Carcere e tortura, non abbandoniamoci al fatalismo di Claudio Sarzotti micromega.net, 13 luglio 2021 Molte cose si possono fare in chiave di prevenzione per evitare che il conflitto tra custodi e custoditi sfoci nella violenza e nella vendetta reciproca. “È stato un massacro. (…) Cento detenuti sono passati lungo i cordoni che cominciavano al secondo piano e finivano nei cortili: tre rampe di scale e tutta la rotonda del piano terra (…). La festa è stata organizzata a freddo. (…) Mi preparo ad uno spettacolo che conosco. A uno a uno veniamo fatti alzare da terra e sospinti verso la rotonda del secondo piano. (…) Urla, spintoni, colpi. Minacce di morte. Finte fucilazioni. “Sporchi rossi. Adesso vi ammazziamo”. Un carabiniere grida sul muso a Gabriele: “Sporco negro!”. (…) Ci spingono di sotto. I cordoni sono già formati. Mi copro la testa con le mani. (…). Carabinieri e poliziotti sono assiepati. Ci aspettano. Gridano, fanno rumore. Si sono divisi i compiti. Chi ti blocca. Chi ti picchia in testa. (…) Un ufficiale dei carabinieri ha una foto in mano: ha il compito di riconoscere i prigionieri annotati sulla lista nera e indicarli ai picchiatori. Un poliziotto mi tira un calcio nei coglioni e mi prende in pieno. Mi piego in due, ma non cado. (…) Vedo il basso di una divisa di un cc che si avvicina. Non sento il colpo. Non sento nulla. Una mazzata terribile si abbatte sul cranio. È il calcio di un fucile mitragliatore. Sono ko. (…). Ma qualcosa continua prodigiosamente a funzionare. Una voce da qualche parte nel buio mi dice “Alzati, se resti disteso ti ammazzano”. La voce ha ragione”. E si potrebbe continuare tra pestaggi effettuati da agenti in passamontagna per non essere riconosciuti e “rituali barbarici” come distruzione di arredi delle celle e roghi dei libri e delle carte lì ritrovate. Le frasi riportate sono tratte dal libro autobiografico di Giuliano Naria (In attesa di reato, 1991, p. 155 ss.), il “caso Tortora” degli anni ‘70. Siamo nel 1980 nel carcere di massima sicurezza di Trani, due giorni dopo la rivolta scoppiata il 28 dicembre. Un’altra Italia, un altro tipo di umanità reclusa, ma le analogie con le immagini che abbiamo potuto vedere su quanto avvenuto nell’aprile dell’anno scorso al carcere di Santa Maria Capua Vetere sono, allo stesso tempo, sconcertanti ed illuminanti. La reazione a quelle immagini si è divisa tra scandalizzata sorpresa e solidarietà al “corpo” della polizia penitenziaria che va difeso dalle “mele marce” che ne deturpano l’immagine pubblica. Chiunque conosca con un certo grado di accuratezza quella strana invenzione dell’uomo occidentale di due secoli fa di punire i “criminali” imprigionandoli per un certo periodo di tempo in luoghi chiusi sa benissimo che non vi è alcuna ragione né per sorprendersi (per scandalizzarsi invece sì), né per considerare quei picchiatori delle mele marce. Il carcere produce strutturalmente e artificialmente delle condizioni di convivenza tra due gruppi di individui, posti in oggettive condizioni di ostilità reciproca, che rendono del tutto normali e prevedibili dinamiche di violenza del tipo di quelle viste all’istituto penitenziario campano e (con ogni probabilità) in altri istituti in cui sono avvenute rivolte nella primavera della pandemia. Esperimenti scientifici come quelli di Philip Zimbardo lo dimostrano senza ombra di dubbio: è stato sufficiente costringere per un paio di settimane due gruppi di studenti in un luogo chiuso con il ruolo di custodi e custoditi per arrivare, in meno di una settimana, alla rivolta dei detenuti e alla repressione brutale di essa da parte delle guardie. “La frontiera tra Bene e Male, un tempo ritenuta stagna, si è invece dimostrata piuttosto permeabile” (P. Zimbardo, L’effetto Lucifero, p. 293). La condizione di convivenza obbligata in spazi ristretti, degradati/degradanti e spesso sovraffollati, come da sempre sono stati quelli carcerari, favoriscono il ritorno ad uno stato di natura hobbesiano, il riemergere di istinti primordiali dell’individuo in grado di cancellare in un istante secoli di processi di civilizzazione. Recentemente ho analizzato il caso delle rivolte carcerarie del 2020 con il modello di comportamento archetipico di muta da caccia elaborato da Elias Canetti. Anche in quel caso, la descrizione canettiana di mute composte da maschi invasati, che derivano dal lupo l’istinto della caccia e della spartizione della preda, era apparsa quanto mai calzante. Nelle comunicazioni della chat degli agenti del carcere campano si leggono frasi illuminanti da questo punto di vista: “li abbattiamo come vitelli. Domate il bestiame”. Gli stessi dirigenti non riescono più a controllare il cieco furore della truppa e devono concedere la “perquisizione speciale”. È la stessa eccitazione che tiene insieme la muta da caccia sino a quando la preda non è catturata e adeguatamente spartita. Ma se quell’uomo che fa da preda “appartiene a un altro gruppo che non può abbandonarlo, ecco una muta contro l’altra. I componenti dei due gruppi nemici non sono molto diversi: sono uomini, maschi, guerrieri. (…) Gli uni e gli altri hanno la stessa intenzione contro il reciproco avversario. (…) La bipartizione è inevitabile, il taglio fra le due parti è assoluto, fin quando dura lo stato di guerra” (E. Canetti, Massa e potere, 1972, p. 106). Questo vuol dire che dobbiamo abbandonarci ad una sorta di fatalismo antropologico? Assolutamente no. Si tratta di dinamiche che, in quanto pienamente prevedibili, non devono però essere considerate ineluttabili. Molte cose si possono fare in chiave di prevenzione. Vediamone alcune. In primo luogo, chi comanda all’interno del carcere? In teoria il direttore, l’unica figura in grado di osservare dall’esterno il sordo conflitto tra custodi e custoditi e di assumere decisioni ragionevoli e documentate per evitare che tale conflitto sfoci nella violenza e nella vendetta reciproca. Si tratta, tuttavia, di una categoria che potremmo chiamare, nell’ampia accezione dell’espressione, di “funzionari civili” che in Italia è in via di estinzione. Gli ultimi bandi concorsuali risalgono agli inizi degli anni ‘90; un bando recentemente avviato è stato oggetto di strenue resistenze all’interno del DAP (chi sa perché?). Molti istituti penitenziari sono da tempo governati da direttori “in missione”, ovvero da funzionari che non possono garantire la loro presenza quotidiana e sono costretti, pressati da agguerriti sindacati autonomi di polizia, a delegare ad altri il loro potere. Provate ad indovinare a chi? E arriviamo così ad un altro nodo della questione, la polizia penitenziaria. Da un lato, occorre evitare di criminalizzare gli agenti anche perché si tratta di comportamenti, come hanno dimostrato le immagini, assai diffusi ed ampiamente tollerati all’interno della cultura carceraria (sono tollerati, in certi casi, persino dalle vittime che subiscono passivamente perché hanno imparato dall’esperienza che “in carcere funziona così”). Tolleranza che è stata a lungo anche facilitata dal senso di impunità di cui godevano i torturatori (andatevi a leggere la sentenza del gennaio 2012 del giudice di Asti che, dopo aver accertato torture nei confronti di due persone recluse, si conclude con l’assoluzione per l’assenza del reato di tortura). D’altro lato, tuttavia, non deve passare il messaggio del “tutti colpevoli, nessun colpevole”. Occorre recuperare quel valore morale, sacrale in senso laico, che Durkheim aveva posto alla base del funzionamento sociale della penalità: ristabilire i confini di quell’insieme di valori in cui la “buona” società si riconosce (la cd. coscienza collettiva) che il crimine ha infranto. La pena è ben poca cosa se misurata rispetto agli effetti rieducativi sul singolo condannato, ma è invece efficace nel ribadire i valori dominanti di una società, di un’epoca storica. Di qui, l’importanza dello scandalo che questi eventi suscitano nell’opinione pubblica; di qui, l’enorme valore simbolico, ripeto in primis simbolico, dell’aver introdotto nel nostro ordinamento il reato di tortura. Ma siamo sicuri che tutti gli italiani si siano sentiti scandalizzati da quei fatti? Che ritengano sacrosanto che la tortura sia sanzionata anche quando si esercita nei confronti del peggiore dei criminali? Si tratta di valori costitutivi della coscienza collettiva occidentale sviluppatisi dall’illuminismo penale in poi; immensa e sovversiva costruzione culturale che, come tutte le costruzioni di tal genere, non va mai considerata acquisita una volta per tutte e che ha subito, come noto, nel corso del XX secolo ed oltre, clamorose repliche della storia. Ma oltre all’emotività della pena così intesa, deve subentrare la razionalità di una politica che sia degna di tal nome. In questa prospettiva, è essenziale pensare ad una profonda riforma di quello che viene chiamato, con un termine che deriva proprio dalla logica della muta, il “corpo” della polizia penitenziaria. Non abbiamo bisogno di un corpo di polizia che si concepisca come un gruppo che debba mobilitarsi, appunto come “un sol uomo”, contro qualcuno che rappresenta il Male, la parte “marcia” della società. Abbiamo bisogno, piuttosto, di una cura dimagrante di quel corpo con un numero ridotto di operatori di polizia che intervengano solamente nelle situazioni di emergenza o in quegli istituti in cui lo “spessore” criminale della popolazione reclusa richieda una professionalità specifica in materia di sicurezza. La stragrande maggioranza dei reclusi non ha bisogno di essere sorvegliata da poliziotti in divisa, formati ancora oggi secondo un modello militare, ma ha necessità di essere seguita da operatori sociali competenti nelle strategie di assistenza e risocializzazione tipiche dell’intervento sociale di rete, ovvero con lo sguardo rivolto alla società esterna al carcere piuttosto che all’infantile, e talvolta crudele come solo i bambini sanno essere, contesa tra guardie e ladri all’interno delle mura. Tali operatori avranno bisogno naturalmente di strutture penitenziarie meno sovraffollate e di una comunità esterna che ritrovi le ragioni costituzionali della pena: risocializzazione e rispetto della dignità della persona condannata. Spesso si pensa al carcere come un mondo separato e chiuso in se stesso. Niente di più sbagliato. Se poniamo a confronto le rivolte della pandemia con quelle degli anni Settanta ci si accorge come esse rappresentino una perfetta cartina di tornasole di ciò che è cambiato in Italia in questi anni. Là dove c’era rabbia e lotta all’ultimo sangue (ahimè, troppo sangue) per diritti collettivi e trasformazioni politico-sociali radicali quanto utopistiche, oggi troviamo cieca disperazione e, al più, tentativi di sopravvivenza del singolo individuo, all’insegna del “si salvi chi può”. Sarà possibile recuperare quello spirito di rinnovamento senza cadere negli errori che ne determinarono il fallimento? Si dirà, parafrasando il giudizio di De Gaulle sull’eliminazione dei cretini: “bel programma, ma troppo esteso”. Obiezione certamente non di poco conto. Temo però che se non affronteremo la questione, come avrebbe detto una ex ministra grillina, “a 370 gradi”, il rischio sarà quello di intervenire solamente in una logica emergenziale e “di facciata” che non inciderà per nulla sulle radicate e strutturate perversioni dell’istituzione totale. Mai più violenze in carcere di Simone Lonati e Carlo Melzi d’Eril lavoce.info, 13 luglio 2021 I fatti di Santa Maria Capua Vetere hanno aperto una ferita nel tessuto della nostra democrazia. Ora l’obiettivo più importante è evitare che si ripetano. Dopo l’introduzione del reato di tortura, servono altre misure. Sono note, basta realizzarle. La democrazia violata - Sono servite le terribili immagini dei circuiti di videosorveglianza del carcere di Santa Maria Capua Vetere - rimaste intatte nonostante i tentativi di manipolazione nei giorni seguenti la “perquisizione” - a mettere in luce le torture perpetrate, in modo sistematico e premeditato, dagli agenti di polizia penitenziaria nei confronti di detenuti inermi e indifesi. Siamo nell’aprile 2020, tutta l’Italia è in lockdown per il dilagare del virus e nelle carceri italiane da almeno un mese il clima è molto teso. Si moltiplicano le rivolte, anche violente, da parte di detenuti spaventati dal virus che minaccia di entrare all’interno di istituti penitenziari sovraffollati e scarsamente igienizzati. A Santa Maria Capua Vetere le proteste degli internati, che chiedono mascherine e certezze sulla voce che sta circolando - c’è un positivo al Covid in carcere -, si risolvono in poche ore senza violenze né danni a cose o persone grazie all’intervento del magistrato di sorveglianza. Ma per gli agenti penitenziari non è sufficiente: “Rischiamo di perdere il carcere”, scrivono sulle chat interne di whatsapp. Il 6 aprile parte la “perquisizione”, così l’hanno chiamata, con la partecipazione di squadre antisommossa dotate di caschi, scudi e manganelli. Il resto è quanto abbiamo saputo tristemente in questi giorni: detenuti picchiati e umiliati al grido: “Ora lo stato siamo noi”. Eppure, lo stato non tortura. Se lo fa viola l’articolo 13 della Costituzione e l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma soprattutto mina le fondamenta stesse della democrazia. Nelle democrazie, infatti, ogni cittadino, anche il più efferato dei criminali, ha diritto al rispetto della propria dignità e all’integrità del proprio corpo. Lo richiede il contratto sociale che, nel rimettere allo Stato l’amministrazione della giustizia e l’uso della forza, alla quale noi come singoli cittadini rinunciamo, esige un rispetto sacrale del corpo di chi si trova, inerme, nelle sue mani. È un principio intangibile e non negoziabile. Fatti come quelli occorsi a Santa Maria Capua Vetere sgretolano fino a frantumare la fiducia che tra individuo e istituzione. Poco importa quale sia l’istituzione. Il sentimento del cittadino di fronte a queste violenze è sempre lo stesso: il terrore di varcare una porta, che sia d’ospedale o carcere, palazzo di giustizia o caserma, e ritrovarsi davanti un uomo dello stato convinto di poter fare qualsiasi cosa, anche contro la legge, con la tranquillizzante sicurezza di rimanere impunito. Un film già visto e forse destinato a ripetersi - C’è una continuità tra quanto avvenuto durante il G8 di Genova nel luglio 2001 e gli episodi di violenza perpetrati nel carcere di Santa Maria Capua Vetere? Il déjà vu è inevitabile, troppe agghiaccianti coincidenze con i fatti di venti anni fa, con la “perquisizione” nella scuola Diaz-Pertini e con gli atti di tortura commessi dalle forze dell’ordine in modo sistematico e organizzato su persone private della libertà all’interno della caserma di Bolzaneto - “una zona di “non diritto” in cui le garanzie più elementari erano state sospese” e ove i ricorrenti erano stati “trattati come oggetti nelle mani dei pubblici poteri”, secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo. Senza dimenticare poi tutti gli altri casi di persone che, nelle mani dello stato, hanno subito lesioni o peggio e tutti - al di là dell’esito delle indagini e dei processi - pesano comunque ancora sulla nostra coscienza collettiva: Stefano Cucchi, Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva sono solo alcuni. Nulla è cambiato da quando sono accaduti quei fatti? L’introduzione del reato di tortura e le difficoltà di accertamento - In realtà, nel frattempo un importante passo in avanti è stato compiuto con l’introduzione, nel 2017, nel codice penale dei reati di tortura e di istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura, proprio su spinta decisiva delle pronunce di condanna contro l’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo in relazione ai fatti di Genova. Così facendo, il nostro paese si è adeguato, seppur con il proverbiale ritardo, agli impegni assunti a livello internazionale sin dal lontano 1989. La legge non è scritta bene: è ridondante e infarcita di espressioni e (soprattutto) aggettivi inutili come se il legislatore, dopo 28 anni e mezzo di continui ostacoli all’approvazione di un testo, si fosse arreso a votarne uno purchessia, la cui barocca formulazione, però, ha fatto temere a molti un’applicazione più che problematica. Ma da allora la legge contro la tortura è stata applicata. E alcuni, sia pure timidi, risultati si iniziano a vedere: alcune pronunce dei giudici di merito - due condanne in primo grado, con rito abbreviato, pronunciate dai Tribunali di Ferrara e di Siena - hanno per la prima volta applicato la nuova disposizione incriminatrice per violazioni da parte di pubblici ufficiali (nello specifico agenti di polizia penitenziaria) nei confronti di detenuti. Notizia degli ultimi giorni è poi la condanna di cinque carabinieri di Piacenza, imputati anche del delitto di tortura, in relazione ai fatti della caserma Levante. Allo stesso tempo, però, le sedici inchieste aperte negli ultimi tre anni testimoniano la difficoltà dei magistrati a individuare responsabilità e a ricostruire i fatti, quando avvengono all’interno delle mura di una prigione. Contro poche sentenze di condanna, spuntano infatti numerose richieste di archiviazione (come a Modena), indagini senza indagati (sempre Modena), l’impossibilità di riconoscere chi ha alzato le mani o il manganello (Potenza) e torture derubricate a semplici percosse (Pavia), dunque materia per i giudici di pace. Le difficoltà che avrebbero incontrato i giudici nell’accertamento di queste condotte erano ben note a chi studia questi fenomeni e avrebbero dovuto esserlo anche al nostro legislatore. Uno dei massimi esperti del mondo carcerario, Luigi Manconi, ha ricordato, del resto, come “il carcere e la caserma sono istituzioni totali secondo la classica definizione di Erving Goffman: sono strutture chiuse, sottratte allo sguardo esterno e al controllo dell’opinione pubblica e della rappresentanza democratica”. D’altronde, solo la diffusione di video così espliciti nel raccontare le violenze perpetrate dagli agenti penitenziari nei confronti dei detenuti ha aperto una breccia su quanto accaduto nel carcere casertano lo scorso anno. Basti pensare che lo scorso ottobre, quando le attività investigative erano già in corso ma i video non erano ancora stati diffusi, il sottosegretario alla Giustizia del precedente governo aveva definito in Parlamento la perquisizione straordinaria come “una doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto”. Oggi, invece, la ministra della Giustizia ha emesso un durissimo comunicato accompagnato da una serie di iniziative culminate nella sospensione degli agenti nei cui confronti sono stati emessi i provvedimenti cautelari e in un’ispezione straordinaria all’interno dell’istituto penitenziario casertano. È necessario intervenire - I fatti di Santa Maria Capua Vetere hanno aperto una ferita nel tessuto della nostra democrazia e come tali andranno accertati e sanzionati, presupposto per giungere all’obiettivo più importante: evitare che si ripetano. L’introduzione del reato di tortura è stato un importante risultato ma, a causa della sua non felice formulazione e delle difficoltà di