Parma, ora non deambula più. Ha un tumore grave che gli ha comportato l’asportazione di un polmone. Ora anche l’altro è compromesso. Soffre di dolori atroci. Ha chiesto il differimento pena per potersi curare, ma è stato rigettato dalla magistratura di sorveglianza. C’è il problema dei pestaggi in carcere che Il Dubbio ha sempre affrontato, ma c’è anche una violenza istituzionale più subdola ma molto più grave. Una tortura lenta e duratura. Questa può avvenire grazie agli stessi mass media che ora cavalcano i pestaggi, che però prima avevano cavalcato le polemiche contro le cosiddette “scarcerazioni”. Che poi scarcerazioni non erano, ma differimento pena per gravi motivi di salute. Ora, a causa di quelle polemiche avanzate anche da chi ora si erige falsamente per i diritti dei detenuti, c’è stato un irrigidimento da parte dei magistrati. Soprattutto nei confronti dei detenuti reclusi per motivi legati alla criminalità organizzata. Ed ecco il risultato. Parliamo di Vito Bigione, classe 1952, di Mazara del Vallo, che lamenta un ulteriore peggioramento generale. Dice di non riuscire più a deambulare, nemmeno per brevi tratti. Denuncia, tramite i famigliari, di non essere ancora stato messo in grado di effettuare la Tac come disposto anche dal magistrato di sorveglianza nel rigetto all’istanza di differimento pena. Dolorante e scoraggiato dalla mancanza di cure, minaccia il suicidio, anche perché asserisce di non ricevere risposte dal dirigente sanitario del carcere. La compagna vive a Mazara del Vallo e non lo vede ‘ in presenza’ da quasi 3 anni, non avendo possibilità economica per andare fino a Parma. Una storia, per chi conosce il sistema penitenziario, di ordinaria amministrazione. Un trattamento, di fatto, disumano e degradante che attraversano diverse carceri d’Italia. In particolar modo proprio quello di Parma, dove c’è un centro clinico che come una calamita attrae diversi casi di detenuti con patologie gravi provenienti da vari penitenziari della penisola. Ma non ce la fa più. Lì è detenuto, appunto, Vito Bigione. Dall’istanza dove si chiede il differimento pena, viene descritto l’impressionante quadro clinico che con il tempo è peggiorato. Un polmone solo a causa del cancro e si sta compromettendo l’unico rimasto. Si legge che il detenuto versa allo stato in gravi condizioni di salute con gravi crisi respiratorie. Assume una terapia antalgica con dosaggi importanti di antidolorifici ma senza netto beneficio. Prima ancora, ed esattamente nel 2018, giunse al carcere romano di Rebibbia dove il medico di reparto aveva certificato, alla luce delle pluripatologie di cui il paziente è affetto, suscettibili di acuto peggioramento e la necessità di frequenti controlli medici interni ed esterni all’Istituto, che lo stesso è incompatibile con il regime carcerario. Ed aveva ragione, perché non ha fatto altro che peggiorare, almeno da quello che si evince nella documentazione prodotta. Non solo. Già nel gennaio del 2019, come si evince dalla cartella clinica, il personale medico del carcere di Parma ne aveva accertato la incompatibilità. Alle stesse conclusioni è pervenuta la specialista in Medicina legale presso l’Istituto di Medicina legale di Parma, nominata consulente di parte allo scopo di accertare la compatibilità delle condizioni di salute del Bigione con il regime carcerario. La specialista, esaminata la documentazione sanitaria e sottoponendolo a dicembre 2020 a visita medica, ha concluso che il complesso pluri patologico da cui è affetto Bigione, necessita di “numerose e frequenti visite specialistiche e indagini laboratoristiche- strumentali che comportano accessi presso il nosocomio cittadino alla luce dell’impossibilità di essere effettuate presso il carcere”. Come se non bastasse, alle varie gravi patologie si associa un invalidante dolore neuropatico a causa dell’operazione chirurgica che gli ha asportato il polmone. Il referto della specialista conclude ribadendo che attualmente le condizioni psicofisiche del detenuto Bigione sono in continuo peggioramento. In sostanza risulta evidente che ad oggi le condizioni di salute siano nettamente peggiorate ed è “innegabile - si legge nell’istanza - che le stesse siano incompatibili con il regime carcerario ciò avuto riguardo sia alla inadeguatezza del servizio sanitario penitenziario ove trovasi ristretto, rispetto al caso concreto, sia anche alla insalubrità dell’ambiente, nonché alla impossibilità per il Bigione di sottoporsi alle particolari cure del caso ed a trattamenti più efficaci, circostanze queste che potenzialmente ne aggravano la malattia”. Ma nulla, istanza rigettata. Può rimanere in carcere. Evidentemente il diritto alla salute è scavalcato dal discorso della punizione carcerocentrica senza se e senza ma. La violenza istituzionale può andare avanti. Modena. A dirigere Sant’Anna un’altra “supplente” che già comanda in altre due carceri di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 17 luglio 2021 Anna Albano responsabile di Piacenza, Vicenza e Modena Camere Penali: “Situazione preoccupante per i detenuti”. Non c’è pace per il carcere di Modena. La