“Papa Francesco chieda l’amnistia, il carcere è disumano”: l’appello di Mastella di Viviana Lanza Il Riformista, 12 luglio 2021 “Oggi come allora le condizioni delle carceri sono le stesse”, commenta Clemente Mastella. Da ministro della Giustizia, nel 2006, prese una decisione coraggiosa quanto impopolare tra la politica più orientata al populismo giustizialista: decise un provvedimento di indulto. Quel provvedimento consentì di decongestionare le carceri, in nove mesi fece uscire di galera circa 26mila persone e portò il tasso di recidiva del 12%. Fu quella recidiva a dimostrare che l’indulto non era poi una misura così sballata come una certa parte politica sosteneva. Oggi se ne riparla dopo i terribili fatti di Santa Maria Capua Vetere. Anche Mastella ammette di aver avuto difficoltà a guardare i video dei pestaggi in carcere agli atti dell’inchiesta e diffusi sui media. “Mi ha fatto inorridire - dice - onestamente non pensavo che potesse accadere una cosa del genere”. “Da ex ministro - aggiunge - posso dire che il corpo della polizia penitenziaria non è così violento. Il sovraffollamento porta a un faticoso rapporto tra detenuti e personale carcerario, porta a un annichilimento della persona umana che là dentro si sente avvilita”. “Questo però - continua Mastella - fa il pari con chi al di fuori del carcere ritiene che la rieducazione non sia un elemento importante e considera il carcere come il luogo di una prigionia eterna dove il recluso sconta la sua pena come un inferno in terra, il che va contro ogni logica cristiana e costituzionale”. Un pensiero, questo, che c’è oggi e c’era anche quando Mastella propose l’indulto ottenendo una larga maggioranza e spaccando allora Italia dei Valori. “Fui costretto a lottare anche dopo, con la cosiddetta recidiva che in realtà era diminuita tantissimo dopo l’indulto”, ricorda Mastella. La sua fu una lotta contro il pregiudizio di chi era convinto che un ex detenuto avrebbe continuato a reiterare il reato. “Invece ci fu un abbattimento notevole per quanto riguarda i reati”. Oggi che le carceri sono luoghi di diritti compressi e di gravi tensioni, l’indulto e l’amnistia tornano a essere evocati come soluzioni possibili. “Diciamo la verità - afferma Mastella - non costruendo carceri nuove ed essendo appesantite quelle che esistono attualmente, assicuro che è disumano questo sovraffollamento”. Ricorda il viaggio nei vari istituti di pena italiani fatto da ministro della Giustizia: “In agosto mi trovai a Milano, a San Vittore, penso che se fossi stato lì dentro avrei fatto la rivoluzione contro le autorità costituite per quello che vidi. Il caldo che c’era era insopportabile”. Indulto sì, dunque, oggi come quindici anni fa. “È giusto che chi ha commesso un reato sconti la pena, ma con dignità. E l’unico modo per garantire la dignità delle persone private della libertà è aumentare gli spazi di vivibilità attraverso un provvedimento che possa essere l’indulto o l’amnistia”, spiega Mastella che all’epoca lo decise anche sulla spinta dell’intervento di Papa Giovanni Paolo II. “Venne in Parlamento facendo un appello che fu emotivamente molto forte. Auspico che Papa Francesco si rechi in Parlamento e faccia lo stesso appello”. La giustizia in Italia è in crisi come il sistema carcere. “Il problema - conclude Mastella - è sotto la lente dell’Europa. La volontà di cambiare la giustizia deve arrivare in maniera forte e decisa, ma questa volontà non c’è. Tutti considerano il capitolo giustizia come una cosa che appartiene agli altri, fino a quando non ti tocca direttamente”. L’auspicio, dunque, è che si verifichi un cambiamento culturale, uno scatto di volontà da parte della politica. Nel frattempo, nel presente, ancora sconvolgono le immagini dei pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. L’inchiesta prosegue e in questi giorni è al vaglio dei giudici del Tribunale del Riesame. Ieri è stata la volta di quattro indagati della polizia penitenziaria finiti in carcere per via delle accuse di pestaggi. C’è attesa per le decisioni dei giudici. “Fuga” dal carcere e giustizia riparativa: ora il Parlamento non faccia scherzi di Guido Neppi Modona Il Riformista, 12 luglio 2021 La riforma giustizialista della prescrizione dei reati voluta dall’ex ministro della giustizia Bonafede, che sostanzialmente prefigura, dopo la sentenza di condanna o di assoluzione di primo grado, la possibilità per i reati puniti con l’ergastolo di mantenere in vita il processo senza alcun termine finale, sta per cadere ingloriosamente. Si dovrebbe tornare a un sistema che prevede, dopo la sentenza di primo grado, termini massimi di durata per le fasi successive, indicati nella misura di due anni per il giudizio in appello e di un anno per il giudizio in cassazione, prorogabili rispettivamente sino a tre anni e sino ad un anno e sei mesi nei casi di particolare complessità. Per quanto riguarda invece la durata delle indagini preliminari si propone un periodico controllo del giudice sull’attività del pubblico ministero, che può essere invitato a concludere le indagini con la richiesta di rinvio a giudizio o di archiviazione. Parto dalla particolare vicenda della prescrizione perché, grazie alla perfetta accoppiata Draghi-Cartabia, il delicatissimo tema della riforma della giustizia penale è passato dalla follia alla realtà, dal dilettantismo propagandistico a un responsabile e misurato programma volto a uscire, a piccoli passi, dalla profonda crisi in cui versa da decenni il sistema della giustizia penale italiana. Anche grazie al prezioso lavoro preparatorio svolto dalla Commissione ministeriale presieduta dall’ex Presidente della Corte costituzionale Giorgio Lattanzi, il programma della ministra della giustizia Marta Cartabia tocca i nodi di fondo del sistema penale, sia sul terreno sostanziale dei reati, delle pene e della loro esecuzione, sia su quello processuale. Non è possibile in questa sede esaminare punto per punto il programma che il governo ha sottoposto all’esame del Parlamento sotto forma di emendamenti al disegno di legge a suo tempo presentato dall’ex ministro Bonafede. Mi limiterò quindi ad alcuni aspetti particolarmente rilevanti e significativi. Direi che sul terreno del diritto penale sostanziale l’obiettivo di fondo è di creare un sistema sanzionatorio che non abbia più quale pena principale il carcere, bensì misure sostitutive e alternative alla detenzione. Tali misure già esistono, e sono normalmente applicate dopo la condanna dal tribunale di sorveglianza, durante l’esecuzione della pena in carcere. Si tratta, come è noto, della liberazione anticipata, affidamento in prova al servizio sociale, semilibertà, detenzione domiciliare. Il programma di riforme si propone di ampliare robustamente la sfera di applicazione di tali misure, sia a condannati a pene di più lunga durata, sia per reati di maggior gravità, tenendo conto in concreto delle condizioni di minore pericolosità del destinatario delle misure alternative. Viene inoltre anticipata la possibilità di concederle anche dal tribunale che pronuncia la sentenza di condanna, mentre ora attribuite alla competenza del tribunale di sorveglianza nel corso dell’esecuzione della pena detentiva. In estrema sintesi un articolato programma di “fuga dal carcere” e di esecuzione della pena in libertà, che dovrà essere accompagnata da opportune forme di controllo e di assistenza, certamente meno onerose dei costi della custodia in carcere e più idonee a realizzare la finalità costituzionale della rieducazione del condannato. Sempre sul terreno del diritto penale sostanziale va segnalato il rafforzamento dell’istituto dell’estinzione del reato per la particolare tenuità del fatto, già previsto dall’art. 131 bis del codice penale per reati puniti con pena non superiore nel massimo a cinque anni, mentre ora ne viene proposta l’estensione con riferimento non più al massimo, ma al minimo della pena (individuato in misura non superiore a due anni di reclusione), in quanto indice più significativo della gravità del reato. Nelle prassi giudiziarie le pene applicate in concreto dal giudice sono infatti più vicine ai minimi che ai massimi della sanzione prevista dal codice penale per i singoli reati. Quanto al processo penale individuerei il tema di fondo della riforma nell’obiettivo della “fuga dal dibattimento”, cioè nel potenziamento di vari istituti già previsti nell’attuale sistema per chiudere il processo prima della fase dibattimentale (i c.d. procedimenti speciali), molto più gravosa in termini di dispendio di tempo e di impiego dei giudici e dei pubblici ministeri. In quest’ottica sono previste misure per incentivare il ricorso al c.d. patteggiamento (cioè l’accordo sull’entità della pena che difensore e pubblico ministero propongono al giudice e che, se accolto, pone termine al procedimento), a cui si potrebbe fare ricorso anche per reati di maggiore gravità. Lo steso vale per il giudizio abbreviato, che normalmente si svolge su richiesta del difensore nell’udienza preliminare, evitando così il dibattimento: questo procedimento speciale viene incentivato proponendo una ulteriore riduzione della pena rispetto a quella che sarebbe comminata dal giudice del dibattimento. Del tutto nuovo è invece l’istituto denominato “archiviazione meritata”: per reati di non rilevante gravità, alla fine delle indagini preliminari l’imputato può offrire di svolgere prestazioni in favore della persona offesa dal reato o della collettività; la proposta, se accolta al giudice, comporta l’archiviazione per estinzione del reato. Si rientra così nella sfera della c.d. giustizia riparativa, che è ai primi passi nel sistema processuale italiano, mentre ha già una lunga e positiva tradizione in numerosi paesi europei. Più di tanto, in questa prima fase del processo riformatore, credo non si possa dire: i temi sono giuridicamente delicati e complessi e la tentazione di trasformarli in motivi di scontro politico, come è avvenuto impropriamente per la prescrizione, è molto forte. In vista del dibattito parlamentare sul programma di riforme della giustizia penale, si spiega così l’accorato appello del Presidente del consiglio Draghi alla lealtà delle forze politiche della maggioranza di governo. Sono decenni che analoghe riforme vengono invano proposte dalla cultura processual-penalistica e dagli operatori giudiziari più responsabili: questa potrebbe essere la volta buona, ma i timori che il passaggio in questo Parlamento si risolva in un grande disastro sono purtroppo seri e fondati. Speriamo in bene. Un altro carcere è possibile, Torino ne è esempio di Gian Carlo Caselli Corriere di Torino, 12 luglio 2021 Nel 2020 fatti orrendi in danno di detenuti si sono purtroppo verificati in molte carceri e non solo a Santa Maria Capua Vetere. Anche nella nostra città, nel luglio 2020, si sono registrati maltrattamenti e pestaggi sistematici di reclusi di cui le cronache hanno ampiamente riferito. Sacrosantamente giusto indignarsi, trattandosi di fatti - oltre che illegali - gravemente intrisi di inciviltà disumana. Che però non possono far dimenticare la fatica di tutti quegli operatori penitenziari che - in situazioni spesso di estrema difficoltà -rispettano le regole e i diritti delle persone ristrette. Quanto al carcere di Torino, inoltre, non si può dimenticare la lunga tradizione di attività trattamentali, anche innovative, che lo hanno contraddistinto a partire dagli anni Ottanta, favorite dalla creazione di corsi di formazione per il personale penitenziario. L’elenco di queste attività è lunghissimo, e comprende: una delle prime “aree omogenee” per instaurare un dialogo costruttivo con i terroristi dissociati; i primi approcci comunitari con i malati di aids; i corsi per ebanisti; lo sviluppo del polo universitario e la comunità Arcobaleno per tossicodipendenti. Nel complesso, una sorta di “staffetta di umanità penitenziaria” (pur a fronte di crisi enormi date dal sovraffollamento) che ha portato, col tempo, a risultati imponenti. Fra tutti, la possibilità, per i detenuti, di studiare e diplomarsi o di lavorare nelle cooperative (grazie anche alle imprese e agli enti locali che hanno investito in loro, offrendo occasioni di lavoro retribuito). La cartina di tornasole del nuovo clima che si è instaurato nell’istituto è il crollo del numero dei suicidi, addirittura azzerato per anni. Per rimediare al “vuoto” del tempo carcerario si è creata nel carcere di Torino una “scuola di accoglienza” destinata ai reparti più difficili, con operatori che oltre a insegnare cercano di ridare alle persone un po’ di dignità. Si è aperta la sezione Sestante, pensata per il trattamento del disagio psichico non collegato al reato commesso e gestita da personale specializzato dell’asl, in anticipo sulla riforma - la cui attuazione avrà inizio molti anni dopo - della tutela della salute in carcere. E ancora, vi sono state esperienze “ludiche” ma non meno importanti per rendere più vivibile quel mondo rinchiuso: il “torneo della speranza” (28 squadre di calcio tra detenuti, agenti e studenti esterni, che per anni hanno coinvolto migliaia di persone); il teatro sociale, che ha avvicinato la città a quella sua parte separata, isolandola un po’ di meno; e poi la “Drola” (in dialetto piemontese la “stramba”), squadra di rugby nata dietro le sbarre grazie ad da un inossidabile operatore, sempre pronto a fare del bene con una palla ovale. Merito del direttore di allora (Pietro Buffa), certo. Sta di fatto che il carcere di Torino è stato la dimostrazione concreta che “un altro carcere è possibile” e che la pena detentiva può essere davvero una pena utile. All’obiezione che una rondine non fa primavera e che a fronte di alcune esperienze riuscite manca un reinserimento diffuso, solido e duraturo, rispondiamo che lo Stato ha l’obbligo costituzionale di provarci e che perseverare non è un’opzione ma un dovere. Oltretutto, ci conviene! Perché le formule “Marciscano in galera; se la sono voluta” corrispondono ad un modo di pensare diffuso che però fa a pugni con l’obiettivo di sicurezza che sta giustamente a cuore della collettività. Infatti, se la pena tracima nella persecuzione vendicativa, funziona come una scuola di violenza che