accertamento, non ci pare misura da sola sufficiente a garantire che siano provati fatti e responsabilità. Ad esempio, siamo facili Cassandre nel prevedere che i magistrati incontreranno ancora difficoltà non tanto, forse, in questo peculiare caso, a dimostrare l’esistenza dei maltrattamenti quanto, in un contesto “chiuso” come quello carcerario, a identificare i singoli autori di abusi e violenze. Finora ciò è stato determinato con troppa frequenza dalla riluttante collaborazione dei colleghi, figlia di un malinteso “spirito di corpo”. Sono note le misure immediate che di certo aiuterebbero. Alcune di esse sono già state discusse nei recenti incontri tra i rappresentanti del governo e il capo del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria). Ma è urgente trasformare, oggi più che mai, i progetti in provvedimenti. Bisogna intervenire prima di tutto nella formazione del personale dell’amministrazione penitenziaria: il contesto carcerario comporta la gestione di processi relazionali e comportamentali molto complessi che possono sfociare in azioni violente. Prevenirle è fondamentale ma, da un diverso punto di vista, la soluzione dei conflitti richiede competenze specifiche e ci pare possa essere una tappa assai rilevante nel trattamento. Altro accorgimento è certo l’introduzione di un numero identificativo sulle uniformi e sui caschi degli agenti, intervento quest’ultimo sollecitato più volte anche dai giudici di Strasburgo e tutt’ora rimasto inascoltato dal nostro legislatore. Bisogna poi procedere al ripristino dell’intera rete di videosorveglianza attiva negli istituti, prolungando altresì l’archiviazione delle immagini, finora prevista per pochi giorni. Una misura, quest’ultima, da assumere a tutela dei detenuti, ma anche degli agenti che prestano servizio all’interno delle carceri e che non possono essere abbandonati a loro stessi nello svolgimento del loro delicato compito. Anche le modalità di verifica e comunicazione all’interno del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria dovranno essere riviste, con protocolli più precisi capaci di individuare i responsabili di ogni singolo passaggio della catena decisionale. Una diversa consapevolezza del personale penitenziario circa il suo ruolo indispensabile nel reinserimento del condannato e trasparenza nell’esercizio di un potere (a oggi ancora ritenuto) un male necessario, come la signoria sulla libertà dell’uomo sull’uomo. Questa ci pare la doppia chiave per aprire le porte delle carceri e farvi entrare lo spirito voluto dalla Costituzione. Il primo passo può essere proprio realizzare gli atti concreti che, insieme ad altri, possono tentare di respingere quell’idea che da tempo si fa avanti nel nostro paese, anche grazie ad alcune forze politiche: ossia che i diritti fondamentali non siano essenza stessa di ogni individuo, ma debbano essere conquistati. Chi si trova in carcere evidentemente non li merita. Carceri, tra pandemia e i problemi di sempre di Matteo Picconi Polizia e Democrazia, 13 luglio 2021 Intervista a Stefano Anastasìa. Per mesi sotto i riflettori con l’avvento della pandemia, ad oggi gli istituti di pena sembrano nuovamente dimenticati dai media. Ne abbiamo parlato con Stefano Anastasìa, il Garante delle persone private della libertà per le regioni Lazio e Umbria. Rispetto a un anno fa sembra registrarsi un lieve calo d’attenzione, da un punto di vista mediatico, rispetto all’emergenza sanitaria all’interno degli istituti di pena. Segno di una stabilizzazione nelle carceri o i media hanno semplicemente smesso di occuparsene come prima? Purtroppo le carceri fanno notizia solo quando vi accadono tragedie o gravissimi incidenti, come le proteste del marzo dello scorso anno, quando in occasione della sospensione dei colloqui con i familiari più di quaranta istituti ne furono interessati. Durante la seconda ondata della pandemia, un po’ di attenzione, almeno a livello locale, è stata prestata ai ripetuti focolai che hanno interessato gran parte delle carceri italiane. Poi l’attenzione al carcere, come sempre, si è inabissata, ma i problemi restano tutti, dal sovraffollamento alla fatiscenza delle strutture, alle carenze di personale, aggravati dalle difficoltà gestionali di rigorose misure di sorveglianza sanitaria (le quarantene all’ingresso e in caso di positività, i colloqui con i divisori, le ripetute interruzioni delle attività scolastiche e trattamentali). Ma quello che preoccupa non è la disattenzione quotidiana dei media, ma quella della politica e delle Istituzioni, che dovrebbero occuparsi delle modalità di privazione della libertà e di esecuzione della pena non solo quando “fanno notizia”, ma quotidianamente, ciascuna per competenza, per prevenire tragedie e incidenti e per far corrispondere la detenzione in carcere agli obblighi costituzionali del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità e di impegno per il miglior reinserimento sociale possibile dei condannati. Prenda il caso della campagna vaccinale: si è dovuto aspettare fino a febbraio per il primo annuncio che essa avrebbe riguardato anche le carceri, dopo le prese di posizione dei garanti, delle associazioni e, soprattutto, della senatrice Liliana Segre, cui tutta la comunità penitenziaria deve per questo un caloroso ringraziamento. In tutti questi mesi non ci siamo mai stancati di dire che le carceri sono comunità residenziali ad alto rischio di diffusione del Covid-19, per via della convivenza di molte persone, senza il necessario distanziamento personale e condizioni igieniche adeguate, paragonabili solo alle residenze sanitarie assistenziali in cui hanno contratto il virus con esiti letali tanti nostri parenti e genitori. Eppure la diffidenza nei confronti del carcere e dei carcerati è arrivata fino al punto di “dimenticare” per mesi anche solo la necessità di programmare la campagna vaccinale per detenuti e operatori. Francamente, non so se nella storia dell’Italia repubblicana si era mai arrivati fino a questo punto. La diffusione del virus ha chiaramente esacerbato una situazione già da moltissimi anni piuttosto critica e, a giudicare da quanto riportano gli addetti ai lavori, risulta che siano aumentati i reati e le violenze all’interno delle strutture: un dato reale e consequenziale all’emergenza sanitaria oppure non vi sono sostanziali differenze con la situazione precedente alla pandemia? Salvo il momento critico dell’inizio del lockdown, che ha certamente inciso sulle statistiche di quelli che in gergo penitenziario si chiamano “eventi critici”, ivi compresi i danneggiamenti e le aggressioni al personale, non mi pare che la chiave interpretativa del periodo della pandemia in carcere possa essere quella della violenza o della commissione di reati, quanto piuttosto quella della paura, se non dell’angoscia, e della solidarietà. Solidarietà c’è stata tra detenuti e tra detenuti e operatori nell’affrontare i momenti più difficili, l’isolamento nell’isolamento e le ripetute emergenze dei focali interni. La paura per molti detenuti era conseguente al rischio di contrarre il virus in carcere, lontani dai propri familiari, dimenticati da Dio e dal mondo. Vivere in queste condizioni è stato difficile, è ancora difficile, e questo ha caricato di tensione la vita quotidiana dei detenuti e quella degli operatori, quelli “di sezione”, i poliziotti e le poliziotte che sono tutti i giorni i primi terminali delle loro richieste e delle loro sofferenze, e gli operatori sanitari, che sono stati sottoposti a un sovraccarico di lavoro appena alleggerito dal supporto degli operatori socio-sanitari messi a disposizione dal governo attraverso la protezione civile. A distanza di un anno dalle prime misure intraprese per fronteggiare l’emergenza sanitaria si possono stilare le prime somme: tali provvedimenti sono stati sufficienti a reggere l’urto dei contagi e dei decessi? Qui dobbiamo fare una distinzione, tra i provvedimenti legislativi, quelli amministrativi e quelli sanitari. I provvedimenti legislativi sono stati di gran lunga al di sotto delle necessità. Bisognava far spazio per gestire l’emergenza in carcere, ma governo e parlamento non sono riusciti ad andare oltre minime misure per la detenzione domiciliare e le licenze straordinarie per i semiliberi. A conti fatti, la popolazione detenuta è diminuita di circa 9000 unità (da 62mila a 53mila circa), ma in gran parte per la riduzione degli ingressi e per il ricorso alle misure ordinarie previste dall’ordinamento penitenziario. Questo ha comportato che il sistema restasse in sovraffollamento, aggravato dalla riserva di spazi adeguati per le quarantene e dalla difficoltà a trasferire i detenuti tra i diversi istituti. Dopo i primi momenti di confusione, che tra le altre cose hanno portato alle proteste del marzo 2020, l’amministrazione penitenziaria ha dato indirizzi importanti, in modo particolare nell’uso delle tecnologie digitali per la comunicazione: le videochiamate hanno finalmente fatto ingresso nella prassi e nell’ordinamento penitenziario e in molti istituti si è sperimentata una vera didattica a distanza. Purtroppo le infrastrutture di rete sono ancora insufficienti e farraginose e da qualche parte vediamo riemergere procedure cervellotiche di autorizzazione all’uso delle tecnologie della comunicazione, ma un tabù si è rotto e questo è un bene, per i detenuti e per l’amministrazione penitenziaria. Importanti, inoltre, sono stati i contributi della Direzione generale dell’esecuzione penale esterna, della Cassa delle ammende e delle stesse regioni per l’accoglienza sul territorio delle persone scarcerabili, ma senza fissa o idonea dimora. Purtroppo la collaborazione inter-istituzionale va ancora rodata e le misure non sempre sono state efficaci o tempestive, ma è la strada giusta per lasciare fuori dal carcere quella marginalità sociale che non dovrebbe proprio entrarci. Infine, ci sono state le misure di sorveglianza sanitaria e la campagna vaccinale. Per un lungo periodo, il sistema sanitario penitenziario, come quello esterno, ha sofferto della mancanza di mezzi e strumenti (nei primi mesi della pandemia, tracciare i contagi era difficile, se non impossibile, anche per il ridotto numero di tamponi disponibili o processabili in tempi brevi). Ciò non toglie che gli operatori sanitari abbiano svolto un lavoro enorme, senza supporti adeguati, con turni che in alcuni casi sono diventati massacranti e talvolta pagandone con la vita il sacrificio, come nel caso del dott. De Iasio, dirigente sanitario di Secondigliano a Napoli. Ciò detto, quando finalmente la politica si è decisa, i servizi sanitari penitenziari, supportati dalle rispettive strutture regionali, hanno garantito la rapida attuazione della campagna vaccinale anche in carcere, cosa che apre prospettive da valutare tempestivamente per la “ripartenza” anche in carcere. L’esigenza di fronteggiare il sovraffollamento negli istituti di pena si è spesso scontrata con una “lentezza” burocratica da parte dei Tribunali di sorveglianza, anche per provvedimenti “di routine”, come le richieste di scarcerazione anticipata per buona condotta: si poteva fare qualcosa di più o tale macchina amministrativa ha funzionato al massimo delle sue possibilità? È vero, ci sono stati ritardi e disservizi. E anche interpretazioni cervellotiche, di magistrati che non hanno ben inteso le circostanze del loro operare e l’urgenza di dare risposte ai detenuti cercando di contemperare le istanze di giustizia con i diritti fondamentali dei richiedenti e la salute pubblica in carcere. Ciò nonostante, si è fatto molto, in molti uffici di sorveglianza: in alcuni casi sono stati impiegati i tirocinanti a supporto di giudici e cancellerie; in altri casi, l’amministrazione penitenziaria ha assegnato temporaneamente agli uffici giudiziari esperti “matricolisti”, poliziotti con tutte le competenze di ottimi funzionari di cancelleria. Ma la situazione dei tribunali di sorveglianza è organizzativamente disastrosa, con personale (soprattutto amministrativo) ridotto al lumicino e un’arretratezza tecnologica che non è seconda a quella degli istituti penitenziari. Speriamo che il famoso Pnrr arrivi anche qui, a trasformare questo pezzo di giustizia che patisce lo stigma del carcere, e dunque è sempre poco e mal considerato non solo dai media e dall’opinione pubblica, ma anche dal ministero e dalla stessa magistratura. Quando si è parlato di alleggerire la popolazione carceraria tramite misure di detenzione domiciliare o in strutture apposite, da “fuori” si sono levate voci discordanti, se non addirittura contrarie, quando si trattava di elementi di spicco della criminalità organizzata. Si può sostenere che i diritti di alcuni detenuti “eccellenti” siano subordinati ad altre esigenze? Con la diffusione della pandemia, si sono imposte due esigenze: ridurre la popolazione detenuta per ridurre i rischi di contagio e consentire una gestione sanitariamente sicura degli istituti penitenziari da una parte, e dall’altra garantire il diritto fondamentale alla salute delle persone più vulnerabili. La nota con cui la Direzione generale dei detenuti del Dap ha evidenziato alle direzioni delle carceri la necessità di indicare alla magistratura competente i detenuti con gravi patologie respiratorie o cardio-circolatorie era niente più che un meritorio atto dovuto, peraltro da me anticipato in una missiva analoga ai direttori delle carceri umbre. Il diritto alla salute non conosce limitazioni nel nostro ordinamento, e prevale certamente sulle esigenze cautelari o esecutive che giustificano la detenzione in carcere. Non da oggi, ma dal codice Rocco esiste la sospensione della pena per motivi di salute: e perché non avrebbe dovuto applicarsi ai detenuti che avrebbero potuto subire le complicazioni più gravi, fino al rischio mortale, dalla contrazione del virus in carcere? Non è stata una bella pagina del giornalismo italiano quella canea sollevata intorno a poche centinaia di casi di detenuti che hanno avuto la revoca o la sospensione del provvedimento di detenzione per gravi motivi di salute. È stato il sintomo di una incultura delle garanzie e dei diritti della persona che speravamo dimenticata in decenni lontani, oltre che di una comunicazione deontologicamente scorretta (la confusione tra pericolosi capi-mafia e affiliati, quella tra magistratura di sorveglianza - accusata di tutto e di “buonismo” - e giudicante, che ha revocato almeno la metà di quei provvedimenti, emessi ancora in fase processuale). Non distinguere nella garanzia dei diritti fondamentali, e in primis su quelli alla vita e alla salute, è il primo e fondamentale distinguo tra la società civile e le sue regole e la società mafiosa e i suoi abusi. Per questo rifiutiamo la pena di morte che loro praticano, per questo la Corte costituzionale e la Corte europea per i diritti umani hanno dichiarato la illegittimità dell’ergastolo ostativo. Spero davvero che i provvedimenti giurisdizionali possano tornare a essere valutati per quello che sono, senza pregiudizi favorevoli o sfavorevoli a seconda di chi ne sia destinatario. Il ruolo da lei svolto le consente di guardare al fenomeno carcerario da un punto di vista “privilegiato”: c’è una o più storie che più di tutte l’hanno colpita e che sono emblematiche di questo difficile periodo appena trascorso dal mondo dei detenuti? Tra le molte, vorrei ricordare quelle dei genitori di figli piccoli, se non piccolissimi, che ne sono stati allontanati in modo che possiamo solo sperare non sia irreparabile nel futuro. Con gli adulti e con i figli più grandi, le videochiamate prima e i colloqui in presenza con i divisori hanno consentito il mantenimento di una relazione affettiva significativa. Con i piccolissimi no. Ho ricevuto decine di lettere e appelli in tal senso. Sono mesi che, per esempio a Rebibbia, aspettiamo un’intesa tra amministrazione sanitaria e amministrazione penitenziaria almeno per i colloqui con i bambini in area verde, all’aperto, con tutti i dispositivi di protezione individuale del caso. Speriamo che l’adesione alla campagna vaccinale dei detenuti e dei loro parenti apra finalmente la strada a questa possibilità. Per concludere. Negli ultimi tempi sono state avanzate alcune critiche circa l’utilità del ruolo svolto dai Garanti dei detenuti. Viene insomma da chiedersi: il Garante viene da taluni percepito come una figura scomoda, ingombrante? Non dovrebbe casomai sussistere, piuttosto che un dualismo, un rapporto di collaborazione tra chi lavora all’interno delle strutture e chi vigila affinché i diritti dei detenuti siano sempre rispettati? Ovviamente della utilità dei Garanti devono dire le persone private della libertà, a cui tutela sono stati istituiti, non per caso, ma per le oggettive difficoltà di far valere i propri diritti nella propria condizione. Ma il primo dei diritti delle persone detenute è quello di poter contare su un’amministrazione ben funzionante ed efficace nel perseguimento degli scopi costituzionali della pena. Siamo dunque dalla stessa parte. Nella mia esperienza, la collaborazione tra il Garante e il personale penitenziario, a partire da quello di polizia, è massima. Mi dispiace per certi propagandisti strumentali, ma gli operatori che stanno sul campo sanno che possono contare anche sul Garante per migliorare le loro condizioni di vita e di lavoro, così come il Garante sa che migliori condizioni di vita e di lavoro del personale aiutano i detenuti ad affrontare nel migliore dei modi la difficile prova della privazione della libertà. Questo non significa che il Garante possa tacere di fronte a inadempienze o abusi: è il suo mestiere denunciarle a chi di dovere, ma sempre sapendo distinguere tra chi sbaglia e chi no, senza infangare migliaia di operatori corretti e scrupolosi e lasciando sempre alle autorità competenti, con tutte le garanzie del caso, l’accertamento dei fatti di cui pure venisse a conoscenza. Oltre il 30 per cento dei detenuti in cella per spaccio di droga di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 luglio 2021 La legge sulle droghe continua a essere il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri. È la conclusione del recente 12esimo Libro Bianco sulle droghe. Un rapporto indipendente promosso da La Società della Ragione insieme a Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca, Associazione Luca Coscioni, Arci, Lila e Legacoopsociali con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica Cgol, Gruppo Abele, Itardd e Itanpud. Nella prima parte del Libro Bianco si ricostruiscono le motivazioni geopolitiche alla base delle convenzioni e la loro evoluzione, affrontando infine il difficile problema della loro riformabilità. Le ricadute di stigmatizzazione su milioni di giovani, l’ingolfamento del sistema giudiziario e le incarcerazioni di massa con l’esplosione delle prigioni finalmente hanno costretto a rettifiche di giudizio sulla war on drugs, con l’apertura di una interpretazione flessibile delle convenzioni. I dati sono sconfortanti ed evidenziano, come indicato dalle simulazioni prodotte, che in assenza di detenuti per art. 73 o di quelli dichiarati tossicodipendenti, non