direttrice dell’istituto di Ragusa, che ad interim dirigeva anche Sant’Anna dall’inizio del 2020 - quindi da pochi mesi prima della rivolta finita con le distruzioni e nove morti - è stata trasferita in altra sede. In attesa da anni di una nomina ufficiale del Ministero, ora a Sant’Anna ha preso il suo posto un’altra direttrice dimezzata, anzi “tripartita”. Si tratta dell’attuale direttrice delle carceri di Piacenza e di Vicenza. Una situazione che, fanno notare gli avvocati, potrebbe avere gravi ripercussioni sulle pratiche dei detenuti. L’impegno è stato massimo ma è francamente difficile e insidioso seguire due carceri, soprattutto se lontane tra loro. Per più di due anni Giovanna Maltese Puccia si è divisa tra Ragusa e Modena. La sua presenza fisica a Sant’Anna è stata però limitata, nonostante la sua disponibilità. Restando a capo della casa circondariale siciliana (sua regione d’origine), la Maltese Puccio ha seguito anche Sant’Anna da prima della rivolta. I suoi i contatti con la città sono stati estremamente rari e sporadici, soprattutto dopo quell’evento tragico, e non ha mai rilasciato dichiarazioni o interviste ai media e alla stampa locale. Ha però partecipato ad alcuni convegni, ultimo dei quali quello promosso in aprile da Rete-Studio-Carcere di Modena dedicato alla formazione e alla ricerca del lavoro dopo la reclusione. Si sapeva che la sua presenza a Modena sarebbe terminata presto. Per il suo fine incarico, si era parlato degli inizi di giugno, ma ad alcuni incontri con delegazioni cittadine in quel periodo era ancora presente. Poi non si è saputo più nulla, se non che era stata trasferita a Catania per dirigere quel carcere. Non si sapeva chi sarebbe stato incaricato a sostituirla. Dal Ministero di Grazia e Giustizia non è arrivata alcuna indicazione pubblica. Solo ora si è saputo della nuova nomina, sempre ad interim. Non ci sarà dunque un direttore stabile che seguirà solo Sant’Anna. È invece stata nominata una funzionaria già oberata di lavoro: Anna Albano. Dirige infatti già due carceri, tra l’altro distanti: Piacenza e Vicenza. E Modena diventa il suo terzo istituto. Come sia possibile svolgere le proprie mansioni al meglio in questa condizione, è difficile da immaginare. Soprattutto seguendo un carcere come Sant’Anna che ha gravi problemi. Una casa circondariale in sovraffollamento cronico prima della rivolta (dati recenti non se ne hanno). Carenza di personale: ad esempio, gli educatori sono 5 su 8 previsti e uno di questi sta andando in pensione. Infine, le difficoltà del dopo rivolta considerando le devastazioni e l’incendio appiccato dai rivoltosi e le inchieste in corso in Procura su quanto è avvenuto l’8 marzo 2020, comprese le accuse di presunti pestaggi e abusi commessi su detenuti inermi. La prospettiva che la direttrice Albano debba seguire tre carceri allo stesso tempo, nonostante tutto l’impegno personale possibile, suscita comprensibili perplessità e timori tra i detenuti e i loro difensori, soprattutto per quanto riguarda i tempi di risposta alle domande per ottenere un lavoro esterno o una liberazione anticipata. Di queste preoccupazioni si fa carico il direttivo e l’Osservatorio Carcere delle Camere Penali di Modena “Perroux”. Scrivono i penalisti modenesi: “Esprimiamo forte preoccupazione circa la situazione deficitaria che affliggerebbe attualmente la casa circondariale di Modena. Alla grave carenza di organico dell’area educativa, si aggiunge oggi la mancanza di un vertice dirigenziale stabile”. “Pur non dubitando in alcun modo della capacità e della professionalità di quest’ultima, è indubbio che la mancanza di una figura dirigenziale fissa rischi di ritardare gravemente il disbrigo delle istanze e delle domande provenienti dalla popolazione detenuta, con conseguente pregiudizio dei diritti e delle facoltà ad essa riservati”. “Da troppo tempo Sant’Anna non ha un riferimento permanente, essendosi avvicendati in tempi rapidi diversi direttori”, concludono le Camere Penali. Macerata. Parrucchiere tra i detenuti “Così insegno il mestiere” di Gianfilippo Centanni Il Resto del Carlino, 17 luglio 2021 Il cingolano Violini protagonista di un percorso formativo a Montacuto “Grande interesse tra i reclusi, è stata un’esperienza molto gratificante”. “Preziosa, gratificante, indimenticabile, unica nel suo genere: così - precisa Gian Roberto Violini, parrucchiere cingolano, salone ai Viali Valentini, intensa attività professionale in Italia e all’estero anche in prestigiosi concorsi - posso definire la mia esperienza di docente al corso di formazione per aspiranti parrucchieri tenuto nella casa circondariale anconetana di Montacuto”. Come si è realizzata la partecipazione all’iniziativa? “L’organizzazione è stata curata dalla Moderna officina dell’acconciatore (Moa) che unitamente al Centro provinciale per l’istruzione degli adulti (Cpia), ha programmato lo svolgimento d’un percorso formativo rivolto ai reclusi nell’istituto penitenziario di cui è stata molto apprezzata la collaborazione. Sono socio dell’Anam Italia per cui effettuo fasi d’insegnamento e, quando la Moa di Ancona mi ha proposto di