Il cambio di stagione di Lavinia Rivara La Repubblica, 14 luglio 2021 Il premier nel carcere dei pestaggi, addio alla stagione Conte-Bonafede. Una cosa è certa, Mario Draghi ha deciso di metterci la faccia, sulle carceri e più in generale sulla riforma della giustizia, di cui il sistema penitenziario è parte. La decisione del premier di recarsi oggi nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere, insieme alla Guardasigilli Marta Cartabia, rappresenta la volontà di rimarcare senza alcun margine di ambiguità, e con la massima ufficialità, la condanna degli abusi e dei pestaggi contro i detenuti avvenuti nell’aprile del 2020, anche per riscattare il Paese dal danno di immagine subìto a livello internazionale. E al tempo stesso è un modo per posizionare ancora una volta palazzo Chigi dalla parte dei diritti e della Costituzione, che quegli episodi di violenza hanno calpestato, come ha denunciato la stessa ministra. Ma la visita di oggi sarà probabilmente l’occasione per annunciare l’avvio di una riflessione anche sulla riforma del sistema carcerario, sempre afflitto da problemi di sovraffollamento. Un tema affrontato dal presidente del Consiglio già nel colloquio avuto con il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, dopo la diffusione dei video sulle violenze nell’istituto campano. Un incontro nel quale lo stesso Garante gli ha prospettato l’esigenza di “cambiamenti radicali”. Del resto la sensibilità del premier sul tema dei diritti civili era già emersa in diverse occasioni, dall’attacco al “dittatore” turco Recep Erdogan all’affondo contro l’ungherese Viktor Orbán e le leggi che discriminano le persone Lgtb, fino alla battaglia contro il divario salariale di genere. Ma da un punto di vista più strettamente politico non si può non notare che la svolta di Santa Maria Capua Vetere avviene a pochi giorni di distanza dal travagliato Consiglio dei ministri che ha dato il via libera alla proposta del governo sulla riforma della prescrizione, per la quale Draghi si è speso fino al punto di trattare direttamente con Beppe Grillo per superare le resistenze dei 5Stelle, resistenze per la verità rientrate solo temporaneamente in quella occasione, ma pronte a riesplodere. Due mosse che rappresentano un chiaro segnale di discontinuità rispetto al governo precedente e alla sua concezione del pianeta giustizia, dalle carceri ai processi. In altre parole una presa di distanza netta dalla linea Conte-Bonafede, dai suoi ideologismi e dai suoi inciampi. Non si può dimenticare che lo stesso ex ministro dei 5Stelle era stato costretto a sostituire a maggio 2020 il capo del Dap, Francesco Basentini, travolto dalla disastrosa gestione della pandemia nelle carceri e che gli stessi eventi accaduti a Santa Maria Capua Vetere furono, a dir poco, sottovalutati dall’allora Guardasigilli. Sono scelte forti quelle fatte dal presidente del Consiglio in tema di giustizia e chi si aspettava che su materie così politiche, su cui certo non si era esercitato nei suoi passati incarichi, avrebbe lasciato fare ai partiti, è rimasto deluso. Ora anzi si è autorizzati a scommettere che Draghi andrà fino in fondo sulla riforma del processo penale considerata, anche in Europa, un tassello fondamentale del Recovery plan. Lo conferma anche il fatto che ieri, incontrando il segretario del Pd Enrico Letta, si è voluto assicurare che il sostegno del Nazareno al testo Cartabia reggerà anche nelle prossime settimane, quando in Parlamento i nodi verranno al pettine, quando Giuseppe Conte darà battaglia per cambiare la riforma della ministra e difendere la legge Bonafede sulla prescrizione (e questa volta probabilmente Grillo se ne laverà le mani, lasciando al futuro presidente M5S una trattativa tutta in salita ma che non dovrà mettere in discussione la permanenza del Movimento in maggioranza). Di certo i dem garantiscono che non seguiranno l’alleato, semmai anzi potrebbero aiutare il premier a trovare la quadra, convincendo il suo predecessore a mediare. Certo il Parlamento è sovrano e Draghi sa che il testo del governo potrà essere modificato, ma solo se ci sarà un accordo. E se sarà lui a dare il via libera a quell’accordo. Il segnale di Draghi per una discontinuità sulle carceri di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 14 luglio 2021 Sul delicato dossier della riforma della giustizia ha incassato ieri l’appoggio di Letta. Un nuovo segnale sui diritti, questa volta quelli dei detenuti. Ecco come va letta innanzitutto la visita di Mario Draghi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, teatro il 6 aprile 2020 di un brutale pestaggio che oggi sarà condannato senza attenuanti dai vertici dell’attuale esecutivo. Una mossa diretta, per certi versi anche impegnativa perché densa di significati politici, che dovrebbe portare il premier a esporsi oggi stesso, rilanciando in qualche modo la prospettiva di una riforma organica del sistema carcerario. Ma si tratta anche di un atto simbolico, che segna una discontinuità rispetto alla gestione del precedente governo su dossier delicati come quello delle carceri e della giustizia, che tanto preoccupano l’Europa. Sono terreni minati. La riforma del sistema giudiziario, architrave del Pnrr, è già stata licenziata dal consiglio dei ministri pochi giorni fa nonostante le resistenze del Movimento e i molti dubbi di Forza Italia. Anche per favorire un percorso parlamentare sereno, Draghi ha ricevuto ieri Enrico Letta. Ha ottenuto rassicurazioni sul totale sostegno del Pd al testo. E ha concordato sulla possibilità che sia proprio il segretario dem a favorire (sia pure senza ingerenze) una mediazione con i grillini, facendo leva sull’ottimo rapporto che lega il leader dem a Giuseppe Conte. Anche perché, sostiene il premier, “approvare in tempi rapidi le riforme concordate con la commissione” è l’unico modo per portare a casa tutti i 191,5 miliardi del recovery. Un braccio di ferro, quello sulla giustizia, destinato comunque a sfogarsi in Parlamento, e che si incrocia con la futura stagione referendaria promossa dai Radicali e dalla Lega. In questo contesto, con più fronti già aperti, Draghi sceglie di muovere una pedina. Rompe il silenzio sulle violenze del carcere nel casertano. E si dissocia anche, di fatto, dalla gestione di quella fase da parte del precedente esecutivo, sotto la guida di Conte e Bonafede. Un atto simbolico, si diceva, che culminerà in un discorso in un atrio all’aperto della casa circondariale. Significa non poter tacere su fatti giudicati inaccettabili (in questo, distinguendosi nettamente anche da Matteo Salvini, che subito dopo i video si è schierato senza troppi distinguo con le guardie carcerarie). Nello stesso tempo, costruendo un messaggio equilibrato, in modo da circoscrivere gli eventi e delimitare le responsabilità, senza generalizzare, senza condannare un’intera categoria. Visitando il carcere, dunque, Draghi chiederà che incidenti del genere non si ripetano mai più. E spingerà sulla possibilità di una riforma organica del mondo carcerario. Non a caso, sarà accompagnato dalla ministra Cartabia, a rafforzare l’impegno in questa direzione. Nessuno può prevedere gli sviluppi dell’inchiesta che ha travolto il penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, né quanto la catena delle responsabilità salirà verso l’alto, né ancora le eventuali ripercussioni politiche della gestione ondivaga del sovraffollamento carcerario nelle prime drammatiche settimane di pandemia, quando fuochi di rivolta incendiarono le carceri di mezza Italia, lasciando sul campo diverse vittime e la repressione di Santa Maria Capua Vetere. Quel che è certo, adesso, è che dopo le misure cautelari che hanno fatto seguito alle violenze, il presidente del Consiglio e la sua Guardasigilli si espongono per mostrare al Paese e all’Europa che quei fatti sono intollerabili e che la strada del rinnovamento è necessaria e improcrastinabile. Non è rimasta inascoltata, d’altra parte, neanche la condanna europea delle lentezze nei processi civili del sistema italiano. Solo pochi giorni fa Bruxelles ha bocciato senza appello Roma, nel suo rapporto annuale sulla giustizia. E il tema resta centrale ai vertici dell’esecutivo. I diritti, si diceva. Giorno dopo giorno, diventa la nuova inaspettata frontiera politica del presidente del Consiglio. Cresciuto coltivando un curriculum economico significativo, capace di ergerlo fino alla guida della Banca d’Italia e poi alla Bce, Draghi ha deciso di connotarsi adesso - in modo sempre più marcato - anche su un terreno inedito. Lo ha fatto in Europa, in occasione del Consiglio europeo del 24 -25 giugno scorso, quando ha scelto lucidamente il frontale contro l’Ungheria di Viktor Orban, contestando la sua legge discriminatoria verso i diritti dell’universo Lgbt. Il premier si è ripetuto pochi giorni fa, nel pieno del caotico incastro politico sul ddl Zan. Non è intervenuto direttamente sul testo contro l’omofobia, perché ha necessità di preservare i delicatissimi equilibri della maggioranza. Ma ha dichiarato il suo impegno per i diritti delle donne lavoratrici. Adesso la tappa, ancora più politica, di Santa Maria Capua Vetere. Con Draghi e Cartabia si riafferma lo stato di diritto in carcere, dice Mauro Palma di Ruggiero Montenegro Il Foglio, 14 luglio 2021 “Le istituzioni sono presenti e quello di domani è un segnale importante. Non lo è solo per i detenuti e le vittime, ma anche per gli agenti. Per tutto il paese. Un modo per ribadire che il carcere è un luogo dove si rispetta la legge”. Mauro Palma, Garante nazionale dei detenuti, risponde al telefono dalla “Dozza”, la casa circondariale di Bologna, e commenta con il Foglio la visita che il premier e il ministro faranno domani al carcere di Santa Maria Capua Vetere, drammatico teatro di pestaggi gratuiti verso i detenuti nel corso di quella che doveva essere una perquisizione straordinaria. Le immagini però hanno mostrato un’altra storia, fatta di violenza e umiliazione. Per questo, “l’appuntamento di domani è una spinta alla ripartenza, una riaffermazione dello stato di diritto - ribadisce Palma -. Chiaramente non sarà una visita per approfondire, non sarà un’ispezione, ma sarà comunque significativo. Sarà un momento di rassicurazione per la collettività, una garanzia per tutti. È fondamentale che le istituzioni vadano a vedere e si prendano carico di queste situazioni”. Anche perché, una delle ultime volte in cui un Guardasigilli si è fatto riprendere con un detenuto, il ministro era Alfonso Bonafede. L’occasione era stata l’arresto di Cesare Battisti, con l’esibizione dell’ex terrorista, quasi fosse un trofeo, a favor di telecamera e di propaganda. Ora però i tempi sono cambiati. “È vero che in passato ci sono stati periodi in cui qualcuno ha usato il proprio ruolo cavalcando l’onda sociale, ma non ne farei una questione personalistica. Certamente Cartabia è una garanzia dei valori costituzionali e ora questi valori vengono riaffermati”, insiste il Garante. Ma non solo: “Questa visita riafferma anche la necessità di pene alternative e al tempo stesso la necessità che il carcere sia indissolubilmente legato alla Costituzione”. Dal punto di vista di Mauro Palma, da quelle drammatiche immagini dei pestaggi “emerge un desiderio di umiliare i detenuti, prima ancora che quello di menare. Ed è gravissimo. In questa vicenda - continua il Garante - ci sono almeno tre vittime: i detenuti, prima di tutto, chiaramente. Ma anche gli agenti per bene della stessa polizia penitenziaria. E poi la collettività, perché quel che se ne deduce è che abbiamo allentato il senso democratico. È una ferita per la democrazia, e si pensi anche all’immagine internazionale dell’Italia, proprio a 20 anni dalle violenze del G8 di Genova”. Come se ne esce allora? “Da questa vicenda così negativa bisogna trovare gli elementi che permettano un cambiamento”, risponde Palma, che sul punto è molto chiaro, invocando una svolta sostanziale: “Qui non si tratta di fare piccole modifiche, ma di cambiare del tutto paradigma: come rispondiamo a un reato e con quali mezzi? Le pene detentive devono essere solo una parte, e si dovrebbero usare solo in determinate situazioni, la realtà detentiva è molto cambiata negli ultimi anni”. Ci spieghi meglio. “È importante il ruolo della formazione: abbiamo molte detenzioni ‘sociali’, legate alle dipendenze per esempio, accanto a quelle ‘criminali’. E allora dobbiamo chiederci se il personale penitenziario sia in grado di cogliere queste differenze. Sono problemi diversi e richiedono risposte diverse. Quasi servirebbe una differenziazione dei compiti, rispetto al tipo di reati e ai detenuti”. L’ultima battuta è sui numeri identificativi per gli agenti, un tema tornato d’attualità proprio in seguito ai fatti di Santa Maria Capua Vetere. Anche su questo aspetto il Garante non ha molti dubbi: “Non poter procedere a definire le responsabilità perché non si può identificare - conclude - è una sconfitta dello stato. Un segnale di arretratezza del sistema democratico”. Occorre fare di più e in fretta, come ricorda la cronaca di questi giorni. L’inchiesta della Gabanelli sulle violenze in carcere: tanti errori e accuse gratuite di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 luglio 2021 Per la Gabanelli le violenze sarebbero legate alla sorveglianza dinamica, ma a Santa Maria Capua Vetere e in altre carceri era sospesa per il Covid. Per lei il sovraffollamento non c’entra, ma la Cedu consigliò celle aperte. Milena Gabanelli, sulle pagine del Corriere della Sera ha scritto una inchiesta sulle violenze in carcere. Quella commesse dai detenuti. In sostanza, partendo dai dati delle violenze e dei gesti di autolesionismo in aumento, associa tali eventi critici all’introduzione della sorveglianza dinamica. Il primo errore sulla sorveglianza dinamica - Parte dal fatto che nulla potrà mai giustificare la macelleria avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, ma una spiegazione va data. La colpa, secondo la Gabanelli, è dell’applicazione della sorveglianza dinamica. Si intravvede il primo grossolano errore. In quel periodo pandemico, tale sorveglianza era stata sospesa al carcere di Santa Maria Capua Vetere: quindi non c’entra nulla con il disagio tra detenuti e la reazione punitiva, a sangue freddo, da parte di un gruppo consistente di agenti. La Cedu indica l’apertura delle celle come compensativo al sovraffollamento - La Gabanelli dice che è sbagliato additare tutte le criticità, come l’aumento delle violenze, al sovraffollamento. Altro errore. C’entra eccome. Non è un caso che è stata la stessa Cedu nell’indicare l’apertura delle celle come elemento compensativo al sovraffollamento. Infatti, la sorveglianza dinamica prevede l’apertura delle celle per almeno 8 ore al giorno e fino a un massimo di 14, dando la possibilità ai detenuti di muoversi all’interno della propria sezione e auspicabilmente all’infuori di essa e di usufruire di spazi più ampi per le attività. Ciò produce anche un mutamento della modalità operativa in sezione della Polizia Penitenziaria: non è più chiamata ad attuare un controllo statico sulla popolazione detenuta, ma piuttosto un controllo incentrato sulla conoscenza e l’osservazione della persona detenuta. Un compito che non riduce la figura dell’agente penitenziario a mera custodia, ma diventa parte attiva del percorso trattamentale dei detenuti. Le accuse gratuite all’ex capo del Dap Santi Consolo - La Gabanelli accusa però l’ex capo del Dap Santi Consolo di avere esteso la sorveglianza dinamica a tutte le carceri, rendendola effettiva. Ebbene dice che i dati degli eventi critici (violenze, minacce, mancati rientri) sono aumentati a dismisura dopo l’introduzione. Non basta. Accusa Santi Consolo di non avergli dato peso. A questo punto facciamo un po’ di ordine. Dopo la sentenza Torregiani (Italia condannata per sovraffollamento che ha creato condizioni disumane e degradanti), nel 2013 è stato varato un decreto per assecondare i dettami della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Tra questi, la centralità del discorso trattamentale e, appunto, compensare il sovraffollamento delle celle con la loro apertura. La circolare di Consolo sulla sorveglianza dinamica del 2015 - Poi è arrivato il Dap di Consolo, predisponendo più precise specificazioni con la circolare n. 3663/6113 del 23 ottobre 2015, recante “Modalità di esecuzione della pena”. Questa viene emanata a distanza di circa due anni dalla prima, chiamando da un lato a una maggiore uniformità nell’organizzazione dei reparti detentivi nei diversi istituti, e dall’altro a una maggiore organizzazione di attività lavorative, di istruzione, ricreative, che favoriscano la permanenza dei detenuti e delle detenute fuori sezione. Una circolare doverosa, quindi. Non tutte le carceri si sono adeguate alla sorveglianza dinamica - Ma, come dice la Gabanelli, con la sorveglianza dinamica allargata per tutti gli istituti, si sono triplicate le violenze? Non è esattamente così. Non tutte le carceri si sono adeguate. I maggiori casi di violenze sono legati alla salute psichica - Le violenze e gesti autolesionistici, sicuramente aumentate con il tempo, non possono essere additate esclusivamente al discorso delle celle aperte. Non si può omettere che i maggiori casi di escandescenze da parte dei detenuti, è da ricercarsi nelle criticità legate alla salute psichica che sono nettamente in aumento. Ci aiutano i sindacati di polizia penitenziari stessi, grazie ai loro comunicati. La maggioranza dei casi di aggressioni e gesti autolesionistici sono dovuti non dalla “sorveglianza dinamica”, ma dalla patologia psichiatrica in aumento. I suicidi non hanno alcun nesso con la