vi sarebbe il problema del sovraffollamento carcerario. Il rapporto snocciola i dati e mette in evidenza che ben 10.852 dei 35.280 ingressi in carcere nel 2020 sono stati causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo unico. Si tratta del 30,8% degli ingressi in carcere. Seppur diminuiti in numeri assoluti, effetto evidente del lockdown, sono oramai lontani gli effetti della sentenza Torreggiani della Cedu e dell’adozione di politiche deflattive della popolazione detenuta. Sui 53.364 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2020 ben 12.143 lo erano a causa del solo art. 73 del Testo unico (sostanzialmente per detenzione a fini di spaccio). Altri 5.616 in associazione con l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), solo 938 esclusivamente per l’art. 74. Sempre secondo i dati del Libro Bianco, restano drammatici i dati sugli ingressi e le presenze di detenuti definiti “tossicodipendenti”: lo sono il 38,60% di coloro che entrano in carcere, mentre al 31/ 12/ 2020 erano presenti nelle carceri italiane 14.148 detenuti “certificati”, il 26,5% del totale. Questa presenza, che resta ai livelli della Fini- Giovanardi (27,57% nel 2007), è alimentata dal continuo ingresso in carcere di persone “tossicodipendenti”, in aumento costante da oltre 5 anni. Ne conseguono anche effetti devastanti per il sistema giudiziario. Le persone coinvolte in procedimenti penali pendenti per violazione dell’articolo 73 e 74, secondo il rapporto, sono rispettivamente 189.707 e 45.467. Sono in totale 235.174, il dato più alto da 15 anni a questa parte. Da notare come secondo i dati assestati della relazione governativa 2020, 7 procedimenti su 10 per droghe termina con una condanna, confermando i dati presentati nelle precedenti edizioni di questo Libro Bianco. La repressione colpisce principalmente persone che usano cannabis (74,4%), seguono a distanza cocaina (19%) e eroina (5,01%) e, in maniera irrilevante, le altre sostanze. Il 97% dei minori è segnalato per possesso di cannabis. Dal 1990 1.312.180 persone sono state segnalate per possesso di sostanze stupefacenti ad uso personale; di queste quasi un milione (73,28%) per derivati della cannabis. Nel Libro Bianco si trovano anche spunti e riflessioni rispetto alla riforma delle politiche sulle droghe in ambito nazionale ed internazionale, e approfondimenti specifici sul dibattito pubblico intorno alla docu-serie Sanpa, sull’uso medico delle sostanze psicoattive, sulla giurisprudenza e sul dibattito parlamentare sulla lieve entità dei reati sulle droghe sulla riforma dei servizi, in un’ottica di decriminalizzazione dell’uso delle sostanze e sulla convocazione della Conferenza Nazionale sulle dipendenze che manca da troppi anni. Resta il dato oggettivo che dopo 60 anni di “war on drugs” e 31 di applicazione del Testo Unico sulle droghe Jervolino- Vassalli, i devastanti effetti penali (dell’art. 73 in particolare) sono sotto gli occhi di tutti. La legge sulle droghe continua a essere il principale veicolo di ingresso nel sistema penale e giudiziario. Giustizia penale, ecco la mappa dei processi ad alto rischio di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 13 luglio 2021 Sono quasi 190mila i procedimenti penali pendenti nei distretti di Corte d’appello che non rispettano i due anni di tempo che la riforma della giustizia penale assegna come limite tollerato per la definizione, pena l’improcedibilità. E pesano per quasi il 75% di tutte le pendenze. Si tratta di 10 distretti in tutto, anche se in realtà Firenze, Bari e Bologna, oltrepassano il limite di poco. In 19 distretti su 29 la durata è comunque inferiore ai 2 anni: a Milano, è inferiore ad un anno, 335 giorni la media dell’appello; Genova, 680 giorni; Palermo, 445; Perugia, 430; Potenza, 699; Salerno, 340; Torino, 545. Di certo, a più elevati tempi di definizione corrisponde anche più forte arretrato, con forte pericolo di improcedibilità. Dove certo le ragioni della collocazione nella black list dei tempi di decisione possono essere le più varie, ma è evidente la necessità di un intervento. Intervento che peraltro sarà agevolato proprio dalla significativa disponibilità di risorse del Pnrr. In primo luogo con la destinazione dei 16.500 addetti all’ufficio del processo che, si preannuncia al ministero della Giustizia, saranno destinati in via privilegiata proprio a quegli uffici con un carico di processi pendenti particolarmente elevato. Ma interventi di rafforzamento del personale, andando a coprire storici vuoti in organico, sono in corso di definizione anche sul versante dei cancellieri, in continuità con le precedenti amministrazioni Orlando-Bonafede. A Roma, per esempio, sono previsti 242 nuovi ingressi, nel civile e nel penale, a Napoli 308, tanto per fare riferimento ai due uffici che da soli mettono insieme oltre 100mila procedimenti arretrati. Da poco più di un anno sono poi state formalizzate le nuove piante organiche dei tribunali con, per esempio, 50 magistrati in più a Roma e 31 a Napoli, una quota di questi da destinare in Corte d’appello. Va poi tenuto conto che la nuova disciplina dell’improcedibilità si applicherà solo alle impugnazioni che hanno per oggetto reati commessi a partire dal 1° gennaio 2020, data di entrata in vigore della riforma Bonafede della prescrizione. Ma, per evitare che quella dell’improcedibilità possa diventare un’emergenza paragonabile a quella della prescrizione (gli ultimi dati vedono 113.524 prescrizioni nel 2019, di cui poco meno di 30mila in appello), determinante sarà anche l’effetto delle misure processuali che la ministra Marta Cartabia intende introdurre. Che hanno come dichiarato obiettivo quello di ridurre il perimetro dei procedimenti destinati ad approdare al dibattimento. Con una serie di interventi. A partire dalle nuove condizioni per il rinvio a giudizio, dove il pubblico ministero deve chiedere l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna. Disposizione che prende atto dei dati che testimoniano come a dibattimento circa la metà dei processi che si celebrano con il rito ordinario (50,5%) e oltre i due terzi dei giudizi di opposizione al decreto penale (69,7%) si concludono con una pronuncia di assoluzione. Si propone di limitare il ricorso all’udienza preliminare, tenuto conto della scarsa capacità di filtro (10%) e dell’effetto di allungamento dei tempi dei giudizi (circa 400 giorni). Sarà così esteso il catalogo dei reati con citazione diretta davanti al tribunale in composizione monocratica, individuandoli tra quelli puniti con pena della reclusione non superiore nel massimo di sei anni, anche se congiunta alla pena della multa, quando non presentano rilevanti difficoltà di accertamento. Si modifica inoltre la regola di giudizio prevedendo che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna. Potenziati poi i riti alternativi, rendendo più appetibile il patteggiamento con la sua estensione alle pene accessorie e alla confisca facoltativa, quando la pena detentiva supera i due anni. Si estende ancora la querela a specifici reati contro la persona e contro il patrimonio con pena non superiore nel minimo a due anni e si allarga la causa di non punibilità per tenuità del fatto. Il processo penale diventa telematico di Dario Ferrara Italia Oggi, 13 luglio 2021 Via libera al processo penale telematico, che ha dovuto aspettare la pandemia Covid per muovere i primi veri passi: la modalità online è la regola per deposito degli atti, comunicazioni e notifiche, mentre il cartaceo resta solo come alternativa per gli atti che le parti compiono personalmente. E l’imputato non detenuto può dichiarare domicilio per le notifiche anche presso la sua mail. È quanto emerge dagli emendamenti della guardasigilli Marta Cartabia al ddl delega As 2435 per la riforma Cpp all’esame della Camera. Ancora. Il giudizio si svolge in assenza dell’imputato soltanto quando ci sono elementi certi per ritenere che l’interessato sappia della pendenza del processo e non sia presente per scelta volontaria e consapevole. Ma quando non ci sono le condizioni per il giudizio in assenza scatta la sentenza inappellabile di non luogo a procedere. Transizione graduale - Atti e documenti processuali possono essere formati oltre che conservati in modalità telematica, ma ne va garantita l’integrità: sarà un decreto del ministro a definire le regole tecniche per depositi, comunicazioni e notifiche, mentre per la normativa di dettaglio basterà il provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi automatizzati della Giustizia. Il tutto con una disciplina transitoria ispirata alla gradualità, che consideri l’adeguatezza delle strutture: Csm e Consiglio nazionale forense contribuiscono a indicare i tipi di atti per i quali conservare l’alternativa del cartaceo e i termini per il passaggio al nuovo regime. In caso di malfunzionamento dei sistemi vanno predisposte alternative valide e comunicazioni tempestive per gli utenti. Conoscenza effettiva - L’imputato che non si trova non ristretto in carcere o in altri istituti deve dare all’autorità che procede il numero di cellulare e l’indirizzo email fin dal primo contatto. E la posta elettronica può essere il recapito cui il suo difensore inoltra le comunicazioni: il professionista va avvisato di eventuali cambiamenti, ha diritto a conoscere i numeri telefonici dell’assistito e non risulta passibile di inadempimento degli obblighi che derivano dal mandato se la comunicazione omessa o ritardata è dovuta a un fatto del cliente. Sono eseguite direttamente con la consegna al legale tutte le notifiche all’imputato successive alla prima e diverse dalla citazione in giudizio: al primo contatto è previsto un avviso in tal senso. E vengono previste opportune deroghe quando l’interessato è assistito da un difensore d’ufficio e non ha ricevuto il primo atto di persona oppure con consegna a un familiare convivente o al portiere dello stabile. Insomma: l’obiettivo è garantire l’effettiva conoscenza del procedimento. Ricerca e latitanza - Veniamo al processo in assenza. L’imputato deve essere citato a giudizio a mani proprie o con altre modalità che gli rendano per certo noti il luogo e la data del processo. Ma soprattutto l’interessato va avvisato che la decisione può essere adottata anche se lui non partecipa alla causa. Per la notifica dell’atto introduttivo è consentito utilizzare la polizia giudiziaria. Il giudice ha facoltà di procedere in assenza dell’imputato quando ritiene provato che l’interessato sappia che pende il processo, ad esempio in base alle modalità con cui risulta compiuta la notifica: la decisione va assunta all’udienza preliminare o, in mancanza, alla prima udienza fissata nel giudizio. Ma non ci sono le condizioni per il processo in assenza, il giudice pronuncia il non doversi procedere. Finché non scadono i termini, tuttavia, le ricerche dell’interessato continuano e durante questo periodo le prove non rinviabili si assumono a richiesta di parte con le forme previste dal dibattimento. E quando la persona ricercata viene rintracciata? Il giudice deve revocare il non luogo a procedere e fissare una nuova udienza: nel processo di primo grado non si tiene conto ai fini della prescrizione del periodo compreso fra la sentenza di non doversi procedere e il momento in cui l’interessato viene trovato. Il reato è comunque dichiarato estinto quando risulta superato il doppio dei termini ex articolo 157 Cp. Scattano deroghe ad hoc per l’imputato nei cui confronti risulta emessa ordinanza di custodia cautelare senza che vi fossero i presupposti della dichiarazione di latitanza, che deve peraltro essere motivata sulla consapevolezza della misura e sulla volontà del destinatario di sottrarsi. Conte: “La prescrizione così non va”. E prepara lo scontro sulla riforma di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 13 luglio 2021 M5S, Conte: “La prescrizione così non va”. E prepara lo scontro sulla riforma. Sulle agende dei “big” del Movimento la nuova data segnata in rosso è quella di domani 14 luglio, giorno della presa della Bastiglia e giorno in cui a Roma dovrebbe arrivare Beppe Grillo. Se confermata, sarà la prima apparizione dell’”elevato” dopo l’accordo che, salvo altri incidenti di percorso, porterà Giuseppe Conte alla presidenza del M5S. Lo scontro furibondo sulla giustizia e, ancor prima, le parole urticanti del fondatore sul leader in pectore, hanno lasciato il segno e le diplomazie degli ex duellanti sono al lavoro per favorire un incontro che consenta di scattare la foto della pace. Grillo a caldo non si è fatto sentire e ha lasciato aleggiare il dilemma sui poteri del presidente e quelli del garante. Ma Conte si mostra sicuro che il nuovo statuto, limato e approvato dai sette “saggi” del M5S, non preveda alcuna diarchia, altrimenti non avrebbe accettato di siglare l’intesa: sarà lui a decidere la linea politica, lui a compilare le liste elettorali e sempre lui a nominare tutti gli organi politici, a cominciare dai vicepresidenti. Saranno tre e uno dei temi è se ne farà parte Luigi Di Maio, che ha voluto e guidato la mediazione e vuole continuare a dare il suo contributo. Il punto che fa discutere è che Grillo resta pienamente garante e potrà pronunciare l’ultima parola su temi cruciali come le espulsioni. Per dirla con un esponente del governo “Beppe ha sempre inciso e continuerà a farlo, ma non perché sta scritto nello statuto”. Insomma, il dualismo è nelle cose. La prima prova per la tenuta del patto sarà la sfida parlamentare sulla giustizia, questione identitaria per il Movimento. La riforma Cartabia della prescrizione ha già messo a durissima prova il governo Draghi e scatenato la reazione dei parlamentari del M5S contro i ministri, rei di avere ascoltato Grillo e dato un sofferto via libera al testo. Cosa accadrà quando arriverà in Parlamento? I 5 Stelle si spaccheranno tra grillini e contiani, o voteranno compatti contro un provvedimento che Conte giudica “inaccettabile”? Intanto la novità è che la riforma Cartabia, attesa alla Camera il 23 luglio, sembra destinata a slittare a settembre, rinvio che potrebbe spuntare l’arma con cui Conte spera di rilanciare il Movimento e ricompattare le truppe parlamentari. “Così com’è, noi la riforma Cartabia non la votiamo”, è il grido di battaglia dell’avvocato pugliese, convinto che la soluzione approvata in Cdm con la benedizione di Grillo non sia praticabile, rischi di far morire migliaia di processi e renda le vittime doppiamente tali. Nella maggioranza sono in molti a temere che il leader designato voglia andare alla guerra e scatenare un “Vietnam” tra commissioni e aule, cavalcando il dissenso di quanti vorrebbero uscire dalla maggioranza già ai primi di agosto, quando inizia il semestre bianco. Ipotesi che Conte smentisce: “Uscire dal governo? Non è mia intenzione”. Quello che però il giurista di Volturara Appula non accetta è di veder cancellate o affievolite una dopo l’altra le riforme dei suoi due governi, dal decreto dignità al cashback. E nelle prossime settimane farà sentire la voce della “forza più grande del Parlamento e della maggioranza” su giustizia, fisco, reddito di cittadinanza. Il debutto del Giuseppe Conte di lotta e di governo si avrà (a distanza) nella commissione Giustizia, dove il M5S cercherà l’asse con il Pd. L’ex premier è in contatto con i deputati che lavorano agli emendamenti e quello che a Conte sta più a cuore propone la prescrizione su modello tedesco. Partendo dalla riforma dell’ex Guardasigilli Bonafede, che la stoppa dopo il primo grado di giudizio, la prescrizione continua a correre per gli assolti, mentre i condannati hanno due anni per l’appello. Se il processo non viene celebrato entro i tempi non scatta l’improcedibilità, ma c’è uno sconto di pena, La strada obbligata di Conte: ora barricate sulla prescrizione di Paolo Delgado Il Dubbio, 13 luglio 2021 Per l’avvocato non ci sono alternative: il M5S darà battaglia in Parlamento per cambiare la legge, correndo il rischio accendere da subito la tensione con Draghi. La pax pentastellata è stata imposta, o almeno accelerata, dalla necessità di evitare una deflagrazione che non avrebbe lasciato in piedi nessuno dei contendenti. Chi ha parlato con Giuseppe Conte, domenica sera, lo descrive più che soddisfatto, convinto che la crisi sia superata e che ora si possa partire nella costruzione della coalizione che in vista delle prossime elezioni politiche. È possibile che abbia ragione, che il peggio sia passato e che l’accordo nei 5S sia destinato davvero a reggere. Non è certo però, perché Conte ha lasciato in ombra un particolare allo stesso tempo determinante ed eloquente non solo nel caso particolare ma in generale: come comportarsi di fronte alla riforma della giustizia. Per gli eletti, per gli elettori e i potenti consiglieri, prima fra tutti l’influente squadra del Fatto, il punto chiave è quello. Senza la provvidenziale notizia dell’ancor più provvidenziale accordo Grillo- Conte, i ministri che avevano accettato quella riforma sarebbero stati messi in croce. La pace ha solo in parte stemperato. Essenzialmente ha riposto la dolorosa faccenda nel congelatore per un po’. Non solo fino al 23 luglio, quando la riforma arriverà alla Camera. Lì c’è già pronta una formuletta che pare fatta apposta per l’insaziabile fame di rinvii che è tipica di Conte: “Faremo battaglia parlamentare”. L’ultima parola non è ancora detta. Il testo può essere emendato, modificato, stravolto. Perché fasciarsi la testa quando ancora non è certo che sia rotta? Non è quello che chiedeva Draghi, che al contrario aveva reclamato con toni severi “lealtà e responsabilità” insistendo perché la legge fosse votata così come uscita dal Cdm. Non sarà accontentato e la cosa non gli farà certo piacere. Non è facile che la accetti senza tentare di forzare la mano. Perché addentrarsi su quel sentiero vuol dire esporsi a incidenti di ogni tipo: Lega, Fi e FdI non lasceranno infatti che a cercare di modificare la riforma sia solo il fronte giustizialista. Una volta apertosi il torneo degli emendamenti cercheranno di spostare gli equilibri anche loro, ma in senso opposto. Per Conte dare battaglia in Parlamento è un obbligo ma è uno di quegli obblighi che potrebbe far impennare subito la tensione con Draghi e riflettersi a strettissimo giro sul fragile equilibrio interno. Ingaggiare una battaglia, inoltre, non vuol dire vincerla. Anche se Draghi accetterà di rendere la riforma della giustizia un campo di battaglia, i numeri non sono favorevoli all’M5S: certamene non al Senato ma neppure alla Camera. Di certo Conte farà l’impossibile per convincere Letta, che al momento non ci pensa per niente, a spalleggiarlo nella richiesta di emendamenti che gli permettano almeno di salvare la faccia di fronte alle file infuriate degli ex grillini ora contiani. Non è detto che Letta possa farlo, perché non sfiderà certo Draghi su una riforma che il Pd ha già esaltato. Non è detto che Draghi lo permetta, anche perché il pollice verso di mezza maggioranza almeno sarà comunque irremovibile. Quand’anche andasse tutto bene e qualche modifica di facciata fosse accolta, l’ex premier dovrebbe tener