inevitabilmente genera altra violenza e nuovi errori. Un corto circuito che crea sempre maggiore insicurezza; l’esatto opposto di ciò che chiedono i cittadini. Perché ogni detenuto recuperato è un recidivo in meno e quindi un motivo in meno di preoccupazione per la collettività. In sostanza, chi pratica maltrattamenti in carcere, fa del male non solo alle persone recluse direttamente colpite, ma anche a tutti noi, perché offende gravemente il bene comune della sicurezza sociale. Per questo la sua condotta è doppiamente intollerabile. “Il carcere deve essere un transito verso il reinserimento”. Intervista a Sebastiano Ardita di Sergio Nazzaro leurispes.it, 12 luglio 2021 Le immagini delle violenze del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in Provincia di Caserta, sono esplose nella coscienza di un’intera nazione. Immagini così terribili, che ancora permangono nei media nazionali come monito, perché detenuti inermi fatti oggetto di violenza gratuita da parte di alcuni agenti della Polizia penitenziaria, pongono molti e gravi interrogativi. Eppure il mondo delle carceri è un mondo lontano dal dibattito pubblico, è un territorio che vogliamo distante e isolato dalle nostre coscienze. È un problema non nostro, eppure quando deflagra, coinvolge tutti. Cerchiamo di addentrarci in questo particolare mondo, ai più sconosciuto, dialogando con il Magistrato Sebastiano Ardita, attualmente Consigliere del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM). Ardita ha lavorato nella Direzione Distrettuale Antimafia di Catania, dove si è occupato di inchieste per reati contro la Pubblica amministrazione e di infiltrazioni mafiose nei pubblici appalti e forniture. Nel 2002 è stato Direttore dell’ufficio detenuti presso il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (DAP) e responsabile dell’attuazione del regime 41bis. È autore di diversi testi tra cui Cosa Nostra SpA in cui analizza il patto economico tra colletti bianchi e criminalità organizzata. Quando viene dichiarato il lockdown, nel marzo del 2020, scoppia la rivolta delle carceri. Un anno e mezzo dopo si osservano le immagini della mattanza dell’aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Appare evidente che il mondo delle carceri diventa notizia, per poi essere dimenticato immediatamente dopo. Perché c’è questo atteggiamento? Perché si tratta di un settore rispetto al quale opera una sorta di rimozione da parte dei cittadini. Viene considerato da molti come un luogo destinato ad accogliere persone da tenere distanti dalla società, e ciò determina il disinteresse per le sue reali condizioni. Si ritiene quasi inutile da parte di alcuni spendervi risorse e preoccuparsene, giacché non si intravede quale sia il beneficio per la collettività. Invece è esattamente il contrario. Il carcere è un luogo di transito - spesso breve - per moltissime persone, e il fallimento di quella esperienza si traduce spesso in recidiva criminale. Dunque la società paga un prezzo altissimo per il suo cattivo funzionamento. Solo fatti gravi come rivolte e pestaggi riaccendono l’interesse, ma in un quadro di atteggiamenti superficiali e spesso disarmanti. Dal suo punto di vista perché la gestione di circa 54.000 detenuti, in una nazione di 65 milioni di abitanti è così problematica? I numeri, che sono certamente impegnativi, in confronto alla popolazione però, non sembrano essere impossibili da gestire... I numeri dei detenuti presenti sono bassi sia in relazione all’entità dei fenomeni criminali presenti sul territorio, sia se comparati con la realtà di altre nazioni europee. La questione riguarda le risorse impiegate - c’è carenza di educatori e di direttori, ossia di coloro devono costruire i percorsi di reinserimento - e anche gli spazi, che sono assolutamente inadeguati e pensati per un carcere di massima sicurezza, del tutto chiuso a qualunque innovazione. Recentemente c’è stata una lunga e articolata discussione sul 41bis, con intervento anche della Corte Costituzionale. Perché poco più di mille detenuti al 41bis - i criminali più pericolosi per lo Stato democratico - sono così centrali nel dibattito pubblico, come se lo Stato li sottoponesse ad un trattamento inumano? Quanto è fuorviante questa visione delle cose e a chi giova? Il carcere è un insieme di vasi comunicanti, se da qualche parte si esercita una pressione questa si trasmette al resto dei contenitori. Detto ciò, è evidente e normale che i regimi di massima sicurezza siano sotto la lente degli organi di giustizia e delle organizzazioni per i diritti umani. In Italia gli strumenti di prevenzione sono stati fondati su un equo bilanciamento rispetto ai gravi pericoli connessi con l’azione delle associazioni mafiose. E, spesso, la critica al carcere si estende gratuitamente anche a situazioni rispetto alle quali le misure servono a salvare vite di innocenti. Ma è evidente che anche le organizzazioni mafiose, per tutt’altri scopi rispetto a quelli umanitari, puntano a destrutturare le regole del carcere di prevenzione, per consentire ai loro capi di continuare a dirigere affari criminali dal carcere. In Italia sembra che quasi non si voglia credere nella rieducazione all’interno degli istituti penitenziari. Molti Magistrati di sorveglianza, invece, hanno comprovato la possibilità di percorsi che riportano le persone a riappropriarsi di una seconda possibilità, dopo aver pagato il proprio debito. Perché c’è questa volontà di condanna senza appello nel sentire comune? Perché non si apprezza abbastanza il fatto che, dopo un percorso rieducativo, normalmente si estingua anche la tendenza a delinquere. In realtà, ciò che occorre evitare, è che la detenzione incattivisca o spinga alla prosecuzione dell’attività criminale. Anche perché, nel nostro Paese, lo stato detentivo è una condizione temporanea. Più volte Lei si è espresso sulla complessità del mondo delle carceri, del DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), di come bisogna proteggere il lavoro degli agenti e i diritti dei detenuti. Di che cosa c’è bisogno nell’immediato affinché non accadano più “sospensioni della Democrazia e della Costituzione”? C’è bisogno di quel riequilibrio tra sicurezza e libertà che caratterizza tutta l’esperienza penale e che nel carcere trova il suo punto di maggiore criticità. Nell’immediato, occorre che chi opera nel carcere possa riacquistare la fiducia dei cittadini e di tutte le Istituzioni; che chi ha sbagliato paghi, ma senza che sia messa in discussione l’autorità e l’autorevolezza delle Istituzioni; che sia chiaro a tutti che il ritorno alla sicurezza degli istituti penitenziari deve passare dal rispetto di tutte le regole previste dalla nostra Costituzione. Ma nulla può realizzarsi se non si conosce il carcere e non si interviene su quelle rigidità o debolezze che ne rendono difficile la vita, migliorando le condizioni di vita nelle carceri, perché - come è stato ben detto - la dignità di chi vi lavora è connessa a quella di chi vi è recluso. Carcere, serve più formazione per la Polizia penitenziaria di Mauro Gatti riforma.it, 12 luglio 2021 I gravissimi fatti di S. Maria Capua Vetere mostrano un universo duro in cui occorre applicare la Riforma che nel ‘75 ha reimpostato l’idea di pena. I video pubblicati recentemente di ciò che è accaduto a Santa Maria Capua a Vetere nell’aprile 2020, evidenziano tutta la realtà difficile, complessa del carcere con i suoi risvolti anche drammatici. Sono fatti che vanno condannati perché tradiscono, come ha evidenziato con fermezza la ministra della Giustizia Marta Cantabria, la Costituzione che all’art. 27 “esplicitamente richiama il senso di umanità” che caratterizza le linee guida di ogni Istituto Penitenziario. Questi episodi repressivi violenti oggi più che mai impongono massima attenzione e necessaria risoluzione da parte delle Istituzioni cogliendone le cause per intervenire in maniera competente, focalizzata e definitiva su di esse. Il carcere è luogo difficile da comprendere nella sua dimensione interna se non si vivono in prima persona le dinamiche, le difficoltà di gestione di situazioni di vita nelle sezioni in grado di esplodere in modo imprevedibile in qualunque momento. Nel carcere tuttavia deve esistere, e di fatto vige, anche il senso del dovere delle Direzioni e del Corpo di Polizia penitenziaria di gestire la sicurezza con l’obbligo della linea trattamentale voluta dall’Ordinamento penitenziario. Non si può dimenticare che il carcere è popolato da persone che vivono forzatamente una condizione anomala: la segregazione e la privazione della libertà. Per l’uomo, la libertà è da considerare al pari di un istinto. Quando questa privazione è forzata - a causa della mancanza di rispetto delle regole scritte definite dalla società - l’uomo condannato vive ogni giorno con frustrazione la ricerca incessante e continua della libertà. La Riforma penitenziaria del ‘75 ha segnato un vero e proprio cambiamento dell’espiazione della pena concedendo al detenuto varie opportunità per riavvicinarsi alla libertà attraverso percorsi di rieducazione interni agli Istituti di Pena, poi esterni attraverso degli specifici benefici di legge. È importantissimo applicare interamente la normativa penitenziaria, ancora oggi attuale, che invece non trova ancora la giusta applicazione della parte relativa alle misure alternative alla detenzione. Il carcere deve essere l’estrema ratio e non l’unica forma di punizione adottata. Non può non essere tuttavia precisato che questa ricerca naturale della libertà, incide sui comportamenti e sullo stato mentale del recluso in varie prospettive che nella migliore della risoluzione vanno verso un adattamento lucido e funzionale come verso un disagio mentale più o meno pronunciato che procura evidenti e chiari malesseri psicofisici. La Polizia penitenziaria, nell’esercizio del proprio lavoro, è in prima linea su questa fondamentale missione di contribuire alla rieducazione del detenuto ma le dinamiche del funzionamento di un Istituto penitenziario sono ampie e continuamente condizionate dall’andamento di ciò che accade all’interno di ogni struttura. Queste dinamiche oscillano continuamente tra sicurezza e controllo, richiedono uno spirito di squadra che deve essere favorito dai vertici, con la guida del direttore e la piena collaborazione, condivisione ed attenzione incessante del personale di polizia penitenziaria. Sicuramente i gravissimi fatti di Santa Maria di Capua a Vetere non rappresentano l’orientamento della linea trattamentale istituzionale del Corpo. Ragione questa per la quale è quanto mai necessario un intervento delle Istituzioni attraverso le competenze dei propri dirigenti per comprendere le cause di simili atti di repressione contrari alla Costituzione. Oltre agli auspicati provvedimenti, non mancherà sicuramente l’ascolto delle richieste degli agenti esposti in prima linea nelle sezioni degli Istituti. Non c’è dubbio che uno degli aspetti sui quali riflettere per concorrere al miglioramento della gestione di un Istituto, è dare maggiore attenzione psicologica all’uomo-agente. Come riportato, gestire uomini deprivati della libertà è difficile. Occorre per questo una migliore preparazione/formazione del Corpo di Polizia penitenziaria sia sulla comunicazione relazionale sia sulla comprensione e condotta delle dinamiche interpersonali. Non si può non evidenziare che gli agenti nel corso degli anni di attività nelle sezioni, assorbono, per osmosi psicologica, problematiche, angosce, dolori psichici che si sommano ai propri. Ogni agente vivendo nelle sezioni insieme ai detenuti, respira e assorbe continuamente tensioni della privazione della libertà, alle quali tensioni egli pure risponde cercando di offrire il possibile e necessario sostegno al recluso. Dalla parte della prospettiva trattamentale, per migliorare la preparazione dell’agente e il suo stato psicologico, è necessario esercitare maggior controllo dell’umore dell’agente, attraverso un tutoraggio itinerante periodico nelle sezioni, utilizzando il dialogo - vero strumento della relazione umana - per mostrare una vicinanza agli agenti, dando significato al loro ruolo di gestione del detenuto. Solo attraverso un tutoraggio psicologico continuo e competente si può sostenere la missione rieducativa dell’agente come, nel caso, intercettare malesseri e variazioni dell’umore, aspetti psicologici questi che rischiano di vanificare e condizionare il suo ruolo di sostegno al detenuto nelle tante ore che l’agente vive nelle sezioni. Stare psicologicamente vicino ad un agente non è mai abbastanza per aiutarlo a metabolizzare tutto ciò di cui si fa carico che, occorre non dimenticare, si sommano alle problematiche personali e familiari. Dal 2018 l’Unione cristiana evangelica battista d’Italia promuove un progetto pilota di sostegno al ruolo trattamentale dell’agente negli Istituti penali di Civitavecchia e Roma “Regina Coeli”. Progetto approvato e favorito dal Provveditorato della Regione Lazio. L’Ucebi, valorizzando l’esperienza fatta in primis dalla chiesa battista di Civitavecchia, ha intercettato già da anni la necessità di un tipo di sostegno continuo all’agente attraverso uno sportello itinerante che promuova la presenza dello psicologo nel posto di lavoro dell’agente, nelle sezioni degli Istituti. Lo psicologo attraverso la sua presenza, e dove opportuno il dialogo, mostra una reale attenzione a sostenerlo, coadiuvarlo, incoraggiarlo nella sua delicata missione di gestione del detenuto. A Regina Coeli in particolare una simile continua presenza è stata offerta anche durante il lungo periodo di lockdown di emergenza sanitaria dove le dinamiche negli Istituti si presentavano ancora più complesse. Auspichiamo che questo progetto pilota possa essere riconosciuto anche da altre Regioni d’Italia, ed esteso con una simile modalità psicologica itinerante nelle sezioni degli Istituti, così da sostenere e valorizzare la figura trattamentale dell’agente di Polizia penitenziaria e renderlo più preparato nello svolgimento del proprio difficile lavoro sociale. Carceri italiane, l’emergenza: detenuti più liberi, ma meno sorveglianza di Milena Gabanelli e Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 