sorveglianza dinamica - E i suicidi? La Gabanelli inserisce anche questi dati. Ma è scorrettissimo il nesso con la “sorveglianza dinamica”. Anzi, è l’esatto contrario. Se il sovraffollamento si unisce con altri fattori, come il mancato rispetto della regola dei 3 metri quadrati per ogni soggetto, la chiusura totale delle celle ad esclusione delle ore d’aria e la mancanza pressoché totale di attività formative e lavorative, diventa il punto di partenza di una escalation di suicidi (pensiamo a coloro che si impiccano in isolamento) e di gesti autolesionistici. Il vero problema sono gli spazi adeguati alle attività - Detto questo, nessuno mette in dubbio che non basti tenere aperte le celle. Chiaro che in diversi casi si verificano situazione di sopraffazione tra detenuti. Uno dei problemi presentatesi alle varie amministrazioni con l’introduzione della sorveglianza dinamica è che, in assenza di spazi adeguati alle attività nonché in assenza delle attività stesse - che siano lavorative, di istruzione, ricreative - all’apertura delle celle abbia spesso corrisposto solo un permanere dei soggetti detenuti in sezione. Va certamente risolto. Ma se per reazione si dovesse ritornare indietro, a quel punto i suicidi e gesti di autolesionismo saranno incontenibili. La folle teoria della Gabanelli: nelle prigioni c’è troppa libertà, per questo aumenta la violenza di Tiziana Maiolo Il Riformista, 14 luglio 2021 Prima di parlare di carcere, cara Gabanelli, vada a parlare con il dottor Gian Carlo Caselli. E magari anche con l’ex detenuto Roberto Cannavò, lo trova al mercato di viale Papiniano, a Milano. Superficialità e ignoranza. Brutta cosa occuparsi delle cose che non si sanno. Orribile cosa se si gioca con la vita delle persone. Ieri (e l’altro ieri e l’altro ieri ancora) Travaglio, oggi Gabanelli. Nel momento in cui un faro di grandi dimensioni è acceso sulla vita nelle carceri e sulla violenza esplosa in quello di S. Maria Capua Vetere, ecco una nuova penna, intinta nel disprezzo per chiunque abbia assunto nel corso del tempo la veste di riformatore, affacciarsi addirittura sulle pagine del primo quotidiano italiano, il Corriere della sera di Urbano Cairo. “Con le celle aperte aumentano le violenze”. Un vero colpo giornalistico. Ecco di chi è la responsabilità se i detenuti salgono sui tetti, o anche se sfasciano suppellettili, e anche se poi qualche squadretta di agenti di polizia penitenziaria organizza e mette in atto azioni punitive. Chi sono i veri responsabili? Possiamo mettere in fila i colpevoli: la riforma del 1975, poi la Legge Gozzini, le sentenze della Cedu, la ministra Cartabia e poi una sfilza di giudici e capi del Dap. Parliamo di quel mondo di riformatori che va da Alessandro Margara a Santi Consolo fino ad arrivare a quei magistrati di sorveglianza che un anno fa, in piena epidemia da Covid, misero in guardia sui rischi che il contagio avrebbe fatto correre a detenuti, agenti e personale amministrativo se non si fosse almeno un po’ sfoltito l’affollamento. Sono coloro che, proprio in ottemperanza della legge di riforma del 1975, non hanno neanche mai usato il termine “cella”, ma dicono sempre “camera di pernottamento”, cioè il luogo dove si va a dormire, non dove si passa la vita. Sono quelli che non userebbero la parola “secondino” per indicare gli agenti di custodia, ma neanche chiamerebbero “scopino” il detenuto addetto alle pulizie. Dubbi che mai potrebbero solcare la fronte spaziosa di giornalisti come Travaglio e Gabanelli. Sono quisquilie. Così come importa poco se si scrivono due pagine -come ha fatto ieri il Corriere- più una bella colorata ricca di “torte” e schemi per dimostrare il disastro entrato nelle carceri a causa dei riformatori, senza neanche citare la fonte dei dati? Dove li hai presi quei numeri, Gabanelli? Ma, poiché sono numeri falsificati, possiamo discuterne anche senza conoscere da dove vengono. Spieghiamo subito perché sono falsificati. La persona incompetente e ignorante dell’argomento, che cosa fa? Agguanta qualche numero passato sottobanco chissà da chi e strilla: se le aggressioni prima erano 100 e ora sono 101, o anche 200, e se prima le “celle” erano chiuse e ora sono aperte, la colpa dell’aumento delle aggressioni è di chi ha aperto la “camere di pernottamento”. Così, ricordando a spanne che un anno fa ci furono polemiche (di Travaglio, di Repubblica, di Giletti e di quelli più o meno di quegli ambienti) su una circolare del Dap sull’allarme Covid, si puntano riflettori e baionette sulle circolari. Si parte da una decina di anni fa, da quella diramata da Sebastiano Ardita, allora Direttore del trattamento detenuti, e poi a quella del successivo capo del Dap Giovanni Tamburino per arrivare a Santi Consolo. Che essendo il più riformatore di tutti è sicuramente il più colpevole. Ma è sufficiente prima di tutto ricordare le innovazioni che il Presidente del Dap aveva attuato durante la sua gestione per svelare la falsificazione. Trasparenza, conoscenza e verità erano il suo credo. Tutto era guardato con la videosorveglianza, tutto era conosciuto negli istituti di pena, in quel periodo, anche quegli episodi che prima non venivano denunciati magari perché qualcuno temeva di subire un rapporto e un procedimento disciplinare. Quanti detenuti (lo vediamo persino nei film) con il corpo pieno di lividi dicono di essere caduti dalle scale per paura di rappresaglie? Se poi esaminiamo la famosa circolare di Consolo del 2015, se un’osservazione critica si può fare, non è certo dal punto di vista Travaglio-Gabanelli. Perché l’ex capo del Dap, pur evidenziando correttamente le linee-guida suggerite dalla Cedu, affida poi al comandante del reparto carcerario la selezione dei nominativi dei detenuti meritevoli della “custodia aperta”. Su cui poi avrebbe deciso l’équipe presieduta dal direttore dell’istituto. E visto che stiamo parlando di detenuti “comuni”, forse il concetto di selezione è stato anche troppo severo. Severo, ma lungimirante e sempre trasparente. Questo per quel che riguarda il “colpevole” numero uno. Ma non tralasciamo mai il suo successore Basentini, che la simpatica compagnia di giro ha addirittura portato alle dimissioni. Eppure si limitava a seguire i suggerimenti del mondo sanitario. Erano poi stati una serie di giudici e tribunali di sorveglianza a decidere alcune sospensioni di pena per reclusi anziani e gravemente malati. La famosa “scarcerazione dei boss”. Che nella fantasia di qualche cronista di Repubblica dovevano essere più di trecento, ma in realtà erano cinque. Una sola domanda andrebbe fatta alla squadretta dei giornalisti assetati di manette: quando in seguito (e grazie anche ai loro strilli) quelle persone furono riportate in carcere, quanti di loro erano scappati? Nessuno. E quanti furono invece regolarmente trovati nel loro letto? Tutti. Rispondete a questa domanda retorica prima di aprire ancora il fuoco contro chi (come la stessa ministra Cartabia) preferisce l’articolo 27 della Costituzione rispetto alla legge del taglione. Anche per motivi di sicurezza, certo, visto che la recidiva di chi in carcere segue corsi di formazione, studia o anche lavora (i famosi “scopini”, cara Gabanelli) crolla dall’80% al 20%. Ma è difficile far capire agli ignoranti e incompetenti che il detenuto non è il suo reato né la sua pena né il suo processo, ma una persona che è stata privata della libertà in seguito alla rottura di un patto sociale con la comunità e che va aiutato a ricucire quel patto. Signora Gabanelli se vive a Milano o se ci capita, vada un martedì o un sabato al mercato di viale Papiniano e cerchi la bancarella del signor Roberto Cannavò, ex detenuto del 41bis a Opera che oggi aiuta nel reinserimento i giovani adulti di San Vittore. Vada a parlargli e si faccia spiegare che il carcere non è il luogo del conflitto tra “secondini” e “scopini”. È anche quell’esperienza di Bollate che il procuratore Gratteri (e mi pare anche lei) considera solo “uno spot”, e invece è anche carne e sangue di quelli che lo abitano e dei tanti educatori e volontari che ci lavorano. Poi faccia un salto in Piemonte e si faccia raccontare dal magistrato Gian Carlo Caselli (che non è stato solo procuratore “antimafia”, ma anche capo del Dap, e forse qualche carcere l’ha visto) quello che ha scritto proprio ieri e proprio sul Corriere della sera, nelle pagine locali, sul carcere di Torino. Si faccia spiegare che cosa sono le attività trattamentali, che cosa sono state le aree omogenee negli anni del terrorismo, e anche il lavoro che si fa in tanti istituti di pena, a Torino come a Milano, per e con i giovani detenuti tossicodipendenti. Capirà (forse) che il reinserimento dei detenuti non è solo un problema di “scopini”, ma di corsi di formazione, di studio, di collaborazione con i volontari e le tante Cooperative e Fondazioni che dall’esterno aiutano in questa colossale operazione di trasformazione del carcere in casa e delle celle in camere di pernottamento. Parli con il dottor Caselli, e con Consolo. E magari anche con Cannavò. E la prossima volta, le circolari le legga. Se vuole, gliele mandiamo. Noi le abbiamo. Nessuno Tocchi Caino: “Infamante l’accusa della Gabanelli contro Santi Consolo” Il Riformista, 14 luglio 2021 Rita Bernardini, Sergio d’Elia ed Elisabetta Zamparutti, rispettivamente Presidente, Segretario e Tesoriere di Nessuno Tocchi Caino, in merito all’articolo di Milena Gabanelli su carcere e violenze pubblicato dal Corriere della Sera, hanno dichiarato quanto segue: “Santi Consolo è stato uno dei migliori capi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria; raro esempio di equilibrio tra esigenza di sicurezza e senso di umanità. Con lui le carceri hanno respirato l’aria della speranza. Laddove fossero insorte emergenze è sempre stato sul campo e in prima linea, pronto al dialogo con i detenuti e gli operatori penitenziari. Per lui la comunità penitenziaria era, come per Marco Pannella, non costituita da parti contrapposte, meno che mai da una parte prevalente sul tutto, ma da un insieme di persone, competenze, professionalità e umanità diverse”. “Additarlo oggi come il responsabile di una deriva violenta - prosegue la nota - non solo è falso e ingiusto ma è un’accusa infamante che può essere mossa solo da chi non conosce la realtà del carcere, non lo ha mai frequentato, non lo ha mai considerato un luogo degno di attenzione, abitato da persone, certo, diverse l’una dall’altra ma tutte e ciascuna con pieni diritti di cittadinanza”. “Chi accusa Santi Consolo considera il carcere come un luogo dove chiudere il male della società, separare i cattivi dai buoni, un luogo di disperazione e di sofferenza, un luogo di pena dedito a incutere afflizione e dolore. Un riflesso di una concezione della giustizia che punisce e separa e non come quella che fu di Aldo Moro e oggi è della Ministra Marta Cartabia e cioè di una giustizia che riconcilia e ripara”. La nostra missione? Una società senza carceri di Mons. Vincenzo Paglia Il Riformista, 14 luglio 2021 Le violenze in carcere, nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, sono state un “uragano” - scrive l’arcivescovo di Napoli Domenico Battaglia - che ha travolto tre comunità: “La comunità dei detenuti, traumatizzati e feriti dalla violenza ma anche danneggiati nel loro percorso educativo alla cui base non può che esservi la costruzione di un’autentica fiducia nei riguardi dello Stato e di coloro che lo rappresentano, fiducia gravemente minata da quanto accaduto; la comunità della polizia penitenziaria, composta per la grande maggioranza da uomini e donne onesti, che adempiono lealmente il proprio dovere, spesso in condizioni di lavoro difficili e poco curate dal punto di vista psicologico; la comunità delle famiglie degli agenti coinvolti, anch’essa travolta dalle pagine di cronaca e provata psicologicamente dal timore di ritorsioni e vendetta”. E i vescovi della Campania in questi giorni hanno aggiunto parole sagge scrivendo alla ministra Cartabia, “La risposta alla delinquenza non può essere solo il carcere. Si dovrebbe lavorare affinché le dinamiche di vendetta siano elaborate e sanate attraverso la creazione di percorsi e di strutture educative, dove la persona è aiutata a cambiare. Crediamo, insieme a lei signora ministra, in una giustizia dal volto umano, come lei ha più volte affermato”. “Il carcere è una questione sociale, è lo specchio in cui sono riflesse in maniera drammatica le contraddizioni della società - prosegue la lettera inviata da monsignor Antonio Di Donna, vescovo di Acerra e presidente della Conferenza episcopale della Campania. Ci troviamo di fronte a un’emergenza educativa spaventosa, profonda e insostenibile”. Vorrei partire dalle parole dell’arcivescovo di Napoli e dei vescovi della Campania, una regione importante non solo per il Sud d’Italia. Quel che è accaduto nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere fa emergere con durezza il tema cruciale delle violenze nelle carceri. La vittoria del calcio agli Europei ci ha mostrato una volta di più un’Italia capace di unire “cuore” e “testa” nei momenti sportivi che “contano”. Adesso è tempo di mostrare la stessa capacità sui temi sociali più “caldi” del nostro Paese. E questo delle carceri, lo è. L’art. 27 della nostra Costituzione afferma due princìpi fondamentali. Primo: ‘la responsabilità penale è personale” ed esprime l’impossibilità di perseguire qualcuno che non sia il reo, come avviene invece con la rappresaglia; secondo: “la pena deve tendere alla rieducazione del condannato” e sottintende l’inutilità di una funzione meramente punitiva. E allora con le violenze in carcere cosa accade? Accade che la società si “addormenta”, non vediamo più il problema, ci facciamo trovare in balia di un pericoloso senso di pigrizia anche sociale. In fondo il carcere, le carceri, non sono un problema nostro. Sono lì, edifici chiusi, separati dal resto della società, non hanno a che fare con la mia vita, con la nostra vita. Problema risolto? No, il problema carcere, il pianeta-carcere è tutt’altro che risolto. La stessa presenza degli edifici, delle celle, dei detenuti uomini e donne, stranieri, minori, e perfino bambini, deve inquietarci e spingerci fuori dal torpore della pigrizia. Questa pigrizia (che ci sembra innocua, ma non lo è affatto) spinge la giustizia a essere “spietata”, in un atteggiamento senza più la “pietas”: non solo non aiuta a cambiare, ma rende meno umani e lascia aperta una ferita nella società. È necessario scendere nelle profondità dell’animo sia del colpevole sia dell’offeso. In modi ovviamente diversi, ambedue sono chiamati ad atteggiamenti nuovi che evitino sia la vendetta sia l’indurimento. E in questo è chiamata in causa anche la società di cui ambedue fanno parte, per ritessere un tessuto lacerato. Lo diceva con grande chiarezza Giovanni Paolo II nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2002: “Quanti dolori soffre l’umanità per non sapersi riconciliare, quali ritardi subisce per non saper perdonare! La pace è la condizione dello sviluppo, ma una vera pace è resa possibile soltanto dal perdono”. E ci sono momenti internazionali in cui pace, giustizia e perdono si sono riunificati in ima proposta sociale di grande importanza. Un esempio per tutti è il Sudafrica del dopo-apartheid. E non solo. Per noi, in Italia, si tratta di uscire dalla pigrizia che ci fa prendere la via più corta, sbrigativa, apparentemente semplice: il carcere, la pena detentiva. La strada più lunga, però più produttiva, è illuminata dall’idea della giustizia riparativa, di una funzione educativa e rieducativa della pena, affinché sia possibile il “mai più”. È una strada che si può percorrere se abbiamo in mente un progetto di società futura. E nel nostro progetto dobbiamo dare corpo a un’utopia: vogliamo che i nostri figli e i nostri nipoti, o pronipoti, possano vivere in una società dove le carceri, se ci sono, debbono essere molto diverse. Anzi, quasi a scomparire. Perché l’obiettivo è migliorare tutta la società, generazione dopo generazione, e la giustizia diventa giusta se è riparativa e se è davvero ispirata alla rieducazione. Non una società senza pena, ma deve essere redentiva, fonte di cambiamento. Per arrivare alla méta, o solo per cominciare a tracciare una strada che in Italia c’è già con la legge Gozzini, dobbiamo essere in grado di fornire risposte di testa e non di pancia. Il Vangelo - che è utopia, non astrazione ingenua - ce lo dice: la vendetta per i cristiani è esautorata, grazie alla proclamazione di una giustizia maggiore. In una parola, con Gesù si recupera quello che il Creatore volle fin dall’inizio e che la malizia degli uomini aveva rovinato. Nella predicazione di Gesù si manifesta in pienezza la giustizia intesa come riconciliazione e comunione nuova tra le persone. La frase “ama il tuo prossimo come te stesso”, che Gesù estrae del libro del Levitico (19,18), si trasforma nel secondo comandamento della nuova Legge e suppone un “no” deciso alla vendetta. Già nella prima parte del versetto del Levitico si diceva: non ti vendicherai né serberai rancore ai figli del tuo paese. La vendetta è sempre l’antitesi dell’amore al prossimo. È significativa la risposta di Gesù a Pietro, che gli chiede se deve perdonare sette volte. Gesù capovolgendo l’affermazione orgogliosa e violenta di Lamech (Genesi 4,24) risponde: non solo sette volte ma settanta volte sette. La pena deve rispettare la persona, la sua integrità, la sua personalità. Ed invece abbiamo visto calpestata la dignità personale dei detenuti da parte di persone che rappresentano lo Stato. Non deve accadere più, siamo d’accordo. Però allo stesso tempo dobbiamo impegnarci a fondo affinché