Piano Cartabia: meno carcere e più sanzioni sostitutive di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2021 Revisione e potenziamento del sistema delle pene sostitutive, estensione della causa di non punibilità per tenuità del fatto, allargamento della messa alla prova, restituzione di effettività delle pene pecuniarie. Quella cristallizzata negli emendamenti alla legge delega sul processo penale, da poco depositati alla Camera dalla ministra Marta Cartabia, non è una riforma dell’ordinamento penitenziario, quanto piuttosto una riscrittura del sistema sanzionatorio. Nel dettaglio, sinora chi riporta una condanna entro i 4 anni di pena detentiva può chiedere, dopo il passaggio in giudicato della sentenza, entro 30 giorni dalla sospensione dell’ordine di carcerazione, una misura alternativa alla detenzione (semilibertà, domiciliari, affidamento in prova ai servizi sociali). Oggi, in attesa del giudizio del magistrato di sorveglianza, il condannato non va in carcere, ma neanche inizia a scontare la pena alternativa. È la condizione dei cosiddetti “liberi sospesi”. Per evitare questa situazione di limbo, con la riforma si trasformano alcune misure alternative, attualmente di competenza del Tribunale di Sorveglianza, in sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, direttamente irrogabili dal giudice della cognizione. In questo modo, si dà anche maggiore effettività all’esecuzione della pena. Le pene sostitutive sono delle vere e proprie pene, anche se non comportano la detenzione in carcere: semilibertà, detenzione domiciliare, lavori di pubblica utilità e pene pecuniarie. Si tratta di pene non sospendibili. Dalla lista attuale si aboliscono la semidetenzione e la libertà controllata, di fatto del tutto insignificanti quanto a loro utilizzo complessivo, come testimoniano i dati. Si porta da sei mesi a un anno di pena inflitta il limite di pena detentiva sostituibile con la pena pecuniaria; si prevede che la pena fino a tre anni possa essere sostituita con il lavoro di pubblica utilità; si prevede che la pena fino a quattro anni possa essere sostituita con la semilibertà o con la detenzione domiciliare applicate a titolo di pene sostitutive dal giudice di cognizione. Quanto alla pena pecuniaria sostitutiva della detenzione fino a un anno, a essere rivisti dovranno essere anche gli importi, tenuto conto dei paradossi del sistema attuale che hanno condotto a un’eccessiva onerosità: cruciale è stato l’aumento da 38 a 250 euro per ogni giorno di pena detentiva dell’ammontare minimo della quota giornaliera. Un mese di pena detentiva deve essere sostituito con almeno 7.500 €; sei mesi con almeno 45.000 euro. Una criticità che è stata colta di recente anche dalla Corte costituzionale che ha sottolineato, sentenza n. 15 del 2020, come l’attuale valore giornaliero minimo rende nei fatti la sostituzione della pena “un privilegio per i soli condannati abbienti”. La riforma Cartabia invita alla determinazione di un minimo diverso e di un massimo non superiore a 2.500 euro; in 250 euro giornalieri in caso di sostituzione della pena detentiva con decreto penale di condanna. Per quanto riguarda la causa di non punibilità per tenuità del fatto, al posto del limite di pena non superiore nel massimo a 5 anni si allarga il perimetro a tutti i reati puniti con minimo detentivo non superiore a 2 anni. Sulla messa alla prova, gli emendamenti estendono l’ambito di applicabilità a specifici reati, puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a sei anni, che si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori. Si prevede inoltre che la richiesta di messa alla prova dell’imputato possa essere proposta anche dal pubblico ministero. Da rivedere infine tutto il sistema delle pene pecuniarie, anche se non è stata accolta la proposta della commissione Lattanzi dell’introduzione delle quote, partendo dal fatto che la percentuale attuale di esecuzione è bassissima: oscilla costantemente (2015-2018) tra l’1% e il 2%, con una perdita annuale per l’erario di oltre un miliardo di euro. Torna la riforma del carcere che Bonafede aveva fermato di Giulia Merlo Il Domani, 16 luglio 2021 La ministra Cartabia annuncia di voler riformare l’ordinamento penitenziario, come stava per fare Orlando. Oggi gli istituti sono sovraffollati, senza possibilità di lavoro e con scarsa possibilità di misure alternative. “Il sistema penitenziario va riformato”, sono state le parole della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, in visita insieme al presidente del Consiglio, Mario Draghi, al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Una necessità, quella della riforma, che rischia di segnare l’ennesima rottura con il Movimento 5 stelle dopo il ddl penale e l’archiviazione della norma Bonafede sulla prescrizione. La riforma dell’ordinamento penitenziario - o meglio il suo accantonamento - è stato uno dei primi stop imposti dall’ex guardasigilli Alfonso Bonafede. Quando si insediò nel 2018, una delle prime iniziative fu quella di azzerare il decreto legislativo definito “salva-ladri” scritto dal precedente governo e frutto del lavoro della commissione Giostra e soprattutto di un lungo studio nell’ambito degli Stati generali del carcere. A essere cancellate, in particolare, sono state la possibilità di ricorso a pene alternative e l’eliminazione degli automatismi nell’esecuzione della condanna con conseguente maggiore discrezionalità per la magistratura di sorveglianza per decidere caso per caso il percorso del detenuto. Oggi, invece, Cartabia vorrebbe riprendere proprio il lavoro dell’ex ministro Andrea Orlando e riformare la legge Gozzini del 1975, ovvero la legge attualmente in vigore sull’ordinamento penitenziario. Un’iniziativa che richiederà tempo, energie e soprattutto una convergenza politica tutta da trovare, ma che rientra tra i temi certamente cari alla ministra. La riforma penale - Una serie di novità che riguardano le pene, tuttavia, sono già contenute negli emendamenti del governo al ddl penale, oggetto proprio del braccio di ferro non ancora concluso con i Cinque stelle e che dovrebbe approdare alla Camera il 23 luglio. Nella delega al governo, infatti, è prevista la riforma della disciplina delle sanzioni sostitutive applicabili dal giudice di cognizione al posto della pena detentiva. Si tratta di un cambiamento sostanziale, perché si sposta al giudice del processo l’individuazione delle sanzioni diverse dal carcere, che quindi vengono applicate al condannato immediatamente con la sentenza. Inoltre, vengono abolite la semidetenzione e la libertà controllata; si aumenta da sei mesi a un anno di pena il limite di pena detentiva sostituibile con la pena pecuniaria; si prevede che la pena fino a tre anni possa essere sostituita con il lavoro di pubblica utilità; si prevede che la pena fino a quattro anni possa essere sostituita con la semilibertà o con la detenzione domiciliare. Tutte misure che il giudice sceglierà di applicare in sostituzione della detenzione, se ritiene che favoriscano la rieducazione del condannato e se non riscontra pericolo di recidiva. Inoltre, si interviene sulla disciplina della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, prevedendo che si dia rilievo alla riparazione del danno e si codifichino le ipotesi in cui l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità. Infine, dovrebbe venire estesa l’applicabilità della messa alla prova dell’imputato, allargando il novero di reati tra quelli con pena detentiva non superiore ai sei anni. Il Pnrr inoltre, prevede la spesa di 123,9 milioni di euro in quattro anni per la costruzione di padiglioni da 120 posti ciascuno e il miglioramento degli spazi di 8 strutture penitenziarie: Santa Maria Capua Vetere; Rovigo; Vigevano, Viterbo, Civitavecchia, Perugia, Ferrara e Reggio Calabria. Per il compito di progettazione architettonica e valutazione, in gennaio era stata nominata una Commissione per l’architettura penitenziaria, presieduta dall’architetto Luca Zevi. Quello attualmente previsto, comunque, non è ancora un piano omogeneo che risponde in maniera coordinata ai problemi delle carceri che la stessa Cartabia ha elencato nella sua visita a Santa Maria Capua Vetere: sovraffollamento carcerario, rieducazione dei detenuti, misure alternative, formazione e assunzioni per la polizia penitenziaria e videosorveglianza, definite “questioni irrisolte che hanno una data antica”. La situazione attuale - I grandi irrisolti del sistema detentivo italiano, più volte condannato dalla corte di giustizia europea, infatti, sono diventati problemi endemici e sono stati enfatizzati dalla pandemia. A fine giugno 2021 i detenuti sono 53.637, per una capienza calcolata secondo parametri standard di circa 50mila posti. Il sovraffollamento è diminuito in modo consistente con il Covid-19 rispetto ai dati del febbraio 2020, in cui i reclusi erano circa 61mila. Tra i dati forniti dal ministero della Giustizia da mettere in evidenza per valutare il tipo di popolazione carceraria, però, alcuni sono particolarmente significativi. A fine maggio 2021, 16.362 detenuti pari al 30 per cento del totale sono ancora in attesa di una sentenza definitiva e dunque sono ancora formalmente imputati. Più di 15mila persone, inoltre, sono detenute con un residuo di pena da scontare di meno di tre anni e che dunque potrebbero avere accesso a misure alternative ma non lo fanno, inoltre, “ben 1.212 sono quelle che sono state condannate a una pena inferiore a un anno”, ha detto il garante dei detenuti Mauro Palma nella sua relazione annuale al parlamento sullo stato delle carceri. Tra gli strumenti rieducativi, l’ordinamento prevede la possibilità di lavorare durante gli anni in cui si sconta la pena, con la finalità di costruirsi le basi per un reinserimento sociale. I dati disponibili risalgono al 2020 e indicano come lavoratori circa 17mila detenuti. Attenzione, però: di questi solo 2mila lavorano per imprese e cooperative sociali, gli altri invece sono dipendenti dell’amministrazione penitenziaria. Questo significa una cosa sola: chi lavora per il carcere, svolgendo attività di addetti alle pulizie, alla lavanderia e alla cucina, o alla manutenzione in cambio di circa 150-200 euro al mese (che vengono caricati sul conto interno all’istituto e servono per pagare il cibo extra rispetto alla mensa o le sigarette) non impara certo un mestiere che poi potrebbe permettergli di sopravvivere fuori dall’istituto detentivo senza ricominciare a delinquere. Soltanto un numero irrisorio di reclusi fa un lavoro vero, con una formazione pregressa, un contratto e un vero e uno stipendio. Altro elemento drammatico è lo stato dei luoghi detentivi. L’associazione Antigone, nel suo rapporto del 2021 sulle condizioni dei luoghi di detenzione, ha visitato 44 istituti su 190 e ha raccolto una serie di dati: la metà delle carceri è extraurbana e l’11 per cento non ha mezzi pubblici che permettono di raggiungerla, rendendo difficilissime le visite dei parenti, anche perché nel 52 per cento dei casi non è previsto il colloquio visivo la domenica. Inoltre nel 9 per cento delle celle non c’è il riscaldamento, nel 30 per cento non è garantita l’acqua calda e nel 48 per cento non c’è la doccia. Infine, solo il 22 per cento dei detenuti fa più di quattro ore d’aria al giorno e solo nel 23 per cento dei casi il magistrato di sorveglianza entra almeno una volta al mese nel carcere. Nel 2020, infine, l’anno è stato drammatico per il tasso di suicidi, che è arrivato a raggiungere gli 11 ogni 10mila persone mediamente presenti, con prevalenza nella fascia di età tra i 36 e i 40 anni: erano quasi vent’anni che il numero non era così alto. Segno che il Covid, nonostante la diminuzione della popolazione detenuta, ha reso ancora più insopportabile la detenzione a causa di un distacco ancora più netto dal mondo esterno e dalle famiglie. Tutti numeri che mostrano quanto sia necessario ripensare il carcere, non solo sulla scia dell’indignazione per le violenze di Santa Maria Capua Vetere. Il carcere è violenza, basta con la vendetta di Guido Neppi Modona Il Domani, 16 luglio 2021 Nei primi giorni di luglio siamo venuti a conoscenza che 52 tra dirigenti e agenti della polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere sono stati raggiunti da misure cautelari - custodia in carcere, arresti domiciliari, interdizione dal servizio - per gravissimi fatti di violenza commessi il 6 aprile 2020 contro i detenuti. La sera precedente avevano inscenato una protesta, rifiutando di rientrare nelle celle dopo avere saputo che tra loro vi era un positivo al Covid. La protesta era poi rientrata prima di mezzanotte, ma nel frattempo era stata organizzata per il giorno successivo, sotto il pretesto di effettuare una perquisizione generale, una spedizione punitiva, nel corso della quale i detenuti erano stati sottoposti a un violento e prolungato pestaggio, definito dal giudice per le indagini preliminare una “orribile mattanza”. Il giudice aveva contestato i reati di tortura, lesioni e maltrattamenti aggravati, ma il sottosegretario alla giustizia Vittorio Ferraresi (ministro era Bonafede), in risposta a una interpellanza parlamentare, aveva parlato di “doverosa azione di ripristino della legalità e agibilità”. Tra marzo e aprile si erano verificati analoghi episodi di violenza contro i detenuti in altri stabilimenti penitenziari, senza suscitare particolare interesse, forse perché il carcere è di per sé un’istituzione violenta e la violenza ne ha sempre contrassegnato la storia. Nei primi anni Settanta del secolo scorso avevo imbastito una ricerca sulla storia delle carceri nello Stato liberale, durante il regime fascista e nei primi decenni della Repubblica, sino alla prima riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, giungendo alla conclusione che il clima di violenza era il principale e costante elemento di continuità. Nel 1904 il deputato socialista Filippo Turati in un discorso alla Camera intitolato “I cimiteri dei vivi” aveva detto: “Le carceri italiane… rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma forse più atroce che si abbia mai avuto: noi crediamo di avere abolito la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata…”. Trent’anni prima il “Bullettino Ufficiale della Direzione Generale delle Carceri” registrava con puntigliosa precisione una sanguinosa realtà di violenza. Gli episodi di reazione armata degli agenti di custodia contro i detenuti erano una prassi costante: il condannato disubbidisce all’agente di custodia, lo ingiuria o gli rivolge parole di scherno; la guardia, senza che peraltro vi sia alcun pericolo di fuga o di ribellione, reagisce sparando contro il detenuto, talvolta mirando alle gambe, più spesso colpendolo alla testa e “riducendolo cadavere all’istante”. Talvolta viene per errore colpito un altro detenuto, ma rara è la notizia che l’agente sia stato denunciato all’autorità giudiziaria e quasi sempre la magistratura dichiara non farsi luogo a procedere contro la guardia. Nei primi anni Settanta, dal 1871 al 1874, si contano un morto tra le guardie di custodia e sette morti e numerosi feriti per colpi di arma da fuoco tra i detenuti, senza una riga di commento o di deprecazione da parte del “Bullettino”. Tralasciando il periodo fascista, ancora nel 1954 in una circolare dell’allora ministro della giustizia De Pietro (Presidente del consiglio e ministro dell’Interno Scelba) leggiamo una decisa riaffermazione del carattere afflittivo della pena, che deve inevitabilmente arrecare “sofferenze” e limitazioni alle “esigenze di ordine materiale e spirituale” dei detenuti. Tornando alla realtà del presente, la violenza contro i detenuti continua a esistere, anche se non viene più esercitata a colpi di arma da fuoco, ma con i pestaggi. È comunque consolante che ora la magistratura intervenga contro le violenze degli agenti di custodia e che la ministra della giustizia Marta Cartabia abbia qualificato le violenze degli agenti di Santa Maria Capua Vetere come “un’offesa e un oltraggio alla dignità della persona”, un “tradimento della Costituzione”, ponendo la “fuga dal carcere” tra gli obiettivi della riforma complessiva della giustizia penale. In effetti, credo che la prima causa della violenza in carcere sia l’eccessivo numero dei detenuti e il conseguente sovraffollamento, che rende infernali le condizioni di vita negli stabilimenti penitenziari. È evidente che al sovraffollamento non si deve porre rimedio costruendo nuove carceri per aumentare gli spazi della detenzione, come è stato impropriamente sostenuto pochi giorni orsono su la Repubblica (e poi vivacemente censurato su Il Riformista), bensì riducendo drasticamente il numero dei detenuti. Questo obiettivo comporta interventi a tre livelli: legislativo, in quanto spetta in primo luogo al Parlamento rovesciare l’attuale impianto sanzionatorio che privilegia la pena detentiva, prevedendo nel codice penale per i reati di non particolare gravità una vasta gamma di sanzioni da scontare in libertà; processuale, attraverso il ricorso all’estinzione del reato per la particolare tenuità del fatto sin dalla fase delle indagini preliminari; giudiziario, mediante l’estesa applicazione degli istituti che consentono di evitare di scontare la pena in carcere, quali l’affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà, la detenzione domiciliare. Quale risultato finale dovremmo avere un carcere riservato esclusivamente ai condannati per i reati più gravi e portatori in concreto di un’alta carica di pericolosità sociale, popolato da non più di 10-15.000 detenuti. È questa la premessa perché negli attuali spazi carcerari possano finalmente trovare applicazione i principi secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione-riabilitazione del condannato, solennemente proclamati dalla Costituzione e da allora rimasti troppo a lungo inattuati per oltre settanta anni. Luigi Pagano: “Sul carcere finalmente si volta pagina” di Riccardo Bonacina Vita, 16 luglio 2021 Pagano, per 16 anni al timone della Casa circondariale milanese di San Vittore, poi a capo di tutti i penitenziari del Nord-ovest e numero due del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: “il carcere in questi anni è stato lasciato alla solitudine dei detenuti e degli operatori, senza che l’opinione pubblica si interessasse al problema. Il carcere che si apre all’esterno, il carcere dove entrano i volontari (giustamente ricordati da Draghi) diventa un carcere trasparente dove è difficile che poi avvengano episodi come quelli successi nel marzo 2020”. Luigi Pagano, per 16 anni al timone della casa circondariale milanese di San Vittore, poi a capo di tutti i penitenziari del Nord-ovest e numero due del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha messo nero su bianco la sua lunga esperienza nel libro “Il direttore. Quarant’anni di lavoro in carcere”, In tutto 304 pagine, nella pubblicazione di Zolfo Editore racconta 40 anni da direttore riformatore alle prese con centinaia di vite ristrette, quelle degli agenti e quelle dei detenuti. Ieri ha seguito con una certa emozione la visita: “Mi ha colpito come il presidente del Consiglio Draghi e la ministra della Giustizia Cartabia abbiano voluto mettere la faccia sulla volontà, di questo Governo, di cambiare, finalmente, registro sul carcere e sulla vita di chi è costretto ad abitarlo. Un segnale emozionante sui diritti, a partire da quelli dei detenuti proprio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, teatro il 6 aprile 2020 di un brutale pestaggio. La voglia e la volontà politica di voltare decisamente pagina”. Voltare pagina rispetto alle logiche giustizialiste e manettare di chi li ha preceduti e rispetto ai problemi annosi delle carceri italiane: un sovraffollamento strutturale (benché in calo, da 60mila a 53mila reclusi nell’ultimo anno, a fronte di 50mila posti tabellari); troppe morti (già 73 quest’ anno, con 26 suicidi; 152 l’anno scorso, con 62 gesti estremi); denunce di violenze e abusi in diversi istituti italiani e altro ancora. Una visita che ha marcato il passaggio da “Abbiamo ripristinato la legalità”, frase infelice di Bonafede in Parlamento nel 2020 dopo i pestaggi a “È stata violata la Costituzione”, frase della Cartabia nel 2021. Il presidente del Consiglio ha fatto una affermazione forte quando ha detto a proposito di quanto avvenuto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: “Le indagini in corso stabiliranno le responsabilità individuali ma la responsabilità collettiva è di un sistema che va riformato”.... Luigi Pagano: È una frase forte e molto giusta, non dimentichiamo che abbiamo avuto due condanne consecutive dalla Corte europea, l’ultima nel 2013, in cui la Corte riconosceva un deficit sistemico dell’Italia. Ci diede un anno di tempo per intervenire con proposte e provvedimenti. Ci fu la proposizione della delega Orlando, ma poi tutto si interruppe con Bonafede, per questo è giusto che oggi finalmente si torni a prestare la giusta attenzione. Come ha detto la Cartabia, non se ne esce se non c’è “una presa in carico collettiva” del problema... Luigi Pagano: Giustissimo, il carcere in questi anni è stato lasciato alla solitudine dei detenuti e degli operatori, senza che l’opinione pubblica si interessasse al problema. Il carcere che si apre all’esterno, il carcere dove entrano i volontari (giustamente ricordati da Draghi) diventa un carcere trasparente dove è difficile che poi avvengano episodi come quelli successi nel marzo 2020: 21 le carceri in rivolta dal Piemonte alla Sicilia, tredici vittime, duecento i feriti. Il carcere deve diventare comunità aperta all’esterno, anche alle imprese, alle istituzioni locali. Solo così quanto è previsto dall’articolo 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) diventa possibile. Le carceri sono state confinate alla solitudine. Se devi “reinserire” bisogna che il carcere si apra alla società, lo dice la parola. La ministra della Giustizia ha accennato a tre linee propositive. Innanzitutto ha parlato di edilizia carceraria ma lo ha fatto in termini nuovi dicendo “Nuove carceri e nuovi spazi non può significare solo posti letto. Per il triennio 2021-2023, abbiamo già previsto circa 381 milioni per le ristrutturazioni e l’ampliamento degli spazi”... Pagano: Giustissimo, il tema non è costruire nuovi edifici ma anche cambiare la concezione dei luoghi che rendano possibile organizzare diversamente la vita del detenuto. Bisogna creare spazi fuori del reparto detentivo in modo che consentano, aperte le celle, di organizzare la vita delle persone ristrette fuori del reparto. Spazi che consentano di ospitare iniziative specie se proposte dalla comunità esterna. Ecco, tutto questo oggi non sarebbe possibile. È fondamentale uscire dalla concezione architettonica delle carceri novecentesche o addirittura dell’ottocento, come