Cartabia: “Non si respira nelle celle, la pena non è solo la prigione” di Ciro Cuozzo Il Riformista, 15 luglio 2021 “Siamo qui per dire che i vostri problemi sono i nostri problemi. Siamo qui, perché quando si parla di carcere, “bisogna aver visto”, come ci ricordano le celebri parole di Piero Calamandrei che sapeva bene cosa significasse la vita del carcere”. Dopo aver visto le condizioni del carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove il 6 aprile 2020 è avvenuta l’orribile mattanza della polizia penitenziaria giustificata come “perquisizione straordinaria”, la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il premier Mario Draghi annunciano la riforma dell’ordinamento penitenziario. “Oggi Cartabia e Draghi hanno dimostrato di essere ottimi interlocutori” ha dichiarato il magistrato di sorveglianza Marco Puglia, presente insieme ai tre garanti locali (Samuele Ciambriello, garante dei detenuti della Campania, Emanuela Belcuore, garante di Caserta e Pietro Ioia, garante di Napoli) e con il garante nazionale Mauro Palma. “C’è una nuova aria a Santa Maria - prosegue Puglia - come un balsamo che allevia le loro sofferenze”. I quattro problemi cronici del carcere - Quattro i problemi cronici: sovraffollamento, strutture non adeguate, scarso ricorso alle pene alternative e carenza di personale. La Guardasigilli parte del sovraffollamento presente nei 190 istituti penitenziari presenti in Italia. “Sovraffollamento significa spazio dove è difficile anche muoversi, dove d’estate, come abbiamo sperimentato anche oggi, si fa fatica persino a respirare. Oggi a questo problema occorre far fronte con una strategia che operi su più livelli: strutture materiali, interventi normativi, personale, formazione”. Riguardo le strutture materiali e l’adeguata manutenzione, nell’ambito dei fondi complementari al PNRR, “è stata prevista la realizzazione di 8 nuovi padiglioni. Tra gli istituti sui quali dovranno insistere le nuove costruzioni - annuncia Cartabia - c’è anche Santa Maria Capua Vetere, insieme a Rovigo; Vigevano, Viterbo, Civitavecchia, Perugia, Ferrara e Reggio Calabria”. Pene alternative: lavori di pubblica utilità - “Ma l’altro piano fondamentale - sottolinea la Ministra- è quello normativo. Il pacchetto di emendamenti in materia penale, approvato dal Consiglio dei Ministri la settimana scorsa, prevede anche un uso più razionale delle sanzioni alternative alle pene detentive brevi. Occorre correggere una visione del diritto penale incentrato solo sul carcere, per riservare la detenzione ai fatti più gravi. La Costituzione parla di “pene” al plurale. La pena non è solo carcere. Senza rinunciare alla giusta punizione degli illeciti, occorre procedere sulla linea, che già sta generando molte positive esperienze, anche in termini di prevenzione della recidiva e di risocializzazione, attraverso forme di punizione diverse dal carcere - come, ad esempio, i lavori di pubblica utilità. In questo, un ruolo fondamentale è svolto dai giudici di sorveglianza. Nuove assunzioni e più formazione - “Occorre rimediare alla grave diminuzione del personale che si è verificato nel corso degli anni, provvedendo immediatamente a nuove assunzioni e, possibilmente, incrementare l’organico della polizia penitenziaria, senza dimenticare gli educatori, i dirigenti e tutto il personale, anche dell’esecuzione penale esterna. Le scoperture di personale sono significative per tutte le categorie. I concorsi in atto e quelli già programmati non saranno sufficienti nemmeno a coprire il turn over”. “La carenza di personale - spiega Cartabia -sovraccarica di ulteriori responsabilità quello in servizio e lo sottopone a condizioni di stress, se non a situazioni di rischio. Servono anche finanziamenti per la videosorveglianza capillare e per le attrezzatture specifiche degli agenti. Servono però - ed è quel che considero l’aspetto ancora più qualificante - più fondi per la formazione permanente. Dobbiamo investire molto di più nella formazione, per tutto il personale e, in particolare, per quello della Polizia penitenziaria. Essa svolge un compito complesso e delicatissimo, anche se la sua attività non è del tutto conosciuta. Oltre all’esercizio della tradizionale funzione della vigilanza e della custodia, la Polizia penitenziaria raccoglie anche il compito di accompagnare il detenuto nel percorso rieducativo, come vuole la nostra costituzione. Vigilare e accompagnare. Vigilando redimere, dice il vecchio motto del corpo. Occorre fermezza e sensibilità umana e, soprattutto, altissima professionalità per svolgere un compito tanto affascinante quanto difficile”. Draghi: “Già condannati due volte per sovraffollamento” - “L’Italia è stata condannata due volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per il sovraffollamento carcerario. Ci sono migliaia di detenuti in più rispetto ai posti letto disponibili. Sono numeri in miglioramento, ma sono comunque inaccettabili. Ostacolano il percorso verso il ravvedimento, ostacolano il reinserimento nella vita sociale, obiettivi più volte indicati dalla Corte Costituzionale”. Sono le parole del premier Mario Draghi dopo la visita nel carcere di Santa Maria Capua Vetere dove ha raccolto le testimonianze dei detenuti. “In un contesto così difficile - aggiunge - lavorano ogni giorno, con spirito di sacrificio e dedizione assoluta, tanti servitori dello Stato, in primis la polizia penitenziaria, che in grande maggioranza rispetta i detenuti, rispetta la propria divisa, rispettano le istituzioni. Vorrei anche dire che gli educatori assicurano le finalità riabilitative della pena. I mediatori culturali assistono i carcerati di origine straniera. I volontari permettono molte delle attività di reinserimento. A voi, ai vostri colleghi in tutta Italia, e al corpo della polizia penitenziaria nel suo complesso, va il più sentito ringraziamento del Governo e il mio personale”. Per Draghi “la detenzione deve essere recupero, riabilitazione. Gli istituti penitenziari devono essere comunità. E dobbiamo tutelare, in particolare, i diritti dei più giovani e delle detenute madri. Le carceri devono essere l’inizio di un nuovo percorso di vita. L’Italia, questo Governo, comunità di Santa Maria di Capua Vetere, vogliono accompagnarvi. Grazie”. Riforma delle carceri: più pene alternative, si andrà in cella solo per i reati gravi di Liana Milella La Repubblica, 15 luglio 2021 La ministra vuole rivedere la legge Gozzini, parte delle norme già presentate. “Il carcere non può essere l’unica risposta al reato”. Lo ha detto tante volte Marta Cartabia. Sin dal suo primo discorso davanti alla commissione Giustizia della Camera. Era il 15 marzo. I fatti di Santa Maria erano di là da essere messi in piazza. Eppure la ministra disse subito che il carcere deve avere “un volto umano”. Adesso le sue leggi tradurranno questi principi in fatti. Da un lato, con un’ampia casistica di pene alternative alla detenzione. E questo la Guardasigilli lo ha già previsto con altrettanti emendamenti nella riforma penale appena approdata a Montecitorio. Già, proprio quella contestata ancora ieri da M5S. E che invece riprende la legge dell’ex Guardasigilli del Pd Andrea Orlando sull’esecuzione penale che fu proprio il suo successore Alfonso Bonafede a ridimensionare. Dall’altro lato Cartabia vuole ritentare proprio l’avventura di Orlando di rimettere mano all’ordinamento penitenziario, la legge Gozzini del 1975, che via via, negli anni, ha progressivamente perso o ha visto attenuarsi il coté umano e progressista per lasciare il posto a un carcere dove si sconta solo quel tot di pena deciso dal giudice, ma non si guarda a una nuova vita possibile dopo le sbarre. Se Cartabia farà tutto questo dovrà prevedere la contrapposizione dura di chi sposa la teoria del “buttiamo la chiave”. Ma è proprio scorrendo già la sua legge penale che si può vedere come le affermazioni fatte a Santa Maria sono state tradotte in norme che andranno solo applicate. Vediamole. Il carcere “riservato solo ai reati più gravi”. Per tutti gli altri “pene alternative”. A partire da quelle che andranno a sostituire le pene detentive brevi. L’asticella si ferma su quelle fino a 4 anni. Il giudice sceglie subito una soluzione differente rispetto al carcere. Può essere la detenzione domiciliare, oppure la semilibertà nei casi in cui il percorso dell’imputato presenta delle ambiguità negative di comportamento. In questo caso il condannato potrà uscire dal carcere, anche per un lavoro esterno, ma poi dovrà farvi rientro. Scendiamo di un anno nella pena. La condanna in questo caso è fino a 3 anni. Il giudice potrà prevedere di condannare il suo imputato a un lavoro di pubblica utilità, un lavoro definito e considerato socialmente utile, che non prevedrà una retribuzione. Si allarga, rispetto a oggi, la platea dei reati che possono rientrare in questa categoria. Non solo quelli di competenza del giudice di pace e per la guida in stato di ebbrezza. E tra gli emendamenti di Cartabia ecco un altro passo in avanti, oggi la pena pecuniaria vale solo per i reati per cui è prevista una pena fino a sei mesi, ma da domani i mesi diventeranno dodici. Ma con la riforma Cartabia c’è anche una radicale modifica rispetto alla procedura. Perché se oggi queste misure alternative si possono chiedere ai giudici di sorveglianza, con la futura riforma ci si potrà rivolgere subito al giudice al momento della sentenza di condanna oppure dopo il patteggiamento. E quindi ecco che se patteggi una pena fino a 4 anni questo sarà un ulteriore incentivo. Nello spirito, tante volte ribadito da Cartabia, e cioè che “l’unica pena per chi commette un reato non può essere solo il carcere”, nella riforma penale trovano spazio la sospensione del processo con la messa alla prova. Se oggi questo è possibile per i reati fino a 4 anni, domani vi rientreranno quelli fino a 6 anni. E per prevenire le critiche, la riforma già prevede che non ci potrà essere alcun automatismo, nessuna regola generale, ma la valutazione caso per caso per i reati che si prestano a percorsi di quella che viene chiamata giustizia riparativa. Quando chi ha commesso il delitto non deve solo scontare la pena, ma anche riparare il danno causato alla vittima. In quelli che sono stati battezzati “centri di mediazione” sarà possibile l’incontro tra l’autore del reato e la sua vittima. Cartabia si tuffa nell’avventura di cambiare l’ordinamento penitenziario. Orlando l’aveva fatto con gli Stati generali dell’esecuzione penale lavorandoci dal 2014 in avanti con il penalista Glauco Giostra. A marzo 2018 la riforma non ottenne l’ultimo via libera di palazzo Chigi. C’era chi temeva una ripercussione negativa sul voto. Ad agosto il governo gialloverde la ribattezzò una “salva ladri” e la bloccò. Celle aperte, lavoro e rieducazione: così si tutelano i diritti dei più deboli di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 15 luglio 2021 La gloria calcistica non nasconde la vergogna nazionale documentata dai video dell’aggressione dei detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere da parte di un reparto di agenti di custodia nell’aprile 2020. Ce lo ricorda la visita che il presidente Draghi, dopo la cerimonia a Palazzo Chigi in onore degli atleti italiani, ha deciso di fare con la ministra Cartabia. Una visita straordinaria e proprio per questo un segnale importante di impegno politico del governo. La vicenda offende una realtà delle carceri italiane, che vede molti esempi virtuosi di impegno civile del personale, ma finisce per concentrare l’attenzione su un fatto di violenza fisica indiscriminata, non occasionale, organizzata. Non è possibile metterla tra parentesi, rinviare tutto al processo penale in corso e andare avanti come prima. Nell’Europa dei diritti e dei valori dopo questo episodio l’Italia sarà al fondo della graduatoria; non civile e umana, ma selvaggia. Lo Stato, quando detiene persone nelle sue carceri, ne assume la responsabilità e la Costituzione vieta pene che consistano in trattamenti contrari al senso di umanità. La vicenda, su altro piano, dà sollievo. La pubblicazione da parte del quotidiano Il Domani di quei video -regolare o meno rispetto alle regole del processo- è un nobile esempio di quanto valga la libertà di stampa e come non sia un vuoto slogan quello che ne indica il ruolo di essenziale “cane da guardia della democrazia”. È da quella pubblicazione, infatti, che dopo più di un anno dai fatti, a catena con i provvedimenti della magistratura, l’opinione pubblica è venuta a conoscenza di un tanto grave problema e si è posto il problema politico. È stata così richiamata un’attenzione sullo stato delle carceri che non dovrebbe in realtà mai cessare. Ne ha parlato in una intervista a questo giornale Sebastiano Ardita, che fu a capo della Direzione generale dei detenuti e del trattamento nel Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Se ne è occupata Milena Gabanelli in un suo recente Dataroom su La7, discutendo gli effetti di una gestione delle carceri che ha visto adottata la via delle celle aperte durante il giorno per la generalità dei detenuti (esclusi naturalmente quelli pericolosi, assegnati al regime rigido dell’art. 41bis o a quello della Alta Sicurezza). Ne sarebbe derivato, come causa ad effetto, un aumento degli episodi di violenza contro gli agenti penitenziari e tra detenuti. La correttezza dei dati pubblicati non è in discussione, ma per valutarne il senso e soprattutto le cause occorrerebbe disaggregarli, vedere in quali carceri, in quali reparti, da parte di quali detenuti ecc. Nello stesso periodo un’altra importante variazione della realtà carceraria si è verificata, con l’enorme aumento dei detenuti stranieri. Con essi l’interlocuzione è difficile per mille ragioni, se non altro a causa della lingua e si innescano spesso conflitti tra loro a base etnica. Ma la questione delle celle aperte durante il giorno, con facoltà dei detenuti di muoversi negli spazi interni al carcere o al reparto, è comunque da valutare e, se necessario, ricalibrare. Su questo, anche su questo, sembra che il Ministero, con il Dipartimento della amministrazione penitenziaria stia per intervenire con una revisione di politica penitenziaria, il cui orientamento riprenderà certo le tante prese di posizione di principio della ministra Cartabia. Quando, negli anni 2012-13, venne deciso di adottare la via delle celle aperte, il governo si trovava di fronte ad un problema non minore, derivante dalla necessità di rassicurare il Consiglio d’Europa; la sua Corte europea dei diritti umani aveva condannato, come difetto strutturale, il sovraffollamento delle carceri italiane e il troppo limitato spazio fisico di cui i detenuti usufruivano. Si trattava di violazione sia di principi di umanità, sia delle Regole penitenziarie europee. L’apertura delle celle durante il giorno servì ad attenuare il problema in modo significativo, poiché le ristrettezze delle celle finivano col riguardare quasi solo la notte. Ma non si seguì la via della differenziazione, della progressività, della sperimentazione, che all’epoca veniva suggerita dai vertici del Dap. Non solo per prudenza. Vi era, in quella impostazione, una visione del carcere, della popolazione detenuta, dello stesso ruolo del personale penitenziario, con alla base l’obbligo costituzionale di indirizzare la detenzione alla risocializzazione dei condannati. Nella massa dei detenuti vi sono differenze marcate, che non si devono ignorare con provvedimenti generalizzati, in qualche modo ad occhi chiusi. L’assegnazione dei detenuti a un carcere o a un reparto di celle aperte, piuttosto che ad uno di celle chiuse, deve considerare l’idoneità del detenuto a godere di quella libertà e deve responsabilizzarlo. Da un lato alla maggior libertà devono corrispondere regole da osservare e dall’altro la responsabilizzazione di ciascun detenuto nella esecuzione della pena è elemento necessario della sua risocializzazione. Essa passa attraverso i momenti dell’ammissione al regime delle celle aperte, ma anche a quello del ritorno a quello della cella chiusa quando il detenuto abbia mostrato di non accettare le essenziali regole di convivenza, scritte nell’individuale “patto di responsabilità” che si ipotizzava di introdurre. Evidentemente ciò implica una presenza del personale penitenziario nei reparti a celle aperte, per il controllo e la raccolta di informazioni sull’andamento di quella speciale comunità. Non invece il ritiro del personale alla guardia dei cancelli. E le celle aperte di giorno pongono il problema di cosa fanno i detenuti fuori delle celle: l’organizzazione di tempi di lavoro per tutti è essenziale. Si tratta cioè di un tipo di gestione complessa, che richiede la convinta collaborazione del personale (e quindi anche dei sindacati che li rappresentano). Il sistema premiale (che implica anche la negazione del premio), alla base della riforma penitenziaria del 1975, ha avuto anche un effetto importante nell’assicurare l’ordine interno alle carceri e nel far rientrare le frequenti, gravi rivolte degli anni ‘70. È ora di riprenderne lo spirito. In vista delle elezioni politiche del 2018, le proposte di riforma che aveva elaborato la Commissione ministeriale presieduta dal professor Giostra vennero amputate, prima da un governo (Gentiloni) timoroso di ricadute elettorali negative e poi dal successivo (Conte), portatore di logiche puramente punitive. Anche quelle proposte meritano nuova attenzione, insieme alle idee di fondo che le motivano. Mauro Palma: “Riformare il sistema carcerario puntando sulla cultura e l’educazione” di Anna Lisa Antonucci L’Osservatore Romano, 15 luglio 2021 Il carcere ripropone, in peggio, quello che accade nella realtà esterna e la pandemia, come ogni crisi, ha acuito i problemi, ha fatto emergere i nostri lati negativi, dunque l’aggressività e la violenza. A spiegare così a “L’Osservatore Romano” i fatti emersi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ma che “purtroppo non sono un fatto isolato” è il Garante nazionale delle persone private delle libertà, Mauro Palma. “Violenze punitive per le manifestazioni inscenate dai detenuti nei primissimi momenti di chiusura del carcere per il Covid sono avvenute anche in altri istituti di pena - dice Palma - ma spesso non sono state documentate per la mancanza di sistemi di video sorveglianza”. “Delle percosse a S. Maria Capua Vetere, invece, le immagini ci sono - continua Palma - e ciò che offende di più di questa vicenda sono i detenuti fatti inginocchiare in segno di sottomissione. La dimostrazione che chi deve tutelare la popolazione ristretta invece la ritiene indegna e la vuole sottomettere”. “È bene ricordare - prosegue il Garante - che i diritti della persona in quanto tale sono incomprimibili in qualsiasi situazione di liberi o ristretti. Sono diritti che innanzitutto ruotano attorno a due assi: la dignità e l’integrità fisica e psichica”. In carcere, invece, da sempre, spiega Palma “esistono tre tipi di violenza: quella reattiva che scaturisce da una reazione degli operatori penitenziari agli atti di violenza dei detenuti. Una violenza sempre sbagliata perché l’operatore penitenziario si mette in simmetria con il detenuto”. “Poi c’è la violenza punitiva, di chi pensa sia giusto dare una lezione al detenuto - dice ancora Palma - e in genere viene usata contro chi sta in cella per reati infamanti, è la cosiddetta “meritevolezza del castigo”. È bene ricordare, invece, che si va in carcere perché si è puniti, non si va in carcere per essere puniti”. “Infine c’è la violenza del branco - prosegue - quella appunto di Santa Maria Capua Vetere. Una violenza esercitata da chi è cosciente di avere un’identità debole e con la violenza del branco pensa di crearsi una falsa identità”. Secondo il Garante “è dunque indispensabile dare identità e dignità alla polizia penitenziaria e allo stesso tempo lanciare messaggi forti perché ci sia un’inversione di tendenza”. Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria va poi profondamente riformato - dice - “a partire dal settore dedicato alla formazione del personale che non può essere solo una formazione iniziale ma deve proseguire per tutto il percorso lavorativo. Basarsi sulla risoluzione delle crisi a partire dagli errori commessi”. Analizzando poi la condizione dei detenuti, Palma evidenzia: “È necessario rimettere l’individuo al centro delle nostre priorità, a partire dalla consapevolezza dell’inutilità del tempo trascorso in carcere, così com’è ora, aspetto che mi preoccupa quasi di più del sovraffollamento”. Oggi “sono 1.232 le persone che stanno scontando in cella non un residuo di pena ma una pena inferiore ad un anno. Altre 7.123 persone sono rinchiuse per aver avuto una pena inflitta inferiore ai tre anni”. Secondo il Garante “ciò è l’immagine plastica della fragilità sociale che connota gran parte della popolazione detenuta, un mondo di persone che non accede alle misure alternative anche perché non informato o perché privo di fissa dimora”. Manca, inoltre una rete sociale di supporto che permetta di usufruire delle pene alternative. E se in tal senso è necessario un maggiore impegno del Dap, dice Palma, serve che gli enti locali si assumano delle responsabilità. “Se fuori dal carcere non c’è una rete sul territorio di soggetti sia pubblici che privati che prende in carico il detenuto non andiamo da nessuna parte” sottolinea Palma. È dimostrato, infatti, aggiunge, “che pene di tipo diverso, di carattere reintegrativo, interdittivo o propositivo, di utilità sociale, possono avere maggiore incisività rispetto al rischio di reiterazione del reato”. A chi, invece, è destinato a rimanere a lungo in carcere è indispensabile garantire un percorso educativo. “Se, al momento, sono 126 i detenuti che frequentano l’università - ricorda il Garante - ce ne sono 6 mila che non hanno neppure la licenza media e oltre mille analfabeti”. Dunque il carcere deve diventare un’opportunità per migliorare, “bisogna puntare sulla cultura e l’educazione - dice - fare in modo che dal carcere il detenuto esca con un piccolo bagaglio di istruzione in più di quando è entrato. Ricostruire il proprio sé culturale significa recuperare responsabilità e rivedere il proprio percorso di vita oltre ad avere una possibilità in più una volta fuori di lavorare”. Infine, ma non ultimo, c’è l’aspetto della salute in cella. “È sbagliato - spiega Palma - che la medicina in carcere sia a richiesta, così come l’aiuto psichiatrico. È vero che in carcere i disturbi psichiatrici si acuiscono, ma stiamo attenti a non creare una visione manicomiale del carcere. La presa in carico del disagio psicologico è un dovere - conclude - a fronte anche dell’alto tasso di suicidi che continua ad aumentare, in termini percentuali, in media uno a settimana”. Carcere: il volontariato è prezioso, ma va “usato” meglio di Lorenzo Maria Alvaro Vita, 15 luglio 2021 “Oggi la rieducazione dei detenuti è totalmente appaltata ai volontari, vissuti però con fastidio dal sistema penitenziario. Serve un atteggiamento proattivo e quindi di governo che renda davvero efficaci e sistemiche queste attività”. L’intervista con Filippo Giordano, professore Associato di Economia Aziendale all’Università Lumsa di Roma. Il carcere rimane da anni un problema su cui non si trovano soluzioni. Santa Maria Capua Vetere è stata, complice le immagini, solo il motivo per cui un problema annoso è tornato di attualità. Tutti i dati ci dicono che è un sistema in difficoltà... È così. Ed è in difficoltà soprattutto rispetto ad una parte della propria vocazione. In che senso? Il carcere è una modalità di esecuzione della pena ed è definita dall’ordinamento come estrema ratio. L’obiettivo del carcere è privare della libertà e isolare il detenuto. All’interno di un contesto di privazione della libertà e ad un isolamento che serve a recidere i legami con il mondo criminale e a limitare che la pericolosità del soggetto continui ad essere nociva per la comunità l’esecuzione della pena carceraria deve tendere alla rieducazione. Lo dice la Costituzione ma anche gli organismi internazionali. Perché anche le Nazioni Uniti nel 2006 si sono espresse in questo senso. L’obiettivo riabilitativo è sostanziale perché in caso contrario il costo sociale sarebbe altissimo, basti pensare alla recidiva e alla radicalizzazione criminale. Tutti gli studi ci dicono che purtroppo il carcere oggi è criminogeno e peggiorativo di tutte le condizioni di disagio sociale degli individui. Per capirci non è una situazione in cui è oggi possibile trovare una risposta alla tossicodipendenza, anzi l’aggrava. Non è un fattore in cui trovare una risposta all’integrazione sociale che spesso è una causa della delinquenza. Qual è la situazione della rieducazione del carcere italiano oggi? Basta pensare che l’Italia secondo i dati 2020 del Consiglio d’Europa è il secondo Paese in Europa, dopo Malta, per percentuale di numero di operatori di Polizia penitenziaria presenti negli istituti di pena, l’84,3% sul totale degli operatori, con una media Ue del 61%. Dopo di noi la Turchia con l’82,1%. In Francia, per esempio, la percentuale è del 70,1, in Spagna del 63,8 per citare alcuni Stati simili a noi per caratteristiche di sistema. Questo si traduce in rapporto tra detenuti e polizia penitenziaria di 1,8 mentre tra detenuti e personale addetto alla rieducazione c’è un rapporto di 76 a 1. E in termini di risorse? I dati, fonte Antigone, ci dicono che nel 2020 il budget è stato di 6,8 milioni di euro a fronte di una spesa complessiva del Dap di circa 3 miliardi, in pratica 0,35 centesimi in media al giorno per detenuto. Questo volume di importi è stato confermato anche per il 2021. L’attività di rieducazione negli istituti dipende in prevalenza da iniziative volontarie... Assolutamente. L’ordinamento penitenziario all’art.17 definisce un aspetto di valore: la necessità di una collaborazione attiva con il mondo esterno per la rieducazione. Quindi l’ordinamento penitenziario chiama la società ad un ruolo attivo. Naturalmente c’è, in questo, la ricerca di un alibi, nel delegare totalmente il tema. Nel senso che in qualche modo è quello che succede? I volontari apportano risorse, impegno e competenze al servizio della causa. Un attivismo lodevole e importante senza il quale le carceri sarebbero luoghi di mera detenzione, ma insufficiente e spesso non adeguato rispetto ai fabbisogni reali dei detenuti. Le criticità sono molteplici. I progetti coinvolgono pochi detenuti e non sono continui nel tempo poiché dipendenti da piccoli finanziamenti annuali da parte di enti locali e fondazioni. I volontari non ricevono alcun tipo di formazione e pochi sono gli attori che professionalmente si dedicano alla rieducazione dei detenuti. Inoltre, l’amministrazione penitenziaria abdica a un ruolo di governo di questi interventi, i cui esiti in termini di impatto non sono monitorati e quindi non conosciuti. Come riformare il sistema? I Paesi che hanno intrapreso percorsi di cambiamento hanno contrastato l’affollamento con misure alternative e combattuto la recidiva attraverso una maggiore apertura ai programmi riabilitativi, la socialità, il lavoro, l’istruzione e la responsabilità registrando miglioramenti nelle condizioni carcerarie e, conseguentemente, nel recupero dei detenuti. Gli esempi di Norvegia e Germania lo dimostrano. È importante sottolineare come questi Paesi siano passati attraverso importanti riforme giuridiche che hanno reso possibile un’organizzazione e un’allocazione delle risorse più funzionale alla missione riabilitativa del sistema. Nel concreto che cosa si può fare? Bisogna affrontare le criticità del sistema che nascono dall’affidarsi totalmente al volontariato Quali sono? C’è in primo luogo un problema di tipo quantitativo. A livello nazionale c’è una forte sperequazione rispetto all’offerta trattamentale rispetto ai vari istituti. I carceri milanesi godono del dinamismo cittadino che è molto maggiore rispetto ad altri contesti. Poi c’è un problema qualitativo: gli istituti hanno fame di progetti e tendono ad accettare tutte le proposte che gli vengono presentate. Questo però genera uno squilibrio rispetto alle attività a seconda del territorio. Il carcere farà sport e non formazione professionale se il territorio offre quel tipo di attività piuttosto che percorsi culturali invece che sport. Non c’è match tra fabbisogno dei detenuti e offerta. Ma per esserci serve un atteggiamento proattivo e quindi di governo. Le attività trattamentali previste sono di varia natura, lo prevede l’ordinamento. Dalla formazione professionale all’istruzione passando per esperienze culturali e artistiche espressive, fino alla genitorialità e alla pet terapy. Sono tutte importanti perché ciascuna attività produce un impatto diverso. La rieducazione è un lavoro, una professione. Significa che non può essere gestita come oggi? Certo. Anche io ho fatto il volontario in carcere. L’ho fatto senza che nessuno mi abbia spiegato come e cosa dovevo fare. Non si può approcciare questo tema come se fosse un’attività qualunque. Bisogna governarla, potenziare corsi di formazione e professionalizzazione dei volontari. Se l’obiettivo di un’organizzazione è educare le persone detenute serve allineare la governance e le professioni interne all’obiettivo. Anche il carcere però spesso e volentieri è escludente e vive con fatica l’ingresso dei volontari e delle associazioni... Non c’è dubbio. Oggi l’attività rieducativa dipende dalla tenacia e perseveranza con cui l’associazionismo bussa alle porte del carcere e lavora in un contesto spesso respingente. Quando parlo di governance mi riferisco anche al fatto che vengano create le condizioni che sostengano questo intervento esterno. Per avere un carcere che rieduca oggi avremmo bisogno di risorse maggiori, magari chiedendo finanziamenti anche da parte dell’amministrazione penitenziaria, e un’organizzazione affinché l’intervento riabilitativo sia efficace, quindi un approccio più collaborativo con il mondo del volontariato. “Il governo non dimentica quei pestaggi in carcere. Non c’è giustizia dove c’è abuso” di Simona Musco Il Dubbio, 15 luglio 2021 Draghi e Cartabia in visita a Santa Maria Capua Vetere: i detenuti invocano indulto e amnistia, ma hanno saputo della visita soltanto dalla televisione. “Non può esserci giustizia dove c’è abuso e non può esserci rieducazione dove c’è sopruso”. Sono parole del premier Mario Draghi, che ieri, visitando il carcere di Santa Maria Capua Vetere, ha ricordato l’articolo 27 della Costituzione, in un discorso storico che ha rappresentato una presa di posizione chiara e decisa: il carcere non può essere quello visto nei video dei pestaggi del 6 aprile 2020, quando centinaia di agenti massacrarono i detenuti dell’istituto casertano. Il governo ha così preso le distanze da quelle violenze, presentandosi ieri con Draghi e la ministra della Giustizia Marta Cartabia proprio lì, dove quei fatti che “tradiscono la Costituzione” sono avvenuti. Ma proprio le vittime di quei pestaggi, i detenuti, che dalle loro stanze hanno invocato “amnistia e indulto”, di quella visita tanto attesa non sapevano nulla. Della presenza di due pezzi grossi del governo, infatti, hanno appreso soltanto dalla televisione, vedendosi negare la possibilità di interloquire direttamente con Draghi e Cartabia e raccontare quanto vissuto in quei giorni. “Avrei preferito che una delegazione di detenuti e familiari potesse confrontarsi con le istituzioni - ha spiegato al Dubbio la garante dei detenuti della provincia di Caserta, Emanuela Belcuore - ma ovviamente non è stato possibile”. “Mai più violenza”, ha scandito Cartabia, pronunciando un lungo e accorato discorso col quale ha preso le distanze dai responsabili delle violenze, difendendo però i tanti uomini in divisa che fanno onestamente il proprio lavoro. Si tratta di atti che “sfregiano la dignità della persona umana che la Costituzione pone come vera pietra angolare della nostra convivenza civile”, ha affermato, ricordando che il carcere “è un luogo di dolore di sofferenza”, ma non di violenza e di umiliazione. Ciò che accade nelle carceri, ha ricordato la Guardasigilli, riguarda tutti e i problemi delle carceri “sono problemi di tutto il governo, di tutto il Paese”. Quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere necessita, perciò, di “una presa in carico collettiva dei problemi di tutti i nostri istituti penitenziari, affinché non si ripetano atti di violenza”. Condannare non basta: ciò che è necessario è creare le condizioni ambientali affinché “la pena si sa sempre più in linea con la finalità che la Costituzione le assegna”. La pandemia, ha evidenziato Cartabia, ha fatto da detonatore a questioni irrisolte “da lungo tempo”. Primo fra tutti, come evidenziato da Draghi nel suo discorso, il sovraffollamento, che significa difficoltà di vita, difficoltà di rendere la pena quello che dovrebbe essere: un percorso di reinserimento sociale. Nemmeno Santa Maria Capua Vetere è esente da tale problema: le presenze superano di un centinaio il numero massimo previsto per quell’istituto. E per far fronte a problemi del genere, ha evidenziato la ministra, occorrono interventi strutturali, normativi e finalizzati alla formazione del personale. Con i fondi del Pnrr verranno realizzati otto nuovi padiglioni, uno dei quali proprio a Santa Maria, ma nuovi spazi “non può significare solo posti letto: la costruzione del nuovo padiglione va di pari passo con gli urgenti interventi di manutenzione di questa struttura”, ha aggiunto. Le criticità riguardano l’impianto idrico e quello termico, problemi che rendono quel carcere “un ambiente degradato” che “non aiuta l’impegnativo percorso di risocializzazione e rende ancor più gravoso il lavoro di chi ogni mattina supera i cancelli per svolgere il suo servizio”. Ma è necessario intervenire anche sul piano normativo ed è per questo che la ministra ha ricordato il pacchetto di emendamenti in materia penale approvato la scorsa settimana, che prevede “un uso più razionale delle sanzioni alternative alle pene detentive brevi”, rimarcando la necessità di “correggere una visione del diritto penale incentrata solo sul carcere, per riservare la detenzione, pur necessaria, ai fatti più gravi”. E ciò richiamandosi sempre alla Costituzione, che “parla di pene al plurale: la pena non è solo carcere, senza rinunciare alla giusta punizione degli illeciti occorre procedere sulla linea che già sta generando molte positive esperienze anche in termini di prevenzione della recidiva e di risocializzazione, attraverso forme di punizione diverse dal carcere”. Ma è necessario anche intervenire sull’ordinamento penitenziario e sulla organizzazione del carcere, con l’assunzione di poliziotti, educatori, dirigenti e personale dell’esecuzione penale esterna. “Servono finanziamenti anche per la videosorveglianza capillare per le attrezzature specifiche degli agenti”, ma, soprattutto, “per la formazione permanente”, perché “un compito tanto affascinante quanto difficile non può essere lasciato all’improvvisazione o alle doti personali - ha concluso -. Ora spetta noi trasformare la reazione ai gravissimi fatti qui accaduti in un’autentica occasione per far voltare pagina al mondo del carcere”. Per Antonella Palmieri, direttrice del carcere sammaritano, la presenza di Draghi e Cartabia “ha il senso di una forte speranza per il nostro futuro”. Speranza, ha dichiarato in una in una nota il Segretario Generale della Fns Cisl, Massimo Vespia, “che questa visita sia occasione per richiamare tutti alla giusta valutazione della gravissima situazione che vive il sistema penitenziario e delle difficoltà che una condizione così disastrata - regalata da politiche decennali sbagliate - cambi direzione e prospettive generali”. Carceri, il piano della ministra Cartabia: assunzioni e videocamere ovunque di Cristiana Mangani Il Messaggero, 15 luglio 2021 Il primo problema è il sovraffollamento: “Si fa fatica persino a respirare”, ha ammesso la ministra Marta Cartabia. E poi il rinnovo delle strutture materiali, gli interventi normativi, le assunzioni e la formazione del personale. Passa da questi punti la Riforma penitenziaria del governo Draghi. Anni e anni di ritardi, di intoppi, di tentativi caduti nel vuoto dai precedenti governi, ma ieri la presenza del premier e del guardasigilli nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sembra aver segnato un’accelerazione forte, la volontà concreta di intervenire sul complesso dossier. Il Pnrr prevede la costruzione di otto nuovi padiglioni, uno proprio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. “L’ampliamento avverrà in un’area verde inutilizzata - specifica Cartabia - Ma gli interventi riguarderanno anche altre criticità all’impianto idrico e a quello termico”. Gli altri padiglioni verranno costruiti a Rovigo, Vigevano, Viterbo, Civitavecchia, Perugia, Ferrara e Reggio Calabria. Un finanziamento è già stato fatto per nuovi impianti di video sorveglianza “capillare”. “Mai più abusi in carcere”: così Draghi lancia la riforma - Inoltre, per contrastare il sovraffollamento la ministra ribadisce la necessità di un intervento normativo. “Occorre correggere una visione del diritto penale - ha dichiarato Cartabia - incentrato solo sul carcere, per riservare la detenzione ai fatti più gravi. La Costituzione parla di pene al plurale. La pena non è solo carcere. Senza rinunciare alla giusta punizione degli illeciti, occorre procedere sulla linea, che già sta generando molte positive esperienze, anche in termini di prevenzione della recidiva e di risocializzazione, attraverso forme di punizione diverse dal carcere, come, ad esempio, i lavori di pubblica utilità. In questo, un ruolo fondamentale è svolto dai giudici di sorveglianza”. Il pacchetto di emendamenti in materia penale, approvato dal Consiglio dei ministri la settimana scorsa, prevede, infatti, anche un uso più razionale delle sanzioni alternative alle pene detentive brevi. E ancora, più assunzioni. Nel giro di due anni potrebbero mancare 7.000 poliziotti penitenziari maggiore. E ci saranno problemi di turn over, così come hanno più volte segnalato i sindacati di categoria. Altro tema è la formazione del personale, per accompagnare adeguatamente i detenuti nel percorso di rieducazione cui tende la pena. E in questo caso “servono più fondi”, dice la ministra. I nuovi 8 padiglioni che il Dap si prepara a costruire, in carceri già esistenti, avranno celle per 80 detenuti al massimo, ma con adeguati spazi per il lavoro e il tempo libero. La struttura del padiglione sarà simile a una casa, perché l’obiettivo è rieducare il detenuto alla vita normale, non “infantilizzarlo”, come ha detto il Garante per i diritti dei detenuti, Mauro Palma. Oltre che in tanti Paesi europei, un modello di questo carcere nuovo in Italia esiste già. Si trova a Bollate, fuori Milano, dove i detenuti lavorano e studiano tutto il giorno e poi rientrano in cella per le 8 ore della notte. I nuovi padiglioni saranno sostenibili ecologicamente, cablati e digitalizzati. La cablatura servirà per tenere corsi a distanza, ma anche per la telemedicina, e per la videosorveglianza. La scommessa è questa, ovviamente per detenuti a basso rischio. Del resto gli interventi strutturali non sembrano più procrastinabili. In alcune carceri ci sono ancora i bagni alla turca, gli impianti di riscaldamento spesso non sono adeguati e mancano sistemi di raffreddamento degli ambienti nei mesi estivi, le salette per i colloqui con i familiari e gli avvocati lasciate in stato di degrado. La Commissione Zevi, istituita per proporre soluzioni in materia di edilizia penitenziaria, sta concludendo il proprio lavoro e a breve presenterà una relazione. La strada del governo, però, non è in discesa. Sull’onda delle notizie dei pestaggi di Santa Maria Capua Vetere la maggioranza è tornata a mostrare le sue divisioni sull’argomento. Pd e Lega partono da posizioni molto distanti. Toccherà al premier e a Cartabia trovare la, non facile, mediazione. Draghi e Cartabia: come non essere d’accordo con le loro parole! di Emilio di Somma* Ristretti Orizzonti, 15 luglio 2021 Sbaglia chi parla della visita al carcere di Santa Maria Capua Vetere del Presidente del Consiglio Mario Draghi e del Ministro della Giustizia Marta Cartabia come di una “passerella”. Hanno fatto ciò che andava fatto. Hanno fatto ciò che avrebbero dovuto fare, a mio avviso, il Presidente del Consiglio e il Ministro della Giustizia del tempo in cui i fatti accaddero e che è anche ciò che i vertici del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del tempo in cui quei fatti accaddero avrebbero dovuto fare e non mi risulta che abbiano fatto. Ma questa premessa non può non essere accompagnata da alcune amare riflessioni. La prima. Del carcere, di questo strano mondo, si parla sempre e soltanto quando accadono fatti dolorosamente eclatanti. Proteste, rivolte, evasioni, pestaggi. E perché stupirsi di ciò? Diceva Lao Tsu, filosofo cinese vissuto nel VI secolo avanti Cristo: “Fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce.” E poi molto spesso parlano del carcere persone che non hanno mai sentito parlare di Pietro Calamandrei e della sua bella quanto terribile frase: “Bisogna aver visto!” pronunciata in un suo discorso alla Camera dei Deputati nell’ottobre del 1948 con il quale, tra le altre cose, chiedeva, già a quell’epoca, che venisse nominata una commissione d’inchiesta parlamentare sulla condizione di vita dei detenuti. E forse queste stesse persone non hanno avuto modo di leggere le parole pronunciate da Filippo Turati, ancor prima di Calamandrei, nel 1904 alla Camera dei Deputati: “Le carceri italiane…..rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolito la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata;…….noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti o scuole di perfezionamento dei malfattori….”