il “mai più” non sia lo slogan di turno ma diventi un vero e proprio programma politico e sociale; di più: entri a far parte di un progetto nuovo di convivenza civile, di costruzione di alternative, di dignità per tutti. La vera giustizia si realizza quando salva e rimette l’uomo in piedi, lo reintegra, lo include, fornisce una nuova opportunità, una seconda, terza... opzione. La Chiesa ci dice che di fronte a problemi complessi occorre guardare a tutta la persona umana, considerarla nelle sue dinamiche e aprire sempre la porta alla misericordia e alla speranza. Ora è necessaria, anzi indispensabile, una politica all’altezza dell’ideale riparativo, con misure concrete, prima di tutto lasciando uscire quei minori che vivono in carcere con le loro madri, quindi adoperarsi per l’umanità dei trattamenti e per la messa in atto di misure capaci di restituire dignità, capacità, lavoro, per tutti i cittadini e tra loro per i detenuti. Usciamo dalla pigrizia del nostro individualismo, dei facili slogan “non mi tocca”, “non mi compete”. La pandemia ci ha dimostrato che tutti siamo toccati, a tutti compete fare qualcosa, tutti siamo collegati. Noi siamo un “Noi”. Anche con i carcerati. La coltre del silenzio e la coperta dell’impunità di Sergio Segio dirittiglobali.it, 14 luglio 2021 Al solito, quando si parla di carcere, tutto risulta molto prevedibile. A fronte di una “orribile mattanza”, con 283 agenti penitenziari che effettuano una spedizione punitiva contro i detenuti del reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere accanendosi a freddo, con violenza e sadismo contro di loro, sono subito scattati i riflessi condizionati per difendere l’indifendibile e capovolgere la prospettiva con la quale si guardano i fatti. Davanti alla inoppugnabile documentazione video, anche i media, rimasti distratti e omertosi per oltre un anno, hanno dovuto pubblicare immagini e testimonianze. Di fronte alle quali, per la verità, alcuni si sono scandalizzati e hanno protestato non per ciò che le immagini mostrano, le inaudite violenze e torture persino contro reclusi disabili, ma per la violazione della privacy degli inquisiti e per la diffusione di immagini coperte da segreto. Segreto che, in questi casi, è funzionale alla tradizionale e ferrea impunità. Senza quei video oggi non si parlerebbe dell’avvenuta “mattanza” e tutto, come spesso in carcere, rimarrebbe occultato dal silenzio. Anche il ministero di Giustizia e il vertice dell’Amministrazione penitenziaria, a 15 mesi dai gravi avvenimenti che ovviamente ben conoscevano, come ora qualcuno comincia ad ammettere, hanno dovuto mandare a Caserta gli ispettori e sospendere gli inquisiti. Che, sino a ieri, erano tranquillamente rimasti nello stesso penitenziario, a contatto di gomito, e di manganello, con le vittime delle torture delle quali sono ora finalmente accusati. Nessuno - ci sembra - ha politicamente e pubblicamente chiesto conto dei 15 mesi di colpevole ritardo nel prendere tali provvedimenti cautelativi. Anzi. Assieme, per evitare fraintendimenti e ulteriori malumori dei numerosi e litigiosi sindacati della polizia penitenziaria (attivissimi nel lavoro di ufficio stampa, che da molti anni li ha portati a essere la principale, e spesso esclusiva, fonte di notizie sulle carceri per il sistema dei media, non solo mainstream), l’amministrazione del carcere ha però pensato bene di trasferire i detenuti che, con deciso coraggio, avevano denunciato i loro aguzzini, appunto 15 mesi fa. Dovendo poi convivere con loro e le loro immaginabili ritorsioni. Ora, tardivamente (e in ogni modo su sollecitazione della procura, poiché da sola ancora non ci era arrivata), l’amministrazione penitenziaria ha pensato di trasferire 42 reclusi. Per il loro bene e per sottrarli - dopo 15 mesi, ribadiamo - alle possibili pressioni. Va bene. Peccato che siano stati spostati non in carceri vicini, e possibilmente scelti in base all’assenza di prepotenze e violenze da parte dei custodi (il che forse non sarebbe stato facile), bensì in remote destinazioni, sino a 600 chilometri di distanza dalle famiglie. Giusto per premiarli del coraggio avuto, a proprio rischio, nel rompere il clima di paura e omertà e nel chiedere verità e giustizia. I 42 detenuti sono stati, peraltro, prelevati in piena notte, a ribadire se ce ne fosse bisogno, la logica e lo spirito col quale questa “protezione” sia stata disposta ed eseguita. Lo hanno denunciato il Garante dei detenuti campano Samuele Ciambriello, assieme a quello di Napoli Pietro Ioia e a quella della provincia di Caserta, Emanuela Belcuore. Proprio Ciambriello aveva per primo, e da solo, 15 mesi fa denunciato i pestaggi, impedendo che calasse per sempre la coltre del silenzio e la coperta dell’impunità. Naturalmente, contro quei Garanti è già partita la virulenta campagna di attacco e delegittimazione da parte di alcuni sindacati dei poliziotti. Questa non è una novità, anzi è una consuetudine cui le cronache ci hanno abituato e che non arretra davanti a nulla e a nessuno, dato che, a suo tempo, si esercitò persino contro Alessandro Margara, capo dell’Amministrazione penitenziaria positivamente anomalo e proprio per questo presto defenestrato dall’allora Guardasigilli Olivero Diliberto. Lo ribadiamo sperando, contro ogni speranza, che prima o poi qualcuno, pur assai tardivamente, chieda scusa al compianto Margara, nel frattempo scomparso, il cui pensiero, scritti e l’intera sua carriera di magistrato dovrebbero essere la base e il modello per la formazione degli operatori penitenziari, a partire dai poliziotti. Di modo che la pianta cominci finalmente a produrre soprattutto frutti buoni. Dai filmati della “mattanza” sappiamo ora che, dei 283, uno solo ha cercato di frapporsi e limitare le violenze sui reclusi. Un percentuale che dice quel che c’è da sapere. E che dovrebbe preoccupare seriamente tutti i cittadini e forse prima ancora l’istituzione. E c’è ancora chi giustifica le violenze di Carmen Baffi Il Domani, 14 luglio 2021 Mentre i sindacati della Polizia penitenziaria rimandano alle decisioni della magistratura, Salvini cerca di spostare l’attenzione sull’agente arrestato per sbaglio. La pubblicazione dei video del pestaggio avvenuto il 6 aprile 2020 nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere ha tolto qualsiasi alibi a chi sosteneva che l’”orribile mattanza” non ci fosse mai stata. Le accuse di tortura, violenza privata e abuso di autorità contestate ai 52 agenti raggiunti da diverse misure cautelari lo scorso 28 giugno erano fondate. Otto di loro sono finiti in carcere, 18 ai domiciliari, e 23, tra cui il provveditore regionale alle carceri Antonio Fullone, sono stati sospesi dal lavoro. Eppure, dalla politica ai sindacati di categoria, non tutti hanno condannato l’accaduto allo stesso modo. Anzi, molti si sono resi protagonisti di giravolte nel tentativo di difendere e giustificare l’indifendibile. Il leader della Lega Matteo Salvini, ad esempio, prima della diffusione dei video aveva annunciato che il 1° luglio si sarebbe recato personalmente nel carcere casertano per portare il suo sostegno agli agenti della penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere. Una scena che, come raccontato ieri su questo giornale, si era già vista a giugno 2020, quando “verosimilmente” Salvini era già stato informato dell’”operazione di autorità” del 6 aprile da uno degli agenti responsabile di aver coordinato il pestaggio. Alessandro Biondi aveva infatti cercato sostegno proprio nella figura di Salvini, scrivendo un messaggio alla pagina Facebook riconducibile al leghista, per raccontargli quanto accaduto. Dopo gli arresti di dieci giorni fa, mentre tutti aspettavano il lancio di una delle sue dirette social, Salvini ha cambiato tono e, incapace di nascondere il proprio imbarazzo, ha affidato tutte le sue speranze alla magistratura. La breve redenzione - L’8 luglio, a distanza di nove giorni dalla prima pubblicazione dei video, è arrivata la notizia che uno degli agenti arrestati era vittima di un errore. Giuliano Zullo, di 55 anni, è stato scambiato dai detenuti chiamati a testimoniare per un altro agente, che in effetti non presentava le stesse caratteristiche fisiche. Matteo Salvini ha rilanciato la notizia sui suoi canali social e si è chiesto a chi spetti il compito di scusarsi con Zullo, sposato e con figli, che ha dovuto trascorrere dieci giorni agli arresti domiciliari. L’imbarazzo dei primi giorni è scomparso: Salvini è riuscito a spostare l’attenzione e non parlare di quanto accaduto in carcere la notte del 6 aprile. Le difficoltà nell’identificare molti degli agenti colpevoli di aver pestato i detenuti è dovuta al fatto che i poliziotti, con il volto coperto dai caschi, non sono riconoscibili. Venissero dotati obbligatoriamente di un codice sulla divisa forse l’errore nei confronti di Zullo non sarebbe stato commesso, ma quando la proposta è stata avanzata in Italia proprio Salvini si è opposto. E continua a farlo anche dopo le immagini di Santa Maria Capua Vetere. “I numeretti in testa ai poliziotti non li vorrò mai vedere. Già fanno bersaglio per i deficienti senza numeretto in testa, non vorrei esporli ad altri rischi”, ha detto il 9 luglio. C’è poi chi, pur riconoscendo che i filmati rappresentano la documentazione di qualcosa di terribile, non riesce ad evitare di aggiungere un “ma”. Quasi che la prova non fosse sufficientemente schiacciante. Il 2 luglio, Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa, commenta i video a Giustizia caffè, e parla di “immagini che si commentano da sole. Un evento drammatico che rappresenta una degenerazione del sistema”. Poi però aggiunge che si tratta solo di nove minuti, “parziali”. Dunque sarà la giustizia, a torto o ragione, “noi speriamo a torto”, a stabilire se le violenze sono state commesse. La Cgil fp, invece, dopo aver diffuso uno prima nota stampa, in cui parlava di “gogna mediatica” in riferimento a un articolo pubblicato da un quotidiano locale che conteneva nomi, cognomi e foto degli agenti indagati, ha poi fatto una giravolta poche ore dopo la diffusione dei video. Anche in questo caso le immagini “sono inoppugnabili, chi ha sbagliato deve pagare”, “ma” sta alla magistratura valutare i fatti e i reati commessi, qualora siano stati commessi. Il 28 giugno, dall’Unione dei sindacati di polizia penitenziaria (Uspp), che su Twitter spesso e volentieri ripropone i commenti di Matteo Salvini, viene ricondivisa la foto di un altro deputato della Lega, Manfredi Potenti, in cui si legge: “Rivolte in carcere, 52 agenti indagati, assurdo!”. È il giorno prima della diffusione dei video. Che siano agli atti dell’inchiesta già da fine settembre 2020 è cosa risaputa, ma nonostante le prove, gli aderenti all’Uspp il 30 giugno organizzano un presidio per manifestare la loro solidarietà. Il sindacato Osapp, poi, in una nota, ha espresso “preoccupazione” per “la campagna mediatica” avviata contro gli agenti, “ma” senza voler dubitare delle “eventuali” violenze subìte dai detenuti. D’altronde, anche Leo Beneduci, segretario generale dell’organizzazione, ha riconosciuto la gravità dei fatti in diversi video, “ma” la colpa è della politica. Tesi che, se per certi versi può apparire vera, non è sufficiente per spiegare e giustificare, le torture compiute nei confronti dei detenuti. Cartabia-Draghi provano laddove Berlusconi-Alfano fallirono di Massimo Villone Il Manifesto, 14 luglio 2021 Riforme. Il primo a provarci, nel 1946, fu Leone ritenendo la figura del pubblico ministero da assoggettare al potere politico attraverso il ministro di Grazia e Giustizia. Lo scatenarsi delle tifoserie sulla prescrizione e il chiasso mediatico che ne è seguito hanno messo in secondo piano il merito. Come scrive Azzariti su queste pagine, problemi reali rimangono senza risposta. Inoltre, sono oscurate questioni altrettanto - e forse più - importanti. Tra queste, le priorità da indicare per l’azione penale, a quanto si sa con atto di indirizzo parlamentare in forma di legge. Va detto subito, senza giri di parole. È violato l’art. 112 della Costituzione, per cui “il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Nemmeno la più fantasiosa interpretazione evolutiva può far leggere la norma come se avesse in fine l’aggiunta “secondo le priorità decise da altri”. Inoltre, è impossibile conciliare la proposta di indirizzi etero-imposti con il concetto di autonomia e indipendenza della magistratura in generale, e di quella requirente cui il principio rimane applicabile. Questo sia per la natura di “ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” che l’art. 104 riconosce alla magistratura, ma anche perché autonomia e indipendenza sono presidio essenziale della eguaglianza di fronte alla legge dei cittadini. Sappiamo bene che in Assemblea costituente la giustizia diede luogo e discussioni anche aspre, che non risparmiarono la figura del pubblico ministero. Non mancò chi propose che fosse in qualche modo assoggettato al potere politico. Leone riteneva dovesse essere “organo del potere esecutivo” (II sottocommissione, II sezione, 5 dicembre 1946). Nell’art. 12 della parte relativa al potere giudiziario della sua relazione alla sottocommissione prevedeva che “Il Ministro per la grazia e giustizia esercita la vigilanza e la direzione sugli organi del pubblico ministero”. Altri temevano che autonomia e indipendenza potessero dar luogo a degenerazioni autoreferenziali e corporative con il distacco della magistratura dalle istituzioni della nascente Repubblica. Ma alla fine prevalse la tesi favorevole all’autonomia e indipendenza, sia per la magistratura come ordine che per il singolo magistrato. Il 7 aprile 2011 fu presentata dal governo Berlusconi (per la giustizia, Alfano) una proposta di legge costituzionale (AC 4275). Si riformava il Titolo IV della Costituzione in modo che lo stesso Presidente del consiglio non esitò a definire “epocale”. Una lunga relazione introduttiva presentava l’AC 4275 come un aggiornamento reso necessario dal tempo decorso e dai mutamenti sopravvenuti, tali da portare a capovolgere equilibri maturati nel 1948, e in sostanza a far vincere chi allora aveva perso. Uno dei punti era la figura del pubblico ministero. E qui conta ricordare che l’art. 13 della proposta così sostituiva l’art. 112 Cost. oggi vigente: “L’ufficio del pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge”. La cosa non ebbe seguito, perché nel novembre 2011 il governo cadde e a Palazzo Chigi arrivò Monti. Ma cogliamo la sovrapponibilità della formula berlusconiana con la proposta fin qui nota della Cartabia. Con la sola differenza che il duo Berlusconi-Alfano metteva in conto una legge costituzionale di modifica dell’art. 112, che invece la Cartabia non sembra ritenere necessaria. I “tecnici” Monti e Severino (giustizia) ebbero la saggezza di non riprendere la questione. I “tecnici” Draghi e Cartabia oggi forse ritengono di non poter fare lo stesso, per le pressioni europee. Ma evitino, almeno, una palese incostituzionalità. Sappiamo che la riforma dell’art. 111 con il giusto processo ha indotto un ripensamento sul pubblico ministero, essendo difficile ricostruire la sua figura come “parte”, e tuttavia “imparziale”. Per alcuni, un ineludibile ossimoro. E sappiamo che anche in stati di sicura fede democratica ci sono esempi di pubblici ministeri - o figure equivalenti - che sono in vario modo legati alla politica. Ma nel nostro ordinamento gli artt. 112 e 104 rimangono fermi e imprescindibili per qualsivoglia operazione interpretativa. Su prescrizione e dintorni si può intervenire in vario modo per trovare equilibri adeguati. Invece, la sottoposizione del pubblico ministero alla maggioranza pro tempore e/o al governo in carica è un radicale cambio di paradigma che non può essere temperato. Se è quel che si vuole, si modifichi la Costituzione che lo impedisce, e si dica in chiaro che è arrivato il tempo della giustizia politica. Movimento 5 Stelle. Dossier giustizia in mano a Conte, da Grillo un passo indietro di Matteo Pucciarelli La Repubblica, 14 luglio 2021 Il fondatore si era speso con Draghi sulla prescrizione. Salta la visita a Roma. Tra domani e venerdì sul sito del Movimento si darà il via libera alla procedura per la votazione del nuovo Statuto dei 5 Stelle, quello che prevede tra le altre cose l’istituzione della figura del presidente: e siccome servono due settimane di preavviso agli iscritti per la consultazione, il nuovo corso con Giuseppe Conte diventerà ufficiale ad agosto. Ma sono pratiche ormai di natura burocratica, il lavoro politico è concluso, la pace con Beppe Grillo non è stata sancita da un incontro semi-pubblico - il fondatore pareva arrivasse oggi a Roma, non sarà così ma comunque non si dovrebbe andare troppo per lunghe - però intanto si pensa a chi saranno i due vice dell’ex presidente del Consiglio nell’organigramma del partito, chi verrà nominato nella segreteria politica e chi nel Consiglio nazionale. Le indiscrezioni sulla nuova organizzazione sono state accolte con un certo malumore in quella parte di M5S che pensava, o sperava, che ci fosse quote di posti destinati alle candidature, poi votate dagli iscritti. Non sarà così: tutte le nomine saranno di Conte, poi agli iscritti spetterà vidimarle. In questo quadro dove non sono previste sorprese dal “basso”, i nomi ricorrenti sono quelli della sindaca di Torino Chiara Appendino, della ex ministra all’Istruzione Lucia Azzolina, della senatrice Paola Taverna. E poi, il ministro Stefano Patuanelli e Vito Crimi, la viceministra Alessandra Todde, oppure Alfonso Bonafede, ma anche della viceministra Laura Castelli. Il punto è, per quel che riguarda la segreteria invece, ci