dedicarlo a questo particolare corso, ho volentieri accettato l’incarico: finora mai lo avevo espletato in una struttura carceraria”. Quali sono state l’adesione al corso e la sua articolazione? “Ha coinvolto diciotto reclusi, subito molto entusiasti e interessati per l’opportunità che gli era stata offerta. Vista la serietà con cui hanno seguìto le lezioni, chissà che, in futuro, qualcuno di loro non decida d’intraprendere la professione di parrucchiere. Il programma si è sviluppato in dodici giornate, dedicate al taglio uomo-donna: lezioni al mattino dalle 9 alle 11.30 e pomeridiane dalle 13 alle 15.30. Rispettando in pieno la puntualità, tutti si sono impegnati al massimo. Sinceramente mai avrei pensato che fossero tanto e così coinvolti, ho ammirato la serietà con cui si applicavano: prendevano appunti, hanno seguito attentamente ogni fase con un’attenzione costante”. Facevano domande? “Tante. Hanno dimostrato una disponibilità da cui ho ricevuto una soddisfazione personale che sotto il profilo morale mi ha veramente arricchito”. Erano tutti inesperti del taglio? “Sì, ma notando che uno aveva dimostrato subito una po’ di abilità, gli ho chiesto dove e come l’avesse acquisita”. La risposta? “Mi ha detto che aveva imparato qualcosa in casa propria: facendo i capelli alla moglie”. In sintesi, quali sensazioni ha provato? “Devo ammettere che mai le particolari condizioni ambientali mi hanno condizionato: anzi, forse ne ho avuto uno stimolo diverso rispetto alle sedi degli altri corsi. Inoltre, sempre discreta e attenta è stata la presenza del personale addetto alla sorveglianza. La tranquillità che ha veramente caratterizzato ogni momento delle lezioni, è stata una delle componenti più importanti che hanno propiziato il rendimento dei frequentanti e la piena riuscita dell’iniziativa”. Se fosse ancora interpellato per lo stesso corso in un’altra casa circondariale, accetterebbe l’incarico? “Certamente!”. Difendere la libertà di tutti. Il governo e l’ipotesi di Green Pass obbligatorio di Francesco Bei La Repubblica, 17 luglio 2021 La porta per la libertà è il vaccino, ma la chiave per spalancare quella porta è il Green Pass. Il governo, preso in contropiede da quello che sembra l’inizio di una quarta ondata, lo renderà obbligatorio a partire da agosto. È il lasciapassare per restare aperti, per non perdere tutte quelle piccole e grandi possibilità che ci siamo pian piano concessi - uscire la sera, andare al cinema, valicare i confini regionali e nazionali, entrare in un locale - e che ci sembrano restituire finalmente gusto alla vita dopo un anno di privazioni. Ce le siamo meritate queste libertà e guai a chi ce le vuole togliere con la suprema impostura della dittatura sanitaria, ultimo rifugio di una destra che finora le ha sbagliate tutte. Una destra “unfit” quella italiana, che è stata paladina della lotta contro le mascherine (qualcuno ricorda i convegni no mask persino in Parlamento?), poi contro i lockdown che hanno fatto abbassare i contagi, contro la chiusura delle discoteche la scorsa estate, per le riaperture scriteriate quando la morte mieteva ancora ogni giorno decine di vittime e infine contro i vaccini e l’obbligo di Green Pass. Una destra di leader non ancora vaccinati, i cui giornali sono sovente cassa di risonanza di ogni schiuma complottista, di ogni panzana trovata nella Rete contro la campagna di inoculazione di massa, una destra i cui editorialisti possono scrivere impuniti che “vaccinare i ragazzi è un crimine” mentre la comunità degli scienziati spiega ogni giorno che la variante Delta corre soprattutto tra i più giovani. Una destra, questo è il paradosso più grande, che per tutelare economicamente la sua constituency elettorale dovrebbe essere la prima sostenitrice del Green Pass obbligatorio, visto che se vogliamo tenere ancora tutto aperto (eccome se lo vogliamo) l’unico modo è far sì che i non vaccinati siano messi in condizione di non fare del male agli altri. Perché purtroppo bisogna dirlo in maniera chiara. Si sta avvicinando il momento in cui tutti quelli che volevano essere vaccinati hanno trovato una fiala disponibile. I non vaccinati, a quel punto, lo saranno per loro scelta. Le liste di attesa sono infatti quasi esaurite e fa male leggere sul report di ieri dell’Istituto Superiore di Sanità che ci sono ancora 2 milioni e mezzo di cittadini over 60 renitenti alla puntura. I più giovani hanno la giustificazione dell’età e in fondo il Covid per loro è meno grave. Ma questi anziani no vax chi sono? Perché non hanno sentito la responsabilità, proteggendo loro stessi, di proteggere la comunità? La situazione sta sfuggendo di mano e l’analisi statistica ci aiuta a vedere avanti di qualche settimana. L’Rt è in crescita e passa dallo 0,66 della settimana scorsa allo 0,91 di questa settimana. Silvio Brusaferro, presidente dell’Iss, ha spiegato che è inutile farsi troppe illusioni per il fatto che ancora le ospedalizzazioni restano basse. Sappiamo infatti che l’Rt “si muove per primo, poi arrivano i casi sintomatici e poi i ricoveri”. È la logica. Quello che accade a Londra ci fa vedere in anticipo dove