conto dei suoi supporter giustizialisti, sia all’interno che all’esterno del Movimento, che lo esaltano sì ma vogliono tornare nell’essenziale alla riforma per davvero, non solo come bandiera da agitare nello scontro con Grillo. Come spesso capita quando Conte punta sul rinvio, stavolta le cose non si risolveranno da sole col tempo. Il nodo della giustizia, che per i 5S è infinitamente più importante di altre questioni che al paragone sono robetta come il Mes, arriverà al pettine. Se non riuscirà a strappare modifiche sostanziali Conte dovrà decidere se arrendersi e votare comunque la legge, strada a questo punto quasi ostruita, se bocciarla uscendo dal governo o se astenersi, mossa che suonerebbe come ennesimo rinvio perché dopo l’astensione i rapporti sarebbero comunque compromessi. Il vero bivio, la prova per Conte e per la tenuta dei 5S sarà quella. Il grosso dei “contiani” sia tra gli eletti che tra gli elettori mira all’uscita dal governo, o comunque non ne farebbe un dramma. L’ex premier potrà tenerli a bada per un po’ ma non per molto. Ma a quel punto tutti i nodi sciolti per finta ora, dallo scontro con Grillo a quello con il Pd, riemergeranno tutti insieme. Il lungo divorzio tra i 5 stelle e i loro giudici di riferimento di Lisa Di Giuseppe Il Domani, 13 luglio 2021 Grillo, fin dai tempi dei suoi spettacoli negli anni Novanta, non ha mai nascosto una grandissima simpatia per le toghe, soprattutto all’epoca di Mani pulite. Con tutti loro, chi prima e chi dopo, i rapporti si sono incrinati dopo traumatiche rotture o annacquati. Nel 2017, i capisaldi della linea Cinque stelle sulla giustizia erano le indicazioni di due magistrati importanti come Nino Di Matteo e Piercamillo Davigo, all’epoca in buoni rapporti anche con Sebastiano Ardita, con cui poi ha rotto sulla vicenda della loggia Ungheria. La storia tra grillismo e un pezzo di magistratura è finita. Eppure l’intesa era solidissima, anzi, legalità e giustizia erano valori fondanti del Movimento della prima ora. La pietra, forse tombale, l’ha messo giovedì l’accordo sulla riforma della giustizia penale: un passo indietro sulla riforma Bonafede che non è piaciuto a una buona parte dei grillini. Ma oltre agli screzi interni che ha provocato la decisione di sostenere ancora una volta un’iniziativa del governo Draghi, aggravando la faida tra Giuseppe Conte e Beppe Grillo e aprendone un’altra tra Alfonso Bonafede e Luigi Di Maio, il via libera del Movimento al ripristino di fatto della prescrizione rappresenta la fine dei buoni rapporti con tutto il mondo della giustizia. Grillo, fin dai tempi dei suoi spettacoli negli anni Novanta, non ha mai nascosto una grandissima simpatia per le toghe, soprattutto all’epoca di Mani pulite. Stima ricambiata, con molti pm che, soprattutto all’inizio del progetto di Grillo, guardavano con interesse ai V-Day e ai primi passi dei Cinque stelle. La lista di fan è lunga, da Antonio Di Pietro, passando per Sebastiano Ardita e Piercamillo Davigo, senza dimenticarsi di Antonio Ingroia e Luigi de Magistris. Del pantheon dei grillini facevano parte anche Nino Di Matteo e ancor di più Antonio Esposito, presidente del collegio che ha condannato per frode fiscale Silvio Berlusconi nel 2013. Con tutti loro, chi prima e chi dopo, i rapporti si sono incrinati dopo traumatiche rotture o annacquati. Vale la pena anche ricordare il caso del sindaco di Palermo Leoluca Orlando, antenato del grillismo con la sua Rete nei primi anni Novanta: un paio di giorni fa ha ripreso la tessera del Pd dopo un lungo distacco che lo aveva visto passare per l’Italia dei valori di Antonio Di Pietro, altro incubatore del grillismo di protesta. “Dopo alcuni anni rinnovo la mia iscrizione al Pd che è punto di riferimento importante alternativo alla destra, capace di tenere coesi diritti e doveri in base a una visione che mette al centro la persona e afferma principi di comunità”. I rapporti di Orlando con il Movimento sono altalenanti e indicativi delle diverse stagioni del grillismo: si passa da una mozione di sfiducia presentata dai grillini nel 2020 a un sostegno insperato alla giunta palermitana negli ultimi mesi. In cambio, Orlando è sempre stato un sostenitore del campo di alleanze larghissimo del centrosinistra. Sempre parlando di amministratori locali, è interessante guardare a come è evoluto il rapporto tra il Movimento e Luigi de Magistris. Ex sostituto procuratore di Catanzaro, quando ha deciso di tentare la propria fortuna in politica candidandosi alle Europee con Idv ha catalizzato le simpatie di chi si raccoglieva intorno al Blog di Grillo: nel 2009 veniva pubblicato un appello scritto di suo pugno dal candidato. “Faccio questo appello perché ritengo che ognuno di noi, candidati indipendenti a questa competizione elettorale all’interno di Italia dei valori, ha bisogno dei suggerimenti, delle idee, dell’entusiasmo di tutti”. Appena un anno dopo, la sconfessione. Sul blog, il profilo Movimento Cinque stelle scaricava già il neodeputato: “Luigi de Magistris è stato eletto con i voti dell’Italia dei valori e del blog. L’obiettivo era di avere un eurodeputato a Bruxelles e non in televisione (...) È stato eletto come indipendente e poi ha preso la tessera Idv. Parla a nome del Movimento 5 stelle senza averne l’autorità. Il popolo viola (chi è?) con le manifestazioni sovvenzionate dai partiti è per lui un punto di rifermento”. Insomma, un amore finito ancor prima di cominciare, anche perché poi il Movimento a Napoli ha seguito tutt’altre strade (il primo grillino che lo ha sfidato nella corsa a sindaco è stato un giovanissimo Roberto Fico). Se la magistratura ricopre un posto speciale nella lista degli affetti dei Cinque stelle, a governare il pantheon c’è Antonio Esposito. Giudice coinvolto in molti casi di rilevanza nazionale, è entrato nel cuore dei grillini nel 2013, quando a 71 anni ha pronunciato la sentenza di condanna per frode fiscale nei confronti di Berlusconi nel processo Mediaset. Dato addirittura per arringatore di folle nelle piazze Cinque stelle (una notizia smentita poi dallo stesso Movimento), Esposito dalla pensione non ha perso occasione per commentare le attività dei grillini, non risparmiando critiche. Se la linea della norma Bonafede sulla corruzione lo vedeva d’accordo, non è mai stato un estimatore delle consultazioni sulla piattaforma Rousseau, che in un intervento del 2019, quando si stava formando il Conte II e mancava solo il via libera degli iscritti, bollava addirittura come “gravissimo vulnus ai principi costituzionali che regolano la democrazia parlamentare e rappresentativa”. Ancora diversa è stata l’evoluzione del rapporto con i magistrati prestati alla politica Ingroia e Di Pietro. Se all’inizio della sua carriera il Movimento poteva contarli tra i più accesi sostenitori del progetto, tanto che Di Pietro era addirittura intervenuto in occasione di uno dei meeting di Ivrea dedicati al ricordo di Gianroberto Casaleggio dopo la sua morte, sintomo della grande stima che il Movimento nutriva nei suoi confronti, oggi i simboli dei due partiti da loro creati sono in mano ai gruppi d’opposizione al Senato formati da ex Cinque stelle che hanno lasciato il Movimento. Mentre l’Italia dei valori è diventato il riferimento di Elio Lannutti (in ottimi rapporti con Di Pietro fin dai tempi delle piazze del popolo viola), Elisabetta Trenta e Piera Aiello, la Lista del popolo per la Costituzione di Ingroia è andata a fondersi con L’alternativa c’è, la formazione dei quattro senatori Mattia Crucioli, Bianca Angrisani, Bianca Laura Granato e Margherita Corrado. Ingroia oggi spiega che solo nei loro programmi “si riscontrano gli obiettivi originali del M5s”, ma lascia la porta aperta a un ritorno alle origini del Movimento: “Negli ultimi anni sono stati sconfessati numerosi punti fermi e pilastri, i Cinque stelle di oggi hanno tradito il Movimento delle origini. Ma se dovesse esserci un ripensamento verso le istanze originali come la legalità”, secondo l’ex pm c’è uno spazio da occupare. Il cavallo su cui punterebbe è senz’altro Alessandro Di Battista, una “risorsa per il paese per il modo d’interpretare le cose, che permetterebbe al Movimento di recuperare consensi”. Per lui, Bonafede “si è trovato in una situazione difficile”, davanti a cui si è trovato “forse un po’ impreparato, circondato da consiglieri sbagliati”. Grillo invece è “incomprensibile, dopo avermi sostenuto da pm ha poi disatteso ogni mia proposta politica ed è diventato mio oppositore”. Insomma, Conte prima di Conte: “Quello che sta subendo lui adesso a me è successo dieci anni fa”, dice l’ex pm. Stesso discorso per Di Pietro: se a dicembre 2020 parlava in un’intervista al Fatto Quotidiano dei grillini come “miei figli” e diceva di preferire “un Movimento granitico come quello che aveva ideato Grillo con capo Di Battista piuttosto che questa Dc”, ad aprile sul suo profilo Facebook scriveva che “se Gianroberto (Casaleggio, ndr) fosse ancora vivo ci sarebbe ancora il M5s, oggi c’è il partito M5s”. Gli screzi più recenti - Nel 2017, i capisaldi della linea Cinque stelle sulla giustizia erano le indicazioni di due magistrati importanti come Nino Di Matteo e Piercamillo Davigo, all’epoca in buoni rapporti anche con Sebastiano Ardita, con cui poi ha rotto sulla vicenda della loggia Ungheria. Il nome di Di Matteo nell’immediata prossimità delle elezioni del 2018 girava anche come potenziale ministro della Giustizia per un ipotetico governo Cinque stelle, mentre Davigo ha preso parte a numerose iniziative del M5s (anche l’appuntamento a Ivrea del 2017), ma non ha mai dato la propria disponibilità per ricoprire una carica. Ma anche con loro i rapporti del Movimento al governo si sono progressivamente guastati. Davigo, dopo aver smontato alcune iniziative del governo gialloverde, come il Daspo per i condannati, definito “inutile”, o la pace fiscale di Matteo Salvini, che a parere del magistrato segnalava che “fare l’evasore in Italia conviene”, è incorso di recente addirittura nel “tradimento” di Nicola Morra. Il presidente della commissione Antimafia a lui da sempre vicino non si è fatto scrupoli di raccontare in televisione delle confidenze che gli aveva fatto Davigo “in un sottoscala”. Non è andata molto meglio a Di Matteo. Basta guardare lo scontro con Bonafede: nel 2018 il ministro gli avrebbe offerto la guida del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), salvo tirarsi indietro nel giro di pochi giorni a causa delle reazioni che la notizia aveva provocato in un gruppo di mafiosi. Nella versione del grillino, la questione sarebbe andata diversamente, con Di Matteo pronto ad accettare un altro incarico e la decisione sul Dap che non sarebbe dipesa in maniera alcuna dalle reazioni dei boss. Lo strappo si è consumato in prima serata, nell’Arena di Massimo Giletti davanti a milioni di spettatori, con due telefonate a cui sono poi seguite repliche in studio, ulteriori interventi e altre valutazioni. Un divorzio in televisione, il modo peggiore per chiudere le storie. “La riforma Cartabia ha un impianto garantista, coglie nel segno” di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 13 luglio 2021 Intervista a Stefano Musolino, prossimo segretario di Magistratura democratica. “Non mi chiami, per favore, segretario in pectore: l’elezione sarà a settembre”. Fra i giuristi la forma è sostanza, e quindi dietro la richiesta di Stefano Musolino, pm antimafia a Reggio Calabria, c’è “una questione importante: il rispetto della democrazia interna a Magistratura democratica. Per ora sono solo uno dei 12 membri del consiglio nazionale”, il direttivo eletto a conclusione del congresso di Firenze. Dottor Musolino, per voi la riforma Cartabia del processo penale va bene. Ma ci sono i dubbi di Giuseppe Santalucia, presidente Anm, sulla prescrizione... Giudico positivo l’impianto culturale garantista della riforma. L’idea di giustizia penale che ne sta alla base coglie nel segno, perché afferma che processo e carcere devono essere l’extrema ratio. Capisco le preoccupazioni sulla prescrizione, ma bisogna guardare al quadro complessivo: con le novità a regime, le cause che andranno davanti al giudice dibattimentale (e, poi, in appello) saranno molte di meno delle attuali. L’ispirazione di fondo è corretta: l’inefficienza del sistema non può essere scaricata su imputati e parti offese. Ed è proprio perché il cambiamento possa dare i suoi frutti che auspichiamo l’amnistia per una serie di reati che, per la loro rilevanza e il tempo trascorso dal fatto, sono solo una zavorra che congestiona le corti: serve un coraggio politico coerente con l’obiettivo culturale della riforma. Potrebbe servire anche la depenalizzazione delle norme sulle droghe? Io credo sia utile, se inserita in un generale ripensamento delle modalità con cui fronteggiare il fenomeno sociale, senza ricorrere allo strumento penale quale unico o principale metodo di intervento. L’attuale normativa sicuramente non funziona, il “diritto penale della marginalità” porta solo al sovraffollamento carcerario. Con la riforma sarà il giudice al termine del processo a comminare le pene sostitutive al carcere, mentre ora lo fa il magistrato di sorveglianza. Non sarà un problema? Si tratta di fare investimenti per riformare il sistema dell’esecuzione penale: bisogna redistribuire le risorse, insieme ad un rinnovamento culturale e professionale del giudice dibattimentale e, con lui, del pm. Di giustizia civile si parla generalmente di meno, ma anche lì si annunciano riforme... Saremo molto vigili. Faremo attenzione alla tutela dei soggetti più deboli, come quelli coinvolti nelle amministrazioni di sostegno verso le persone con fragilità sanitarie e psicologiche, e nelle procedure di protezione internazionale verso i richiedenti asilo. Per capire la portata dei problemi, mi permetto di consigliare l’ascolto sul nostro sito dello straordinario intervento al congresso di Matilde Betti, giudice (del tribunale di Bologna, ndr) di grande esperienza e umanità. Qual è la vostra posizione sui referendum promossi da radicali e Lega? Bisogna darne una lettura complessiva. La narrazione che ne sta alla base è questa: la magistratura è nemica della buona giustizia. Non possiamo accettarlo. Non perché la magistratura sia perfetta, anzi: abbiamo bisogno delle critiche esterne, ma non di quelle che hanno la finalità di deteriorare ruolo e funzione costituzionale della magistratura. E in questo caso l’obbiettivo è mettere la magistratura “sotto il trono” in funzione di una progressiva concentrazione dei “pieni poteri” nelle sole mani di chi governa. Invece la magistratura deve restare un potere scomodo, in funzione anti-maggioritaria, a tutela dei diritti fondamentali. Almeno il quesito sulla presenza degli avvocati nelle procedure di valutazione dei magistrati dovrebbe piacerle: è anche una bandiera di Md... Io credo che la presenza degli avvocati nei consigli giudiziari aiuti la trasparenza delle nostre valutazioni interne. E la maggiore trasparenza è fondamentale per evitare le derive come quelle messe in luce dal “caso Palamara”. A proposito: come pensate di recuperare la fiducia dei vostri colleghi verso le correnti? Uno dei modi per far ripartire le correnti è quello di far percepire a ciascun magistrato la rilevanza del suo contributo per il futuro dell’associazionismo giudiziario e la tutela della magistratura costituzionale. Dobbiamo restituire la percezione, a chiunque si voglia impegnare, di potere influenzare “dal basso” le scelte delle dirigenze di tutti i gruppi per combattere le derive elitarie. Noi di Md vogliamo impegnarci in tal senso: per questo le chiedo di non dare per scontato che il prossimo segretario sia io. E la fiducia dei cittadini verso la magistratura tutta? Quella si riconquista ponendosi in una posizione di ascolto del punto di vista esterno, marchio di fabbrica di Md, essenziale per non cadere nel corporativismo autoreferenziale: indipendenza e autonomia della magistratura non sono privilegi di casta, ma sono funzionali alla tutela dei diritti fondamentali delle persone, in funzione “anti-maggioritaria” come ci ha ricordato Luigi Ferrajoli al congresso. Interpretare questo ruolo nell’esercizio quotidiano della giurisdizione significa intendere la giustizia come servizio al cittadino, recuperandone la fiducia. Riforma da rivedere, l’improcedibilità mette a rischio pure il diritto alla difesa di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 13 luglio 2021 La ministra della Giustizia Marta Cartabia sarebbe stata “avvertita” che l’introduzione dell’istituto dell’improcedibilità avrebbe potuto creare alcuni problemi, almeno nella fase iniziale, al regolare svolgimento dei processi in Appello. Fonti qualificate hanno riferito al Dubbio che alla Guardasigilli, in occasione delle interlocuzioni preliminari in Parlamento, era stato suggerito di rivalutare il testo proposto a suo tempo da Andrea Orlando (Pd) che prevedeva delle interruzioni di fase al posto dello stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado voluto da Alfonso Bonafede. L’antefatto è noto: per dare all’Italia i soldi del Recovery fund, l’Europa pretende la riduzione del 25 per cento dei tempi del giudizio penale, soprattutto nel secondo grado di giudizio. La riforma approvata all’unanimità nell’ultimo Consiglio dei ministri e che approderà in Aula il 23 luglio prossimo ha allora previsto, per ridurre questi tempi, un paletto temporale di due anni per celebrare l’Appello. Il termine perentorio, con il carico di lavoro che giace nei Palazzi di giustizia e come evidenziato sia dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia, e sia, in alcune recenti interviste, dall’avvocato Franco Coppi e dal procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, rischia però di creare grande confusione. Fermo restando, infatti, il blocco della prescrizione con la sentenza di primo grado previsto dalla riforma del 2019 voluta da Alfonso Bonafede, le nuove disposizioni inseriscono nel codice di procedura penale l’articolo 344 bis: “Improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del procedimento penale”. In pratica, il reato non si estinguerà per prescrizione ma ed essere cancellato sarà direttamente il processo se non dovesse terminare con una sentenza nel tempo di due anni in Appello e di un anno in Cassazione (purchè non riguardi reati puniti con l’ergastolo). Ciò significherà l’emissione di una sentenza di non doversi procedere, sia per i casi di condanna che di assoluzione. Salvo, comunque, il diritto dell’imputato di chiedere di proseguire, ovviamente con il non trascurabile né irrealizzabile rischio di non vedere la fine del processo. Fra le criticità evidenziate, dunque, il venir meno della regola del favor rei della successione di leggi penali nel tempo, principio che non conta sul piano delle norme di natura processuale, dove vale la regola del tempus regict actum. Per superare l’impasse servirebbe una adeguata previsione transitoria, che “copra” tali contrasti. Salvato il blocco della prescrizione con la sentenza di primo grado, che abrogherebbe il secondo comma dell’art 159 del codice