saranno direttamente i big oppure loro persone fidate? Tutte le anime del M5S andranno in qualche modo rappresentate: dal fronte governista a quello più radicale vecchio stampo passando per la “sinistra” di Roberto Fico; senza dimenticare che tra i gruppi di Camera e Senato, con il primo numeroso più del doppio del secondo, una certa “rivalità” c’è. Molta attenzione va prestata anche alla composizione del Comitato di garanzia, organo che invece verrà nominato da Grillo e che gioca un ruolo fondamentale di equilibrio e di supplenza in caso di vuoto di potere: non sarebbe strano che ad esempio Luigi Di Maio, o qualcuno a lui molto vicino, ne fosse interessato. Conte si avvarrà anche di un Consiglio nazionale in cui entreranno di diritto i capigruppo di Camera e Senato e quello del Parlamento europeo, quindi per ora - in autunno a Montecitorio e Palazzo Madama è previsto un avvicendamento - Davide Crippa, Ettore Licheri e Tiziana Beghin. Ma al cui interno dovrebbero esserci anche delegati regionali. Dopodiché, in questo ore sul fronte rapporti col governo tiene banco la strategia da adottare sulla giustizia. Un concetto è chiaro: il sì del M5S in Consiglio dei ministri alla riforma Cartabia è superato. Così com’è il testo non piace né a Conte né a una buona fetta di parlamentari. Quindi la determinazione è di modificarne alcune parti, meglio se in commissione Giustizia, senza arrivare allo scontro col resto della maggioranza a colpi di emendamenti in aula dove giocoforza si darebbe un’immagine di rottura. Oltre alla battaglia parlamentare per alzare l’asticella delle richieste, l’altra certezza è che Grillo lascia tutto il dossier specifico al (quasi) neo-presidente. Il garante si era interessato della vicenda la scorsa settimana, si era parlato addirittura di una sua telefonata con Mario Draghi - fatto mai confermato né smentito dai diretti interessati - ma ecco, non ci saranno future interferenze. Questa è l’assicurazione che arriva dal fronte Grillo. E non era affatto scontato. Basta pannicelli caldi, alla giustizia servono riforme vere di Paolo Itri Il Riformista, 14 luglio 2021 La recente vicenda dei pestaggi subiti dai detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere ha creato un clima di grave turbamento nell’opinione pubblica che appare sempre più disorientata e smarrita di fronte ai troppi scandali che vedono spesso coinvolti uomini degli apparati dello Stato impegnati in delicati compiti nel settore dell’amministrazione della giustizia. Già appare imbarazzante il fatto che, nelle statistiche della Corte europea dei diritti dell’uomo, il nostro Paese occupi da tempo il primo posto tra quelli con il maggior numero di violazioni e di condanne. Secondo i dati tratti dalla Commissione ministeriale voluta dalla guardasigilli Marta Cartabia, infatti, ben 1.202 sono state le condanne che l’Italia ha collezionato tra il 1959 e il 2020. A seguire, con la metà e meno delle violazioni, la Turchia (608), la Grecia (542), l’Ucraina (445) e la Polonia (443). In particolare, le violazioni correlate alla durata del processo appaiono ancor più intollerabili e rappresentano la metà di tutte quelle accertate dalla Corte di Strasburgo. Il recente scandalo del “premiato nominificio Palamara”, poi, con i suoi più recenti sviluppi, ha contribuito a versare altra benzina sul fuoco, destando nell’opinione pubblica un ulteriore senso di sfiducia verso la giustizia e le sue istituzioni. Ma quali le cause, e quali le possibili soluzioni del problema? Partiamo dalle ultime vicende dei pestaggi in carcere, dove la risposta dello Stato - ferma restando la presunzione di innocenza - sembra essere stata almeno sul piano della repressione del tutto efficace e tempestiva. Ben diverso il discorso per quanto riguarda, invece, le condizioni delle carceri nel nostro Paese. Secondo l’ultimo rapporto di Antigone, nel 2020 il tasso di affollamento è stato pari al 115%, mentre 61 persone si sono tolte la vita dietro le sbarre. Erano quasi 20 anni che non si aveva un tasso di suicidi così elevato. La condizione di invivibilità degli istituti di pena costituisce una vergogna nazionale alla quale si cerca di porre rimedio - secondo una visione mercantilistica della giustizia penale oggi molto in voga - o mediante risarcimenti monetari oppure degli sconti di pena al di fuori di qualunque logica rieducativa, semplicemente perché lo Stato non è in grado di assicurare ai detenuti condizioni dignitose di vita. Il risultato di una tale scellerata politica carceraria è sotto gli occhi di tutti: le proteste all’interno delle carceri montano sempre di più e, se le cose non cambieranno, sempre maggiore sarà il pericolo, in futuro, che episodi come quelli di Santa Maria Capua Vetere possano ripetersi in altre località del Paese. Ma un’altra vergogna alla quale pure sembra che non si intenda porre in alcun modo rimedio è quella del “premiato nominificio Palamara & co”. Qui, sia le proposte di riforma elettorale del Csm, avanzate dalla Commissione ministeriale, sia gli stessi quesiti referendari proposti dai partiti appaiono dei pannicelli caldi a fronte dei gravi illeciti consumatisi attraverso la spartizione cencelliana degli incarichi tra le varie correnti dell’Anm. Mentre la sostanziale assenza di risposte soddisfacenti - sia in sede penale che disciplinare - genera sconforto e turbamento in vasti settori dell’opinione pubblica, sempre più rassegnati all’idea dell’impunità e della sostanziale intoccabilità, nel nostro Paese, dei santuari del potere. In mancanza di qualsiasi segnale che faccia intravedere una seria presa di coscienza del problema da parte sia della magistratura associata che delle altre istituzioni, non resta che sperare in un colpo di coda della politica. Due le possibili soluzioni per arginare lo strapotere delle correnti: la nomina dei componenti del Csm attraverso il sorteggio temperato (ovvero un sistema che preveda l’estrazione a sorte di una platea di candidati svincolati dalle correnti, all’interno della quale i magistrati elettori potranno poi scegliere il candidato che preferiscono) e, soprattutto, il ridimensionamento della discrezionalità del Csm, attraverso l’individuazione, da parte del legislatore, di regole e criteri certi da seguire nelle nomine dei capi degli uffici, tali da non lasciare più spazio ad arbitrarie interpretazioni, illecite spartizioni, abusi e favoritismi. Per quanto riguarda infine i tempi irragionevoli del processo, il discorso sarebbe molto più lungo e articolato. Il sistema processuale americano, dal quale nel 1989 fu mutuato in Italia il processo accusatorio oggi in vigore, si basa su tre capisaldi che però sono incompatibili con le nostre tradizioni giuridiche: la discrezionalità dell’azione penale, la sostanziale inappellabilità delle sentenze e la decisione assunta dal giudice in forma di verdetto e non di sentenza. Soprattutto tale ultimo aspetto incide non poco sulla durata dei processi. Mentre le sentenze italiane hanno infatti motivazioni quasi sempre molto articolate, negli Stati Uniti l’atto finale del processo è il verdetto pronunciato dalla giuria popolare che non va motivato. Ciò influisce notevolmente sul tempo dedicato alla celebrazione dei processi. Per quanto riguarda invece l’appello, nel sistema statunitense non è consentita una diversa valutazione delle prove, in quanto soltanto la macroscopica ingiustizia del verdetto o gli evidenti errori di procedura possono giustificare la celebrazione dell’appello che in ogni altro caso sarà dichiarato inammissibile. Giustizia, ecco la migliore risposta che la ministra Cartabia può dare all’Europa di Andrea Reale* Il Fatto Quotidiano, 14 luglio 2021 Il tema più divisivo in assoluto nella politica italiana è, senza ombra di dubbio, quello della giustizia. Troppi gli interessi che esso muove; troppo interessate le risposte che il nostro Legislatore è sempre intenzionato a dare. Esse, però, rispondono a tutt’altre finalità rispetto a quelle che il tema dovrebbe perseguire. Così in questi giorni si assiste a pietosi spettacoli dei partiti politici, specialmente quelli nel governo delle “larghe intese”, tutti intenti ad accanirsi sul tema della prescrizione, come se fosse questo l’unico e il vero problema della giustizia, peraltro pensando soltanto a quella penale, in Italia. Invece quella è verosimilmente una preoccupazione esclusiva di certa politica, anzi di certi parlamentari inquisiti dal sistema giudiziario. Per fortuna la Commissione Europea ha riportato al centro del dibattito il vero nodo gordiano della macchina della giustizia in Italia. La durata dei procedimenti non è legata a qualche istituto processuale più o meno efficace. È legato in modo fondamentale alle risorse umane e materiali che essi gestiscono. Non si può non rimanere colpiti dalla lettura di quanto riportato da ilfattoquotidiano.it l’8 luglio scorso. Nella relazione trasmessa dal Commissario per la Giustizia, Didier Reynders, sono snocciolati in modo chiarissimo i dati che rendono del tutto inefficiente il sistema italiano. Essi sono due, in realtà riducibile ad uno: la carenza cronica del numero di magistrati, assolutamente esiguo rispetto alla massa di affari civili, penali e amministrativi per abitante che il relativo scoreboard evidenzia (12 per ogni 100.000 abitanti, a fronte, ad esempio, dei 24 della Germania, per non parlare dei 42 della Slovenia). Da decenni, pur a fronte di un esponenziale aumento di conflittualità, le piante organiche sono rimaste immodificate. Non solo: a fronte di poche migliaia di magistrati presenti nei vari distretti giudiziari l’altro dato evidente è l’incapacità ministeriale di avere saputo regolamentare le piante organiche, ossia la distribuzione di magistrati sul territorio in relazione agli affari da trattare. Così esistono Tribunali nei quali un magistrato risulta assegnatario di cento, massimo duecento, procedimenti all’anno (e di pari sopravvenienze); altri, molti dei quali concentrati in uffici medio-piccoli del Meridione, in cui ogni giudice o pubblico ministero deve fronteggiare migliaia di procedimenti all’anno (ed altrettanti in subentro annualmente). Questo è il vero dramma della giustizia: la mancanza di volontà del governo (perché alla politica spetta questo onere, che potrebbe diventare un onore!) di volere fornire minimo ossigeno ad un organismo in coma per ipossia. Ecco la prima, vera, unica, fondamentale, “rivoluzionaria”, priorità da suggerire alla neoministra Marta Cartabia: se vuole davvero provvedere ad una riforma epocale della Giustizia, assuma migliaia di magistrati (almeno altri 10.000), prevedendo anche un numero doppio rispetto ad esso di personale amministrativo (per costituire l’ufficio per il processo per ciascun magistrato) e redistribuisca le piante organiche secondo accreditati e spendibili flussi statistici (quelli che annualmente assillano tutti i dirigenti degli uffici, che devono barcamenarsi in improbabili documenti organizzativi generali per fare fronte ad una domanda che inevitabilmente è sproporzionata rispetto all’offerta). La preghiera che rivolgo, da magistrato, alla ministra è quello di poter adeguatamente studiare e rivedere completamente un assetto distributivo dei magistrati, e del personale amministrativo, del tutto sperequato tra distretti, anche viciniori, se non all’interno delle medesime Corti d’Appello. Il tutto accompagnato da un massiccio investimento nella logistica, nell’hardware e nel software necessario per informatizzare e digitalizzare una struttura preistorica e antiquata. Questa sarebbe la migliore risposta da dare all’Europa, “che ce lo chiede” da decenni, rimanendo inascoltata. Un’altra notazione negativa che il report del Commissario Europeo evidenzia è, infine, il tasso di indipendenza che l’Ordine giudiziario ha raggiunto nella percezione pubblica. Esso è ai minimi storici. Siamo al quintultimo posto, dopo Bulgaria, Polonia, Slovacchia e Ungheria, Paesi verso i quali abbiamo lanciato, fino a pochi mesi fa, appelli internazionali per invocare maggiore indipendenza dei magistrati di quelle nazioni e dei loro organismi di autogoverno, oltre che manifestare solidarietà ai colleghi. Davvero paradossale, dunque, visto che dovrebbero essere gli altri Paesi dell’Ue, oggi, a dover muovere qualche passo in nostro favore. Il prospetto riepilogativo del Commissario Europeo evidenzia anche alcune delle ragioni più diffuse dell’offuscamento dell’immagine della Magistratura: una è la “interferenza e pressione dal governo e dalla politica”. Si tratta del determinante profilo della indipendenza esterna: la sussistenza di un indebito collateralismo tra politici e magistrati, unitamente alla forza che la Politica, con la complicità dei gruppi associativi interni dell’Anm, riesce ad imprimere all’attività di autogoverno, sono un’evidenza pluriennale indiscutibile e deleteria. Necessario appare spezzare ogni legame tra Politica e Giustizia, non soltanto avuto riguardo alle porte girevoli nelle rispettive carriere, quanto soprattutto nell’evitare che partiti politici e loro rappresentanti possano avvicinare componenti rappresentative dei magistrati e loro esponenti all’interno delle istituzioni e barattare con loro incarichi e prebende, e talvolta persino interferire sul regolare andamento della giurisdizione, “politicizzando” persino l’esercizio dell’azione penale. Vi è un altro fattore indicato dal report eurounitario in discussione: più del 40% degli intervistati ritiene che un altro elemento che appanna la credibilità della magistratura italiana sia l’interferenza dei poteri economici e di altri specifici interessi. Tra di essi sono certo che gli interpellati dalla Commissione Europea abbiano segnalato lo strapotere dei gruppi associativi interni all’associazionismo giudiziario, le cosiddette correnti. È l’altro lato della medaglia della indipendenza della magistratura: quella interna, oggi più che mai intaccata dalle vicende che hanno generato la più grave crisi della Magistratura repubblicana in Italia. Anche su questo versante è necessario che la ministra Cartabia ed il governo agiscano con efficacia ed immediatamente con l’unico metodo davvero rivoluzionario, capace di restituire credibilità e fiducia nell’autogoverno: il sorteggio come metodo di scelta della componente togata del Consiglio Superiore della Magistratura e la rotazione negli incarichi direttivi, per tagliare le unghie al “nominificio” lottizzatorio, denudato dagli scandali a ripetizione. Ci vuole coraggio per una vera riforma della Giustizia. Questo è il tempo di dimostrarlo. Altrimenti si rischia di apparire conniventi, se non complici, con le degenerazioni che attanagliano il mondo giudiziario. A quel punto, per chi è estraneo al cosiddetto “sistema”, resterà solo la denuncia alle Istituzioni d’oltralpe. *Magistrato Io, avvocato a Genova quando l’Italia sospese lo Stato democratico di Ezio Menzione Il Dubbio, 14 luglio 2021 Ero il più vecchio, fra gli avvocati che intervennero al G8 di Genova nel luglio del 2001. A me dicevano “il più esperto”, ma intendevano il più vecchio. Eppure non ero poi tanto vecchio, ma erano tutti gli altri di quel volenteroso manipolo che erano proprio giovanissimi, alcuni nemmeno penalisti, ma che si fecero le ossa in quei giorni e poi nei processi che seguirono, fino a diventare, oggi, validissimi difensori. In un gruppo, peraltro non tanto numeroso, avevamo già preso accordi nelle settimane precedenti: saremmo stati presenti in piazza, per cercare di evitare infiltrazioni di provocatori e, soprattutto, per mediare in caso di attacchi della polizia ai cortei, nei quali era stato deciso dal Genoa Social Forum che non ci sarebbe stato servizio d’ordine, proprio per rimarcare il carattere assolutamente pacifico dell’iniziativa. Io ero presente a Genova fin dal martedì, perché ero invitato a parlare all’interno delle iniziative del GSF in un dibattito sui diritti degli omosessuali, su cui era stato di recente pubblicato un mio libro, e così vidi nascere e crescere tutto il villaggio di Piazzale Kennedy, proprio sul mare, dove anche noi avvocati avevamo il nostro gazebo. Poi ci assegnarono una sede presso Legambiente, vicino a Piazza Alimonda, che divenne un centro frenetico di raccolta di dati legali giorno dopo giorno, e una stanza al secondo piano della scuola Pascoli, dove operavano sui computer dei nostri collaboratori e che poi fece una brutta fine, così come la sottostante Indymedia quando la polizia fece irruzione alla Diaz e, appunto, alla antistante scuola Pascoli. L’accordo fra di noi era che, per riconoscibilità, avremmo indossato una pettorina gialla col simbolo del G8 e con la scritta Avvocato/ Lawyer e il numero di telefono cui chiunque avrebbe potuto rivolgersi in caso di fermo. Io, al pari di tutti gli altri, non stetti lì a pensare se una pettorina così fosse consona al nostro status e al nostro profilo deontologico. Avremmo visto poi che invece la faccenda fece molto specie a molti altri colleghi e a vari Consigli dell’Ordine. L’intesa era che avremmo dovuto interporci fra i manifestanti e le forze dell’ordine in caso di tensioni e avremmo dovuto intervenire in caso di fermo, se non addirittura di arresto, per vigilare che i poliziotti non eccedessero. Così fu durante la manifestazione dei Migranti del giovedì 19 pomeriggio, dove dovemmo giustappunto interporci quando alcuni manifestanti fecero alcune mosse per avvicinarsi un po’ troppo alla inviolabile zona rossa: lo facemmo, con qualche buon risultato e tutto filò liscio. Il venerdì ci svegliammo dopo un acquazzone notturno che aveva ripulito il blu del cielo e del mare, rincuorati dal buon esito della giornata precedente, ma preoccupati e dubbiosi vedendo