saremo da qui a un mese: in Inghilterra ieri hanno superato 50 mila casi per la prima volta da gennaio, con 49 morti. Ci stiamo andando dritti, ma a differenza dello scorso autunno possiamo contare su un formidabile alleato, anzi due: il vaccino e il Green Pass. Sono questi gli unici strumenti (insieme alle mascherine) per evitare l’incubo delle zone rosse e del ritorno ai confinamenti. Siamo perciò arrivati al punto in cui la libertà di non vaccinarsi confligge con la libertà dei vaccinati di riprendere a vivere. Il compromesso tra questi due diritti in conflitto, se vogliamo evitare di arrivare all’obbligo di vaccinazione, è proprio il Green Pass. Sei libero di non vaccinarti e di giocare alla roulette con la tua vita, ma non puoi mettere in pericolo gli altri. Dunque, se vuoi salire su un treno o affollare un ristorante o sederti al cinema accanto a un vaccinato, devi esibire il Green Pass. Vaccino o tampone, la scelta è questa. Lasciando che l’Italia più responsabile riprenda a vivere. Il muro di gomma contro la firma digitale di Marco Perduca e Mario Staderini Il Manifesto, 17 luglio 2021 Il nostro Paese viola il Patto internazionale sui diritti civili e politici perché la legge 352 del 1970 contiene “irragionevoli restrizioni” all’esercizio degli strumenti di democrazia diretta previsti dalla Costituzione. “Ma non vi vergognate?” ripete in questi giorni il Presidente Biden ai rappresentanti delle istituzioni degli Stati a maggioranza repubblicana che stanno approvando leggi che limitano il diritto di voto di afroamericani e classi poveri con ostacoli burocratici. Non sappiamo cosa direbbe il Presidente Usa di fronte a ciò che sta accadendo in Italia in queste ore rispetto al diritto a promuovere referendum, conosciamo però quello che ha detto il Comitato diritti umani dell’Onu dopo aver valutato il caso Staderini-De Lucia contro Repubblica italiana: il nostro Paese viola il Patto internazionale sui diritti civili e politici perché la legge 352 del 1970 contiene “irragionevoli restrizioni” all’esercizio degli strumenti di democrazia diretta previsti dalla Costituzione. L’Italia è obbligata a modificare le procedure di raccolta firme oggi ostacolate da macchinose vidimazioni con inchiostro, certificazioni inutili e dall’obbligo per i promotori di far autenticare le firme da un pubblico ufficiale che non è però tenuto a esser disponibile. Secondo l’Onu deve inoltre esser assicurata la possibilità di raccogliere le sottoscrizioni negli spazi più frequentati e la popolazione deve essere informata delle raccolte referendarie per consentire la partecipazione diretta. Basterebbe da subito la sottoscrizione tramite firma digitale (già prevista dalla legge bilancio a partire dal 2022) per superare ostacoli esistenti, compresi quelli collegati all’emergenza sanitaria in corso. Un emendamento al decreto semplificazioni presentato dal radicale Riccardo Magi con la firma di tutti i gruppi e il parere favorevole del ministro Colao e l’accordo del Viminale è da giorni bloccato per le resistenze del ministero della Giustizia che vorrebbe consentire la firma digitale solo a disabili certificati, pretendendo 400 mila euro per la scansione di documenti informatici! Nel frattempo in molti Comuni si fa ostruzione ai promotori del referendum eutanasia legale non rispettando i tempi per vidimare i moduli, chiedendo illegittimamente 30 giorni di preavviso per l’occupazione del suolo pubblico e fino a 36 euro di marche da bollo per organizzare un punto di raccolta, oppure negando - come a Reggio Calabria - le principali piazze perché in “prossimità delle feste mariane” e perché “servirebbe l’autorizzazione del Parroco”. Il tutto nel silenzio del Ministero dell’Interno. Si lascia così che il referendum sia una possibilità solo per i grandi partiti o sindacati perché i cittadini non disturbino i manovratori. Addio alla tanto sbandierata “transizione digitale”, il governo Draghi, con l’ok della ministra Cartabia, sta per compiere un tradimento della Costituzione vietando un atto dovuto: consentire di firmare i referendum con firma digitale. Se niente dovesse cambiare, per sventare questo tradimento della Costituzione e chiedere al Presidente Draghi un intervento diretto, siamo pronti a iniziare uno sciopero della fame per il rispetto della legalità costituzionale e internazionale. Omofobia. Renzi scatenato contro Letta ma la legge Zan slitta di Daniela Preziosi Il Domani, 17 luglio 2021 “Ormai è il Pd il vero partito “No-Zan”. Se si vuole una buona legge i voti ci sono”. Ormai incontenibile, Matteo Renzi fa girare sui social una “card” in cui, in sostanza, finisce con il sostenere che la legge Zan non è una buona legge. Dopo che il suo gruppo alla Camera non solo l’ha approvata, ma ha anche abbondantemente contribuito a scriverla, grazie alla collaborazione della ministra della Famiglia Elena Bonetti - i cui uffici legislativi hanno verificato con cura la (poi) contestata formula “identità di genere” - e le deputate Lisa Noja e Lucia Annibali. “Ormai siamo al paradosso: si può votare la legge in un pomeriggio”, scrive Renzi nella enews numero 