penale, servirà introdurre nel codice il nuovo articolo 161 bis: “Cessazione del corso della prescrizione”. ‘ Scambiare’ l’estinzione del reato con l’estinzione del processo rischia, infatti, di portare con sé serie conseguenze al diritto di difesa. La Cedu aveva evidenziato ultimamente violazioni della presunzione di innocenza nell’ordinamento quando questo prevede la legittimità della pretesa risarcitoria della parte civile in caso di intervenuta prescrizione. La riforma Cartabia, introducendo un correttivo di natura processuale, sposta in caso di improcedibilità nella sede civile la pretesa risarcitoria, di fatto impedendo all’imputato di far valere la sua innocenza. Inoltre, non sono stati adeguatamente valutati gli effetti derivanti dall’esecuzione della pena - di natura sostanziale e attinente al reato - rispetto alle conseguenze meramente processuali della improcedibilità. Collocando l’effetto estintivo della prescrizione non più nel codice penale ma nel codice di procedura penale, la prescrizione è sparita per lasciare il passo all’improcedibilità. Il colpo di penna potrebbe sembrare ai teorici un bel modo di salvare l’accordo con i pentastellati, ma i dubbi interpretativi che si addensano su questa riforma sono tanti. Si spera solo che, con la discussione in Aula, vengano presto dissolti. Nell’interesse di tutti. “No al carcere per i giornalisti, ma l’informazione non sia un pericolo per la democrazia” di Simona Musco Il Dubbio, 13 luglio 2021 Le motivazioni della sentenza della Corte costituzionale che ha sancito l’incostituzionalità del carcere obbligatorio in caso di diffamazione. Punire con il carcere il reato di diffamazione è incostituzionale, perché mina una libertà fondamentale qual è quella di manifestazione del pensiero, tutelata sia dalla Costituzione sia dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ma ciò non autorizza il giornalista a diventare un pericolo per la democrazia, attraverso la diffusione di campagne di diffamazione che minano un altrettanto importante diritto: quello alla reputazione. Solo in casi gravi come questo, dunque, la pena carceraria è compatibile con la Costituzione, in attesa che il legislatore dia seguito all’invito formulato dalla Consulta lo scorso anno, invito caduto nel vuoto. È quanto si legge nelle motivazioni della sentenza con la quale la Corte costituzionale, lo scorso 22 giugno, ha sancito l’incostituzionalità dell’articolo 13 della legge sulla stampa (n. 47 del 1948), che prevedeva la necessaria applicazione della reclusione da uno a sei anni per la diffamazione a mezzo della stampa aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato. La sentenza, dunque, definisce ulteriormente i limiti del diritto di cronaca, che mai può sfociare in in condotte “caratterizzate dalla diffusione di addebiti gravemente lesivi della reputazione della vittima, e compiute nella consapevolezza da parte dei loro autori della - oggettiva e dimostrabile - falsità degli addebiti stessi. Chi ponga in essere simili condotte - eserciti o meno la professione giornalistica - certo non svolge la funzione di “cane da guardia” della democrazia - si legge nella sentenza - che si attua paradigmaticamente tramite la ricerca e la pubblicazione di verità “scomode”; ma, all’opposto, crea un pericolo per la democrazia”. I giudici si sono pronunciati sulle questioni sollevate dai Tribunali di Salerno e di Bari, trattate già a giugno dello scorso anno, ma la cui decisione è stata rinviata di un anno per dare tempo al legislatore di approvare una nuova disciplina in grado di bilanciare meglio il diritto alla libertà di cronaca e di critica con la tutela della reputazione individuale. Riforma che, però, non è arrivata, “costringendo” il giudice delle leggi ad intervenire con la pronuncia di un mese fa. Stando alla sentenza, “per quanto (…) la sanzione detentiva non possa ritenersi sempre costituzionalmente illegittima nei casi più gravi di diffamazione, la sua necessaria inflizione, prevista dalla disposizione censurata in tutte le ipotesi da essa previste - che abbracciano, in pratica, la quasi totalità delle diffamazioni commesse a mezzo della stampa, periodica e non -, conduce necessariamente a esiti incompatibili con le esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e in particolare con quella sua specifica declinazione costituita dalla libertà di stampa”. Dichiarare incostituzionale l’articolo 13 “non crea, del resto, alcun vuoto di tutela al diritto alla reputazione individuale contro le offese arrecate a mezzo della stampa, diritto che continua a essere protetto dal combinato disposto del secondo e del terzo comma dello stesso art. 595 cod. pen.”. Ma se è vero che “la libertà di espressione - in particolare sub specie di diritto di cronaca e di critica esercitato dai giornalisti - costituisce pietra angolare di ogni ordinamento democratico, non è men vero che la reputazione individuale è del pari un diritto inviolabile, strettamente legato alla stessa dignità della persona”, prosegue la sentenza. Per tale motivo, “aggressioni illegittime a tale diritto” attraverso la stampa o altri mezzi di pubblicità “possono incidere grandemente sulla vita privata, familiare, sociale, professionale, politica delle vittime. E tali danni sono suscettibili, oggi, di essere enormemente amplificati proprio dai moderni mezzi di comunicazione, che rendono agevolmente reperibili per chiunque, anche a distanza di molti anni, tutti gli addebiti diffamatori associati al nome della vittima. Questi pregiudizi debbono essere prevenuti dall’ordinamento con strumenti idonei, necessari e proporzionati, nel quadro di un indispensabile bilanciamento con le contrapposte esigenze di tutela della libertà di manifestazione del pensiero, e del diritto di cronaca e di critica in particolare”. Non può escludersi, tra questi strumenti, la sanzione detentiva, purché la stessa sia stabilita sulla base di “cautele idonee a schermare il rischio di indebita intimidazione esercitato su chi svolga la professione giornalistica”. La diffamazione deve, dunque, essere di eccezionale gravità, come stabilito anche dalla Cedu più volte anche in riferimento a casi italiani, ritenendo integrate simili ipotesi con riferimento ai discorsi d’odio e all’istigazione alla violenza, ma casi egualmente eccezionali “potrebbero ad esempio essere anche rappresentati da campagne di disinformazione”. Atteggiamenti simili creano, dunque, “un pericolo per la democrazia, combattendo l’avversario mediante la menzogna, utilizzata come strumento per screditare la sua persona agli occhi della pubblica opinione. Con prevedibili conseguenze distorsive anche rispetto agli esiti delle stesse libere competizioni elettorali”. Proprio per tale motivo, la Corte ha escluso il contrasto con la Costituzione dell’articolo 595, terzo comma, del Codice penale, che prevede, in alternativa fra loro, la pena della reclusione da sei mesi a tre anni ovvero della multa in caso di condanna per diffamazione commessa a mezzo della stampa o di altro mezzo di pubblicità Nei casi su elencati, infatti, il carcere non può essere inteso come “indebita intimidazione nei confronti dell’esercizio della professione giornalistica, e della sua essenziale funzione per la società democratica. Al di fuori di quei casi eccezionali, del resto assai lontani dall’ethos della professione giornalistica, la prospettiva del carcere resterà esclusa per il giornalista, così come per chiunque altro che abbia manifestato attraverso la stampa o altri mezzi di pubblicità la propria opinione; restando aperta soltanto la possibilità che siano applicate pene diverse dalla reclusione, nonché rimedi e sanzioni civili o disciplinari, in tutte le ordinarie ipotesi in cui la condotta lesiva della reputazione altrui abbia ecceduto dai limiti del legittimo esercizio del diritto di cronaca o di critica”. La Corte ha infine ribadito la necessità “di una complessiva riforma della disciplina vigente, allo scopo di “individuare complessive strategie sanzionatorie in grado, da un lato, di evitare ogni indebita intimidazione dell’attività giornalistica, e, dall’altro, di assicurare un’adeguata tutela della reputazione individuale contro illegittime aggressioni poste in essere nell’esercizio di tale attività”. Pianeta carcere, dove è finito l’articolo 27? di Enzo Sossi* Il Tirreno, 13 luglio 2021 Sono un “Civil Servant”, un servitore dello Stato da diversi lustri. Lavoro nel carcere di Porto Azzurro come funzionario da poco più di un anno. Desidero portare il mio contributo al Mondo difficile del pianeta carcere. Non è mia intenzione parlare di quanto avvenuto a Santa Maria Capua Vetere, quel 6 aprile 2020, in piena pandemia di Covid 19, vi sono delle indagini in corso, i media hanno riempito pagine e pagine dei giornali, le televisioni hanno fatto vedere immagini “crude”, non piacevoli, purtroppo vere. La ministra Marta Cartabia ha definito quanto accaduto “tradimento della Costituzione: l’articolo 27 esplicitamente richiama il senso di umanità che deve connotare ogni momento di vita in ogni istituto penitenziario”. Appare lapalissiano che il sistema carcerario italiano ha fallito, che la volontà dei padri costituenti non è stata realizzata. Troppe recidive (su 10 detenuti 7 tornano in carcere), sovraffollamento, strutture fatiscenti, stanze detentive che non consentono di avere un proprio spazio fisico e mentale, il carcere inteso come strumento di tortura e non di rieducazione, mancanza di lavoro, carcere come regno dell’ozio. Sembra che nessuno creda più all’articolo 27 della Costituzione, secondo il quale la pena deve tendere alla riabilitazione e al reinserimento del condannato. “Buttare le chiavi” “Marcire in galera”, sono espressioni che risuonano troppo spesso e troppo impunemente per non stroncare all’origine il senso stesso di quell’articolo. Sono diversi anni che si discute e si dibatte sull’opportunità di una riforma delle carceri che coinvolga il personale dirigente, amministrativo e di polizia penitenziaria. Dobbiamo tornare alle origini, alla volontà dei padri costituenti, che hanno garantito la dignità del condannato di qualsiasi reato, e imponeva allo Stato repubblicano appena formatosi la rieducazione. Articolo 27 comma 3 della Costituzione. Oggi siamo in presenza di un drammatico vuoto di potere nelle carceri e, come sintetizza un dirigente penitenziario, Santa Maria Capua Vetere è figlia di un progetto sicuritario, per utilizzare un’immagine iconica, un complotto delle divise verso i civili dell’amministrazione penitenziaria. Con il riordino dell’amministrazione penitenziaria del 2019, viene riconosciuta la funzione dirigenziale ai comandanti di reparto, anche se non si specifica il mandato loro assegnato. Il primo passo, nei fatti, che la funzione di garante del direttore sia stata cancellata. E anche la subordinazione gerarchica della polizia penitenziaria nei confronti dei direttori viene messa in pensione. Poi con la circolare Gabrielli del 2021, dove vi è un passaggio, al suo interno, che sancisce la coabitazione di due figure responsabili della struttura carceraria: il direttore è il responsabile della struttura, il comandante di reparto della polizia penitenziaria è il responsabile della sicurezza. Sempre la circolare Gabrielli richiama il regolamento del corpo della polizia penitenziaria, in ordine ai compiti e all’autonomia del comandante di reparto, e in ordine all’intervento delle forze di polizia, affida in via esclusiva al comandante di reparto il mantenimento dell’ordine e della sicurezza all’interno dell’istituto e al direttore la residuale facoltà di chiedere al prefetto l’intervento delle forze di polizia in caso di gravi eventi, non gestibili con le risorse a disposizione. La circolare Gabrielli, emanata dopo le rivolte in 22 istituti carcerari dell’aprile 2020, è nei fatti la conclusione del riordino dell’amministrazione penitenziaria. La demolizione di un’idea della risorsa carcere quale luogo di sperimentazione, continua e ostinata, all’educazione del principio di responsabilità, individuale e collettiva, rivolta al rispetto delle norme costituzionali e dell’ordinamento penitenziario, avviene ben prima, coinvolgendo in modo bipartisan, le forze politiche che si sono avvicendate nel tempo. Basti pensare a quali ministri hanno dato vita ai Gruppi operativi mobili (Gom), hanno favorito la conversione dell’articolo 41bis da misura straordinaria e a tempo, in strumento definitivo nella lotta, senza mai epilogo e sempre farcita da teoremi, alle criminalità organizzate, hanno avviato e imposto la costruzione di sempre grandi carceri (per le quali il tempo medio di realizzazione è sempre superiore ai 10 se non 20 anni), non hanno imposto la periodica e costante assunzione di direttori penitenziari, educatori e la stabilizzazione degli psicologi, con la giustificazione del blocco delle assunzione, che però non valeva per le forze armate, forze di polizia e magistrati, quasi come se le carceri fossero dei dormitori, per comprendere a chi intestare, per quote le responsabilità politiche e di alta amministrazione. In conclusione, si rende opportuna un’autopsia di un’amministrazione penitenziaria che andrebbe resuscitata, inalando l’ossigeno della Costituzione. Il pianeta carcere è un Mondo difficile, ma deve prevalere la legalità. *Funzionario carcere Porto Azzurro Parma. Morto l’ex boss Amedeo Gevovese, era nel reparto detenuti dell’ospedale vocedinapoli.it, 13 luglio 2021 È morto a 65 anni, stroncato da un arresto cardiocircolatorio, il boss dell’ex clan Partenio Amedeo Genovese. Le sue condizioni di salute erano già molto precarie, al punto che era stato trasferito da alcuni giorni nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma. Poi il quadro clinico è improvvisamente precipitato e Genovese è deceduto per un infarto fulminante. In regime di 41 bis dal 2010, il 65enne, che aveva fondato assieme al cugino Modestino il clan che dagli anni 90 e fino ai primi anni del 2000 controllava tutte le attività di spaccio, di usura e di racket delle estorsioni ad Avellino e nell’Hinterland, stava scontando la condanna all’ergastolo. Prima di affermarsi come boss era stato molto vicino al clan Cava di Pago Vallo Lauro, in particolare ad Antonio Cava, detto ‘Ndo ‘Ndo. Diverse le condanne a suo carico, in particolare quella per l’omicidio di un pregiudicato di Serino, Walter De Cristoforo, che stava tentando di mettersi in proprio per la gestione della piazza di spaccio. Genovese fu riconosciuto come mandante di quel delitto avvenuto il 12 luglio del 2000. Ultimamente la sua storia criminale è tornata alla ribalta dopo la decisione del figlio Damiano di candidarsi al Consiglio comunale di Avellino nel 2018, riuscendo anche a essere eletto nella lista della Lega per poi comunicarlo al padre durante un colloquio. Mentre, proprio nell’ambito nella maxi-inchiesta sul nuovo clan Partenio, era stato l’ex boss, durante un’altra visita in carcere del figlio, recentemente condannato a tre anni di reclusione per possesso di armi illegali e ricettazione, a suggerirgli di “fare pace” con i nuovi vertici del gruppo criminale, i fratelli Pasquale e Nicola Galdieri, ritenuti da Amedeo particolarmente pericolosi. Messina. “Barcellona Pozzo di Gotto è una Casa di Lavoro, ma il lavoro non c’è” di Rossella Grasso Il Riformista, 13 luglio 2021 La denuncia dei familiari dei detenuti. “Chi sta in carcere è veramente l’ultima ruota del carro”. Lo dice con amarezza Emanuela Belcuore, Garante casertana dei detenuti. In questi giorni sta vigilando su tutto quanto sta accadendo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere e per questo motivo denuncia un’altra situazione per lei critica. Quella del carcere siciliano di Barcellona Pozzo di Gotto. “Lì ci sono detenuti che provengono dal napoletano - racconta - i loro familiari si sono rivolti a me preoccupati per la situazione in cui versano: non sono rispettati i loro diritti. In particolare la famiglia di un quarantenne casertano denuncia che l’assistenza sanitaria è carente e gli fanno fare colloqui di 30 minuti e non di un’ora come previsto da regolamento. Non sempre gli spediscono la posta. In più ha avuto coliche forti e non è stato soccorso adeguatamente. Questa persona ha una figlia minore e una moglie malata. Come potranno rincontrarsi in questa situazione, considerata anche la lontananza? Ho scritto spesso al garante della regione Sicilia e al carcere, per far luce affinché non ci sia un Santa Maria Capua Vetere due”. Il carcere di Barcellona Pozzo di Gotto nasce nel 1925 come manicomio criminale volto ad ospitare autori di reato affetti da patologia psichiatrica. Con la riforma dell’ordinamento penitenziario diventa ospedale psichiatrico giudiziario. Oggi è una Casa Circondariale con sezione di reclusione, un reparto articolazione per la Tutela della Salute Mentale maschile e femminile, una Casa di Lavoro. Ed è proprio in questa ultima sezione che si trova internato il quarantenne di origine napoletana. “Hanno detto che il mio assistito è stato mandato lì per garantirne il recupero e il reinserimento nella società. Ma di tutto questo non ne vedo assolutamente la possibilità”, spiega l’avvocato Sosio Capasso. La misura della casa lavoro è poco conosciuta ma potrebbe essere una buona occasione di reinserimento e recupero, almeno come idea o comunque secondo i dettami della Costituzione. La sua definizione precisa è la seguente: “Misura di sicurezza personale detentiva prevista nel codice penale: vi si riuniscono i condannati per far svolgere loro attività di tipo artigianale o industriale”. “La struttura è assolutamente inadeguata a tutto ciò - dice l’avvocato Capasso - Questa misura dovrebbe avviare il detenuto a un lavoro. Ma lì lavoro non ce n’è. A questo si aggiunge la piaga di molte carceri, il sovraffollamento”. Ma per l’avvocato c’è ancora un’altra criticità: “Questo tipo di pena vuole che vengano favoriti i contatti con la famiglia con permessi di vario tipo. Invece il mio assistito non ne ha mai avuti”. Se dovesse essere avvicinato a casa, rimanendo internato in una casa lavoro, la più vicina sarebbe quella di Aversa. “Il paradosso è che anche lì il lavoro manca completamente”, aggiunge la garante Belcuore. “Il giovane che difendo ha avuto problemi di tossicodipendenza - continua Capasso - Ma è stato mandato lì per reinserirsi attraverso il lavoro. Invece per lui non ci sono attività educative di nessun tipo, dalla scuola al giardinaggio. Nulla. È una persona fragile e il suo stato di detenzione peggiora la sua situazione invece di migliorarla”. Messina. Violenze in carcere, la denuncia di un detenuto a Barcellona Pozzo di Gotto di Manuela Modica Il Fatto Quotidiano, 13 luglio 2021 La Polizia penitenziaria replica: “Noi vittime”. Quello in provincia di Messina è un ex Ospedale psichiatrico giudiziario che mantiene tutt’ora un reparto di salute mentale e sul quale qualche giorno fa ha puntato il dito la garante dei detenuti di Caserta, Emanuela Belcuore. Padre Pippo Insana, da anni volontario all’interno del carcere, racconta: “Persone che hanno diritto a cure che non ricevono e gli episodi si susseguono”. Dopo