che la zona rossa era stata ampliata fino a ricomprendere praticamente l’intera zona gialla (con paratìe e muri di containers) e, soprattutto, vedendo l’enorme dispiegamento di forze dell’ordine. Andai a Piazzale Kennedy, constatai che il numero di avvocati disponibili era molto cresciuto, con alcuni d’esperienza almeno pari alla mia, e concordammo che io (“tu sei il più anziano ed il più esperto”, mi dissero come al solito) ed un collega saremmo andati in Piazza Da Novi, dove avrebbe dovuto esserci la “piazza tematica” (concentramento e poi manifestazione) dei Cobas, che non era detto fossero perfettamente allineati con la linea pacifica e di non assalto alla zona rossa che si intendeva dare. Dopo pochissimo che ero arrivato ed i Cobas in pratica non c’erano ancora, arrivò un gruppo nutrito di manifestanti vestiti di nero e con bandiere nere, i black blok, che noi (o almeno io) non sapevamo nemmeno cosa fossero. Non erano molti e presero a divellere i segnali stradali e l’acciottolato della piazza per farne spranghe micidiali e sassi da lanciare: la polizia, che era lì a due passi, con mio sommo stupore non intervenne, anche se la gente comune la chiamava dai balconi e dai marciapiedi. I black blok ebbero tempo di defluire rumorosamente e facendo un po’ di danni prima in Piazza Tommaseo, poi oltre il sottopasso di Brignole fino al carcere di Marassi per poi salire in Piazza Manin e rovinare la “piazza tematica” della Rete Lilliput. Ero rimasto a presidiare Piazza Da Novi, ligio al compito affidatomi, e fu così che mi ritrovai sotto l’attacco della polizia, che era intervenuta a inseguire e manganellare quando i black bolk erano ormai lontani. Fu in quel momento che capii che essere il più vecchio fra gli avvocati voleva forse dire essere il più esperto, ma certamente non il più veloce a correre e scappare. Tentai, tentammo, qualche intervento per sottrarre i malcapitati alle botte della polizia (ricordo un medico, anche lui con pettorina con scritto “medico G8”), ma con l’unico esito che se la presero anche con me e con chi era con me. Da lì in poi fu chiaro che il compito di interposizione sarebbe stato molto arduo e avrebbe avuto scarso successo. Certo non potevo supporre che la pettorina di avvocato sarebbe diventato uno dei target preferiti dalle forze dell’ordine per manganellare con dei nuovi tipi di strumenti, micidiali, chiamati appropriatamente “tonfa”. Il pomeriggio passò fra l’attacco dei carabinieri al pacifico corteo delle Tute Bianche in via Tolemaide, un autobus dei CC dato alle fiamme e alcuni scontri nei dintorni. Noi avvocati assistevamo quasi impotenti a tutto ciò e facevamo la spola con le nostre postazioni per riferire ciò che avevamo visto. Ma in verità la diretta di una radio e di una TV locale era molto più tempestiva ed esaustiva. A metà pomeriggio, eravamo in piazzale Kennedy, un’infermiera del servizio medico del GFS, Valeria, chiese di essere scortata per raggiungere la sua postazione vicino a Piazza Alimonda, nessuno si fidava più a girare da solo. La scortammo io ed un giovane collega. Arrivammo in Piazza Alimonda ed un manifestante era riverso a terra, non si muoveva più e i CC tenevano la gente a distanza. Dissi che Valeria era infermiera e che poteva visitare il ferito: lei passò e, credo, fu l’ultima a chinarsi su Carlo Giuliani che ancora respirava. A me non mi fecero passare. La tensione era alle stelle, moltissimi i feriti, molti anche i fermati. Ma al mattino si era sparsa la voce che nemmeno noi avvocati avremmo potuto incontrare i fermati perché vi era una sorta di ordinanza del Procuratore Capo che vietava i colloqui fra avvocato e assistito. Non potevo crederci; chiesi ai genovesi dove fosse la più vicina caserma dei CC e mi fu detto a San Giuliano, vista mare. Salii sullo scooter di un giovane collega di nessuna esperienza, che oggi è un noto e bravo criminologo, e andammo alla caserma; qui scoprimmo che alla ordinanza di cui ci era stato detto corrispondeva un provvedimento fotocopiato, uguale per tutti, con soltanto il nome del fermato in bianco da riempire. Non ci fecero nemmeno entrare. Capii che il provvedimento avrebbe potuto coprire comportamenti illegittimi, mai più e mai poi pensai che proprio grazie a quel provvedimento sarebbero state compiute le nefandezze di San Giuliano e, soprattutto, di Bolzaneto. Ripassai il codice di procedura ed ebbi conferma che i colloqui potevano sì essere temporaneamente inibiti dal PM, ma con provvedimento individualmente motivato e non generico e uguale per chiunque. Chiedemmo un colloquio con il Procuratore Capo e ci fu fissato per l’indomani mattina: fu formalmente cordiale, ma molto teso e, ahimé!, senza esito positivo. Ma dicemmo al Procuratore che avrebbe dovuto assumersi la responsabilità di tutte le illegalità che fossero poste in essere grazie all’usbergo del suo provvedimento. Nel tardo pomeriggio di venerdì la notizia della morte di Carlo era ormai purtroppo sicura e conosciuta da tutti. Tenemmo un’assemblea sul da farsi e noi del Legal Forum ci esprimemmo a favore del confermare la grande manifestazione dell’indomani e che noi saremmo stati ancora “di servizio”. Poi, sempre sullo scooter del giovane collega, andammo a verificare che tutto fosse calmo nei vari campi e vedemmo come molti manifestanti erano stati ridotti. Vedemmo un pulmino intero di greci feriti, che non volevano andare in ospedale preferendo cure arrembate, ma potere ritornare in patria il giorno dopo. Poi, sempre gli stessi due in scooter, andammo alla Pascoli e parlammo con gli addetti di Indymedia e del nostro centro legale. Ci chiesero che cosa dovessero fare se la polizia fosse intervenuta e avesse richiesto il contenuto dei computer con dentro le molte denunce e testimonianze raccolte quel giorno. Risposi che, se c’era un mandato di perquisizione, non c’era che consegnare il materiale, e comunque - mi raccomandai - “fate una copia su floppy di tutto e nascondetela altrove”. Mai un mio consiglio “legale” fu più provvidenziale, visto che la sera dopo la polizia entrò nei due centri distruggendo tutti i computer. Il giorno seguente, sabato, dopo l’incontro con il Procuratore, scendo sul viale a mare per intercettare la manifestazione. Erano già passati i black blok procedendo indisturbati a vandalizzare quanto potevano, e solo a questo punto le forze dell’ordine intervenivano caricando, picchiando e arrestando a casaccio i pacifici manifestanti venuti da tutta Italia. Noi avvocati abbiamo cercato di intervenire per chi era sotto i colpi dei “tonfa”, ma senza successo, anzi, beccandoci colpi anche noi. Alle 8 di sera, dopo avere cercato di sapere quanti mai erano gli arrestati, tornai al mio paese, per prepararmi alle convalide che ci sarebbero state il lunedì. Non feci in tempo a metter il piede in casa che squilla il telefono. Stavano succedendo cose inenarrabili alla Diaz e alla Pascoli, compreso al nostro centro legale. Troppo tardi per me per rifare all’indietro i 200 km. per Genova. Ho detto che il nostro intervento in quei giorni in piazza “con la pettorina” non fu ben visto da molti colleghi. Era una novità che noi pochi avevamo mutuato da esperienze straniere. Ma, per esempio, il Consiglio dell’Ordine di Genova (ma non fu il solo) parlò di “comportamento non dignitoso” e pure di “concorrenza sleale” e “accaparramento di clientela”. Alcuni Consigli iniziarono procedimenti a carico dei loro iscritti così “inappropriati”, ma poi non mi risulta che abbiano proseguito su questa linea. Peggio fu che anche all’interno della mia associazione, l’Unione delle Camere Penali, qualcuno storceva il naso e al nostro congresso nazionale, che si svolse a Roma il settembre successivo, il comportamento mio e del mio gruppo fu attaccato, domandandosi “dove andremo mai a finire”. Mi difesi con una certa dignità, ma non ce ne fu più bisogno dopo che Valerio Spigarelli si schierò con noi e con la libertà di condurre la professione come ci pareva, purché in difesa dei più deboli, i cui diritti venivano calpestati: anche in piazza, anche nel momento in cui venivano calpestati. “Cara ministra, Giuseppe Marcianò è troppo malato per stare in carcere” di Simona Musco Il Dubbio, 14 luglio 2021 La lettera del legale dell’uomo condannato per l’omicidio Fortugno alla Guardasigilli: “Venga a Milano Opera a verificare se la sua grave malattia si possa curare in cella”. “A me non interessa discutere delle sentenze. I processi sono chiusi. L’unico aspetto che mi interessa è la salute del mio assistito. E la situazione è critica”. A dirlo è l’avvocato Antonio Spadaro, difensore di Giuseppe Marcianò, arrestato il 21 giugno 2006 e condannato all’ergastolo in via definitiva per l’omicidio di Francesco Fortugno, all’epoca vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria. Marcianò, nel 2015, ha scoperto di essere affetto da sclerosi multipla e nonostante i diversi esposti indirizzati al magistrato di sorveglianza per ottenere cure adeguata ad oggi non ha ottenuto risposta. E ora, nella speranza di poter affrontare in maniera dignitosa la propria malattia, ha scritto, attraverso il suo avvocato, alla ministra della Giustizia Marta Cartabia e per conoscenza al garante nazionale per i diritti delle persone detenute o private della libertà personale, chiedendole di visitare il carcere di Milano Opera, dove si trova recluso, per vedere dal vivo la situazione in cui si trova. “Quello che chiedo spiega Spadaro al Dubbio - non è che sia libero di andarsene in giro in libertà, ma che si verifichi se effettivamente un essere umano può essere mantenuto in carcere in quella condizione”. Dal 2016 Marcianò, che si trova in alta sicurezza, ha presentato nove esposti, evidenziando, tra le altre cose, l’assenza di un medico a cui rivolgersi, la mancata somministrazione della dieta prescritta e autorizzata dal magistrato e la sospensione di farmaci. “Quello che chiede - continua Spadaro - è di essere curato, di essere ricoverato. Un anno fa abbiamo scritto anche al Presidente della Repubblica, unica lettera alla quale abbiamo ricevuto risposta, e ci era stato detto che la questione sarebbe stata sottoposta all’attenzione del ministro. Ma non è successo nulla”. La malattia è in stato avanzato e l’ultima risonanza effettuata ha evidenziato la presenza di ulteriori lesioni midollari. A ciò si associa la difficoltà a deambulare e, talvolta, anche a parlare. “Avrebbe bisogno di fisioterapia continua - spiega ancora il legale. È stato anche riconosciuto portatore di handicap, ma non è cambiato nulla”. La norma vuole che ad ogni istanza avanzata dal detenuto il Tribunale nomini un medico per verificare se la patologia sia curabile o meno in carcere. Ma il medico, spiega il legale, non è stato mai nominato, in quanto “le cure vengono somministrate con regolarità”. Ma nonostante questo Marcianò continua a peggiorare di giorno in giorno, “a dimostrazione che le cure sanitarie praticate in ambito intramurario non producono alcun beneficio. Probabilmente ha bisogno di una struttura altamente specializzata”, evidenzia Spadaro. Nella lettera, che definisce una “richiesta d’aiuto”, il legale evidenza “la mancanza di interventi sanitari per la sua grave patologia (sclerosi multipla degenerativa e peggiorativa) che negli anni è pericolosamente peggiorata”. I magistrati di sorveglianza incaricati di valutare le istanze di differimento della pena avanzate dalla difesa hanno sempre rigettato le richieste, senza nominare mai un medico, “in modo da poter verificare se la grave condizione sanitaria del condannato, derivante dalla sua grave patologia, fosse o non fosse curabile all’interno della struttura carceraria”. La richiesta non è tesa a stabilire se Marcianò sia o meno compatibile con il carcere, ma “comprendere se quella patologia (grave) sia curabile in carcere e, nel caso non lo fosse, sancire la sussistenza dell’incompatibilità assoluta tra la patologia e lo stato di detenzione - si legge nella lettera -; per come statuito dalla Suprema Corte di Cassazione, occorrerà verificare che l’infermità e/ o la malattia non siano tali da comportare un serio pericolo di vita, in assenza di adeguate cure mediche in ambito carcerario, o ancora da causare al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e del senso di umanità al quale deve essere sempre improntato il trattamento penitenziario”. Lo scopo della lettera è ottenere una valutazione complessiva dello stato di salute di Marcianò, in grado di tener conto anche del tasso di logoramento fisico legato alla condizione di detenzione, per verificare in che modo la struttura carceraria sia compatibile con le sue condizioni di salute, se le cure siano soddisfacenti e adeguate e “se il continuo peggioramento della malattia sia da imputarsi solo al normale decorso della stessa o non anche alla condizione detentiva e se tale condizione si collochi al di sopra di quel livello di dignità dell’esistenza che deve essere assicurato a tutti i detenuti”. Senza tale valutazione, denuncia Spadaro, si rischia di andare incontro ad una violazione degli articoli 3, 25 e 27 della Costituzione, “i quali riguardano l’uguaglianza formale di tutti i cittadini dinanzi alla legge, la legalità e la proporzionalità della pena, la personalità e l’umanizzazione della stessa, nonché la rieducazione del condannato, che si mostra principio cardine di una giustizia la cui ratio deve ricercarsi non soltanto nella repressione ma, altresì, nel “tentativo” di recupero sociale del reo”. Ma si violerebbe anche l’articolo 3 della Cedu, che garantisce il diritto alla salute delle persone detenute, conclude Spadaro. Che nella sua lettera cita proprio Cartabia: “Per tutti il carcere deve avere finestre aperte sul futuro, deve essere volto a un futuro di reinserimento sociale, come esige la Costituzione”. Modena. Pestaggio in carcere dopo la rivolta: s’indaga per tortura Gazzetta di Modena, 14 luglio 2021 Fascicolo contro ignoti per un’altra denuncia: viene da un detenuto che racconta le presunte brutalità dopo la tragica rivolta a Sant’Anna dell’8 marzo 2020. “Calci, pugni e manganellate. Dicevano: “Taci e stai a testa bassa!”. Ipotesi di reato contro ignoti: tortura e lesioni aggravate. È questo il fascicolo che starebbe aprendo la Procura di Modena per un nuovo ramo nel filone di indagini riguardanti le testimonianze di pestaggi e brutalità avvenuti dopo la rivolta dell’8 marzo 2020 e durante i trasferimenti in altri istituti. La Procura non conferma e non smentisce questo nuovo accertamento, particolarmente grave, rivelato in servizio di Rai3 Emilia-Romagna che implica un reato nuovo a carico di eventuali agenti della penitenziaria. Si sa invece che si basa sull’esposto inviato il 20 febbraio scorso da un detenuto che era presente al momento della rivolta e che riferisce di essere stato sottoposto a un pestaggio, oltre ad aver assistito a un secondo pestaggio così violento da credere che il detenuto preso di mira fosse morto. “Stai zitto, abbassa la testa!” Questo l’ordine che gli veniva gridato mentre calci, pugni e manganellate gli piovevano addosso, al punto da provocargli la frattura di una mano e varie lesioni poi sottoposte a cura al carcere di destinazione finale, a Forlì. I fatti si riferiscono, come sempre in questi casi, alle ore successive alla rivolta, quando era già stata sedata e Sant’Anna era un carcere distrutto e in parte bruciato. I detenuti, racconta anche questo testimone, venivano tenuti a gruppi. Racconta di essere fuggito da una zona in cui divampava l’incendio. “Sono uscito a mani in alto, ma mi hanno fatto sdraiare per terrea e ammanettato. Mi hanno picchiato violentemente con calci, pugni e anche col manganello. Ho cercato di spiegare che non avevo fatto nulla ma mi hanno picchiato ancora. Poi sono arrivati altri agenti ma, anziché aiutarmi, mi hanno picchiato anche loro”. Subito dopo gli sono arrivate altre botte, scrive nel suo esposto, nel momento in cui ha cerato di difendere un altro detenuto, un ragazzo tunisino anche lui ammanettato e immobilizzato: “Lo hanno picchiato così violentemente che mi cadeva addosso. Pensavo fosse svenuto. Gli dicevo di svegliarsi ma non rispondeva. Ho capito che era morto. Ho provato a protestare per lui ma mi dicevano di star zitto e abbassare la testa e poi venivo picchiato ancora”. Poi si accorge che il corpo del ragazzo accanto a lui, senza segni di vita “veniva trascinato fuori come un animale”. Non si sa chi sia il ragazzo che credeva morto. Potrebbe essere una delle nove vittime, anche se ufficialmente queste sono tutte morte solamente a causa dell’overdose da metadone e psicofarmaci. Potrebbe però anche aver creduto erroneamente morto quel ragazzo, mentre invece è sopravvissuto. Una vicenda della quale ancora non si sa nulla e che è al centro di accertamenti finora senza esiti positivi sull’identificazione. Quanto agli agenti che hanno partecipato al duplice pestaggio, il detenuto sostiene di poterli identificare. Modena. Rivolta in carcere, c’è un secondo fascicolo di Francesco Vecchi Il Resto del Carlino, 14 luglio 2021 La procura starebbe indagando su violenze subite da un detenuto poi trasferito a Forlì che in merito ha presentato un esposto. In procura è stato aperto un secondo fascicolo dopo i tragici fatti accaduti tra l’8 e il 9 marzo del 2020 dentro al carcere di Sant’Anna, quando, a seguito di una rivolta esplosa per i timori legati alla diffusione del Covid-19 morirono nove detenuti (uno, Salvatore Piscitelli, dopo il trasferimento ad Ascoli). Lo scorso giugno l’ordinanza del giudice per le indagini preliminari Andrea Romito respingendo l’opposizione alla richiesta d’archiviazione presentata dall’associazione Antigone, dal Garante dei detenuti e dall’avvocato