717, “ma i principali avversari di una legge sono diventati i, pochi, senatori più estremisti del Pd. Sempre meno, a dire il vero, perché nel Pd cresce il numero di chi vuole saggiamente un accordo”. Renzi ha gioco facile a parlare delle divisioni fra i senatori del Pd. Ormai non è più un segreto che una parte di Base riformista è apertamente favorevole a cambiare la legge, come propongono Matteo Renzi e Matteo Salvini. Nel corso dell’ultima riunione, giovedì scorso, una senatrice ha chiesto alla capogruppo Simona Malpezzi di impegnarsi a lavorare alle modifiche sin dal primo scacco della maggioranza giallorossa al voto segreto. Malpezzi è finita nel mirino dei suoi compagni di corrente per aver interpretato alla lettera il no alle modifiche indicato dal segretario Enrico Letta. Renzi intanto soffia sul fuoco: “Ho fatto un appello in parlamento, lo farò fino all’ultimo giorno”. Propone di modificare gli articoli 1,4 e 7 e accusa i dem “di allungare i tempi per fare del ddl Zan la battaglia identitaria in vista delle amministrative”. In realtà uno slittamento a settembre dell’approvazione - o della caduta - della legge è nell’ordine delle possibilità, ammette Malpezzi: “Va tenuto conto che già dalla prossima settimana arriveranno dei decreti che avranno la precedenza e quindi potrebbe esserci uno slittamento dell’esame del ddl che non dipende dalla nostra volontà”. Per il senatore fiorentino invece il Pd ha calcolato tutto: un rinvio consente di utilizzare la legge in bilico come una clava nella campagna delle amministrative. Martedì il termine della consegna degli emendamenti. E si vedrà se Iv presenterà i propri, su cui - secondo le convinzioni renziane - Lega e Forza Italia potrebbero convergere. Migranti. Oscar Camps: “L’esistenza della Guardia costiera libica non va riconosciuta” di Vanessa Ricciardi Il Domani, 17 luglio 2021 Open Arms ha protestato contro il decreto missioni che finanzia la cooperazione con la Guardia costiera libica. Oscar Camps, il fondatore della Ong, commenta: “La Libia è uno Stato fallito, se non possono garantire un istituto giuridico che tuteli i diritti dei loro cittadini, come faranno a garantire un corretto intervento in quella zona?”. Oscar Camps, lei è il fondatore della Ong Open Arms che salva le vite dei migranti in mare. Avete protestato contro i finanziamenti italiani alle missioni a beneficio della Guardia costiera libica. Come mai siete contrari? Sono contrario perché l’Europa e l’Italia hanno riconosciuto la zona Sar (di salvataggio e soccorso) libica, per avere una zona SAR è necessario che ci sia uno Stato dietro e tutti gli elementi tecnici, il coordinamento e le risorse necessarie. Non si tratta solo dei 350mila km2 della zona Sar, non hanno risorse sufficienti. La Libia è uno Stato fallito, se non possono garantire un istituto giuridico che tuteli i diritti dei loro cittadini, come faranno a garantire un corretto intervento in quella zona? La politica si giustifica dicendo che è importante che ci sia la presenza italiana e che si tratta di addestramento non di finanziamenti diretti, inoltre che chiuderanno i campi di detenzione in Libia... Sono molto rammaricato, la presenza dei paesi europei in Libia è dovuta a diversi interessi, geopolitici ed energetici, niente a che vedere con la pacificazione e i diritti umani, per questo sono pronti a fermare violando i diritti senza scrupoli chiunque abbia intenzione di fuggire dalla Libia. Come dicevo all’inizio, l’esistenza di un Corpo di Guardia Costiera non va riconosciuto, soprattutto quando dietro non c’è uno Stato che ne garantisca il coordinamento, si tratta di diversi gruppi armati, di milizie che governano in autonomia le risorse che gli vengono date, e ora tutti hanno visto le conseguenze di questa cattiva gestione. Il Pd ha proposto la mediazione: in vista del voto del decreto, ha chiesto al governo di valutare di superare la missione l’anno prossimo e di spostare il coordinamento del supporto alla guardia costiera sotto la missione europea Irini. Sarebbe una buona soluzione? La proposta del Pd è l’ennesimo compromesso, il tentativo di scaricare la responsabilità delle scelte ad altri. Che sia l’Italia o l’Europa, la verità è che si dovrebbe dire chiaramente che non si fanno accordi con chi viola diritti umani, con chi uccide e tortura. Enrico Letta subito dopo essere diventato segretario del Pd ha parlato con lei e ha pubblicato una vostra foto insieme. Indossava la felpa di Open Arms. Cosa vi siete detti? Beh, abbiamo parlato a lungo della situazione attuale e della deriva politica dei “governi” che ci sono, certamente più pacati di Salvini-Conte, che hanno dichiarato i porti chiusi. Abbiamo parlato anche di come la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e il presidente del consiglio Mario Draghi bloccano le navi umanitarie nei porti italiani con fermi amministrativi. E Letta cosa ha risposto? Nulla, ha ascoltato. L’appoggio al decreto missioni l’ha delusa o ha inciso nei rapporti della Ong con il centrosinistra? Il sentimento è di delusione per tutte le morti insensate che si contano a migliaia ogni ogni anno. Avete