gli episodi di violenza sui detenuti a Santa Maria Capua Vetere, l’attenzione si sposta sul carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. Non un carcere qualunque, ma un ex Ospedale psichiatrico giudiziario che mantiene tutt’ora un reparto di salute mentale e sul quale qualche giorno fa ha puntato il dito la garante dei detenuti di Caserta, Emanuela Belcuore: “Le istituzioni e la magistratura intervengano per fare luce su quanto avviene nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto”. Proprio da un detenuto del carcere siciliano è arrivata una denuncia per maltrattamenti presentata al magistrato di sorveglianza. Un episodio avvenuto lo scorso novembre, denunciato formalmente solo da qualche settimana che conferma, quindi, l’allarme lanciato da Belcuore durante la conferenza stampa dei garanti tenutasi in seguito alle violenze di Santa Maria Capua Vetere. Un detenuto con gravi problemi respiratori e un altro in sciopero della fame. Sono queste le segnalazioni fatte da Belcuore, dopo le segnalazioni inoltrate al Garante dei detenuti siciliano, Giovanni Fiandaca. Segnalazioni che tuttavia, dopo le verifiche, non sono state confermate: “Non ci risulta nessuno in sciopero della fame, mentre il detenuto con problemi respiratori è stato trasportato all’ospedale Papardo di Messina per accertamenti e la situazione non appare critica”, riferisce Fiandaca. Mentre anche la direttrice del carcere, Romina Tajani conferma: “Non ritengo ci siano casi di questo genere, mi sento assolutamente serena, almeno sotto la mia direzione non mi risulta sia avvenuto niente che confermi l’allarme”. Le accuse della garante casertana non sarebbero dunque fondate. Eppure l’ultimo tentativo di fuga dal carcere è solo di due giorni fa, quando uno dei detenuti ha tentato di scavalcare il muro di cinta ed è caduto fratturandosi un piede. La notizia è stata data da Salvatore Chillemi, delegato nazionale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp, che punta il dito sulla cronica carenza di organico: “È evidente che se non si provvede in tempi brevi a rimpinguare gli organici, simili criticità non possono che aumentare. Infatti oltre alla Polizia Penitenziaria è necessario che per tutti i soggetti psichiatrici sia previsto un aumento del personale sanitario così come avviene nelle Rems”. Ed è di certo questa una delle note dolenti del carcere di Barcellona. Non un carcere qualsiasi ma un ex Ospedale psichiatrico giudiziario, che, dopo la chiusura degli Opg (la legge è del 2015), adesso ospita detenuti semplici e detenuti per cui a seguito della detenzione sono sopravvenute criticità psichiatriche (non dunque internati giudicati incapaci di intendere e di volere ma socialmente pericolosi com’era negli Opg): sono 56 uomini e 8 donne nel reparto di articolazione di salute mentale, come riferisce il dirigente dell’Asp di Messina, Carmelo Crisicelli. Di questi due sono soggetti che non dovrebbero essere in carcere ma per via del sovraffollamento nelle Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, che hanno sostituito gli Opg) sono momentaneamente detenuti nella casa circondariale del Messinese. Fino a qualche giorno fa erano quattro, ma due sono stati trasferiti alla Rems di Naso, paesino sui Nebrodi, competente per la Sicilia occidentale dall’ex Opg, ormai chiuso per legge e riconvertito in carcere semplice. Nella riconversione però, qualcosa ancora non funziona del tutto, tant’è che la Corte costituzionale ha ordinato il 24 giugno un’istruttoria sulle difficoltà di applicazione delle misure di sicurezza, sollecitata da un caso nel Lazio di misura non applicata proprio perché mancava posto nelle Rems. E non a caso è il reparto di salute mentale quello a dare più problemi al carcere di Barcellona. L’Osapp aveva già segnalato un episodio di violenza da parte di un detenuto ai danni di un agente lo scorso febbraio, mentre a febbraio del 2020 un altro sindacato di polizia penitenziaria, il Sappe, parlava di “bollettino di guerra” segnalando “l’impossibilità della gestione della sezione Articolazione salute mentale”. E l’allarme della garante casertana è adesso rilanciato da padre Giuseppe Insana, da anni volontario all’interno del carcere, mentre nella sua casa di accoglienza a Barcellona aveva ospitato negli anni migliaia di internati dell’ex Opg. Attività di volontariato proseguita anche dopo ma interrotta dal Covid: “Adesso è un luogo chiuso, serrato - dice padre Insana. Ogni detenuto deve scontare la pena, però chi ha un’infermità, ha diritto ad essere curato adeguatamente e nell’articolazione di salute mentale del carcere di Barcellona questo diritto è negato”. E spiega: “Oltre agli psicofarmaci sono necessari altri interventi di socializzazione e riabilitazione. Tutti questi aspetti mancano, col risultato che in assenza di un trattamento sanitario adeguato non sono mancati episodi di autolesionismo, tentati suicidi, suicidi e aggressioni, ci vorrebbero gli interventi riuniti della sanità pubblica, interventi da parte dell’Asp e della direzione della casa circondariale ma non avvengono e gli episodi si susseguono”. Modena. I morti e le testimonianze inascoltate dirittiglobali.it, 13 luglio 2021 Il racconto inedito di una persona detenuta nel carcere di Modena nei giorni della rivolta e della morte di nove reclusi. “Ho sentito diverse volte grida e addirittura una voce che ordinava di smetterla ‘perché così li ammazzate’. Certo ho visto passare le barelle e anche le conseguenze sui volti dei detenuti che ho incontrato dopo, al momento del trasferimento”. Abbiamo ricevuto questa intervista in forma anonima. La pubblichiamo perché ci pare attendibile e rilevante, dettagliata e facilmente verificabile da chi ha la possibilità, e avrebbe il dovere, di farlo. Ci risulta che una testimonianza della persona detenuta che qui parla sia contenuta nel fascicolo di opposizione che il Garante dei detenuti ha presentato al tribunale di Modena, opposizione che non è stata ammessa dallo stesso, che ha poi proceduto ad archiviare il procedimento. Così anche questa voce è stata destinata al silenzio e la verità è ancora più lontana. Motivo in più per noi per pubblicarla, nonostante l’anonimato. Come mai ti sei deciso a parlare? Lo ritenevo assolutamente il mio dovere dopo quello che avevo passato e visto nel corso della rivolta. L’ho potuto fare, però, solo quando ho terminato la pena e sono tornato un uomo libero. È normale che ci siano difficoltà a trovare testimonianze dato che molti detenuti che erano stati trasferiti sono stati riportati nel carcere di Modena, dove ci sono gli stessi agenti, oppure non hanno terminato la pena. Uno di quelli che ha firmato l’esposto per Piscitelli ha avuto una misura di sicurezza detentiva a Castelfranco Emilia dove c’è la stessa direzione che operava a Modena al tempo della rivolta. Forse è un caso, ma di sicuro non ci si espone in casi come questi. Io ho avuto i domiciliari e ho voluto essere sicuro di essere libero prima di parlare. Com’era la situazione in carcere prima della rivolta? I giorni precedenti la rivolta erano particolarmente difficili. C’era tensione per le notizie che arrivavano riguardanti il Covid. Io più volte ho cercato di contattare la direzione come portavoce dei miei compagni, ma era difficile avere un colloquio con la nuova Direttrice che era presente per poche ore settimanali. Si riusciva parlare, solo, con degli ispettori che promettevano senza mantenere. La direzione, infatti, era cambiata improvvisamente nel mese di gennaio, noi detenuti avevamo un ottimo rapporto con la prima Direttrice che ci riceveva con facilità e questa nuova situazione aveva aumentato la preoccupazione. Dopo la sua sostituzione, infatti, le notizie, arrivavano solo con avvisi senza possibilità di spiegazioni. L’ultimo che annunciava la sospensione dei colloqui ha scatenato la rabbia. Non corrisponde al vero che già al momento della rivolta si potessero fare videochiamate ai familiari. Forse c’era l’intenzione, ma noi non ne sapevamo niente. A che ora ti sei reso conto che era iniziata una rivolta? Io ero nella settima sezione. Era intorno alle 13.40, qualcuno mi ha avvertito che era scoppiata una rivolta. Riuscivamo a vedere dalla finestra perché tutto è cominciato nei passeggi. Le nostre celle erano aperte, ma non il cancello principale che ci avrebbe permesso di scendere alle altre sezioni. Circa mezz’ora dopo, però, con mia grande sorpresa è arrivato un detenuto con le chiavi degli agenti e ha aperto il cancello. Alla mia richiesta di spiegazioni la risposta è stata che gliele avevano date loro. Non posso, ovviamente affermare che sia andata così, ma le chiavi erano in mano ai detenuti. Nel carcere, come succede quasi sempre nei giorni festivi, la presenza degli agenti è minima (basta controllare il registro delle presenze). Nel momento di grande confusione, mi sono reso conto che gli agenti avevano, evidentemente, avuto ordine di lasciare il carcere, che è rimasto nelle mani dei detenuti rivoltosi e di limitarsi a evitare le fughe. La situazione, all’interno peggiorava, con presenza di fumo e acqua per terra dato che l’assenza di agenti permetteva ai rivoltosi di sfogarsi. Sulle mura c’erano, però, agenti armati che hanno sparato in aria perché alcuni detenuti avevano trovato delle scale e pensavano, stupidamente, di riuscire a scalare il muro, così come c’erano agenti nei punti in cui i detenuti avrebbero potuto evadere. Non ho visto nessuna lotta corpo a corpo, per quello che ho visto è bastato aspettare e entrare con i rinforzi. I rinforzi sono arrivati dopo circa un’ora con moltissimi agenti in tenuta antisommossa, di sicuro è difficile sostenere che potessero essere sopraffatti dai detenuti che erano armati di bastoni, erano esaltati ma non avevano armi né scudi. Hai assistito all’assalto dell’infermeria o te lo hanno solo riferito? Non ho assistito all’assalto, me lo hanno riferito. Non c’era più nessun controllo, i detenuti avevano il modo di aprire le porte ed è possibile che ne abbiano approfittato. Non credo, tuttavia, che lo scopo della rivolta fosse solo quello di imbottirsi di metadone che, per i tossicodipendenti, viene largamente distribuito e questo vale anche per gli psicofarmaci. Rimane una mia opinione ma, da ex-tossicodipendente, il carcere non mi ha mai fatto arrivare a una tale crisi di astinenza da farmi desiderare un assalto al metadone. Capisco che gli psicofarmaci possano essere una facile materia di scambio in cella se è vero, come si sostiene, che ci sia stato un vero e proprio saccheggio. Tu cosa hai fatto? Io sono sceso dalla mia sezione come ero vestito in quel momento e tale sono rimasto fino alla fine di questa bruttissima esperienza. Erano circa le 15, anche se è difficile essere precisi date le circostanze. Quando sono arrivati gli agenti in tenuta antisommossa non è stato difficile, infatti, convincere la maggioranza dei detenuti a riunirsi nel campo sportivo. Ho passato anni in carcere e questo ordine mi ha insospettito. Ho, per fortuna, incontrato un agente che mi conosceva e che mi ha aiutato a rifugiarmi in una palazzina (c’è un filmato un cui mi si riconosce mentre mi accompagna lì) insieme ad alcune decine di miei compagni. Ho letto di molte testimonianze di pestaggi. Io non li ho subiti ma, per quello che vale dato che non riuscirò a dimostrarlo, ho sentito diverse volte grida e addirittura una voce che ordinava di smetterla “perché così li ammazzate”. Certo ho visto passare le barelle e anche le conseguenze sui volti dei detenuti che ho incontrato dopo al momento del trasferimento. C’era stata una rivolta come dimostrare che non era una inevitabile conseguenza dei tafferugli? Dalla mia postazione vedevo che erano presenti sia la Direttrice che il comandante come era logico in momenti come questi. Si sostiene che tutti i detenuti siano morti di overdose, tu cosa ne pensi? Come ho detto sono un ex-tossicodipendente e, per quello che può valere la mia opinione, non ci vuole una laurea in medicina per sapere che per l’overdose si può intervenire con una puntura di Narcan. Anche dai filmati si vede chiaramente un assembramento di ambulanze. Medici ce n’erano di sicuro e non voglio pensare che non siano voluti intervenire, come non credo che un medico non sappia riconoscere una overdose, tanto più che si affermava che avevano assalito l’infermeria. A che ora hanno cominciato a trasferirvi? Come eravate sistemati nei pullman? Io e i miei compagni siamo stati chiusi nella palazzina fino alle 24, sempre seduti per terra, senza mangiare e senza bere dall’ora del pranzo. Ci hanno fatto andare una volta sola in bagno. Ci hanno divisi in gruppi, ognuno aveva la sua destinazione che non veniva comunicata. Io e i miei compagni non siamo stati visitati da nessun medico prima della partenza. Siamo stati ore ad aspettare dalla fine della rivolta, tempo e possibilità, credo ce ne fossero. Per chi non ha dimestichezza di queste cose, specifico che nei pullman si è, da un lato, divisi in gabbie occupate ognuna da 4 detenuti. Nell’altro lato c’è la fila degli agenti. Tutti i detenuti hanno tenuto le manette per tutta la durata del viaggio. Io sono capitato nella stessa gabbia con Slim Agrebi. Fin dall’inizio aveva un comportamento strano, mi cadeva addosso in continuazione. Ho avvertito gli agenti che mi hanno risposto che se ne sarebbe parlato a destinazione. La situazione peggiorava mano a mano che passava il tempo. Ho chiesto che almeno gli venisse dato da bere, ma senza risultato. Quando proprio ormai non si reggeva più, dopo3 /4 ore siamo arrivati nelle vicinanze di Alessandria, dentro al cortile del carcere. È stato scaricato a braccia. C’era in attesa un’ambulanza e so che avevano chiamato un magistrato. È salita un’infermiera che ci ha provato la pressione che, stranamente, era uguale per tutti. Una vera fortuna che nessuno soffrisse di pressione alta, data la situazione non idilliaca. Quando siamo ripartiti ho sentito gli agenti che dicevano che era deceduto ed era stato caricato in ambulanza. E’ proprio questo episodio che mi ha spinto ad espormi. Sento casi in cui si lotta per salvare gli animali, si scrivono articoli per evitare l’abbandono estivo di cani e gatti e nessuno si indigna se un poveraccio per ore sta male, è morto, forse, di overdose e, se è vero, si poteva salvare con una puntura. Quella vita valeva meno di un cane abbandonato in autostrada. Un povero extracomunitario che se l’è cercata, poteva rimanere nel suo paese… Come è finito il tuo viaggio? Dopo ore di sosta, siamo ripartiti verso l’alba. Ci siamo fermati a Vercelli a scaricare alcuni detenuti e abbiamo continuato per Aosta che era la mia destinazione. Sono sceso dal pullman verso le 10.30 del mattino. La mia “odissea” è terminata dopo 10 ore e mezza di viaggio, in manette, in una gabbia con uno spazio di circa un metro e mezzo quadrato in quattro, senza bere (tranne la volta in cui sono andato in bagno), senza mangiare dalle 14 del giorno prima, quasi 20 ore, con i pochi vestiti che avevo in cella. Non so cosa significhi tortura e non so cosa si intenda quando si parla della legge contro la tortura, ma ritengo che se ci sono delle indicazioni precise a cui attenersi per far viaggiare gli animali, ce ne dovrebbero essere anche per gli umani, sempre che i detenuti siano considerati tali. Milano. A Bollate detenuti al lavoro anche per le start up Avvenire, 13 luglio 2021 NeN lancia il progetto “IntegrazioNeN assieme alla cooperativa Bee4, finalizzato al reinserimento nel mondo lavorativo. Può un detenuto far parte di una start up? La risposta è sì, è possibile, e sta già accadendo nel carcere di Bollate (Milano), grazie all’incontro tra NeN, la prima azienda EnerTech in Italia, e Bee4, l’impresa sociale nata all’interno del carcere di Bollate che occupa oggi circa 90 detenuti (la prima per numero di impiegati tra quelle nate all’interno della struttura). Qui, la partnership tra le due aziende ha dato vita a “IntegrazioNeN”, un progetto di Csr con una doppia finalità, sociale e “di business”: da un lato - quello sociale - contribuire al reinserimento lavorativo dei detenuti della struttura; dall’altro - quello operativo - migliorare la qualità del servizio clienti di NeN, affidando a un gruppo di detenuti alcune attività di “controllo qualità” nel processo di sottoscrizione delle nuove forniture di energia. A Bollate, dopo un periodo di formazione e affiancamento, i detenuti che lavorano insieme a NeN si occupano di data entry, validazione documentale, controllo e inserimento delle autoletture. Il tutto percependo uno stipendio che quasi sempre viene destinato alle proprie famiglie fuori dal carcere (si chiama “mercede” e rispetta le retribuzioni minime previste dai contratti collettivi). Ma, soprattutto, costruendo per sé stessi un efficace percorso di rieducazione e reinserimento nel mondo del lavoro e nella società civile. “Il carcere di Bollate è, sin dalla sua apertura, un’eccellenza nell’ambito delle politiche di rieducazione dei detenuti. E gli effetti di questo modello si vedono: qui il tasso di recidiva è del 30%, contro il 70% di media nazionale. In altre parole, è la dimostrazione che far lavorare i detenuti abbatte sensibilmente la possibilità che questi tornino a delinquere una volta scontata la loro pena - spiega Pino Cantatore, il presidente di Bee4, che ha in prima persona vissuto un percorso di formazione professionale in carcere prima di fondare la cooperativa. A Bollate la Direzione lavora per garantire percorsi di rieducazione e opportunità di reinserimento, e i detenuti si impegnano attivamente in percorsi individuali di responsabilizzazione e formazione professionale. In questo contesto, Bee4 agisce come ponte con il mondo esterno e favorisce l’interazione con la comunità territoriale in tutte le sue forme: la cooperativa impiega già oggi circa 120 persone, di cui 90 con problemi di giustizia, ma puntiamo a raggiungere i 200 occupati entro il prossimo triennio. Abbiamo anche un gruppo di detenuti che la mattina si svegliano, raggiungono un ufficio e a fine giornata lavorativa tornano “dentro”. E di lavoro si tratta, a tutti gli effetti, con tanto di obiettivi di performance e attività di team. L’avere affidato al team di Bee4 alcune attività di controllo e validazione documentale sulle attivazioni di nuove forniture ha permesso di ottimizzare alcuni processi e migliorare la qualità del servizio clienti. Le persone che lavorano a Bollate sono considerate parte integrante del team, con cui spesso vengono organizzati momenti di interazione che vanno a beneficio della crescita di tutti: dei detenuti, dei dipendenti NeN e del team nel suo complesso. Potenza. Carcere e lavoro femminile, presentazione del libro “Una bellezza prigioniera” regione.basilicata.it, 13 luglio 2021 Le donne nel mondo lavorativo penitenziario, dentro e fuori le mura del carcere. Sarà questo il tema al centro della presentazione del volume fotografico “Una bellezza prigioniera” promosso dall’Ufficio della Consigliera regionale di Parità della Basilicata, dal Ministero della Giustizia- dipartimento Amministrazione penitenziaria e sostenuto dalla Bcc Basilicata, che