San Vittore. Io sono affezionato a quell’istituto, ci ho vissuto, non solo lavorato, per 16 anni, ma è uno carcere che guarda alla pena come la si intendeva 200 anni fa. Oggi è necessario non isolare, come si voleva allora, ma favorire la socializzazione, creare attività, occasioni di lavoro, di studio, di formazione, Ttutto questo è possibile però se è l’intera società a farsi carico dei percorsi di pena e di reinserimento e se la politica per una volta non passerà ad altro. Se davvero ci si incamminerà su questa strada si potrà avere un carcere che rispetti la dignità delle persone e le possa recuperare alla Società, quindi capace di abbattere la recidiva e non invece, come purtroppo avviene oggi di essere essi stesso fattore criminogeno. A questo proposito la ministra ha parlato del rilancio delle misure alternative per condanne sotto i tre anni... Pagano: È importante questa visione futura di sistema, ma ricordiamoci però che anche oggi si può fare molto c’è addirittura un Dipartimento ad hoc. Pensiamo a quanti carcerati soffrono di disagio mentale, a quanti tossicodipendenti affollano le carceri, ma è necessario metterli in galera? Infine, la ministra ha detto che “Il lavoro in carcere non può essere lasciato all’improvvisazione o alle doti personali. Occorre la formazione”… Pagano: È un aspetto fondamentale, ma però la politica deve non abbandonare il percorso della Riforma penitenziaria e l’affermazione del valore Costituzionale della pena si può fare formazione ma se invece si cambia ogni due anni e si passa dal “Chiudiamo tutti e gettiamo le chiavi” al “rieduchiamo tutti” il personale si perde e non è coinvolto in un percorso che è fondamentale. Bisogna far capire al personale, oltre che alla società, dove si sta andando. Il discorso condivisibile di Cartabia copre la sua debolezza politica di Mattia Ferraresi Il Domani, 16 luglio 2021 Del discorso della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, a Santa Maria Capua Vetere si può sottoscrivere anche la punteggiatura. Le pene che non devono essere contrarie al senso di umanità, il sovraffollamento delle carceri, le strutture fatiscenti, la necessità di pene alternative alla detenzione, le riforme strutturali dell’ordinamento, il ruolo degli educatori, il carcere come comunità tesa al recupero e al reinserimento in società, le risposte “immediate e indifferibili”: tutto giusto e condivisibile. Perfino troppo giusto e condivisibile. Introdotta da un breve discorso del premier Mario Draghi, Cartabia si è concentrata sulle “cause più profonde di quello che è accaduto” e ha indicato alcune direttrici fondamentali per risolverle, promettendo di riagganciare più saldamente la dolorosa questione carceraria italiana al dettato costituzionale. Lo ha fatto con riferimenti colti ed eloquio forbito, qualità che mettono speranza se confrontate con certi casi recenti e presenti di semianalfabetismo ministeriale. Un modo benevolo per descrivere questa strategia per affrontare il problema è dire che Cartabia ha volato alto. Un modo più realista è dire che ha cambiato discorso. Cercare di afferrare le cause remote di un fenomeno è esercizio nobile e segno di intelligenza, ma il rischio, quando si parla della complessa faccenda dei delitti e delle pene, cioè del bene e del male, è che si finisca per arrivare in un baleno ad Adamo ed Eva, alla mela, al serpente e al peccato originale. Sono questioni, per dir così, di lungo periodo e incredibilmente interessanti, ma un ministro della Repubblica ha innanzitutto la responsabilità politica di mettere una pezza sulle cause prossime di un fatto di gravità inaudita, non solo di fare brevi cenni sull’universo carcerario. Dire che ora alle parole devono seguire i fatti è, oltre che una banalità da bordo piscina, totalmente fuori fase rispetto al contesto in cui la visita è maturata, anzi si è imposta. In questo caso, le parole condivisibili della ministra dovevano arrivare dopo i fatti. Fatti che aveva tutto il potere di esercitare, dalla sospensione estesa non solo agli agenti indaganti, che era il minimo sindacale, a qualche misura per la direttrice del carcere, che nella migliore delle ipotesi ha creduto a una versione fuorviante e fasulla di quello che è successo il 6 aprile del 2020, fino ad arrivare a conseguenze “immediate e indifferibili” per la catena di comando del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Senza contare che avrebbe potuto riferire tempestivamente in parlamento, gesto di elementare grammatica istituzionale che anche esponenti autorevoli del Pd hanno chiesto in aula. Non si dica poi che avrebbe potuto addirittura rispondere alle domande dei giornalisti, anche quelli senza la cetra in mano, richiesta che a questo punto è considerata un fastidioso malcostume. La ministra, che ha ereditato il dossier del suo predecessore, Alfonso Bonafede, aveva il potere di intervenire in modo molto più energico senza interferire con il lavoro di procure e tribunali, dato che lo spazio di azione del ministero è regolato più da consuetudini che da norme. Se i tragici video della spedizione punitiva contro detenuti inermi non sono sufficienti per stimolare manovre decisioniste a scopo cautelativo, all’occorrenza prendendosi la responsabilità di qualche forzatura istituzionale rispetto ai costumi del passato, cosa potrà esserlo? Impolitica - Quella che si è presentata davanti al carcere è stata una figura sostanzialmente impolitica. Oppure politica soltanto nel senso della manualistica, dei buoni concetti scritti nell’aria, non dell’esercizio delle responsabilità e del potere che danno sostanza al suo ruolo esecutivo. Cartabia ha detto che “non siamo qui per fare un’ispezione”, ma se non facevano un’ispezione, cosa facevano? Una prolusione? Un simposio? Un’omelia? “Siamo qui perché i gravissimi fatti accaduti richiedono una presa in carico collettiva dei problemi dei nostri istituti penitenziari”, ha detto, con una formula ottima per l’introduzione a un convegno sulle opere del Beccaria. Il condivisibile discorso di Cartabia avrebbe potuto essere fatto ovunque, non c’era bisogno di spingersi fino a Santa Maria Capua Vetere, se non per ragioni simbolico-mediatiche. Se si toglie il cappello introduttivo legato ai fatti, il testo s’attaglia a un’aula universitaria o a un gruppo di studio di settore, s’intona a tutti i colori e non sfigura mai, orientato com’è alla dimensione universale. Il dramma è che sul particolare la ministra non ha fatto quasi nulla. A Santa Maria Capua Vetere è apparsa una figura di elevata statura intellettuale e basso profilo politico. Pestaggi a Santa Maria Capua Vetere, Cartabia riferisce in aula il 21 luglio di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 luglio 2021 Ieri l’incontro con i provveditori regionali dell’amministrazione penitenziaria. L’impegno del governo a “riformare il sistema dell’esecuzione penale” è stato ribadito ieri dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia durante la riunione con tutti i provveditori regionali dell’Amministrazione penitenziaria che si è svolta da remoto, alla presenza del garante nazionale dei detenuti Mauro Palma e ai vertici del Dap. La riunione fa seguito a quella tenutasi una settimana fa con i sindacati della polizia e delle figure professionali che lavorano nel mondo dell’esecuzione penale. Il giorno dopo essersi recata di persona, insieme al premier Draghi, nel carcere della “mattanza” di Santa Maria Capua Vetere, e solo dopo aver parlato con la direttrice dell’istituto, con detenuti e operatori (si spera sia questo il motivo del suo ritardo), è stata finalmente resa nota la data - il 21 luglio - nella quale la Guardasigilli riferirà alla Camera e al Senato dei fatti di violenza che - grazie solo ai filmati - hanno “scosso le coscienze degli italiani e del corpo di Polizia penitenziaria”, come ha affermato lo stesso Draghi durante la sua visita. Ma per affrontare davvero il problema del sovraffollamento e delle pene alternative (e anche più riabilitative) bisognerebbe toccare almeno il tema delle depenalizzazioni, a cominciare da quelle relative ai reati di droga. Alla Camera in commissione Giustizia è stato appena depositato un testo base unificato per modificare l’articolo 73 della legge unica sulle droghe, depenalizzando i reati di “lieve entità”, distinguendo le sostanze e legalizzando la coltivazione domestica per uso personale di cannabis. La tortura resta una realtà. Parla Gonnella, presidente di Antigone di Anna Lisa Antonucci L’Osservatore Romano, 16 luglio 2021 Il sovraffollamento, in alcuni casi del 180%, che porta a vivere in spazi angusti, la scarsa se non inesistente possibilità di lavoro e formazione per i detenuti, i molti casi di abbandono terapeutico e dunque di malattia sia fisica che psichica e infine la violenza che purtroppo persiste nelle carceri italiane. Sono questi i “guai” di un sistema penitenziario che, secondo Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone che si batte per i diritti nelle carceri, andrebbe “radicalmente modificato sia nel regolamento, per ridurre l’impatto disciplinare, sia nella concezione della pena che dovrebbe essere per tutti quella costituzionale e cioè favorire il recupero e il reinserimento sociale dei detenuti”. Gli ultimi fatti avvenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere - spiega Gonnella - “emersi grazie ad una denuncia di Antigone alla Procura, sulla base delle moltissime testimonianze ricevute dai familiari dei detenuti, dimostrano come in alcuni istituti di pena in Italia la tortura resta una realtà”. Gonnella è convinto che “nessun Paese democratico è immune da questo fenomeno e negare che il problema esista è fare il gioco di chi pratica la tortura”. “Per fortuna in Italia dal 2007 - aggiunge - solo pochi anni dopo l’introduzione con motu proprio nel codice penale Vaticano, la tortura è reato e non sono pochi i procedimenti giudiziari in corso per fatti avvenuti ad esempio negli istituti di Ferrara e San Gimignano oltre alle condanne già inflitte per vicende accadute nel carcere di Asti”. “Dopo un periodo in cui si è parlato di carcere in senso riformatore - evidenzia Gonnella - negli ultimi anni si è tornati ad una fase giustizialista, si è ricominciato a sentir dire che i detenuti devono “marcire in galera”, che bisogna “buttare la chiave della cella”. Contro tutto ciò, secondo il presidente di Antigone “serve un intervento di straordinaria attività culturale, con messaggi non equivoci di condanna da parte dei rappresentanti delle Istituzioni dell’uso illegittimo della forza, ma è indispensabile anche la formazione del personale penitenziario che non deve avere solo una preparazione militare. Inoltre, chi si muove nella legalità, chi crede nella funzione della pena come rieducazione del condannato, e sono in molti, deve poter avere prospettive di carriera e un riconoscimento sociale”. Dunque serve una “formazione multidisciplinare che insegni, ad esempio a risolvere i casi difficili, quelli che quotidianamente sorgono in carcere a causa della tossicodipendenza o della malattia mentale, quelli che riguardano i tanti immigrati detenuti, ormai il 33% della popolazione carceraria, con problemi linguistici e che hanno spesso un vissuto di abusi e violenze. Per loro, in particolare, andrebbe pensato un sostegno etno-psichiatrico”. La popolazione detenuta negli ultimi 30 anni è infatti molto cambiata, spiega Gonnella sulla base dell’osservatorio privilegiato fornito dalle oltre 150 visite annuali che l’associazione Antigone promuove, dal 1998, nelle carceri in tutto il Paese. “Il nostro rapporto annuale sulla vita in carcere, che mira a rendere meno opaca la vita nelle celle, racconta di una popolazione di 54 mila persone che vivono in istituti penitenziari con 6-7 mila posti letto in meno del necessario. Con un aumento dei problemi psichiatrici e la tendenza ad una incarcerazione della povertà. Sono sempre meno i detenuti per reati gravi ma aumentano gli ergastolani perché dal circuito carcere non si esce facilmente e perché il sistema penale è diventato più severo e commina pene più dure”. Tutti dentro, dunque, “con un sovraffollamento endemico, impensabile in tempo di Covid, e che non permette alcuna attività lavorativa e nessuna sorveglianza dinamica, cioè lo stare fuori dalla cella almeno 8 ore al giorno”. Per questo Antigone - conclude Gonnella - “ha proposto un nuovo regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario, l’ultimo risale al 2000 e non prevedeva nessun utilizzo della tecnologia. Tecnologia che può favorire le relazioni affettive, gli incontri a distanza o anche l’insegnamento. Il nuovo regolamento vuole ridurre l’impatto disciplinare e aprire alla possibilità dell’uso di internet in carcere per offrire attività formative e di lavoro per i detenuti. Abbiamo consegnato le nostre proposte al Governo perché il regolamento non è una legge e può essere approvato dal Consiglio dei ministri per poi passare alla firma del capo dello Stato”. Ci siamo illusi di aver cancellato la tortura dalle nostre carceri di Adriano Sofri Il Foglio, 16 luglio 2021 Conservando una regolamentare distanza di sicurezza, penso che presidente del Consiglio e ministra della Giustizia, visitando insieme il carcere di Santa Maria Capua Vetere, abbiano fatto la cosa migliore che potessero fare. E tenendo i loro discorsi all’uscita abbiano detto le cose migliori che si potessero dire. Hanno detto di aver visto, che è la condizione prima per capire, e di aver sperimentato che là dentro “si fa fatica perfino a respirare”, che è due volte vero. Quando (sempre) buoni propositi sul carcere si sono squallidamente impantanati, come da ultimo con Andrea Orlando ministro e Glauco Giostra coordinatore dei cosiddetti Stati generali, è stato perché il governo e il suo capo preferivano lasciare solo il titolare della Giustizia. Ora ai buoni propositi di Cartabia si oppone una santa alleanza grottescamente eterogenea e filistea, camionisti cileni che mordono appena il freno perché far cadere il governo di questi tempi è una mossa disperata. Non so quanto coraggio e disinteresse abbia in serbo la ministra Cartabia, so che comunque non le basterebbero senza il consentimento e il sostegno del presidente Draghi. Le sono venuti nel Consiglio dei ministri sul progetto di riforma della giustizia e nella manifestazione pubblica di mercoledì. Dall’informazione che ha avuto il merito di rendere inesorabilmente visibile l’”orribile mattanza” c’era da aspettarsi la soddisfazione per aver provocato quell’iniziativa senza precedenti; e dopo l’attenzione agli effetti concreti che devono derivarne. Il sentimento contrario mi ha sorpreso. Oltretutto, ha mostrato di non avere alcun desiderio e alcuna capacità di immaginarsi nei panni dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere e di tutte le altre galere italiane, reduci da un simile anno e mezzo. Ormai sulle prigioni, se non altro per la ripetizione, tutti dovrebbero aver orecchiato il ritornello dell’articolo 27, le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato… Va cantato insieme all’articolo 13: “È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”. L’Italia, la più tarda e vile nell’introdurre il reato di tortura nel proprio codice, aveva in Costituzione quella riga che lo anticipava. La si doveva in particolare a Palmiro Togliatti e ai relatori Giorgio La Pira e Lelio Basso, memore questi dell’insegnamento del detenuto Filippo Turati: “Noi crediamo di aver abolito la tortura, ma i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, ma la pena di morte che ammanniscono, goccia a goccia, le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice” (1904, alla Camera). Nella discussione alla Costituente (1947), uno degli intervenuti disse: “Alcuni commissari hanno fatto un esperimento personale di violenze durante il fascismo, il che ha giustamente commosso l’onorevole La Pira. Questa commozione giustissima mi convince sempre più come sarebbe opportuno quel tal provvedimento proposto da un illustre giurista, che cioè si sottoponessero tutte le persone che aspirano a diventare magistrati o funzionari di pubblica sicurezza a un certo periodo di carcerazione perché costatino, loro che son destinati a mandare la gente in prigione, che cosa sia veramente la prigione, perché gli esperimenti personali insegnano più dei libri e delle lezioni e non si dimenticano più. Noi avvocati vi possiamo dire che questa famosa tortura, non la tortura dei tempi barbari, non la tortura del Santo Uffizio, ma un avanzo di quella tortura, una specie di ultimo rampollo di quell’aborrito sistema, si adoperava in parte anche prima del fascismo, la si è adoperata durante il periodo fascista, ma quel che conta è che si continua ad adoperare anche oggi che il fascismo dovrebbe essere finito”. La richiesta dei penalisti a Draghi e Cartabia: “Così va cambiato il carcere” di Viviana Lanza Il Riformista, 16 luglio 2021 L’inchiesta sui fatti di Santa Maria Capua Vetere potrebbe avere nuovi sviluppi nei prossimi giorni. Il lavoro degli investigatori intanto prosegue e prosegue anche l’indagine amministrativa disposta dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per fare chiarezza su quanto accaduto. Insomma il carcere di Santa Maria Capua Vetere resta sotto i riflettori, ancor di più dopo la visita di ieri del presidente del Consiglio Mario Draghi e della ministra della Giustizia Marta Cartabia. “Ora subito una riforma dell’ordinamento penitenziario in linea con un ampliamento delle misure alternative”, è la richiesta che arriva dal Carcere Possibile, la onlus della Camera penale di Napoli da anni impegnata nella tutela dei diritti dei detenuti. Il Carcere Possibile sta seguendo l’evoluzione dell’inchiesta, nata anche da un esposto della onlus oltre che dalla denuncia presentata oltre un anno fa dal garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello. E sarà pronto, laddove ci saranno dei rinvii a giudizio, a costituirsi parte civile nel processo sui pestaggi nel carcere sammaritano. Intanto dopo lo sdegno, c’è volontà di ritrovare la fiducia. “Abbiamo adesso una ministra della Giustizia che ha ben presente la Costituzione e la sua presenza a Santa Maria Capua Vetere tende a sottolineare che non va mai violato il principio costituzionale secondo cui le pene non possono mai consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”, sottolinea l’avvocato Anna Maria Ziccardi, presidente del Carcere Possibile, puntando l’attenzione sulle criticità che affliggono il pianeta carcere e sulla necessità di interventi che mirino a far sì che il carcere sia l’extrema ratio e che si investa per ridare dignità a chi vive ma anche a chi lavora all’interno degli istituti di pena. “Perché - spiega l’avvocato Ziccardi - in molti istituti di pena le condizioni di vita e di lavoro sono degradanti”. E se a ciò si aggiunge il sovraffollamento è chiaro che il mondo dietro le sbarre può diventare un inferno. “Se vogliamo dare valore alla presenza del Governo a Santa Maria Capua Vetere, dobbiamo dare forte valenza ai principi costituzionali e alla credibilità della funzione che ha il carcere”, dice la presidente Ziccardi che poi sottolinea la necessità di una svolta culturale: “Se non facciamo cultura su questi argomenti sarà sempre più difficile impedire che ci siano altre rivolte e altre violenze all’interno delle carceri”. “Ritorniamo su binari più umani”, è il suo appello. Come? “Recuperiamo il lavoro svolto durante gli Stati generali dell’esecuzione penale - continua Ziccardi - La riforma dell’ordinamento penitenziario è necessaria e va ripresa anche alla luce del lavoro fatto all’epoca, un lavoro che puntava alla persona, al reinserimento, alla modifica di un ordinamento assolutamente vecchio”. L’avvocato Ziccardi è stata tra gli esperti che hanno partecipato ai lavori in occasione degli Stati generali dell’esecuzione penale, un lavoro poi rimasto su carta. “È indispensabile creare osmosi tra il mondo di fuori e quello di dentro, preoccuparsi anche di come, una volta uscite dal carcere, le persone possano reinserirsi nella società. La direzione - spiega Ziccardi - non deve essere orientata alla sola espiazione della pena fine a se stessa ma deve rispettare la dignità delle persone e il principio costituzionale che ne prevede il loro reinserimento nella società. Questo discorso, in passato, purtroppo non ha suscitato interesse. Oggi, dopo i video eclatanti sui fatti di Santa Maria Capua Vetere le prospettive sono cambiate”. “Spero - conclude la presidente di Carcere Possibile - che d’ora in poi la politica non continui a essere sorda a questo problema. Rinchiudere i detenuti in una cella e disinteressarsi delle loro problematiche non è la soluzione giusta. Né si può pensare di risolvere il problema costruendo nuove carceri, al più vanno rimodernate e riviste quelle che ci sono per garantire condizioni di vita dignitose ai reclusi. Ma la vera soluzione sono provvedimenti legislativi che tengano presenti allargamenti delle misure alternative e una vera riforma dell’ordinamento penitenziario”. L’altolà di Salvini: “Cari Draghi e Cartabia, le carceri non si svuotano…” di Valentina Stella Il Dubbio, 16 luglio 2021 Non bastavano le difficoltà sulla riforma del processo penale. Per il leader della Lega ricorrere alle pene alternative equivale a liberare le galere “con un colpo di spugna”. “Diciamo che ragionare su alcune pene alternative ci sta, ragionare sul rafforzare la formazione professionale e il lavoro ci sta, svuotare le carceri con colpi di spugna no”: il giorno dopo le parole della Ministra della Giustizia Marta Cartabia a Santa Maria Capua Vetere - “la pena non è solo carcere” - arriva l’altolà di uno degli azionisti di maggioranza del Governo, il leader della Lega Matteo Salvini. Prevedibile reazione da chi per anni ha cercato consenso con slogan quali “buttare la chiave” e “devono marcire in carcere”. Ma qualcosa nella Lega è già cambiata se insieme al Partito Radicale sta promuovendo un quesito referendario per limitare l’abuso della custodia cautelare. Lo ricorda al Dubbio la vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia e diritti del Pd, Anna Rossomando: “Il Pd ha chiesto in Senato una commissione d’inchiesta sui fatti di violenza nelle carceri, perché è necessario sapere e conoscere per intervenire. In ogni caso noi ovviamente insistiamo perché venga approvata la riforma dell’ordinamento penitenziario che avevamo fatto partire alla fine della scorsa legislatura e i fatti dimostrano che c’è un assolutamente urgenza da questo punto di vista. Considerato poi che alcune forze che sono in maggioranza hanno improvvisamente scoperto che bisogna avere più garanzie per la custodia cautelare, hanno improvvisamente scoperto che c’è una realtà delle carceri, passando dal “devono marcire in galera” al “ci siamo accorti