manifestato a Montecitorio prima che la Camera votasse la risoluzione sul decreto missioni, farete qualcosa in vista dell’approdo al Senato? Continueremo con le iniziative di protesta ma il nostro modo di protestare è tornare in mare il prima possibile con tutte le risorse disponibili, e sostenere tutte le organizzazioni umanitarie che stanno rischiando in prima persona per accendere i riflettori dove vogliono che ci sia il buio. Migranti. La Libia contro la missione navale europea: visto negato al comandante italiano di Nello Scavo Avvenire, 17 luglio 2021 L’ammiraglio Agostini e altri ufficiali del comando di “Irini” da mesi attendono di potere andare a Tripoli. La missione Onu invita gli Stati che sostengono i guardacoste a rivedere le loro politiche. La protesta di Medici senza frontiere contro il rifinanziamento della Guardia costiera libica, che ormai di fatto è controllata dalla Turchia. “La cooperazione dell’Italia con la Guardia costiera libica andrà ora trasferita gradualmente alla missione europea Irini”, spiegano dalla maggioranza di governo per placare i molti mal di pancia nella base del Pd. Il problema è che la Libia di Irini non vuol saperne. A tal punto da non voler concedere il visto d’ingresso neanche al comandante dell’operazione navale europea, il contrammiraglio Fabio Agostini. “Sto cercando di andare in Libia da prima di Pasqua, ma le autorità libiche non mi hanno ancora concesso il visto, chissà per quale motivo”, ha detto poche ore dopo il voto nel corso di un incontro pubblico. Insieme ad altri funzionari di Irini, Agostini è stato costretto a rimandare una visita in Libia per la mancata concessione del permesso di entrata nel Paese. Non solo, come riportato da Avvenire, il comandante Agostini conferma che le forze europee non hanno più alcun controllo sul naviglio militare libico. “Fino a marzo 2020, “EuNavFor Med Sophia” ha garantito l’addestramento di 500 militari della Marina e della Guardia costiera libica, incentrato sulla formazione anche dei principi di rispetto dei diritti umani, delle questioni di genere e con un’attenzione verso i minori”, ha ricordato Agostini in una dichiarazione riportata dall’agenzia Nova. Nonostante questo le Nazioni Unite e la procura della Corte penale internazionale dell’Aja non hanno mai smesso di denunciare crimini contro i diritti umani. Tuttavia, “da un anno e mezzo” le cose sono cambiate. In peggio. “Irini non addestra più la Guardia costiera e la Marina libica, anche perché - ha spiegato il contrammiraglio - l’operazione ha avuto immediatamente grosse difficoltà politiche sia sul piano internazionale, sia con la stessa Libia, tirata per la giacchetta dagli attori principali come Russia e Turchia”. E allo stato attuale “non ci è stato possibile riprendere quel tipo di addestramento e possiamo dire che, forse, i risultati li abbiamo visti in mare”, ha proseguito alludendo anche alle ripetute aggressioni delle motovedette libiche. Il prolungato diniego libico all’ingresso del comando navale di Irini era noto al governo italiano già prima del voto alla Camera. Non bastasse, mentre in Parlamento veniva richiesto il via libera al rifinanziamento dei guardacoste, il capo della missione Onu a Tripoli (Unsmil) spiegava al Consiglio di sicurezza perché, al contrario, occorre interrompere ogni forma di supporto. “Gli Stati membri che sostengono le operazioni di rimpatrio delle persone in Libia dovrebbero rivedere le loro politiche: i migranti e i rifugiati continuano ad affrontare un rischio molto reale di tortura e violenza sessuale, se rimpatriati sulle coste libiche”, ha detto Jan Kubis. “Coloro che forniscono sostegno alle agenzie di sicurezza libiche che si presume siano coinvolte in queste violazioni - ha puntato il dito Kubis - dovrebbero assumersi le proprie responsabilità e prendere tutte le misure possibili per prevenire una condotta così vergognosa”. Incurante dello smacco al comandante italiano di Irini e dell’accusa Onu, poco dopo è arrivata la risposta del parlamento italiano. Iran. La denuncia degli avvocati: “Ci vogliono esautorare” di Farian Sabahi Il Manifesto, 17 luglio 2021 Il nuovo capo della magistratura ha avocato a sé il diritto concedere e revocare le licenze. Il 3 agosto il presidente moderato Hasan Rohani dovrà cedere la poltrona di presidente della Repubblica islamica all’ultraconservatore Ebrahim Raisi eletto lo scorso 18 giugno al primo turno, in elezioni senza concorrenti e quindi senza ballottaggio. Al posto di Raisi, a capo della magistratura iraniana è stato nominato Gholam-Hossein Mohseni Ejei. Da pochi giorni in carica, pare che Ejei abbia già fatto danni: il 12 luglio la magistratura iraniana ha infatti avocato a sé il diritto di concedere e revocare le licenze per esercitare la professione forense. Le nuove norme esautorano l’Ordine degli Avvocati e distruggono così del tutto l’indipendenza della professione legale. Su questo argomento il manifesto ha sentito le avvocate iraniane Shadi Sadr e Leila Alikarami, entrambe in esilio nel Regno Unito. “La nuova norma colpisce in modo duro il diritto alla difesa, al punto che non resta più