dei parenti di una delle vittime, ha chiuso l’indagine principale, dove si ipotizzavano i reati di omicidio colposo e morte o lesioni come conseguenza di altro delitto. Gli otto decessi (perché sul nono, appunto, sono al lavoro i magistrati di Ascoli Piceno) sarebbero stati causati dall’asportazione violenta e dall’assunzione di “estesi quantitativi di medicinali correttamente custoditi all’interno del locale a ciò preposto”, si evince nell’atto. Le indagini hanno quindi confermato che gli otto detenuti sarebbero morti per overdose da farmaci. Ricostruzione ampiamente contestata dai legali che si sono opposti alla richiesta di archiviazione presentata dai pm; per gli avvocati in questione esistono nella vicenda zone d’ombra che chiamano in causa automaticamente la polizia penitenziaria e le forze dell’ordine intervenute per sedare la rivolta. Emerge ora l’esistenza, appunto, di un secondo fascicolo, che sarebbe stato aperto a seguito di un esposto presentato da un detenuto poi trasferito a Forlì. Nell’atto in questione vengono denunciate violenze gratuite ed immotivate. Più nello specifico l’uomo racconta di essere stato picchiato con calci, pugni e manganellate quando stava soltanto allontanandosi dalla zona del carcere dove si era sviluppato un incendio. Una denuncia che porterebbe dunque all’ipotesi di reato di tortura, fattispecie introdotta in Italia nel 2017. Condizionale obbligatorio, però, perché in merito a quello che ipotizza la magistratura in questo secondo fascicolo a carico di ignoti e finora inedito non arrivano conferme o smentite. L’esposto di cui stiamo trattando è stato presentato in procura tra la fine di gennaio e febbraio scorsi. Il racconto che il detenuto fa di quanto avrebbe subito potrebbe quindi aprire a scenari nuovi legati alla tragedia del Sant’Anna. Scenari nuovi a livello di indagini, perché in realtà di presunte violenze avvenute in quel marzo nel pieno della pandemia già altri detenuti avevano parlato, senza però che risultassero aperture di fascicoli in merito. Modena. Detenuti morti, Rifondazione si mobilita “Giusto lottare ancora” Gazzetta di Modena, 14 luglio 2021 “Sosterremo la richiesta di portare il caso alla Corte europea”. L’archiviazione sulle otto morti in carcere dell’8 marzo 2020 non pone la parola “fine” alla vicenda. E così Rifondazione Comunista si pone al fianco del comitato Verità e Giustizia per la strage del Sant’Anna. “È stata un’archiviazione troppo frettolosa quella disposta dal giudice”, dicono all’unisono Maurizio Acerbo e Stefano Lugli, segretario nazionale e regionale del partito. Lugli s’addentra nella strategia per la battaglia legale modenese. “Affianchiamo il comitato che ha fatto un lavoro egregio nel produrre testimonianze - ribadisce - e ha messo in evidenza sia contraddizioni sia lacune. Chiediamo che si vada avanti per cercare verità e giustizia”. Il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) è un’ipotesi sul tavolo. L’ha annunciata l’associazione Antigone, che si è opposta, insieme al Garante dei detenuti, alla richiesta di archiviazione. “Sosterremo la richiesta di portare il caso alla Corte europea - rimarca Lugli - perché è un fatto gravissimo, che richiede di essere indagato con maggiore attenzione”. Sul caso di Modena interviene anche il segretario nazionale. “Affiancheremo Antigone e lo stesso comitato per continuare una battaglia di verità - rivendica Acerbo - e per appurare perché si è arrivati al numero enorme di morti, che sono stati rimossi”. Acerbo traccia un parallelo tra i fatti di Modena e di Santa Maria Capua Vetere. “La vicenda e le immagini mostrano una realtà che denunciamo da anni - incalza - Non significa che tutte le guardie carcerarie facciano così né che in tutte le carceri accadano episodi analoghi”. Rifondazione Comunista infine pone l’accento sul trasferimento al Sant’Anna di detenuti dal carcere casertano. “Nelle nostre carceri c’è un problema di sovraffollamento - prosegue Acerbo - e c’era anche in quei giorni che hanno preceduto le rivolte, costate tredici morti in Italia. C’è un problema di attuazione della Costituzione anche dentro le carceri. Va garantito a tutti i detenuti il rispetto della Costituzione repubblicana. Proposte? Ci sono reati da depenalizzare e c’è bisogno di lavorare sulle pene alternative al carcere”. Benevento. Protestano 90 detenuti dell’alta sicurezza La Repubblica, 14 luglio 2021 Da ieri sera è in atto una protesta nel carcere di Benevento dove oltre 90 detenuti, tutti del circuito di alta sicurezza, si rifiutano di entrare nelle celle. A denunciarlo è il Sindacato di polizia penitenziaria (Spp). “Avevamo avvertito che il clamore e la gogna mediatica riservata al personale di polizia penitenziaria, dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere, avrebbe portato a quel clima di destabilizzazione del sistema penitenziario avvertendo che le stesse menti delle rivolte dello scorso anno avrebbero potuto approfittarne per dare vita a nuove proteste”, fa sapere il segretario generale Aldo Di Giacomo. La motivazione della rivolta, come spiegano dal Spp, parrebbe essere la richiesta di allontanamento del comandante e del direttore. Lecco. Allarme per il carcere, 62% di detenuti tossicodipendenti primalecco.it, 14 luglio 2021 A sollevare il velo sulla inquietante situazione della casa circondariale di Pescarenico è L’Associazione per l’Iniziativa Radicale Myriam Cazzavillan che ha pubblicato il Secondo Libro Bianco sulle carceri Lombarde. “Se non è zuppa è pan bagnato. La riforma Orlando proposta e non approvata dal governo Gentiloni è stata seguita da quella cestinata dal Governo Conte ma il risultato è lo stesso col governo del cambiamento e col governo che è stato cambiato. A fronte di una situazione grave nulla è stato fatto per riportare le carceri italiane nell’alveo della costituzione più bella del mondo”. Il sodalizio ha analizzato in particolare la situazione delle case di pena Lombarde e quella di Lecco, purtroppo, spicca non certo per eccellenza. “la grave mancanza di agenti penitenziari di Lecco (meno 15%) e Mantova (meno 26%) tenendo conto del personale in più che servirebbe in base al sovraffollamento va a meno 41% e a meno 44% e gli educatori a Lecco (meno 50%) e vanno a meno 65% e 38%.” sottolineano gli estensori del Libro Bianco. “Il record del sovraffollamento va a Vigevano col 68%. Seguono Opera al 46% e Lecco al 43%. Sempre Lecco deve gestire il 62% di detenuti tossicodipendenti, dovendo quindi svolgere il lavoro di una comunità di recupero essendone privo dei mezzi. Più ridotta per fortuna la presenza di pazienti psichiatrici”. “Purtroppo a seguito di un provvedimento del Ministero della Giustizia quando il titolare era Orlando sono stati bloccati i questionari che sottoponevamo agli istituti che visitavamo, per cui questo anno molti dati non sono disponibili, e ne risulta carente la sezione del libro bianco sul lavoro. Udine. Carcere, la trasparenza è d’obbligo di Franco Corleone friulisera.it, 14 luglio 2021 Il Garante per i diritti dei detenuti, chiede chiarezza su una morte improvvisa di un 22enne nel carcere di via Spalato a Udine. Si chiamava Ziad Dzhihad Krizh. Era un giovane detenuto di 22 anni, è morto a Udine, nel carcere di Via Spalato il 15 marzo 2020. È uno dei tanti detenuti morti in cella in questo periodo di pandemia, segnato da un peggioramento delle condizioni e anche da forti proteste e da pesanti repressioni. Da ultimo, l’orrendo pestaggio di massa avvenuto nello stesso periodo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere che ha finalmente scosso la società italiana e ha portato la ministra della giustizia Marta Cartabia a parlare di tradimento della Costituzione e di oltraggio alla dignità della persona dei detenuti, deve spingere tutti a cercare e a realizzare il massimo di trasparenza su quanto succede dietro le mura delle prigioni. La morte di Ziad appare assai poco limpida e le sue cause poco chiare, tanto da essere oggetto di una inchiesta ancora aperta. Per questo ho cercato di approfondire, esaminando le relative perizie. Addentrarsi nei dettagli e negli aspetti e linguaggi tecnici e specialistici è sempre un po’ ostico, ma anche necessario per provare a capire ciò che può essere successo. Vediamoli. L’analisi chimico-tossicologiche sui campioni biologici prelevati dal cadavere ed effettuata dal dr. Antonio Colatutto e consegnata alla Procura della Repubblica del tribunale di Udine il 10 agosto dello scorso anno, attesta che si trovano tracce solo di metadone e di benzodiazepine, assenti tracce di oppiacei, cannabis, cocaina, amfetamina, ecstasy, buprenorfina ed etanolo. La dr.ssa Elena Torresin, Sostituto Procuratore del Tribunale di Udine, immediatamente aveva posto al prof. Carlo Moreschi, il perito nominato, una serie di quesiti assai puntuali per l’accertamento delle cause del decesso e i mezzi che l’abbiano prodotto e riguardo l’eventuale presenza di lesioni esterne e interne che abbiano nesso di causalità con la morte e la genesi delle stesse. La perizia fu depositata il 29 settembre 2020 e la dr.ssa Torresin richiese una integrazione specificando alcuni approfondimenti. In particolare, chiese se “le cause del decesso fossero riconducibili a errori diagnostici e/o terapeutici dei sanitari che lo ebbero in cura presso la Casa Circondariale di Udine, specificando, in caso affermativo, se siano state osservate le linee guida, protocolli o buone prassi applicabili al caso in esame, il titolo e il grado di colpa”, domandando, infine, di conoscere “ogni altra circostanza ritenuta necessaria o utile all’accertamento dei fatti”. Il 12 febbraio 2021 il prof. Moreschi inviò la seconda consulenza. Krizh venne trovato - dall’infermiere incaricato della distribuzione dei medicinali - privo di coscienza alle 7.45. Decedeva alle 8.21, dopo che gli era stato eseguito massaggio cardiaco e con defibrillatore. La cella n. 13, che lo alloggiava, era occupata da cinque detenuti; il sesto, che avrebbe ceduto dell’hashish a Krizh, era uscito dal carcere il 7 marzo. I compagni di detenzione riferiscono che il giorno prima la vittima aveva uno stato febbrile, sopra il 37.5 gradi. Un altro detenuto attesta che alle cinque Krizh era vivo perché lo aveva sentito russare. Vediamo il diario clinico. La visita di primo ingresso gli viene fatta il 5 novembre 2019; da essa risulta l’autodichiarazione di consumo di diverse sostanze stupefacenti risalente a quattro mesi prima. Non è presente sindrome di astinenza e viene prescritta una terapia con Diazepam e Seroquel. Il 26 febbraio 2020, dopo quattro mesi, viene prescritta una terapia di Diclofenac per una lombalgia cronica. Il 1° marzo viene citata una Osservazione clinica, non si sa da chi sia stata effettuata e il paziente riferisce “uno stato di agitazione con sintomi psicotici da abuso prolungato da metanfetamine e crack. Sta usando Suboxone e Tramadolo con beneficio sulla sua condizione di dolore e agitazione. Si prescrive quindi Metadone 20 mg”. Appare anche l’indicazione di somministrazione di Rivotril mattina e pomeriggio, Lyrica mattina e pomeriggio, Rivotril, Seroquel. Dunque, un pesante cocktail di farmaci, non si capisce da chi e perché prescritti. Il 5 marzo viene richiesta visita del Servizio per le tossicodipendenze (SerT) per una rivalutazione della terapia. Il 14 marzo, il giorno prima della morte, Kritzh viene sottoposto a visita medica in sezione, cioè in cella con dubbio rispetto della privacy. In quella circostanza avrebbe dichiarato “di aver fatto abuso in questi giorni di sostanze stupefacenti (cannabinoidi) e altre sostanze”. Gli viene consegnata una mascherina chirurgica per prevenzione Covid. Nella autopsia vengono segnalate varie escoriazioni compatibili con atti di autolesionismo. Per il resto non vi sono rilevazioni di patologie. È un giovane sano. Il prof. Moreschi adduce come causa della morte una overdose di metadone. In realtà, è costretto a ipotizzare “l’assunzione contemporanea di altri farmaci e sostanze che possono agire con effetto additivo nell’aumentare il rischio di morte. Solitamente i decessi dovuti all’assunzione di metadone si verificano per arresto respiratorio spesso nel contesto di abuso di più sostanze”. La relazione che dovrebbe rispondere agli ulteriori quesiti è invece più scarna e burocratica della precedente, ma compare l’indicazione di visite mediche non citate: il 21 novembre viene ancora modificata la terapia farmacologica con inserimento di Tavor, conferma di Seroquel e Rivotril e sospensione di Valium. Nei giorni seguenti per una lombalgia di origine misteriosa viene trattato con farmaci antinfiammatori; nel febbraio 2020 risulta una visita del medico SerT con prescrizione di Lyrica, sospensione di Seroquel sostituito con Nozinam e aumentato il Rivotril. Non si capisce se è stata prescritta anche la buprenorfina. Con assoluta sicurezza il prof. Moreschi attesta che “non si ravvisano errori diagnostici e/o terapeutici dei sanitari. Il decesso non è correlabile alle cure prestate”. Una sicurezza che, francamente, è difficile da condividere. Ho allora chiesto consiglio a un amico, che è stato per molti anni direttore del Dipartimento Dipendenze della Asl di Napoli e sono emersi molti interrogativi: 1) Come mai non sono stati ricercati i metaboliti degli psicofarmaci somministrati? 2) Perché non è stato somministrato il naloxone (antagonista degli oppioidi per l’overdose) e l’anexate (antidoto per le benzodiazepine)? 3) Perché era in carico al SerT e perché era in terapia con metadone pur non facendo uso di eroina? E perché il metadone non era somministrato in infermeria? 4) Risulta che al 1° marzo Kritz avesse una terapia con Rivotril (benzodiazepina di abuso dei tossicodipendenti) Seroquel, Lyrica e Metadone. Tali farmaci possono interagire tra loro e potenziare vicendevolmente gli effetti sedatici e depressivi sul sistema centrale. 5) Al test tossicologico delle urine compare solo THC e benzodiazepine, in quello del sangue compare il metadone (tracce). Non può essere causa della morte la cannabis. Inoltre, Kritz assumeva il metadone per cui aveva una tolleranza che rende poco probabile l’ipotesi di una overdose legata questo oppioide, visti i dosaggi. 6) La valutazione delle lesioni appare assai superficiale, mentre potrebbe spiegare lo stato di depressione e confusione che viene descritto. In definitiva, mi pare che l’ipotesi che il cocktail di farmaci prescritti abbia causato effetti deleteri non possa essere scartata. Così pure, appare una evidente confusione e contraddittorietà nelle prescrizioni scritte o in quelle di fatto e nelle visite mediche effettuate. Soprattutto di fronte a un quadro clinico precario come quello che emergeva dalla visita del 14 marzo, appare una scelta discutibile lasciare il paziente in cella e non provvedere piuttosto a un ricovero o a una sistemazione più consona con una previsione di visita notturna. Una sola conclusione mi sento al momento di fare: il diritto alla vita e alla salute sono fondamentali e vanno tutelati (anche) per i detenuti, il cui corpo è nelle mani dello Stato, con la massima cura e attenzione. Chi lavora nel carcere deve essere messo nelle condizioni di farlo adeguatamente e occorre valutare la presenza di un medico di notte. La perizia, con un pizzico di cinismo tautologico, ci dice che Kritz è morto perché è morto. Non basta. Può darsi che il giovane avesse invece voglia di vivere. Ora che è deceduto gli si deve almeno chiarezza e trasparenza, rigore negli accertamenti e nelle conclusioni. Perciò ho fiducia che la dott.ssa Elena Torresin deciderà con sagacia e umanità. Como. Garante dei diritti dei detenuti, domande entro il 30 agosto Corriere di Como, 14 luglio 2021 È stato pubblicato all’albo pretorio l’avviso per la selezione comparativa per l’incarico di Garante per i diritti delle persone private della libertà personale. L’incarico è a titolo gratuito con la possibilità di rimborso delle spese documentate fino a un massimo di 3.000 euro l’anno, e ha la durata di tre anni. Il Garante opera per migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà personale con una serie di iniziative che può promuovere a tutela dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali, con particolare riferimento ai diritti fondamentali, alla casa, al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute, allo sport, per quanto nelle attribuzioni e nelle competenze del Comune, tenendo conto della loro condizione di restrizione. Le attività che potrà porre in essere e gli obiettivi sono meglio specificati nel regolamento pubblicato nella pagina dedicata a Statuto e regolamenti del sito istituzionale del Comune (link diretto al regolamento: https://www.comune.como.it/export/sites/default/it/doc/regolamenti/Regolamento-Garante-detenuti.pdf) Per ricoprire questo incarico è richiesta comprovata competenza nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani, ovvero delle attività sociali negli Istituti di prevenzione e pena e nei centri di servizio sociale, che per esperienze acquisite nella tutela dei diritti, offra la massima garanzia di probità, indipendenza, obiettività, competenza e capacità di esercitare efficacemente le proprie funzioni. Le domande vanno presentate secondo le modalità indicate nell’avviso entro il 30 agosto 2021. Diritti civili. Fallisce il blitz di Salvini, ddl Zan avanti al Senato di Giovanna Vitale La Repubblica, 14 luglio 2021 Bagarre in aula e lavori subito sospesi, ma i capigruppo dicono no al ritorno in commissione. Renzi e la Lega insistono per modificare il provvedimento, il cui voto rischia di slittare a settembre. Come in un gigantesco gioco dell’oca, nel giorno in cui il ddl Zan approda