. La seconda. Parlare di carcere non porta voti alla politica. Porta, per converso voti, usare espressioni come: “buttiamo la chiave, lasciamoli marcire nelle galere” e simili. Forse non le si dice in Parlamento o forse sì, ma di sicuro nei comizi di piazza o nei “social” vengono dette e riscuotono ampi consensi. La terza. Non sono passati più di settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione e quarantasei anni dalla nascita dell’Ordinamento penitenziario, una legge dello Stato che finalmente ha posto al centro dell’attenzione la persona privata della libertà personale e certamente non per esercitare la vendetta. Una riforma epocale. Chi lo voglia può leggerla, è una lettura semplice, agevole che esprime principi fondamentali e concetti sensati, e per questo la ritengo una delle ultime leggi scritte bene, in modo chiaro e comprensibile in un Paese in cui siamo ormai abituati a scrivere leggi composte di un solo articolo ma di centinaia di commi. Ma il nostro è anche un Paese più volte condannato dalla Corte Europea di Strasburgo per avere inflitto ai detenuti nelle sue carceri trattamenti inumani e degradanti in violazione dell’art.3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo mentre la Commissione Europea sui problemi della criminalità ha messo l’Italia sotto accusa con più di un formale richiamo sul funzionamento delle nostre carceri e più in generale su quello della giustizia. Viene spontaneo pensare che Cesare Beccaria e Piero Calamandrei si stiano, da anni, rivoltando nella tomba! La quarta. E dunque la riforma del 1975 è fallita? Troppo facile e troppo comodo da dirsi. Cosa ci viene rimproverato? Di avere un surplus di detenuti pari o addirittura superiore in alcuni casi al 115% della capienza, di fare un uso troppo limitato delle misure alternative al carcere, di non aver abbandonato vecchi e fatiscenti istituti penitenziari e di non aver provveduto in tanti anni alla costruzione di nuove prigioni moderne e funzionali in grado di assicurare condizioni di vita umane - non certo dunque alberghi a cinque stelle come, con arrogante superficialità, si sostiene da più parti - ma semplicemente rispettose della dignità della persona detenuta e di chi in esse lavora e dunque adeguate al raggiungimento dell’obbiettivo primario di un possibile reinserimento nella società, come invece impone l’art. 27 della Costituzione. E però ciò che ci viene giustamente rimproverato è già previsto, assieme a tante altre importanti iniziative, nella legge di riforma del 1975, arrivata ben ultima nel panorama europeo delle riforme dei sistemi penitenziari e che di queste ha preso il meglio. E allora più correttamente bisogna dire che la riforma non è fallita ma che semplicemente, con dolo o colpa grave, è stata tradita perché non attuta in gran parte. Fermo restando che se è, come è, modificabile la Costituzione, sia pure con una più complessa procedura, è sicuramente modificabile una normale legge come è già accaduto in alcune sue parti e come è sicuramente giusto fare ancora in presenza di nuove esigenze e della conseguente necessità di introdurre nuovi istituti giuridici. Scriveva Dante Alighieri nel canto XVI, Purgatorio, della Divina Commedia: “Le leggi son ma chi pon mano ad esse?” E aveva ragione e ne ha ancora oggi, forse anche di più. La riforma del 1975, infatti, fu consegnata nelle mani di una struttura burocratica ministeriale nel suo complesso - fatta qualche brillante eccezione per magistrati come Altavista, Tartaglione, Di Gennaro, Margariti e alcuni altri penitenziaristi che l’avevano materialmente scritta - non adeguata per cultura e tradizione ad affrontare lo scatto di civiltà e di progresso che quella legge era chiamata a produrre. Si sarebbe anche dovuto capire che una riforma così radicale, importante e attesa da decenni, non preceduta né accompagnata da una formazione di tutto il personale che nelle carceri operava, avrebbe incontrato forti resistenze in un ambiente caratterizzato da una gestione sino ad allora incentrata sulla mera custodia. Di certo non è stato di aiuto il continuo susseguirsi di governi e di ministri della giustizia: in 73 anni dal 1948 più di quaranta ministri spalmati in poco meno di 70 governi, con una durata media di poco più di un anno e mezzo ciascuno. Altri due mali. Il primo, un succedersi di classi politiche che non sono state capaci di maturare una chiara visione di quale politica penale si dovesse perseguire e cioè un diritto penale sereno e sicuro nelle sue scelte o un diritto penale aggressivo e caratterizzato da interventi settoriali e parcellizzati dettati dalle emergenze e dalla volontà di corrispondere ad esigenze puramente elettoralistiche. Prova ne è che ancora oggi abbiamo un codice penale nato nel 1930, il Codice Rocco, in pieno regime fascista che ha, però, il pregio di essere scritto bene, e di sopportare le numerose modifiche cui è stato sottoposto nella necessità di evitare le evidenti contraddizioni con la costituzione repubblicana. Il secondo, un contrasto sempre più grave tra politica e magistratura, aggravato negli ultimi venti anni e poco più per un verso dall’avanzare di una classe politica incerta e confusa, incapace di governare gravi fenomeni sociali e spinta a delegarne la soluzione alla magistratura e per altro verso dalla trasformazione di una certa magistratura sempre più ansiosa, specie nelle procure, di espandere il proprio potere anche con l’intento di presidiare quasi tutti i gangli vitali dello Stato. A tacer poi della deriva correntizia, per la verità sempre esistita ma giunta a livelli vergognosi negli ultimi anni. Sono molte e sempre più frequenti le voci di autorevoli giuristi e sociologi che toccano apertamente il tasto della presenza dei magistrati al ministero della giustizia. Per parte mia mi limito a dire che in quaranta anni di lavoro nel ministero ho visto pochi capi veramente interessati alla questione penitenziaria e, anche comprensibilmente, provenendo quasi tutti da Procure della Repubblica, e portati per questo a lavorare come se ancora fossero a capo appunto di una Procura. Ma il DAP è amministrazione e non ufficio giudiziario. E ancora, essere un magistrato che si è occupato di processi di mafia non vuol dire essere capace di gestire in carcere un detenuto mafioso. È evidente, dunque, che i problemi che affliggono il carcere sono tanti e di vario genere e non riguardano solo la riforma del 1975 che conserva tutta la sua validità e che ha solo bisogno di essere potenziata, aggiornata ed anche arricchita di nuovi strumenti in consonanza con la riforma del processo penale. Bene hanno fatto, dunque, il Presidente Draghi e la Ministra Cartabia a testimoniare con la loro presenza tutta l’attenzione che l’amministrazione penitenziaria merita per la grave condizione in cui è venuta a trovarsi negli ultimi anni e ora anche a causa dei pesanti ed inqualificabili fatti di violenza che si sono verificati a Santa Maria Capua Vetere e non solo. Sono convinto che il programma esposto dalla Ministra Cartabia sulla giustizia in generale e sull’esecuzione penale in particolare si muova nella direzione di un radicale cambiamento che saprà restituire anche all’amministrazione penitenziaria il prestigio ed il rispetto di cui ha goduto in passato e di cui ancora merita di godere. *Già Vice Capo Vicario DAP Violenze nelle carceri: ora il Dap vuole inchieste interne sulle rivolte di Giuliano Foschini La Repubblica, 15 luglio 2021 Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria convoca i responsabili regionali: nel marzo 2020 le proteste legate al Covid, 13 le vittime e 200 i feriti, danni per 12 milioni. Non vogliono girare la testa dall’altra parte. Non vogliono dimenticare il passato. La visita del premier Draghi al carcere di Santa Maria Capua Vetere - così come le parole, da subito durissime, del ministro della Giustizia, Marta Cartabia - non sono gli unici movimenti dello spartito che governo e amministrazione penitenziaria hanno deciso di suonare sulla questione carceri. Sta succedendo anche altro: il Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, ha infatti deciso di andare a fondo sulle rivolte che nel marzo del 2020 sconvolsero le prigioni italiane dal Piemonte alla Sicilia: 21 le carceri in rivolta. Tredici le vittime, tutte tra i detenuti. Duecento i feriti. 12milioni e 200mila euro i danni stimati. Il punto più nero della storia delle nostre prigioni archiviato, fin qui, con poche parole striminzite del vecchio Governo. E con indagini sparse in tutta Italia (e spesso già archiviate) che, al momento, non sono state in grado di mettere un solo nome e cognome accanto ai responsabili della fine di tredici persone morte mentre erano nelle mani dello Stato. Nelle prossime ore i vertici del Dap - il capo, Bernardo Petralia, il suo vice, Roberto Tartaglia, magistrati che da un anno si stanno occupando delle nostre carceri - incontreranno i provveditori regionali chiedendo loro di accertare cosa è accaduto. Il limite è che, laddove ci sono inchieste penali, la possibilità di movimento per le inchieste amministrative è molto stretto. Ma il concetto è che l’amministrazione penitenziaria non vuole ripetere un caso Santa Maria. Quando - mentre le telecamere avevano registrato le indagini di un’indegna macelleria nei padiglioni dell’istituto - il ministero rispondeva in Parlamento che a Santa Maria c’era stato “un ripristino della legalità”. Questo è potuto accadere perché il ministero si era basato sulle risposte di dirigenti che, poi, sono stati travolti dall’inchiesta. Ecco: l’intenzione ora è di fare un’indagine più approfondita per accertare, parallelamente alle inchieste della magistratura, cosa è esattamente accaduto. Ed eventualmente per colpa di chi. Qualcosa del genere il nuovo corso del Dap aveva provato a farlo anche su Santa Maria: per tre volte avevano chiesto ufficialmente alla Procura informazione sugli agenti indagati per poter intervenire disciplinarmente, ma i pm avevano risposto sempre negativamente. Il perché è stato ora esplicitato: essendoci tra gli indagati dirigenti dell’amministrazione penitenziaria, temevano un inquinamento probatorio. Sulle rivolte di marzo i dati sul tavolo del Dap sono incredibili. Carcere di Napoli: 900 persone coinvolte, 51 detenuti feriti, 52 poliziotti; Bologna: 463 persone coinvolte, 1 detenuto morto, 2 poliziotti feriti; Modena: 9 detenuti morti, 26 poliziotti feriti; Rieti: 3 detenuti morti; Foggia: 440 rivoltosi, 60 evasi. Accanto ai numeri ci sono le parole. Decine di denunce arrivate in questi mesi da detenuti e dalle associazioni di pestaggi avvenuti in cella immediatamente dopo le rivolte di marzo: il caso più clamoroso sarebbe quello di Melfi (dove il Dap è già intervenuto spostando alcune persone), ma arrivano denunce anche da Foggia, Lombardia, Emilia Romagna. C’è poi, soprattutto, la questione dei 13 detenuti morti. Le autopsie - per quanto non sempre accurate - hanno certificato che tutti sono stati uccisi da overdosi di metadone, procurato nell’assalto alle infermerie. Nessuno ha ancora spiegato, però, come sia stato possibile che tutte le medicherie fossero così facilmente raggiungibili dai detenuti. Perché molti di loro portavano sul corpo segni importanti di colluttazioni. Se i detenuti, prima di morire, sono stati visitati e curati come avrebbero dovuto. Perché alcuni di loro sono stati trasferiti in altri istituti nonostante fossero in condizioni fisiche assolutamente precarie. Il Dipartimento ha promesso che cercherà le risposte a tutte queste domande. Le passerelle non curano la ferita della violenza di Stato di Stefano Feltri Il Domani, 15 luglio 2021 La trasferta a Santa Maria Capua Vetere del presidente del Consiglio Mario Draghi e del ministro della Giustizia Marta Cartabia è il più enigmatico capitolo dell’azione dell’esecutivo dal suo insediamento. Dopo una violenza di stato, ci si aspettava una reazione di stato di segno uguale e contrario. La compassione dei singoli esponenti delle istituzioni non è il punto in questa storia. Tutto il mondo ha visto i video di un pestaggio organizzato ai danni di persone inermi, affidate alla responsabilità delle istituzioni, il 6 aprile 2020. E chi ha letto le inchieste di Domani sa che dopo quelle violenze c’è stato un depistaggio avallato a più livelli. Il premier Draghi ha tenuto un discorso intenso che sembrava la premessa per annunci epocali da parte della ministra della Giustizia Cartabia. E invece niente, solo l’impegno a una riforma dell’ordinamento carcerario. Vedremo. Cartabia appare e parla ovunque tranne che in parlamento, dove non ha mai riferito sui fatti di Santa Maria. Si dimostra empatica ed enfatica, ma finora non ha preso alcun provvedimento: ha sospeso 52 agenti solo dopo le misure cautelari (e ci mancherebbe pure), non ha sostituito il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Bernardo Petralia, non ha neppure preteso le dimissioni della direttrice del carcere di Santa Maria, Elisabetta Palmieri. Il timore del governo sembra soprattutto una reazione di protesta della polizia penitenziaria, che potrebbe far perdere il controllo delle carceri. E dunque la penitenziaria non si tocca. Ma parlare del problema del sovraffollamento carcerario in una prigione dove i detenuti sono stati massacrati dagli agenti, non dagli spazi angusti, è al limite dello sfregio: un po’ come dire che Stefano Cucchi è morto per problemi di droga e non per aver incontrato carabinieri che lo hanno ammazzato di botte. Sia nella vicenda di Santa Maria che in quella di Cucchi la verità è arrivata grazie al lavoro della stampa, prima che degli inquirenti. La scelta di prevedere gli interventi di Draghi e Cartabia senza domande dai giornalisti, pur invitati sul posto, è un altro segnale di istituzioni interessate soprattutto a preservare lo status quo più che a correggere le evidenti storture. Cartabia usa lo scudo Draghi per uscire dal G8 delle carceri di Nicola Imberti Il Domani, 15 luglio 2021 Le istituzioni hanno le loro regole, i loro riti, una complicata grammatica che non sempre è facile decifrare e parlare. Quando il premier Mario Draghi e il ministro della Giustizia Marta Cartabia hanno visitato il carcere di Santa Maria Capua Vetere, quello dove il 6 aprile 2020 300 agenti della polizia penitenziaria hanno messo in atto una spedizione punitiva nei confronti dei detenuti, un piccolo dettaglio è subito risaltato. La diretta streaming dell’incontro, o meglio delle “dichiarazioni alla stampa” rilasciate alla fine della visita, è stata trasmessa dalla presidenza del Consiglio. Sul sito del ministero della Giustizia, almeno fino alle 19 quando il video è stato postato anche sul canale YouTube del dicastero, nemmeno una nota, un comunicato che ne desse notizia. Ampio spazio, piuttosto, per l’approvazione, lo scorso 8 luglio, della riforma del processo penale da parte del consiglio dei ministri. Era inevitabile che finisse così. Che un presidente del Consiglio visiti un carcere non è cosa di tutti i giorni. Che lo faccia fuori da una logica strettamente istituzionale (una celebrazione, una ricorrenza, un pranzo di Natale con i detenuti) è elemento che attribuisce all’occasione il carattere dell’unicità. Quella di oggi, quindi, era anzitutto un’iniziativa del premier. Che l’avrebbe meditata fin da quando, lo scorso 29 giugno, sono stati diffusi i video della “mattanza”. Immagini che, ha ricordato, hanno “scosso nel profondo le coscienze degli italiani”. Scosso nella coscienza, il 1° luglio, Draghi ha ricevuto a palazzo Chigi il Garante dei detenuti Mauro Palma. Nelle stesse ore, a Santa Maria Capua Vetere, Matteo Salvini metteva in scena dei complicati equilibrismi per condannare le violenze senza far mancare la sua inevitabile solidarietà agli agenti della penitenziaria. Draghi ha quindi lasciato passare lo show salviniano, ha atteso nel silenzio (che è e resta la sua principale caratteristica) e poi ha organizzato la trasferta campana. Non a caso, nel suo discorso, Cartabia ha più volte sottolineato l’importanza della presenza del premier “che di fronte all’accaduto ha mostrato subito non solo sdegno e sensibilità, ma, secondo un tratto che la contraddistingue, determinata volontà di fare, di affrontare i problemi nella loro concretezza”. Senza nulla togliere al valore di un gesto pieno di compassione restano però alcune domande che, ancora una volta, richiamano le regole della grammatica istituzionale. Lo scorso 8 luglio, intervenendo nell’Aula del Senato, il senatore Luigi Zanda (Pd), che di sicuro può vantare una certa familiarità di rapporti con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha chiesto alla presidenza di palazzo Madama “di sollecitare la ministra della giustizia Cartabia a venire con urgenza in quest’Aula per una comunicazione del governo sulle torture inflitte ai detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere da personale della polizia penitenziaria”. Perché Cartabia, che nel frattempo ha commentato quanto accaduto attraverso comunicati ufficiali e interviste a Repubblica, non ha riferito? E perché non si è recata immediatamente nel carcere ma ha atteso che fosse il premier ad accompagnarla? “Questo - dice un deputato della maggioranza con una lunga esperienza parlamentare - è stato il G8 delle carceri. Ma il ministro è apparsa fin da subito titubante, quasi avesse paura di prendere posizione. Alla fine Draghi le ha fatto da scudo, ma lei non ha mostrato prontezza di azione nel momento più drammatico per il ministero che rappresenta”. Certo, sono stati inviati gli ispettori. Parte degli agenti coinvolti sono stati sospesi, ma solo perché formalmente indagati. La giustizia, come si dice in questi casi farà il proprio corso. Ma resta il fatto che al momento poco o nulla è accaduto di concreto e persino le organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria, che lo scorso 7 luglio hanno incontrato la ministra, hanno parlato di “parziali e limitate risposte”. La titubanza del ministro in questa occasione si nota ancora di più se paragonata con il decisionismo con cui Cartabia ha affrontato la riforma del processo penale. Ma qui evidentemente, forte della necessità di dover trovare un accordo per rispondere alle richieste dell’Unione europeo e non perdere i fondi del Pnrr, è stato più semplice far valere la propria competenza di costituzionalista. “Diciamo - riprende il deputato - che finora si è mostrata molto preparata e decisa sulle policies, molto meno sulle politics”. Non proprio un ottimo biglietto da visita per chi viene indicato tra i possibili successori del presidente Mattarella. Che sulla vicenda di Santa Maria Capua Vetere ha mantenuto un composto silenzio quasi volesse mettere alla prova Cartabia facendone emergere la capacità di comando in un momento di grande difficoltà. Chi invece, ancora una volta, ha mostrato di avere queste capacità è Draghi. Che nelle ultime settimane, mentre in molti si interrogano sul suo futuro, sembra particolarmente concentrato nel presidiare il “fronte interno”. La visita di ieri ci mostra un presidente del Consiglio impegnato ad allacciare un legame, anche sentimentale, con il paese. Un’altra faccia rispetto al leader rispettato e incensato a livello internazionale che abbiamo conosciuto negli ultimi mesi e che, a detta di molti, aveva come obiettivo principale quello di succedere a Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea nel 2024. Il Draghi di Santa Maria Capua Vetere somiglia molto di più a un papabile presidente della Repubblica (o del Consiglio nel caso in cui anche nel 2023 si riproponesse uno stallo politico-parlamentare). E forse non è un caso che Cartabia sia finita nel suo cono d’ombra. Dopotutto, chi ha un po’ di memoria storica, ricorda altre due occasione in cui il premier, in una situazione di criticità, ha “cancellato” i suoi ministri. La prima quando, nel pieno caos delle vaccinazioni con AstraZeneca, è intervenuto per difendere la somministrazione eterologa. Una presa di posizione che ha oscurato il ministro Roberto Speranza che negli ultimi tempi ha perso molto della sua visibilità e che, secondo alcuni retroscena, sarebbe anche stato bloccato da palazzo Chigi nel suo tentativo di evitare i festeggiamenti dell’Italia campione d’Europa per le vie della Capitale. Il secondo è il ministro del Lavoro Andrea Orlando, smentito quasi in diretta televisiva sul green pass, ma anche costretto ad arrendersi sullo sblocco dei licenziamenti. Almeno per quanto riguarda alcuni dossier Draghi sembra avere un metodo chiaro: mandare allo sbaraglio i ministri per poi decidere al loro posto. A maggior ragione se quei ministri sono potenziali avversari per la corsa al Colle. Capua Vetere, la toppa di Draghi. “Non c’è giustizia se c’è abuso” di Eleonora Martini Il Manifesto, 15 luglio 2021 Il Presidente del Consiglio e la ministra Cartabia in visita nel carcere della “mattanza”. E al Senato, la proposta di una commissione d’inchiesta sulle violenze ai danni di agenti e detenuti. “Non può esserci giustizia dove c’è abuso. E non può esserci rieducazione dove c’è sopruso”. Mario Draghi lo dice chiaramente davanti alla platea che lo ascolta a Santa Maria Capua Vetere, ancora incredula nel vedere, per la prima volta nella storia repubblicana, un Presidente del consiglio e una Guardasigilli che accorrono nel carcere della “ignobile mattanza” di turno. “Se non ci fossero stati quei video probabilmente non sarebbe venuto nessuno qui”, commenta il Garante dei detenuti campano Samuele Ciambriello che pure nutre “profonda fiducia nella riforma” annunciata dalla ministra Marta Cartabia. Quando Draghi scende dell’auto, arrivato davanti all’istituto, “l’applauso dei padiglioni si è sentito ben oltre le mura del carcere”, racconta ancora Ciambriello, “sorpreso” ed “emozionato” nel vedere “due politici non di professione che applicano finalmente la regola del vieni e vedi”. Siamo qui, dice Draghi rivolgendosi al Capo del Dap Petralia, al Provveditore Regionale Cantone, al Garante nazionale dei diritti dei detenuti Palma e alla direttrice del carcere Palmieri (non indagata perché assente nei giorni delle violenze), “ad affrontare le conseguenze delle nostre sconfitte. Venire in questo luogo - aggiunge - significa guardare da vicino per iniziare a capire. Quello che abbiamo visto negli scorsi giorni ha scosso nel profondo le coscienze degli italiani. E, come ho appreso poco fa, ha scosso nel profondo la coscienza dei colleghi della polizia penitenziaria che lavorano con fedeltà in questo carcere”. Usa la parola “comunità”, quella che non piace a certi sindacati di polizia, per definire l’universo carcerario. Afferma che “la detenzione deve essere recupero, riabilitazione”, e poi ricorda il diritto costituzionale all’integrità psicofisica dei reclusi, “all’istruzione, al lavoro e alla salute”. E ricorda anche che “l’Italia è stata condannata due volte dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per il sovraffollamento carcerario”. Eppure non pronuncia mai la tanto attesa (da chi è recluso) parola amnistia (l’ultima nel 1990) o indulto (l’ultimo nel 2006). Atti non a caso contemplati dalla nostra Costituzione ma assimilati nella cultura giustizialista attuale ad ignominie. Il premier durante la lunga visita (tre ore) si accorge dei tanti detenuti con problemi psichici rinchiusi nel padiglione Nilo, quello della “mattanza”. E ne parla. Forse però non si accorge del paradosso di una prigione le cui sezioni portano i nomi di fiumi, come il Senna, l’alta sicurezza femminile che Draghi e Cartabia hanno visitato ieri, ma “non ha condotta idrica - riferisce Ciambriello -, e i reclusi sono costretti ad usare acqua in bottiglia anche per l’igiene personale”. Il presidente del Consiglio, nel suo discorso, ringrazia i “tanti servitori dello Stato” che “in un contesto così difficile, lavorano ogni giorno, con spirito di sacrificio e dedizione assoluta”. Ma avverte: “Il Governo non ha intenzione di dimenticare. Le indagini in corso ovviamente stabiliranno le responsabilità individuali, ma la responsabilità collettiva è di un sistema che va riformato. Le proposte della Ministra Cartabia rappresentano un primo passo che appoggio con convinzione”. La guardasigilli infatti fa notare che “l’Italia è l’unico Paese europeo che ha un’unica pena: il carcere. Gli altri hanno molte pene”. E promette: “Mai più violenza, quegli atti sfregiano la dignità delle persone umane. Il carcere è un luogo di dolore, di pena, di sofferenza, ma non sia mai un luogo di violenza e di umiliazione”. A questo proposito, ieri tre senatori (i capogruppo dem della commissione Giustizia, Mirabelli, e Diritti umani, Fedeli, e Sandro Ruotolo del gruppo Misto) hanno depositato a Palazzo Madama una proposta di commissione monocamerale d’inchiesta sulle violenze nelle carceri (nei confronti dei detenuti e degli agenti). Un provvedimento che potrebbe dare sostanza alle parole, sia pur mai pronunciate prima in un simile contesto, usate dall’ex presidente della Corte costituzionale per sottolineare che “i problemi delle carceri sono problemi di tutto il governo e di tutto il Paese. La sua presenza - afferma Cartabia - dice e le sue parole esplicitano che di quei problemi tutto il governo vuole farsi carico”. Tra le tante questioni emblematiche cui la ministra potrebbe rivolgere subito la sua attenzione, c’è quella della morte di Lamine Hakine, il detenuto algerino schizofrenico deceduto a S. M. Capua Vetere in circostanze ancora da chiarire un mese dopo la “mattanza” di cui, secondo i testimoni, sarebbe stato anch’egli vittima. Particolare vittima. Il suo caso è stato stralciato dal Gip dall’inchiesta sulle violenze, e archiviato. Il cadavere del giovane è stato sottoposto ad autopsia senza la presenza di un medico o di un avvocato di parte, la salma sarebbe stata rimpatriata ma non è dato sapere dove e a chi sarebbe stata affidata. E i suoi dati, come riferisce Ciambriello, “sono scomparsi già dai computer del Dap” (si sa solo che era nato “nel giugno 1992”). Il Garante campano nel maggio 2020 scrisse una lettera ai direttori del carcere chiedendo “informazioni dettagliate” in merito, e “se è vero che il decesso è riconducibile ad asfissia da gas”, come si mormorava nei padiglioni. Ha ricevuto solo una risposta vaga, senza dettagli “in quanto risultano ancora in fase di accertamento”. E ancora ieri Ciambriello, che a Santa Maria è entrato anche prima della visita di Draghi e Cartabia, ha ricevuto le medesime risposte. Dunque ben venga il proposito, espresso dalla Guardasigilli ieri: “Ora - ha affermato Cartabia - spetta a noi trasformare la reazione ai gravissimi fatti qui accaduti in un’autentica occasione per far voltare pagina al mondo del carcere”. Primo obiettivo la formazione del personale di Antonio Mattone Il Mattino, 15 luglio 2021 “Non può esserci giustizia dove c’è abuso. E non può esserci rieducazione dove c’è sopruso”. Le parole pronunciate dal presidente del Consiglio Mario Draghi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere sono una inequivocabile presa di posizione di fronte ai gravi fatti avvenuti il 6 aprile 2020 nell’istituto sammaritano. Lo Stato non si può identificare negli autori dei brutali pestaggi compiuti da uomini in divisa, e si riappropria di uno spazio sottratto alla giustizia. La storica visita di ieri di Draghi e del ministro della Giustizia Marta Cartabia rappresenta molto di più delle ferme dichiarazioni di condanna dei pestaggi. Innanzitutto, l’essere andati insieme manifesta la volontà di un’assunzione di responsabilità del Governo di fronte all’emergenza del sistema penitenziario che - come ha detto la Guardasigilli - con lo scoppio della pandemia ha fatto esplodere tutti i problemi irrisolti da troppo tempo, mai affrontati perché quello del carcere è considerato un mondo marginale e privo di interesse. Ma ciò che accade nelle carceri riguarda invece tutti, come ha ricordato Cartabia, sottolineando che è necessaria una presa in carico collettiva dinanzi alle problematiche vecchie e nuove di un contesto così complesso. Sovraffollamento, strutture fatiscenti e prive dei servizi essenziali - ricordo che a Santa Maria Capua Vetere, un istituto costruito negli anni ‘90 manca la rete idrica -, carenza di personale e assenza di formazione, sono stati i punti critici toccati dalla ministra della Giustizia. Appare evidente che i fatti accaduti a Santa Maria Capua Vetere non sono un evento isolato, opera di mele marce. Non possono essere momenti di follia collettiva, ma fanno parte di un modus operandi che non si improvvisa. È un retroterra culturale che si nutre di frustrazioni, di carenze formative, di banalizzazioni sociali. Una mentalità che si fa forza della certezza dell’impunità. Così come bisogna dire che, al contrario, ci sono tanti poliziotti penitenziari che cercano di fare il loro lavoro con scrupolo e coscienza. Ne conosco diversi nel carcere di Poggioreale intitolato a Giuseppe Salvia, un fedele servitore dello Stato capace di coniugare fermezza e umanità, assassinato nel 1981 dalla Nco di Raffaele Cutolo. Allora la formazione del personale mi sembra uno dei punti decisivi per evitare che si ripetano pestaggi e violenze. La popolazione carceraria oggi è cambiata ed oltre agli esponenti della malavita organizzata e ai personaggi della microcriminalità, ci sono numerosi detenuti espressione del disagio sociale delle nostre città: malati psichici, immigrati, senza dimora, tossicodipendenti, che approdano al carcere dopo essere stati abbandonati dalla scuola e dalla famiglia. In Italia ci sono ben mille detenuti analfabeti. Questo dato rappresenta una domanda e richiede un approccio specifico per affrontare le differenti problematiche di queste persone. Cambia la società ma il carcere resta uguale a se stesso. Dobbiamo anche dire che dopo la condanna della Commissione Europea all’Italia del 2013 furono promossi dall’allora ministro per la Giustizia Andrea Orlando gli Stati generali dell’esecuzione penale esterna, una discussione di oltre 200 esperti che rappresentò una fonte di proposte e di idee per riformare il sistema penitenziario, puntando alle misure alternative e alla responsabilizzazione del detenuto. La stessa Guardasigilli ha ricordato nel suo intervento di ieri che bisogna modificare la misura penale incentrata solo sul carcere, ricordando che la Costituzione parla di pene al plurale, e che la detenzione non è l’unico modo per scontare una sanzione penale. Sappiamo come è andata. Prima delle scorse elezioni la Riforma fu affossata perché il tema non era popolare e si temevano conseguenze negative sull’elettorato. Il carcere non porta voti. E allora meglio rimuovere tutto e non parlarne più. Invece ci sarebbe bisogno di più educatori, assistenti sociali, psicologi, di incrementare il numero di agenti penitenziari, di personale direttivo. Ricordo che alla fine di questo mese comincia il concorso per direttori di carcere, un piccolo numero che non consente neanche di coprire il turn over, visto che l’ultimo concorso era stato espletato nel 1997. Ma anche che nell’istituto di Poggioreale c’è una pianta organica di appena 10 educatori a fronte di oltre 2100 carcerati, tanto che un’educatrice mi dice che “di alcuni detenuti non ne conosce neanche il volto”. Occorre inoltre aprire il carcere alla società esterna, creando una contaminazione culturale positiva. Per fare del carcere l’inizio di un nuovo percorso di vita c’è bisogno di tutte queste cose, ma occorre soprattutto una grande attenzione a questo mondo. Ci auguriamo che dopo la visita di Draghi e Cartabia i riflettori non si spengano, ma si possa ripartire proprio da Santa Maria Capua Vetere per cominciare una nuova stagione di riforme. Ricordando che il carcere che umilia i detenuti e li deresponsabilizza, oltre a non essere degno di un Paese civile, aumenta la recidiva e non la sicurezza. Il dramma nascosto degli assistenti sociali nelle carceri di Carmen Baffi Il Domani, 15 luglio 2021 Il comparto penitenziario non è fatto solo di agenti e detenuti. Anche l’Ufficio per l’esecuzione penale esterna (Uepe), che gestisce le pratiche legali che consentono al detenuto di accedere alle misure alternative, ha un peso rilevante. Il mondo del carcere non è fatto solo di agenti e detenuti. Secondo l’articolo 27 della Costituzione, le misure di restrizione delle libertà personale devono avere una funzione rieducativa. Proprio per questo, l’équipe degli istituti penitenziari vede attivi, in questo senso, i funzionari giuridico-pedagogici, educatori e assistenti sociali. Tutte e tre queste figure, che tutte si di risocializzazione seguire i nel percorso fanno l’Ufficio per l’esecuzione individuale, cui spetta la gestione delle pratiche legali che al detenuto di accesso alle cosiddette misure alternativa. Così come per il comparto della polizia penitenziaria, anche per questi operatori le difficoltà sono molteplici. Anzi, si può dire che tutte le figure chiave che lavorano in carcere sono state lasciate sole dallo stato. Le misure alternative. Secondo l’ultimo rapporto pubblicato dall’associazione Antigone, tra il 2019 e il 2021, i soggetti presi in carico dall’Uepe sono stati 29mila. Si tratta di persone che hanno ricevuto una condanna fino a tre anni di reclusione che hanno la possibilità di richiedere l’affidamento ai servizi sociali, i domiciliari o la semilibertà. Stando ai dati, l’affidamento in prova al servizio sociale, al 31 gennaio 2021, rappresentava il 57,3 per cento delle misure alternative attive, la fede domiciliare il 40,2 per cento e la semilibertà il 2,5 per cento. Se la richiesta del detenuto, presentata dal legale, viene accolta positivamente dal magistrato, il detenuto viene affidato agli assistenti sociali dell’Uepe, che lo segue nel percorso di rieducazione e risocializzazione. Nel 2014, con la legge 67 è stata introdotta fra le altre opzioni la messa alla prova. Non si tratta propriamente di una misura alternativa alla detenzione, che di fatto costituisce una diversa modalità di scontare la pena, ma di una richiesta che la persona sotto accusa avanza quando è ancora in stato di libertà, prima di essere condannato o assolto dal tribunale ordinario. Il procedimento penale viene sospeso, e la persona si dedica a lavori di pubblica utilità per un periodo commisurato al reato commesso. Se la prova ha esito positivo, il capo d’imputazione decade e il reato si estingue. Un ruolo fondamentale - “Ci occupiamo di tutto quello che è il mondo esterno al carcere. Per questo, i dirigenti degli istituti penitenziari chiedono a noi di svolgere le indagini socio-familiari. Quindi, oltre a parlare con le persone più vicine, conduciamo le indagini domiciliari, ricostruendo tutti i rapporti interpersonali del detenuto”, spiega Paola Fuselli, assistente sociale da 24 anni, dal 2000 impiegata all’Uepe di Roma e rappresentante nazionale della Fp Cgil. L’indagine dura mesi, ogni assistente sociale si occupa non solo di ricostruire il passato dei detenuti, ma di offrire loro un futuro. Quando si entra in contatto con le famiglie, infatti, oltre a valutare le condizioni dell’abitazione, si chiede a ogni membro del nucleo se è favorevole ad accogliere in casa il detenuto, nel caso in cui vengano concesse eventuali misure alternative. Oltre a questo, gli assistenti sociali devono assicurare alla persona che lascerà il carcere un lavoro stabile, contrattualizzato, a norma. Si procede dunque con l’accertamento lavorativo o, nel caso di necessità di percorso terapeutico (per esempio in caso di tossicodipendenza), si stabilisce un contatto con le strutture territoriali, al fine di valutare l’adeguatezza dell’ex detenuto. Servono assunzioni Conclusa l’indagine, gli assistenti sociali devono redigere una relazione, destinata alla valutazione del magistrato ordinario. “Se siamo soltanto 27 assistenti sociali attivi, in una città grande come Roma, nel mio caso, come si fa a rispettare tutte le scadenze?”, chiede Fuselli. “La nostra scadenza coincide con l’udienza in tribunale. Ma se ognuno di noi deve relazionare su 15 casi diversi, farlo in un mese diventa difficile”. Secondo quanto riporta Fuselli, ogni assistente sociale prende in carico fra i 160 e i 180 casi. Il rischio, sempre più concreto, come conferma anche Fuselli, è di incorrere in diffide da parte dei legali o degli stessi giudici. Una volta aperta la pratica osservativa, infatti, i funzionari possono incontrare i detenuti in carcere e stabilire con loro un primo contatto. Ma ogni pratica ha una data di scadenza, che, se non rispettata, non solo espone a procedimenti penali gli assistenti sociali, ma rinvia l’accesso del detenuto alla misura alternativa, costringendolo per un ulteriore periodo in carcere. A Roma “gli assistenti sociali attivi sono meno di un terzo rispetto al numero totale previsto”, dichiara Fuselli. Secondo quanto si legge nel rapporto di Antigone, l’organico previsto è di 896 unità, mentre sono solo 733 i funzionari giuridico-pedagogici effettivamente presenti negli istituti penitenziari italiani. Il sotto organico totale supera il 18 per cento, a fronte del 13,5 per cento registrato a metà 2020. Un problema nel problema - Le pratiche osservative inviate all’Uepe non possono essere aperte direttamente dai funzionari giuridico-pedagogici. Al loro sotto organico, infatti, si somma anche quello del personale amministrativo dell’ufficio. Quando i committenti - legali, giudici o direttamente gli istituti penitenziari - presentano per un detenuto la richiesta di accesso alla misura alternativa, questa arriva direttamente all’Uepe. “Il nostro ufficio amministrativo riceve ogni mese 200 richieste per posta ordinaria e 200 tramite pec”, spiega ancora Fuselli, puntualizzando che nel comparto amministrativo non si assume dal 2019. Anche il ruolo degli amministrativi è fondamentale: se la pratica non viene protocollata, per mancanza di personale e un sovraccarico di richieste, l’osservazione non inizia e il detenuto resta in cella. La giustizia non rieduca - Negli ultimi giorni è stata presentata la proposta di riforma della giustizia, “ma attenzione, si contempla soltanto la riforma del processo, quindi l’obiettivo è rendere i processi più rapidi ed estendere fino ai 10 anni di condanna la possibilità di accedere alle misure alternative. Questo mostra quanta importanza abbia il nostro ufficio”, conclude Fuselli. Quando si parla di giustizia, dunque, non si può parlare soltanto di udienze, processi e condanne, ma vanno presi in considerazione anche carceri, agenti della polizia penitenziaria ed esecuzione penale esterna, legati indissolubilmente dalla medesima funzione: rieducare i detenuti, in ossequio al principio costituzionale, e abbattere la recidività nel commettere reati. Queste problematiche hanno spinto l’Uepe interdistrettuale di Roma, insieme ai sindacati di categoria, Fp Cgil e Cisl Fp, a organizzare un sit-in sotto la sede del dipartimento per la Giustizia minorile e comunità del ministero della Giustizia per chiedere l’attivazione di misure straordinarie che vanno dall’incremento dell’organico all’individuazione di una sede adeguata al setting trattamentale. Una delegazione è stata ricevuta dal direttore generale del dipartimento, Giuseppe Cacciapuoti, che ha assicurato otto nuove assunzioni a ottobre, l’interpello per il settore amministrativo e una nuova sede per l’Uepe romano. La giustizia (malata) da curare di Antonio Polito Il Corriere, 15 luglio 2021 Non è vero dunque che se i processi sono lunghi non si possa fare niente: per cominciare se ne potrebbero fare di meno, depenalizzando alcune fattispecie di reato. Si potrebbero stabilire regole comuni di priorità. Si potrebbe assumere personale e magistrati. Se ne potrebbero mettere di meno fuori ruolo. Si deve sempre scegliere il male minore in democrazia. Ogni decisione politica è (dovrebbe essere) la ricerca di un punto di equilibrio tra un vantaggio e uno svantaggio, purché nell’interesse superiore della collettività. È sicuramente questo il caso della riforma della giustizia penale e della prescrizione in particolare. Da un lato c’è la vergogna nazionale di una durata eccessiva del processo, che “imprigiona” per anni l’imputato, perfino se innocente in primo grado, viola impunemente la Costituzione e ha guadagnato all’Italia il record di condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo (ne abbiamo collezionato il doppio della Turchia). Dall’altro lato c’è il rischio che “ghigliottinando” dopo un tempo dato i processi in Appello e in Cassazione si finisca con il negare - in alcuni distretti giudiziari, quelli che non ce la fanno - l’esigenza di giustizia delle parti lese e dell’intera comunità. Spetterà dunque al Parlamento cercare e trovare questo equilibrio, ascoltando il parere di chi se ne intende e dibattendo con serietà il problema. È sicuramente possibile una soluzione migliore della situazione attuale, e del resto è a questo che servono i Parlamenti. Mi ha colpito però sentir usare da parte di alcuni, anche magistrati, un argomento contro la riforma che non si dovrebbe accettare. Si sostiene che poiché troppi processi durano nella realtà più di quanto consentito dalla proposta della ministra Cartabia, bisognerebbe lasciare tutto com’è. Mentre questa sembra piuttosto un’ottima ragione per intervenire, una circostanza aggravante e non esimente. Facciamo un