molto spazio per esercitare questo diritto umano fondamentale da parte di coloro che risiedono in Iran”, commenta l’avvocata Shadi Sadr, condirettore dell’organizzazione non governativa “Justice for Iran” con sede a Londra il cui obiettivo è affrontare e sradicare la pratica delle violazioni dei diritti umani e l’impunità dei funzionari della Repubblica islamica dell’Iran. Classe 1974, in cella nella prigione di Evin a Teheran dal 2007 al 2009, Shadi Sadr aggiunge: “La sede dell’Ordine degli Avvocati era stata occupata dalle forze rivoluzionarie nel 1981 e fino al 1997 era stata gestita da una persona nominata dalla magistratura. Soltanto nel 1997 vi furono le elezioni del comitato dei direttori, per la prima volta dalla Rivoluzione del 1979”. Promotrice della campagna “Un milione di firme” per fare pressione contro un sistema giuridico che penalizza le donne, nonché Sakharov Fellow 2016, Leila Alikarami ricorda come “prima della Rivoluzione del 1979 l’Ordine operava in modo più o meno indipendente. Con l’avvento della Repubblica islamica, le autorità iraniane hanno intrapreso una serie di misure per minare l’Ordine degli Avvocati e controllare la professione forense. Una legge promulgata nel 1997, per esempio, diede al Tribunale Disciplinare per i Giudici il compito di approvare o rifiutare i candidati all’Ordine. E anche oggi, il nuovo decreto del governo si pone come obiettivo smantellare l’Ordine degli Avvocati e dare alla magistratura tutte le prerogative relative alle licenze”. Con il passare degli anni, aggiunge Alikarami, “le restrizioni e le minacce contro gli avvocati in Iran hanno fatto sì che molti legali abbiano evitato di difendere coloro che avrebbero avuto maggior bisogno. Ma alla fine, il risultato non è stato quello di mettere fine al dissenso. Al contrario, il risultato è stata la diffusione di una cultura di illegalità e di disprezzo della norma di legge, portando a maggiori tensioni e confronto tra stato e società”. Torna il buio in Afghanistan, i Talebani hanno in mano gran parte del Paese di Gianni Rosini Il Fatto Quotidiano, 17 luglio 2021 L’esperto: “La guerra civile è inevitabile”. E il governo chiede aiuto ai vecchi mujaheddin. Gli “Studenti coranici” controllano ormai il 50% del territorio, mentre l’85% è conteso, in un’avanzata contro i militari di Kabul che sembra inarrestabile. Così, mentre gli islamisti entrano a Kandahar e cingono d’assedio Herat, il governo ha chiesto l’aiuto delle milizie dell’Alleanza del Nord, guidate dai vecchi signori della guerra che cacciarono i sovietici dal Paese. “Il rischio è che questa si trasformi presto in una guerra di logoramento tra afghani”, spiega però l’esperto Claudio Bertolotti Sul terreno rimangono le attrezzature ormai dismesse, i resti di basi e accampamenti che per 20 anni hanno accolto e protetto i militari della coalizione occidentale dagli attacchi delle milizie Taliban e dei gruppi terroristici locali. Si sente ancora il rumore dei mezzi blindati e degli elicotteri americani caricati sugli aerei, in un ritiro ormai prossimo alla conclusione. Ma mentre i militari stranieri sono ancora impegnati nel piano di evacuazione, l’Afghanistan sta per ripiombare, per l’ennesima volta nella sua storia recente, in una guerra civile che promette nuove vittime e allontana la speranza di una stabilità in cui mai, in questi 20 anni di conflitto, si è realmente creduto. Una guerra civile che Claudio Bertolotti, direttore di Start InSight, ricercatore associato Ispi nonché autore di Afghanistan contemporaneo. Dentro la guerra più lunga, a Ilfattoquotidiano.it ha definito ormai “inevitabile”. L’intelligence americana, citata da alcuni organi di stampa, aveva calcolato che il governo di Kabul guidato da Ashraf Ghani sarebbe stato in grado di sopravvivere alla pressione Taliban, che tutto hanno fatto tranne che favorire la tregua dopo gli accordi di Doha con gli Stati Uniti e i tentati colloqui con l’esecutivo afghano in carica, per circa sei mesi. Qualche mese fa sembrava una previsione infausta, ma oggi appare ormai eccessivamente ottimistica: ad oggi i Taliban controllano 204 distretti contro i 73 del 1 maggio, inoltre sono 210 quelli contestati, contro 124, e 70 quelli in mano al governo (erano 115). In due mesi, quindi, l’esecutivo afghano ha perso il controllo effettivo del 30% del territorio, mentre i Taliban hanno triplicato quello da loro occupato, ottenendo il controllo effettivo del 50% del Paese, che sale all’85% se si considerano i territori contesi, all’interno dei quali l’esercito governativo non è in grado di garantire i minimi standard di sicurezza. Numeri impressionanti che raccontano un’avanzata senza sosta. E le conferme arrivano anche dalle ormai quotidiane conquiste degli Studenti coranici sul campo di battaglia. Il 6 luglio scorso, un’offensiva Taliban ha costretto oltre mille militari di Kabul a sconfinare in Tagikistan per evitare di essere massacrati dai miliziani. Una settimana fa c’è stato il ritorno degli uomini del mullah Hibatullah Akhundzada a Kandahar, mentre anche Herat, città che nel corso della guerra ha vissuto meno di altre