nell’aula del Senato dopo otto mesi di ostruzionismo leghista, il partito di Matteo Salvini prova a far ripartire dal via l’istruttoria sulla legge contro l’omotransfobia. Proponendo subito di sospendere i lavori per tornare al tavolo della maggioranza e tentare un’ultima mediazione. E pazienza se a quel tavolo una mediazione è già stata tentata ed è miseramente fallita. L’importante è prendere ancora tempo, indirizzare il testo verso un binario morto. Ma la manovra riesce solo in parte: dopo un pomeriggio di battaglia, tra questioni di pregiudizialità e cori da stadio, l’avvio della discussione generale è rinviata a oggi; martedì prossimo scadrà il termine per depositare gli emendamenti; dopodiché si comincerà a votare. Quando, però, resta un rebus: causa ingorgo di decreti più urgenti, che avranno la precedenza su tutto. Entro il 24 va convertito il Sostegni bis, entro il 30 il Semplificazioni. Per la Zan il percorso si fa comunque a ostacoli, con il rischio concreto di un rinvio a settembre. La seduta non è ancora iniziata quando i senatori si mettono ad armeggiare col pallottoliere. All’appello mancano 11 grillini, nel Pd gli assenti giustificati sono tre. Numeri che, se si dovesse votare oggi, porterebbero la legge contro i crimini d’odio dritta contro un muro. Lo dice chiaro Matteo Richetti, unico esponente di Azione: “Se il clima resta questo, al primo scrutinio segreto ci andiamo a schiantare”. Riflessione condivisa con l’azzurro Andrea Cangini, fra i più favorevoli al ddl, sebbene modificato: “Così non passa”. Mentre Roberto Calderoli, mago delle manovre d’aula, già gongola: “Stavolta non presenteremo migliaia di emendamenti, ma pochi e ben mirati, userò il mitra di precisione”. Ecco perché Italia viva si agita. E decide - insieme a Fi e l’appoggio esplicito di FdI - di sostenere la richiesta del capo della commissione Giustizia, Andrea Ostellari, per sospendere la seduta e far ripartire la caccia a un improbabile compromesso. Con la sponda della presidente Casellati, che dopo l’intervento del leghista decide di convocare in chat - altro inedito assoluto - la conferenza dei capigruppo per verificare “se c’è un percorso per fare una legge insieme”, insiste il renziano Davide Faraone. Ma M5S e Pd non ci stanno. E in aula esplode la bagarre. Ci prova il dem Franco Mirabelli a spiegare che la proposta del Carroccio è “l’ennesima melina per affondare una legge che dà tutela a migliaia di persone e si tenta invece di affondare con giochetti, tattiche e furbizie”, ma i buuuu e le urla provenienti da destra lo sovrastano. Finché l’ex presidente del Senato Piero Grasso non perde la pazienza e se la prende con colei che l’ha sostituito sullo scranno più alto di palazzo Madama: “Dobbiamo ristabilire la verità in quest’aula”, esordisce l’ex magistrato mentre l’emiciclo si trasforma in un’arena. “Lei non può consentire ad Ostellari di dare la sua versione, tra l’altro non corretta, sui lavori della Commissione senza ascoltare noi”, si sgola. “Abbiamo dovuto forzare per discutere questo provvedimento e ora torniamo indietro? Lei non lo deve consentire”, si inalbera. E quando la grillina Maiorino accusa la Lega di “non aver alcun interesse” a varare il ddl Zan, l’assemblea si trasforma in un ring. Costringendo la presidente a brandire il campanello per riportare la calma: “Non voglio un clima da stadio, gli Europei li abbiamo già vinti”. Ma non c’è verso. Gli animi sono infuocati. “Come facciamo a parlare di legge contro l’odio se non riusciamo a confrontarci civilmente?”, si rammarica la capogruppo delle Autonomie, Julia Unterberger chiedendo di fare “tutti un passo indietro”. Impossibile, a giudicare dalla distanza fra le opposte fazioni. Sono i capigruppo a certificare il burrone che li divide. La proposta del centrodestra e di Iv di prendere tempo per una nuova mediazione viene rispedita al mittente. “Ci abbiamo già provato e non è andata bene”, fa muro il 5 Stelle Ettore Licheri. Alla fine la decisione è presa: entro il 20 luglio vanno depositati gli emendamenti, invece le pregiudiziali di costituzionalità firmate da Lega e FdI si votano subito. A esprimersi, con analoghi argomenti, sono sia Renzi sia Salvini. “La prova che sono d’accordo”, sbuffa un senatore dem. “Il mio è un appello molto semplice”, attacca il senatore di Firenze: “Si faccia un accordo sui punti controversi e si chieda a tutte le forze politiche di presentarlo alla Camera entro 15 giorni. Se si andrà allo scontro, muro contro muro, e si andrà allo scrutinio segreto, avrete distrutto le vite di quei ragazzi”. Più o meno il medesimo invito del leader leghista: “Chiedo di superare steccati ideologici e in un mese approviamo una norma di civiltà”. Tesi che pecca di incoerenza, punta il dito Loredana De Petris, capo del Misto: “Perché questo appello a rispettare i diritti non l’ha fatto ai suoi alleati dell’Ungheria di Orban?”. Il voto, palese, respinge le pregiudiziali con 124 sì, 136 no e 4 astenuti. Lo scarto è di appena 12 senatori. Quando ci sarà da misurarsi con lo scrutinio segreto i 17 di Iv saranno decisivi. Ma per oggi la capogruppo pd Simona Malpezzi si gode il successo: “Al Senato la maggioranza per approvare il ddl Zan c’è”. Al riparo dell’urna, però, rischia di rivelarsi una vittoria di Pirro. Diritti civili. Il ddl Zan resiste ai primi assalti, ma i numeri ballano di Carlo Lania Il Manifesto, 14 luglio 2021 Respinto il tentativo di rimandare il testo in commissione Giustizia Bagarre in aula, poi la decisione di proseguire l’esame del testo. I due Matteo insistono ancora quando ormai restano da votare solo le pregiudiziali di costituzionalità. Renzi: “Siamo a un passo dal raggiungere un accordo. O gli ultrà si confrontano o non si porta a casa il risultato e lo scrutinio segreto è un rischio per tutti”. Salvini: “Chiedo ai senatori di superare gli steccati ideologici. Io ringrazio i promotori di questa legge e spero che il tratto finale di questo percorso ci veda tutti insieme perché sarebbe un bellissimo segnale”. Parole pacate dopo gli scontri dei giorni scorsi, che sembrano essere il preludio a un imminente accordo tra i due leader politici per mettere mano pesantemente alla legge contro l’omotransfobia. Che però per adesso resiste, riuscendo a uscire indenne dal primo giorno di discussione nell’aula del Senato. Il risultato non era scontato e anche se le cose potrebbero cambiare nei prossimi giorni, i senatori del fronte che sostiene la legge contro l’omotransfobia - che comprende Pd, M5S e LeU più alcuni colleghi del Misto - alle sette e mezzo di sera possono tirare un sospiro di sollievo. A quell’ora devono ancora esprimersi sulle pregiudiziali di costituzionalità presentate da Lega e Fratelli d’Italia, ma la rassicurazione che arriva durante il dibattito in aula da Matteo Renzi, il quale assicura che Italia viva non le voterà, fa sì che la giornata - respinto il tentativo leghista di rispedire il testo in commissione Giustizia - possa chiudersi senza particolari colpi di scena. Come detto non era affatto scontato. Il blitz della Lega contro il ddl Zan comincia nel primo pomeriggio in commissione Giustizia dove il presidente Andrea Ostellari tenta ancora una volta di cercare un accordo sulle proposte di modifica avanzate da Lega e Italia viva scontrandosi con l’opposizione di Pd, M5S, e LeU. Poi, in aula, Ostellari dà la sua lettura del lavoro svolto dalla commissione: “Ho sentito dire che il ddl Zan è stato bloccato per mesi, ma questa narrazione non è reale”, dice Ostellari negando le accuse di ostruzionismo al testo. Al leghista risponde il dem Franco Mirabelli per il quale “Ostellari ha raccontato una sua versione che è abbastanza forzata se non fantasiosa”. Lega e Fratelli d’Italia puntano a riportare il testo in commissione Giustizia e per questo chiedono alla presidente Casellati di convocare una riunione dei capigruppo. La motivazione, come al solito, è la necessità di arrivare a un accordo sulle modifiche. Pd, M5S e LeU sono contrari, ma i numeri ballano a causa delle troppe assenze: mancano infatti almeno una decina di senatori tra i tre gruppi. Alla fine la richiesta viene accolta dalla Casellati, scatenando una bagarre in aula. Sotto le mascherine alcuni senatori soffiano nei fischietti, urla e grida. “Non siamo allo stadio”, fa notare la presidente. La richiesta dei leghisti viene letta come un ulteriore tentativo di fermare la legge. “Abbiamo dovuto forzare per arrivare a questo punto e ora dobbiamo tornare indietro? Presidente, lei non lo deve consentire”, chiede il senatore di LeU Pietro Grasso. Alla fine la capigruppo decide che il testo rimane in aula e che quindi si procede con i lavori. Fissa inoltre per martedì alle 12 il termine ultimo per la presentazione degli emendamenti. Anche quello sarà un momento utile per capire l’aria che tira per il ddl contro l’omofobia. Se la Lega rinuncia a presentare decide di migliaia di emendamenti, come di solito fa in occasioni simili, ma si limita a poche e mirate proposte di modifica, per alcuni potrebbe significare che l’accordo con Italia viva è fatto e che quindi per il ddl Zan si apre il ritorno alla Camera con il conseguente rischio di un definitivo affossamento della legge. In serata le pregiudiziali di costituzionalità vengono respinte: i contrari sono 136, i favorevoli 124, 4 gli astenuti. Uno scarto di 12 voti, uno in più rispetto alla scorsa settimana quando è stata approvata la calendarizzazione della legge. Risultato in un certo qual modo scontato. A carte scoperte gli equilibri restano più o meno gli stessi nonostante le assenze. Cosa ben diversa sarà quando, con l’esame degli emendamenti, si procederà con voto segreto. Migranti. La mossa di Letta: affidare all’Ue gli accordi con la guardia costiera libica di Giovanna Casadio La Repubblica, 14 luglio 2021 Alla vigilia del voto sul rifinanziamento delle missioni internazionali e sotto la pressione di forti proteste della base dem, della sinistra e delle ong, il Pd chiede che il dossier Tripoli diventi una questione europea. Domani la manifestazione di protesta di 100 associazioni, Cgil e Radicali per chiedere l’interruzione della cooperazione senza garanzie sui diritti umani. Alla vigilia del voto sul rifinanziamento degli accordi con la Libia, arriva la mossa a sorpresa di Enrico Letta: il Pd cambia la partita, chiedendo che il dossier diventi una questione europea. La condizione per approvare il decreto di rifinanziamento delle missioni internazionali passa attraverso una riscrittura del “nodo Libia”. Ecco quindi che addestramento e supporto della Guardia costiera libica devono essere affidati entro sei mesi alla Ue: è la richiesta che parte dal Nazareno. Peraltro, in una realtà ormai cambiata, con il nuovo governo libico, il problema non è più solo di politiche migratorie e di sicurezza, affidate quindi alla ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, ma sono le istituzioni stesse della Libia a essere nelle condizioni di controllare i propri confini e pertanto il dossier riguarda già anche il ministro della Difesa, il pd Lorenzo Guerini. Sono ore di trattative e di incontri politici. Ma è la svolta, di cui per la verità si erano già gettate le basi lo scorso anno. Ora il cambiamento è repentino. Non c’è ancora una riformulazione precisa, né si sa se ci sarà un emendamento del Pd o quale altro strumento parlamentare sarà utilizzato per affermare il nuovo corso. Lia Quartapelle e Enrico Borghi sono i dem che stanno trattando nelle commissioni Esteri e Difesa della Camera. E a Montecitorio si potrebbe votare già domani il rifinanziamento, anche se è probabile uno slittamento almeno di un giorno. Per il Pd è una questione cruciale. Del resto Letta, che fu il premier di Mare Nostrum, la missione di salvataggio in mare dei migranti, ha fatto dei diritti umani uno dei punti centrali della sua segreteria. Nel partito e tra i militanti il clima è acceso e così nel resto della sinistra. Matteo Orfini, ex presidente del Pd, alla guida della pattuglia dem contraria alla collaborazione con la Guardia costiera libica, ricorda che lo scorso anno furono in nove parlamentari a opporsi nel partito. Nella riunione del gruppo dem della scorsa settimana, il fronte sembrava più ampio. Della “scheda 48”, quella appunto in cui si parla di addestramento e appoggio ai libici in funzione anti migranti, nessuno nel centrosinistra è disposto ad assumersi la paternità. “Abbiamo visto le motovedette utilizzate per speronare i migranti e sparare ai pescatori italiani, a cos’altro ci tocca assistere?”, ragiona Orfini. Anche la base è in allerta: è già partito il mailbombing verso il Pd per denunciare la violenza della Guardia costiera libica, rilanciando il filmato della motovedetta che sperona il barchino carico di migranti. Domani pomeriggio manifestazioni davanti alla Camera dei deputati. Sono più di 100 le associazioni e le Ong che aderiscono, anche la Cgil e i Radicali. Il sit in si chiama “Libia: una benda per non vedere?”. La richiesta è precisa: nessun rinnovo della missione in Libia e l’interruzione della cooperazione con le autorità libiche senza garanzie concrete sulla protezione dei diritti e della dignità umana. In poche parole che venga negato il sostegno alla Guardia costiera libica e che siano evacuate immediatamente le persone rinchiuse nei centri di detenzione libici. Un digiuno poi è l’iniziativa lanciata da padre Alex Zanotelli. Il missionario comboniano si rivolge ai parlamentari: “È una violazione della nostra Costituzione, delle leggi internazionali e della nostra umanità. Chiediamo ai deputati di avere il coraggio di votare contro il rifinanziamento della Guardia costiera libica. Ricordiamo a tutti che un voto a favore significa avere le mani sporche di sangue innocente”. La sinistra di Leu e di Nicola Fratoianni si mobilita, così come le 6000 Sardine. Ma forte è la protesta tra i militanti dem. Circa 300 militanti hanno sottoscritto un post di Nella Converti del circolo dem romano dedicato al piccolo naufrago Alan Kurdi. Chiedono lo stop al sostegno alla guardia costiera libica. Questo l’appello al segretario Letta e ai parlamentari che devono votare il rifinanziamento. “Caro Enrico Letta non barattiamo la vita degli esseri umani in nome della governabilità”: incalzano. Richiamano appunto le politiche che Letta fece anche da premier e i gesti simbolici: “Da chi ci ha resi orgogliosi con l’operazione Mare Nostrum, fermando le stragi e salvando migliaia di vite umane, e che appena diventato segretario ha indossato la felpa Open Arms ci aspettiamo ben altro”. Migranti. Ventidue milioni a Tripoli. Le Ong: “Con quegli aiuti violano i diritti umani” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 14 luglio 2021 “Siete ciechi davanti alle torture, fermate questa missione”. Oggi la manifestazione in piazza Montecitorio. Altri 10,5 milioni sono previsti dal voto atteso giovedì in Parlamento. Dall’Italia 49 mezzi militari alla Libia. Per i 60mila migranti respinti un destino di dolore e morte. Che fine hanno fatto le 60mila persone che negli ultimi quattro anni sono state intercettate dalla guardia costiera libica mentre tentavano di raggiungere l’Europa? Uomini, donne, ma anche migliaia di bambini, risucchiati nell’enorme buco nero dei centri di detenzione, oggetto di violenze, stupri, torture, strumento di nuovi ricatti per le famiglie rimaste nei Paesi d’origine. Oppure uccisi, morti di stenti o ancora finiti tra le migliaia di migranti (823 solo dall’inizio dell’anno ad oggi) inghiottiti dal mare. Di loro tutto si può dire tranne che siano stati salvati. Per riportarli lì da dove sono partiti, le spiagge tra la Libia e la Tunisia dove i trafficanti hanno le basi del loro business più fruttuoso della droga, l’Italia ha pagato dal 2017 a oggi più di 22 milioni di euro (solo per le missioni bilaterali di supporto alla guardia costiera libica) e nel 2021 intende investire, nel sostegno ai libici per il controllo della loro zona Sar (ricerca e soccorso) istituita ad hoc, altri 10,5 milioni, 500mila euro in più euro rispetto al 2020. “Ed è solo una piccola parte delle risorse a sostegno della guardia costiera di Tripoli, visto che la cifra più grossa arriva dall’Unione europea attraverso i fondi della cooperazione che, invece di essere spesi in programmi di sviluppo, vengono impiegati per quelli che le stesse agenzie dell’Onu, Unhcr e Oim, definiscono respingimenti (e dunque illegali per l’Europa) e non certo operazioni di soccorso in mare, dice Filippo Miraglia dell’Arci. Quella del 30 giugno in zona Sar Maltese, con i militari libici all’inseguimento, a colpi di mitraglia sparati ad altezza d’uomo, di 62 migranti, è sola l’ultima di una serie di operazioni condotte da uomini addestrati da personale italiano che utilizzano motovedette fornite dall’Italia, tra cui l’ormai tristemente famosa Ras Jadar, ceduta con il primo gruppo di mezzi navali nel 2009 e ripristinata nel 2017, all’inizio del rinnovato patto di formazione e sostegno della Guardia costiera: 23 le motovedette fornite a cui si aggiungono 20 battelli a chiglia oceanica di nuova costruzione e altri due mezzi di prossima consegna. Eppure, quando si tratta di intervenire per soccorrere barconi o gommoni a rischio naufragio, i libici non arrivano quasi mai. La loro sala operativa, a cui il centro di ricerca e soccorso di Roma o le ong girano le segnalazioni, non risponde. E la nave della Marina militare italiana di stanza a Tripoli che dovrebbe solo fornire supporto tecnico, di fatto - come hanno messo in luce diverse inchieste giudiziarie - spesso fa da collegamento con i piani alti della guardia costiera libica dove (anche qui inchieste e report dell’Onu non si contano più) continuano a sedere trafficanti che di giorno vestono la divisa. Difficile non vedere le ripetute violazioni dei diritti umani, di leggi e convenzioni internazionali, tanto che per l’ultimo attacco a colpi d’arma da fuoco della motovedetta libica contro il barcone di migranti poi riparato a Lampedusa il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, ha chiesto alla ministra della giustizia, Marta Cartabia, l’autorizzazione a poter procedere contro i libici per tentato naufragio. Qual è dunque il vero prezzo che l’Italia è disposta a pagare per arginare le partenze dalla Libia? È quello che chiedono le oltre cento tra associazioni, Tavolo asilo e Ong che scenderanno in piazza oggi pomeriggio alle 17 in piazza Montecitorio con una benda bianca sugli occhi “simbolo - dicono - di quelle autorità che si rifiutano di vedere e che si piegano volontariamente alle barbarie e all’annullamento di diritti umani”, per denunciare la responsabilità delle autorità italiane e per chiedere lo stop al rinnovo della missione in Libia, l’evacuazione immediata dei centri di detenzione e il ripristino di un sistema istituzionale di ricerca e soccorso nel Mediterraneo e il rilascio di tutte le navi umanitarie bloccate da fermi amministrativi. In piazza anche migranti che ce l’hanno fatta a raggiungere l’Italia e che racconteranno le storie di violenze subite dalla guardia costiera libica. Migranti. “Libia, una benda per non vedere?”