che succede qualche cosa”, auspichiamo un clima migliore considerato che la riforma dell’ordinamento penitenziario era stata affossata dalla maggioranza gialloverde”. È pur vero, sottolinea l’avvocato Riccardo Polidoro, co-responsabile dell’Osservatorio carcere dell’Unione delle Camere Penali, il quale fece parte della Commissione Giostra, che “mancavano solo i decreti attuativi ma il Governo Gentiloni congelò tutto. Ci auguriamo ora che i lavori di riforma sull’ordinamento penitenziario vengano ripresi. Il lavoro è già fatto, è completo. Si tratta solo di rimetterci mano”. Lo conferma anche un altro ex membro della Commissione Giostra, Pasquale Bronzo, Professore associato di procedura penale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”: “noi avevamo prodotto non un semplice progetto di idee ma un articolato normativo, che potrebbe essere tirato fuori dal cassetto già da ora”. Al momento ci sono gli emendamenti governativi per la riforma del processo penale che vanno nella direzione giusta. Lo ha ribadito anche il sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, a Tgcom24: la riforma Cartabia “sancisce percorsi alternativi al carcere che possono meglio calibrare il rapporto tra pena che punisce e pena che rieduca. L’impegno che abbiamo assunto con il Pnrr è quello di tagliare il 25 per cento dei tempi sul processo penale. Per questo ci serve un fluidificante per le norme di rito, ma un new deal anche per la sanzione, che deve essere resa più efficace e, convintamente, più rieducativa”. Infatti se verrà approvato il pacchetto di via Arenula, la novità riguarderà sanzioni che andranno a soppiantare le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, con contenuti corrispondenti a quelli delle misure alternative alla detenzione, attualmente di competenza del Tribunale di sorveglianza. Le nuove “pene sostitutive” (detenzione domiciliare, semilibertà, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria) saranno direttamente irrogabili dal giudice della cognizione, entro il limite di quattro anni di pena inflitta. Inoltre si vorrebbe potenziare la messa alla prova: per specifici reati, puniti con pena detentiva non superiore a 6 anni, si prevede che la richiesta di messa alla prova - lavoro di pubblica utilità e partecipazione a percorsi di giustizia riparativa - dell’imputato possa essere proposta anche dal pm. “Tutte queste soluzioni, se approvate, - prosegue il professor Bronzo - aiuterebbero a superare la centralità del carcere e risolverebbero anche la scandalosa situazione dei cosiddetti ‘liberi sospesi’, anche se l’impianto complessivo della Commissione Lattanzi è stato un po’ ridimensionato. Quelli che come Salvini dicono ‘non c’è certezza della pena’ si riferiscono sempre al carcere. Ma, come ha detto la Ministra, la Costituzione parla di “pene” al plurale. Trovo in tal senso rivoluzionaria la rivitalizzazione delle pene pecuniarie”. Se tutto andasse in porto come previsto non sarebbe comunque sufficiente per una riforma organica del sistema penitenziario, come prospettato dalla Ministra, che prenderebbe anche in considerazione l’immane lavoro della Commissione Giostra. Di quelle 130 pagine il cuore era proprio nelle misure alternative alla detenzione, come ci ricorda il professore Bronzo: “la parte più importante della riforma Giostra che è stata amputata per equilibri politici riguarda proprio le misure alternative. In sintesi noi avevamo proposto di agire su tre direttrici: renderle più accessibili; riempirle di contenuti, di esperienze di rieducazione, per non concepirle solo come de-carcerizzazione; renderle più controllabili e dunque più affidabili quali modalità di espiazione anche per il magistrato di sorveglianza”. Vedremo che strada intenderà percorrere la ministra, intanto quella per capire cosa è accaduto il 6 aprile 2020 e nei mesi successivi è già segnata: da fonti di via Arenula, si è appreso infatti che sui fatti di Santa Maria Capua Vetere la ministra della Giustizia Marta Cartabia riferirà sia alla Camera che al Senato mercoledì prossimo, 21 luglio. “Meno carcere e più pene alternative? Il sistema è impreparato, si rischia deriva criminogena” di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2021 Sebastiano Ardita, consigliere del Csm ed ex dirigente del Dap: “Messa alla prova anche per reati puniti fino a sei anni di carcere? Sono d’accordo, ma nei Paesi in cui si applica massivamente c’è anche un ‘probation office’ che controlla”. In Italia invece? “Basterà un contratto di lavoro, anche falso, e un colloquio semestrale con l’assistente sociale per continuare a commettere reati. Ed il sistema penale continuerà a sprofondare”. Un sistema con meno carcere e più pene alternative alla detenzione: domiciliari, semilibertà, lavori socialmente utili. E poi più spazio alla cosiddetta giustizia riparativa: chi ha commesso il reato ripara il danno causato alla vittima. È questa la giustizia immaginata da Marta Cartabia, la guardasigilli che nelle scorse ore ha inviato alla competente commissione della Camera gli emendamenti alla legge delega che riforma il processo penale. A parte la contestata riforma della prescrizione - che vara un sistema d’improcedibilità per i procedimenti d’appello che durano più di due o tre anni - tra le norme presentate dal governo c’è anche l’estensione del novero dei reati per cui è possibile chiedere la messa alla prova con sospensione del processo: dalle fattispecie punite fino a quattro anni si passa a quelle che prevedono una pena fino a sei anni. Un sistema giuridico che ricalca il modello anglosassone, ma che in Italia rischia di avere una “deriva burocratica”. Peggio: una “deriva criminogena” in cui si continua a commettere reati. Parola di Sebastiano Ardita, magistrato esperto delle questioni relative alla detenzione: è stato direttore generale del Trattamento detenuti del Dipartimento amministrazione penitenziaria, poi procuratore aggiunto a Messina e Catania, mentre oggi è consigliere togato del Csm. La ministra Cartabia sostiene che “la certezza della pena non è la certezza del carcere”. Dottore Ardita, lei è d’accordo? Sono certamente d’accordo. E credo che non esista una espressione che possa sintetizzare meglio il bisogno di separare la penalità dal carcere, come avviene in tutti i paesi moderni che hanno rinunciato alla dimensione puramente afflittiva della pena. Ma temo che il nostro Paese sia assolutamente impreparato ad affrontare questa importante sfida. Perché? Perché per la probation non basta la previsione di un articolato normativo, ma occorre un apparato di uomini preparati allo scopo e di mezzi, altrimenti diviene lo strumento di una ulteriore elusione della pena. Nei Paesi in cui si applica massivamente la messa alla prova e la pena alternativa, c’è anche un “probation office” che lavora e illumina gli occhi del giudice che decide. Ogni mattina chi è messo alla prova riceve la visita di chi è chiamato a verificare se lavora, se fa uso di sostanze, come si comporta in famiglia. E durante la giornata può ricevere controlli per capire chi frequenta. Solo con queste condizioni di cautela si può fare in modo che chi poteva stare in carcere sia libero, con un vantaggio per la società. Altrimenti rischiamo la deriva burocratica, direi quasi una deriva criminogena: basterà un contratto di lavoro, anche falso, e un colloquio semestrale con l’assistente sociale per continuare a commettere reati. Ed il sistema penale continuerà a sprofondare… Proprio per incentivare misure alternative al carcere, la riforma Cartabia estende la possibilità di ricorrere all’istituto della messa alla prova anche ai reati puniti con pene fino a sei anni di carcere. Secondo lei non è una soglia troppo alta? In sé potrebbe non essere un tetto alto se i controlli funzionassero. Noi abbiamo un corpo di polizia penitenziaria che da anni attende una nuova riforma. Con una attività di formazione intensiva in poco tempo potrebbe essere in grado di reggere la sfida di rendere efficienti probation e pene alternative. Tra quelle punite fino a sei anni si trovano alcune fattispecie come l’associazione a delinquere: non sono reati troppo gravi per concedere subito la messa alla prova? Naturalmente la criminalità organizzata fa sempre storia a sé, quindi occorre fare molta attenzione. Ma, come abbiamo visto, la stagione degli automatismi è ormai superata dallo stigma della illegittimità costituzionale. Spetterà dunque al giudice decidere con attenzione caso per caso. Una giustizia attenta e professionale non avrà bisogno di ripararsi dietro il muro degli automatismi. Sempre tra gli emendamenti presentati dal governo alla riforma, alcuni prevedono che siano direttamente i giudici del processo - e non di sorveglianza - a poter concedere misure alternative al carcere, direttamente dopo la condanna o il patteggiamento. Per i reati puniti fino a 4 anni si potrà concedere la detenzione domiciliare, oppure la semilibertà. Fino a 3 anni il lavoro di pubblica utilità: un sistema all’americana. Lei come la vede? La vedo bene anzi benissimo, ma solo se si riuscirà ad organizzare il modello dei controlli di cui parlavo prima. C’è poi in questa scelta una dimensione anglosassone che lega la pena e la sua esecuzione al giudice della cognizione. Il che potrebbe dare buoni risultati anche nei percorsi di reinserimento, senza mortificare però l’esperienza della magistratura di sorveglianza. Senza tutte queste cautele, non la vedo affatto bene. È possibile applicare al sistema italiano la giustizia riparativa, alla quale la guardasigilli sembra molto affezionata? Quella della giustizia riparativa - su adesione volontaria di tutte le parti - è una necessità più che una opportunità. La mediazione penale tra vittime e autori di reato - così come si chiamava nella sua prima versione di cui mi sono impegnato a favorire la diffusione - rappresenta la punta avanzata del trattamento penitenziario. Essa ha prodotto effetti incredibili sia nel recupero dei condannati che nel superamento delle lacerazioni morali patite dalle vittime. Chi conosce questa esperienza e conosce il carcere sa che dovrebbe essere incoraggiata è diffusa il più possibile. Ha fatto molto discutere la riforma della prescrizione, con l’improcedibilità in appello che farà “morire” i processi se non si concludono entro un determinato periodo di tempo. In questo modo non sarà più conveniente fare ricorso per l’imputato? Mi sembra una risposta così evidente che rinuncio anche a formularla. Sarebbe l’ennesimo investimento che viene fatto sui tempi lunghi del processo. In un clima annunciato di rinnovata attenzione per le garanzie individuali, che meriterebbe un ben diverso accredito sul piano gestionale, non mi pare un buon biglietto da visita. Oggi l’Italia è tra i Paesi dell’Unione europea con meno magistrati: sono 12 per 100mila abitanti. Il Recovery plan stanzia circa tre miliardi per il settore giustizia, prevede l’assunzione di 16mila dipendenti, ma di nessun magistrato. Questo è vero. Ma aggiungo che le risorse finora sono state impiegate male. Sarebbe preferibile investire in modelli organizzativi agili ed efficienti, piuttosto che nell’assunzione di uomini e mezzi impiegati senza un criterio è costretti a rincorrere le pastoie di processi lunghi e defatiganti. La prima trasferta del premier Draghi e della ministra Cartabia, in tandem, è stata nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere, teatro delle violenze della polizia penitenziaria dopo le rivolte del marzo 2020. Lei che è stato un alto dirigente del Dap, come valuta questa vicenda? La vicenda è gravissima ma è solo l’ultimo fotogramma di una prolungata di disattenzione verso questo pianeta. Rispondere a un evento del genere con un provvedimento emotivo sarebbe un errore, ma non c’è dubbio che bisogna ripartire con una azione decisa che riavvicini la popolazione detenuta alle istituzioni. Occorre rinnovare la fiducia negli agenti e offrire un orizzonte di speranza a chi è detenuto. Il governo ha paura di una rivolta della Polizia penitenziaria di Nello Trocchia Il Domani, 16 luglio 2021 Perché la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, soltanto oggi ha fatto sapere che andrà, il 21 luglio, a riferire in parlamento sulle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere? Dal ministero spiegano che non è stata cattiva volontà, ma un problema di agenda: Cartabia ha chiesto al ministro per i Rapporti con il parlamento, il Cinque stelle Federico d’Incà, di fissare una data e sta aspettando. Piccolo dettaglio: dal ministero di D’Incà precisano che la richiesta di Cartabia di rispondere in parlamento è arrivata solo stamattina. La prima notizia dei pestaggi, pubblicata da Domani, è del 28 settembre 2020, i video sono stati rivelati il 29 giugno di quest’anno. Questo lungo silenzio ha una spiegazione semplice e sorprendente: la questione è stata sottovalutata a tutti i livelli del ministero. E ora non sanno bene come gestire una situazione diventata esplosiva proprio perché lasciata incancrenire. “Non dovete processarci”, ripetono gli agenti della polizia penitenziaria. Lo hanno ribadito alla ministra Cartabia che visita i padiglioni del carcere con il presidente del Consiglio, Mario Draghi. Una frase che nasconde un tema, enorme, di tenuta e di stabilità delle carceri e di chi, quotidianamente, ci lavora. La paura degli agenti è che il pestaggio di stato finisca per penalizzare l’intero corpo, il timore del governo è il rischio di alienare i poliziotti penitenziari che devono garantire la sicurezza negli istituti di pena. La visita - “La ministra ha fatto benissimo ad andare a Santa Maria Capua Vetere, nel carcere Francesco Uccella, perché il rischio è minare la fiducia degli agenti. La giornata nera è colpa di tanti”, dice un funzionario del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La giornata nera è il 6 aprile 2020 quando 300 secondini sono entrati, molti muniti di casco, e hanno picchiato i detenuti inermi del reparto Nilo. Nel suo intervento la ministra si è limitata a ripetere urgenze già espresse in altre sedi, ma non ha indicato una strategia per evitare nuove “Santa Maria”. La funzione profonda dell’evento era la riconciliazione, la presa di responsabilità davanti ai detenuti, ma soprattutto davanti al personale. “Gli agenti sono profondamente scossi da quanto emerso, ma soprattutto non accettano che tutto ricada su chi ha dato le manganellate. La questione riguarda la catena di comando, la testa dell’amministrazione che aveva autorizzato quella “perquisizione straordinaria”. Nelle carceri molti agenti si sentono abbandonati, meno sicuri, e allora il ragionamento può essere “entrate voi nei reparti”, continua il funzionario che chiede di non essere citato per nome. Il disimpegno è un rischio enorme che bisogna evitare. Il momento è delicatissimo perché quando si parla di carceri non si parla solo di stabilità interna, ma anche esterna. Quella che pesa negli incontri internazionali dove certe immagini contano perché ridimensionano all’estero la credibilità del paese. Per questo la ministra Cartabia ha condiviso la visita con il presidente del Consiglio Draghi. Il commissario europeo Didier Reynders, nei giorni scorsi, aveva detto che “la violenza non è mai tollerabile”, prima di chiedere una commissione indipendente per accertare i fatti. “Ringrazio il presidente del Consiglio che ha condiviso con me il desiderio di visitare il carcere di Santa Maria Capua Vetere, dopo la pubblicazione delle immagini dei gravissimi fatti accaduti fra queste mura poco più di un anno fa che hanno fatto il giro del mondo”, ha detto la ministra Cartabia nel suo intervento, dando un messaggio chiaro all’esterno - all’Europa - ma anche all’interno. Una strategia necessaria e figlia della sottovalutazione del caso. La sottovalutazione - Il 16 ottobre dello scorso anno il governo Conte II ha risposto a un’interrogazione parlamentare parlando del 6 aprile come di una giornata nella quale è stata ripristinata la legalità. È stata considerata veritiera la relazione che il provveditore Antonio Fullone, oggi sospeso perché interdetto, aveva inviato al capo del Dap, Francesco Basentini. Già all’epoca Fullone era indagato perché aveva ordinato la perquisizione. Anche quando cambiano ministro e vertici del dipartimento non muta la lettura di quei fatti. Nessuno ha creduto alle descrizioni fornite dai testimoni, nessuno ha creduto al pestaggio di stato prima dei video. Quando si è insediata la ministra, il Dap non ha allertato Cartabia di un potenziale e gigantesco scandalo rappresentato dai fatti di Santa Maria perché semplicemente avevano sottovalutato il caso. La ragione è la carenza di riscontri. “Trasmissione atti non più procrastinabili”, scriveva il dipartimento alla procura di Santa Maria Capua Vetere lo scorso anno. Ma i magistrati inquirenti hanno negato le informazioni per tre volte perché c’erano esigenze di segretezza delle indagini. Quando è stato fornito l’elenco degli indagati risultava sprovvisto dei titoli di reato e così il dipartimento si è limitato a trasferire un comandante. Anche se all’epoca era noto il reato contestato, cioè la tortura, come evidenziato dai sindacati e dagli stessi agenti indagati, sostenuti dalla visita dell’ex ministro Matteo Salvini. Non c’erano carte, ma c’erano tanti, troppi elementi noti. C’erano 77 detenuti che avevano visto i video, noti anche ad alcuni indagati che dovevano contribuire al riconoscimento degli agenti. Non solo. Tra settembre e ottobre, grazie a diversi testimoni, questo giornale ha pubblicato articoli descrittivi dei pestaggi e delle violenze. Il giorno della prima inchiesta, il 29 settembre, il garante dei detenuti campano, Samuele Ciambriello, ha detto: “Ora ci sono le immagini che provano le violenze. Solo pochi detenuti sono stati trasferiti, la maggior parte è rimasta nello stesso reparto, il Nilo, dove avvennero i pestaggi, insieme agli agenti denunciati. Non capisco perché il Dap non intervenga con i trasferimenti di tutti i detenuti o dei poliziotti coinvolti nella vicenda”. Il dipartimento non è intervenuto. Non immaginavano dai piani alti del Dap quello che sarebbe emerso dai video. L’amministrazione ha trascurato le inchieste e le denunce. Dopo la pubblicazione delle immagini, corre ai ripari avviando indagini su tutte le rivolte e la ministra ci mette la faccia per evitare conseguenze più gravi. Il governo deposita gli emendamenti: la riforma penale è a un bivio di Giacomo Puletti Il Dubbio, 16 luglio 2021 C’è tempo fino a martedì per presentare i subemendamenti ma l’esecutivo vuole procedere spedito e chiudere già entro la prossima settimana con chi ci sta. In attesa dell’incontro tra Draghi e Conte, il M5s proverà a buttare la palla in corner. La guardasigilli Marta Cartabia ha depositato in commissione Giustizia alla Camera gli emendamenti alla sua riforma. Ventisei proposte, approvate dal Consiglio dei ministri la scorsa settimana, che intervengono sulla riforma del processo penale dell’ex ministro Alfonso Bonafede e che per questo saranno protagonisti del braccio di ferro tra via Arenula e il Movimento 5 Stelle nei prossimi giorni. I subemendamenti dovranno essere presentati entro martedì alle 10 e la maggioranza, ad esclusione dei pentastellati, punta a portare il testo in aula entro la prossima settimana. “Venerdì prossimo sì svolgeranno nuove audizioni tra i nominativi che domani (oggi, ndr) i gruppi indicheranno - ha detto Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia di Montecitorio - La prossima settimana sarà dunque uno snodo importante”. L’impressione è che la parola “snodo” sia un eufemismo, perché sia in commissione che in aula si prevede una vera battaglia. Che potrebbe essere sbloccata solo dall’incontro tra il presidente del Consiglio, Mario Draghi, che ha fatto sapere di non aspettarsi stravolgimenti alle proposte della Cartabia, e l’ex inquilino di palazzo Chigi, Giuseppe Conte, tornato alla ribalta dopo l’accordo (o meglio, la tregua) con Beppe Grillo. Incontro che dovrebbe svolgersi all’inizio della prossima settimana.Con la riforma Cartabia vengono introdotti tempi fissi oltre il quale scatta l’improcedibilità, cioè due anni per il processo d’Appello e un anno per quello in Cassazione, con delle eccezioni per i reati gravi come mafia, terrorismo, traffico di droga, violenza sessuale, rapina, estorsione, sequestro e, dopo l’insistenza del M5S, anche per corruzione e concussione: in questi casi i tempi dei processi potranno essere prorogati fino a tre anni per l’Appello e a un anno e mezzo per la Cassazione. Il Movimento proverà a salvare il salvabile cercando, da un lato, di allungare i tempi di approvazione della riforma alla Camera e dall’altro di evitare che venga blindata. Il problema è che in aula saranno da soli a combattere questa battaglia, se è vero che dopo l’incontro tra Draghi e il segretario del Pd, Enrico Letta (ai quali sono seguiti quelli con Tajani e Salvini) l’esecutivo ha accelerato sul calendario. I Cinque stelle probabilmente si aspettavano un atteggiamento diverso dal Nazareno, che però sta tirando dritto per evitare di lasciare la palla nel campo di Salvini, viste anche i numeri traballanti al Senato sul ddl Zan. “La riforma della giustizia serve ai cittadini ma anche alle imprese - ha detto Letta - Sapere che l’arbitro c’è e che le regole sono applicate è un messaggio di cui il Paese ha fortemente bisogno”. Difficile che si arrivi a un accordo entro la prossima settimana, ma prima della pausa dei lavori parlamentari il governo vuole l’ok di Montecitorio (mentre a palazzo Madama si tenterà il semaforo verde al processo civile). “La riforma della giustizia nella sua pluralità di interventi dal processo penale al civile fino alle misure alternative al carcere e alla risoluzione stragiudiziale delle controversie è sicuramente un primo passo per la riaffermazione della civiltà giuridica recuperando lo spirito della Costituzione - ha spiegato la capogruppo di Forza Italia al Senato, Anna Maria Bernini - Una riforma che lascia necessariamente fuori la separazione delle carriere e dei Csm, ma nonostante questo l’esercito giustizialista, con in testa l’Anm, si è già messo in azione per bloccare tutto. Questa volta indietro non si torna: in Parlamento ci sono infatti, finalmente, i numeri per porre fine alla deriva giacobina”. Lo afferma in una nota la presidente dei senatori di Forza Italia Anna Maria Bernini. Intanto la Commissione europea ha avviato una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia perché la legislazione nazionale che regola l’attività dei magistrati onorari, inclusi i giudici di pace, non è pienamente in linea con il diritto Ue in materia di lavoro: i magistrati onorari non hanno status di lavoratori e quindi non godono delle relative tutele (come malattia e maternità), non hanno rimborsi per le spese