12 luglio 2021 Nulla potrà mai giustificare la macelleria di Santa Maria Capua Vetere, ma una spiegazione andrà pur cercata se le condizioni di vita in carcere sono diventate insostenibili, come dimostra l’aumento, costante negli ultimi anni, di tentati suicidi, atti di autolesionismo e aggressioni. Al sovraffollamento si imputa tutto, e secondo il rapporto Space 2020 del Consiglio d’Europa, abbiamo la percentuale più alta di tutta la Ue: su una disponibilità di 50.779 posti, i detenuti sono 53.637. Con grandi differenze fra un carcere e l’altro, alcuni semivuoti e altri dove stanno pigiati come sardine, come a Poggioreale, dove c’è posto per 1.500 persone, ma sono in 2.062. A Regina Coeli non dovrebbero superare i 600, sono 893; a Bologna su 500 posti sono in 744; a Bergamo dove la disponibilità è di 315, i carcerati sono 529. Certo, il Covid, unito alla impossibilità di distanziamento, ha fatto salire la tensione, ma il totale dei detenuti è molto diminuito: nel 2010 erano quasi 70.000. Allora perché i dati negli ultimi sei anni sono peggiorati? C’è qualcosa in più. Celle aperte per i meritevoli - Inizia tutto con una scelta di civiltà. Fino al 2011 chi non aveva condanne per reati particolarmente gravi o di criminalità organizzata, passava due ore al giorno all’aria aperta e due con la cella aperta. A novembre dello stesso anno, la circolare 3594/6044 diramata dall’allora direttore trattamento detenuti Sebastiano Ardita concede più fiducia ai meritevoli. L’Amministrazione istituisce reparti dove le celle restano aperte più a lungo per soggetti di scarsa pericolosità, e assegna ad ogni detenuto un codice su “criteri oggettivi”. Bianco a chi non ha commesso violenze o minacce, verde a chi non appartiene ad associazioni finalizzate a reati violenti, giallo per violenti che in carcere abbiano mantenuto atteggiamenti di tipo sociale. Rosso agli altri, che, alla lunga, possono risalire la gradazione cromatica. L’obiettivo è quello di elevare la responsabilità di ciascuno: più mi comporto bene e più ore d’aria avrò - Ma ogni colore necessita di sorveglianze adeguate, avverte la circolare. E raccomanda di verificare, con un progetto pilota, se il sistema funziona. Non viene fatto. In compenso nel 2012, il capo del Dap Giovanni Tamburino, con una nuova circolare comincia ad eliminare i colori. Celle aperte anche per i pericolosi - Nel 2015 la svolta: arriva una nuova circolare: la 3663/6113. La firma l’allora capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Santi Consolo. Citando i richiami della Corte Europea dei diritti dell’uomo, fa spazio alla discrezionalità delle direzioni dei penitenziari nella valutazione dei singoli e, soprattutto, spalanca le celle. Ai detenuti (eccetto i mafiosi e i 41 bis) vengono assegnati due soli regimi: custodia “chiusa” e “aperta”. Ma quella “chiusa” prevede un “tempo minimo da trascorrere fuori delle camere detentive di 8 ore”, mentre quella “aperta” fino a 14 ore e uno spazio di libertà di movimento da raggiungere “senza onere di accompagnamento”. Inoltre dispone che durante le attività dei detenuti gli agenti siano “all’esterno delle sezioni, senza la necessità di presidi stabili nei reparti e nei luoghi di pertinenza”. In sostanza: autogestione. Un anno dopo i numeri mostrano il risultato di quella scelta: le aggressioni fra detenuti sono 776 in più, quelle agli agenti penitenziari 116, le infrazioni disciplinari sono 6.602 in più, le violenze, minacce e resistenze ai pubblici ufficiali 498 in più. Crescono i mancati rientri e gli atti di atti di autolesionismo (1557 in più), ma il capo del Dap, che resterà fino al 4 luglio 2018, non ci dà peso. Non lo fa nemmeno il suo successore, Francesco Basentini, che nel 2020 si trova a gestire la crisi del Covid con le rivolte di marzo, le polemiche per la scarcerazione dei boss e, ad aprile, le botte degli agenti sui detenuti di Santa Maria Capua Vetere. Si dimette il mese dopo, e al suo posto viene nominato il magistrato Dino Petralia. Intanto lo spazio lasciato libero viene riempito. E dove manca il presidio, l’ordine lo dettano i detenuti più temuti, che potendo circolare liberamente possono prendere il carcere in mano. E se guardiamo i dati del 2014 (prima dell’entrata in vigore della circolare del 2015) e li confrontiamo con gli ultimi disponibili, sembra sia proprio andata così. Crescono aggressioni, minacce, tentati suicidi - Le aggressioni contro la Polizia Penitenziaria passano dalle 387 del 2014 alle 837 del 2020. Quelle fra detenuti da 2.039 arrivano a 3.501. Contro il personale amministrativo da zero a 36. Un’impennata verticale si registra nelle violenze, minacce, ingiurie, oltraggi e resistenze ai pubblici ufficiali: da 319, nel 2020 schizzano a 3.577. Le colluttazioni sono più che raddoppiate: da 1.598 a 3.501. Nelle celle sono spuntati telefonini o sim card: da 118 a 1.140. Sono arrivati anche i coltelli: da 55 a 196. Le violazioni di norme penali sono salite quasi di cinque volte: da 1.443 siamo arrivati a 5.536 nel 2020. Crescita vertiginosa delle infrazioni disciplinari (intimidazioni, atti osceni): erano 1.127, sono arrivate a 10.106. Difficile pensare che i detenuti stiano meglio. Ma il dato più allarmante è quello sui i reati “spia” del disagio: i tentati suicidi da 933 sono arrivati a 1.480. Gli atti di autolesionismo, dai 6.919 del 2014 sono arrivati a 11.315. Solo a Santa Maria Capua Vetere, nell’ultimo anno e mezzo, sono stati quasi 300. Una tensione che molti si aspettavano che sarebbe esplosa e, complice il panico da Covid, in quel penitenziario mal gestito, con 150 detenuti oltre capienza, infestato da insetti, condizioni igieniche precarie, è accaduto. A subire sono i più giovani - Una cosa è certa, i numeri allarmanti smentiscono l’equazione: “celle aperte, meno oppressione”. E aprono squarci su situazioni di sopraffazione dove a subire sono soprattutto i detenuti più giovani, i nuovi arrivati, i meno pericolosi. Quelli che, se aggrediti, hanno paura a denunciare, e preferiscono le sanzioni pur di non rientrare nell’incubo. Poi ci sono le violenze sessuali, non denunciate per vergogna. Un problema enorme perché in Italia l’affettività, usata nel resto d’Europa come incentivo (fai il bravo e vedrai il tuo partner), viene negata. Una situazione in cui stanno male anche gli agenti, sottodimensionati, non sempre adeguatamente formati, che faticano a mantenere l’ordine e possono essere tentati, a loro volta, dalla violenza, come dimostrano le brutalità nel carcere campano. La pena che non rieduca - Le indicazioni della Corte Europea a cui si è fatto riferimento sono ben altre: chiedono di adottare un modello penitenziario basato sulla funzione rieducativa della pena. Le celle aperte si inseriscono nell’organizzazione di attività lavorative che il carcere deve garantire. Il problema è che non ci sono fondi sufficienti per retribuire il lavoro del carcerato. Ma nessun Paese ha abbastanza risorse per pagare uno stipendio ai condannati. Il metodo seguito nel Nord Europa, è quello di trattenere dalla busta paga le spese di giustizia e mantenimento. L’adesione al programma arriva quasi al 90%, perché ci sono più permessi premio, più ore di visita parenti, e soprattutto si impara un mestiere. Il risultato è un tasso di recidiva bassissimo. Nelle nostre carceri sono poco più di 2.000 i detenuti che hanno una occupazione regolare, mentre circa 15.000 lavorano come scopino, addetto alla lavanderia o cucina poche ore al giorno e a giorni alterni. Tutti gli altri vengono lasciati a fare niente. E non basta sbandierare le buone esperienze di Bollate, Padova e altre piccole realtà, perché il detenuto non può scegliere dove scontare la pena. Risultato: quasi il 70% di chi esce dal carcere, poi ci ritorna. Il giusto equilibrio tra processi rapidi e garanzie, su questo la riforma Cartabia centra il punto di Armando Spataro La Stampa, 12 luglio 2021 Con la prescrizione cancellata dopo il primo grado, senza l’improcedibilità i tempi aumenterebbero a dismisura. Il Consiglio dei Ministri ha approvato giovedì scorso all’unanimità alcuni emendamenti al disegno di legge delega per l’efficienza e la rapida definizione dei processi penali, a suo tempo proposto dal Governo Conte e dal Ministro Bonafede. Pur nell’attesa dei testi finali e ufficiali, è possibile qualche commento sulla base delle notizie circolanti, purchè, nonostante la calura estiva, si riesca a ragionare con freddezza. L’intervento in tema di prescrizione è certamente quello oggetto del dibattito più acceso. Come è noto, con una legge del gennaio 2019, era stato introdotto il blocco della prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado, ma nel marzo del 2020 il Ministro Bonafede aveva presentato un disegno di legge delega (cui si riferiscono gli emendamenti qui in discussione) finalizzato ad assicurare la celere definizione dei procedimenti nei giudizi di impugnazione, condizione logica e giuridica del blocco della prescrizione. Tale d.d.l. è ancora fermo in prima lettura dinanzi alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. E’ necessario ricordare contenuti e contesto di elaborazione delle proposte in esame, altrimenti si rischia di scivolare nel pressappochismo. Viene confermato, come nella legge n.3/2019, lo stop della prescrizione dopo la sentenza di primo grado (sia in caso di condanna che di assoluzione), ma vengono previsti tempi certi per i processi d’appello (2 anni) e in Cassazione (1 anno), con la possibilità di proroga (in appello di 1 anno e in Cassazione di 6 mesi), purchè i processi riguardino reati gravi (come quelli elencati di criminalità organizzata, terroristica e contro la P.A.) e siano oggettivamente complessi, per numero delle parti, delle imputazioni e per la natura delle questioni da trattare. I termini decorreranno dal 90° giorno successivo alla scadenza del termine per il deposito della sentenza deliberata (a sua volta prorogabile per tre mesi). In caso di mancato rispetto dei termini, scatta l’improcedibilità ed il processo si blocca definitivamente (“salta”, pertanto la sentenza impugnata), ma non per i reati che non possono prescriversi, cioè quelli puniti con l’ergastolo. La nuova disciplina, infine, si applicherà ai reati commessi dopo l’1 gennaio 2020 (data di entrata in vigore della citata “legge-Bonafede”). Perché questi emendamenti sono stati duramente criticati? Sostanzialmente perché - si dice - la improcedibilità consentirebbe manovre dilatorie degli avvocati per evitare le condanne dei loro più danarosi assistiti, impedirebbe ai condannati ed agli assolti in primo grado di vedere rispettivamente ribaltata o confermata quella pronuncia, danneggerebbe le parti offese e non prenderebbe in considerazione le condizioni in cui operano le Corti d’Appello italiane, tali da rendere impossibile il rispetto dei termini. In realtà, le cose non stanno proprio così. Sono previste cause di sospensione del decorso dei termini di improcedibilità, come nei casi di rinvii per legittimo impedimento, di rinnovazione dibattimentale e per altre ragioni già ora previste dal Codice Penale. Ed è comunque offensivo per l’intera classe forense generalizzare l’abuso mirato di strumenti dilatori, così come lo è per i giudici ipotizzare che non sappiano distinguere e non vogliano disinnescare tali strumenti o che essi siano i responsabili delle lungaggini processuali. Quanto a condannati o assolti in primo grado, si prevede la possibilità di rinuncia alla improcedibilità per mirare alla pronuncia auspicata, mentre le parti offese costituitesi parti civili non saranno pregiudicate dalla improcedibilità poiché il giudice penale che la dichiara, nel caso di imputato già condannato al risarcimento dei danni, trasmetterà gli atti al giudice civile per la conseguente decisione. Più seria è l’obiezione sulla grave situazione in cui si trovano gli uffici giudiziari italiani per deficit di organico (di magistrati e personale amministrativo) e di strutture: infatti, al di là dei dati riguardanti le singole Corti d’Appello, il pres. Lattanzi ha segnalato la grave situazione di aumento del loro arretrato, mentre il Presidente della Cassazione, Curzio, ha quantificato in 1038 giorni la durata media dei procedimenti in appello (in sette distretti superiore alla media)! In queste condizioni, è dunque auspicabile che si proceda con il massimo delle rapidità all’entrata in servizio di magistrati (sono previsti due nuovi concorsi) e di personale amministrativo (“2.500 cancellieri” e “16.500 assistenti” sono le quantità indicate dalla Ministra Cartabia), nonché all’assestamento funzionale delle strutture informatiche e delle procedure digitali, senza che nessuno pensi, secondo il “verbo-Cottarelli”, che l’efficacia della giustizia sia solo un problema di managerialità! E’ comunque giusto precisare che l’istituto della prescrizione ha una ratio ben precisa, quella di collegare l’interesse-dovere dello Stato alla punizione dei responsabili dei reati al decorso del tempo. Cioè, se il tempo passa, in misura proporzionata alla gravità del reato, tale ratio viene meno. All’opposto, però, si può affermare che se l’azione penale è stata esercitata nei tempi previsti, non vi sarebbe ragione di dichiarare il reato estinto per prescrizione o improcedibile. Tale affermazione, però, deve potersi conciliare con altri doveri, diritti e con le relative fonti! Innanzitutto la nostra Costituzione e la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo che rispettivamente, all’art. 111 ed all’art.6, prevedono il principio della ragionevole durata del processo. Nè si possono trascurare le numerose condanne dell’Italia (prima nella relativa “classifica”), ad opera della Corte EDU di Strasburgo per la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo. Quanto all’obiettivo della riduzione del 25% dei tempi della giustizia penale previsto con l’approvazione del PNRR, con connessa aspettativa di beneficiare dei fondi europei, è chiaro che può essere conseguito solo con la preventiva fissazione e conoscenza dei tempi per concludere comunque un processo, come recentemente affermato anche in una sentenza della nostra Corte Costituzionale (n. 140/2021). Non particolarmente utili, infine, sono