sarà presentato giovedì 15 luglio a Potenza, nella Sala degli Specchi del Teatro Stabile alle ore 11. Il volume racconta uno spaccato del lavoro femminile nella Casa circondariale di Potenza ancora poco conosciuto, documentato dalla fotografa Claudia Marone e dalla dirigente della Polizia penitenziaria e referente delle pari opportunità Anna Cestaro. Interverranno Ivana Pipponzi, consigliera regionale di Parità, il sindaco di Potenza Mario Guarente, la presidente della Bcc Basilicata Teresa Fiordelisi e il Procuratore generale della Corte d’Appello di Potenza Armando D’Alterio. Previste le testimonianze di Antonella Paloscia, dirigente dell’Amministrazione penitenziaria e presidente del comitato Pari opportunità della Polizia penitenziaria e di Giuseppe Martone dirigente generale dell’Amministrazione penitenziaria e Provveditore regionale di Puglia e Basilicata. Perché così tanti lavoratori sono tornati in ufficio dopo il Covid? di Francesco Seghezzi Il Domani, 13 luglio 2021 Negli scorsi mesi sono circolate molte stime sul numero di occupati che avrebbero lavorato da remoto durante la pandemia. Sondaggi, analisi e altri focus che parlavano del 30/35 per cento sul totale degli occupati, con cifre tra i 5 e gli 8 milioni. La media nel corso del 2020 si fermerebbe invece al 14 per cento, poco sopra i 3 milioni. Cifra di certo maggiore rispetto agli anni precedenti ma che è lontana dal far pensare che la “remotizzazione” del lavoro sia l’inevitabile futuro della maggioranza dei lavoratori. Negli scorsi mesi sono circolate molte stime sul numero di occupati che avrebbero lavorato da remoto durante la pandemia. Sondaggi, analisi e altri focus che parlavano del 30/35 per cento sul totale degli occupati, con cifre tra i 5 e gli 8 milioni. Numeri importanti, soprattutto per un paese in cui i lavoratori che potevano vantare di eseguire da remoto la loro prestazione erano veramente pochi e all’ultimo posto in Europa. E numeri che hanno fatto parlare più e più osservatori, nell’ultimo anno e mezzo, di una rivoluzione in atto, di una incredibile accelerazione di un trend organizzativo che rispondeva allo zeitgeist del mondo del lavoro in età digitale. Negli scorsi giorni però il Rapporto annuale Istat ha invece ridimensionato molto la cifra parlando del 19 per cento come picco durante il secondo trimestre 2020, un numero che si aggira quindi intorno ai 4,5 milioni di persone. E questo è appunto il picco, perché la media nel corso del 2020 si fermerebbe invece al 14 per cento, poco sopra i 3 milioni. Cifra di certo maggiore rispetto agli anni precedenti ma che è lontana dal far pensare che la “remotizzazione” del lavoro sia l’inevitabile futuro della maggioranza dei lavoratori. Ci sarà modo di verificare prossimamente quanto questa cifra sia poi rimasta tale o se nel corso del 2021 sia cresciuta o diminuita, ma è difficile pensare che in una fase di normalizzazione delle condizioni organizzative del lavoro i numeri possano discostarsi eccessivamente da quanto osservato nei mesi più duri della pandemia. Mesi in cui erano in vigore norme in virtù delle quali o si lavorava da remoto o non si lavorava, questo almeno in molti settori produttivi. Sono cifre che frenano abbastanza l’entusiasmo, soprattutto se si entra nei dettagli e si vede come Istat osservi che la maggioranza di coloro che hanno lavorato da remoto l’ha fatto per non più del 50 per cento delle ore lavorate settimanali. E sono cifre che ci allontanano da performance osservate in altri paesi in cui il 30 per cento è stato raggiunto o superato. Non tutto è smart - Al di là del mero dato quantitativo è interessante però cercare di capire il perché di questo andamento. Da un lato ci sono ragioni strutturali legate alla composizione economica del tessuto produttivo italiano che vede una maggioranza di servizi di prossimità (retail, ristorazione, servizi alla persona) nei quali la dimensione fisica è essenziale per poter lavorare. Minore è invece la presenza di servizi di nuova generazione legati al settore bancario, finanziario, della consulenza ecc. Questo riduce la quota di lavoratori che possono svolgere lavoro da remoto. C’è poi un tema organizzativo che vede molte delle imprese italiane legate a modelli tipici dell’impostazione taylorista fondata su ordini e direttive da parte del datore di lavoro e dei responsabili intermedi e sul controllo della prestazione, controllo spesso esercitato in forma visiva e quindi sulla presenza fisica. Questo può condurre da un lato le imprese a non consentire il lavoro a distanza o a limitarlo al massimo e, dall’altro, i lavoratori a non voler lavorare sottoposti ad eccessive forme di controllo a distanza che sanno essere più invasive di quelle esercitate in presenza. Un ulteriore fattore è più in generale la polarizzazione dei livelli di innovazione e digitalizzazione delle imprese italiane, polarizzazione sia territoriale che soprattutto dimensionale. Ma non si può escludere, e diverse indagini più recenti sembrano suggerirlo, che vi sia stata anche la volontà da parte dei lavoratori di tornare, non appena è stato possibile, in presenza. Questo a causa dell’emersione di numerose condizioni di disagio individuale connesse all’eccessiva solitudine, all’aumento dei carichi di lavoro, al venir meno della separazione tra momenti di vita e momenti di lavoro. Rischi psico-sociali di cui si era a conoscenza in astratto ma che la diffusione massiccia e repentina del lavoro a distanza, senza una vera innovazione organizzativa che li limiti, ha fatto emergere. Non è così scontato quindi che questa modalità di lavoro sia il futuro, se non in una quota importante ma marginale. I processi di digitalizzazione in parte lo suggeriscono se si proiettano i trend attuali nel futuro, ma le preferenze individuali delle persone non possono essere ignorate. Questi numeri ci suggeriscono di mettere a tema uno dei punti deboli del nostro paese: l’organizzazione del lavoro. Ma di farlo senza innamorarci dei modelli ma rinnovando e innovando le fondamenta, liberando il lavoro dai lacci del novecento senza intervenire solo sulle forme esteriori. Ddl Zan, al Senato legge in aula tra mille ostacoli di Carlo Lania Il Manifesto, 13 luglio 2021 Possibile rinvio a settembre. Salvini: “Vado a Roma per bloccarlo” Renzi: “Non ho messo il Pd all’angolo, ma i voti non ci sono”. Da adesso gli occhi di tutti saranno puntati su di loro, i 17 senatori di Italia viva. Prima ancora di vedere - quando sarà il momento - cosa accadrà con il voto segreto sugli emendamenti, le scelte che verranno fatte a partire da oggi dal drappello di parlamentari renziani potrebbero essere rivelatrici della sorte che spetta al ddl Zan. Tre gli appuntamenti della giornata che vede il testo contro l’omotransfobia approdare finalmente nell’aula del Senato dopo mesi in cui è rimasto impantanato in commissione Giustizia. Alle 15 il presidente della commissione, il leghista Andrea Ostellari, tenterà ancora una volta di far passare la sua mediazione, una riscrittura delle norme contro l’omotransfobia fatta tenendo conto delle modifiche chieste da Lega e Italia viva e la cui principale novità è la cancellazione delle parole “identità di genere”. Dato per scontato il fallimento del tentativo, il passo successivo sarà alle 16,30 con l’avvio della discussione in aula dove verranno presentate le pregiudiziali di costituzionalità, ma soprattutto dove probabilmente la Lega proporrà di rimandare il testo in commissione. “Se si insiste con la calendarizzazione in aula si rischia di allungare i tempi e si rischia anche l’affossamento”, ha spiegato Ostellari nel tentativo di convincere i renziani. Ma mentre sulle pregiudiziali Italia viva non seguirà la Lega, visto che ha già votato il ddl alla Camera, sulla seconda proposta resta da vedere cosa farà, per quanto sia improbabile che accetti di rimandare il testo in commissione, cosa che confermerebbe l’esistenza di un asse con i leghisti: “Domani (oggi, ndr) sarà il Vietnam”, avvertiva ieri il sottosegretario all’Interno Ivan Scalfarotto (Iv). “Noi stiamo cercando di trovare un accordo che permetta di approvare il provvedimento, il rischio è che in questo momento il ddl Zan non diventi legge”. Se tutto filerà liscio, se la prima serie di ostacoli verrà superata, la presidente del Senato Elisabetta Casellati convocherà i capigruppo per decidere i termini entro i quali gli emendamenti dovranno essere presentati, dando così il via libera allo scontro parlamentare. E che sarà scontro non ci sono dubbi. Ieri Matteo Salvini era in Calabria, a Lamezia Terme, ma prima di partire ha rilasciato dichiarazioni che suonano come una dichiarazione di guerra: “Domani (oggi, ndr) torno a Roma in aula perché c’è il ddl Zan da bloccare o quanto meno da cambiare in parlamento”, ha annunciato mettendo da parte i toni da mediatore delle ultime settimane. Una delle prime questioni da affrontare riguarderà i tempi: il dibattito in aula non prenderà meno di tre settimane, finendo inevitabilmente con l’incrociarsi con altri provvedimenti come il voto sul Cda Rai, la legge sul processo civile e una serie di decreti da convertire. Nulla di più probabile, quindi, che tutto slitti a settembre quando il semestre bianco, che comincia il 2 agosto, eviterà che un’ulteriore lacerazione della maggioranza possa preoccupare il governo. E del resto Draghi ha già spiegato che il testo contro l’omotransfobia riguarda solo il parlamento, che quindi dovrà sbrigarsela da solo. Pd, LeU e M5S restano saldi sulle loro posizioni e insistono perché si vada al voto senza toccare il ddl Zan. Al dunque nessuno chiederà il voto segreto, e non lo farà neanche Italia viva, anche perché è sicuro che lo farà il centrodestra. “Non ho messo all’angolo il Pd. Se si vuole trovare un accordo - ha spiegato Matteo Renzi - io sarei contento di portare a casa la legge. Se poi invece si vuole andare alla conta per tenere in mano la bandierina identitaria come fu per le unioni civili e poi si va sotto sappiamo la colpa di chi è”. Al leader di Iv ha risposto indirettamente Nicola Zingaretti. “In questo momento ci sono esseri umani che camminano per le strade e rischiano di essere picchiati o insultati o discriminati per l’orientamento sessuale. Li vogliamo difendere o non ce ne frega niente? È questo il punto”, ha detto il governatore del Lazio. “Penso che sia giusto mettere tutti di fronte alle proprie responsabilità, gli italiani vogliono capire perché gli altri sono contrari e perché all’improvviso si vuole rimandare la decisione”. Ddl Zan oggi in aula, la Lega pensa a un blitz per rimandarla indietro di Giovanna Casadio La Repubblica, 13 luglio 2021 Salvini: “Torno a Roma per bloccare il ddl”. L’ipotesi del rinvio in commissione. Il rischio concreto è che la destra tenti il blitz per mandare il ddl Zan di nuovo in commissione. Dopo 8 mesi di rinvii e audizioni, oggi la legge, che porta il nome del deputato dem e attivista lgbt, Alessandro Zan, approda nell’aula del Senato. Ma Forza Italia e Lega puntano a non giocare subito la partita, a prendere ancora tempo per cambiare il ddl, confidando in una intesa con Matteo Renzi. Il leghista Andrea Ostellari farà una ultima offerta: “Finire in tempi certi l’esame della legge in commissione”. Saranno in aula i due Matteo. Matteo Salvini annuncia che torna a Roma per bloccare tutto. Dice: “In Senato c’è questo ddl Zan da bloccare o quantomeno da cambiare in Parlamento”. Una legge che così com’è non può andare, perché è “una legge che lo stesso Santo Padre chiede di modificare. Il problema non è Salvini o Renzi, ma sono le libertà, la libertà è un bene primario”. Dichiara, il leader leghista: “Il diritto all’amore di chiunque, due ragazzi, due ragazze, è sacrosanto, punire i deficienti che insultano, offendono, aggrediscono, è sacrosanto, ma lasciamo fuori i bambini e lasciamo la gente libera di pensare all’idea di famiglia...mamma e papà non sono concetti superati, sono il futuro”. Anche Renzi interverrà a Palazzo Madama. E ieri denuncia: “Se sul ddl Zan si va a scrutinio segreto, Calderoli viene e presenta mille emendamenti... queste cose poi spiegatele a Fedez, che parla di cose che non conosce. Ma il problema non è mica Fedez, è chi ha eletto Fedez capo della sinistra”. Rincara sulle modifiche indispensabili: “Se si vuole portare a casa la legge serve un accordo”. Oggi però sull’iter del ddl, Italia Viva non dovrebbe smarcarsi dai giallo-rossi. Davide Faraone mette sul tavolo l’accordo tra gentiluomini che dovrebbe portare all’intesa. I Dem con la capogruppo Simona Malpezzi e il segretario Enrico Letta sono più che mai convinti che si debba andare avanti in aula. Senza modifiche. I maldipancia nel partito sono sotto controllo: a smarcarsi potrebbero essere Andrea Marcucci e un paio di suoi fedelissimi. Molto meno certi sono i numeri nel M5Stelle, dove circa una quindicina di senatori sarebbero in dissenso. La maggioranza pro Zan - 145 a favore inclusi i 17 renziani - è sul filo. I “franchi tiratori” pronti a ogni voto segreto. Il dem Franco Mirabelli commenta: “Ostellari ha avuto 8 mesi, basta ostruzionismo”. Monica Cirinnà rincara: “Finalmente si discute in aula”. La 5Stelle Alessandra Maiorino teme “altri tentativi di rinvio”. È Ostellari ad attuare la linea di Salvini. Farà oggi un tentativo per prendere tempo e insistere sull’intesa. Ha convocato la commissione alle 15, prima dell’aula. “Se c’è la disponibilità a migliorare la proposta ben venga. Certo è che avremmo bisogno di più tempo per arrivare a votare delle proposte emendative. Quindi, in base a quello che emergerà in commissione dai vari gruppi, lo dirò in aula alla presidenza nel riferire l’andamento dei lavori finora”. Per il ddl Zan si presenta a Palazzo Madama un terreno minato, tra commissione, l’arena dell’aula, la conferenza dei capigruppo. Se il blitz del ritorno in commissione non riesce, la destra presenterà le pregiudiziali di costituzionalità. Diritti civili, perché è giusto tifare per la legge Zan di Natalia Aspesi La Repubblica, 13 luglio 2021 Se non direttamente interessato, non so quanti di noi sappiano esattamente cosa dica la proposta di legge Zan, se non che se la vuoi così come è sei di sinistra e se invece vuoi delle modifiche sei di destra: siamo ormai estenuati e confusi dall’oscuro e martellante vociferare sull’argomento in riunioni di alto litigio politico, prediche vescovili, gruppi femministi pro e gruppi femministi contro, associazioni lesbocentriste, transleniniste, fasciosessiste, movimenti solo-babbo-mamma o profamilia o frocioimpalatori, o cortei di fanciulli che cantano l’inno Zan-Zan dichiarando gioiosi le loro variazioni, e di suore che invocano San Sebastiano frecce comprese. Non si saprebbe a chi credere se non fosse per il sacerdote con lussuosi paramenti ricamati d’oro che in piazza come fosse S. Bernardino da Siena minaccia urlando orrori infernali ai figli di Satana Zanisti, e pure la buona signora umbra addetta a terrorizzare l’infanzia incolpevole, che con la Zan, non avendo visto né Padre Padrone, né Sex and the city, predice un futuro di pecore molestate e di apposita oggettistica umiliata: sono loro, questi eredi del Malleus maleficarum a obbligarti a non avere dubbi e a tifare per la Zan. Il testo di legge, già approvato alla Camera e in discussione da oggi al Senato, dovrebbe completare l’articolo 604 bis del nostro Codice Penale che già punisce “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa”. Cui si chiede di aggiungere “nuove fattispecie penali che puniscono comportamenti accumunati dalla finalità di discriminazione fondata sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale e sulla identità di genere”. Insurrezione di eterocasti: non sarà che questa variante potrebbe intaccare l’art. 21 della Costituzione che assicura la libertà di pensiero? Per esempio, un magistrato di cattivo umore potrebbe giudicare reato un coro di bimbi addestrati, innocenti! a cantare “brutto frocio ti sfascio” oppure “trans bastonato è mezzo salvato”, e non, come per molti è, una semplice manifestazione di pluralismo delle idee? Un altro paio di punti che anche se non ci sono pazienza, strazieranno il feroce dibattito. Intanto noi stupidelli che abbiamo vissuto troppi decenni nel secolo scorso e che avendone visto e vissuto di tutti i colori nel ramo “scopo con chi voglio” e ritenuto un buon arrivo, oggi disprezzato, le unioni civili (ottenute dopo quarant’anni di scontri parlamentari, ahi noi, dal governo Renzi) ci troviamo spiazzati dalla nuova paludata e rigida cultura della nomenclatura sessuale. Ai nostri tempi c’erano gli eterosessuali, femmina e maschio, gli omosessuali, maschio e femmina, e i trans variabili. Accanto ai gruppi femministi anni ‘70 c’erano i gruppi trans passati da Casablanca, cioè liberati dal troppo; poi vennero le trans brasiliane, ragazze di bellezza sfolgorante ma tuttora equipaggiate con l’ingombro di nascita, e per questo costosissime per i loro ammiratori. Adesso non si sa, si resta sul vago, tra un eccesso forse, di sfumature, e noi vecchie curiose non osiamo chiedere. Per esempio quando l’attore Elliot Page che amammo moltissimo quando era l’attrice Ellen, si fa fotografare a torso nudo e senza seno però in mutande, non può impedirci di pensare e lì sotto cosa ci sarà, tutto, niente? Né di sentirci confuse e umiliate quando su Instagram appaiono ragazzi delle medie che dondolandosi un po’ sonnacchiosi, tengono lezioni di orientamento sessuale e noi antichi che ancora non sapremmo descrivere la differenza nota ad ogni piccino, tra orientamento sessuale e identità di genere. Sarà forse come negli anni 50, quando non esistendo i gay, molte ci fidanzammo con giovanotti gentili ma poco espansivi adorati dalle mamme causa baciamano: e solo adesso cominciamo a trovarci circondati non dai trans che fanno parte da secoli della storia umana, ma appunto da questi amabili fluttuanti che bisognerà imparare a seguire nelle loro variazioni. Addirittura sposandoli al momento giusto. Zan Zan. L’incubo fame per 811 milioni di persone di Maurizio Martina Corriere della Sera, 13 luglio 2021 Secondo il nuovo Rapporto della Fao, in un anno gli esseri umani in condizioni di denutrizione sono aumentati di 118 milioni. La fame nel mondo ha subito un drammatico peggioramento e oggi cresce purtroppo addirittura a un ritmo superiore rispetto alla popolazione del pianeta. Gli ultimi dati presentati in queste ore con il Rapporto 2021 sullo “Stato della Sicurezza alimentare e della Nutrizione nel Mondo” dal direttore generale Fao Qu Dongyu e da altre agenzie Onu delineano un quadro inequivocabile e molto preoccupante. Fino a 811 milioni di persone — circa un decimo della popolazione mondiale — vivono in condizioni di denutrizione, con un balzo di 118 milioni di persone in più in un solo anno. Più della metà, circa quattrocento milioni di essere umani, vivono in Asia, più di un terzo in Africa, circa sessanta milioni di persone in America Latina. L’aumento più significativo si è registrato proprio nel continente africano dove circa il 21 per cento della popolazione viene considerata denutrita; una percentuale più che doppia rispetto a