. Oggi in piazza le Ong di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 luglio 2021 Dalle 17 a Montecitorio oltre cento realtà contro il rinnovo dei finanziamenti alle milizie libiche. I numeri di Frontex sugli attraversamenti delle frontiere Ue mostrano che non c’è alcuna emergenza in corso. Sono oltre 100 le organizzazioni non governative, le associazioni e i collettivi che questo pomeriggio dalle 17 presidieranno la piazza romana di Montecitorio per dire al parlamento che sulla Libia bisogna voltare pagina. Quattro le richieste principali: interruzione della missione in Libia e della cooperazione senza garanzie concrete sulla tutela dei diritti umani; fine del sostegno e della collaborazione con la sedicente “Guardia costiera libica”; evacuazione immediata delle persone rinchiuse nei centri di detenzione ed estensione dei canali di ingresso regolari; ripristino di un sistema istituzionale di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale e riconoscimento del ruolo essenziale svolto dalle Ong per la salvaguardia della vita in mare. Il simbolo della manifestazione sarà una benda biancata, indossata a coprire gli occhi per denunciare il comportamento delle autorità, italiane ed europee, che si rifiutano di vedere e accettano la violazione dei diritti umani. A promuoverla, tra gli altri, Arci, Amnesty International, Asgi, Associazione Ong Italiane, Campagna Io Accolgo, LasciateCIEntrare, Libera, Tavolo Asilo e Immigrazione, Un Ponte per. E poi attivisti e volontari delle Ong del Mediterraneo: Open Arms, Mediterranea, Sea-Watch, Medici Senza Frontiere, Sos Mediterranée, ResQ. Intanto ieri la discussa agenzia europea per le frontiere esterne Frontex ha pubblicato i numeri degli “attraversamenti illegali ai confini” del Vecchio Continente: il 59% in più dello scorso anno. Un aumento percentuale che potrebbe generare allarmismo, ma che va letto a partire dalle cifre assolute: 61mila persone, cioè lo 0,0137% degli abitanti dell’Unione Europea. I maggiori aumenti lungo la rotta balcanica (18.604, +92%), quella dell’Africa occidentale che arriva alle Canarie (+144%) e quella del Mediterraneo centrale diretta verso Italia e Malta (21.955, + 159%). I flussi cresciuti di più sono dunque quelli da Libia e soprattutto Tunisia. Secondo Frontex in questi due paesi “le reti di trafficanti hanno ripreso le loro attività”. Ma è lecito pensare che, al di là delle organizzazioni criminali, siano soprattutto la crisi economica, sociale e sanitaria tunisina e la persistente situazione libica caratterizzata da orrori, violenze, detenzioni arbitrarie e instabilità politica a fare da push factor per i migranti che decidono di prendere il mare. I numeri smentiscono invece, e per l’ennesima volta, la teoria del pull factor, secondo cui le navi umanitarie costituirebbero un fattore di attrazione per i migranti. Mai come quest’anno sono state bersagliate da fermi amministrativi e quarantene selettive, eppure gli arrivi sono cresciuti comunque. Più dei flussi, però, sono aumentati i morti annegati in un mare svuotato da assetti istituzionali o civili di soccorso. Dall’inizio dell’anno sono 756 le vittime accertate lungo la rotta centrale, nello stesso periodo del 2020 erano state 262: +188,5%. Impennata anche delle persone catturate dalla “guardia costiera libica” e riportate indietro: al 12 luglio erano 16.206, mentre in tutto il 2020 sono state 11.891 (i dati sono dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni-Oim). “20.500 persone arrivate via mare in Italia al 30 giugno. Niente di paragonabile con i numeri degli anni 2014-17 - ha twittato nei giorni scorsi Flavio Di Giacomo, portavoce per il Mediterraneo dell’Oim - Dati alla mano, non ci sono emergenze numeriche”. Ieri a Lampedusa ci sono stati sette arrivi di barchini provenienti da diverse parti della Tunisia per un totale di 104 persone. 283 sono state trasferite dall’hotspot, dove ne sono rimaste 750. Alarm Phone ha lanciato l’Sos per un barcone con a bordo 80 migranti a poche miglia dalle acque italiane. “A più di 12h dalla prima allerta, le 80 persone sono ancora in pericolo - ha scritto su Twitter Ap intorno alle 18 di ieri - La situazione drammatica a bordo. Il mercantile Chembulk è a poche centinaia di metri ma resta a guardare e non soccorre. Queste persone hanno bisogno di soccorso e di un Pos in Europa!”. Ucciso in Messico, nella città “inferno”, il volontario Colosio di Mara Rodella Corriere della Sera, 14 luglio 2021 Il giovane di Borgosatollo (Bs), 42 anni, Michele Colosio, è stato freddato con quattro colpi di pistola a Cristobal de Las Casas, in Chiapas mentre andava a fare la spesa. “Era bravo con i bambini”: il ricordo del dirigente dell’ospedale di Brescia che l’aveva assunto. Ucciso a colpi di pistola mentre andava a fare la spesa a pochi passi da casa, a San Cristobal de Las Casas, in Chiapas (Messico). Così è morto Michele Colosio, 42enne di Borgosatollo, paesino dell’hinterland di Brescia dove era cresciuto. Nel Paese centroamericano lavorava a progetti di cooperazione e volontariato. Anche la famiglia ha avuto fino ad ora solo notizie frammentarie. La madre Daniela, secondo quanto ricostruito dal Giornale di Brescia, dall’altra notte è al telefono con il Consolato e l’Ambasciata ma anche con diversi italiani che operano nella stessa zona e che, appena saputa la notizia, l’hanno contattata: “Non meritava di fare questa fine, era andato là solo per fare del bene” ha detto la madre. Colosio era un ex tecnico di radiologia al Civile di Brescia e che aveva lasciato tutto per dedicarsi al piccolo podere in Messico. La criminalità e la città “inferno” - Che San Cristobal e i paesi di quella zona fossero dominati da una violenza diffusa lo denunci anche la Casa de Salud nel quale il giovane lavorava: “La povertà diffusa e l’impunità hanno trasformato questa bella città in un inferno” scrive la comunità sul proprio profilo Facebook. Ricordando che grande cuore di Michele Colosio. Un giovane che “è morto dopo un assalto, uno dei tanti - scrivono - che ogni giorno si danno nel villaggio magico di San Cristoforo, una città già alla mercé di tanti gruppi armati (criminalità comune, crimine organizzato, narcos)”. Il movente - C’è infatti da capire se i suoi progetti di volontariato e cooperazione fossero entrati in conflitto con altri interessi. In Messico Colosio gestiva un piccolo podere in cui allevava animali da cortile e progettava interventi per l’istruzione dei bambini poveri. Altra ipotesi è che si sia trattata di una rapina finita male. Da una prima ricostruzione dell’omicidio, gli spari sarebbero partiti da un uomo in sella a una motocicletta verso le 22, ora locale. Sarebbe stato soccorso immediatamente sul posto, poi la disperata corsa in ospedale dove è morto poco dopo a causa delle gravi ferite. Le ultime ore - Mettendo insieme gli spiccioli di informazioni avute dai canali ufficiali e quelle raccolte tra connazionali e amici in Messico, la famiglia di Michele Colosio ha provato a ricostruire le ultime ore dell’uomo. “Era uscito di casa per fare delle compere in un negozio poco distante. Erano circa le 10 di sera, l’alba qui da noi. Qualcuno gli si è avvicinate e lo ha aggredito a colpi di pistola”. Questo è quello che i familiari sono riusciti a sapere finora ma restano numerose altre domande cui dovranno rispondere le autorità locali anche, si spera, con l’appoggio delle strutture diplomatiche italiane. Intanto alcuni dettagli in più arrivano da un giornale locale secondo cui gli spari sarebbero arrivati da una motocicletta in corsa. “Predisposto a lavorare con i bimbi” - Luigi Peroni, dirigente dell’ospedale Civile di Brescia e presidente dell’Ordine delle professioni sanitarie, se lo ricorda Michele Colosio. L’aveva fatto lui il colloquio per l’assunzione al Civile, diversi anni fa. “Ha accettato di lavorare subito in Radiologia pediatrica. È difficile che i giovani, freschi di laurea, accettino di partire dal settore pediatrico perché le tecniche di diagnostica sono più complesse con i bambini. Le dosi dei raggi sono inferiori e bisogna avere delle attenzioni particolari per mobilizzare il paziente. Ci vuole una predisposizione particolare” racconta Peroni. Che infatti ricorda il “carattere tranquillo” di Michele Colosio. “Noi tecnici di solito siamo freddi e matematici, lavoriamo con le macchine, siamo bravi con la tecnica. Questo ragazzo - dice - aveva un carattere” che con i bambini “andava bene. Sembrava predisposto”. Il sindaco: “Era tornato l’anno scorso” - “Non conoscevo Michele personalmente, ma ho ricevuto tante testimonianze in queste ore di concittadini che lo ricordano come un ragazzo molto buono d’animo”. Così Giacomo Marniga, sindaco di Borgosatollo - il paesino dell’hinterland di Brescia dove il volontario era cresciuto - ricorda Michele Colosio. Questo ragazzo era andato via da una decina d’anni, ma “manteneva il legame con la comunità perché la mamma vive qui, era tornato lo scorso anno in autunno - spiega - e aveva ritrovato molti amici. Una persona benvoluta che ha lasciato un bel ricordo di sé”. La denuncia della comunità messicana - “Michele Colosio è stato ucciso ieri sera. Il suo sorriso noto e largo si è spento, lo hanno ucciso in un assalto, a un isolato da casa sua, tornando dai festeggiamenti per la finale dell’Eurocoppa”. È il ricordo-denuncia lasciato sul profilo Facebook dalla “Casa di Salute Comunitaria Radice del Vento” di San Cristobal de Las Casas, in Chiapas. “Michele è nato in Italia ma è sempre stato un cittadino del mondo, viveva in Messico da più di 10 anni e aveva una grande rete di amicizie, grande come il suo cuore. Artigiano, viaggiatore, pastore di capre, contadino, trapaniere, meccanico di bicicletta e tutto quello che gli veniva in mente di imparare, Michele - così lo descrivono - nella sua gioventù ha studiato e lavorato come radiologo in un ospedale e il suo cuore e le sue conoscenze lo hanno avvicinato alla nostra Casa di Salute Comunitaria Yi ‘ bel Ik ‘ ?? Radice del Vento “, così come a molti altri progetti sociali, convinto com’era lui che bisognava dare, bisognava aiutare, bisognava fare popolo nella fratellanza, senza distinzioni di lingue, confini e colore di pelle. Il post lasciato dalla “Casa della Salute” dove il volontario lavorava lascia capire il background di violenza e corruzione dominante nel piccolo paese messicano, come in diversi altri. “È morto dopo un assalto, uno dei tanti - scrivono - che ogni giorno si danno nel villaggio magico di San Cristoforo, una città già alla mercé di tanti gruppi armati (criminalità comune, crimine organizzato, narcos)”. Parole dirette, pesanti, che accusano un sistema dove la violenza domina: “Il marciume istituzionale, la povertà diffusa e l’impunità hanno trasformato questa bella città in un inferno più delle migliaia di questo paese addolorato. Lo denunciamo da anni e resistiamo, non ci fermiamo”. Vendetta dei taleban, giustiziati 22 soldati in Afghanistan tornano i “signori della guerra” di Giordano Stabile La Stampa, 14 luglio 2021 Gli uomini del colonnello Sohrab Azimi, a capo dell’unità delle forze speciali più decorate dell’Afghanistan, hanno combattuto fino all’ultima pallottola. Circondati da centinaia di taleban nella loro base a Dawlat Abad, provincia settentrionale di Faryab, si sono arresi soltanto quando hanno finito le munizioni. I guerriglieri jihadisti li hanno fatti uscire e hanno preso le loro armi. Poi è cominciato il massacro. Li hanno portati al centro della cittadina e uccisi uno a uno, al grido di “Allah Akhbar”, Dio è il più grande. Almeno 22 valorosi soldati sono morti così, lo scorso 16 giugno. Ieri sono emersi i video dell’eccidio, arrivati ai media americani. Un filmato mostra i corpi trascinati attraverso il mercato. In un altro, di 45 secondi, si sente uno degli abitanti che dice in pashto, la lingua più diffusa nel Paese: “Non uccideteli, vi prego, non sparategli, perché voi pashtun ammazzate gli afghani?”. Il massacro nella provincia di Faryab, al confine con il Turkmenistan, e la morte del colonnello Azimi, erano stati un duro colpo per il morale dell’esercito. Poche settimane dopo i taleban hanno preso quasi tutta la frontiera. Hanno diffuso un loro video dei combattimenti, mostrato mezzi e armi catturate e denunciato “i commando addestrati dalla Cia”. Ma questi nuovi filmati gettano un’ombra sinistra. Dalle zone riconquistate dagli studenti barbuti continuano a filtrare denunce di abusi, imposizione della sharia. I taleban smentiscono, come hanno smentito l’eccidio dei soldati. Hanno detto di avere nelle loro mani “24 prigionieri”, senza però mostrarli, e che la notizia “falsa” delle esecuzioni serve a “scoraggiare quelli che vogliono arrendersi”. Testimoni locali sentiti dalla Cnn hanno confermato che i militari “sono stati condotti in mezzo alla strada e uccisi a sangue freddo”. È un assaggio di quello che potrebbe succedere su larga scala, mentre il cerchio si stringe attorno a Kabul. Ieri i jihadisti hanno pubblicato sui social media le foto di una base militare disertata dai soldati a soli 40 chilometri dalla capitale. Poi immagini di un elicottero governativo in fiamme all’aeroporto di Kunduz. E ancora della villa abbandonata dal governatore di Kandahar, alla periferia della città. Infine una potente esplosione ha devastato il primo distretto di Kabul, con almeno quattro morti e decine di feriti. Da quando è cominciato il ritiro americano, ad aprile, i seguaci del defunto Mullah Omar hanno conquistato, secondo il centro studi Afghanistan Analysts Network, il “40 per cento dei distretti del Paese”. Con l’esercito afghano allo sbando, sono tornati in pista gli ex signori della guerra, protagonisti della vittoria dell’Alleanza del Nord nel 2001. Il primo è Abdul Rashid Dostum, già mujaheddin anti-sovietico, protagonista del bagno di sangue a Kabul fra il 1992 e il 1996 contro il “macellaio” Hekmatyar, poi ex vicepresidente. Dostum, a capo della minoranza turcofona uzbeka, vive adesso ma si è detto pronto a tornare e a “morire da martire”. La situazione è molto diversa rispetto a vent’anni fa e i proclami del vecchio guerriero, noto anche per la sua corruzione, rischiano di cadere nel vuoto. Gli studenti barbuti si sono infiltrati anche nelle regioni uzbeke, offrono paghe più alte e hanno convinto molti combattenti locali a passare con loro. La loro avanzata nel Nord ha colto impreparato il governo del presidente Ashraf Ghani. Tanto che adesso è minacciata la regione strategica di Mazar-e-Sharif, a forte popolamento tagiko. I leader locali sono in allarme e hanno mobilitato anche Ahmad Massoud, figlio del comandante Ahmed Shah Massoud, assassinato da Al-Qaeda il 9 settembre 2001. Con il prestigio ereditato dal padre, potrebbe essere il nome giusto per rimettere in piedi l’Alleanza del Nord e sconfiggere di nuovo i taleban, che appartengono in gran parte all’etnia maggioritaria pashtun, quella che ha fondato il primo regno afghano nel 1747. Il vero motore della mobilitazione è Atta Mohammad Noor, ex governatore di Mazar-e-Sharif. È lui ad aver lanciato la campagna di arruolamento nel Nord. Ha denunciato “il ritiro affrettato” delle truppe statunitensi, che ha lasciato l’esercito afghano “impreparato dal punto di vista logistico” e con il morale a terra. Tutte le minoranze, oltre al ritorno di pratiche medievali come proibizione di musica e aquiloni, frustate e lapidazioni, temono anche vendette. Un abitante di Khwaja Bahauddin nel distretto di Takhar, caduto a giugno, ha detto alla tivù locale Tolo News che la popolazione “è depressa, parla a bassa voce, non può più ascoltare musica, mentre le donne non vanno più al mercato del venerdì”. I più terrorizzati sono gli sciiti Hazara, che nell’estate del 2001 subirono uno dei peggiori massacri da parte di Al-Qaeda proprio vicino a Mazar-e-Sharif. Gli hazara sono armati dagli iraniani e hanno ricostituito le loro milizie, e hanno respinto un primo assalto talebano nel distretto di Malestan. L’altra fetta di popolazione più esposta sono le donne. Sotto il regno del terrore del Mullah Omar, nel 1999, soltanto 9 mila ragazze andavano a scuola. Oggi sono 3,4 milioni, e un terzo degli iscritti all’Università. È una delle conquiste più importanti negli ultimi vent’anni e adesso è appesa a un filo.