l’influenza del gruppo estremista e che fino a due settimane fa ospitava i soldati italiani di stanza in Afghanistan, è ormai sotto assedio. Conquiste, queste, portate a casa senza farsi scrupoli, come racconta un video diffuso dalla Cnn in cui si vede un gruppo di militari governativi arrendersi e venire giustiziati a sangue freddo dai combattenti islamisti. Immagini che, però, i portavoce Taliban hanno definito false in una comunicazione Whatsapp con Ilfattoquotidiano.it e altre testate internazionali. Ma se la sconfitta dell’esercito regolare sembra inevitabile, a cambiare le sorti del conflitto è arrivata la decisione del governo di chiedere l’aiuto dei signori della guerra afghani, i vecchi mujaheddin che, fucile in spalla e ben armati e finanziati dagli Stati Uniti, respinsero l’avanzata dell’Armata Rossa Sovietica negli Anni 80. Oggi, quei comandanti mujaheddin si sono trasformati in gran parte in detentori di poteri territoriali alimentati dalla corruzione, altri hanno trovato posto tra le fila dei governi che si sono succeduti. “Che saremmo arrivati a questo punto lo si poteva intuire già quando l’ex presidente americano, Barack Obama, parlò di ‘transizione irreversibilè, dando di fatto il via al ritiro delle truppe dal Paese, da una guerra ormai percepita come persa e sempre meno giustificabile agli occhi dei contribuenti americani - spiega Bertolotti - Già in quegli anni partì immediatamente la mobilitazione dell’ex Alleanza del Nord che iniziò a riarmarsi, tanto da provocare un’impennata dei prezzi delle armi nel mercato nero. Tra i primi a richiamare le truppe, composte soprattutto dai figli e i parenti degli ex mujaheddin deceduti nel conflitto contro i sovietici, è stato Mohammad Ismail Khan, il signore di Herat, ma presto lo hanno seguito altre importanti figure come Ahmad Zia Massoud, ex vicepresidente e fratello di Ahmad Shah Massud, il famoso Leone del Panshir, e il tagiko Atta Mohammed Noor”. L’altro nome di spicco è quello di Abdul Rashid Dostum, oggi vicepresidente ma che, come spiega Bertolotti, “ricopre ancora un ruolo di grande influenza tra la popolazione e i combattenti di etnia uzbeka. Anche lui farà la sua parte”. La loro potenza militare, unita a quella delle forze governative, può essere in grado di arginare l’avanzata dei Taliban, ma a fare la differenza sarà il sostegno esterno alle varie fazioni sul campo, col rischio di veder iniziare un nuovo conflitto per procura che potrebbe trasformarsi in guerra di logoramento. Da una parte, infatti, c’è da capire il ruolo che ricoprirà il grande attore dietro al successo talebano, il Pakistan: “Avere profondità strategica in Afghanistan è sempre stata una priorità per Islamabad che così ha sempre sostenuto i Taliban afghani - dice Bertolotti - Ma oggi si ravvisa una perdita di controllo, una minore dipendenza dei miliziani che, come sono soliti ripetere, cercano di limitare al minimo indispensabile le ingerenze esterne nel loro Paese. Dall’altra parte ci sono il governo, che godrà comunque del sostegno e dell’assistenza americana, e l’Alleanza del Nord che può ambire a ricevere supporto sia dagli americani che dai russi, ma anche dall’Iran, che conserva comunque solidi rapporti anche con i Taliban, e dalla Cina, che eviterà un coinvolgimento diretto a causa della questione uigura, ma che punta a instaurare una collaborazione proficua con entrambi gli schieramenti per garantirsi la possibilità di operare nel Paese, dove detiene l’80% dei diritti estrattivi totali. Inoltre, per loro operare in sicurezza in Afghanistan e Pakistan è importante visto che questa rappresenta la bretella sud della Nuova Via della Seta”. Le prospettive per il futuro del Paese sono quindi più scure rispetto a quelle che ci si immaginava dopo gli accordi di Doha con gli Stati Uniti. Ma anche questo ormai inevitabile epilogo non sorprende Berolotti: “In due secoli di storia, gli afghani non hanno mai rispettato alcun tipo di accordo internazionale. Non possiamo certo aspettarci che a iniziare siano proprio i Taliban”. Nelle carceri iraniane sono rinchiusi tanti prigionieri politici, e anche qualche decina di persone con doppia cittadinanza, iraniana e occidentale, utilizzate come pedine nel Grande Gioco mediorientale e come merce di scambio: “La diplomazia dovrebbe avere la meglio e i processi dovrebbero essere giusti per tutti, non solo per coloro che hanno doppia cittadinanza. Coloro che esercitano la professione legale e gli esponenti della società civile dovrebbero perseverare nel rispetto del diritto senza badare a chi è a capo della magistratura”, precisa Alikarami. A questo proposito, Shadi Sadr osserva: “La pressione internazionale funziona sempre, e infatti è una delle poche vie per migliorare il rispetto dei diritti umani in Iran. Nutro però qualche dubbio sulla volontà politica dell’Europa nel volere adottare una simile politica in modo efficace e coerente. Ho piuttosto l’impressione che l’Europa abbia altre priorità, come il nucleare, e tralasci invece il rispetto dei diritti umani”. In ogni caso, conclude Sadr, “in un paese come l’Iran la situazione non può che peggiorare”.