paragone: nessuno oserebbe mai giustificare l’eccessiva lunghezza delle liste di attesa per un esame diagnostico o un’operazione in ospedale. Purtroppo questo disservizio accade, ma il senso comune non può accettarlo come un fatto compiuto. Gli stessi operatori del settore si pongono il problema di come trovare soluzioni, di come organizzare alternative. Quando si arriva a un pronto soccorso c’è un triage che separa i casi urgenti, i codici rossi, dagli interventi che possono aspettare; e lo stesso ovviamente vale per gli interventi chirurgici, c’è una gerarchia di priorità. Lo Stato consente d’altronde al cittadino di rivolgersi a un altro ospedale, in un’altra regione, se il servizio non è celere ed efficiente. E infine si può sempre cercare nel privato ciò che non si dovesse trovare nel pubblico. Nel caso della giustizia tutto ciò non avviene. Forse la principale ragione dell’intasamento è proprio l’eccesso di cause, che nasce dall’ossessione giudiziaria che ha preso il nostro sistema sociale, ma anche dal protagonismo di alcuni titolari dell’azione penale. Non si può infatti escludere che nell’imbuto di una Corte d’Appello arrivi anche un processo a una sindaca per un bambino delle materne che si è chiuso il dito in una porta, o che finisca in Cassazione il proverbiale furto della melanzana. Non è vero dunque che se i processi sono lunghi non si possa fare niente: per cominciare se ne potrebbero fare di meno, depenalizzando alcune fattispecie di reato. Si potrebbero stabilire regole comuni di priorità. Si potrebbe assumere personale e magistrati. Se ne potrebbero mettere di meno fuori ruolo. Il fatto è che la nostra coscienza non mette sullo stesso piano il malato e l’imputato. Consideriamo il malato un cittadino che soffre, e che ha diritto a un servizio. Mentre consideriamo l’imputato un mezzo condannato, un cittadino a metà, per il quale la durata del processo è quasi una meritata pena accessoria. Lo stesso avviene del resto con i detenuti, in attesa di giudizio e non solo: se sono lì qualcosa avranno fatto, e dunque perché mai dovremmo riconoscere loro il diritto a quel minimo di spazio vitale che ormai rivendichiamo anche per gli animali da allevamento? La discussione sul “servizio giustizia” - lo sappiamo - è avvelenata da una circostanza tutta italiana. La lotta alla corruzione ci ha messo spesso davanti a personaggi politici che usavano il loro potere e vari stratagemmi per allungare il processo e portarlo alla prescrizione. Questo ha creato nell’opinione pubblica un’ondata “giustizialista”, che non distingue il grano dal loglio, e finisce per colpire anche chi non ha colpe. Con le dovute eccezioni, non hanno infatti colpa del ritardo della giustizia migliaia di imputati che ne pagano personalmente il conto, esattamente come coloro che dei reati sono stati vittime, e non ricevono giustizia. Cittadini a pieno diritto, e certamente in posizione di debolezza di fronte allo Stato che li accusa o li dovrebbe proteggere, singoli individui alle prese con una macchina poderosa e misteriosa, burocratica e onnipotente, fatta di migliaia di magistrati, di polizia giudiziaria, di leggi, procedure, codicilli e norme. Se lo Stato non riesce a organizzare questo servizio che gestisce in esclusiva nel rispetto del dettato costituzionale, è lui il colpevole, sia verso gli imputati sia verso le parti lese. Non può scaricare il danno sulle persone. Al punto che verrebbe da fare una proposta paradossale: togliamola per i politici, questa prescrizione, se proprio volete; ma ripristiniamo una ragionevole durata del processo per i semplici cittadini, che esattamente come i malati non meritano di essere abbandonati al loro destino, e che oltretutto sono innocenti fino a sentenza definitiva. Riforma della giustizia, la bilancia squilibrata di Michele Ainis La Repubblica, 15 luglio 2021 Il vero problema sta nelle 35 mila fattispecie di reato che ingolfano i processi e nei giudizi civili, dove servono 1.300 giorni per timbrare una sentenza. Le istituzioni si nutrono di simboli, come la bandiera. E di gesti simbolici, come quello di ieri, quando il presidente Draghi e la ministra Cartabia sono apparsi dentro il carcere di Santa Maria Capua Vetere. Giacché occorre aver visto, ha detto quest’ultima citando Piero Calamandrei. Mentre al contempo risuonava il j’accuse del presidente del Consiglio, contro la “responsabilità collettiva” delle violenze che un anno fa si consumarono in quel carcere, al di là delle colpe individuali. E la responsabilità - ha aggiunto Draghi - ricade su un sistema che ha urgente bisogno di restauri, su una giustizia che genera soprusi. Ma dove ha origine questa malattia? Partiamo ancora dai simboli. L’emblema della giustizia è una bilancia, con due piatti in reciproco equilibrio. Invece la giustizia italiana è squilibrata, non riesce quasi mai a contemperare le opposte istanze della difesa e dell’accusa. Colpa della politica italiana, dei suoi umori volubili e incoerenti, perennemente in bilico fra giustizialismo e garantismo, fra Tangentopoli e Salva-corrotti. E la politica è ostaggio di partiti per lo più sordi l’uno all’altro, giacché ciascuno si preoccupa di piantare sul terreno la propria bandierina, calpestando le bandiere altrui. In queste condizioni ogni compromesso è impervio, se non anche impossibile. E dunque l’ultima riforma - quella battezzata giovedì scorso dal Consiglio dei ministri - parrebbe destinata al martirio in Parlamento. Eppure la democrazia stessa è compromesso, diceva Kelsen. Ed è a sua volta un compromesso l’idea di giustizia che affiora tra le righe della Costituzione. Dove indubbiamente ha spazio l’esigenza di reprimere i reati, per esempio rendendo obbligatoria l’azione penale (articolo 112). Ma dove prende forma, altresì, un ampio ventaglio di garanzie per l’imputato: dal diritto di difendersi in giudizio (articolo 24) all’irretroattività della legge penale (articolo 25), dalla presunzione d’innocenza (articolo 27) alla ragionevole durata del processo (articolo 111). Ecco, è questo lo sfondo su cui va misurata la proposta del governo. È la Carta costituzionale il metro di giudizio, non le suscettibilità dei capipartito. Sapendo che ci sono vari modi - non uno soltanto - per comporre i principi costituzionali in equilibrio, e sapendo inoltre che le modalità dipendono dalle stagioni della storia, dalle emergenze o dalle urgenze di volta in volta in primo piano. Però tenendo conto, al tempo stesso, che alcune soluzioni vengono respinte dalla Carta, quale che sia la loro giustificazione contingente. Fu il caso, per esempio, della legge Pecorella sull’inappellabilità delle assoluzioni, bocciata dalla Consulta nel 2007. O del “lodo Conte” (gennaio 2020), che distingueva fra imputati assolti e condannati in primo grado, quando la Costituzione considera tutti innocenti, finché non intervenga una sentenza definitiva di condanna. C’è un vizio analogo nel compromesso raggiunto in Consiglio dei ministri? In linea generale no, non c’è. S’apprezza piuttosto il tentativo di correggere due abusi: l’eccesso di prescrizioni (circa 130 mila l’anno); i tempi eccessivi dei processi, per cui l’Italia ha ricevuto il numero più alto di condanne dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (1202 dal 1959 a oggi). Il primo abuso offende le vittime dei reati, trasformati in altrettanti delitti senza castigo; il secondo colpisce gli imputati, negando il diritto a una ragionevole durata del processo. Ciascun abuso è però figlio dell’altro, o meglio dell’eterna disputa fra giustizialisti e garantisti. Che ha trasformato ogni giudizio penale in uno slalom, attraverso le troppe norme, le troppe regole puntute come spilli, che vi sono state iniettate. Rallentandone così il decorso, o causandone la morte prematura. Da qui l’idea che sorregge la riforma: la prescrizione corre fino al primo grado; dopo di che si prescrivono i processi, se sforano un tempo stabilito (due anni in appello, un anno in Cassazione). Scelta equilibrata, così come la stretta sui rinvii a giudizio o varie altre misure. Il problema non è la regola, semmai la deroga. Quella aggiunta all’ultimo minuto per contentare i 5 Stelle, che estende alla corruzione il trattamento deteriore riservato ai reati gravi, i cui processi durano più a lungo. Ne deriva una disarmonia, una sproporzione: il corrotto rischia al massimo otto anni di galera, ma con la nuova prescrizione viene trattato come un omicida. E tuttavia non è nemmeno questo il punto principale. Il problema sta nelle 35 mila fattispecie di reato, che giocoforza ingolfano i processi. E sta nei giudizi civili, dove servono 1300 giorni per timbrare una sentenza. Se la giustizia penale è un dramma, quella civile è una tragedia. Giustizia, la strategia del premier per convincere Conte sulla riforma di Ilario Lombardo La Stampa, 15 luglio 2021 Il capo del governo, dopo gli incontri con Letta e Salvini, ora si siederà al tavolo con il leader M5S. Mario Draghi si dirige verso il carcere della mattanza di Santa Maria Capua Vetere lasciandosi alle spalle, a Roma, le tensioni e le incertezze sulla riforma della giustizia. Una coincidenza che è impossibile non notare. Prima di mettersi in macchina, il presidente del Consiglio riceve a colloquio il leader della Lega Matteo Salvini, così come aveva fatto il giorno prima con il segretario del Pd Enrico Letta e con il coordinatore nazionale di FI Antonio Tajani. Da tutti e tre ha ottenuto garanzie sul pacchetto degli emendamenti alla riforma del processo penale approvata la scorsa settimana in Consiglio dei ministri. Dovrà entrare e uscire integro dal Parlamento. Questo è il piano, come spiega il segretario del Carroccio: “Se Conte o Grillo proveranno a frenare, troveranno nella Lega un avversario”. Ecco, appunto: Giuseppe Conte. Il grande punto interrogativo di Draghi. Mancano solo i 5 Stelle al tavolo degli inviti a Palazzo Chigi, perché fino a oggi non hanno avuto un leader formalmente riconosciuto. Adesso il presidente del Consiglio è pronto a incontrare Conte. Lo farà la prossima settimana e molto probabilmente a ridosso del previsto esordio in Aula del testo della ministra della Giustizia Marta Cartabia. Sarà il primo faccia a faccia tra Draghi e il suo predecessore dopo quello di febbraio quando si passarono il testimone. Il premier ha tutto l’interesse a incontrarlo perché da Conte dipende il destino della riforma in parlamento. Il M5S è spaccato. I quattro ministri hanno votato il provvedimento che prevede l’improcedibilità nel secondo e terzo grado di giudizio dopo una durata predefinita dei processi, ma il corpaccione dei parlamentari era contrario al compromesso. Ora vogliono capire fino a che punto Conte intende spingersi con le barricate, o se si farà convincere da Draghi a desistere. Il premier non può che confidare nelle divisioni del M5S tra l’ala più governista, rappresentata dal ministro degli Esteri Luigi di Maio e dalla sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina, favorevoli alla mediazione proposta da Cartabia, e la maggioranza degli eletti che chiedono radicali modifiche contro l’improcedibilità. Il modello tedesco che ha in mente Conte prevede sconti di pena se i processi si allungano troppo. Strappare questa modifica però vorrebbe dire far saltare l’obiettivo principale di Draghi: ottenere il via libera della Camera entro fine luglio e quello definitivo del Senato entro agosto, a ridosso del semestre bianco, quando non sarà più possibile sciogliere il Parlamento fino all’elezione del prossimo Presidente della Repubblica. Per questo Draghi si è voluto assicurare con Letta che il Pd resterà compatto e non offrirà sponde al Movimento per far debordare i tempi di approvazione della legge. È quello a cui punta Conte, in nome dell’alleanza con i democratici. In realtà, il M5S sa di poter far poco. I numeri sono a favore del resto della maggioranza. Al netto di Fratelli d’Italia, che è all’opposizione, tutti i partiti tranne i grillini sono per dare un rapido ok alla legge. Se daranno seguito alle loro dichiarazioni più bellicose, i 5 Stelle potranno però fare una battaglia di testimonianza, spiegano fonti ai vertici, come avvenne quando si espressero contro il Tav Torino-Lione, agli sgoccioli del governo Conte Uno. Servirà a complicare il cammino, a lasciare una traccia di come saranno ridefiniti i rapporti di lealtà con il governo. Un assaggio si è avuto ieri dopo che il M5S ha sposato le contestazioni dell’Associazione nazionale magistrati per la quale la riforma determinerà “un incentivo per le impugnazioni”, mettendo così a rischio “il perseguimento dell’obiettivo strategico di riduzione dei processi penali del 25 per cento”. Anche per questo motivo, ieri, da Santa Maria Capua Vetere Draghi ha voluto mostrare tutto il suo sostegno a Cartabia, quando ha puntato l’attenzione sulle misure alternative al carcere: un capitolo della riforma di cui si parla meno, perché oscurata dalle polemiche sulla prescrizione. È un sistema che va cambiato, ha promesso Draghi dopo la visita, e per farlo bisogna partire anche da quello che sostiene la ministra: “La pena non è solo carcere”. Riforma sulla giustizia, Draghi: no alle bandierine, rispettiamo i tempi di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 15 luglio 2021 La riforma Cartabia e la strategia del presidente del Consiglio per evitare che il Movimento 5 Stelle stoppi l’iter. Tirare dritti come treni ad alta velocità, di quelli che non fanno fermate. E approvare in Parlamento la riforma del processo penale prima della pausa estiva. Mario Draghi sulla giustizia accelera, ci ha messo la faccia e quella dell’intero governo. E si aspetta che i partiti tengano il ritmo e non gettino le loro bandierine sui binari del provvedimento firmato dalla ministra Marta Cartabia. Il testo arrivato in commissione alla Camera va approvato così com’è e soprattutto in fretta, perché il capo del governo lo ritiene “fondamentale” per rispondere alle istanze di Bruxelles e consentire l’arrivo dei fondi del Pnrr. “Dobbiamo fare le cose rispettando il calendario, non possiamo accumulare ritardi”, è il mantra che l’ex presidente della Bce ripete nelle riunioni riservate. Dove aleggia il fondato timore che, se non approvata prima del semestre bianco che si apre il 3 agosto, la riforma possa finire nel pantano. Draghi ne ha parlato con Enrico Letta e Antonio Tajani e ieri, incontrando il segretario della Lega, è tornato sul dossier che al momento gli sta più a cuore: “Mi auguro che in Parlamento non ci siano frenate dei partiti”. Matteo Salvini ha registrato il pressing del capo del governo, tanto da dichiarare all’uscita da Palazzo Chigi che “bisogna correre, accelerare sulle riforme” e che quella della giustizia va approvata “prima dell’estate”. Questi erano i patti, anche con il MoVimento. Ma poi, il giorno dopo il travagliatissimo via libera in Cdm, Grillo e Conte hanno trovato l’intesa sullo statuto del M5S e il ritorno dell’ex premier sulla scena ora rischia di fermare il convoglio della riforma. L’avvocato e presidente in pectore del partito più grande della maggioranza ritiene il ddl Cartabia “inaccettabile”, perché “cancellerà migliaia di processi”. E dunque Conte, in sintonia con le proteste dell’Associazione nazionale magistrati, orienterà le sue truppe verso il no, a meno che il testo non venga modificato a colpi di emendamenti. “Il fronte M5S-Anm sta sferrando un attacco giustizialista-conservativo alla riforma Cartabia”, twitta Enrico Costa di Azione. Fiutata l’aria, la preoccupazione e forse anche l’irritazione di Draghi, Salvini avverte che “chiunque si metterà d’ostacolo, vuoi che sia Conte, Grillo o qualche corrente del Pd, avrà nella Lega un avversario”. Il Pd in realtà è arrivato compatto al sì in Consiglio dei ministri e tale dovrebbe restare anche in aula, anche a costo di lasciare solo il M5S. Letta apprezza “l’autorevolezza e la terzietà della ministra Cartabia” e ha rassicurato Draghi: “È anche la nostra riforma, perché mette fine a trent’anni di guerra civile tra garantisti e giustizialisti”. Ma prima dell’aula c’è lo scoglio della commissione Giustizia. Pd, Lega e Forza Italia hanno chiesto di stringere i tempi, ma il presidente Mario Pierantoni, che è del M5S, vuol prendersela comoda e ha fissato a martedì il termine per i subemendamenti alle proposte del governo. L’ordine di Conte è rallentare l’iter della riforma, in linea con la strategia di rialzare uno ad uno i vessilli del MoVimento, a cominciare dalla prescrizione dell’ex ministro Bonafede. E dunque se Palazzo Chigi spinge perché la riforma vada in aula il 23 luglio, come da calendario, i 5 Stelle soffrono, frenano e chiedono tempo, per convocare audizioni ed esaminare gli emendamenti. D’altronde in questa partita il M5S non ha solo il presidente della commissione, ma anche il ministro per i Rapporti con il Parlamento, il contiano Federico D’Incà. Conte sulla prescrizione ha in mente il modello tedesco - sconto di pena se il processo non viene celebrato entro i tempi - e spera nel Pd. Letta però pensa che “qualche aggiustamento si potrà anche fare, ma l’impianto della riforma non si tocca”. Anche perché a mettersi di traverso sarebbero poi anche la Lega e Forza Italia e bisognerebbe ripartire da capo. Ai piani alti del governo si augurano che il M5S non voglia restare isolato, non faccia ostruzionismo e che mantenga “con coerenza” l’impegno preso dai ministri. Nei prossimi giorni Draghi chiamerà a Palazzo Chigi anche Conte, come sta facendo con gli altri leader della sua maggioranza. E, con tutta la diplomazia del caso, gli chiederà se intenda o meno onorare il patto di responsabilità nazionale siglato a febbraio da Beppe Grillo. Lodo Cartabia entro l’estate. La Lega in pressing su Conte di Rocco Vazzana Il Dubbio, 15 luglio 2021 Dopo un colloquio con Draghi, Salvini avverte gli alleati: “Chiunque si metterà contro le riforme avrà in noi un avversario”. “Chiunque si metterà di ostacolo e di traverso sulla via delle riforme, vuoi che sia Conte o Grillo o qualche corrente del Pd, avrà nella Lega un avversario”. Quando pronuncia queste parole, Matteo Salvini è appena uscito da Palazzo Chigi, dove ha avuto un colloquio col presidente del Consiglio Mario Draghi. Oggetto del confronto: le riforme, a parire da quella sul processo penale. Il premier teme che la tabella di marcia promessa all’Europa in cambio del Recovery possa subire qualche battuta d’arresto e cerca rassicurazioni da tutti gli “azionisti” della sua maggioranza. In poche ore l’ex numero uno della Bce ha infatti incontrato Enrico Letta, Antonio Tajani e appunto Salvini, che mette in guardia gli alleati: “Lavoriamo con buonsenso, ho detto al presidente: la Lega c’è”. Del resto il Carroccio, che sulla Giustizia promuove parallelamente i referendum proposti dai radicali, sa perfettamente che il “lodo Cartabia” rischia di far saltare per l’ennesima volta la fragilissima tregua siglata da Beppe Grillo e Giuseppe Conte e gioca coi nervi degli alleati/ rivali. Per questo all’uscita da Palazzo Chigi Salvini dichiara “totale condivisione” col premier “su come andare avanti nei prossimi mesi”. Imperativo categorico: “Correre sulle riforme, accelerare sulle riforme. Quindi riforma della giustizia da portare in Parlamento e da approvare entro l’estate”, aggiunge il leader della Lega, giocando di sponda con Draghi. Sì, perché il capo del governo teme brutti scherzi da parte dei 5 Stelle, sospettati di voler tirare per le lunghe la trattativa sulla riforma Cartabia per potersi muovere a briglie sciolte a partire dal prossimo mese. Il 3 agosto, infatti, Sergio Mattarella entra nell’ultimo tratto di strada del suo mandato: il semestre bianco, il periodo in cui il Capo dello Stato perde la potestà di sciogliere le Camere. Tradotto: in caso di crisi di governo, nessuna “minaccia” di ritorno imminente alle urne potrebbe spaventare i partiti. Un motivo in più per spingere l’ala irriducibile del Movimento, capitanata paradossalmente da Conte, e non da Grillo, a lasciare la maggioranza. E se da un punto di vista numerico un eventuale addio dei grillini non pregiudicherebbe la tenuta del governo, da un punto di vista politico produrrebbe effetti potenzialmente devastanti. Il Pd, tanto per cominciare, dovrebbe accettare di far parte di un esecutivo a trazione salviniana, mentre la Lega si sentirebbe pienamente legittimata a imporre, o tentare di farlo, la propria agenda a Draghi. E senza la “copertura” del Quirinale lo stesso premier ne uscirebbe seriamente indebolito. In un quadro di questo tipo, difficilmente la maggioranza riuscirebbe a stare in piedi per tutto il tempo necessario a governare il processo messo in moto col Recovery. Meglio evitare rischi, dunque, agendo per tempo, portando a casa cioè la riforma del processo penale prima dell’estate, prima del semestre