quella di qualsiasi altra regione del mondo. Nel complesso due miliardi e 370 milioni di persone, ben il 30 per cento della popolazione mondiale, non riesce ad avere un accesso adeguato al cibo in modo continuativo per tutto l’anno. Questo dato negli ultimi dodici mesi è aumentato tanto quanto complessivamente nei precedenti cinque anni. Si tratta di un’accelerazione impressionate. Il peggioramento della malnutrizione è generale ma sono ancora una volta i bambini a pagare il prezzo più alto: il Rapporto stima che oltre 149 milioni di minori sotto i cinque anni siano rachitici, più di 45 milioni di bambini siano deperiti e quasi 39 milioni in sovrappeso. Inoltre, quasi un terzo delle donne in età riproduttiva ha sofferto di anemia. È bene ricordare che già prima della pandemia, a causa sopratutto dei radicali cambiamenti climatici in atto e dei troppi conflitti ancora aperti in tante aree del mondo, la lotta alla fame arrancava in modo significativo. Ci sono realtà come Haiti, Yemen, Sud Sudan in enorme difficoltà. Nel Tigray, al nord dell’Etiopia, più del 90 per cento degli abitanti ha bisogno di aiuti alimentare e proprio l’impatto della guerra è la principale causa degli enormi livelli di carestia di quelle popolazioni. L’emergenza sanitaria in questi mesi non ha fatto che accelerare in modo radicale le tendenze negative già in atto da tempo e che da più di un quinquennio hanno portato la fame a crescere ovunque. È questa una ragione in più per affrontare ora con forza questa sfida, passando all’azione e intensificando gli impegni concreti. L’Italia con la sua presidenza G20 e con il prossimo vertice di Roma sui sistemi alimentari previsto a fine luglio proprio in Fao sta offrendo una strada utile per definire azioni realistiche e operative per la comunità internazionale. I fronti sono molteplici: dall’integrazione degli interventi umanitari con le politiche di sviluppo e di mediazione dei conflitti per evitare che le popolazioni coinvolte vendano anche i loro beni minimi in cambio di cibo, all’allargamento dell’accesso ai sistemi assicurativi per i piccoli agricoltori contro i rischi climatici, al rafforzamento dei sostegni economici ai produttori più vulnerabili contro la volatilità dei prezzi agricoli, all’apertura dei mercati in particolare per offrire spazi alle piccole e medie imprese fino al trasferimento tecnologico e all’uso dei sistemi di certificazione per le agricolture famigliari per migliorarne le condizioni. I sistemi alimentari e le loro catene del valore vanno rese più eque e sostenibili ora, nella consapevolezza che l’agricoltura è la principale fonte di sostentamento e di lavoro per le popolazioni più povere. Il rapporto presentato in queste ore lancia un allarme molto chiaro: se non si inverte subito la rotta l’obiettivo Fame Zero entro il 2030 verrà mancato di oltre 660 milioni di persone, più dell’intera popolazione europea, e circa 30 milioni di loro potrebbero subire in modo duraturo gli effetti dell’emergenza sanitaria. Dietro a questi numeri ci sono persone, vite, intere comunità locali. Ci sono donne e bambini. Mancano nove anni al 2030. Sono un soffio per i tempi dei cambiamenti globali. Non possiamo sprecarli restando a guardare. *Vicedirettore generale Fao Libia. La proroga della missione è questione di trasparenza (e violazione di diritti umani) di Paolo Pezzati Il Fatto Quotidiano, 13 luglio 2021 Tra la riforma della giustizia e il ddl Zan, quest’anno sta passando sotto silenzio la discussione della proroga delle missioni internazionali, che contiene gli stanziamenti per l’aumento del sostegno italiano alla Guardia costiera libica, passato da 10 milioni nel 2020 a 10,5 nel 2021, per un totale di 32,6 milioni destinati al blocco dei flussi migratori dal 2017. Una strategia che governo dopo governo continua imperterrita, nonostante nel Mediterraneo si continui a morire, nonostante gli orrori nei lager libici. Un tema che, dopo le audizioni della scorsa settimana, entra nella sua fase cruciale con la presentazione della Relazione relativa alla proroga delle missioni internazionali da votare nelle Commissioni Esteri e Difesa. Sono poche però le voci, se non quelle della società civile e di qualche parlamentare - una minoranza trasversale - che cercano di aprire una discussione, di fatto silenziata dalle forze di maggioranza. Così anche quest’anno l’Italia si trova a luglio, con estremo ritardo, ad affrontare quello che avrebbe dovuto fare mesi fa, ovvero decidere sull’assetto delle missioni delle nostre forze armate e di polizia nei teatri di crisi internazionali. Oltre alla questione della nostra presenza in Afghanistan, il tema più scottante è la nostra ‘missione’ nel Mediterraneo e in Libia. Sono centinaia i milioni spesi ogni anno per lo svolgimento delle missioni in queste due zone: per il 2021 sono stati stanziati in totale 207 milioni - 962 dal 2017 - e il loro uso ha a che fare con la strategia italiana di esternalizzazione delle frontiere e di contenimento dei flussi migratori sancita con l’accordo del 2017, che vede appunto le missioni internazionali come uno degli strumenti per attuarla. Se infatti entriamo nel dettaglio delle schede descrittive delle missioni nel Mediterraneo e di quelle riferite alla Libia (Mare Sicuro, Irini, Missione Bilaterale di assistenza e supporto in Libia, Interventi di sostegno ai processi di pace, stabilizzazione e rafforzamento della sicurezza), tra gli obiettivi troviamo la difesa delle piattaforme Eni, del traffico mercantile, la lotta al terrorismo e ai traffici illeciti, il rispetto dell’embargo sulle armi imposto dall’Onu alla Libia, assistenza e supporto sanitario al paese nordafricano, l’impegno a “addestrare, supportare, fornire consulenza, ripristinare l’efficienza dei principali assetti terrestri, navali e aerei della Guardia Costiera e della Marina libica”. Ma quanto “pesa” il perseguimento di questi obiettivi riconducibili alle politiche di contenimento dei flussi in termini operativi dentro ogni singola missione? Qual è il costo, all’interno di quello totale, delle attività che si riferiscono a questi obiettivi? Chiediamo al Parlamento di porre al centro del dibattito proprio l’analisi questi punti. Partendo da un’altra cruciale domanda che interessa noi tutti: quanti sono effettivamente i soldi dei contribuenti che concorrono all’intercettazione di migliaia di persone, riportate con la forza in Libia, paese in cui verranno ancora torturate e detenute arbitrariamente? Non è così facile saperlo. Ed ecco che le nostre iniziative su Libia e Mediterraneo riguardano una questione di trasparenza oltre che di gravissima violazione dei diritti umani. Mercoledì 14 luglio dalle 17, alla vigilia del voto in Aula sul rifinanziamento delle missioni internazionali, Oxfam, insieme ad altre organizzazioni della società civile e personaggi della cultura e dello spettacolo, sarà in piazza Montecitorio per dire no a scelte politiche che non siano fondate sul rispetto dei diritti umani e per dire ai nostri parlamentari e membri del Governo che no, #NonPoteteNonGuardare i morti nel Mediterraneo e la violenza che si perpetua in Libia, ogni giorno. Afghanistan. Ciò che accade a Kabul riguarda anche noi di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 13 luglio 2021 Le circostanze sono diverse rispetto al 1975 ma il rischio è che, come avvenne dopo l’uscita dal Vietnam, le ripercussioni si manifestino ovunque. Kabul come Saigon? Quando nel 1975, dopo che, usciti sconfitti da una lunghissima guerra, gli americani si erano ormai ritirati, il regime comunista del Vietnam del Nord, superate le deboli resistenze dei sudvietnamiti, si impadronì di Saigon, la capitale del Sud. Le ripercussioni di quel fallimento si sarebbero manifestate ovunque. I cinque anni successivi vedranno l’Unione Sovietica all’attacco su molti fronti, dall’Africa all’America Latina, all’Europa: quest’ultima verrà messa sotto pressione dai sovietici sul piano militare (con il dispiegamento dei missili SS 20 puntati). La sconfitta in Vietnam, segnalando al mondo che l’America è ora debole, avrà, per l’Europa, anche altre conseguenze. Darà ancora più forza ai sentimenti antiamericani che nel vecchio Continente sono un’eredità dei movimenti studenteschi della fine degli anni Sessanta. È anche l’epoca in cui in Francia e soprattutto in Italia i partiti comunisti diventano elettoralmente più forti. Causa la sconfitta in Vietnam, a cui vanno a sommarsi la crisi economica e lo scandalo Watergate, l’America sembra in una fase di accentuato e irreversibile declino. E tanto per collegare quel passato al nostro presente ricordiamo anche un’altra cocente sconfitta americana di allora: la rivoluzione khomeinista in Iran nel 1979 seguita dalla umiliante vicenda degli ostaggi dell’Ambasciata americana a Teheran. Solo quando diventerà presidente Ronald Reagan nel 1981 il vento cambierà direzione, l’America riprenderà l’iniziativa, ricomincerà a contrastare con vigore le manovre dell’Unione Sovietica nei diversi scacchieri e alla fine la sconfiggerà. Oggi le circostanze sono assai diverse ma ci vuole molta superficialità per credere che se i talebani si riprendessero l’intero Afghanistan a seguito del ritiro americano, ciò avrebbe conseguenze (sicuramente terribili, come tutti sappiamo) solo per gli afghani. Poniamo che l’Afghanistan non diventi, come tanti altri Stati falliti, il teatro di uno scontro, destinato a durare anni e anni, fra una pluralità di fazioni finanziate dai russi, dai turchi, dagli iraniani, eccetera. Poniamo che i talebani riescano davvero a impadronirsi di nuovo dell’intero Paese. Scopriremmo che Kabul è molto più vicina a noi di quanto pensiamo. Perché una vittoria talebana in Afghanistan avrebbe plausibilmente ripercussioni sull’intera galassia dell’estremismo islamico, galvanizzerebbe tutte le teste calde in circolazione dall’Indonesia alla Tunisia, dall’Africa sub-sahariana all’Europa. Diventerebbe un potente strumento di propaganda e di reclutamento per Al Qaeda, lo Stato islamico e per i tanti gruppi terroristi più o meno affiliati, la “prova” che gli infedeli possono essere sconfitti e sottomessi ovunque. Biden e i suoi collaboratori ci hanno pensato? Sicuramente sì ma al momento si comportano come se la cosa non li riguardasse. Di sicuro riguarda noi europei, molto più esposti degli americani alla sfida islamista. Le minacce all’Italia di questi giorni (“prenderemo Roma”) non sono purtroppo folklore o un macabro scherzo: l’estremismo islamico si nutre di un’interpretazione della sua fede per la quale “Roma crociata” e l’Italia diventeranno necessariamente, prima o poi, territorio dell’islam. Ma l’intera Europa è terra di conquista. Siamo stati in tanti a tirare un sospiro di sollievo quando Trump è stato sconfitto da Biden. Il precedente presidente, con i suoi attacchi all’Europa, stava facendo a pezzi ciò che restava dell’alleanza occidentale. Siamo stati in tanti a dire: finalmente, con Biden, l’America è tornata. Adesso però è tempo di cominciare a interrogarsi: dove sta andando esattamente l’America? E, soprattutto, quanto possiamo contare noi europei sul contributo americano di fronte alle minacce più gravi per la nostra sicurezza? La priorità americana, è ben chiaro, è la competizione con la Cina per il primato internazionale. Ciò riflette lo spostamento del baricentro del potere mondiale dall’Atlantico al Pacifico. Biden, è vero, sta anche tenendo testa a Putin, gli sta chiarendo che gli americani non permetteranno ai russi altre Crimee. Ed è pronto a ribattere colpo su colpo se le continue e ormai gravissime aggressioni degli hacker russi alle istituzioni occidentali (aziende, uffici governativi, eccetera) non cesseranno. Ciò è un’ottima cosa per l’Europa. È anche chiaro che Biden, impegnato in una gara di potenza con la Cina, è pronto a negoziare un accordo con Putin se quest’ultimo si dimostrerà ragionevole. Anche questo va bene. Ma c’è un ma. Dell’eventuale accordo farà anche parte l’accettazione da parte americana delle posizioni ormai conquistate dai russi in Libia e più in generale nel Mediterraneo? Questa, ovviamente, sarebbe una pessima notizia per noi europei. Ancora, che cosa intende fare l’Amministrazione americana per contrastare la politica neo-imperiale del sultano Erdogan in Libia e in altri luoghi? Permetterà che il Mediterraneo diventi un mare russo-turco? E, infine, se, come è probabile una volta caduta Kabul, l’estremismo islamico, già oggi molto forte nel Sahel e in altri luoghi, si rafforzasse ulteriormente moltiplicando le minacce, l’Amministrazione riterrebbe sufficiente l’azione di contrasto che già oggi conduce, in Africa e in Medio Oriente (con droni, operazioni coperte, eccetera)? Una volta riconosciuto che l’Europa non ha da sola le forze per fronteggiare le svariate sfide che incombono, la domanda diventa: quale potere contrattuale avranno gli europei, nei prossimi anni, per spingere gli americani a mantenere fede alle dichiarazioni più o meno solenni secondo cui le minacce all’Europa non sono solo un problema nostro ma anche un problema loro? C’è, da un lato, la retorica, magari anche ottima, sulla necessità di una grande “alleanza delle democrazie” per contrastare gli autoritarismi. E c’è, dall’altro lato, l’attività politica quotidiana, fatta di continue scelte e non scelte. È un guaio se queste due dimensioni della politica si allontano troppo l’una dall’altra. Cuba. “Abbasso la dittatura”, proteste antigovernative in piazza e arresti Il Dubbio, 13 luglio 2021 Mai prima d’ora i cubani erano scesi in piazza per manifestare il loro malcontento. Una miscela esplosiva tra il deteriorarsi della situazione sanitaria sull’isola e la più grave crisi economica degli ultimi 30 anni. Si sono concluse con una decina di arresti le proteste antigovernative che hanno visto per la prima volta i cubani manifestare il loro malcontento contro il potere, stremati dalla peggior crisi economica degli ultimi 30 anni, aggravata dalla pandemia di Covid-19. Nato in modo spontaneo, sin dalle prime ore del giorno l’appello a protestare è stato rilanciato sui social network, con una modalità relativamente nuova nel Paese governato dal Partito comunista e dove solitamente gli unici raduni autorizzati sono quelli del partito storico. “Abbasso la dittatura”, “libertà”, “se ne vadano a casa” sono alcuni degli slogan urlati da migliaia di cubani alle prese con penurie di cibo e medicinali che stanno aggravando il malessere sociale. I momenti di maggior tensione tra manifestanti e forze dell’ordine, intervenute per disperdere gli insoliti cortei, si sono registrati all’Avana e nella piccola città di San Antonio de los Banos, a una trentina di chilometri dalla capitale. Secondo i bilanci ufficiali diffusi al termine della giornata di proteste, almeno 10 persone sono state arrestate negli interventi delle forze dell’ordine per disperdere i cortei e che hanno colpito manifestanti con dei tubi in gomma. Per bloccare le manifestazioni, a San Antonio de los Banos le autorità hanno dispiegato un importante contingente di poliziotti e militari. Su Facebook e Twitter video e fotografie delle proteste sono stati diffusi in diretta, dando maggiore eco al malcontento dei cittadini. “L’ordine di combattere è già stato dato. Rivoluzionari del Paese, tutti i comunisti, scendete per strada nei prossimi giorni in risposta alle provocazioni. Dobbiamo affrontarli in modo deciso, fermo e coraggioso”: è stata la risposta espressa in un intervento televisivo dal presidente Miguel Diaz-Canel, che ha accusato la “mafia cubana ed americana” di essere all’origine dell’insurrezione. A dare “l’esempio” è stato lo stesso leader, che ha raggiunto San Antonio de los Banos per una contro-manifestazione improvvisata con i militanti del Partito comunista al grido di “Evviva Cuba! Evviva Fidel!”. L’altra “battaglia” tra manifestanti anti-governativi e pro-governo si è giocata sui social, diventati un crescente canale di protesta e rivendicazione da parte della popolazione da quando la connessione ad internet è arrivata a Cuba, a fine 2018. Per stroncare la contestazione a fine giornata l’accesso alla rete è stato bloccato dalle autorità. Le ingenti proteste sono anche sfociate in un diretto braccio di ferro politico-diplomatico tra le autorità di Cuba e quelle degli Stati Uniti, con scambi di accuse ai vertici. “Se volete che il popolo vada meglio, prima rimuovete l’embargo. Sui social c’è una mafia cubano-americana che paga molto bene. Ha colto il pretesto della situazione a Cuba per invitare tutti a manifestare” ha denunciato Diaz-Canel. Il presidente cubano ha poi spiegato le manifestazioni, quasi senza precedenti, come l’iniziativa di “rivoluzionari disorientati”, controbattendo che “siamo in molti, io per primo, ad essere pronti a dare la vita per questa rivoluzione”. Da Washington è arrivata la risposta della vice segretaria di Stato Usa per le Americhe, Julie Chung, che su Twitter si è detta “molto preoccupata per gli appelli a combattere” arrivati da Cuba, invitando le parti “alla calma” e ribadendo il “diritto del popolo cubano a manifestare pacificamente”. Il consigliere Usa per la sicurezza nazionale, Jack Sullivan, ha poi lanciato un monito all’Avana contro il ricorso eccessivo alla violenza ai danni dei manifestanti. “Gli Stati Uniti sostengono la libertà di espressione e di raduno a Cuba. Condanneranno con fermezza ogni atto di violenza e quelli che potrebbero colpire manifestanti pacifici nell’esercizio dei loro diritti universali” ha twittato Sullivan. Le manifestazioni si sono svolte nel giorno in cui Cuba ha registrato un nuovo record giornaliero di contagi da Covid-19, con oltre 6.900 nuovi casi positivi - per un totale di 238.491 - e 47 decessi in 24 ore, in tutto 1.537 dall’inizio della pandemia. Il deteriorarsi della situazione sanitaria sull’isola, nel contesto della più grave crisi economica degli ultimi 30 anni - con penurie di cibo, medicinali e blackout quotidiani - ha spinto cittadini e gruppi della società civile a lanciare degli Sos sui social con gli hastag SOSCuba e SOSMatanzas, la provincia maggiormente flagellata. Nel fine settimana un gruppo di oppositori ha chiesto alla comunità internazionale l’invio di aiuti e l’apertura di un corridoio umanitario. Richieste subito respinte dal governo che ha denunciato una “campagna che cerca di proiettare l’immagine di un Paese nel caos totale, che non corrisponde affatto alla situazione attuale”. L’isola caraibica sta lavorando su cinque vaccini e a maggio ha cominciato la campagna di immunizzazione usando due di questi - oltre ad Abdala, anche Soberana 2 - prima che ottenessero il via libera dell’agenzia del farmaco locale. Autorizzazione arrivata la scorsa settimana a favore dell’uso di emergenza del vaccino anti-Covid, Abdala, il primo sviluppato in America Latina. Il laboratorio BioCubaFarma aveva annunciato che la sua efficacia è di oltre il 92% dopo tre dosi. Finora, 6,8 milioni di cubani su 11,2 hanno ricevuto almeno una dose, mentre 1,6 sono completamente vaccinati. Ad aprile 2020 a Cuba si è chiusa l’era dei Castro con Raul che ha passato il testimone alla nuova generazione.