i dati su tempi e numeri di definizione dei processi penali in altri paesi europei, viste le diversità ordinamentali dei diversi Stati, tra i quali l’Italia si distingue per indipendenza del p.m., obbligatorietà dell’azione penale, livello di garanzia assicurato alle parti private ed efficacia dell’azione investigativa. Ben vengano, a tale scopo, altre proposte del Ministro della Giustizia, quali la previsione di inappellabilità di sentenze per reati minori (purchè sia assolutamente mantenuta la parità tra parti private e p. m.), l’inammissibilità di appelli per difetto di specificità argomentativa, l’estensione dei casi di non punibilità per fatti di lieve entità e l’ampliamento dei riti alternativi. E senza scandalo si potrebbero anche ipotizzare l’abolizione del divieto di reformatio in pejus in caso di appello dell’imputato condannato (che scoraggerebbe impugnazioni strumentali) ed una amnistia per reati minori, utile ad attenuare la quantità degli arretrati presso gli uffici giudiziari. Insomma, le proposte sin qui esaminate, finalizzate ad abbreviare i tempi dei processi, sono formulate nel rispetto dei principi costituzionali. Non appaiono invece condivisibili due ulteriori previsioni. Appare di natura sostanzialmente lessicale quella secondo cui, al termine dell’indagine preliminare, il p.m. deve chiedere l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna, così come il giudice dell’udienza preliminare deve, per le stesse ragioni, pronunciare sentenza di non luogo a procedere. Attualmente, in luogo del principio proposto, vige quello di richiesta di archiviazione da parte del PM e di obbligo di proscioglimento da parte del giudice, quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti o non idonei a sostener l’accusa in giudizio. A parere di chi scrive le due frasi, pur leggermente diverse, hanno lo stesso contenuto, essendo evidente che sostenere l’accusa in giudizio deve fondarsi - per il pm - sulla ragionevole previsione dell’accoglimento della propria richiesta di condanna. Ed il ragionamento, con le ovvie differenze, si adatta anche al giudice che deve disporre o meno il rinvio a giudizio. Detto questo, può però essere accolto l’invito istituzionale ad una valutazione più rigorosa degli elementi di prova disponibili, che include anche un maggiore sforzo di acquisizione probatoria completa durante la fase delle indagini, senza rinvio al dibattimento. Non è in alcun modo condivisibile, invece, la previsione secondo cui gli uffici del p.m., per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, dovrebbero individuare criteri predeterminati di priorità nella trattazione degli affari,ma nell’ambito di quelli generali indicati con legge del Parlamento. Orbene, chi scrive ha già precisato su questo giornale che la selezione delle priorità di intervento dei p.m., anche solo nell’ambito di linee guida generali e non di un cogente catalogo di reati, non può essere materia di competenza del Parlamento perché ciò aprirebbe la strada a seri pericoli per l’autonomia e indipendenza della intera magistratura. Tra l’altro, al di là delle già esistenti leggi e direttive del CSM che obbligano i Procuratori ed i Presidenti dei Tribunali ad elaborare insieme i criteri di priorità, è chiaro che le scelte conseguenti non potranno essere sempre omogenee tra tutti gli uffici di Procura, in considerazione delle diverse necessità ed esigenze territoriali. Ci si deve augurare, pertanto, che questa proposta di riforma venga abbandonata. Paradosso giustizia: processi veloci, poche toghe e troppi magistrati fuori ruolo di Paolo Comi Il Riformista, 12 luglio 2021 “Cerchiamo di limitare per quanto possibile gli incarichi ‘fuori ruolo’ ai magistrati”, afferma Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia alla Camera. All’indomani del via libera da parte del Consiglio superiore della magistratura al fuori ruolo del giudice di Cassazione Bruno Giordano per ricoprire il posto di capo dell’Ispettorato del Ministero del lavoro, il parlamentare azzurro ha presentato una interrogazione alla Guardasigilli Marta Cartabia. Il Riformista aveva pubblicato la notizia dell’autorizzazione del fuori ruolo del giudice Giordano, pur a fronte di gravi scoperture a piazza Cavour. La norma prevede, infatti, che non si possano autorizzare incarichi extragiudiziari se nell’ufficio dove presta servizio il magistrato richiedente ci siano più del 20 percento di posti vacanti. Margherita Cassano, presidente aggiunto presso la Corte di Cassazione, aveva prodotto al Csm, chiedendo di bocciare la richiesta di fuori ruolo del giudice Giordano, una tabella a tal fine, con l’esatto numero dei magistrati attualmente in servizio: 18, che diventeranno a breve 16, su 25 in pianta organica. A Giordano, poi, erano stati già assegnati fascicoli che dovranno adesso essere riassegnati. La presidente Cassano aveva definito l’eventuale fuori ruolo di Giordano “pregiudizievole di gravissime difficoltà”, con “evidenti ricadute sulla trattazione dei processi”. “La ministra Cartabia ci dica cosa intende fare con gli incarichi che non sono riservati ai magistrati”, prosegue allora Zanettin. Giordano, ad esempio, va a fare il capo dell’Ispettorato del Ministero del lavoro, ruolo attualmente ricoperto da un generale dell’Arma dei carabinieri. All’Ispettorato del lavoro, per notizia, non c’è mai stato al vertice un magistrato. Il tema dei fuori ruolo è tornato di attualità dopo le dichiarazioni del presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia che, commentando la riforma della giustizia penale voluta dalla Guardasigilli, aveva evidenziato problemi di carenza di personale presso gli uffici giudiziari. I pochi giudici in servizio non permetterebbero di stare nei tempi previsti dalla riforma: due anni per l’appello, un anno per la Cassazione. Poi scatterebbe l’improcedibilità. Va detto, comunque, che il tema degli organici è ricorrente. In passato si era anche fatta strada l’idea dei “carichi esigibili”, il numero dei fascicoli che possono essere trattati dal singolo giudice in maniera efficace in un anno. Era stata questa, in particolare, la risposta all’iniziale proposta dell’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede di celebrare un processo, dal primo grado alla Cassazione, in soli quattro anni. Proposta poi abortita, come quella dei carichi esigibili. Un giudice, dicono sempre dall’Anm, non può scrivere più di tante sentenze in un anno. Si tratta di un altro argomento che viene proposto in risposta alla volontà di stabilire tempistiche a priori. L’Anm, però, può ritenersi soddisfatta: ha incassato l’abolizione delle sanzioni disciplinari per i magistrati che non avessero rispettato i tempi delle indagini. Il discorso valeva, soprattutto, per i pm ai quali inizialmente erano stati fissati paletti temporali molto stringenti a cui attenersi nella fase delle indagini preliminari. Comunque, essendo il testo oggetto di una prossima discussione in Aula, forse già il 23 luglio, è ancora tutto in alto mare. Forza Italia, ad esempio, è intenzionata a riaprire il dibattito già in Commissione giustizia sulla inappellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del pm. Conte e la riforma della giustizia: per l’ex premier è inaccettabile di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 12 luglio 2021 Sulla Giustizia Conte vuol dare battaglia in aula. Deciderà la linea, per Grillo passo di lato. Le “ombre”, i “giorni difficili”, i “momenti duri” Giuseppe Conte non li dimentica ma ha deciso di buttarseli alle spalle, assieme ai giudizi velenosi di Beppe Grillo e al progetto di un partito tutto suo, che avrebbe innescato una devastante scissione. L’avvocato riparte da leader in pectore del M5S, una forza politica che nei piani dell’ex premier dovrà “dare sostanza alla voce di chi non è ascoltato da nessuno”. La prima prova per risollevare un Movimento sbandato e al collasso sarà la giustizia, tema fondativo e identitario che ha scatenato la rivolta della base e acceso lo sfogatoio dei parlamentari in assemblea. “In aula daremo battaglia” è l’idea del (quasi) presidente dei 5 Stelle, convinto che la riforma Cartabia della prescrizione sia “inaccettabile in linea di principio e impraticabile rispetto alla situazione in cui versano gli uffici giudiziari italiani”. Ai sensi dello statuto limato dai sette saggi e approvato da Grillo, il nuovo “capo” avrà la forza e la legittimità piena per decidere la linea politica. Il 23 luglio, quando la prescrizione arriverà in aula, probabilmente Conte non sarà stato ancora eletto ma a giudicare dall’umore rabbioso dei gruppi non gli sarà difficile orientare il voto di tanti parlamentari nella direzione indicata da Alfonso Bonafede. “La riforma Cartabia è sbagliata, c’è il rischio di isole di impunità - ha detto in assemblea l’ex Guardasigilli, padre della riforma azzoppata - È una battaglia che dobbiamo portare avanti con determinazione”. Anche se Draghi pretende lealtà e vuole che il testo non venga modificato. L’esordio di Conte come leader della forza parlamentare più grande della maggioranza sarà dunque tra lotta e governo, posizione ben diversa da quella sostenuta da Grillo. Era stato il garante, al telefono con Draghi, a ottenere il via libera dei quattro ministri stellati, per salvare la riforma e l’esecutivo. Per Conte incursioni simili non si dovranno più ripetere e raccontano che il giurista pugliese se lo sia fatto promettere dalla viva voce del fondatore. Si sono sentiti la prima volta martedì e l’ultima ieri. Nel mezzo, diverse telefonate per chiarirsi e separare il piano del garante da quello del leader. Sarà una convivenza difficile e rischiosa. Ma i duellanti, in sintonia con i mediatori Di Maio e Fico, che hanno fatto asse frenando le spinte scissionistiche, hanno convenuto che affidare il Movimento a Conte è ora l’unica strada per scongiurare l’implosione. Il ministro degli Esteri e il presidente della Camera non usciranno di scena, anzi: resteranno come argini anche nella nuova fase, garanti del patto tra l’ex premier e Grillo. Per Conte è una vittoria e non lo nasconde, è soddisfatto perché il suo progetto di rifondazione è stato recepito nella struttura complessiva. Avrà la prima e ultima parola sulla linea politica e sulla comunicazione, non ha dovuto fare passi indietro e ha ottenuto che Grillo ne faccia uno di lato. Ora il dilemma è il rapporto con il governo. Non è un mistero che Conte e Draghi non si stanno simpatici, la storia recente ha innescato una diffidenza reciproca. Ma l’avvocato non serba rancore nei confronti dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi, perché a rottamarlo è stato Matteo Renzi e non l’ex presidente della Bce. Resta però il fatto che Draghi nelle ore più calde della trattativa sulla giustizia ha telefonato a Grilloe non a Conte e i fedelissimi del giurista raccontano che quella chiamata unilaterale è stata vissuta come “un grave sgarbo”. Tra Draghi e Conte non risultano contatti, ma appena il M5S lo incoronerà leader dovranno giocoforza vedersi e chiarirsi. Tra i parlamentari umiliati e offesi per la lunga serie di sconfitte incassate dal M5S nel governo di unità nazionale serpeggia la voglia di uscire dalla maggioranza all’inizio di agosto, con lo scattare del semestre bianco. Ma Conte, nelle riunioni riservate, rassicura: “Uscire dal governo? Io non ci ho mai pensato”. Di certo il presidente in pectore ha in mente di interpretare la spinta di tanti parlamentari perché il M5S conti di più nel governo, magari attraverso un rimpasto della squadra. “Dobbiamo incidere di più”, sprona Di Maio. E Lucia Azzolina invoca una verifica: “Al governo con Salvini, Renzi e Berlusconi non possiamo ottenere 100, ma il problema nasce se otteniamo solo 10”. Ezia Maccora: “Riforma della giustizia apprezzabile ma al settore servono investimenti” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 12 luglio 2021 La presidente aggiunta dei gip di Milano: “I carichi di lavoro sono un problema. Meglio l’amnistia? È una scelta del Parlamento. Una riforma così non può seriamente partire senza una soluzione che garantisca lo smaltimento degli arretrati degli uffici” Ezia Maccora, da presidente aggiunta dei gip di Milano, cosa pensa della riforma Cartabia? “Ci sono molte positività ma anche qualche criticità importanti. È una riforma che richiede un grande investimento nel settore della giustizia. Per attuarla è indispensabile ampliare gli organici dei magistrati, rafforzare il personale amministrativo e l’informatizzazione, e l’ufficio del processo deve essere previsto stabilmente e non solo come misura temporanea. E poi c’è la modifica del sistema sanzionatorio...”