legali in cui incorrono, non sono tutelati contro l’abuso di contratti a tempo determinato in successione, e non hanno neanche la possibilità di fare causa contro questi abusi. Inoltre “l’Italia non ha creato un sistema idoneo a misurare l’orario di lavoro dei magistrati onorari”. Roma ha due mesi di tempo per rispondere; in caso contrario la procedura andrebbe avanti con un parere motivato. Riforma della giustizia: in commissione sfilano i big delle toghe di Liana Milella La Repubblica, 16 luglio 2021 Contro Cartabia i 5Stelle giocano la carta Gratteri. Atteso per lunedì l’incontro tra Conte e Draghi: la battaglia sui tempi dei processi si preannuncia durissima. Il Movimento, intanto, si è aggiudicato la chance delle audizioni: anche De Raho nel novero delle voci da ascoltare. Ecco chi interverrà: i favorevoli e i contrari. Martedì scadrà il termine per gli emendamenti. En attendant... Conte. Sulla riforma Cartabia ormai tutto dipende dal leader in pectore di M5S Giuseppe Conte. E dal suo incontro con Mario Draghi lunedì. I boatos di Montecitorio raccontano che la battaglia sui tempi sarà durissima. La data del dibattito in Aula è sempre la stessa, venerdì 23 luglio. Ma il presidente della Camera Roberto Fico può spostarla in qualsiasi momento convocando la capigruppo. Dove M5S potrebbe giocare la carta dei subemendamenti e della necessità di discuterli in vista di una riforma determinante per la giustizia italiana. Ma da Palazzo Chigi e da via Arenula continuano ad arrivare voci sulla volontà di chiudere, anche con la fiducia, prima di agosto. Non solo per evitare il semestre bianco, ma soprattutto per rispettare i tempi del Recovery. Del resto i gruppi hanno avuto ampio spazio per discutere, da quando la Guardasigilli Marta Cartabia li ha ascoltati sulle proposte di Giorgio Lattanzi. E poi anche, singolarmente, prima di portare gli ultimi emendamenti a Palazzo Chigi. Ma la scansione parlamentare potrebbe riservare sorprese. Anche tenendo presente il calendario che, la prossima settimana, vede in aula il decreto Semplificazioni. Per ora la battaglia sulla giustizia si gioca in commissione. Dove M5S si è aggiudicata la chance delle audizioni. C’è voluta un’intera giornata ieri per arrivare a un calendario e mediare tra le richieste dei singoli gruppi. E proprio sul calendario e sulle presenze si potrebbe litigare subito. Tenendo conto che il presidente della commissione è Mario Perantoni di M5S. E che è stato il capogruppo di M5S Eugenio Saitta a battersi per le audizioni. Alla fine vincendo e ottenendole. E che tra i componenti della commissione c’è l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede che ha duramente preso le distanze dalla proposta Cartabia, parlando di “impunità” e che è noto a tutti il suo stretto rapporto con il neo presidente Conte. Proprio a fronte di un’uscita polemica di Conte contro la riforma - ieri, dopo l’incontro che ha siglato la pace con Beppe Grillo a Marina di Bibbona, l’ex premier sul tema della giustizia ha detto che “il Movimento deve, con fermezza, far sentire la sua voce” - M5S ha giocato una carta “pesante”, quella di ascoltare in commissione Nicola Gratteri, l’attuale procuratore di Reggio Calabria, che in un’intervista al Fatto quotidiano ha già duramente bocciato la proposta Cartabia parlando di “un’amnistia che butta al macero i processi”. L’audizione di Gratteri è stata accolta da Perantoni, ma non si potrà tenere oggi, neppure in videoconferenza come le altre, per precedenti impegni del procuratore. E questo già crea un ostacolo. Tant’è che Enrico Costa di Azione, uno dei protagonisti più polemici contro M5S e la prescrizione di Bonafede, già dice che “non è ammissibile alcuno slittamento” e che Gratteri “può ben mandare una nota scritta”. Discorso che vale anche per il procuratore nazionale Antimafia Federico Cafiero De Raho che non potrà esserci. Ma è nel parterre delle toghe big da sentire. Hanno confermato la loro presenza invece, nell’ordine, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, l’avvocato Franco Coppi, il penalista bolognese Vittorio Manes, l’ex procuratore di Torino Armando Spataro, l’ex sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano, oggi in Cassazione, il presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza. A parte Spataro, che già sulla Stampa ha espresso un giudizio in parte positivo sulla riforma, tutti gli altri sono “contro”. E poi mancano all’appello Gratteri e De Raho. Presenze che, sui reati di mafia, hanno ovviamente un’importante voce in capitolo. Tutto questo potrebbe acuire la protesta del M5S, la sua richiesta di prendere tempo, comunque di cambiare la prescrizione tornando alla Bonafede. Ma stavolta il fronte di chi è favorevole è ampio. Tutta la maggioranza. Anche il Pd, che infatti ha proposto di ascoltare Spataro. Mentre la Lega ha chiesto Coppi, molto critico sulla riforma, Italia viva Caiazza ugualmente negativo, Costa ha voluto Manes. Mantovano è in quota Fratelli d’Italia. Proprio Costa è contro qualsiasi rinvio. Sostiene che se M5S insiste, allora lui potrebbe proporre il ritorno alla prescrizione dell’ex Guardasigilli Andrea Orlando, cioè solo una sospensione della prescrizione di 36 mesi tra Appello e Cassazione. La sua idea è che in realtà M5S esca bene dalla riforma Cartabia perché la prescrizione di Bonafede resta comunque bloccata definitivamente in primo grado. Stiamo parlando della prescrizione prevista per ogni reato, che non potrà più correre, a cui però si aggiunge l’improcedibilità del processo stesso se si superano i tempi stabiliti. Quindi, se M5S dovesse insistere nella linea dell’“impunità” e della “denegata giustizia” allora tanto vale cancellare la Bonafede definitivamente e tornare alla Orlando. Un’ipotesi che certo vedrebbe favorevoli anche Lega e Forza Italia. Martedì scadrà il termine per gli emendamenti. Poi, se resta confermata la data del 23 in aula, ci saranno solo mercoledì e giovedì per discuterli. Ma, ovviamente, la maggioranza favorevole a Cartabia potrebbe anche fare la mossa del cavallo e ritirare tutti gli emendamenti per andare avanti e bloccare qualsiasi ulteriore ostruzionismo. Così il Pd prova a convincere Conte a non fare drammi sulla riforma della giustizia di Valerio Valentini Il Foglio, 16 luglio 2021 Più che una moral suasion è un tentativo di indurre nell’alleato riottoso un ravvedimento operoso, sempre nel perimetro del governo che fu e della coalizione che sarà. “Perché una deflagrazione del M5s sulla giustizia non è auspicabile per nessuno”, ripete da giorni Andrea Orlando, che di questa trattativa sotterranea è un po’ il regista. E allora eccoli, appartati in un angolo di Montecitorio di mercoledì pomeriggio, i grillini Alfonso Bonafede e Angela Salafia insieme ai dem Andrea Giorgis e Alfredo Bazoli. Ecco i dispacci riservati che il ministro del Lavoro invia a Giuseppe Conte. L’asse rossogiallo che prova a trovare una nuova comunità di destino, mentre incombe l’archiviazione della “Spazza-corrotti”. Tutto ruota intorno a un avvertimento, un timore che i dirigenti del Pd condividono coi ministri grillini D’Incà e Patuanelli, ma che le truppe parlamentari, perennemente in preda alle convulsioni, faticano a mettere a fuoco. “Se noi riapriamo la discussione sul disegno di riforma ideato dalla Cartabia, rischiamo di legittimare le posizioni oltranziste di Azione e Iv”, dicono i dem ai colleghi del M5s. E lo scenario di un’imboscata parlamentare si delinea subito nel sorriso sornione del calendiano Enrico Costa, che conferma la tesi: “Se sono proprio i grillini a contestare questo impianto, che è una soluzione di compromesso raggiunta appunto per non scontentare il M5s, allora tanto vale che si faccia una riforma più incisiva che rottami del tutto la Bonafede”. Per questo nel Pd caldeggiano delle correzioni sartoriali. Si potrebbe quindi recuperare lo schema del lodo Orlando, che prevede non già l’improcedibilità dell’azione penale, ma una sospensione condizionata della prescrizione: passati i due anni previsti per celebrare l’Appello, il processo non si estinguerebbe, bensì il tempo trascorso verrebbe recuperato nel computo della prescrizione. Una proposta, questa, in sintonia con le ansie di molte corti d’Appello (da Napoli a Venezia, da Catania a Bologna), sul rischio che il termine dei due anni porti all’estinzione di troppi processi. L’altra ipotesi è di restare ancor più ancorati all’impianto della Cartabia, ma avanzando modifiche marginali. Come la modifica del dies a quo, facendo così scattare il conteggio dei due anni non dal deposito della sentenza di primo grado, ma dalla scadenza dei termini per l’impugnazione. L’altra idea è quella di estendere le casistiche processuali per le quali viene riconosciuta una proroga del limite dei due anni. Non molto, forse, nell’ottica del M5s. Ma comunque il massimo che si possa ottenere. Anche perché sull’altra via vagheggiata da Giuseppe Conte, quella di una dilazione dei tempi, è già piovuto il monito di Palazzo Chigi. Il quasi-capo grillino di un rinvio della riforma della giustizia avrebbe bisogno, così da poter consolidare la sua leadership anziché inaugurarla con un atto di resa su uno dei temi identitari. Ma se in tutti i colloqui avuti coi vari segretari di partito, in questi giorni, Mario Draghi ha ribadito l’urgenza di agire in fretta sulla giustizia, lo ha fatto perché con l’Ue ci siamo impegnati a completare la riforma entro il 2021, il che vuol dire che il testo deve arrivare al Senato a settembre. E dunque i tempi, per la discussione alla Camera, sono obbligati: al più tardi nella prima settimana di agosto il ddl va approvato in Aula. Nei prossimi giorni Draghi spiegherà anche a Conte che spazio per ostruzionismo non ce n’è. E magari proverà a capire se davvero, come si vocifera in Transatlantico, le furbizie grilline servono a scavallare la scadenza del 3 agosto: quando, con l’avvio del semestre bianco, la tentazione del liberi tutti si farebbe forte. Lodo Cartabia entro l’estate: la Lega in pressing su Conte di Rocco Vazzana Il Dubbio, 16 luglio 2021 Dopo un colloquio con Draghi, Salvini avverte gli alleati: “Chiunque si metterà contro le riforme avrà in noi un avversario”. “Chiunque si metterà di ostacolo e di traverso sulla via delle riforme, vuoi che sia Conte o Grillo o qualche corrente del Pd, avrà nella Lega un avversario”. Quando pronuncia queste parole, Matteo Salvini è appena uscito da Palazzo Chigi, dove ha avuto un colloquio col presidente del Consiglio Mario Draghi. Oggetto del confronto: le riforme, a partire da quella sul processo penale. Il premier teme che la tabella di marcia promessa all’Europa in cambio del Recovery possa subire qualche battuta d’arresto e cerca rassicurazioni da tutti gli “azionisti” della sua maggioranza. In poche ore l’ex numero uno della Bce ha infatti incontrato Enrico Letta, Antonio Tajani e appunto Salvini, che mette in guardia gli alleati: “Lavoriamo con buonsenso, ho detto al presidente: la Lega c’è”. Del resto il Carroccio, che sulla Giustizia promuove parallelamente i referendum proposti dai radicali, sa perfettamente che il “lodo Cartabia” rischia di far saltare per l’ennesima volta la fragilissima tregua siglata da Beppe Grillo e Giuseppe Conte e gioca coi nervi degli alleati/ rivali. Per questo all’uscita da Palazzo Chigi Salvini dichiara “totale condivisione” col premier “su come andare avanti nei prossimi mesi”. Imperativo categorico: “Correre sulle riforme, accelerare sulle riforme. Quindi riforma della giustizia da portare in Parlamento e da approvare entro l’estate”, aggiunge il leader della Lega, giocando di sponda con Draghi. Sì, perché il capo del governo teme brutti scherzi da parte dei 5 Stelle, sospettati di voler tirare per le lunghe la trattativa sulla riforma Cartabia per potersi muovere a briglie sciolte a partire dal prossimo mese. Il 3 agosto, infatti, Sergio Mattarella entra nell’ultimo tratto di strada del suo mandato: il semestre bianco, il periodo in cui il Capo dello Stato perde la potestà di sciogliere le Camere. Tradotto: in caso di crisi di governo, nessuna “minaccia” di ritorno imminente alle urne potrebbe spaventare i partiti. Un motivo in più per spingere l’ala irriducibile del Movimento, capitanata paradossalmente da Conte, e non da Grillo, a lasciare la maggioranza. E se da un punto di vista numerico un eventuale addio dei grillini non pregiudicherebbe la tenuta del governo, da un punto di vista politico produrrebbe effetti potenzialmente devastanti. Il Pd, tanto per cominciare, dovrebbe accettare di far parte di un esecutivo a trazione salvianiana, mentre la Lega si sentirebbe pienamente legittimata a imporre, o tentare di farlo, la propria agenda a Draghi. E senza la “copertura” del Quirinale lo stesso premier ne uscirebbe seriamente indebolito. In un quadro di questo tipo, difficilmente la maggioranza riuscirebbe a stare in piedi per tutto il tempo necessario a governare il processo messo in moto col Recovery. Meglio evitare rischi, dunque, agendo per tempo, portando a casa cioè la riforma del processo penale prima dell’estate, prima del semestre bianco. In teoria l’approdo alla Camera della proposta Cartabia è previsto per il 23 luglio. E se Pd, Lega e FI sembrano intenzionati a rispettare il calendario, il Movimento chiede invece maggior tempo per costruire al meglio la riforma, modificando gli emendamenti che non sono stati in ogni caso ancora depositati. La tempistica verrà comunque discussa dall’ufficio di presidenza della commissione Giustizia, e a giudicare da quanto dichiarato due giorni fa dal presidente grillino della Commissione, Mario Perantoni, la data del 23 luglio potrebbe essere una chimera. “Il Parlamento dovrà essere centrale, avremo molto da discutere” sulla riforma del processo penale, ha spiegato Perantoni. “Certamente il termine del 23 luglio fissato dal programma della Conferenza dei capigruppo per la discussione dell’Aula è poco realistico”, ha messo in chiaro il presidente 5S della Commissione, forte anche della “preoccupazione” per la riforma manifestata da molti giuristi. E dall’Anm, che ieri si è resa ufficialmente disponibile con la ministra Cartabia per illustrare “compiutamente le ragioni” delle proprie perplessità nelle opportune sedi istituzionali”. Draghi però potrebbe decidere di “blindare” il testo, lasciando ai grillini la facoltà di scegliere tra due sole opzioni: voto contrario o astensione. La forzatura comporterebbe però delle conseguenze al momento imprevedibili, nonostante il sostegno incondizionato di Lega, Pd e Forza Italia. La riforma Cartabia è sbagliata: i processi non si velocizzano per decreto di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 16 luglio 2021 La prescrizione, più che un problema tecnico-giuridico, è ormai una disputa fra contrapposti schieramenti politico-ideologici. Oltretutto condotta con intolleranza verso chi osi criticare l’emendamento approvato l’8 luglio dal Cdm su proposta del Guardasigilli, Marta Cartabia. Eppure gli scontri, per quanto accesi, non possono cancellare il fatto che a rigor di logica il dibattito sulla prescrizione dovrebbe rimanere congelato almeno per qualche anno, perché di “trippa per gatti” - per dirla alla romana - oggi come oggi ce n’è poca. Mi spiego. La controversia verte sugli effetti della legge (cosiddetta Bonafede) che il 1° gennaio 2020 ha stabilito che la prescrizione si interrompe con la pronunzia della sentenza di primo grado. Cancellando così un’anomalia che diversificava il nostro sistema da ogni altro. Poiché la disfida oggi è regolata anche sulla modalità “catastrofe”, verrebbe da pensare che senza emendamento Cartabia, il crollo dei palazzi di giustizia sia questione di ore. Non è così. Le cassandre sono smentite da un dato inoppugnabile che riprendo dal Fatto del 10 luglio: nella relazione Lattanzi, presidente della commissione di riforma istituita dalla ministra, sta scritto (pag. 51) che gli effetti del blocco Bonafede “si produrranno a partire dal 2025 per le contravvenzioni e dal 2027 per i delitti”, per cui “dal punto di vista tecnico non vi sono ragioni che rendono urgente (una nuova) riforma della prescrizione”. È la conferma “ministeriale” che per ora, appunto, non c’è “trippa per gatti” su cui valga la pena dividersi. Nonostante ciò, si litiga ferocemente, con il paradosso che la tenzone si è imprevedibilmente allargata: dagli effetti non ancora misurabili della legge Bonafede a quelli, fin d’ora tracciabili, della riforma Cartabia. La quale, come si sa, da un lato spranga la porta (confermando il blocco della prescrizione con la sentenza di primo grado) ma subito dopo la spalanca: se entro due anni non si conclude la fase d’appello, il processo svanisce nel nulla. Come con la prescrizione, che però in questo caso si chiama “non procedibilità”. Gli effetti? Ecco due pareri fra i più autorevoli. Primo: secondo l’avv. Franco Coppi, la pena inflitta all’imputato in primo grado ovviamente non può essere eseguita. Ma che sarà del risarcimento riconosciuto alla parte civile? L’imputato può ben dire che se si fosse celebrato l’appello lui sarebbe stato assolto. Insomma, un groviglio. “Meglio la riforma Bonafede, che se non altro aveva il pregio della chiarezza”. Prescrizione, anche il più celebre avvocato italiano boccia Cartabia. Coppi: “E’ un groviglio, così i processi vanno in tilt. Era meglio tenersi la Bonafede” Secondo: sostiene il prof. Paolo Ferrua, che in caso di prescrizione del reato, il giudice può entrare nel merito stabilendo ad esempio, se vi è prova evidente, che il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso; l’improcedibilità invece impedisce qualunque accertamento nel merito prevalendo su ogni altra sentenza; per cui se il pm impugna la sentenza di assoluzione di primo grado e l’appello non si conclude entro due anni, l’assoluzione si converte in improcedibilità: una “esilarante reformatio in peius per decorso del tempo”. Lasciamo l’empireo del diritto e proviamo a fare due conti, come usa dire, facili facili. Prendiamo un reato fra i più diffusi, il furto, con prescrizione di dieci anni. È realistico prevedere che l’imputato raggiunto da prove sufficienti possa essere condannato in primo grado entro quattro anni (tra indagini e dibattimento). Se la mancata conclusione dell’appello entro due anni fa scattare l’improcedibilità, tutto svanisce in sei anni, ovviamente molto meno dei dieci previsti dalla legge al netto di ogni blocco. Secondo alcuni, la riforma Cartabia tutto sommato andrebbe sostenuta perché il suo vero obiettivo è spingere i magistrati a essere più efficienti nella fase dell’appello, che spesso costituisce un vero e proprio collo di bottiglia nel sistema. Resta però che i processi non si velocizzano per decreto, ma con misure adeguate che supportino efficacemente il lavoro dei magistrati. A partire dall’abolizione del “divieto di reformatio in peius”: se soltanto l’imputato ricorre contro la sua condanna, questa non può essere peggiorata neppure di un giorno o di un euro. Morale? Non rischiando niente, tutti ricorrono sempre, il sistema si ingolfa e i processi non finiscono mai. Mantenere un simile obbrobrio è puro masochismo processuale! A che serve? Di certo non a rendere la giustizia più efficiente. Riforma Cartabia, le note dolenti di Ezia Maccora* La Stampa, 16 luglio 2021 Le proposte di riforma del processo penale si sono sviluppate lungo due momenti: uno tecnico, affidato alla commissione Lattanzi nominata dalla Ministra Cartabia, e uno politico, conclusosi con gli emendamenti approvati all’unanimità dal Consiglio dei Ministri. Analizziamo i diversi approdi. La commissione Lattanzi ha lavorato su due importanti obiettivi: ridurre i tempi dei processi, con forti interventi deflattivi, e cambiare il paradigma del sistema sanzionatorio. Sul versante dei meccanismi deflattivi fondamentale il nuovo istituto “dell’archiviazione meritata”, già presente in molti paesi europei, che opera quando l’indagato pone in essere azioni riparative nei confronti della vittima o della lesione allo Stato. Di rilievo l’ampliamento dell’accesso ai riti alternativi, con l’eliminazione delle preclusioni soggettive e oggettive per accedere al patteggiamento. Significativa la funzione di filtro affidata al pubblico ministero in sede di richiesta di archiviazione e al gup in sede di udienza preliminare: non mandare a giudizio senza una “ragionevole previsione di condanna”. Funzionale all’obiettivo la revisione delle impugnazioni, con l’inappellabilità delle sentenze da parte del pubblico ministero, dove la corretta applicazione della legge può essere assicurata attraverso il ricorso in Cassazione e le limitazioni alla facoltà di appello per le parti private. Importante da ultimo l’investimento sugli istituti della messa alla prova e sulla non punibilità per la tenuità del fatto. Sul versante della modifica del sistema sanzionatorio si potenzia il principio del carcere come extrema ratio, si investe sulle pene pecuniarie, sulle sanzioni alternative alla detenzione e sulla giustizia riparativa. Non dimentichiamo, come di recente ha evidenziato il garante dei diritti dei detenuti, che nelle nostre carceri oggi oltre mille detenuti scontano pene inferiori ad un anno ed oltre tremila pene inferiori a tre anni. Un mutamento di prospettiva che si spera possa diventare realtà, essendo stato recepito dal Governo. Infine sulla prescrizione sono state indicate due strade alternative proprio per consentire “una migliore scelta del Governo e del Parlamento”. La prima proposta, che agisce sulla sospensione della prescrizione nei diversi gradi del giudizio, è più in linea con le riforme del 2017 e del 2019, la seconda distingue invece nettamente tra prescrizione da un lato e tempi delle fasi processuali dall’altro. Il Governo ha raccolto solo in parte le proposte della commissione Lattanzi. È evidente che nel passaggio dal campo tecnico a quello politico, vi è stata una mediazione tra diverse posizioni non del tutto conciliabili. In vista del dibattito parlamentare appare utile evidenziare i rischi di disfunzioni legati al risultato di questa mediazione, anche per la tenuta costituzionale del sistema nel suo complesso. Il Governo sembra essersi orientato, con qualche significativa differenza, più verso la seconda proposta della commissione Lattanzi condividendo il punto politico che l’ha ispirata: “Oggi la priorità è di ridurre i tempi di definizione dei giudizi, allineandoli agli standard europei”. Non dimentichiamo che le riforme sono strettamente legate all’approvazione del Pnrr, che impone l’obiettivo della riduzione del 25% dei tempi del processo penale. Ha scelto però, diversamente dalla commissione Lattanzi, di non investire nei meccanismi di deflazione processuale. Scompare infatti l’istituto dell’archiviazione meritata, viene ridotto l’accesso ai riti alternativi ed è eliminata