bianco. In teoria l’approdo alla Camera della proposta Cartabia è previsto per il 23 luglio. E se Pd, Lega e FI sembrano intenzionati a rispettare il calendario, il Movimento chiede invece maggior tempo per costruire al meglio la riforma, modificando gli emendamenti che non sono stati in ogni caso ancora depositati. La tempistica verrà comunque discussa dall’ufficio di presidenza della commissione Giustizia, e a giudicare da quanto dichiarato due giorni fa dal presidente grillino della Commissione, Mario Perantoni, la data del 23 luglio potrebbe essere una chimera. “Il Parlamento dovrà essere centrale, avremo molto da discutere” sulla riforma del processo penale, ha spiegato Perantoni. “Certamente il termine del 23 luglio fissato dal programma della Conferenza dei capigruppo per la discussione dell’Aula è poco realistico”, ha messo in chiaro il presidente 5S della Commissione, forte anche della “preoccupazione” per la riforma manifestata da molti giuristi. E dall’Anm, che ieri si è resa ufficialmente disponibile con la ministra Cartabia per illustrare “compiutamente le ragioni” delle proprie perplessità nelle opportune sedi istituzionali”. Draghi però potrebbe decidere di “blindare” il testo, lasciando ai grillini la facoltà di scegliere tra due sole opzioni: voto contrario o astensione. La forzatura comporterebbe però delle conseguenze al momento imprevedibili, nonostante il sostegno incondizionato di Lega, Pd e Forza Italia. “Io, magistrato antimafia dico: l’amnistia non è un tabù” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 luglio 2021 Parla Stefano Musolino, sostituto alla Dda di Reggio Calabria: “Preferiamo guardare al futuro con audacia e prospettiva innovativa in cui coltivare una giustizia penale meno carcerocentrica”. Si è da poco concluso il XIII Congresso Nazionale di Magistratura Democratica: al centro della discussione non sono mancate le riflessioni sulla riforma del processo penale elaborata dalla Ministra Cartabia. Continuiamo a discuterne con il dottor Stefano Musolino, Sostituto procuratore della Repubblica - DDA di Reggio Calabria, tra i più votati al Consiglio nazionale di Md, insieme a Cinzia Barillà, magistrato di Corte di Appello sempre a Reggio Calabria. Sul tema dell’amnistia il dottor Musolino ci dice: “siamo in una fase di transizione e dobbiamo accettarne le sfide come una possibilità, piuttosto che con timore conservativo”. Dottor Musolino, secondo Lei con questa riforma proposta dalla Ministra Cartabia si recupera un paradigma garantista del processo penale? A me pare che il congresso di Magistratura democratica abbia apprezzato l’ispirazione di fondo della proposta Lattanzi: tenere insieme celerità del processo e garanzie. Queste ultime sono un metodo cognitivo imprescindibile, affinché l’esito processuale sia espressione di autentica “giustizia”; anche se, a volte, sono interpretate come un mantra retorico a tutela dei potenti (garantismo inteso come anticamera di immunità ed irresponsabilità). Noto, tuttavia, che gli emendamenti del Governo al testo della relazione Lattanzi, hanno determinato alcune pericolose trasformazioni, su cui va posto grande attenzione. Durante il congresso si è parlato di amnistia quale possibile misura per sfoltire l’ingolfamento della macchina giudiziaria. Qual è il suo pensiero in merito? Nel congresso Andrea Natale ha avuto il coraggio ed il merito di pronunciare quella parola, accolta con favore dall’assemblea. Non è scontato per un gruppo di magistrati. Ma siamo in una fase di transizione e dobbiamo accettarne le sfide come una possibilità, piuttosto che con timore conservativo. Preferiamo guardare al futuro con audacia e prospettiva innovativa in cui coltivare una giustizia penale meno “carcerocentrica”, assecondando un’altra ispirazione di fondo della proposta Lattanzi. Nel merito, occorre distinguere due profili. Il primo attiene senza dubbio alla necessità di ridare agibilità e dignità costituzionale agli istituti clemenziali. Mi pare necessario - Md lavora da tempo sul tema - riformare l’art. 79 della Costituzione, per consentire l’approvazione dell’amnistia con la maggioranza assoluta dell’assemblea, ma solo in condizioni di motivata straordinarietà e per raggiungere obiettivi costituzionali inerenti al dover essere: la pandemia, o una riforma globale del processo. Una volta superato questo step, si può passare al secondo: decidere se, quando e come mettere in moto un’amnistia concreta. Considerato che l’amnistia è quasi un tabù per alcuni partiti e per una fetta della popolazione, quali potrebbero essere le misure da adottare non previste nell’attuale pacchetto di emendamenti governativi? La mancanza di coraggio della politica non è neutrale. Nelle condizioni date, senza alcun intervento, la riforma è inapplicabile ovvero genera un’amnistia sostanziale e silente, senza che alcuno se ne assuma la responsabilità e, soprattutto, senza risolvere il problema del congestionamento dei ruoli di alcune corti, aggravato da croniche carenze di personale amministrativo e di magistrati. In aggiunta, servirebbe una decisa depenalizzazione. Ma - come ben intende - la politica non può risolvere i problemi, senza assumersi responsabilità ed investire risorse nei nodi e luoghi dove più evidente è l’inefficienza organizzativa del sistema. Amnistia e meno reati: così la Corte d’appello può rinascere di Riccardo Polidoro Il Riformista, 15 luglio 2021 Sono dieci su 29 i distretti di Corte di appello in cui la durata dei procedimenti penali supera i due anni di tempo che la riforma della giustizia assegna come limite per la definizione, pena la dichiarazione d’improcedibilità. Tra questi, al primo posto figura la Corte di appello di Napoli che, dalla specifica classifica pubblicata da Il Sole 24 Ore, a fine 2019 aveva 54.542 procedimenti pendenti, seguita da quella di Roma con 49.226 e da Bologna, con 18.948. A Napoli, dunque, pendeva circa il triplo dei procedimenti del distretto classificato al terzo posto; al distretto partenopeo spettava il primato anche per il tempo di definizione dei giudizi di secondo grado con 2.031 giorni, poi Reggio Calabria con 1.645 e Catania con 1.247 (nonostante questi avessero meno procedimenti pendenti di altri distretti, rispettivamente 6.741 e 13.582). Roma e Bologna, infatti, si attestavano al quarto e quinto posto con 1.142 e 823. I dati riportano cifre che vanno lette per difetto, in quanto, nel 2020/2021, con il blocco totale dell’attività giudiziaria dovuto all’emergenza sanitaria e la successiva riduzione della stessa dopo la ripresa, le pendenze sono notevolmente aumentate. Sono cifre da capogiro e non a caso il giudizio di appello è stato definito un “malato terminale”. Il distretto di Corte di appello di Napoli, dunque, è quello con maggiore sofferenza. Occorrono in media più di cinque anni per definire un giudizio di appello. I concorsi interni per accedere alla Corte vanno deserti perché i magistrati sono consapevoli che il carico di lavoro è enorme. Il presidente è costretto a inviare in appello giovani toghe che dovranno poi valutare il lavoro di colleghi più anziani ed esperti. Non a caso la ministra Marta Cartabia sarà in città martedì prossimo e si recherà al Palazzo di Giustizia per verificare la situazione incontrando i vertici istituzionali. Certo, sono dati che dovrebbero scoraggiare il progetto di riforma, ma la strada intrapresa è quella giusta ed è, finalmente, in linea con i principi costituzionali. Prima fra tutti la ragionevole durata del processo e subito dopo la presunzione di non colpevolezza. Si sta per passare dalla tragica fase dell’imputato “per sempre”, dovuta alla riforma Bonafede sulla prescrizione, all’assunzione di responsabilità dello Stato chiamato al rispetto di tempi che in un Paese civile dovrebbero essere la normalità. Tra l’altro, in ben 19 distretti di Corte di appello, il termine di due anni è già rispettato e, in Cassazione, la maggior parte dei procedimenti si chiude entro l’anno di pendenza. Occorre rafforzare la macchina giudiziaria laddove vi sono guasti fin troppo evidenti. La disponibilità di risorse dovrà consentire l’assunzione di magistrati e cancellieri in quegli uffici più critici. Ciò comunque non basterà a eliminare l’enorme arretrato e a gestire il nuovo. Imprescindibili per l’attuazione del “giusto processo” sono, ancor prima dell’annunciata riforma, una concreta depenalizzazione di fattispecie che non hanno alcuna rilevanza penale, l’amnistia e l’indulto. Solo l’eliminazione di gran parte dei fascicoli pendenti, consentirà di andare a regime con i principi della riforma. A coloro che sono contrari all’amnistia, perché rappresenta la resa dello Stato che non riesce a giudicare, va risposto che ciò, di fatto, già avviene in molti casi, ma con evidente disparità di trattamento. Perché, al giorno d’oggi, essere giudicati a Napoli o in altri luoghi, purtroppo, fa la differenza. “Io, boss pentito salvato dai libri. Ora mio padre vuole uccidermi” di Giuseppe Legato La Stampa, 15 luglio 2021 Domenico Agresta, il più giovane collaboratore di giustizia della ‘ndrangheta: “Ho capito che posso cambiare la mia storia”. “Ne sono sicuro: mio padre mi sta cercando per uccidermi. Solo ammazzandomi laverebbe l’onore di Platì, della famiglia e delle ultime generazioni che devono traghettare la ‘ndrangheta nel futuro. Io sono l’infame, il traditore, il furbo, l’opportunista. E invece sono solo diventato un uomo. Penso con la mia testa, studio, leggo: mi ha salvato la scuola in carcere”. Eccolo qui Domenico Agresta, 33 anni, il più giovane pentito della ‘ndrangheta nel mondo, l’unico venuto fuori da quella roccaforte mafiosa che è Platì, ombelico di una organizzazione impenetrabile senza collaboratori di giustizia. Il padre intercettato al telefono dirà: “Sto bastardazzo di merda ha voluto rovinarci. Se ha deciso di chiudere con la nostra famiglia ti giuro che lo ammazzo”. Agresta parla per la prima volta e in esclusiva a La Stampa da una struttura militare del centro Italia. Ha scontato dodici (dei 30) anni di carcere per un omicidio commesso quando aveva 18 anni. Uccise un piastrellista, diede fuoco al corpo in un’auto e andò a bere champagne. Come si fa a convivere con l’idea di aver ucciso un uomo? “Me lo sogno alcune notti. Vedo il suo viso un attimo prima di morire, sua mamma che piange al processo in aula. Non ho mai avuto occasione di chiedere scusa a quella donna. Lo faccio adesso, sottovoce”. Perché quell’omicidio? “Perché nella logica mafiosa, aveva fatto uno sgarro alla mia famiglia”. Si vergogna ancora? “Molto. Ho distrutto la vita di una famiglia e non ne avevo titolo. Ma quando entri nella ‘ndrangheta ci sono delle regole ineluttabili”. Quando ha deciso di collaborare con la giustizia? “Ero in classe nel carcere di Saluzzo, leggevamo la Divina Commedia, le parole di Dante a Virgilio. Ho sentito una fitta allo stomaco”. Le ricorda? “Le so a memoria. “Vedi la bestia per cu’io mi volsi; aiutami da lei, famoso saggio, ch’ella mi fa tremar le vene e i polsi”. Per me la bestia era la ‘ndrangheta; la lupa, la brama di potere in nome della quale tutto è consentito, anche l’orrore. Non l’avevo scelta, mi era piombata addosso come una condanna già eseguita”. Sembra un’autoassoluzione… “La gente dovrebbe sapere che non scegli dove nascere. Se vieni al mondo in una famiglia di ‘ndrangheta di Platì, la tua storia è già scritta”. Difficile pentirsi e cominciare a parlare dei propri genitori, dei cugini, degli zii? “È un travaglio progressivo. In quei giorni scrissi una lettera pubblicata senza nome sul sito del Salone del Libro”. Cosa disse? “Che mio padre era uno ‘ndranghetista. Davanti a tutti”. Risultato? “I detenuti mi hanno subito isolato. Uno si avvicinò al mio orecchio e bisbigliò: “Hai sbagliato Domenico, tu appartieni a una famiglia di serie A. Non dovevi dire quelle cose”. Era un avvertimento. Ho rischiato la vita già allora. Quando avevo paura mi rifugiavo nei libri”. Cosa le hanno trasmesso i libri? “Mi hanno fatto scoprire la bellezza”. La bellezza? “La speranza di poter scrivere la mia storia. Fuori da quel percorso di violenza già disegnato da altri per me”. Cosa le ha tolto invece la ‘ndrangheta negli anni in cui ne ha fatto parte? “Mi ha impedito di maturare come uomo, mi ha rubato la personalità a cui avevo diritto. Ancora peggio è andata al ragazzo che ho ucciso. Quando penso a mia mamma che dice di non avere più un figlio la mia mente va a quella donna che non ce l’ha più perché glielo ho tolto io”. Chi è suo padre oggi per lei? “Non voglio averci a che fare. Ha ammazzato persone, venduto droga causando la morte di tanti giovani, sequestrato un ragazzo abbandonandolo tra le montagne senza medicine. E non si è mai pentito. Mi dica lei se questo è un uomo. Potrei guardarlo di nuovo negli occhi solo se collaborasse”. Al netto dei sequestri di persona vale lo stesso per lei… “Certo. Ed è chiedendomelo in una cella che sono uscito da quel buio”. Crede di avercela fatta? “Puoi uscirne solo se qualcosa di nuovo cresce dentro di te. A me questo dono è stato dato”. Ha avuto paura? “Entrare nella grotta buia mi spaventava ma in me ha vinto il desiderio di vedere se là dentro ci fosse qualcosa di miracoloso”. Questo è Leonardo Da Vinci… “L’altra lettura che mi ha ispirato. E poi “Se questo è un uomo di Primo Levi”“. E cosa c’entra con la ‘ndrangheta? “La mafia è un lager, è orrore. Io ho iniziato a riconoscermi nel mondo che c’era fuori dal campo di concentramento. Sono stato un mafioso, ma sentivo che la mia vita sarebbe stata fuori”. Quanto è stato difficile? “Ho patito molto, ma è stato più complicato convivere con la ‘ndrangheta che mi aveva chiuso il cervello, riempito di barzellette, di riti, di falso onore. Il maggiore Vincenzo Bertè e il procuratore Anna Maria Loreto mi hanno aiutato dimostrando di ascoltarmi con fiducia”. Alcuni avvocati sostengono che lei abbia raccontato molte cose per sentito dire. “Ho visto e ho agito. Ho trafficato droga e sono stato condannato. Mio padre e i miei zii hanno permesso alla ‘ndrangheta di fare il salto di qualità, arrivando al Nord e traghettandola nel mondo del narcotraffico internazionale”. Che fine hanno fatto i soldi della droga? “Sono stati un passe-partout”. Per cosa? “Per stringere rapporti con i professionisti e con la politica”. Che atteggiamento aveva la gente nei confronti dei mafiosi Agresta? “Ci portavano sul palmo di una mano”. Ne andava fiero? “Una volta sì, ora ho capito che era tutto figlio della paura”. Droga, rispetto, bella vita e crimine. È così che cresce un giovane boss al Nord? “Niente di meno, semmai di più”. È vero che i figli dei capimafia studiano nei migliori collegi d’Europa? “Tutto vero. Un mio cugino fu mandato in Svizzera nel campus in cui hanno studiato i piccoli della famiglia Bin Laden”. Un investimento? “Sì, ma anche un messaggio al mondo. Sono come te, sono meglio di te. Mi laureo, divento manager e tu non ti accorgi più che puzzo di mafia. O fai finita di non sentire più l’odore ma solo perché ti conviene”. Modena. “Così ho visto morire un detenuto durante il nostro trasferimento” di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 15 luglio 2021 Drammatica testimonianza di un ex carcerato di Modena ora libero: “Nessuno ha fatto niente per salvarlo, è morto peggio di un cane”. “Sento casi in cui si lotta per salvare gli animali. Si scrivono articoli per evitare l’abbandono estivo di cani e gatti. E nessuno si indigna se un poveraccio per ore sta male, è morto forse di overdose e, se è vero, si poteva salvare con una puntura. Quella vita valeva meno di un cane abbandonato in autostrada”. Parla un detenuto testimone della rivolta al carcere di Sant’Anna dell’8 marzo 2020. Dice di aver visto come è stato trattato uno dei nove compagni di carcere morti. Lo ha seguito nel trasferimento e ha potuto osservare le sue ultime ore (anche se confonde il nome). E, dopo aver testimoniato per il Garante dei Detenuti, ha raccontato in forma anonima la vicenda a “Diritti Globali”. “Ho deciso di parlare perché lo ritenevo il mio dovere dopo quello che avevo passato e visto. L’ho potuto fare, però, solo quando ho terminato la pena e sono tornato un uomo libero”. Il racconto ricostruisce il trasferimento e la morte di uno dei nove deceduti ufficialmente per sola overdose. “Io sono capitato nella stessa gabbia con Slim Agrebi. Fin dall’inizio aveva un comportamento strano, mi cadeva addosso in continuazione. Ho avvertito gli agenti che mi hanno risposto che se ne sarebbe parlato a destinazione. La situazione peggiorava mano a mano che passava il tempo. Ho chiesto che almeno gli venisse dato da bere, ma senza risultato. Quando proprio ormai non si reggeva più, dopo 3 o 4 ore siamo arrivati nelle vicinanze di Alessandria, dentro al cortile del carcere. È stato scaricato a braccia. C’era in attesa un’ambulanza e so che avevano chiamato un magistrato. È salita un’infermiera che ci ha provato la pressione che, stranamente, era uguale per tutti. Quando siamo ripartiti ho sentito gli agenti che dicevano che era deceduto ed era stato caricato in ambulanza”. La tensione era già forte nei giorni precedenti alla rivolta, quando il terrore del contagio del virus ormai era una realtà. Racconta: “C’era tensione per le notizie che arrivavano riguardanti il Covid. Io più volte ho cercato di contattare la direzione come portavoce dei miei compagni, ma era difficile avere un colloquio con la nuova Direttrice che era presente per poche ore settimanali. Si riusciva parlare, solo, con degli ispettori che promettevano senza mantenere. La direzione, infatti, era cambiata improvvisamente nel mese di gennaio. Noi detenuti avevamo un ottimo rapporto con la prima direttrice che ci riceveva con facilità e questa nuova situazione aveva aumentato la preoccupazione. Dopo la sua sostituzione, infatti, le notizie, arrivavano solo con avvisi senza possibilità di spiegazioni. L’ultimo che annunciava la sospensione dei colloqui ha scatenato la rabbia”. La rivolta di quella domenica, seguita a distanza da questo testimone che non entra nel merito del saccheggio dell’infermeria e delle morti per overdose (dice solo: “Da ex-tossicodipendente, il carcere non mi ha mai fatto arrivare a una tale crisi di astinenza da farmi desiderare un assalto al metadone”), raggiunge il suo apice nel pomeriggio, quando prima resta chiuso in cella e poi è aiutato da un agente a trovare rifugio, mentre stanno arrivando decine e decine di agenti della penitenziaria in assetto antisommossa. La sua testimonianza: “Ho letto di molte testimonianze di pestaggi. Io non li ho subiti ma, per quello che vale dato che non riuscirò a dimostrarlo, ho sentito diverse volte grida e una voce che ordinava di smetterla “perché così li ammazzate”. Certo ho visto passare le barelle e anche le conseguenze sui volti dei detenuti che ho incontrato dopo al momento del trasferimento. C’era stata una rivolta, come dimostrare che non era una inevitabile conseguenza dei tafferugli?” Poi la drammatica serata di domenica: “Io e i miei compagni siamo stati chiusi nella palazzina fino alle 24, sempre seduti per terra, senza mangiare e senza bere. Ci hanno fatto andare una volta sola in bagno. Ci hanno divisi in gruppi, ognuno aveva la sua destinazione che non veniva comunicata. Io e i miei compagni non siamo stati visitati da nessun medico prima della partenza. Tutti i detenuti hanno tenuto le manette per il viaggio”. Va detto che Slim Agrebi non è morto ad Alessandria ma a Modena. Il detenuto di cui parla è da identificare. Modena. “Carcere, ora più attenzione dalla procura” di Giulia Beneventi Il Resto del Carlino, 15 luglio 2021 Sebastiani, avvocato del detenuto che ha denunciato torture al Sant’Anna: “Fatti gravissimi”. Antigone: “Vogliamo tutta la verità”. Ora che un altro fascicolo sul carcere di Sant’Anna è stato aperto “confidiamo sul fatto che ci sarà massima attenzione da parte della Procura”, ancora di più “dopo le immagini che abbiamo visto a Santa Maria Capua Vetere”. A parlare è Luca Sebastiani, avvocato difensore di un detenuto del carcere modenese che ha presentato un esposto a febbraio, denunciando di aver subito torture fisiche all’interno della struttura. “L’ha depositato lui direttamente - riferisce sempre l’avvocato - e in quell’occasione mi ha conferito mandato difensivo”. Il detenuto ha raccontato di essere stato pestato dalla polizia penitenziaria e di aver assistito a sua volta a pestaggi di altri carcerati. “I fatti denunciati sono gravi, così come le lesioni certificate e riportate dal mio assistito” continua Sebastiani, che non intende però sbilanciarsi oltre - anche perché non è tutt’ora chiaro a che punto siano le indagini. Quel che è certo è che questo secondo fascicolo può cambiare la prospettiva sui fatti di marzo 2020. Era l’8 marzo, la pandemia aveva appena iniziato