. Come la valuta? “È importante e apprezzabile ma richiede di potenziare la rete dei servizi, di enti e associazioni che si occupano delle misure non carcerarie”. Ridurrà davvero il carico di lavoro dei magistrati? “La riforma deve servire a garantire un processo “giusto” e tempi ragionevoli di definizione, ovviamente per raggiungere tali obiettivi ai magistrati deve essere chiesto un impegno lavorativo possibile, non dimentichiamo che si tratta di un lavoro complesso e la magistratura non può fare miracoli. Ma ci sono punti apprezzabili”. Quali? “Fa passi seri sui tempi del processo: investe sulla funzione di filtro dell’udienza preliminare, sull’ampliamento dei riti alternativi (dove poteva osarsi di più) e sulla definizione di tutto ciò che non deve scaricarsi sul dibattimento penale. Dà anche una risposta importante in tema di sanzione penale, differenziandola: investe sulla messa alla prova e sulla non punibilità dei fatti di lieve entità, oltre che sulla giustizia riparativa e sulle misure alternative che possono essere applicate già dal giudice insieme all’accertamento della responsabilità”. Non si prescrive il reato, ma se non si sta nei tempi si ferma il processo. Va bene? “Mi sembra che lo sforzo della ministra sia quello di tenere insieme due esigenze: il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado e l’improcedibilità per fasi, per evitare che un cittadino rimanga imputato sine die. Esigenze condivisibili che per la verità potrebbero essere raggiunte con soluzioni tecniche diverse o comunque ampliando il tempo di ogni fase. Se rimane questa la soluzione scelta richiede investimenti seri per rafforzare le risorse esistenti, perché già oggi i dati ci dicono che almeno 10 Corti d’Appello non sarebbero in grado di rispettare i termini previsti per la mancanza di giudici e di cancellieri e assistenti e per la complessità dei processi (si pensi a quelli di criminalità organizzata)”. Preferirebbe l’amnistia? “È una scelta del Parlamento. Una riforma come questa non può seriamente partire senza una soluzione che garantisca lo smaltimento degli arretrati degli uffici”. La “nuova” prescrizione allungherà i processi di Gian Carlo Caselli Il Fatto Quotidiano, 12 luglio 2021 L’emendamento sulla prescrizione approvato (senza votare) nel Cdm dell’8 luglio ricorda il meccanismo che porta a definire “escort” chi, accompagnando un cliente, è disponibile a rapporti sessuali (Treccani). La parola è più soft di altre, ma la sostanza è la stessa: un po’ come l’emendamento, che a prescrizione aggiunge improcedibilità, termine meno… impegnativo. Ma torniamo alla sostanza. La prescrizione c’è dappertutto, ma nel nostro Paese con alcune differenze notevoli. Primo: da noi decorre da quando è stato commesso il reato e non - come altrove - dal giorno in cui il presunto colpevole è stato individuato o dal primo atto di accusa. Un notevole vantaggio per l’indagato. Secondo: il nostro sistema, disgraziatamente basato su un processo lunghissimo, ogni anno causa centinaia di migliaia di prescrizioni. Per cui, mentre altrove la prescrizione è circoscritta a pochi casi limite, da noi è una voragine gigantesca che inghiotte senza ritorno un’enormità di processi. Tant’è che la percentuale italiana di prescrizioni è del 10/11%, contro quella dello 0,1/0,2% degli altri Paesi europei. Terzo: negli altri ordinamenti, il decorso della prescrizione si interrompe definitivamente o nel momento del rinvio a giudizio o con la condanna in primo grado; invece in Italia, da sempre e per un lunghissimo tempo, non c’è mai stato un blocco definitivo, ma solo sospensioni temporanee, con una prescrizione di fatto “infinita”. Si cambia registro - allineandosi agli altri Paesi - il 1° gennaio 2020: una nuova norma interrompe la prescrizione con la sentenza di primo grado. Neanche il tempo di festeggiare il Capodanno, ed ecco scatenarsi una bagarre con formule (sarà una bomba atomica!) note solo ai giuristi più raffinati. Peccato che nessuno sia in grado di stabilire con un minimo di affidabilità quali saranno davvero gli effetti della riforma del 2020 (comunemente definita “Bonafede”, il ministro che ha il merito di averla voluta). Prova ne sia che nella relazione del 24.5.21 di Giorgio Lattanzi, presidente della Commissione istituita dalla nuova ministra, Marta Cartabia, per elaborare proposte innovative sul processo penale, a pagina 51 si legge testualmente che tali effetti “si produrranno a partire dal 1° gennaio 2025 per le contravvenzioni e dal 1° giugno 2027 per i delitti”, per cui “dal punto di vista tecnico non vi sono ragioni che rendono urgente anticipare (una nuova) riforma della prescrizione”, lasciando peraltro “impregiudicata ogni valutazione politica”. Dunque, che fretta c’era di intervenire? Sul piano tecnico nessuna, se non privilegiando il piano politico con un occhio di riguardo a coloro che han sempre visto nella prescrizione (e nelle leggi ad personam) la soluzione più comoda ai loro problemi giudiziari. E basta sfogliare le cronache di questi anni per “scoprire” di chi si tratta. Sta di fatto che nel Cdm dell’8 luglio, da un lato si conferma che la prescrizione si interrompe con la sentenza di primo grado, ma nel contempo dopo l’interruzione si introduce… una sospensione, nel senso che se non si arriva alla sentenza d’Appello entro due anni e a quella di Cassazione entro un anno dall’Appello, tutto finisce in niente, dovendosi dichiarare la non procedibilità del reato. Il che significa che i colpevoli restano impuniti e all’innocente viene negata l’assoluzione. In pratica, se non è zuppa (prescrizione) è pan bagnato (improcedibilità). Dunque, un ritorno al passato che ricicla la convenienza ad allungare il brodo finché prescrizione+improcedibilità non intervengano inghiottendo ogni cosa. Con la conseguenza, ancor più grave, di perpetuare una anomalia del nostro sistema: la coesistenza di due codici distinti. Uno per i “galantuomini” (che in base al censo o alla collocazione politico-sociale sono considerati “perbene” a prescindere); l’altro per i cittadini “comuni”. I primi possono permettersi difensori costosi e agguerriti, in grado di utilizzare ogni spazio per eccezioni dilatorie. Per loro, il processo può ridursi all’attesa che il tempo si sostituisca al giudice con la prescrizione o improcedibilità che tutto cancella. Mentre per gli altri il processo - per quanto di durata biblica - riesce più spesso a concludersi, segnando in profondo vite e interessi. Un’intollerabile asimmetria incostituzionale, fonte di disuguaglianze, che nega elementari principi di equità. Dovuta al fatto che proprio il binomio prescrizione+improcedibilità può contribuire fortemente a far durare all’inverosimile certi processi. E ciò proprio grazie a un emendamento che vorrebbe essere garantista! Ora basta con i “giudici star”: il loro protagonismo è la negazione del garantismo di Valentina Stella Il Dubbio, 12 luglio 2021 Congresso nazionale di Magistratura democratica. Gli interventi di Ermini (Csm), Santalucia (Anm), e del professore Luigi Ferrajoli sulla “questione morale della magistratura” e le riforme della giustizia. “La questione morale nella e della magistratura, per l’impatto e le ricadute sull’opinione pubblica, più che questione democratica è ormai una vera emergenza democratica. Perché il crollo di fiducia che ha colpito l’ordine giudiziario e il suo organo di governo autonomo mina alle fondamenta la legittimazione democratica della stessa giurisdizione”: così il vicepresidente del Csm David Ermini intervenendo al congresso nazionale di Magistratura democratica in corso a Firenze. “Tutti sappiamo - ha proseguito Ermini - che lo tsunami che si è abbattuto in questi mesi è in realtà l’onda lunga di degenerazioni e miserie etiche risalenti negli anni, e sappiamo anche che la gran parte dei magistrati è del tutto estranea all’indegnità disvelata dai ben noti scandali e ne è profondamente turbata; ma altrettanto bene sappiamo che l’attuale crisi della magistratura, per intensità e qualità, è di portata questa volta diversa dal passato e segna il punto di non ritorno. Non esiste un piano B, non ci sono opzioni o vie di fuga, non è data un’altra chance”. In merito al dibattito sulle riforme della giustizia a firma Marta Cartabia, Ermini confida nella convergenza dei partiti: “Ho piena fiducia nella sensibilità istituzionale della ministra Cartabia, nella sua competenza, nelle sue capacità di dialogo e sintesi. Confido che le forze politiche, tutte le forze politiche in Parlamento, abbiano la consapevolezza che la strada delle riforme è strada a questo punto obbligata, e non solo per l’accesso ai fondi del Recovery ma per gli equilibri delle stesse istituzioni, e responsabilmente convergano su soluzioni condivise e nel solo interesse generale di un sistema giudiziario efficace e giusto. Se non c’è un accordo tra le forze politiche per trovare una strada le riforme sulla giustizia diventano solo armi di battaglia, e il cittadino non ottiene poi il servizio giustizia”. Sul problema del carrierismo, svelato dallo scandalo Palamara, Ermini aggiunge: “Sussiste da parte della magistratura associata, la necessità di una seria riflessione. Mai mi permetterei di entrare nel dibattito interno dei singoli gruppi associati”, “ma mi rivolgo a ciascun magistrato perché si interroghi in coscienza innanzitutto sui danni del carrierismo fine a sé stesso, virus letale e motore di scambi immorali che hanno inquinato la vita consiliare”. Ad intervenire al XXIII Congresso Nazionale di Md, dal titolo “Magistrati e Polis Questione democratica, questione morale” anche il Presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia che ha affrontato due temi in particolare: l’attuale riforma della giustizia targata Cartabia e il tema della “separazione” declinato su vari versanti. Per quanto concerne la riforma del processo penale, Santalucia ha ribadito alcuni dubbi espressi già su questo giornale: “Ci sono aspetti dei disegni di riforma che suscitano perplessità - mi riferisco, ma solo come uno dei possibili esempi, alla fisionomia, per quel che si sa, della prescrizione processuale -, su cui occorrerà discutere. Mi auguro che una innovazione così importante sarà valutata ed approfondita anzitutto in diretto e concreto riferimento alle condizioni organizzative degli uffici giudiziari, delle Corti di appello”. Ci sono poi proposte mancate, per il consigliere di Cassazione: “Il meccanismo di archiviazione meritata, che avrebbe potuto concorrere, con l’irrobustimento della messa alla prova e dell’archiviazione per particolare tenuità del fatto, ad un serio sfoltimento del carico giudiziario pare non essere tra gli emendamenti approvati dal Consiglio dei Ministri. Mancano anche alcuni accorgimenti che avrebbero rafforzato i riti premiali e si è rinunciato ad una rivisitazione della struttura dell’appello”. Per quanto concerne la questione della “separazione”, Santalucia obietta soprattutto contro la proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere, promossa dall’Unione delle Camere Penali, e ora giacente in Commissione affari costituzionali della Camera: “Nel tentativo di assicurare al pubblico ministero autonomia e indipendenza, al pari dei giudici, si formerebbe il Csm della magistratura inquirente del tutto sovrapponibile, quanto a struttura, a quello della giudicante. Un domani potrebbero essere, nel loro Csm, la metà, se non, come detto, poco più, e quindi con un potere di gran lunga accresciuto. È questo il ridimensionamento della figura del pubblico ministero a cui si mira? É facile prevedere che questo smisurato ampliamento di poteri potrebbe non essere tollerato”. Infine, sostiene Santalucia, “una seconda separazione dovrebbe intervenire nella relazione tra Csm e i magistrati, affidata al sistema del sorteggio incaricato di espellere il correntismo dai luoghi del cd. governo autonomo e che, recidendo il legame di tipo elettivo, indebolirebbe fortemente quella sia pur parziale rappresentatività dell’ordine giudiziario che al Csm è stata riconosciuta - v. Corte cost. n. 142 del 1973 -. Trovo molto convincenti le parole pronunciate ieri della prof.ssa Biondi, secondo cui, a meno di non mettere mano a riforme costituzionali, deve prendersi atto che il testo della Carta parla, senza possibilità di spazi interpretativi, di componenti eletti”. Un intervento molto interessante è stato quello di Luigi Ferrajoli, professore emerito di filosofia del diritto, Università Roma Tre, tra i fondatori di Magistratura democratica, che ha tenuto una lectio magistralis dal titolo “La costruzione della democrazia e il ruolo dei giudici”. Un passo molto rilevante è dedicato al rifiuto del protagonismo giudiziario “oggi favorito dai media televisivi. Dobbiamo riconoscere che ogni forma di protagonismo dei giudici nei rapporti con la stampa o peggio con la televisione segnala sempre, inevitabilmente, partigianeria e settarismo, incompatibili, ripeto, con l’imparzialità. Di qui il valore della riservatezza del magistrato riguardo ai processi di cui è titolare. Ciò che i magistrati devono aver cura di evitare, nell’odierna società dello spettacolo, è qualunque forma di esibizionismo che ne compromette, inevitabilmente, l’imparzialità. Si capisce la tentazione, per quanti sono titolari di un così terribile potere, di cedere alle lusinghe degli applausi e all’autocelebrazione come potere buono, depositario del vero e del giusto. Ma questa tentazione vanagloriosa va fermamente respinta. La figura del “giudice star” o “giudice estella”, come viene chiamato in Spagna, è la negazione del modello garantista della giurisdizione. Essa rischia di piegare il lavoro del giudice alla ricerca demagogica della notorietà e della popolarità. In breve: i giudici devono evitare qualunque rapporto con la stampa e più ancora con le televisioni”. E poi il rifiuto dell’idea della giurisdizione come lotta a un nemico: “La prima regola consiste nel rifiuto di ogni atteggiamento partigiano o settario, non solo da parte dei giudici ma anche dei pubblici ministeri. La giurisdizione non conosce - non deve conoscere nemici, neppure se terroristi o mafiosi o corrotti - ma solo cittadini. Ne consegue l’esclusione di qualunque connotazione partigiana sia dell’accusa che del giudizio e perciò il rifiuto della concezione del processo penale come “lotta” al crimine. Il processo, come scrisse Cesare Beccaria, deve consistere “nell’indifferente ricerca del vero”. Per affrontare la questione morale, tema al centro del dibattito di Magistratura Democratica, Ferrajoli propone al termine soluzioni radicali. Ridurre drasticamente il potere dei capi degli uffici e il potere discrezionale dell’organismo che li nomina. “La carriera, in breve - e con la carriera tutte le norme e le prassi che alimentano il carrierismo, a cominciare dalle valutazioni di professionalità - contraddicono una regola basilare della deontologia dei magistrati: il principio che essi devono svolgere le loro funzioni sine spe et sine metu: senza speranza di vantaggi o promozioni e senza timore di svantaggi o pregiudizi per il merito dell’esercizio delle loro funzioni. Le valutazioni della professionalità, in particolare, oltre ad essere di solito poco credibili e talora arbitrarie e [volte] a sollecitare il carrierismo, finiscono sempre per condizionare la funzione giudiziaria, per deformare la mentalità dei giudici e per minarne l’indipendenza”. Eliminare il virus del carrierismo, attraverso un ridimensionamento strutturale delle carriere dei magistrati significa anche sottrarre alla politica argomenti per quella che Ferrajoli definisce “una campagna diffamatoria nei confronti della magistratura italiana che rischia di offuscare il ruolo della giurisdizione quale dimensione