la stretta sulle impugnazioni. Mantenere la scelta della improcedibilità per superamento dei termini di durata dei giudizi di impugnazione, senza prevedere adeguati meccanismi di deflazione, potrebbe comportare effetti non auspicabili, perché mantiene inalterati i gravosi carichi di lavoro delle Corti e sappiamo che già oggi almeno dieci Corti d’Appello non sarebbero in grado di rispettare tale termine. È accettabile che a fronte di una condanna in primo grado per un reato grave, con un ampio termine di prescrizione, si rischi la dichiarazione di improcedibilità in appello per il mancato rispetto del termine di 2/3 anni previsto per la conclusione del giudizio? Per quanto l’irragionevole durata del processo meriti una soluzione non potendosi accettare, in presenza dell’interruzione della prescrizione, il rischio di avere un imputato sine die, vi è da dubitare sulla bontà di quella adottata dal Governo. Una riforma di queste dimensioni non può prescindere dal potenziamento di istituti deflattivi, da una soluzione che elimini gli arretrati che gravano sugli uffici giudiziari e da risorse importanti in grado di far camminare il nuovo sistema sanzionatorio, i percorsi riparativi, l’applicazione delle misure alternative da parte del giudice fin dalla condanna. Con queste esigenze mi auguro che il Parlamento vorrà confrontarsi. *Presidente aggiunta Ufficio Gip Tribunale di Milano I referendum sulla giustizia sono stati strumentalizzati dai leghisti di Roberto Rampi Il Riformista, 16 luglio 2021 Come cittadino e come politico liberale e libertario ho riflettuto in questi mesi sulla opportunità dei referendum, sulla scelta dei temi e non ultimo dei compagni di viaggio. Sento di appartenere alla comunità radicale, ne condivido i fondamenti e mi riconosco nell’impostazione transnazionale, nella scelta traspartitica e nella pratica nonviolenta. Nonviolenza che è la chiave di un metodo politico e che caratterizza anche il linguaggio, l’approccio verso l’altro da sé, l’idea che nella differenza ci sia non un vulnus da sanare ma un punto di vista diverso a cui abbeverarsi, con cui arricchirsi nell’irriducibile tensione con ciò che non siamo, che nel dialogo e non nella soluzione delle contraddizioni ma nelle contraddizioni stesse sta la qualità, la novità, la vitalità, l’innovazione. In questo senso sono impegnato nel Partito Radicale con la formula della doppia tessera e in Nessuno Tocchi Caino, una straordinaria realtà politico-culturale che ha impostato una lettura diversa rispetto alla consolidata idea colpa/punizione e partendo dal rifiuto della pena di morte e dalla campagna per la moratoria e dalla condizione drammatica delle carceri ha esteso il campo d’azione alla concezione stessa della pena come un errore concettuale, innanzitutto verso l’idea di Stato e poi anche verso i rapporti tra le persone, e con se stessi. Mettendo al centro della riflessione l’errore nel concepire noi e gli altri come soggetti immobili e immutabili nel tempo, come oggetti passibili di una linearità, dove piuttosto noi siamo eventi in continua trasformazione e mutazione. Per questo non riesco a passare dalle straordinarie e stimolanti vette di elaborazione teorica e pratica raggiunte con l’ultimo congresso di Opera a una campagna referendaria con quesiti a mio giudizio parziali e non risolutivi, e con compagni di viaggio che la raccontano in ogni piazza con lo slogan “Chi sbaglia paga”. Finendo per essere una campagna più orientata a punire il sistema giudiziario e i suoi eccessi, che a trasformare il meccanismo della giustizia. Come ho già avuto modo di scrivere non mi preoccupa con chi si viaggia se si condivide un cammino. Piuttosto mi chiedo se il sentiero tracciato sia quello del cambio di paradigma rispetto alla Giustizia o piuttosto il rafforzamento di una concezione punitiva con la sola novità di restituire alla magistratura pan per focaccia. Insomma occhio per occhio e dente per dente. Credo di essere facile profeta nel ritenere che non solo le firme si raggiungeranno ma che si arriverà al vaglio dei quesiti, non ultimo perché ci saranno Regioni che garantiranno il risultato per disciplina di partito. Ma mi chiedo: su quale piattaforma culturale porteremo il Paese alle urne? Quale è l’orizzonte di senso? Un aumento della punibilità dei magistrati? Per quanto mi riguarda il tema è quello di una importante azione di depenalizzazione della stragrande maggioranza dei reati, del superamento della carcerazione, non solo di quella preventiva, come principale sistema di reazione a un comportamento reale o presunto contro la norma vigente, di un rapporto diverso, meno dogmatico, verso lo stesso concetto di legalità. Di uno spostamento dal campo della repressione e della punizione a quello della crescita culturale di comunità e personale. Piccoli passi in questa direzione si sono realizzati solo durante i governi a guida Pd e quella parte di cultura e di pratica politica democratica va sostenuta e rafforzata. Si tratta a mio modo di vedere di una scelta strategica che si sviluppa rafforzando anche la componente liberale del campo conservatore dello schieramento politico italiano e gli assi riformisti rispetto alla prevalente dinamica populista che in tutto il mondo ha tra le sue note caratteristiche la dimensione forcaiola. E si tratta di battere la cultura dominante della nuova destra, che dalla Polonia all’Ungheria passando per la Turchia e persino per alcuni elementi americani, considera l’autonomia della magistratura un fastidio da ricondurre all’ordine. È lo stesso paradigma sotteso all’impostazione referendaria? È una domanda da porsi con profondità. Vogliamo una magistratura autonoma in un sistema di norme più libertario che cancelli l’obbligatorietà dell’azione penale, depenalizzi reati, e superi il ricorso alla carcerazione, o puntiamo a rendere più controllabili i magistrati in un sistema invariato? È dando risposte a queste domande che si determina l’orizzonte politico. Per me è quello di una sinistra liberale che fa crescere le libertà sostanziali in un sistema non etico e non giudicante. Ridurre i tempi dei processi? Ottima idea ma senza sacrificare i diritti e le garanzie di Luigi Bobbio Il Riformista, 16 luglio 2021 Sono decenni che la politica “gioca” con il tema della lentezza della giustizia. Nessuna maggioranza e nessun governo hanno fatto eccezione, men che meno il governo in carica sotto l’egida della coppia Draghi-Cartabia. Anzi, il governo Conte e quello Draghi, seppur caratterizzati da guardasigilli di ben diversa caratura, hanno spinto pericolosamente in avanti il limite del “gioco”. Partiamo da un esempio. Due giorni fa, per l’ennesima volta, il tribunale di Nocera Inferiore è rimasto privo di energia elettrica e di acqua per circa tre ore. Conseguenza: una giornata di lavoro buttata. Si è trattato di un fatto non certo episodico ma di una circostanza si ripete ormai da anni e più volte all’anno. Il tribunale non è dotato di un gruppo di continuità elettrico e, di conseguenza, in tempi di processi e fascicoli totalmente telematici, il lavoro di magistrati e personale amministrativo si è paralizzato per l’intera giornata. La cosa, tuttavia, sembra non interessare nessuno, tantomeno la politica che sogna di accorciare i tempi della giustizia attraverso la riforma e la modifica delle procedure. Non si contano più le riforme del processo penale e del processo civile, spesso autentici stravolgimenti, sempre parziali, che, al posto degli originari schemi processuali, hanno prodotto “patchwork” privi di qualsiasi organicità, coerenza e sistematicità. E ogni riforma è rimasta priva di risultati in relazione all’obiettivo del contenimento dei tempi. Il tutto, peraltro, aggravato dalla deriva sostanzialista della lettura giudiziaria delle norme, ormai in balìa di quel “legislatore abusivo e camuffato” che è diventato il giudice. Con Conte e Draghi, poi, tale delirio riformatore, improduttivo di risultati sul piano della riduzione dei tempi della giustizia, ha toccato livelli allarmanti nella misura in cui il solo strumento voluto e cercato dai “riformatori” per ridurre i tempi sembra risolversi in una compressione sempre più evidente e massiccia dei diritti e della stessa funzione della difesa tecnica, come se il difensore e il suo portato di garanzia dei diritti fossero considerati solo dei fastidiosi orpelli, romantici e bizantini, magari un fastidioso intralcio per i giudici. La riforma Cartabia, ovviamente, non solo non fa eccezione (addirittura cercando di introdurre con legge ordinaria la presunzione di colpevolezza in luogo di quella costituzionale di non colpevolezza!) ma dimostra la persistente contiguità del governo al potere giudiziario che nessuno è seriamente intenzionato a scalfire. Una certa vanità e superficialità politica non sono ovviamente estranee a tale situazione e a tali atteggiamenti, dando luogo ad una sorta di eterogenesi dei fini. Mi spiego meglio. Le “riforme” processuali, come rimedio alla lunghezza dei tempi, sono perseguite dalla politica e dai governi non solo perché essi si rifiutano di vedere quali siano i reali e più gravi problemi che determinano la lunghezza insostenibile dei giudizi ma anche perché fare modifiche processuali e quindi tecniche, per questa politichetta fatta da mezze figure, fa molto più “figo” che darsi da fare sul piano, oneroso ma meno appariscente, degli interventi strutturali. Se si osserva il problema in modo onesto e pragmatico, infatti, i tempi lunghissimi della giustizia hanno altre cause che non gli schemi e le strutture processuali in vigore. E nessuna modifica processuale potrà mai sortire risultati se la politica non deciderà che è arrivato il momento di sciogliere i nodi strutturali. Primo tra tutti quello legato alle strutture in senso materiale: edilizia giudiziaria, rete e strumenti informatici, gestione delle sedi giudiziarie. Per un tribunale come quello di Nocera Inferiore la mancanza di un gruppo elettrico di continuità, in tempo di processo civile interamente informatizzato e telematico, ha una devastante ricaduta sulla gestione dei processi. Non migliore è la situazione del processo telematico i cui programmi ministeriali, già imperfetti e inadeguati ab origine, sono ormai soggetti a interruzioni a cadenza fissa settimanale per l’adeguamento dei sistemi alle effettive esigenze del servizio: ciò dimostra che la scelta del sistema operativo non fu la migliore possibile, senza dimenticare che la rete è lenta, inadeguata, soggetta a continue interruzioni. Quella del personale giudiziario, poi, è la madre di tutte le questioni e la causa principale dell’inaccettabile durata dei processi. Ciò discende dalla correlazione con i carichi di lavoro, iniquamente distribuiti sul territorio nazionale in relazione alle unità di magistrati assegnate a ciascun ufficio. Per determinati tribunali, soprattutto al Sud, i tempi di definizione sono più lunghi che per altri: in alcuni uffici, a ciascun magistrato sono assegnate poche centinaia di fascicoli; in altri, invece, sono migliaia le cause che una singola toga è chiamata a decidere. Il problema è individuare nuovi metodi di distribuzione dei magistrati sul territorio, partendo dalla modifica delle piante organiche di ciascun tribunale. Stesso discorso per il personale amministrativo, per il quale servono nuove assunzioni. Questi sono i veri nodi della durata dei processi. E se riforme devono essere fatte quanto al processo, alla sua struttura e all’ordine giudiziario, allora serve un personale politico capace, competente e illuminato, libero dai condizionamenti della corporazione giudiziaria e della sua ancella giornalistica, che innanzitutto applichi l’articolo 107 della Costituzione, con conseguente uscita del pm dall’ordine giudiziario, e azzeri il potere di interpretazione delle leggi da parte dei giudici. Tutto il resto sono pannicelli caldi, se non mezze soluzioni inutili e dannose. Ma escludo che ciò possa accadere sotto il “governo del gattopardo”. Femminicidi, lo stalking non è più un’aggravante: “Così le donne indifese” di Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 16 luglio 2021 La Cassazione giudica un delitto del 2016. Il pg: “Depotenziata la legge che le protegge”. Un passo indietro di almeno 12 anni sulla difesa delle donne. Era il 2009 quando fu introdotto il reato di stalking e per l’omicidio della vittima fu aggiunta una specifica aggravante. Il che, nella pratica, consentiva di condannare per tutti e due i reati con un aumento della pena fino all’ergastolo a chi, dopo aver torturato la sua vittima anche per anni, finiva con l’ucciderla. Ma ieri le Sezioni unite della Corte di Cassazione hanno stabilito che l’omicidio, in quanto reato complesso, assorbe tutto il resto, compresi gli atti persecutori. In pratica, chi uccide paga solo per quello e non per quanto fatto in precedenza. Come se lo stalking o le lesioni con cui hanno prima tormentato la loro preda, rendendola ancora più fragile, non si fossero mai verificati: rimangono impuniti. Una scelta che ancora deve essere motivata ma che segna una battuta d’arresto grave sul fronte dei diritti delle vittime vulnerabili anche perché la percentuale di atti persecutori che sfociano in femminicidio continua a essere alta. Lo aveva sottolineato anche la procura generale nel corso della requisitoria: “La conseguenza di un sistema di interpretazione che dovesse riconoscere l’assorbimento dello stalking nel successivo omicidio della stessa vittima rischiano - ha detto il sostituto Luigi Birritteri - di depotenziare un sistema di tutela delle vittima più vulnerabili, in massima parte le donne in situazione di particolare debolezza, che faticosamente si è fatto strada nel nostro ordinamento soltanto negli ultimi lustri. Dalla libertà sessuale a quella di relazione, sino al diritto dell’intangibilità fisica”. Per questo l’accusa si era espressa a favore della doppia condanna, come peraltro previsto dalla legge 38 del 2009. Eppure, la questione aveva avuto interpretazioni giuridiche contrastanti. La Prima sezione del Palazzaccio nel 2020 aveva optato per la lettura proposta ieri dalla Procura: l’omicidio aggravato non è un reato “complesso” e, quindi, la condanna deve arrivare per entrambi. In quello stesso anno, però, la Terza sezione aveva dato lettura opposta, ritenendo che l’assassinio assorbisse tutto il resto. Per questo la Quinta, chiamata a esprimersi di nuovo su un tema dubbio, ha preferito inviare tutto alle Sezioni unite. Il caso discusso ieri, ma questo è un dettaglio perché è il principio che vale, era quello di un omicidio avvenuto a Sperlonga, provincia di Latina, nel giugno del 2016. Una dipendente delle Poste, Anna Lucia Coviello, è stata uccisa, dopo essere stata stalkizzata per mesi e mesi, da una sua collega in un parcheggio. L’imputata, Arianna Magistri, in abbreviato era stata condannata per entrambi i reati a 16 anni. In secondo grado, dopo un rinvio della Cassazione, aveva preso per gli stessi reati 15 anni e 4 mesi. Ieri, le Sezioni unite hanno ridotto la pena stabilendo che lo stalking viene assorbito dall’omicidio: la sentenza definitiva è di 14 anni e 4 mesi di carcere. Al di là del singolo caso, come sottolineato dal pg, questa interpretazione che condanna solo per l’omicidio aggravato è contraria anche allo spirito del legislatore che aveva considerato fosse da inasprire la pena per chi si accanisce su “una vittima in condizioni di particolare vulnerabilità anche in virtù delle precedenti condotte vessatorie poste in essere dallo stesso reo”. E se è vero che anche l’omicidio aggravato può far arrivare la pena anche all’ergastolo, basta la concessione di un’attenuante per far sfumare l’ipotesi più grave. E cancellare con un colpo di spugna lo stalking. Come se quella tortura non fosse mai esistita. Terrorismo: Ue deferisce Italia alla Corte di giustizia perché non condivide informazioni di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2021 La Commissione ha deciso di deferire l’Italia alla Corte di giustizia dell’Unione Europea per il mancato rispetto di alcuni obblighi in materia di scambio di informazioni stabiliti dalle norme dell’Ue in materia di cooperazione transfrontaliera nella lotta al terrorismo e alla criminalità transfrontaliera. Malgrado le “ripetute richieste” da parte della Commissione, a tutt’oggi Roma “non permette agli Stati membri di accedere ai dati relativi al Dna, alle impronte digitale e all’immatricolazione dei veicoli”. Per la Commissione le regole sulla condivisione delle informazioni tra Stati membri, stabilite dalla cosiddetta decisione di Pruem, sono uno “strumento chiave” per combattere il “terrorismo e la criminalità internazionale”. La procedura d’infrazione era in corso da anni: il parere motivato risale al 2017 Gli Stati membri dovevano attuare pienamente le norme entro agosto 2011. La Commissione ha avviato una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, inviando una lettera di costituzione in mora, seguita nel 2017 da un parere motivato, ed esortando l’Italia a rispettare pienamente gli obblighi giuridici. Dopo ripetute indagini sui progressi compiuti dall’Italia nell’adempimento dei suoi obblighi, si constata che a tutt’oggi l’Italia ancora non consente agli altri Stati membri di accedere ai propri dati relativi al Dna, alle impronte digitali e all’immatricolazione dei veicoli. Per questi motivi la Commissione ha deciso di deferire il caso alla Corte di giustizia dell’Unione Europea. “Le decisioni di Prüm - sostiene la Commissione Ue in una nota - sono un elemento importante della strategia dell’Ue per l’Unione della sicurezza. Esse mirano a sostenere e intensificare la cooperazione transfrontaliera tra le autorità di contrasto, attraverso norme per la cooperazione operativa di polizia e lo scambio di informazioni tra le autorità responsabili della prevenzione dei reati e delle relative indagini”. Grazie alle decisioni di Prüm, le autorità di contrasto di uno Stato membro possono sapere se nelle banche dati di altri Stati membri sono disponibili informazioni pertinenti su Dna, impronte digitali e dati di immatricolazione dei veicoli, cosa che può agevolare le indagini. Ciò avviene attraverso un sistema decentrato di collegamenti bilaterali tra gli Stati membri, che consente agli investigatori di effettuare ricerche e confrontare tali dati a livello transfrontaliero. Il sistema fornisce un accesso “hit/no hit” agli archivi di analisi del Dna, delle impronte digitali e dei dati di immatricolazione dei veicoli degli Stati membri, il che significa che non vi è accesso diretto alle informazioni personali e relative al caso. Una volta confermato un “hit” e previa verifica dei dati corrispondenti da parte di un esperto forense, le autorità nazionali inviano una richiesta allo Stato membro interessato per poter ricevere ulteriori dati personali. Per i dati relativi all’immatricolazione dei veicoli, invece, le informazioni aggiuntive sono fornite immediatamente con un riscontro positivo”. Ingresso e trattenimento illegale, non perseguibile con domanda di protezione internazionale di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 16 luglio 2021 L’azione penale non può essere promossa o proseguita fino al rigetto dell’istanza che rappresenta causa di non procedibilità. La domanda di riconoscimento dello status di rifugiato “blocca” la possibilità di procedere con l’azione penale, per il reato di trattenimento nel territorio dello Stato, contro lo straniero in situazione illegale. La Corte di cassazione con la sentenza n. 27353/2021 ha però precisato che seppure la legge parla di sospensione del procedimento penale a fronte della domanda di protezione internazionale di fatto si tratta di causa di non procedibilità. Per tale motivo la difesa dell’imputata ricorreva in Cassazione perché fosse annullata la sentenza con la quale era stata riconosciuta la causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto in quanto il giudice avrebbe dovuto invece emettere sentenza di non luogo a procedere. E qui sta l’innovativa lettura della Cassazione penale che precisa, appunto, che non si può parlare sotto alcun aspetto di assoluzione o di causa di non punibilità, in quanto il giudice, chiamato a giudicare lo straniero per il reato previsto dal comma 1 dell’articolo 10bis del testo unico dell’immigrazione, deve - in primis - verificare l’assenza di cause di non procedibilità quale la presentazione dell’istanza di protezione internazionale. Cioè, in caso sussista tale circostanza di fatto, l’azione penale non è sospesa, ma non può essere promossa né proseguita. Solo al momento del rigetto dell’istanza di protezione internazionale si riapre la possibilità di esercitarla ab initio: cioè viene rimosso l’ostacolo rappresentato dalla pendenza della domanda avanzata dallo straniero. Da cui se ne deriva il principio interpretativo affermato dalla Cassazione secondo cui il giudice deve procedere a immediata declaratoria di improcedibilità dell’azione penale anche in caso di processo in corso e non dichiararlo sospeso e men che mai concludere il giudizio di merito - pur senza condanna - come nel caso concreto. In realtà ciò che rileva non è l’assenza di una condizione per l’esercizio dell’azione penale, ma la presenza di una causa di non procedibilità che il giudice è tenuto a dichiarare tempestivamente con sentenza. Certo l’esito negativo del procedimento amministrativo instaurato dallo straniero richiedente lo status di rifugiato fa venir meno l’ostacolo alla celebrazione del processo non impedendo più l’esercizio dell’azione penale da parte dei giudici che devono perciò rendersi edotti sullo stato del procedimento amministrativo. In conclusione dove la norma parla di sospensione del processo eventualmente già instaurato va rilevata un’imprecisione linguistica che si sarebbe evitata parlando più esplicitamente di improcedibilità che determina i n capo al giudice l’obbligo di immediata declaratoria della causa di non procedibilità a norma dell’articolo 129 del Codice di procedura penale. Fermo. Detenuto muore in carcere. La Procura apre un’inchiesta di Fabio Castori Il Resto del Carlino, 16 luglio 2021 Si indaga per chiarire se i soccorsi sono avvenuti nei tempi giusti. Ieri la visita del Garante. La Procura di Fermo ha aperto un’inchiesta sulla morte sospetta di un detenuto avvenuta qualche giorno fa al Murri. Gli inquirenti stanno cercando di capire se l’uomo, in cella nella casa di reclusione di Fermo, sia stato soccorso con ritardo o ospedalizzato con tempi troppo lenti per una patologia da cui soffriva da tempo. Un’eventualità sollevata anche da altri detenuti, che sostengono l’ipotesi di colpevoli lentezze. Al momento il fascicolo, ancora in fase embrionale, è a carico di ignoti. Il drammatico episodio è stato seguito da un’immediata visita da parte del garante dei diritti della persona e dei