a riverberare i suoi effetti sulla popolazione. Fu questa la miccia che fece accendere la rivolta, le tensioni legate alla diffusione del virus. Nove persone persero la vita ma le indagini interessarono otto decessi (uno avvenne in un secondo momento, quando il detenuto era già stato trasferito ad Ascoli Piceno). Tutti morti per overdose di farmaci, dopo aver preso possesso dell’infermeria durante i disordini: così si chiuse l’inchiesta. Un esito che ha scatenato il dissenso dell’associazione Antigone, istituita nel corso dell’ultimo anno dai familiari dei carcerati, nonché dei legali delle vittime e dal garante dei detenuti. Secondo loro quel giorno, tra le mura di Sant’Anna, deve essere successo ben di peggio. “Questo secondo fascicolo prova che non si sa tutto di quell’8 marzo - dice Alice Miglioli, portavoce di Antigone -. Conferma anche tutte le testimonianze raccolte nell’ultimo anno. Se poi dovesse portare a una riapertura delle indagini sui decessi avvenuti nella rivolta, sarà solo il tempo a dimostrarlo”. Senza dubbio, considera sempre Miglioli, “alcune cose emerse di recente assumono più risonanza, prima tra tutte la valutazione del medico legale su alcune autopsie, a suo parere, svolte in modo frettoloso e superficiale”. “Nel caso specifico è importante capire cosa si vede dalle telecamere - valuta invece Simona Filippi, legale rappresentante dell’associazione -. Negli atti da noi visionati in passato, vengono fatti dei riferimenti alle registrazioni video. Riconoscere che esiste concretamente un clima di tensione e violenza, metterebbe i fatti di marzo 2020 sotto tutt’altra luce”. In quanto accaduto poi a Santa Maria, dove ieri si sono recati anche il premier Draghi e il ministro Cartabia, c’è una differenza. “Un elemento importante - spiega - ossia che a Santa Maria la polizia è intervenuta il giorno dopo, a Modena l’eventuale azione di violenza è stata in concomitanza rispetto alla rivolta, che per altro è stata più articolata. Senza dubbio poi l’approccio della procura è stato del tutto sbagliato”. Roma. Una casa per il reinserimento dei detenuti: consegnate le chiavi quotidiano.net, 15 luglio 2021 L’appartamento pronto accogliere i primi ospiti è il secondo co-housing capitolino per sostenere persone detenute ed ex detenute nel percorso di reinserimento sociale. Il nuovo appartamento in co-housing di Roma Capitale per sostenere persone detenute ed ex detenute nel percorso di reinserimento è pronto ad accogliere i primi ospiti. Oggi 14 luglio la consegna delle chiavi. É il secondo appartamento in condivisione realizzato allo scopo. Entrambi i servizi sono ospitati in immobili di proprietà dell’Asp Asilo Savoia in zona San Giovanni, con cui l’Amministrazione capitolina ha firmato un accordo, in totale potranno ospitare 10 persone. Il progetto punta a offrire un supporto concreto nella fase di reinserimento, partendo dalla cura da parte di ciascun ospite dell’appartamento condiviso e attivando parallele azioni di affiancamento, servizi socio assistenziali e orientamento professionale e lavorativo, con l’obiettivo di sostenere le persone lungo il percorso verso l’autonomia. “Aprire nuovi servizi per contribuire al positivo reinserimento delle persone è un atto concreto per migliorare la capacità di accogliere e sostenere il tessuto sociale da parte della nostra Comunità. Abbiamo messo in campo questi progetti per offrire agli ospiti di questi co-housing un percorso personalizzato, con il sostegno e l’orientamento necessari, al fine di aiutarli nel recupero della piena autonomia”, dichiara la sindaca di Roma, Virginia Raggi. “L’impegno per avviare sempre più servizi improntati sul modello dell’appartamento condiviso è stato massimo e oggi raccogliamo i frutti di un attento e serio lavoro di pianificazione. Favorire le reti di collaborazione con le realtà presenti sul nostro territorio è un obiettivo strategico fondamentale che abbiamo perseguito come Amministrazione, rafforzando i servizi presenti attraverso l’incontro e la collaborazione di diverse professionalità ed esperienze, unendo così le forze con l’obiettivo comune di sostenere le persone in condizioni di fragilità verso l’autonomia”, dichiara l’assessora alla Persona, Scuola e Comunità Solidale di Roma Capitale Veronica Mammì. “Oggi, con l’inaugurazione del secondo appartamento in co-housing per il supporto alle persone detenute ed ex detenute, l’Asp Asilo Savoia e Roma Capitale continuano il loro impegno nella costante valorizzazione della Persona. Proprio attraverso progetti come questo si sostengono con solerzia tutti coloro che si trovano in condizioni svantaggiate, cercando in modo attivo di ridurre la marginalità sociale e fornendo a queste persone la possibilità di rimettersi in gioco e ripartire in modo diverso, facendo tesoro delle esperienze passate e guardando al futuro con maggiore fiducia”, dichiara la vice presidente dell’Asp Asilo Savoia Emanuela D’Imperio. “Servizi importanti che vanno nella direzione dell’accoglienza e dell’accompagnamento. Antidoti concreti alla recidiva”, dichiara la garante dei diritti delle persone private della libertà personale di Roma Capitale Gabriella Stramaccioni. Catania. La Casa di accoglienza Livatino, un’opportunità per chi è uscito dal carcere di Marco Pappalardo Avvenire, 15 luglio 2021 È nata una struttura per offrire una soluzione abitativa a detenuti che usufruiscono di misure alternative alla carcerazione e a quelli da poco scarcerati e che devono ripartire. Tra i tanti modi per ricordare Rosario Livatino nell’anno della beatificazione, significativa è la nascita della “Casa di accoglienza Livatino” a Motta Sant’Anastasia, in provincia di Catania. Una struttura che intende offrire una soluzione abitativa a detenuti fruitori di misure alternative alla carcerazione e a neo-dimessi, ovvero ex detenuti che hanno estinto la pena, nella prospettiva di favorire il recupero e il reinserimento sociale di chi sta scontando una pena o l’ha già estinta e si trova senza dimora. Dalla biografia del beato giudice sappiamo quanto fosse di grande umanità nei confronti degli imputati e dei condannati, ma nel suo caso è il Vangelo a “imporlo” a partire dalle parole stesse di Gesù “ero carcerato e siete venuti a trovarmi”. Oggi tutto ciò ispira l’azione dell’arcidiocesi di Catania e della Fondazione Francesco Ventorino, in un tempo difficile alla luce dei tristi fatti di cronaca legate alle carceri, trasformandosi in un segno di carità e di speranza, voluto fortemente da monsignor Salvatore Gristina. L’iniziativa si colloca all’interno di una presenza nella casa circondariale di Piazza Lanza, nel capoluogo etneo, di un cospicuo gruppo di laici volontari, formalmente costituitisi nella fondazione che porta il nome di un cappellano appassionato, morto nel 2015. Tale impegno presenta forme molto articolate come laboratori, cineforum e colloqui individuali, attività di supporto nelle relazioni con le famiglie, con gli avvocati, con enti esterni. E poi? Una volta scontati gli anni comminati dalla giustizia o all’interno di una pena alternativa alla detenzione? Il bisogno alloggiativo riguarda, infatti, non solo potenziali fruitori di misure alternative alla detenzione, ma anche i “neo dimessi”; inutile sottolineare quanto l’assenza di un domicilio ostacoli e ritardi il processo di reinserimento anche per chi ha estinto il proprio debito con la giustizia. Ora c’è dunque un’opportunità in più, la casa di accoglienza che si trova in un immobile della diocesi, che intende offrire i seguenti servizi, programmati e realizzati da personale qualificato: alloggio e vitto, interventi di sostegno e sviluppo delle capacità di autonomia e autogestione, accompagnamento ai servizi territoriali, attività ricreative, mediazione culturale, orientamento e informazione legale, formazione e/o riqualificazione professionale, sostegno psicologico. Il servizio si svolgerà in sinergia con gli enti che il territorio mette a disposizione a favore dei soggetti più svantaggiati. Roma. Dall’arte della panificazione un nuovo inizio per i detenuti romah24.com, 15 luglio 2021 L’antica arte della panificazione come occasione per ricominciare da zero. Parte il 15 luglio “Cookery Rebibbia”, il bar tavola calda sorto all’esterno delle mura carcerarie per permettere ai detenuti della Casa Circondariale Terza Rebibbia la vendita al pubblico dei prodotti di panificazione e gastronomia realizzati. Al centro dell’iniziativa c’è il progetto d’inclusione sociale “Ricomincio da 3?, che nasce per aiutare i detenuti a rimettersi in gioco puntando sui propri punti di forza: abilità personali, impegno, creatività e, soprattutto, disponibilità al cambiamento. Un’occasione resa possibile grazie alla collaborazione tra la Direzione penitenziaria e il Gruppo CR Spa che opera nel settore della grande distribuzione. In virtù di questa sinergia, il primo dicembre dello scorso anno è stato riattivato l’opificio e sono stati selezionati sette detenuti di cui due in regime di semi-libertà, che sono stati avviati all’attività di fornai. L’iniziativa nata già nel 2013, ma arenatasi a causa di problematiche relative alla vecchia gestione, ha avuto il suo iniziale avvio grazie al sostegno del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e al contributo di Cassa Ammende e di imprenditori nazionali come Farchioni Olii Spa. Grazie alla caparbietà della direttrice del carcere, Annamaria Trapazzo, e alla sensibilità di Edoardo Ribeca, giovane imprenditore del settore, il progetto rinasce oggi con un nuovo slancio. Dopo l’avvio di una lunga procedura selettiva, è stata così individuata Cookery Srl, del Gruppo CR Spa, che opera da più di 30 anni nel settore della grande distribuzione al dettaglio nella Regione Lazio. Tutte le lavorazioni, compreso il pane prodotto all’interno della Casa Circondariale Terza di Rebibbia, vengono distribuite quotidianamente negli 11 punti vendita del Gruppo CR Spa, riscontrando un notevole successo tra i consumatori. È stato, inoltre, attivato il ritiro dell’invenduto da parte della Croce rossa, da redistribuire poi a famiglie bisognose e persone in difficoltà. A fine dell’anno, 1% al lordo iva dei prodotti venduti nel negozio, saranno poi devoluti alla popolazione detenuta della Terza Casa Circondariale. Non sappiamo più educare i giovani (solo compiacerli) di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 15 luglio 2021 È vano immaginare che il rimedio al fallimento possa essere una frigida pedagogia ad hoc sotto forma ad esempio dell’appena decretata introduzione dell’”educazione civica”. Più insopportabile di ciò che i giovani spesso fanno è la retorica che sui giovani si fa. Quella retorica, ad esempio, che a commento della recentissima decisione di estendere ai diciottenni il diritto di voto per il Senato ha fatto titolare a qualche giornale “Da oggi i giovani contano di più”. Come se dopo la medesima estensione del diritto di voto per la Camera mezzo secolo fa qualcuno si fosse mai accorto che i suddetti giovani avessero cominciato a “contare di più”. Si pensa con questa retorica di risultare loro simpatici, di ingraziarseli. Ingraziarsi i giovani è divenuta infatti da decenni la parola d’ordine di un Occidente sempre più vecchio e sempre più preso dalla paura di esserlo. Compiacere i giovani è divenuto così il primo comandamento di chiunque intenda apparire al passo dei tempi e magari giovane anche lui: dal ministro dell’Istruzione al sindaco dell’ultimo borgo d’Italia che si farebbe impalare pur di non chiudere una discoteca da diecimila decibel. Ma i giovani non dovrebbero essere adulati. Adularli, compiacerli, è il modo più sicuro per rovinarli: perché così li si rinchiude nell’informe in cui essi ancora consistono e dal quale invece devono essere aiutati a uscire, “e-ducati” (condotti fuori: ah la folgorante perspicuità della lingua latina!). Per l’appunto l’educazione non l’incensamento è il vero diritto che i giovani possono, e devono, accampare nei confronti della società. Disgraziatamente è proprio ciò che le nostre società, a cominciare dalle famiglie, non riescono più a fare. Non sappiamo educare le nuove generazioni, dare loro una misura e un retroterra, e quindi un orizzonte di senso per l’oggi e per il domani; riempire di un contenuto positivo di attesa e di speranza gli anni d’apprendistato che esse vivono. Incapaci ormai di fare qualcosa del genere abbiamo creato uno spaventoso vuoto educativo. Ed è per l’appunto su questo fronte che anche la scuola italiana registra il suo fallimento più visibile. Come dimostrano ogni giorno le cronache delle multiformi imprese di tante masse giovanili - con la loro insubordinazione distruttiva ma insieme con il loro evidente carico di disperazione - anche la scuola non riesce a dare ai propri allievi quella minima maturità e padronanza di sé, quella consapevolezza degli obblighi della convivenza sociale che sarebbero necessarie. Ma è vano immaginare che il rimedio a tale fallimento possa essere una frigida pedagogia ad hoc sotto forma ad esempio dell’appena decretata introduzione dell’”educazione civica”, una nuova pseudomateria in condominio tra tutte le altre materie. È vano immaginare che conoscere i diritti del cittadino, essere ammaestrati al rispetto della legge o circa le competenze delle Regioni possa davvero educare. Cioè formare una coscienza, introiettare un limite, plasmare un carattere, sapere che cosa è bene e che cosa è male. Una scuola che coltiva una simile illusione, che crede che la chiave dell’educazione sia l’insegnamento di “democrazia” è una scuola che in realtà ha smarrito il senso della propria natura e con essa la propria anima. Che rimane una sola: l’istruzione. La scuola è nata per istruire e dalla convinzione che l’istruzione in quanto tale abbia un potere educativo, che essa in quanto tale incivilisce. Solo gli sciocchi o i demagoghi, infatti, credono che l’istruzione consista nell’assimilare un insieme di nozioni e basta. È invece tutt’altro. Istruirsi, in realtà, vuol dire attraverso le nozioni appropriarsi di un retaggio. Vuol dire cioè stabilire un legame con quanto è stato pensato, conosciuto, scritto e fatto d’importante prima di noi e quindi farlo nostro. Vuol dire venire a contatto con i mille modi in cui si è presentato nel mondo l’umano e più o meno consapevolmente misurarci con esso, con esso alimentare la nostra riflessione su noi stessi far crescere la nostra personalità, costruire il nostro immaginario e, per usare un’espressione ormai inconsueta, il nostro mondo morale. È in questo modo che l’appropriazione di un retaggio diviene la costruzione di un’identità. La nostra. E che di conseguenza riusciamo a non esistere più come fuscelli insignificanti gettati nel mondo, bisognosi per sentirci vivere di ubriacarci in una movida o di fare a botte per un nonnulla. Istruzione, infine, vuol dire essere accompagnati nell’impresa che ho appena detto da un maestro (ogni insegnante deve sforzarsi di esserlo). Vuol dire cioè apprendere dall’esperienza viva che cosa può significare per noi un essere umano in carne e ossa - non la fantasmatica immagine sullo schermo di un computer - con il quale entrare in un contatto personale e diretto. Vuol dire sperimentare quale esempio di passione, di conoscenza e di verità la sua istruzione significhi per lui ed egli possa trasmetterci. Di tutto questo è fatta l’educazione che l’istruzione - e solo l’istruzione - è in grado di trasmetterci. È Leopardi, sono la storia e la matematica che insegnano ad essere cittadini di una patria libera e a rispettare gli altri, non l’educazione civica. Ma perché allora pensiamo di ricorrere a un misero (e del tutto vano) succedaneo com’è per l’appunto la suddetta “educazione civica”? La risposta è semplice. Perché l’istruzione di cui fin qui ho parlato, che ha le sue radici nel passato (è il caso ad esempio dell’insieme delle materie cosiddette umanistiche) e non se ne vergogna, non è più da tempo quella che impartisce la nostra scuola. La quale, invece di opporsi all’ideologia sociale dominante fondata per intero sulla delegittimazione del passato, sull’attacco a tutti i suoi valori, sul discredito di ogni tradizione, accredita l’idea che nella scuola stessa ciò che davvero conta - e deve contare! - siano ormai solo le “competenze”, gli human skills, il “mondo del lavoro”, l’”inclusività”, l’”educazione digitale” e sopra ogni altra cosa sempre e comunque una visione del mondo, una formulazione di qualunque cosa, di tipo formalistico, quantitativizzante e psico-scientista. Il tutto, come è ovvio, per l’entusiastico impulso di burocrazie senza principi e di ministri dell’istruzione di nessun peso mossi solo dallo spasmodico desiderio di far parlare bene di sé i giornali dell’indomani. Migranti. Accordi con la Libia, passa la linea di Letta: missioni affidate all’Ue di Luca Monticelli La Stampa, 15 luglio 2021 Sì all’emendamento Pd sulla Guardia costiera di Tripoli. Di Maio: “L’Italia in prima linea per la tutela dei migranti”. Dopo un lungo braccio di ferro il governo accoglie la proposta del Pd di affidare all’Europa gli accordi per l’addestramento e la cooperazione con la Guardia costiera libica. Ieri sera le commissioni Esteri e Difesa della Camera hanno approvato l’emendamento firmato dai deputati dem Enrico Borghi e Lia Quartapelle. L’esecutivo, nell’ultima riformulazione del testo, si è impegnato a verificare dalla prossima programmazione, all’inizio del 2022, le condizioni per il superamento dell’attività di assistenza alla Guardia costiera libica, trasferendone le funzioni ad altre operazioni. Esultano dal Nazareno per il risultato raggiunto: “Grazie alla determinazione del Pd si pongono le condizioni per un impegno più forte della missione europea Irini a guida italiana per la formazione e l’addestramento delle unità navali preposte al controllo dei confini marittimi”. Tutti contenti o quasi, perché dentro il Partito democratico diversi parlamentari volevano lo stop della missione a causa dei crimini di cui si sono macchiate le autorità di Tripoli e il mancato rispetto dei diritti umani. L’ex presidente dem Matteo Orfini e Laura Boldrini hanno già annunciato che oggi in aula voteranno contro la risoluzione nella parte che riguarda la Libia. Deluse le Ong, le associazioni, i radicali e la sinistra che ieri sono scese in piazza Montecitorio per dire basta alle intese con le autorità libiche. Il Pd porta a casa un’iniziativa sulla quale si è speso in prima persona il segretario Enrico Letta, ma la rottura con l’esecutivo è stata a un passo. Il sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova aveva inizialmente bocciato l’emendamento a prima firma Borghi e Quartapelle, proponendo una riscrittura che aveva mandato su tutte le furie lo stesso Borghi: “Non si può subordinare la nostra proposta a una serie di questioni internazionali - diceva ieri pomeriggio il deputato - spero che ci si renda conto che il Pd non è qui di passaggio ma è una forza di governo, questo atteggiamento burocratico nei nostri confronti non si capisce”. Dallo staff del segretario si chiedeva “un impegno preciso e chiaro” e non “un annacquamento” del provvedimento. Da Bruxelles si apprende la notizia con un po’ di scetticismo perché l’addestramento della Guardia costiera libica rientra già nel mandato dell’operazione europea Irini, ma da più di un anno, in sostanza da quando la missione è partita, non è mai stato messo in pratica a causa delle resistenze di Tripoli. Lo stallo è dovuto anche alla presenza sul campo della Turchia. Prima delle elezioni di fine anno in Libia sarà difficile trovare un’intesa tra tutte le parti in gioco. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, rispondendo a un’interrogazione durante il question time a Montecitorio, sostiene che “il governo non ha disposto e non disporrà finanziamenti a favore della Guardia costiera libica. Tutte le nostre iniziative di supporto in materia migratoria - assicura - si ispirano al principio della tutela delle condizioni dei migranti e dei rifugiati nel Paese”. Il capo della Farnesina aggiunge che “l’Italia continuerà a dialogare con le autorità libiche “per garantire maggiore protezione ai più vulnerabili e favorire il progressivo superamento dei centri di detenzione”. Il mare continua a inghiottire senza sosta i corpi e le speranze di chi affronta le sue pericolose rotte, nel disperato tentativo di raggiungere una nuova vita in Europa. Secondo i numeri diffusi dall’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, nei primi sei mesi del 2021 sono 1.146 i migranti partiti senza mai arrivare, una cifra più che raddoppiata rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Nel Mediterraneo centrale, oltre a incontrare la morte, si rischia di essere intercettati e riportati in Libia (a giugno è successo a 15 mila persone, il triplo rispetto al primo semestre 2020), dove chi torna, denuncia l’agenzia dell’Onu, è soggetto a “detenzioni arbitrarie, estorsioni, sparizioni e atti di tortura”. Migranti. Le Ong a Roma contro il rifinanziamento libico di Giansandro Merli Il Manifesto, 15 luglio 2021 L’applauso più forte è per chi la Libia l’ha vista. “Raccoglievo pietre nel deserto che poi venivano usate per costruire edifici. Sono stato in prigione: mi picchiavano ogni giorno e mi facevano telefonare a casa per chiedere soldi - racconta Basquiat, del movimento rifugiati di Caserta - Se il governo italiano crede nei diritti umani metta fine a questi accordi”. Il ragazzo parla dopo il minuto in cui i manifestanti riuniti in piazza Montecitorio si schierano in file parallele di fronte al parlamento, si bendano gli occhi e rimangono muti. “Questo minuto di silenzio è per chi ha perso la vita in mare o nei centri di detenzione, ma anche per ricordare la codardia di chi domani voterà il rifinanziamento della missione”, dice Giovanna Cavallo, del Forum per cambiare l’ordine delle cose. È una delle realtà promotrici di un appello a mobilitarsi sottoscritto da un centinaio di organizzazioni. In piazza si vedono grandi Ong e piccoli collettivi, parlamentari dissidenti, migranti, attivisti, volontari. Ci sono le bandiere di Emergency e Amnesty International, le “mani rosse antirazziste” e le magliette di chi solca il Mediterraneo a bordo delle navi umanitarie: Medici senza frontiere (Msf), Open Arms, Mediterranea, Sea-Watch, Sos Mediterranée. Sventolano i cartelli “Abolish Frontex” e “Niente accordi con la Libia”. Da queste parti la proposta del segretario del Partito Democratico Enrico Letta di trasferire l’addestramento dei libici all’Unione Europea non piace, tantomeno convince la possibilità di astensione del centro-sinistra che circola nel tardo pomeriggio. “Ci aspettavamo che il Pd desse seguito all’impegno che aveva preso su questa vicenda e segnasse una discontinuità coraggiosa”, dice Filippo Miraglia dell’Arci. “Il problema non è quale soggetto ne addestra un altro a compiere reati, ma che non bisogna farlo. I libici catturano i migranti, li rinchiudono nei centri, utilizzano violenza. E tutto questo è illegale”, afferma Claudia Lodesani, presidente di Msf Italia. Il punto di vista di questa Ong è particolarmente interessante perché ha operatori sull’isola di Lampedusa, sulla nave Geo Barents nel Mediterraneo centrale (ora bloccata), in Libia e nei paesi di transito e origine dei migranti. Recentemente ha deciso di chiudere l’intervento in tre centri libici. “I livelli di violenza non erano più tollerabili. Il nostro unico obiettivo, con Unhcr e altre organizzazioni, è evacuare le persone. Nell’ultimo anno la situazione è peggiorata”, spiega Lodesani. Eppure proprio un anno fa la maggioranza che allora sosteneva il secondo governo Conte si era fatta vanto dell’impegno, approvato insieme al rifinanziamento, di far garantire il rispetto dei diritti umani da parte della sedicente “guardia costiera libica” e poi nei luoghi di reclusione. “È stato tutto detto ed è stato tutto visto. L’inferno che si patisce nei campi è ormai risaputo”, dice Riccardo Magi (+Europa). Insieme al senatore del gruppo misto Gregorio De Falco insiste sulle recenti rivelazioni, o “confessioni”, del ministro della difesa Lorenzo Guerini a proposito del ruolo proattivo che la nave della marina militare italiana di stanza nel porto di Tripoli gioca nelle intercettazioni dei migranti. “Stiamo autorizzando missioni che prevedono una nostra funzione operativa per azioni illegali dal punto di vista del diritto internazionale”, dicono. “Abbiamo sostenuto chi spara sui migranti e sui pescatori italiani. È necessario rivedere il finanziamento. Il parlamento, invece, sembra andare in automatico”, sottolinea la deputata Pd Laura Boldrini. “Questa missione va semplicemente cancellata perché è contraria alla cultura migliore di questo paese, alla dignità politica del parlamento e al contenuto della Costituzione. È ora di mettere fine alla gestione emergenziale di un fenomeno strutturale come le migrazioni”, afferma il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni. Migranti. Il governo non sia complice delle loro sofferenze di Ascanio Celestini Il Manifesto, 15 luglio 2021 Questo è l’intervento che Ascanio Celestini ha letto ieri in Piazza Monteciorio alla manifestazione “Libia, una benda per non vedere?” promossa da 100 organizzazioni contro il rinnovo delle missioni all’estero e il ri-finanziamento della “guardia costiera” libica. “Il giorno in cui io ho giurato di rispettare la Costituzione era il 25 maggio. Mi sono insediata e la mattina stessa hanno già ripescato il primo cadavere. La mia storia di sindaco è iniziata così”. Faccio interviste da venticinque anni. Ho un archivio di voci lungo parecchie ore. Così vado a ripescare questa del 2 ottobre 2014 fatta a Lampedusa con Giusi Nicolini, sindaca da 16 mesi. Precisamente l’anno prima stavo con lei nella stessa stanza e mi raccontava della difficoltà di amministrare un comune con seimila abitanti sul quale pesa una quotidiana tragedia fatta di donne e uomini di tutte le età che scappano per salvarsi la vita. Scappano come inquilini di un condominio in fiamme che saltano dalla finestra. Si lanciano verso la morte. Anzi sono certi di subire violenze di ogni tipo che li porteranno anche a pregare Dio di farli morire, ma non hanno alternative. Avevo pure letto una sua lettera pubblica nella quale chiedeva “quanto deve essere grande il cimitero della mia isola?” E un anno prima mi parlava proprio delle parole che aveva scritto. “11 persone, tra cui 8 giovanissime donne e due ragazzini di 11 e 13 anni, possano morire tutti insieme, come sabato scorso, durante un viaggio che avrebbe dovuto essere per loro l’inizio di una nuova vita”. Giusi mi parlava della difficoltà di collocare quegli undici corpi perché in un’isola di seimila abitanti non muoiono mai undici persone tutte nello stesso giorno. Me lo diceva mentre prendevamo il caffè pensando a una tragedia che poteva ripetersi uguale. E invece poche ore dopo ce la siamo ritrovata davanti agli occhi trentatrè volte più grande. Il 3 ottobre del 2013 morirono almeno 368 migranti. Un anno dopo nell’intervista continua ripensando alle aspettative che aveva al momento del suo insediamento dicendo che “ti chiamano e ti dicono: stiamo portando un cadavere sulla banchina. Nel momento in cui ti chiamano… è tuo e ci devi pensare tu. Il primo giorno io stavo pensando al fatto che giuravo, mi insediavo da sindaco, iniziavo la mia esperienza in questo ruolo difficile, complicato, ma ero anche carica di grande entusiasmo, no? Il mio progetto per Lampedusa era un progetto …ed è un progetto di vita, di futuro. Quel primo cadavere che mi portarono… mi misero di fronte a questa grande verità, no? Noi abbiamo questo grande slancio verso il futuro… e anche loro muoiono per il loro slancio, per la loro voglia di futuro e di vita. E mi sono resa conto che il mio programma di futuro non poteva prescindere da… dalla morte, che invece è la fine della vita e del futuro. Che è un po’ la grande verità di quest’isola. Un’isola che ha grandissime potenzialità, ha una natura meravigliosa. Viene attraversata dalle balene, dai delfini, dalle tartarughe, dagli uccelli che migrano dall’Africa verso l’Europa… chi viene qui in vacanza fa un’esperienza fantastica. I bambini qui nascono, crescono e… è la grande contraddizione che questa isola vive e vuole superare. Ed è la grande contraddizione del nostro tempo, del nostro mondo, dell’umanità. E non è pensabile che nella nostra quotidianità debba entrare una tragedia che non è causata da calamità naturali. Si muore per le malattie, si muore perché si deve morire, ma morire in questo modo è una cosa insopportabile”. In fondo cosa chiediamo oggi in piazza? Chiediamo la fine di tutte le guerre, di tutte le dittature e della fame nel mondo? Non possiamo permetterci di sperare pubblicamente nella felicità per tutti gli abitanti del pianeta. Non possiamo permetterci nemmeno di sperare che abbiano tutti una casa, un libro, una carezza, un pezzo di pane e un bicchiere d’acqua. Questa utopia non ce la possiamo permettere. Noi oggi in questa piazza stiamo chiedendo di non alimentare più i carnefici che li imprigionano, le barche che li vanno a ripescare per riportarli nei lager. E chiediamo che le organizzazioni nate per salvare le loro vite non trovino tanti bastoni tra le ruote. Non stiamo chiedendo che il governo gli salvi la vita. Stiamo chiedendo che il governo non sia complice. Stiamo chiedendo che la loro morte non sia insopportabile. Libia. La denuncia di Amnesty: “Il vergognoso ruolo dell’Europa nei ritorni forzati” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 15 luglio 2021 L’Ong ha raccolto 53 testimonianze tra i migranti riportati in Libia e rinchiusi che documentano violazioni dei diritti umani. Guardiacoste libici che fanno capovolgere deliberatamente un gommone e poi filmano la scena anziché soccorrere le persone finite in mare. O che sparano o danneggiano le imbarcazioni che inseguono facendo annegare i migranti, mentre navi che incrociano nei paraggi fanno finta di non vedere. I guardiacoste libici che fanno capovolgere deliberatamente un gommone e poi filmano la scena anziché soccorrere le persone finite in mare. O che sparano o danneggiano le imbarcazioni che inseguono facendo annegare i migranti, mentre navi che incrociano nei paraggi fanno finta di non vedere e proseguono, così come gli aerei che sorvolano il Mediterraneo che solo nei primi sei mesi del 2021 ha inghiottito più di 700 persone mentre 15.000 sono quelle riportate indietro dalla Guardia costiera libica. Viaggio di andata e ritorno all’inferno. Ed è proprio tra i sopravvissuti riportati in Libia e nuovamente rinchiusi nei centri di detenzione che Amnesty Intenational ha raccolto 53 testimonianze che danno vita al nuovo rapporto sulla Libia che documenta quello che Amnesty definisce “Orribili violazioni dei diritti umani nei centri di detenzione e il vergognoso ruolo dell’Europa nei ritorni forzati”. Nel dossier vengono fornite le prove di queste violazioni a cominciare dalle violenze sessuali su uomini, donne e bambini intercettati nel Mediterraneo e rinchiusi nei centri. Il rapporto rivela come, dalla fine del 2020, la Direzione per il contrasto all’immigrazione illegale del ministero dell’Interno “avrebbe legittimato le violazioni dei diritti umani integrando tra le strutture ufficiali due nuovi centri di detenzione dove negli anni scorsi le milizie hanno fatto scomparire centinaia di migranti. Persone sopravvissute a questi centri - denuncia Amnesty - raccontano che le guardie stuprano le donne e le obbligano ad avere rapporti sessuali in cambio di cibo e libertà”. Il rapporto contiene le storie di 53 migranti, 49 dei quali detenuti dopo essere stati intercettati in mare. Nella prima metà di quest’anno, nel centro di a-Mabani a Tripoli (prima diretto da una milizia e ora sotto il controllo del ministero dell’Interno) sono state portate oltre 7mila persone intercettate in mare e sono stati sottoposti a torture, condizioni di detenzione inumane, estorsioni e lavori forzati. Così come coloro che sono detenuti nel centro di Shara al Zawija a Tripoli. Qui a seguito delle violenze subite due giovani donne hanno tentato il suicidio e due bambini detenuti con le madri sono morti dopo che le guardie si sono rifiutate di trasferirli in ospedale. “Le autorità libiche - accusa Diana Eltahawy, vicedirettrice di Amnesty per il Medio Oriente e l’Africa del nord - hanno premiato i responsabili di queste violazioni dei diritti umani attraverso promozioni e assegnazione di posti di potere. Questo significa una cosa sola: che rischiamo di vedere gli stessi orrori replicarsi ancora”. Amnesty chiede all’Italia di sospendere la cooperazione con la Libia in tema di controllo dell’immigrazione e delle frontiere. Colombia. Senza Mario Paciolla e senza verità, è passato un anno di Gianpaolo Contestabile Il Manifesto, 15 luglio 2021 Il 15 luglio 2020 veniva ritrovato senza vita il corpo del giovane impegnato nella Missione Onu di verifica degli Accordi di pace. I dubbi sull’ipotesi suicidio restano. La famiglia insiste e non è sola nella sua battaglia. Un anno fa, il 15 luglio 2020, il lavoratore delle Nazioni unite Mario Paciolla perdeva la vita durante la Missione di verifica degli Accordi di pace in Colombia. Si trovava a San Vicente del Caguán, alle porte della foresta amazzonica, per contribuire all’implementazione dell’intesa firmata all’Avana nel 2016 dal governo colombiano e dall’organizzazione guerrigliera Farc-Ep. La Missione si occupa di monitorare il reintegro degli ex guerriglieri e l’applicazione del punto 3.4 degli Accordi, ovvero la garanzia di sicurezza per chi difende i diritti umani e la lotta contro le organizzazioni criminali. Mario Paciolla lavorava da diversi anni in Colombia e ne conosceva sia la storia che il territorio. A testimonianza della sua competenza ci sono gli articoli che ha scritto sotto lo pseudonimo di Astolfo Bergman per diverse riviste di geopolitica. Il suo impegno nella costruzione del processo di pace è stato ricordato più volte da entrambi i lati dell’oceano: da chi lavora nella cooperazione e da chi fa ricerca in università, dagli ex guerriglieri e da chi lotta per i diritti umani e l’autodeterminazione delle comunità indigene e contadine. Il presidente della Federazione nazionale della stampa italiana Giuseppe Giulietti ha espresso in diverse occasioni la sua vicinanza alla famiglia il suo impegno nel continuare a fare luce sulla vicenda giudiziaria. Nella comunità dove Mario è nato e cresciuto, la provincia di Napoli, la solidarietà ha creato ponti tra i diversi municipi che hanno aderito alla campagna “Giustizia per Mario Paciolla”. Striscioni solidali sono stati esposti a Casoria, Crispano, Caivano, Mugnano, Frattamaggiore, Sant’Anastasia, Giugliano, Massa di Somma, Pollena Trocchia, Cardito e nello stesso comune di Napoli. Intorno alla morte di Mario Paciolla sono sorte diverse polemiche e teorie contrastanti, alcune delle quali mettono in discussione la veridicità della versione fornita dalla polizia colombiana e dalle Nazioni unite, secondo le quali si è trattato di un suicidio. La famiglia Paciolla ha fin da subito messo in dubbio questa ipotesi, e la Procura di Roma ha aperto un’inchiesta che è tutt’ora in corso tra la Colombia e l’Italia. Le informazioni degli esami autoptici non sono ancora pubbliche così come non si hanno informazioni su eventuali inchieste interne portate avanti dalle Nazioni unite. Ai dubbi generati dalla discrezione dell’Onu, che ha liquidato la vicenda con un minuto di silenzio dopo l’accaduto, si è aggiunta l’inchiesta giornalistica dell’attivista colombiana Claudia Duque, che ha parlato di diatribe interne alla Missione suggerendo un collegamento tra la morte di Mario Paciolla e uno scandalo militare che coinvolge l’ex ministro degli interni colombiano. Nemmeno rispetto a questo filone di indagine sono arrivati aggiornamenti o smentite, mentre sono state messe in luce le inconsistenze di tale ricostruzione. Lo scorso 24 maggio, infine, durante l’audizione del Comitato per i diritti umani nel mondo sul tema Colombia, è stato chiesto di depositare un’interrogazione parlamentare per spingere il governo italiano a prendere posizione sul caso Paciolla e sulle violenze che si stanno perpetrando contro le persone che da mesi partecipano alle proteste in Colombia. L’ex deputata del Pd Giovanna Martelli ha chiesto inoltre un riesame del trattato di libero scambio tra Ue e Colombia alla luce delle violazioni dei diritti umani in corso nel paese latinoamericano. Dopo12 mesi non è stata fatta ancora chiarezza sulle dinamiche della morte di Mario mentre la società civile guidata dalla tenacia della famiglia Paciolla e dell’associazione di amici solidali continua a chiedere prese di posizione alle istituzioni. Questa sera, presso il convento di San Domenico Maggiore a Napoli, si terrà la commemorazione pubblica “Un anno senza Mario” durante la quale, scrivono gli organizzatori, “ricorderemo Mario e chiederemo insieme giustizia e verità”. Sabato 17 luglio, invece, in onore di Paciolla si terrà a Roma una manifestazione nazionale della rete Tejido Resiliente. La mobilitazione è stata lanciata dalla comunità colombiana in Italia, per chiedere la fine della violazione dei diritti umani e delle violenze perpetrate contro la popolazione civile che dal 28 aprile manifesta in Colombia contro il governo di Iván Duque. “Faremo una fiaccolata che partirà da Milano per fare luce sui massacri e gli omicidi dei nostri leader sociali - spiega Cristina Battista (Tejido Resiliente) -, chiederemo pace e giustizia sociale in Colombia e anche verità e giustizia per la morte di Mario Paciolla, quel ragazzo che giocava a basket nei parchi abbandonati della Colombia, dove ha creato una rete di relazioni che sono diventate la sua famiglia allargata. Una famiglia che oggi lo ricorda con tanto amore e tanto dolore”. Egitto. Patrick Zaki, altri 45 giorni di carcere preventivo. Lo studente interrogato per due ore di Marta Serafini Corriere della Sera, 15 luglio 2021 Rinnovata la custodia cautelare dello studente egiziano rinchiuso da oltre 500 giorni nella prigione di massima sicurezza di Tora. Amnesty: Roma convochi l’ambasciatore egiziano. Altri 45 giorni di detenzione preventiva. Continua la crudele prigionia nel carcere di Tora per Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università Alma Mater di Bologna arrestato nel febbraio dell’anno scorso per propaganda sovversiva su internet. A darne conferma è stata Lobna Darwish, una rappresentante dell’Ong “Eipr” (“l’Iniziativa egiziana per i diritti personali”) annunciando l’esito di un’udienza che si è svolta ieri. A niente dunque sembrano servire gli appelli della società civile italiana, del mondo accademico - in testa l’Università di Bologna di cui Patrick è studente - e l’iniziativa del Parlamento italiano che nei giorni scorsi ha approvato una mozione della Camera che impegna il governo ad attivarsi per la concessione della cittadinanza allo studente. La stessa mozione era già adottata in Senato. A Montecitorio la mozione pro-Zaki - che nel frattempo ha compiuto 30 anni in carcere - è stata approvata all’unanimità, con la sola astensione di Fratelli d’Italia. Un documento in cui si richiede al governo di “avviare tempestivamente mediante le competenti istituzioni le necessarie verifiche al fine di conferire a Patrick George Zaki la cittadinanza italiana”. E di “continuare a monitorare, con la presenza in aula della rappresentanza diplomatica italiana al Cairo, lo svolgimento delle udienze processuali a carico di Zaki e le sue condizioni di detenzione”, che Amnesty ha definito disumane. Ma fin qui il governo italiano non ha dato seguito all’iniziativa. “Mi chiedo se anche dopo il secondo voto del parlamento in favore di Patrick Zaki il Governo italiano continuerà a invitare alla cautela e al silenzio, oppure prenderà qualche iniziativa. Ad esempio, convocando l’ambasciatore d’Egitto in Italia per esprimere il proprio scontento”, ha commentato Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. “Ci sono volute 48 ore per conoscere un esito che purtroppo molti davamo per scontato, una sentenza ancora una volta crudele, che farà aumentare fino a oltre un anno e mezzo la detenzione senza processo e senza possibilità di difendersi”. Numerose le reazioni anche nel mondo politico. “Altri 45 giorni, come una goccia d’odio, provate a immaginare l’estate in quella cella. Lo dico anche al governo italiano che ha preso degli impegni che ancora stiamo aspettando. Non è possibile, non è possibile #FreePatrickZaki”, ha commentato su Twitter Filippo Sensi del Pd. “Ma cosa aspetta il governo italiano ad attribuire la Cittadinanza italiana a #Zaki? E a interrompere i traffici d’armi con il governo di un Paese che calpesta i diritti umani? La via del silenzio diplomatico è assolutamente fallimentare”, si chiede. l’eurodeputato Pierfrancesco Majorino su Twitter. “Stiamo assistendo a un processo farsa dove le udienze preliminari vengono continuamente rinviate di 45 giorni in 45 giorni. Dopo mesi di carcerazione preventiva in cui la magistratura egiziana non ha mostrato nessuna volontà di indagare, ma solo quella di punire e reprimere, Patrick Zaki è stato interrogato dagli inquirenti, per la prima volta dal febbraio 2020. Questa detenzione non è più tollerabile: è necessario un urgente intervento dell’Europa e delle organizzazioni internazionali per mettere maggiore pressione all’Egitto di Al Sisi e ottenere il rilascio di Zaki”, hanno commentato in una nota le deputate e i deputati del MoVimento 5 Stelle in commissione Esteri.