essenziale della democrazia”. I giudici non sono più il contropotere italiano di Ilvo Diamanti La Repubblica, 12 luglio 2021 L’atteggiamento verso le toghe riflette il sentimento politico e anti-politico. Oggi consensi ai minimi. In un sondaggio recente condotto da Demos per Repubblica, circa 4 italiani su 10, per la precisione: il 36%, esprimono fiducia verso la magistratura. Si tratta di una misura analoga a quella rilevata negli ultimi 10 anni. Con variazioni, talora, sensibili. Di segno positivo, in alcuni anni. E opposte, in altri momenti. Peraltro, nelle indagini sul rapporto fra “Gli Italiani e lo Stato”, che conduciamo da oltre vent’anni, il consenso verso la Magistratura, anche di recente, risulta superiore rispetto alle principali istituzioni e ai principali soggetti politici. Non solo ai partiti, anche al Parlamento. E allo stesso Stato. Si tratta di dati utili a comprendere le polemiche intorno alla “riforma della giustizia” che si sono accese in questi giorni. E hanno coinvolto le forze della maggioranza. In particolare, il M5S, che sui temi della legalità ha fondato la sua identità. La questione della “giustizia” è all’origine della nostra democrazia e della nostra Repubblica. Tanto più negli ultimi trent’anni. M5S, accordo raggiunto tra Conte e Grillo. Di Maio: “Sempre creduto nella mediazione” - In questa specifica occasione, l’intervento del Presidente del Consiglio, Mario Draghi, pareva avere sbloccato il percorso della riforma. In particolare, sul tema della prescrizione. Anche grazie al dialogo diretto con il “garante” del MoVimento, Beppe Grillo. Tuttavia, questa stessa iniziativa ha contribuito ad accentuare i contrasti interni ai 5S. In primo luogo, tra il fondatore e il leader - in pectore - Giuseppe Conte. Anche per questo motivo, non è chiaro cosa avverrà, in Parlamento, in vista dell’approvazione. Un altro segno della fragilità del sistema politico italiano, in questa fase. Perché, oggi, non si vedono alleanze e maggioranze stabili e resistenti, fra i partiti. Tutti insieme, al governo, tranne i FdI di Giorgia Meloni. Che, anche per questo, risultano in grande ascesa. Secondo alcuni sondaggi, primi. Davanti a tutti. Ma nessuna forza politica appare tanto forte e sicura da spingersi ad affrontare il voto degli italiani, prima della scadenza prevista. Troppo rischioso. Per tutti. Infatti, se guardiamo la Supermedia dei sondaggi politici realizzata da YouTrend, la partita tra FdI, Lega e Pd risulta aperta. Attraversiamo, quindi, un periodo di incertezza, che non sappiamo quanto durerà. Una patologia politica che conosciamo bene. Perché ha accompagnato l’Italia almeno da trent’anni. Da quando è caduta la Prima Repubblica. Nei primi anni Novanta. Allora, la Magistratura svolse un ruolo determinante. Attraverso le inchieste sulla corruzione “dei” e “nei” partiti, riassunta nella parola-chiave: Tangentopoli. La figura simbolo di quella fase fu Antonio Di Pietro. Magistrato. Principale artefice delle inchieste giudiziarie di “Mani Pulite”. Fondò e guidò, a sua volta, un partito, l’Italia dei Valori, che apparse il “partito anti-corruzione”. In fondo, “l’anti-partito”, visto che i partiti erano divenuti sinonimo di corruzione. Ma altri magistrati, in seguito, ne hanno seguito l’esempio. Per questo è interessante osservare l’andamento dei consensi, ondivago, verso la Magistratura negli ultimi 30 anni. In quanto riflette il sentimento politico e anti-politico degli italiani. La fiducia nei confronti della Magistratura raggiunge l’apice nei primi anni Novanta, gli anni di Tangentopoli, quando (secondo dati dell’ISPO) sfiora il 70%. In seguito, scende sensibilmente fino al 40%, intorno alla fine degli anni Novanta. Quando il ruolo politico dei magistrati è segnato dal confronto-contrasto con Silvio Berlusconi. E con altri leader dell’epoca. E ciò produce effetti contrastanti, per entrambe le parti. Perché politica e anti-politica si “contagiano” reciprocamente. La popolarità dei magistrati risale, nuovamente, all’inizio del decennio scorso. In coincidenza con il declino e la successiva caduta di Berlusconi. Figura simbolo della Seconda Repubblica. La magistratura è, infatti, garante e contro-potere istituzionale e costituzionale. Si afferma, dunque, nei passaggi cruciali della nostra storia recente. Nei primi anni Novanta, dopo la caduta del muro di Berlino, che accompagna la caduta della Prima Repubblica. E dopo la caduta del muro di Arcore, cioè, di Berlusconi, all’inizio degli anni Dieci del nuovo millennio. In seguito, la fiducia verso la Magistratura pro-segue in modo intermittente. Pur di-mostrando indici più limitati rispetto agli anni Novanta. È interessante, a questo proposito, osservare come, oggi, il grado più elevato di consenso emerga fra gli elettori del Pd e, in misura minore, del M5S. Nonostante l’importanza che la questione della giustizia assume nella loro “biografia”. Al contrario, indici molto minori sono espressi dalla base di Forza Italia e dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Un segno ulteriore del ruolo assunto dalla Magistratura. Contro-potere e garante nei confronti delle istituzioni e del sistema politico. Ma, per la stessa ragione, coinvolta, perfino “implicata” nella politica. Agli occhi dei cittadini: un “soggetto politico” fra gli altri. Come gli altri. E, in ogni caso, un fattore di divisione, in un sistema politico fragile e geneticamente “diviso”. Che è passato da una Repubblica all’altra accompagnato, talora: trainato, dalla Magistratura. Il pericoloso mestiere dei sindaci: “Non può essere che tutto sia sempre colpa nostra” di Claudio Cucciatti La Repubblica, 12 luglio 2021 Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente di Anci, con la prima cittadina di Crema Stefania Bonaldi, il candidato per Bologna Matteo Lepore, l’editorialista di Repubblica Stefano Folli e Silvia Bignami. “Non è il momento del partito dei sindaci, ma la politica, la classe dirigente, deve prenderci come riferimento per tornare vicino ai cittadini”. “La mia storia è emblematica della situazione in cui si trovano i sindaci. Sentiamo di vivere in una terra senza confini. Vogliamo partecipare a un gioco straordinario, ma vogliamo conoscere i limiti del campo. Non vogliamo fuggire dalle responsabilità, chiediamo norme equilibrate e ragionevoli”. Stefania Bonaldi, sindaca di Crema, ha ricevuto un avviso di garanzia dopo che un bimbo dell’asilo nido comunale di Crema, lo scorso ottobre, si era schiacciato due dita di una mano in una porta di sicurezza. In solidarietà alla sindaca, molti primi cittadini italiani hanno manifestato a Roma per chiedere più tutele legislative e un maggiore rispetto per un ruolo definito “sempre più pericoloso”. Ed è proprio sulle responsabilità che oggi gravano sui sindaci che si è aperto il dibattito al Teatro Comunale di Bologna. L’incontro “Bologna e il fronte dei sindaci”, moderato da Stefano Folli e Silvia Bignami, ha aperto la quarta ed ultima giornata di Repubblica delle Idee. Oltre a Bonaldi, hanno partecipato Antonio Decaro, primo cittadino di Bari e presidente dell’Anci, e Matteo Lepore, candidato sindaco del centrosinistra per le elezioni comunali di Bologna. Il premier Draghi con i sindaci - La manifestazione di Roma ha avuto delle ripercussioni nei corridoi della politica italiana. “Draghi ci ha ricevuti e ha detto che sostiene le nostre proposte. Tra cui la possibilità di potersi candidare in Parlamento: per ora siamo vittime di razzismo istituzionale’. Negli ultimi anni stiamo mettendo sui social media i nostri disagi, ma erano cose che succedevano anche prima. Di fatto - spiega Decaro - il sindaco è responsabile di tutto ciò che accade nel territorio comunale. Abbiamo firmato in quattromila perché abbiamo visto cosa è accaduto ad Appendino, indagata dal disturbo per la quiete pubblica all’aria inquinata. Non stiamo chiedendo immunità o impunità, vogliamo solo che il confine della responsabilità sia definito. Un’assenza che rende difficile trovare dei candidati sindaco e che ha portato, ad esempio, alla rinuncia di Appendino a correre una seconda volta per le amministrative di Torino”. Dalla città al Parlamento - Problemi su cui ragiona anche Lepore, che tra pochi mesi potrebbe guidare Bologna. “Nell’ufficio dei sindaci finisce lo scaricabarile delle responsabilità che nessuno si prende. Forse neanche i segretari di partito e i parlamentari sanno cosa viviamo. I sindaci devono andare alla Camera e al Senato per migliorare il funzionamento del sistema”. Sul palco del Teatro Comunale l’elezione diretta dei sindaci è ritenuta da tutti positiva. Il problema, poi, è portare a Roma chi ha lavorato bene sul territorio. E per Lepore questa “è una battaglia che deve intestarsi il Partito democratico. Facilitare il passaggio dei buoni amministratori in Parlamento deve andare di pari passo con una nuova riforma delle Città Metropolitane: un esperimento fallito”. Il partito dei sindaci - Per Bonaldi “un sindaco deve per forza affrontare i problemi, pur mantenendo i propri riferimenti politici e culturali. Non può nascondersi dietro punti di sondaggio virtuali o nella palude dove si cerca di spingere il ddl Zan. La classe dirigente deve prenderli come riferimento per tornare vicino ai cittadini”. Decaro, che ha avviato la discussione sui sindaci in Parlamento, chiarisce che “non è il momento del partito dei sindaci, ma la politica deve aprirsi. Penso al sindaco leghista di Novara, che sarebbe un buon ministro dell’Economia. O ad Appendino, che farebbe altrettanto bene come ministro dell’Innovazione. Anche altri, come Merola, Nardella e Gori, saprebbero dare un contributo importante”. L’orizzonte del dopo pandemia - Sblocco dei licenziamenti, diseguaglianze e disagio sociale post pandemia sono i problemi all’orizzonte. “Abbiamo tenuto in piedi le comunità, anche dal punto di vista umano - racconta Decaro -. Una telefonata a un anziano, i rifiuti da raccogliere, la spesa per i positivi. Insieme ai volontari, persone speciali conosciute sul campo, abbiamo fatto di tutto. Per la prima volta nella storia è stato ceduto il potere di ordinanza al governo per non generare ottomila ordinanze diverse su aperture e chiusure. È stata una scelta che in piena pandemia ha salvato il Paese, che aveva bisogno di un messaggio univoco da parte delle autorità sanitarie. Il prossimo passaggio è seguire i nuclei familiari più fragili, senza lasciare indietro nessuno. I soldi del Pnrr servono adesso, non nel 2026”. I denari del Recovery Fund andranno a Comuni e Regioni. “Quello che ci preoccupa è la velocità - confessa Bonaldi -. Noi abbiamo la ‘presunzione’ di conoscere chi per primo deve ricevere aiuto, perché in seria difficoltà. Con la pandemia il sostegno reciproco nelle comunità è aumentato, la politica ha l’obbligo di sostenere questo sentimento”. Firenze. Dopo le proteste, torna la calma nel carcere di Sollicciano di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 12 luglio 2021 Ad annunciare il ritorno alla normalità sono i sottosegretari alla Giustizia Francesco Paolo Sisto e Anna Macina, e il capo del Dap, Bernardo Petralia. “La situazione nel carcere fiorentino di Sollicciano è tornata alla normalità dopo che otto detenuti erano saliti sul tetto della struttura per protestare contro alcuni provvedimenti di un magistrato di sorveglianza”. Ad annunciare il ritorno alla calma sono i sottosegretari alla Giustizia Francesco Paolo Sisto e Anna Macina, e il capo del Dap, Bernardo Petralia, in una nota congiunta. “Il Presidente del Tribunale di sorveglianza e il Provveditore regionale sono infatti prontamente intervenuti, convincendo i detenuti a interrompere la protesta”, comunicano. “L’intervento è stato coordinato dal Dap, con la sorveglianza del Ministero, in stretto contatto con il Garante nazionale dei detenuti Palma, e con il Garante della Toscana Fanfani”, concludono. Le tensioni nel carcere fiorentino erano esplose ieri sera, quando otto detenuti si erano rifiutati di far rientro nelle rispettive celle all’orario previsto delle 21. “Successivamente hanno divelto le inferriate delle finestre del locale docce. Da lì si sono arrampicati fino al tetto del carcere, da dove hanno inscenato una protesta ancora in corso. I motivi sarebbero riconducibili al non aver ottenuto alcuni benefici richiesti alla magistratura di sorveglianza”, ha raccontato Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, spiegando che “dopo i drammatici video di Santa Maria Capua Vetere il clima nelle nostre carceri è ancora più incandescente. Da un lato il Corpo di polizia penitenziaria colpito nell’orgoglio, mortificato e ancor di più demotivato, dall’altra alcune frange della popolazione detenuta animate da sentimenti di rivalsa e convinte anche di poter infrangere impunemente le regole. Questi elementi, di per sé fortemente destabilizzanti, divengono assolutamente pericolosi in un carcere come quello di Firenze Sollicciano da mesi senza né Direttore né comandante della Polizia penitenziaria titolari e con ben 650 detenuti presenti, di cui 451 stranieri, a fronte di una capienza regolamentare inferiore a 490 posti”. Reggio Emilia. Botte in carcere, assolti anche in appello 9 agenti carcerari di Tiziano Soresina Gazzetta di Reggio, 12 luglio 2021 La Corte: “Riconoscimenti inattendibili”. Violenze in carcere, detenuti picchiati dalla polizia penitenziaria. Un argomento al centro della recente cronaca nazionale (per quanto sarebbe avvenuto in una struttura detentiva campana nel 2020, in piena pandemia) su cui ora piomba una sentenza - in Appello a Bologna - di tutt’altro indirizzo che assolve i nove agenti carcerari di Reggio Emilia finiti sotto processo per una vicenda del 2012, con al centro un giovane ladruncolo georgiano (Guram Shatirishvili, ora 27enne) arrestato e già condannato per concorso nel tentato omicidio di un poliziotto nelle cantine di un complesso residenziale di via Mantegna. Decisione di secondo grado che conferma l’assoluzione di primo grado “per non aver commesso il fatto” nei confronti degli agenti Andrea Ambrogi, Vincenzo Coccoli, Marco Lettieri, Andrea Affinito, Roger Farinaro, Pasquale Zorobbi, Carmine Nocera, Domenico Gasparro e Claudio Pingiori. E il collegio giudicante