detenuti, l’avvocato Giancarlo Giulianelli. Ieri mattina, insieme con due suoi collaboratori, Giulianelli, accompagnato dal referente dell’Osservatorio carceri dell’Unione Camere Penali, l’avvocato Simone Mancini di Montegranaro, si è recato nella Casa di reclusione di Fermo per incontrare il direttore del carcere e il comandante della polizia penitenziaria. Giulianelli e i vertici della Casa di reclusione hanno parlato informalmente del decesso dell’uomo e delle problematiche dell’istituto con particolare attenzione alle esigenze dei detenuti. “Siamo stati accolti - spiega l’avvocato Mancini con la solita professionalità e correttezza del direttore del carcere, che ci ha ampiamente spiegato quelli che sono i nodi e le esigenze da affrontare all’interno dell’istituto. Posso dire che nonostante la struttura sia obsoleta, il direttore sta facendo un ottimo lavoro e con grandissima professionalità gestisce gli spazi, il personale e i detenuti in maniera molto attenta. Il grande problema, che non riguarda solo Fermo, è la carenza di organico di gente specializzata per le attività alternative dei detenuti. Ci sono pochissimi elementi dell’organico regionale, che vengono catapultati da un carcere all’altro, comportando problematiche molto serie. Va sottolineato che prima a Fermo c’era il dottor Nicola Arbusti e da quando è andato in pensione un anno fa, non è stato ancora sostituito”. Il garante Giulianelli ha poi avuto un colloquio singolo per ogni detenuto che ha chiesto di parlare con lui. Durante gli incontri si è discusso anche della morte finita nel mirino della magistratura, ma quanto emerso dalle chiacchierate informali è tenuto sotto il massimo riserbo. Melfi (Pz). “Insabbiati i pestaggi dei detenuti in cella” di Fabio Tonacci La Repubblica, 16 luglio 2021 Visite mediche davanti agli agenti accusati, telecamere rotte, picchiatori mai identificati. Una storia gemella di quella campana, denuncia Antigone. Ma i pm chiedono di archiviare. Può darsi che sia una frottola. Può darsi che dodici testimonianze univoche e concordanti non costituiscano la prova, e neanche l’indizio, di un pestaggio di massa di 60 detenuti, “salutati” così dagli agenti della Penitenziaria prima del trasferimento. Può darsi che sia normale che nella casa circondariale di Melfi (136 reclusi divisi in quattro sezioni di Alta Sicurezza) le telecamere di sorveglianza interne non avessero un sistema di registrazione, e quelle installate presso la portineria e le mura perimetrali fossero inservibili e con le memorie cancellate. E può darsi anche che i lividi e le escoriazioni sui volti e sulle costole dei trasferiti siano stati davvero causati “da cadute o scivolate accidentali”, come si legge nella richiesta di archiviazione della procura di Potenza, che dopo un anno di indagine non ritiene che ci sia più alcunché da approfondire. Può darsi. Quando si parla di carceri, tutto può essere. E però, a leggere l’opposizione all’archiviazione presentata da Antigone (il Gip non si è ancora espresso), il dubbio di insabbiamento resta. Chi conosce la vicenda delle violenze denunciate dai detenuti di Melfi trasferiti d’urgenza alle 3 di notte del 17 marzo 2020, come conseguenza delle rivolte del 9 marzo per la mancata adozione delle misure anti-Covid, descrive quei fatti come la fotocopia della mattanza di Santa Maria Capua Vetere senza però i filmati. E senza che un magistrato di sorveglianza si sia interessato del caso sin da subito, quando ancora l’omertà non aveva cucito le bocche. Dodici detenuti in particolare hanno raccontato di essere stati prelevati dalle celle, ammanettati ai polsi con fascette da elettricista, fatti inginocchiare faccia al muro e poi trascinati fuori nel piazzale. Con brutalità, stando a quanto hanno riferito. “Alcuni agenti ci schiaffeggiavano e prendevano a calci”, “qualcuno aveva la testa rotta e sanguinante, occhi tumefatti, nasi rotti...”, “ci sputavano addosso”, “perdevo sangue dalle gambe”, “tutti venivano colpiti coi manganelli”, “le guardie avevano il passamontagna”, “hanno pestato mio zio che è cardiopatico”, “mi hanno fatto spogliare e colpito nelle parti intime”, sono le voci raccolte da avvocati e famigliari. Nessuno, ribatte però la procura, al momento della visita medica, necessaria per il nulla osta al trasferimento, ha parlato di calci e pugni. Forse perché le visite si sono tenute davanti agli stessi agenti presunti autori delle violenze. “Sicuramente era presente personale della Penitenziaria”, ha dichiarato ai pm il dottore del carcere di Melfi Vito Antonio Spelacchio. “Nessuno mi ha segnalato malori o di essere stato vittima di pestaggi, quindi non ho proceduto a un esame più approfondito. Farli denudare (...) poteva essere inteso come atto umiliante o invasivo”. I detenuti hanno ritrovato la parola una volta lontani da Melfi, con altri dottori. Per due di loro il riscontro sanitario delle percosse è pieno, ma - non essendo stati in grado di riconoscere chi li ha menati - la procura si è fermata. Anche perché, nonostante gli agenti siano stati descritti col volto coperto da passamontagna, ha escluso “indebite forme di travisamento da parte degli operatori”. Che poi non si sa nemmeno chi c’era a Melfi quella notte, come ricorda l’avvocato di Antigone Simona Filippi nell’atto di opposizione all’archiviazione. I pm non hanno chiesto la lista degli agenti del Gom (il reparto mobile della Penitenziaria) intervenuti. E non è stato possibile identificare i poliziotti in servizio a Melfi, nonostante i denuncianti avessero fornito, se non i nomi, elementi per risalire alla loro identità: “L’appuntato che conosco, che sta ai colloqui, e l’appuntato che era in sezione”, “l’ispettore dei colloqui”, “un appuntato di cui non conosco il nome ma che ha circa 35 anni...”. Segnalazioni di questo tipo. Che nessuno, evidentemente, ha avuto la forza, la voglia o l’interesse di andare a verificare. Castiglione delle Stiviere (Mn). Alla Rems pochi spazi e risorse, qualità di vita pregiudicata radicali.it, 16 luglio 2021 Nella giornata di ieri, il medico e Consigliere regionale Michele Usuelli (Più Europa - Radicali) insieme ad altri membri della Commissione Carceri di Regione Lombardia, accompagnato da Barbara Bonvicini, sua collaboratrice e membro della Direzione Nazionale di Radicali Italiani, ha effettuato una visita ispettiva programmata alla Residenza per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza di Castiglione delle Stiviere, l’unica struttura di sicurezza lombarda che ospita malati psichiatrici altrimenti destinati al carcere. Attualmente sono ospitate 155 persone su 160 posti, essendo vuoti alcuni letti del reparto femminile. “La lunga lista di attesa maschile è dovuta non già a questo Rems, ma alla inadeguatezza complessiva regionale e nazionale della gestione del detenuto psichiatrico in carcere.” - commenta il consigliere Usuelli all’uscita. “Colpisce innanzitutto la condizione di poca sicurezza sul lavoro degli operatori sanitari e sociosanitari non essendo presente nella struttura alcun agente di alcun corpo di polizia. Dal punto di vista medico, l’assenza di un medico internista o di un medico di medicina generale, accanto agli psichiatri e psicologi complica la qualità del lavoro dei sanitari, aumenta in maniera inappropriata la frequenza degli invii in ospedale (situazione nella quale lo specialista psichiatra è costretto ad accompagnare l’ospite fungendo anche da piantone) e peggiora la qualità di cura delle persone.” “Accanto alle palazzine da 20 posti letto, abbiamo chiesto di visitare il padiglione acquario che ospita 70 persone con le quali ci siamo fermati a parlare. - prosegue Usuelli - Le dimensioni di questo padiglione pregiudicano fortemente la qualità del lavoro degli operatori e la qualità di vita degli ospiti. Rispetto alle visite nelle carceri colpisce il fatto che al di là delle poche borse lavoro, finanziate da Regione Lombardia, i lavori di pulizia e distribuzione del vitto non sono retribuiti, come invece avviene in tutti gli istituti di pena”. “Anche in questo istituto la pandemia è stata gestita in maniera efficiente grazie al lavoro del personale sanitario; - osserva il consigliere radicale - auspichiamo che prontamente le visite da parte dei parenti possano riprendere e ampliarsi rispetto al contingentamento attuale di un’ora massima a settimana. L’allungamento della durata della visita è particolarmente importante dato che essendo l’unico Rems lombardo molte famiglie sono davvero distanti dai loro cari. Le videochiamate alle famiglie, attualmente 10 minuti a settimana, debbono essere potenziate. Anche questi piccoli dettagli, frustranti, possono contribuire ad aumentare il livello di aggressività di un paziente psichiatrico detenuto e spesso con doppia diagnosi. In maniera del tutto simile a qualunque altro carcere che abbiamo visitato, la cronica e strutturale mancanza della possibilità di lavorare rappresenta il primo e più importante grido di dolore.” “Infine, - conclude Usuelli - sono state talmente frequenti e reiterate, da parte di quasi tutti gli ospiti con cui abbiamo parlato, le segnalazioni di un eccessivo ricorso all’istituto della proroga di pena che ci permetteremo, senza certezze o opinioni precostituite, un approfondimento con i responsabili di questo istituto per acquisire informazioni più complete. Alla visita di oggi seguirà un approfondimento il più possibile condiviso che ci porterà a presentare un ordine del giorno Rems in Lombardia nel prossimo assestamento di bilancio”. Napoli. Ha il cancro, gli fanno in ritardo la chemioterapia e gli negano i domiciliari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 luglio 2021 Dal gennaio 2021 è sottoposto a trattamento chemioterapico da effettuarsi ogni 28 giorni previ esami del sangue. Ma Enrico Fumia, attualmente detenuto presso l’istituto penitenziario di Secondigliano, fino ad oggi la somministrazione della chemioterapia sarebbe avvenuta con ritardo e senza che vengano effettuati le dovute analisi. Non solo, dalla denuncia che ha depositato presso la Procura, si evince che anche le visite di controllo programmate presso l’ospedale Cardarelli non sarebbero state effettuate. C’è anche una perizia medico legale che attesta l’incompatibilità con la detenzione: nonostante ciò, il tribunale di sorveglianza ha rigettato l’istanza di sostituzione della misura detentiva con quella domiciliare riservandosi però di delegare la direzione penitenziaria, di concerto con il Dap, a individuare una “sistemazione consona con lo stato di salute”. Ma anche questa, ad oggi, stenterebbe a concretizzarsi. A farlo presente alle autorità, a partire dal ministero della Giustizia, è l’Associazione Yairaiha Onlus. “Ci chiediamo - si legge nella missiva a firma della presidente dell’associazione Sandra Berardi -, e Vi chiediamo, quale altra sistemazione consona può esserci per un soggetto con patologie così gravi se non una struttura clinico- ospedaliera? Crediamo che ricordare a lor signori gli articoli costituzionali e di legge posti a tutela della salute di tutti i cittadini, detenuti compresi, sia oltremodo superfluo; pertanto auspichiamo che la situazione del sig. Fumia possa essere risolta in maniera consona alle gravissime condizioni di salute in cui versa prima che sia troppo tardi”. Il quadro clinico del detenuto, è molto preoccupante. Dal referto si evince che è affetto da tumore neuroendocrino del pancreas localmente avanzato con metastasi, distrofia bollosa degli apici polmonari, microangiopatia trombotica neoplasia - correlata, lieve rigurgito mitralico, ectasia radice aortica e del tratto ascendente. Per quanto riguarda il cancro non operabile, sono fondamentali le tempestività delle diagnosi e delle terapie. “Che cosa deve accadere? - si legge nell’esposto del detenuto - La prognosi è già nefasta, così rischio di morire in tempo brevissimi a causa della inadempienza, della noncuranza di tutti qui diritti fondamentali quali salute, e diritto di essere curati secondo le più idonee terapie e trattamenti”. Com’è detto, il magistrato di sorveglianza gli ha rigettato l’istanza per la detenzione domiciliare. “Nel rigetto - scrive il detenuto nell’esposto - si legge che è sempre presente un medico. Ma la presenza del medico non significa assistenza idonea necessaria per questo tipo di patologia”. Per il detenuto, giustamente ci vuole l’assistenza da parte degli specialisti come l’oncologo. Il magistrato di sorveglianza, nel rigetto, ha indicato che è compito del Dap collocare il recluso in centri diagnostici operativi adeguati e idonei alla cura e terapia del caso concreto. “Nel caso di specie - denuncia però il detenuto - al momento non appaiono esistere condizioni che indichino simili interventi”. Conclude amaramente che al carcere di Secondigliano non stanno tutelando la sua salute. Milano. Il masso di Sisifo, i detenuti con i cittadini di Angelo Aparo* Il Giorno, 16 luglio 2021 A volte mi viene chiesto come funziona il gruppo della trasgressione, cosa faccio, quale metodo uso per coordinarlo. Non ho ancora scritto il libro sul gruppo e non è detto che riesca a farlo; al momento ho solo il titolo: Il corriere dei panni sporchi. Ogni tanto, però, mi sembra di riuscire a individuare qualche aspetto del metodo. Uno di questi è che a volte, quasi senza rendermene conto, tratto le persone (e tra queste detenuti in carcere per avere spacciato, ucciso, fatto parte di organizzazioni criminali) come fossero bambini che possono giocare a mettere le mani sul mondo senza toccare pistole, soldi e senza ubriacarsi di potere e di eccitazioni a basso prezzo. Fra le tante piccole cose, una riguarda la necessità di costruire il masso di Sisifo, visto che domenica detenuti e comuni cittadini si troveranno a spingere il masso di Sisifo alla fine di due giornate al Parco delle memorie industriali nell’ambito di un progetto promosso della nostra associazione Trasgressione.net e dal Municipio 5 del Comune di Milano per la prevenzione di droga, bullismo e devianza. Per rendere il masso visibile, mi sono convinto che debba avere circa un metro e mezzo di diametro. Qualcuno, fra studenti e detenuti, ha suggerito che un volume così grande potrebbe essere riempito con bottiglie d’acqua minerale. A questo punto ho chiesto al tavolo del gruppo quante bottiglie d’acqua da un litro e mezzo sarebbero state necessarie. E da qui il gioco (...) Al gruppo mi servo anche di queste piccole cose per stuzzicare le persone a svegliarsi dal torpore, pur se l’obiettivo principale è il ragionamento sulla relazione e soprattutto la coltivazione della relazione con l’altro. *Psicologo Firenze. Svelato in carcere il murale ideato dai detenuti quinewsfirenze.it, 16 luglio 2021 La progettazione del murale al Mario Gozzini di Firenze è avvenuta attraverso un processo partecipativo che ha coinvolto un gruppo di detenuti. Si intitola ‘La scritta che buca’ ed è il murale inaugurato alla casa circondariale Mario Gozzini. dagli assessori Tommaso Sacchi e Cosimo Guccione e dal presidente del Quartiere 4 Mirko Dormentoni. L’opera è stata finanziata dalla Fondazione CR Firenze e dal Comune, in partenariato con la direzione del Gozzini e con l’Università di Firenze Lab Critical Planning & design. La progettazione del murale è avvenuta attraverso un processo partecipativo che ha coinvolto un gruppo di detenuti e la sua realizzazione è stata affidata agli artisti dell’associazione culturale Toscana Elektro Domestik Force. L’opera rappresenta artisticamente il percorso di crescita e reinserimento sociale che si può realizzare all’interno degli Istituti Penitenziari, non solo luoghi di pena, ma soprattutto, come vuole la Costituzione, di riabilitazione e costruzione di nuove progettualità di vita. Il progetto “La Scritta che Buca” rientra nel percorso “Dal Giardino degli Incontri agli Incontri nel Giardino: oltre il muro tra carcere e città”, finanziato dall’autorità regionale per la garanzia e la promozione della partecipazione e coordinato dall’Università di Firenze (Lab Critical Planning & design) e dalla Fondazione Michelucci. “Oggi inauguriamo un progetto molto lungo e laborioso, che ha vissuto fasi complicate ma nel quale non abbiamo mai smesso di credere - ha affermato l’assessore a immigrazione e politiche giovanili Cosimo Guccione. Coloro che passeranno da qui vedranno un edificio non grigio ma colorato, un auspicio di uscita dalla pena, un’opera d’arte, creata anche grazie a un laboratorio al quale hanno partecipato i detenuti, che aiuta ad evadere in senso metaforico da questo luogo, realizzata grazie a una grande sinergia istituzionale per il bene di tutti i cittadini, non solo quelli in carcere”. “La direzione verso la quale tutti dobbiamo lavorare - ha dichiarato l’assessore al welfare Sara Funaro - è quella del recupero dei detenuti e in quest’ottica dobbiamo rafforzare, in linea con la direzione del carcere, il rapporto di Sollicciano con la città e il territorio, soprattutto per le sfere sociale e sanitaria. Sono felice che oggi si parli di carcere per un evento che manda un messaggio di incontro: questo murale è l’ennesimo segnale di dialogo e di una città che si deve avvicinare alla casa circondariale fiorentina per cercare di portare avanti tutti insieme azioni che la rendano un luogo migliore”. “Questo spazio dove presentiamo l’opera, il Giardino degli Incontri - ha sottolineato l’assessore alla cultura Tommaso Sacchi - è uno degli ultimi di Giovanni Michelucci e nel progettarlo il grande architetto sosteneva che il suo interesse principale non era il carcere ma la città, nel suo pensiero il carcere non era qualcosa di scollegato dalla città ma ne faceva indubbiamente parte. Qui Michelucci pensava alle famiglie, ai bambini, a un luogo di intreccio di vita tra chi è recluso e chi no, e questo murale rende sicuramente onore alla sua visione lungimirante e così profondamente umana”. “La ‘scritta che buca’ è una realtà - ha ricordato il presidente del Quartiere 4 Mirko Dormentoni - e non possiamo che esserne felici. È una vera soddisfazione per noi. Sono anche progetti come questo che aiutano le persone in difficoltà a rinascere e a ritrovare le proprie energie migliori. E sono azioni di rigenerazione urbana come questa che ci aiutano ad affermare un principio in cui crediamo fortemente: le strutture carcerarie di Sollicciano non sono un corpo estraneo, ma una parte integrante della città. Infine, la soddisfazione è legata alla consapevolezza del fatto che questo è uno dei risultati concreti del percorso partecipativo ‘Incontri nel Giardino’, svolto nel 2019, del quale il Quartiere 4 è stato tra i promotori e responsabile operativo”. Network istituzionale: Regione Toscana, Università di Firenze (Lab Critical Planning & design del Dipartimento di Architettura), Fondazione Michelucci, C.A.T. Cooperativa Sociale, Comune di Firenze, Quartiere 4, Comune di Scandicci, Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria della Toscana e dell’Umbria, Direzione della Casa circondariale Mario Gozzini, Casa circondariale Sollicciano, Garante dei diritti delle persone detenute della Regione Toscana, Garante dei diritti delle persone detenute del Comune di Firenze. “Pianosa, l’isola del diavolo” il podcast di Silvia Giralucci su Radio 24 spotandweb.it, 16 luglio 2021 Pianosa è un puntino al largo dell’Elba, uno scoglio piatto nel mar Tirreno che fin dall’antichità è stata una prigione, un altrove dove mandare chi era sgradito. L’isola del diavolo. Silvia Giralucci, giornalista, il cui papà fu vittima del primo omicidio delle Brigate Rosse, ci capita in vacanza e rimane affascinata dal contrasto tra un luogo dal paesaggio paradisiaco e la sua storia: per 150 anni Pianosa è stata un carcere, colonia penale agricola e poi carcere di massima sicurezza dove sono stati detenuti anche alcuni degli assassini di suo padre, insieme ai vertici del terrorismo rosso, e in quelle stesse celle è stata poi imprigionata la cupola della mafia dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. ‘Pianosa, l’isola del diavolo’ è un viaggio tra le storie del passato e del presente di Pianosa, storie che intrecciano la storia d’Italia e che portano a una riflessione profonda sul senso della pena. Il carcere duro lenisce il dolore delle vittime? A cosa serve davvero la pena? Che cosa succede alle persone dentro un carcere di massima sicurezza? L’autrice, Silvia Giralucci ritorna sugli interrogativi che l’assillano fin da bambina, e attraverso le voci di chi ha abitato Pianosa - da bambino, da detenuto, da agente, da guida turistica, da avvocato - racconta i segreti di un luogo sospeso tra inferno e paradiso, esplorando allo stesso tempo il nostro complicato rapporto con la pena. Con una guida ambientale si addentra nella zona carceraria, dove le sezioni sono rimaste in un tempo sospeso dal 1998 quando, improvvisamente, il carcere venne chiuso e l’isola abbandonata. Si trova davanti alla sezione Agrippa, dove sono stati rinchiusi anche alcuni degli assassini di suo padre, e attraverso il racconto di Franco Bonisoli, uno degli autori del rapimento di Aldo Moro, si interroga sul carcere duro e su che cosa possa portare i terroristi ad assumersi la responsabilità dei reati commessi. Nel viaggio, nel tempo e nello spazio, incontra Gaetano Murana, condannato per la strage di Paolo Borsellino, detenuto per 18 anni, di cui 16 al 41 bis la maggior parte a Pianosa, prima di essere riconosciuto completamente innocente e vittima di depistaggi; il direttore di carcere Luigi Pagano, che ha iniziato la sua carriere come vicedirettore del penitenziario di Pianosa, e che dopo una vita passata nell’amministrazione penitenziaria è convinto che il carcere andrebbe abolito, e poi Stefano Ricci Cortili, antropologo fisico che racconta il passato lontano che emerge dagli scavi di Pianosa; i detenuti in semilibertà che abitano l’isola oggi lavorando con i turisti, e i due agenti di polizia penitenziaria Claudio Cuboni e Michele Comune che da trent’anni vivono questo posto sperduto come due eremiti. “Pianosa l’isola del diavolo “di Silvia Giralucci è stato selezionato da Radio 24 ed Audible lo scorso anno nell’Audible Academy, all’interno del Master in Storytelling Audio creato della 24ORE Business School con Radio 24. Un corso volto alla formazione e alla crescita delle professionalità nel settore dell’audio entertainment in Italia, ideato per sviluppare competenze e professionalità in grado di pensare e realizzare formati audio innovativi. La versione integrale in 7 puntate di “Pianosa l’isola del diavolo” sarà in onda nel palinsesto estivo di Radio 24, che prende il via il 26 luglio, al sabato alle 17 ed alla domenica alle 19, e sarà disponibile in Podcast Audible Original da settembre solo su Audible.it. Una versione ridotta della serie è disponibile dal 15 luglio sul sito di Radio 24 e sulle principali piattaforme. Terza edizione del concorso letterario e cinematografico LiberAzioni: “Vivere questo tempo” iltorinese.it, 16 luglio 2021 Cosa ha significato vivere e convivere all’interno del carcere in tempo di emergenza sanitaria? E dopo cosa succede? Questa la domanda da cui muove il terzo Concorso nazionale di scrittura di Liberazioni - festival delle arti dentro e fuori. Il tema del bando, aperto sia a detenuti di qualsiasi istituto penitenziario italiano, sia a persone in misura alternativa, deve essere svolto con narrazioni inedite in forma di racconto breve per ricordare passioni, paure, detti e non detti e come queste hanno cambiato i molteplici spazi e tempi della reclusione durante la pandemia. Curato da Eta Beta Scs e dall’Associazione Sapereplurale “Vivere questo tempo” è il significativo titolo scelto per il Concorso nazionale di scrittura aperto sino al 27 agosto 2021. Termine ultimo per poter inviare i testi tramite mail o posta ordinaria a Eta Beta Scs. Successivamente entro il 10 settembre verranno selezionati i 20 racconti finalisti, tra i quali due giurie, una composta da esperti e una da persone detenute presso la Casa Circondariale di Torino “Lorusso e Cutugno”, decreteranno il vincitore del Premio in denaro del valore di 1.000€ lordi. LiberAzioni ha una doppia anima, locale e nazionale. Infatti se Torino, il quartiere Vallette e la Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno”, rappresentano i luoghi dove si svolgerà, tra la fine di settembre e inizio ottobre 2021 un festival della creatività, ci sono anche due concorsi, uno di cinema e uno di scrittura, a carattere nazionale. Sono ammessi fino al 31 agosto al Concorso cinematografico, curato dal Museo Nazionale del cinema di Torino, i cortometraggi di finzione, documentari e film d’animazione realizzati da autori italiani o residenti sul territorio nazionale, senza limiti d’età che riflettano sui temi della reclusione, della pena, della libertà e la relazione dentro/fuori. (https://amnc.it/liberazioni-2021-aperti-i-bandi-cinema-e-scrittura/) Come sempre e ancora di più quest’anno LiberAzioni, vuole rappresentare un’occasione per riflettere attorno al tema del carcere e della pena, stimolando una conoscenza e uno scambio tra chi in carcere c’è o lo vive, la società ed il territorio. LiberAzioni è possibile grazie all’impegno di Associazione Museo Nazionale del Cinema ente capofila, Eta Beta SCS, Associazione Sapereplurale, Antigone Piemonte, con il sostegno di Fondazione CRT e Coop - Novacoop, in collaborazione con Ufficio Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Città di Torino e Direzione della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno. Link per Scaricare il Bando: https://www.lettera21.org/news/liberazioni-vivere-questo-tempo.html Così si rovinano le giovani generazioni di Chiara Saraceno La Stampa, 16 luglio 2021 Risultati dei test Invalsi spazzano via ogni narrazione consolatoria sulla “tenuta della scuola” durante la pandemia, sull’efficacia della Dad e sulle scorciatoie inventate per non prendere atto della perdita di apprendimenti maturati in questi due anni di scuola a singhiozzo: tutti promossi e esami facili, senza preoccuparsi, e senza mettere in atto strategie serie per contrastarle, delle voragini conoscitive e prima ancora del venir meno dell’interesse e della fiducia. Accanto alla dispersione esplicita si è allargata così anche l’area della dispersione implicita, fatta da chi continua a rimanere a scuola, ma apprende poco o nulla ed entrerà nella vita adulta e nel mercato del lavoro pochissimo attrezzato per esercitare i suoi diritti e doveri di cittadinanza e per trovare una collocazione decente nel mercato del lavoro. Si è ampliata anche la disuguaglianza, perché gli effetti negativi della scuola a scartamento ridotto non sono distribuiti uniformemente tra tutti i ceti e tutti i contesti territoriali. Non è tutta colpa della Dad, naturalmente. Questa non ha fatto che esplicitare e rafforzare i problemi di una scuola troppo spesso incapace di coltivare l’interesse delle bambine/i e adolescenti e di contrastare le disuguaglianze nelle risorse e nei contesti familiari e sociali a motivo di una didattica ingessata (che nella Dad si è spesso tradotta in una trasposizione online delle lezioni frontali), dove l’attenzione, doverosa, per i contenuti disciplinari non riesce a restituirne il senso e valore di comprensione del mondo e di scoperta del nuovo. Una scuola in cui negli anni si sono succedute riforme che poco o nulla hanno riguardato i contesti, le modalità, le risorse umane e materiali necessarie per favorire i processi di apprendimento, in cui gli studenti non hanno mai avuto centralità negli obiettivi di volta in volta individuati. Lo scandalo delle chiusure più lunghe d’Europa senza che nel frattempo nulla si sia fatto per rendere le scuole, e la frequenza scolastica, più sicure e più favorevoli agli apprendimenti, testimonia di questa ormai strutturale marginalità degli interessi degli studenti nell’agenda politica (ed anche sindacale). Non è forse un caso che la scuola elementare abbia retto meglio: non solo perché in questo anno scolastico è stata meglio preservata dalle chiusure, salvo che in alcune regioni meridionali dove, di conseguenza, i danni sono stati subiti anche dagli alunni più piccoli, ma perché in generale è la scuola che negli anni è stata più aperta alle innovazioni didattiche e in cui è più difficile, per le insegnanti, ignorare le diverse provenienze e capacità dei loro alunni/e. A fronte del vero e proprio disastro antropologico di cui troppi alunni/e sono vittime a causa della sciatteria e irresponsabilità di chi ha in mano il loro destino, desta preoccupazione che nulla sia pensato e programmato per contrastarlo in modo sistematico (salvo l’evocazione del ritorno delle bocciature e la promessa di qualche corso di recupero). Così come sconcerta, per usare un eufemismo, che a metà luglio si sia ancora incerti su se e come riprenderà la scuola in presenza a settembre e con quale organico. Il ministro, di cui si apprezzano le belle parole e la visione della scuola futuribile, per il futuro prossimo sembra non possa che aspettare le indicazioni del Cts. Come se non avesse responsabilità per le aule ancora mancanti dopo un anno e mezzo di pandemia e un organico ancora incerto, numericamente insufficiente e non sempre adeguatamente formato ad una didattica efficace in termini sia di apprendimenti sia di inclusività - inclusa la didattica con gli strumenti digitali a prescindere dalla Dad. Come se non fosse suo compito interpellare ministero dei trasporti, regioni e comuni per garantire la mobilità degli studenti. Nessuno ha la bacchetta magica, ma i processi vanno messi in moto tempestivamente e con sistematicità. Evocarli non basta. Non basta neppure erogare fondi a pioggia, come è stato fatto questa estate, senza un disegno organico e un sistema di priorità. Temo che di questo passo, mentre la pandemia riprenderà forza con le varianti, saranno le/gli adolescenti e i giovani ad essere individuati come la causa delle nuove chiusure: perché si “assembrano” spontaneamente per divertirsi e non solo con il permesso della Fifa, dei governi (incluso il nostro) e della Fgci, per vedere le partite di pallone e festeggiare la vittoria tra il tripudio dei commentatori; perché non si vaccinano (o i loro genitori non li fanno vaccinare), non perché le vaccinazioni rallentano ed anche chi si è mosso per tempo verrà vaccinato, forse, in agosto. E se non troveranno lavoro perché non avranno appreso abbastanza a scuola, sarà colpa loro: perché non hanno studiato, non si sono impegnati. Stiamo riducendo le possibilità di crescita e maturazione di una fetta importante delle giovani generazioni con decisioni sconsiderate e miopi ed abbiamo persino l’impudenza di dire che è colpa loro. La violenza sulle donne? Invisibile per i tribunali di Flavia Amabile La Stampa, 16 luglio 2021 Dal rapporto sulla violenza di genere approvato dalla Commissione d’inchiesta del Senato emerge che 9 procure su 10 trascurano il fenomeno. La violenza contro le donne è ancora una sconosciuta per la giustizia. Invisibile per i tribunali civili, trascurata in 9 procure su 10. Nella magistratura in tre anni sono stati organizzati sei corsi di aggiornamento sulla violenza di genere in gran parte frequentati da donne. Tra gli avvocati, sempre in tre anni, lo 0,4% ha partecipato a eventi di formazione. Molto è stato fatto e alcuni tribunali rappresentano degli ottimi modelli con pratiche da diffondere, ma la Convenzione di Istanbul, che prescrive di rendere concreti il diritto delle vittime alla protezione, resta in larga parte ancora disattesa. Le consulenze tecniche d’ufficio, che spesso decidono sulle capacità genitoriali, vengono affidate anche a esperti non specializzati nella violenza di genere. Né viene riconosciuta la violenza domestica alla base di separazioni e divorzi, perché i procedimenti civili e quelli penali per maltrattamenti e violenza procedono la maggior parte delle volte in parallelo, senza alcuno scambio di informazioni. Se, quindi, tanti casi di violenza contro le donne non vengono interpretati in modo corretto la causa è proprio la mancanza di una formazione e una specializzazione che permettano di riconoscere e affrontare con efficacia i casi che si presentano, sanzionare, prevenire escalation, sostenere le donne che denunciano. Sono le principali conclusioni del “Rapporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria”, approvato il 17 giugno dalla Commissione di inchiesta del Senato sul femminicidio e la violenza di genere, che verrà presentato venerdì 16 luglio nel corso del convegno “Giustizia e violenza contro le donne: riconoscere per perseguire”, presso la Sala Zuccari del Senato. L’indagine è stata svolta tra dicembre 2019 e il 2020 somministrando questionari a procure, tribunali ordinari, tribunali di sorveglianza, Consiglio superiore della magistratura, Scuola superiore della magistratura, Consiglio nazionale forense e ordini degli psicologi, focalizzando l’attenzione sul triennio 2016-2018. L’obiettivo era capire come ogni settore della giustizia percepisse la violenza contro le donne e riuscisse a riconoscerla. Le procure sono gli uffici più direttamente coinvolti nell’azione di contrasto alla violenza di genere e domestica, per le funzioni inquirenti e perché insieme alla polizia giudiziaria assicurano l’immediato intervento dello Stato quando vengono commessi i reati. Hanno risposto al questionario 138 procure su 140. Su un totale di 2045 magistrati requirenti, il numero di quelli assegnati a trattare nel 2018 la materia specializzata della violenza di genere e domestica è pari a 455, il 22 per cento del totale. Tuttavia non necessariamente i magistrati specializzati si occupano soltanto di violenza contro le donne e, viceversa, non sempre i procedimenti sulla violenza vengono affidati a magistrati specializzati. Nel 10,1 per cento delle procure, di piccole dimensioni, non esistono magistrati specializzati, nel 77,5 per cento è stato costituito un pool specializzato che però tratta anche altro rispetto a “soggetti deboli e vulnerabili”, mentre solo una minoranza di procure, il 12,3 per cento, segnala l’esistenza di un gruppo di magistrati specializzati esclusivamente dedicati. Nel 90 per cento delle procure esistono dunque magistrati specializzati, ma i provvedimenti per violenza non vengono per forza affidati a loro. Nel complesso, solo nel 12 per cento delle procure emerge attenzione ai temi della violenza e un elevato livello di consapevolezza. Passando a esaminare i tribunali civili l’analisi ha evidenziato una sostanziale invisibilità della violenza di genere e domestica nei tribunali civili e, in generale, una situazione più arretrata rispetto alle procure. La rilevazione si è riferita al triennio 2016-2018 e hanno risposto 130 tribunali su 140. Nel 95 per cento dei tribunali non vengono quantificati casi di violenza domestica emersi nei casi di separazione giudiziale, di scioglimento e cessazione degli effetti civili di matrimonio e in quelle sui provvedimenti riguardo ai figli, come pure non sono quantificate le cause in cui il giudice dispone una Ctu nella materia. Ciò attesta una sostanziale sottovalutazione della violenza contro le donne. Il 95 per cento dei tribunali non è in grado di indicare in quante cause il giudice abbia disposto una consulenza tecnica d’ufficio, che viene utilizzata soprattutto per l’accertamento delle capacità genitoriali e accertamenti di natura psicologica. Il 95,5 per cento dei tribunali ha dichiarato di non riuscire a nominare consulenti tecnici di ufficio che possiedono una specializzazione in materia di violenza di genere. Soltanto nel 31,5 per cento dei tribunali vengono sempre acquisiti atti e provvedimenti del procedimento penale che riguarda le stesse parti della causa civile nei casi di violenza domestica. Solo nei tribunali di Benevento, Bologna, Enna, Macerata, Palermo e Roma sono state adottate linee guida, protocolli e accordi per la collaborazione tra varie istituzioni nei procedimenti per violenza. Se si passa a osservare la situazione della magistratura si incontra un forte disinteresse. Nei tre anni dal 2016 al 2018 la Scuola superiore della magistratura ha organizzato 6 corsi di aggiornamento in materia di violenza di genere, frequentati nel 67 per cento dei casi da donne. I corsi riguardavano soprattutto il settore civile delle separazioni, dei divorzi e dei provvedimenti riguardanti i figli. A livello distrettuale, nello stesso periodo, sono stati organizzate 25 iniziative di formazione, che hanno visto il coinvolgimento di circa il 13 per cento dei magistrati, contro il 5% dei frequentanti quelle della Scuola superiore della magistratura. Per quanto riguarda gli avvocati, dai dati comunicati dal Consiglio nazionale forense, dal 2016 al 2018 sono stati organizzati più di 100 eventi in materia di violenza di genere e domestica, ai quali hanno partecipato oltre 1000 avvocati (su un totale di 243 mila), di cui l’80 per cento donne. In tre anni, dunque, solo lo 0,4 per cento degli avvocati ha partecipato a eventi formativi in materia di violenza di genere e domestica. Anche per gli psicologi si deve prendere atto di una generalizzata carenza di sensibilità alla formazione e alla costituzione di gruppi di lavoro specifici per consentire agli psicologi che svolgono attività di consulenza e di perizia nel processo sia civile che penale di acquisire anche una formazione specifica forense. Giochi elettorali sulla legge Zan di Annamaria Bernardini de Pace La Stampa, 16 luglio 2021 Tutti ne parlano, ma pochissimi hanno capito quali siano i problemi che fanno discutere. Peraltro, non si sa chi abbia letto il testo. Mi riferisco al disegno di legge Zan, da molti - anche politici - definito malamente “decreto”. Dunque, questo disegno di legge contiene “misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”. In sintesi: all’art. 1 si definisce cosa siano il sesso, il genere, l’orientamento sessuale, l’identità di genere. L’art. 2 modifica l’art. 604 del codice penale, che già punisce i comportamenti d’odio e discriminazione, aggiungendo le definizioni del Ddl Zan alle altre tipizzazioni di vittime di questi reati. Così come l’art. 3. L’art. 4 dice che “sono fatte salve la libera espressione di convincimenti e opinioni, nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee”. L’art. 5 coordina aspetti tecnici del codice e della possibile nuova legge, come l’art. 6. L’art. 7 riconosce la giornata contro l’omofobia e promuove iniziative per le scuole e per gli uffici. Gli articoli dall’8 al 10 puntano a rafforzare la consapevolezza sugli atti discriminatori. Ora, mi inquieta che, per approvare una legge contro i crimini d’odio, i partiti abbiano messo in campo tanto odio e tanta capacità discriminatoria tra di loro. Come se non avessero ben capito il senso di quello che stanno facendo. Possibilità non peregrina, in verità! Ma ciò che più mi impressiona è che un po’ della destra, dopo avere combattuto a gran voce la legge in sé, ritenendola inutile, incredibilmente ha dichiarato di essere pronta ad accogliere il contenuto integrale della legge, purché senza gli articoli 1, 4 e 7. Il buon, già democristiano, Letta, però, si è opposto con tutte le forze, dichiarando, più o meno, “o tutto o niente”. Il che è molto strano per il noto spirito democristiano, da sempre con la vocazione di mediare; ma è soprattutto strano che un democristiano difenda così duramente una legge certamente più nelle corde di chi è da sempre di sinistra. Per di più, tutta questa discussione è avvenuta al Senato dopo che la legge era stata approvata alla Camera. Se ha un senso la discussione al Senato, dopo il placet della Camera, è perché non si può abdicare alla funzione parlamentare. È una legge di importanza storica, alla necessità della quale credo fermamente. Però, le nostre Camere devono legiferare componendo, una dopo l’altra, interessi opposti; come sono gli interessi di tutta la nazione rappresentata, spesso con percentuali differenti, dai partiti politici nei due rami del Parlamento. E, purtroppo, la maggioranza parlamentare, ora non è la maggioranza della nazione per quanto riguarda idee e interessi. Perché il confronto tra i partiti non deve essere più misurato e nel rispetto del mandato di ciascuno? Perché una legge, che pure ha avuto l’approvazione della Camera, non deve poter essere modificata nell’evidenza di una differente maggioranza al Senato? Quali sono i punti di scontro? In particolare, l’art. 1, l’art. 4 e l’art. 7. Senza i quali, o modificando i quali, la legge, secondo la maggioranza di destra, potrebbe essere varata in tempi brevissimi. Ma Letta non vuole. Perché l’art. 1 non piace a tutti? L’art. 1, tra le varie definizioni, recita che “per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé, in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendente dall’aver concluso un percorso di transizione”. Al contenuto di questa seconda parte anch’io sono contraria: infatti, accettandola, è possibile che, surrettiziamente, si stravolga la legge 164/82, quella che definisce esattamente il percorso della transessualità. Con il Dddl si potrebbe persino autocertificare il genere di appartenenza, anche modificandolo nel corso della vita. Senza controllo di medici, psicologi e giudici, senza terapie e perizie. Su questo punto, è indispensabile un dibattito pubblico che coinvolga, invece, medici, psicologi, psichiatri e giudici. E si vedrà se modificare, o no, la legge 164. Con l’eliminazione dell’inciso sulla percezione dell’identità e i suoi complicati effetti, si troverebbe l’accordo di tutti i partiti. Perché, allora, continuare a combattere all’insegna del proprio personalismo, anziché assicurare alle persone omosessuali e transessuali l’indispensabile tutela? Non riesco poi a capire perché si possa considerare reato d’opinione l’art. 4, e su questo, quindi, è la destra a dover cedere e non fare come Letta sull’art. 1: è evidente che la libertà di opinione è assolutamente salvata. Se, poi, capita il solito magistrato che interpreta nel proprio, purtroppo libero, convincimento in modo diverso, è con lui che ce la prenderemo e non col Ddl Zan. Quanto poi alla propaganda nelle scuole, una sorta di incontro nello scontro tra Letta e Salvini potrebbe essere nello specificare come facoltativa l’educazione alla non omotransfobia nelle scuole. O, trovare una soluzione come quella dell’ora di religione. Peraltro, si dovrebbe parlare più di diritti che di reati, come invece si è finito col fare; inoltre, sarebbe bene trascurare l’inasprimento delle pene, o evitare il carcere, in uno Stato come il nostro nel quale le carceri fanno orrore per organizzazione e per assembramenti. Sarebbe, infatti, meglio introdurre pene pecuniarie altissime, da sostituire, eventualmente, con pesanti lavori di utilità sociale. O no? Modificando queste poche cose, si farebbe l’interesse di tutti, senza litigi, ma proteggendo le vittime e sanzionando i carnefici. Dobbiamo sbrigarci, però. Il Parlamento europeo ha iniziato, infatti, ad approvare sin dal 2004 risoluzioni con le quali raccomanda agli Stati membri di “adottare legislazioni penali che vietino l’istigazione all’odio sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere”. La più severa è stata la Svezia. Mentre, Francia, Spagna e Germania, per esempio, sono sostanzialmente in linea con il Ddl Zan. Perché in Italia dobbiamo distinguerci sempre per la litigiosità non produttiva? Quante sedute dobbiamo ancora vedere nel Parlamento come quella imbarazzante dell’altro giorno? Aveva ragione Letta, il quale critica il passo indietro della destra, dimentica di avere approvato alla Camera? O avrà ragione Salvini, affermando sicuro che, se la legge sarà affossata, sarà colpa della sinistra? Sembra che l’ago della bilancia sarà Renzi, il quale, comunque sia, ha tra le sue fila Scalfarotto, che, per primo, ha elaborato un Ddl contro l’omotransfobia, quando ancora era nel Pd, e ora, dal partito di Renzi, è firmatario anche del Ddl Zan. O, alla faccia dei diritti civili, tutti, senza discriminazioni, ma con un po’ di odio, stanno facendo il loro gioco elettorale? Ddl Zan, i dubbi nel Pd. L’ultimo pressing su Letta per mediare con Renzi di Giovanna Casadio La Repubblica, 16 luglio 2021 Probabile il rinvio a settembre, ma la strada è minata dal rischio del voto segreto. I dissidenti dem: un azzardo la strategia del leader. Le lacrime nell’aula del Senato della forzista Masini. “Cresce la schiera di chi non vuole morire in battaglia sul ddl Zan, ma portare davvero a casa la legge contro l’omotransfobia”. Andrea Marcucci riassume così la riunione dei senatori del Pd, convocata ieri, dopo che in aula a Palazzo Madama l’esame del disegno di legge è stato aggiornato a martedì prossimo. Martedì sarà probabilmente l’ultimo giorno del ddl Zan prima della pausa estiva: ci sono infatti tre decreti legge da votare subito (il decreto Semplificazioni, il dl Sostegni e quello sulla Cybersecurity). È probabile quindi che sia rinviata a settembre la legge che porta il nome del deputato dem e attivista Lgbt, Alessandro Zan. Il rischio dell’altro ieri, quando per un solo voto il ddl Zan è riuscito a evitare la sospensione, ha lasciato strascichi. Nell’assemblea del Pd se ne parla senza girarci attorno. “Una discussione franca, e spero si apra una breccia”, twitta sempre Marcucci. Il Pd annuncia che non presenterà emendamenti (che vanno depositati entro martedì mattina), così come non li presenteranno i 5Stelle. Ma se ne attendono una valanga dalle destre, e dalla Lega soprattutto. Matteo Renzi, nel videoforum con Repubblica, ha assicurato: “Ci saranno gli emendamenti presentati da altre forze politiche, non da Italia Viva.Il ddl Zan l’abbiamo votato e continueremo a