di Bologna - presieduto da Alberto Pederiali - nelle motivazioni della sentenza mette in rilievo i punti-chiave di questa vicenda. I giudici ritengono il georgiano “del tutto credibile quando narrava dei pestaggi subiti, oltre che presso la questura, anche in carcere, emersi solo casualmente e confermati con estrema difficoltà dovuta alla paura di ritorsioni”. L’allusione è al fatto che le botte emersero solamente in un colloquio intercettato in carcere fra Shatirishvili e la madre, facendo scoprire lesioni (frattura alla settima e ottava costola sinistra) giudicate guaribili in 40 giorni. E per gli inquirenti quel pestaggio ha come movente la ritorsione contro chi aveva messo in pericolo la vita di un poliziotto in quelle cantine condominiali. Ma parallelamente la Corte ha ritenuto il georgiano inattendibile nell’identificazione degli aggressori. “Occorrerebbe accertare - scrivono i giudici d’appello - se al momento dei pestaggi la parte lesa fosse effettivamente in grado di riconoscerne gli autori e sulla base di quali elementi essi siano stati dalla predetta individuati, tanto più necessaria in quanto il riconoscimento era meramente fotografico e per di più eseguito su fotografie non nitide e di piccole dimensioni”. Ma un nuovo riconoscimento non è stato possibile - rimarcano i magistrati giudicanti - per la condotta processuale di Shatirishvili che viene censurata: “Costui faceva ritorno nel Paese d’origine manifestando un sostanziale disinteresse per l’esito del procedimento, atteggiamento che induce a ritenere che lo stesso - scrivono i giudici - anche se citato avanti all’autorità locale, non sia animato da alcun intento di contribuire all’accertamento dei fatti, peraltro reso assai difficoltoso dal lungo lasso di tempo trascorso”. In questo contesto si colloca anche la rinuncia, in Appello, della costituzione di parte civile da parte di Shatirishvili. Pur non rinunciando al processo di secondo grado, il sostituto pg Nicola Proto ha chiesto, in requisitoria, l’assoluzione per i nove agenti penitenziari. Stessa richiesta fatta, durante le arringhe, dagli avvocati difensori Federico De Belvis (tutela Ambrogi, Coccoli, Lettieri e Affinito), Liborio Cataliotti (assiste Nocera e Pingiori) e Donata Cappelluto (difende Farinaro, Zorobbi e Gasparro). Assoluzione che verrà confermata dalla prima sezione penale della Corte d’appello di Bologna a nove anni di distanza dai fatti. Firenze. Un grande murale sul carcere può ridare la libertà di Tomaso Montanari Il Fatto Quotidiano, 12 luglio 2021 “Le mura mi parean che ferro fosse /. … vermiglie come se di foco uscite / fossero …”. Lo sapevamo, certo: ma la storia enorme, sconvolgente di Santa Maria Capua Vetere (una storia su cui giustizia va fatta, fino ai massimi livelli) ci ha sbattuto ancora una volta in faccia che quelle mura, le mura delle carceri italiane, sono troppo spesso di ferro e di fuoco, come appaiono a Dante e a Virgilio quelle della città infernale di Dite. Mura che separano i vivi e i morti, i diritti dall’arbitrio, il mondo degli umani e quello della carne da cannone. La sorte del corpo del reo - il corpo di chi è affidato, ormai inerme, al potere dello Stato - permette di misurare il grado della dignità che riconosciamo alla persona umana: e dunque della nostra umanità. E basta visitare una prigione della Repubblica per capire che è qua che si decide cosa siamo, e cosa saremo. Perché le carceri riguardano innanzitutto “noi, che ci interroghiamo sui caratteri della società in cui vogliamo vivere e sui principi ai quali diciamo di essere affezionati” (Gustavo Zagrebelsky). Per questo è davvero importante ciò che accadrà a Firenze la settimana prossima. Sul muro esterno della Casa Circondariale “Mario Gozzini”, primo carcere italiano a tutela attenuata, verrà inaugurata una grande pittura murale: una “scritta che buca”. Poche cose quanto l’arte riescono ad abbattere, almeno simbolicamente e culturalmente, mura e cancellate: ed è esattamente questo il progetto voluto dalla direttrice Antonella Tuoni e dalla professoressa Camilla Perrone, dell’Università di Firenze (insieme al Garante dei diritti delle persone detenute del comune di Firenze, alla Fondazione Michelucci e al Quartiere 4, con il supporto della CAT - Cooperativa Sociale, e il finanziamento della FCRF e del Comune di Firenze). Gli artisti dell’associazione Elektro Domestik Force hanno incontrato a più riprese i detenuti, per decidere insieme cosa e come dipingere all’esterno del muro che li separa e li unisce alla città: “Sono uscite idee molto distanti tra loro, anche molto personali. Il gruppo di lavoro però si è trovato d’accordo su alcuni aspetti sia tecnici che ideologici. È stato definito che il murale debba portare colori e messaggi positivi. Il target di pubblico (gli utenti che vedranno il murale) saranno principalmente i figli e le famiglie dei detenuti, i quali passano molto tempo di fronte a quel muro nell’attesa di poter entrare nel carcere per le visite. Un desiderio comune è quindi stato quello di non rattristare maggiormente le famiglie, che già subiscono un forte disagio per via dei familiari in stato d’arresto. Pertanto, hanno espresso la volontà che il murale fosse molto colorato e avesse un look adeguato ai bambini. Durante questi momenti di scambio, un detenuto con più di 40 anni di carcere sulle spalle ci ha deliziato regalandoci una sua poesia, scritta appositamente come ringraziamento per gli incontri fatti. La poesia riportava queste parole: “La libertà è un miraggio”. Alla fine, si è deciso di rappresentare un “‘uomo di muro’ (di mattoni e cemento) che si toglie i mattoni di dosso e li trasforma in assi di legno, per poi usarle nella costruzione di una nave ed iniziare un nuovo viaggio”: l’idea è che la parola ‘detenzione’ muti progressivamente in quella, distante solo due consonanti, di ‘redenzione’. Questo il viaggio della nave, questo il viaggio che i detenuti vogliono intraprendere: e la Costituzione della Repubblica è dalla loro parte, non da quella dei capi politici che delle carceri predicano di buttar via le chiavi. L’incontro inaugurale si terrà nel Giardino degli Incontri di Sollicciano, l’ultimo capolavoro architettonico, urbanistico e politico di Giovanni Michelucci: che giudicava quell’opera, nata da uno straordinario processo di partecipazione con i detenuti e le loro famiglie, “tra le più belle e significative” della sua vita. L’architetto sapeva che sarebbero stati “soprattutto i bambini, oltre le nostre intenzioni, che scopriranno il senso dello spazio e i tanti loro modi di poterlo usare”: ed è questo filo di futuro, questo “miraggio di libertà”, a tenere insieme il progetto michelucciano e questo nuovo intervento artistico che contesta l’impermeabilità di quel terribile muro di ferro e fuoco. C’è da sperare che Firenze si accorga di quel che succede su quel muro. Perché è da lì che può venirle aiuto, intelligenza, senso della giustizia: non sono i cittadini a soccorrere i carcerati, sono invece questi ultimi che possono rompere l’assedio che i fiorentini hanno posto a se stessi, dimenticando cosa sia una città. Mentre si progettano cancellate per chiudere piazze e chiese, mentre ordinanze del sindaco vietano di sostare in parti importanti dello spazio pubblico monumentale, mentre la “bellezza” di Firenze è sempre più disumana e mercificata, è proprio dai margini e dai marginali che potrebbe venire quella parola di liberazione che rompa l’incantesimo di una città senza più anima. Lecce. L’Unisalento entra in carcere: il diritto allo studio è anche per i detenuti di Lorenzo Casto leccenews24.it, 12 luglio 2021 È stata sottoscritta, nella sede del Rettorato dell’Università del Salento, una convezione per il diritto agli studi universitari per i detenuti in carcere. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria insieme con il Provveditorato Regionale della Puglia e Basilicata (PRAP) e le Università pugliesi siglano così un atto con il quale i vari Atenei regionali aderiscono alla CNUPP, Conferenza Nazionale Universitaria dei Poli Penitenziari, istituita dalla CRUI Conferenza dei Rettori delle Università Italiane. Il polo didattico universitario penitenziario: il progetto CNUPP - “Le istituzioni firmatarie si impegnano a individuare aree di intervento mirate a favorire lo sviluppo culturale e la formazione universitaria per sostenere i detenuti negli istituti penitenziari della Puglia” annunciano i firmatari dell’iniziativa. L’obiettivo primario è quello di favorire un migliore e più efficace reinserimento dei reclusi. L’iniziativa vuole poter giungere alla costituzione di un “Polo didattico universitario penitenziario Appulo-Lucano”, quale sistema integrato di coordinamento delle attività che sono volte a consentire ai detenuti e agli internati degli istituti penitenziari interessati il conseguimento di titoli di studio di livello universitario. Firmatari della convenzione e del progetto, nella sede del Rettorato leccese, sono stati il Provveditore Regionale Giuseppe Martone e il Rettore dell’Università del Salento Fabio Pollice, insieme alla presenza del Rettore dell’Università degli Studi di Bari “Aldo Moro”, Stefano Bronzini, il Rettore del Politecnico di Bari Francesco Cupertino, quello dell’Università LUM “Giuseppe De Gennaro”, Antonello Garzoni e per l’Università di Foggia Pierpaolo Limone, la delegata professoressa Anna Maria Campanale. “Lo stop ai brevetti: una sola ricetta per tutto il mondo” di Lucia Capuzzi Avvenire, 12 luglio 2021 L’appello del Nobel Joseph Stiglitz ai Grandi: è il modo più efficace per aumentare la produzione di vaccini. “Ma a Big Pharma non conviene”. “Non è il tempo di perdersi in dibattiti. È un lusso che il mondo non può permettersi. È il tempo di agire”. La voce di Joseph Stiglitz risuona da una sponda all’altra dell’Atlantico con l’usuale chiarezza. Economista tra i più noti, saggista, studioso in prima linea nella lotta alle diseguaglianze, il Nobel è stato tra i 170 esponenti del mondo della politica, dell’accademia e della cultura a chiedere al presidente Usa Joe Biden di dar seguito all’annuncio e sostenere, di fronte all’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto), la proposta di India e Sudafrica per la sospensione dei brevetti sui vaccini anti-Covid. A coordinare l’iniziativa della lettera aperta - presentata in vista delle ultime riunioni della Wto - è stata la People’s Vaccine Alliance che vede Oxfam e Emergency impegnate nella battaglia per l’accesso universale ai farmaci, accanto a oltre 50 organizzazione internazionali. Con Avvenire, ora, il professor Stiglitz rinnova l’appello e lo rivolge non solo alla Casa Bianca bensì ai principali leader del pianeta, finora riluttanti a entrare in conflitto con gli interessi di Big Pharma, nonostante le autorevoli petizioni. Inclusa quella di papa Francesco. “È urgente fare il possibile per aumentare l’offerta di vaccini, medicinali e dispositivi per far fronte alla pandemia. E garantirne la disponibilità alla maggior parte della popolazione, inclusa quella dei Paesi poveri - afferma il Nobel -. Ciò implica, ovviamente, il finanziamento dell’alleanza solidale Covax. Ma soprattutto richiede lo stop temporaneo dei brevetti. Se la Wto l’avesse fatto quando Pretoria e New Delhi l’hanno proposto la prima volta, la quantità di prodotti anti-Covid sarebbe maggiore. Forse molto maggiore”. Professor Stiglitz, non ci sono modi più soft per incrementare l’offerta di vaccini? Siamo di fronte a una carenza globale di approvvigionamento. In una simile congiuntura, questi vengono accaparrati in modo sproporzionato dai Paesi ricchi, dove si concentra la produzione. Progetti internazionali come Covax aiutano a correggere gli squilibri. Non sono, tuttavia, sufficienti. Il primo e cruciale passo da compiere - per quanto non l’unico - è sospendere i brevetti. Senza questo è difficile ipotizzare una risposta adeguata e tempestiva alla pandemia. Perché tanta resistenza? Avere un’ampia offerta, tale da soddisfare la domanda globale, non è nell’interesse delle case farmaceutiche. Alcune di queste hanno già le stime dei profitti dalla vendita dei vaccini: per realizzarli, l’offerta deve continuare ad essere limitata. Un’economia di mercato resiliente è perfettamente in grado di rispondere a un aumento di richiesta con un pari incremento della produzione. Sono le barriere legali artificiali - i diritti di proprietà intellettuale - ad impedire che si verifichi. Al posto del congelamento dei brevetti, alcuni propongono le cosiddette “licenze volontarie”: liberi accordi tra le detentrici dei marchi e case farmaceutiche del Sud del pianeta a cui viene affidato di fabbricare, previo pagamento dei diritti, i vaccini. È un’alternativa valida? Se la sospensione dei brevetti richiede un processo lungo e complesso, gli accordi per le licenze volontarie sono perfino più lenti. Le compagnie farmaceutiche, inoltre, hanno mostrato scarso interesse a realizzarli. Comprensibile dato che puntano a massimizzare i profitti e questo presuppone un’offerta ridotta di vaccini. Non c’è altra spiegazione delle poche licenze volontarie concesse finora, nonostante l’urgenza e l’alto numero di aziende disponibili e in grado di produrli. Come alto numero? L’industria farmaceutica ripete che, anche se i brevetti fossero sospesi, quasi nessuna realtà del Sud del pianeta potrebbe creare farmaci anti-Covid... Non è vero. India e Sudafrica, solo per fare gli esempi più eclatanti, ne realizzano già tanti. Ci sono, poi, una miriade di aziende in grado e disposte a svolgere ruoli importanti nella catena di approvvigionamento globale. Ce ne sarebbero ancora di più, poi, se le grandi case farmaceutiche fossero disposte a trasferire tecnologia. Di nuovo, Big Pharma sostiene che in questo modo si infliggerebbe un colpo mortale alla ricerca e all’innovazione... Di nuovo, è falso. La sospensione dei brevetti, in primo luogo, non muta il regime giuridico: è un’opzione contemplata dal trattato istitutivo della Wto in casi di particolare gravità. I titolari dei brevetti ricevono, inoltre, un risarcimento, solo non a tasso di monopolio. La maggior parte delle ricerche da cui sono nati i vaccini, infine, sono state finanziate dai governi e condotte in gran parte dalle università. Dato il forte sostegno pubblico, l’interesse pubblico dev’essere prioritario. Le scoperte scientifiche dipendono dagli scienziati e questi lo hanno detto con chiarezza: i brevetti vanno sospesi. Quanto ci costa non farlo? Letteralmente migliaia di miliardi di dollari. Lo stop dei brevetti è il tipico caso in cui il calcolo costi-benefici è facile: Big Pharma perderebbe qualche miliardo, l’economia mondiale ne risparmierebbe centinaia, migliaia, forse decine di migliaia. Non c’è nessuna ragione per temere la legge Zan di Vitalba Azzollini Il Domani, 12 luglio 2021 Il 13 luglio comincerà la discussione del disegno di legge Zan (ddl Zan) in aula al Senato. Un esame dei profili più controversi del testo mostra che forse essi sono meno critici di quanto qualcuno dice. Identità di genere. Una delle obiezioni al ddl Zan riguarda il concetto di identità di genere, perché esso sarebbe estraneo all’ordinamento, e comunque non sufficientemente chiaro. Le cose stanno diversamente. L’espressione è presente nella Direttiva sull’attribuzione della qualifica di rifugiato, che richiama l’identità di genere tra i motivi di persecuzione. Se ne trova poi menzione nella Direttiva in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, ove si considera la violenza contro una persona a causa, tra l’altro, della sua identità di genere. “Identità di genere” è presente anche nella Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica (la Convenzione di Istanbul del 2011). Inoltre, nell’ordinamento penitenziario si enuncia il divieto di discriminazioni “in ordine a sesso, identità di genere, orientamento sessuale (...)”