farlo”. Ma per la legge contro l’omofobia la strada è minata dai voti segreti e dai “franchi tiratori”. Ex capogruppo ed ex renziano di ferro, Marcucci è il più critico sulla strategia di Enrico Letta di andare avanti comunque sul ddl Zan così com’è stato approvato alla Camera il 4 novembre scorso. È convinto vadano cercati compromessi con Matteo Salvini e con Renzi. Scatta tra i dubbiosi del Pd l’ultimo pressing su Letta affinché cambi strategia e cerchi una mediazione. Lo conduce la pattuglia dei dissidenti, che non vogliono essere chiamati fronda, perché - spiegano - “abbiamo diverse strategie ma un obiettivo comune: approvare la legge”. Oltre a Marcucci e a Stefano Collina, Valeria Valente, presidente della commissione sul femminicidio, Valeria Fedeli, ex ministra della Scuola, Mino Taricco sono la prima linea. Chiedono al segretario Letta “un supplemento di riflessione”. Dice Taricco: “È un azzardo non provare a lavorare sui contenuti”. In aula ieri, nel lungo elenco di interventi, la commozione di Barbara Masini, la senatrice di Forza Italia che ha fatto coming out e voterà il ddl Zan. Ricorda: “Quando capì di me, mia madre disse ho paura per te... a tutti voi auguro di potere guardare negli occhi i vostri cari anche quelli che un domani saranno diversi dai vostri desideri e potergli dire: io vi ho protetti dalla paura”. La linea del Pd la illustra la capogruppo Simona Malpezzi: “Andiamo avanti in attesa degli emendamenti delle altre forze politiche per vedere quale direzione vogliono prendere. Noi non presenteremo emendamenti, ma qualificanti ordini del giorno”. Gli odg stanno a cuore a “Base riformista”, la corrente degli ex renziani, come afferma Alessandro Alfieri. Riguardano ad esempio, l’articolo 7 e le iniziative nelle scuole sull’omofobia. È anche il punto su cui il Vaticano nella nota diplomatica di contrarietà è intervenuto richiamando il Concordato. Franco Mirabelli ribadisce: “Sono irricevibili le modifiche proposte dalle destre”. Rincara Alan Ferrari, altro senatore critico: “Al Pd interessa solo uscire da qui con un diritto in più. Perché uscire senza un diritto in più vorrebbe dire esporre per ancora molto tempo le persone più fragili”. “Il ddl Zan è un’operazione politico-culturale: inaccettabile farlo con una norma penale” di Simona Musco Il Dubbio, 16 luglio 2021 Intervista a Francesca Izzo, femminista, docente universitaria e ricercatrice di scienze orientali ed ex deputata dei Ds. “Il ddl Zan ha aspetti condivisibili, ma la definizione di identità di genere rischia di creare mutazioni di tipo antropologico. È un’operazione politico-culturale e farlo con una legge penale è inaccettabile”. A dirlo è Francesca Izzo, femminista, docente universitaria e ricercatrice di scienze orientali ed ex deputata dei Ds. Dottoressa, cosa non va secondo lei in questa norma? Sono d’accordo perché ci sia una legge che renda più stringenti le norme già esistenti contro i crimini di odio e di discriminazione nei confronti delle persone omosessuali e transessuali. Quello che sin dall’inizio, ovvero da quando il ddl Zan era alla Camera, non mi convince, e non solo me, è la presenza, in questa legge, di un aspetto che è di tipo ideologico-politico, legato al termine identità di genere. Perché? Si tratta di una formulazione che ha molti significati, ma il significato che viene spiegato all’articolo 1 - una identità sessuale sulla base della percezione del soggetto, al di là di qualsiasi dato obiettivo legato al sesso - rappresenta una posizione molto discussa, discutibile, oggetto di molte controversie negli anni sul piano accademico e del dibattito pubblico, che non può entrare in una legge di rilievo penale. Se ne deve discutere, perché ha a che fare con un mutamento di quelle che sono le convinzioni e gli aspetti di che cos’è la sessualità umana e modifica il sentire comune. Questo può certamente accadere, possiamo cambiare e nel corso dei millenni sono successe tante cose, ma non in questa maniera surrettizia e all’interno di una legge che ha rilievo penale. Questo è inaccettabile. Il rischio qual è? In una legge penale ci devono essere cose certe, stabili e definite a cui il giudice e il magistrato possano fare riferimento senza ricorrere a interpretazioni che possono essere arbitrarie. Ci sono molte preoccupazioni sulla libertà di pensiero e di espressione. Se si fa passare, in una legge penale, una posizione che è suscettibile di dibattito e di posizioni diverse, significa che si rischia di non essere liberi di dire che una donna di sesso femminile è diversa da un uomo che si dichiara donna, al di là di qualsiasi transizione. Potrei anche trovare un giudice che stabilisca che questo è discriminatorio e che la mia affermazione mostra disprezzo per quella realtà. È una cosa che reputo inaccettabile. Considero questo tipo di posizioni come misogine, per cui devo essere assolutamente libera di poterlo sostenere. Ma una volta che passa in una legge penale questo principio il rischio è che si limiti la mia libertà. Ma la clausola “salva opinioni” non evita rischi del genere? Si rende conto che hanno dovuto mettere una clausola rispetto ad un diritto riconosciuto dalla Costituzione? È abbastanza bizzarro. È stata frutto di una mediazione tra i partiti... Perché la norma è congeniata male su questo punto. Tra l’altro, se si parla di identità transessuale tutti vengono difesi. Perché non lo si fa? In una legge che è contro l’omotransfobia il termine transessuale non c’è. Un anno e mezzo fa avevamo proposto come “Se non ora quando? - Libere”, assieme all’Arcilesbica, di inserire questa definizione al posto di identità di genere, espressione ambigua che fa nascere tanti problemi. A maggio dello scorso anno abbiamo scritto una lettera aperta agli estensori della legge e a tutti i parlamentari del centrosinistra, spiegando le ragioni delle nostre perplessità e chiedendo un incontro. Ma la proposta è stata rifiutata. Perché? Non siamo state proprio prese in considerazione. A questo punto va da sé che l’intenzione non è quella di difendere le persone omosessuali e transessuali da crimini di odio e discriminazione, ma di voler far passare in maniera surrettizia una diversa visione della sessualità umana. E questo è inaccettabile. Serve una discussione che coinvolga l’opinione pubblica. La popolazione italiana è d’accordo nel proteggere di più le persone omosessuali e transessuali, ma bisogna vedere se lo sia anche su un mutamento così profondo della visione della sessualità. Non si vuole fare questa discussione e, dunque, si risolve così, dicendo che lo si fa per difendere omosessuali e transessuali. Ma è un’operazione politico-culturale e fare ciò all’interno di una legge penale non è accettabile. Perché ha parlato di misoginia? Una donna che decide di diventare uomo cancella completamente la propria identità di donna. Al contrario, quando gli uomini che decidono di rimanere tali si dichiarano donne gli stereotipi di genere diventano gli unici e soli segni di distinzione. Bisognerebbe davvero discuterne a fondo e vederne tutte le implicazioni. Vengono fuori degli aspetti paradossali. E sono molto colpita e sorpresa dal comportamento del mio mondo di riferimento politico-culturale. Non mi sarei mai aspettata da un partito di cui ho fatto parte una totale chiusura. Cosa salva di questa legge? Ci sono tanti punti buoni. Basterebbe togliere l’identità di genere, tornando alla formulazione Scalfarotto, e cadrebbero tante altre criticità. Ma su questo hanno fatto le barricate. Si possono fare degli emendamenti che non stravolgono il testo per arrivare all’obiettivo che si vuole raggiungere, ovvero combattere i crimini d’odio contro omosessuali e transessuali. Ci sono altri rischi secondo lei? L’altro aspetto è che facendo passare questa formulazione di identità di genere, non essendoci più alcuna distinzione tra una donna di sesso femminile e una donna di genere femminile, se quest’ultima accampa il diritto ad avere un figlio, sentendosi in caso contrario discriminata, l’unica maniera per farlo sarebbe quella di ricorrere alla maternità surrogata, alla quale sono fermamente contraria. E perché lo è? Perché considero la gravidanza un processo unitario, uno degli aspetti della manifestazione dell’umanità, invece con la maternità surrogata il processo unitario viene meno, viene spezzato in varie parti. Gli ovociti vengono estratti e messi sul mercato, viene messo sul mercato un ventre e viene comprato e venduto anche il prodotto bambino. La procreazione diventa una produzione, come se fosse una merce. Prima di arrivare a trasformare la procreazione in produzione vorrei che se ne discutesse a fondo e non si considerasse questo un atto di libertà. E questo perché c’è una mutazione di tipo antropologico. Si rivendica la libertà di ognuno di fare quello che vuole, anche di vendere se stesso, ma noi abbiamo vietato la schiavitù, per cui esistono anche dei divieti alla libertà individuale, quando si mettono a rischio beni di carattere collettivo e che riguardano l’antropologia e gli elementi di fondo dell’umanità. Migranti. Frontex ha chiuso un occhio sui respingimenti e sulle prove degli abusi di Sara Creta Il Domani, 16 luglio 2021 L’agenzia di controllo delle frontiere dell’Unione europea, Frontex, ha ignorato le segnalazioni di respingimenti illegali di migranti da parte degli Stati dell’Ue. Un fallimento che lasciato i migranti dichiarati a futuro ha dei loro diritti fondamentali, ha concluso un rapporto del Parlamento europeo. Frontex ha “trovato dimostrare a sostegno delle accuse di violazioni dei diritti fondamentali negli Stati membri (dell’Ue, ndr) con cui aveva un’operazione congiunta, ma non è riuscito a prevenire possibili diritti dei diritti umani fondamentali”, secondo una copia dei diritti umani fondamentali rapporto vista da Domani. “Frontex sapeva che c’erano prove a sostegno delle denunce di diritti fondamentali negli Stati con cui ha svolto operazioni congiunte - come in Grecia - ma non si è occupata di queste violazioni in modo vigile ed efficace”, accusa il gruppo di parlamentari. E, continua, “l’agenzia, in alcune occasioni, ha ignorato tali informazioni”. L’agenzia: “Il rapporto sottolinea le sfide della trasformazione dell’Agenzia in un ambiente sempre più complesso”. Un portavoce di Frontex ha affermato che l’agenzia “accoglie con favore il rapporto”. “Riconosciamo la necessità di aggiornare il nostro sistema di segnalazione per assicurarci che nessuna possibile dei diritti fondamentali non denunciata”, ha aggiunto il portavoce. I membri del Parlamento europeo hanno formato lo scorso marzo un gruppo di lavoro, ufficialmente chiamato Frontex Scrutiny Working Group (FSWG), per “monitorare tutti gli aspetti del lavoro dell’agenzia di frontiera, compreso il suo rispetto dei diritti umani fondamentali”. Il gruppo di lavoro, composto da 14 eurodeputati, è stato istituito dopo le rivelazioni giornalistiche sul ruolo di Frontex nei respingimenti illegali al confine greco-turco. Frontex è accusata di aver bloccato le imbarcazioni di migranti, violando il divieto di espulsioni collettive, il principio di non-respingimento della Convenzione di Ginevra e il diritto di protezione internazionale. Respingimenti collettivi documentati anche da Domani, in un’inchiesta collettiva con Lighthouse Reports, in collaborazione con Der Spiegel, Libération, che aveva rivelato come il sistema istituito dall’Europa mette a rischio la vita di migliaia di persone. Per Fulvio Vassallo Paleologo, giurista e professore di Diritto dell’asilo all’Università di Palermo, presto potrebbero arrivare altre denunce su queste violazioni commesse da Frontex: “Altrettanto grave è la situazione nel Mediterraneo centrale, dove le attività di tracciamento e di coordinamento con la Guardia costiera libica e intercettazioni aeree in acque internazionali alla violenza perpetrata nei centri di ritorno. L’inchiesta del Parlamento europeo è durata cinque mesi ed evidenzia “carenze dei sistemi di Frontex per monitorare, segnalare e valutare situazioni dove i diritti fondamentali sono violati”. L’inchiesta, guidata dall’olandese Tineke Strik, dei Verdi, si è concentrata sulle denunce di parte di ONG, inchieste giornalistiche e segnalazioni di organizzazioni internazionali che hanno dimostrato violenza e respingimenti. Responsabili: gli agenti di Frontex appartenenti alla polizia greca nel Mar Egeo. Eventi che’ultimo anno hanno fatto di Frontex il bersaglio di tutte le critiche e hanno posto il suo direttore esecutivo, il francese Fabrice Leggeri, al vaglio di eurodeputati, Ufficio antifrode e Corte dei conti Ue. Ancora una volta, il direttore di Frontex sott’accusa. Nonostante il nome di Leggeri non venga citato direttamente una volta nel documento, il gruppo di esperti dedica un intero capitolo a fiumi sono critiche dopo critiche alla sua dirigenza. “È chiaro che l’amministratore delegato. Il gruppo si rammarica, prosegue il documento, che Leggeri “non ha risposto o dato alle numerose espressioni di seguito, opinioni o osservazioni dal corso dei diritti umani nel corso quattro anni”. Inoltre gli eurodeputati, assistiti in questi mesi da analisti ed esperti di migrazione a livello internazionale, affermano di aver osservato inoltre “con conferma internazionale” che Leggeri “stia ritardando l’assunzione dei tre vicedirettori”. Le nomine dei tre consiglieri erano previste per la scorsa primavera, ma ora, secondo fonti dell’agenzia, bisognerà aspettare dopo l’estate per vedere chi darà loro l’incarico. Lotte di potere per una vice leadership nell’agenzia si stanno preparando da mesi, e il gruppo del Parlamento europeo, infatti, si dice “molto preoccupato per gli insufficienti controlli e contrappesi [di potere] all’interno dell’Agenzia”. I paesi dell’Ue e la Commissione “dovrebbero intensificare il loro coinvolgimento e le azioni per garantire che il sostegno di Frontex alla sorveglianza delle frontiere vada di pari passo con la prevenzione e la lotta adeguata ai diritti fondamentali”, affermano il rapporto. Migranti. Violenza sessuale, pestaggi e prigionia: nuove prove dell’orrore in Libia di Sara Creta Il Domani, 16 luglio 2021 In un rapporto diffuso oggi, Amnesty International ha rivelato nuove prove di violazioni dei diritti umani, compresa la violenza sessuale, nei confronti di uomini, donne e bambini intercettati nel mar Mediterraneo e riportati nei centri di detenzione libici. Le terribili conseguenze della cooperazione in corso tra l’Europa e la Libia in tema d’immigrazione e controllo delle frontiere sono documentate in un rapporto di 52 pagine intitolato “Nessuno verrà a cercarti: i ritorni forzati dal mare ai centri di detenzione della Libia”. La Libia non consente agli organismi internazionali di intervenire. Le maggiori restrizioni del 2021 sull’accesso di Unhcr, altre agenzie dell’Onu e organizzazioni umanitarie ai centri di detenzione hanno agevolato ulteriormente le violazioni e favorito l’impunità. “Il Governo di unità nazionale costituito a marzo 2021, non ha intrapreso alcuna azione per affrontare le violazioni sistematiche nei confronti di rifugiati e migranti detenuti all’interno del paese”?, scrive Amnesty. I luoghi informali di prigionia, originariamente sotto il controllo di varie milizie, sono stati riconosciuti e integrati nella struttura del dipartimento per la lotta all’immigrazione illegale del Ministero degli Interni. Leggitimate dal governo - Il rapporto rivela inoltre che dalla fine del 2020 la Direzione per il contrasto all’immigrazione illegale (Dcim), un dipartimento del ministero dell’Interno della Libia, ha legittimato le violazioni dei diritti umani, integrando tra le strutture ufficiali due nuovi centri di detenzione dove negli anni scorsi le milizie avevano sottoposto a sparizione forzata centinaia di migranti e rifugiati. Persone sopravvissute a uno di questi centri hanno denunciato che le guardie stupravano le donne e le obbligavano ad avere rapporti sessuali in cambio di cibo o della libertà. I detenuti hanno raccontato ad Amnesty International le torture, le condizioni detentive inumane, le estorsioni e i lavori forzati cui erano sottoposti. “I responsabili di queste violazioni dei diritti umani sono stati premiati attraverso promozioni e l’assegnazione di posizioni di potere. Questo significa una sola cosa: che rischiamo di vedere gli stessi orrori replicarsi ancora”, ha detto Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty International per il Medio Oriente e l’Africa del Nord. Durante alcuni tentativi di fuga dal centro gestito dalla Dcim di Abu Salim a Tripoli, guardie e uomini armati non identificati hanno ucciso almeno due persone e ferito molte altre sparando ai detenuti alla fine di febbraio 2021 e il 13 giugno dello stesso anno. Tre testimoni della prima sparatoria hanno riferito la presenza di miliziani collegati ad Abdel Ghani al-Kikli, comandante delle milizie che controllano la zona di Abu Salim, nominato a gennaio 2021 dall’ex Consiglio di presidenza del Governo di accordo nazionale (GNA) come capo dell’Autorità di supporto della sicurezza, ente con ampi poteri in materia di polizia e sicurezza nazionale. “C’era sangue delle persone [morte e ferite] sui muri e sul pavimento [ma] era come se non fosse mai accaduto nulla. Ti picchiano e ti abbandonano, e nessuno fa domande. Morire in Libia è normale: nessuno ti verrà a cercare e nessuno ti troverà”, ha raccontato Jamal, un rifugiato ventunenne presente durante la sparatoria mortale di febbraio 2021 nel centro di Abu Salim. Nel centro di detenzione di Shara’ al-Zawiya a Tripoli - precedentemente diretto da una milizia e ora integrato nel Dcim - i detenuti hanno raccontato ad Amnesty International che le guardie stupravano le donne e che alcune di loro venivano obbligate ad avere rapporti sessuali in cambio di cibo e acqua potabile o della libertà. “Abbiamo sofferto molto in quella prigione… Tre guardie mi hanno detto che se fossi andata a letto con loro, poi mi avrebbero liberato. Gli ho detto di no. Mi hanno picchiato con una pistola. Ancora oggi mi fa male. Non ho libertà e non ho pace”, ha raccontato Grace, una ventiquattrenne intercettata in mare nel 2021, detenuta in modo arbitrario nel centro di Shara’ al-Zawiya. La morte - A seguito delle violenze subite, due giovani donne detenute a Shara’a al-Zawiya hanno tentato il suicidio. Tre donne hanno testimoniato che due bambini, detenuti in cattive condizioni di salute con le loro madri dopo essere stati intercettati in mare, sono morti all’inizio del 2021 dopo che le guardie avevano rifiutato di trasferirli in ospedale. Inoltre, nonostante le autorità libiche abbiano dichiarato di voler chiudere i centri del Dcim dove si sono verificate violazioni dei diritti umani, le stesse violazioni si stanno verificando nei centri di detenzione nuovi o trasferiti sotto il controllo dello stesso Dcim. “L’intero sistema dei centri di detenzione libici per i migranti è marcio dalle fondamenta e dev’essere smantellato. Le autorità libiche devono chiudere immediatamente tutti i centri di detenzione per rifugiati e migranti e porre fine alla loro detenzione”, ha detto Eltahawy. Migranti. L’Italia sosterrà ancora la Guardia costiera libica di Carlo Lania Il Manifesto, 16 luglio 2021 Via libera della Camera alla delibera missioni internazionali, compresa la contestata “scheda 48” relativa all’addestramento della cosiddetta Guardia costiera libica. La risoluzione della maggioranza è passata ieri con 438 voti a favore, 2 contrari e 2 astenuti, mentre contro la parte che riguarda la Libia, sulla quale si è proceduto con un voto separato, hanno votato 3e deputati tra M5S, LeU, +Europa e Pd. Gli astenuti sono stati invece 22, tra i quali il gruppo di Italia viva. Il voto di ieri non rappresenta certo una sorpresa. Che l’Italia decidesse finalmente di mettere fine alla collaborazione con i guardacoste di Tripoli era infatti impensabile visto che finora, al momento del voto in parlamento, si è sempre trovato un motivo per proseguire. L’anno scorso furono le rassicurazioni del governo che nel discutere le modifiche al Memorandum Italia-Libia si sarebbero pretese dai libici garanzie sul rispetto dei diritti umani dei migranti. Modifiche che, però, sono rimaste al palo. Quest’anno a spianare la strada al voto è stato un emendamento del Pd votato nelle commissioni Esteri e Difesa che impegna il governo a “verificare dalla prossima programmazione le condizioni per il superamento della suddetta missione”, formula con cui si ipotizza la possibilità che ad addestrare le milizie libiche sia l’Unione europea. Per il Pd l’emendamento è stato il modo per uscire da una situazione divenuta ormai difficile, tanto più dopo le immagini della motovedetta libica, una di quelle regalate a Tripoli proprio dall’Italia, che insegue, spara e tenta di speronare un barchino pieno di migranti. La decisione non ha però convinto l’opposizione interna al punto che sette deputati, Orfini, Boldrini, Raciti, Rizzo Nervi, Gribaudo, Pini e Bruno Bossio hanno comunque votato contro. “Ancora una volta abbiamo votato in pochi, troppo pochi. Ancora una volta una scelta orribile, una giornata orribile”, è stato il commento di Orfini. Nel dibattito che ha preceduto il voto è stato invece il deputato di +Europa Riccardo Magi a rivolgersi ai deputati dem: “Lo dico ai colleghi del Pd, non c’è nulla da verificare, è già tutto noto quello che avviene in Libia anche per mano della Guardia costiera che alimenta un circuito di violenza, sequestri, detenzione illimitate e stupri”. “Questa missione - ha detto invece Erasmo Palazzotti di LeU - fa parte di una strategia che vede nell’esternalizzazione delle frontiere il suo punto cardine. E oggi dobbiamo chiederci se è un costo moralmente accettabile continuare a finanziare le violazioni dei diritti umani”. Adesso la delibera passa al Senato dove verrà votata martedì 20 dalle commissioni Esteri e Difesa. Il voto in aula è previsto invece per il 28 luglio. Anche in questo caso non sono previste sorprese: contrari alla missione in Libia sono infatti LeU e un piccolo drappello di senatori dem. Ieri, nel corso di un’assemblea tra i senatori Pd hanno espresso critiche alla missione Tommaso Nannicini e Francesco Verducci, ma contrario è anche Vincenzo D’Arienzo: “L’Italia continua a cooperare con chi compie respingimenti, viola i diritti umani e commette crimini contro l’umanità”, ha detto Verducci commentando il voto alla Camera. Ma critiche sono arrivate anche dalle ong, che definiscono “fumo negli occhi” l’emendamento presentato dal Pd: “Chiedere all’Europa di fare i respingimenti al posto nostro non sposta di una virgola il cuore della questione” dicono, tra le altre, Msf, Oxfam e Arci. “Se il Pd vuole davvero dimostrare di essere diverso dovrebbe chiedere alla Ue di mettere in campo una missione di ricerca e soccorso nel Mediterraneo”.