. E l’espressione è presente nelle leggi antidiscriminatorie di molte regioni (come quelle di Piemonte, Marche, Liguria, Toscana). Quanto alla giurisprudenza, sin dal 1985 la Consulta ha riconosciuto un “concetto di identità sessuale nuovo e diverso rispetto al passato”, in base a cui acquistano rilievo l’insieme di fattori psicologici e sociali che contribuiscono a determinare una “concezione del sesso come dato complesso della personalità”. Nel 2015 la Corte ha parlato di “aspetti psicologici, comportamentali e fisici che concorrono a comporre l’identità di genere”, come espressione del diritto all’identità personale e strumento per la realizzazione del diritto alla salute psicofisica. Il diritto all’identità di genere - “elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona” - è stato ribadito dalla Consulta nel 2017, come “aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente percepito e vissuto”. Insomma, la definizione adottata dal ddl Zan. Va anche rilevato che le espressioni “orientamento sessuale” e “identità di genere” sono spesso presenti congiuntamente in discipline di altri paesi analoghe al ddl Zan. Se tali espressioni fossero sostituite da “omofobia e transfobia” (proposta Scalfarotto), andrebbero comunque definite, sulla falsariga di quel che avviene nell’aricolo 1 del ddl Zan, per la determinatezza della fattispecie penale; e comunque lascerebbero prive di tutela persone che non abbiano concluso la transizione di genere, nonché persone oggetto di atti lesivi per la loro eterosessualità, con relativi dubbi di costituzionalità. Forse, tuttavia, avrebbe necessitato di essere delineata specificamente la condotta di discriminazione, come in Francia, ove essa è prevista quale autonoma figura di reato. Il ddl Zan è oggetto di obiezioni poiché fa salva la libertà di espressione purché essa non si traduca in condotte “idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori e violenti”. Innanzitutto, la libertà di espressione non è assoluta. La Consulta ha più volte affermato che essa incontra limiti nella tutela di valori di pari rango, dalla dignità umana all’identità personale, dalla reputazione alla libertà personale, inclusa quella morale e sessuale. La norma citata potrebbe essere ritenuta pleonastica - la libertà di espressione è tutelata dalla Costituzione - come altre vigenti che richiamano principi costituzionali, ma appare del tutto “innocua”. Peraltro, clausole di protezione della liberta? d’espressione (free speech) sono presenti in normative analoghe al Ddl Zan di paesi anglosassoni. Si è detto che il ddl Zan limiterebbe, mediante la previsione di sanzioni, la manifestazione di idee contrarie, ad esempio, a matrimonio egualitario, adozioni per coppie omosessuali e così via. Anche questo non è vero. La propaganda di idee - sanzionata se esse sono “fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico” - non viene estesa dal ddl Zan a sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità. Tantomeno, ai sensi di tale legge, potrebbe essere punita la mera manifestazione di idee, che sta a un livello inferiore alla propaganda. Quindi, chi esprima convinzioni personali, dettate dalla propria morale, religione o altro, o faccia in qualunque modo propaganda delle stesse non commette reato. Inoltre, come affermato dalla Consulta, rientra nella libera espressione “la critica della legislazione e della giurisprudenza” nonché l’attività “diretta a promuovere l’abrogazione di qualsiasi norma”. Restano al di fuori del perimetro di tale libertà le condotte costituenti violenza, istigazione alla violenza o partecipazione ad associazioni che abbiano come fine la violenza per le cause indicate dal disegno di legge. È stata criticata la parte della norma che “fa salve” le “condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla liberta? delle scelte”. Il richiamo alla “legittimità” non è stato compreso da taluni. Esso serve a chiarire che la norma stessa non introduce scriminanti, non “salva” condotte non legittime, sanzionate per altri versi dall’ordinamento, cioè non restringe in alcun modo l’area di illiceità derivante da norme diverse, in ambito penale o civile. “Reati di opinione” - Dunque, l’espressione di avversione per omosessuali, transessuali ecc. e i loro diritti, anche con proteste e manifestazioni, non è penalmente rilevante. Il ddl Zan chiede che vi sia un “pericolo concreto” dell’attuazione di condotte violente o discriminatorie, cioè un’idoneità delle parole a essere concretamente recepite e tradotte in azioni lesive. In altri termini, non basta l’idoneità in astratto di un discorso istigatorio: il giudice deve verificare le condizioni reali in base alle quali si possa reputare che l’istigazione abbia avuto di fatto la possibilità di essere accolta e, quindi, l’atto violento o discriminatorio abbia corso il pericolo effettivo di essere compiuto. Pertanto, il ddl Zan non introduce “reati di opinione”, essendo necessari la verifica e l’accertamento di precise condizioni perché la manifestazione di idee possa reputarsi lesiva. Si consideri, peraltro, che i reati “di pericolo” - nello specifico, di pericolo concreto, da tenere distinti dai reati di pericolo astratto - non rappresentano una novità nel nostro ordinamento: sono tali, tra gli altri, i delitti di istigazione (e apologia) presenti da sempre nella legislazione, a cominciare dalla figura generale di cui al codice penale. La Giornata nazionale - Secondo alcuni, la Giornata nazionale per promuovere “la cultura del rispetto e dell’inclusione nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere” limiterebbe la libertà delle scuole. Ma il ddl Zan prevede lo svolgimento delle attività della “Giornata” solo ove ciò sia conforme al “piano triennale” e al “patto educativo”, strumenti di esercizio dell’autonomia scolastica, in attuazione del principio della libertà di insegnamento. Peraltro, pur “celebrando” la giornata, le scuole non sarebbero comunque obbligate a “celebrare” certi modi di essere e sentirsi. Esse potrebbero anche manifestare opinioni in senso critico alla normativa - resta salva la libertà di espressione, come detto - ma sempre con l’obiettivo del rispetto e dell’inclusione, nonché del contrasto a pregiudizi, discriminazioni e violenze: canoni di civiltà, a prescindere da una giornata dedicata. Migranti. Quegli invisibili sotto i nostri occhi di Giusi Fasano Corriere della Sera, 12 luglio 2021 Migliaia di persone costrette a lavorare nei campi dall’alba al tramonto, senza diritti e senza dignità, per garantire frutta e ortaggi freschi sulle nostre tavole. La verità è che queste storie ci scivolano addosso. Acqua sull’impermeabile. Eppure si ripetono ogni estate da anni e anni. Migliaia di persone a lavorare nei campi dall’alba al tramonto, senza diritti e senza dignità, per garantire frutta e ortaggi freschi sulle nostre tavole. “Le scimmie”, così li chiamavano i caporali di un’organizzazione criminale smantellata in Calabria l’anno scorso. Migranti, spesso irregolari, alla disperata ricerca di un lavoro che alle stesse condizioni nessun italiano avrebbe accettato. “Domani mattina là ci vogliono le scimmie” si dicevano fra loro al telefono uomini poi arrestati. “Va bene, le scimmie le mandiamo là e qui restano 40 persone”. La differenza era chiara: persone, cioè braccianti non stranieri. “Le scimmie”, invece, “vogliono acqua. Gli diamo quella del canale...”. Ogni stagione calda porta indagini e arresti ma non c’è inchiesta che diventi deterrente e così siamo punto e a capo tutti gli anni. L’ultima notizia è di due giorni fa, da Crotone: un commerciante di frutta arrestato per aver reclutato e sfruttato manodopera sapendo bene che gli uomini ai quali la offriva avrebbero accettato ogni cosa pur di avere qualche soldo in tasca. I carabinieri scrivono “retribuzioni sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”. Più che sproporzionate “misere” sarebbe stata la parola giusta. Pochi euro per giornate con la schiena piegata, anche fino a 14 ore, nella calura delle campagne assolate. Ovviamente senza garanzie di sicurezza né igiene. E la maglia nera non è di una sola regione. Succede anche in Puglia, in Sicilia, in Campania... Poche settimane fa, per dire, la Procura di Foggia ha deciso l’arresto di sei imprenditori agricoli - che sfruttavano il lavoro di 150 poveracci - e del cittadino senegalese che li aveva reclutati. Niente pausa, acqua presa da un pozzo non potabile, paga da 4,50 euro per ogni cassone riempito di ortaggi e 50 centesimi di riduzione per ogni cassa sistemata male sul camion o per ogni pomodoro sporco. Schiavi. Gente invisibile non perché non si veda ma perché voltiamo in fretta lo sguardo se ci capita davanti agli occhi. Ci commuove Camara, 27 anni, venuto dal Mali e morto in Puglia di un malore dopo un giorno di lavoro a quasi 40 gradi e 6 euro l’ora. Ma anche la sua storia ci scivola addosso. Acqua sull’impermeabile di un’indifferenza diffusa. Libia, impegni disattesi e condotte inaccettabili di Paolo Mieli Corriere della Sera, 12 luglio 2021 In Parlamento (e nel Pd) molti ritengono che non dovrebbe essere rinnovato il contratto e andrebbero sospesi i finanziamenti alla guardia costiera nordafricana. Il procuratore di Agrigento Luigi Patronaggio ha chiesto alla ministra della Giustizia Marta Cartabia l’autorizzazione ad aprire un fascicolo contro gli uomini armati della cosiddetta Guardia costiera libica che il 30 giugno, con la motovedetta Ras Jadir, hanno aperto il fuoco contro un barcone di migranti che poi hanno cercato di speronare (fortunatamente senza successo). La documentazione di questo misfatto è in un filmato girato dall’aereo Seabird della Sea Watch nonché nei tracciati aerei e navali accuratamente elaborati dal giornalista di “Radio radicale” Sergio Scandura. Filmati (oltre cinque minuti) e documentazione di Scandura sono a tal punto probanti che persino il governo di Tripoli si è visto costretto a riconoscere che quel giorno qualcosa non andò per il verso giusto. Il nostro ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha seccamente condannato come “inaccettabile” il comportamento dei libici. Il procuratore Patronaggio ipotizza che si possa addirittura configurare il reato di “tentata strage”. Massimiliano Iervolino, Giulia Crivellini e Igor Boni, segretario, tesoriera e presidente dei Radicali italiani hanno pubblicamente auspicato che le immagini prodotte dalla ong e l’elaborato del giornalista della loro radio facciano aprire gli occhi a tutti i nostri connazionali sulle malefatte di quei supposti guardiani delle coste libiche. I parlamentari di Leu Nicola Fratoianni (segretario di Sinistra italiana) ed Erasmo Palazzotto hanno chiesto che il governo Draghi sospenda i finanziamenti a quella sospetta guardia marittima composta da personaggi di incerta provenienza. L’occasione per la cancellazione dei sussidi italiani ai guardiani delle coste tripoline (la motovedetta Ras Jadir fu un dono del governo guidato da Paolo Gentiloni) potrebbe essere fornita dalla discussione che questa settimana verrà affrontata nelle commissioni Esteri e Difesa della Camera. Esame che avrà come oggetto proprio il rinnovo del “contratto” con i libici stipulato ai tempi dell’esecutivo Gentiloni e rinnovato con i due governi presieduti da Giuseppe Conte. Un contratto fin dall’inizio criticato da Emma Bonino, Matteo Orfini (Pd), da Fratoianni, dai quotidiani “Avvenire” e “Manifesto”. Bonino, Fratoianni e Orfini, assieme a pochissimi altri parlamentari, intellettuali e giornalisti, sono rimasti a lungo isolati nella loro battaglia. Fino al 25 febbraio 2020 quando l’assemblea nazionale del Pd votò all’unanimità una mozione in cui si sosteneva che “la Guardia costiera libica non esiste”, ciò che “è dimostrato da numerose inchieste giornalistiche e dai report delle Nazioni Unite” da cui si capisce “come in realtà si tratti di milizie armate sovente in lotta tra loro e molto spesso coinvolte in prima persona nel traffico di migranti e nella gestione dei lager”. Ragion per cui non meritavano di ricever più neanche un euro dalle finanze italiane. Poi però, come talvolta accade per le decisioni di quel partito, il deliberato rimase lettera morta e tutto procedette come prima (nonostante il Pd avesse un ruolo assai rilevante nel secondo governo presieduto da Conte). Colpa di una distrazione provocata dal Covid, forse. Per una coincidenza, però, nel giorno in cui si era pronunciato unanime con quella mozione, il Pd aveva anche eletto a presidente Valentina Cuppi, sindaca di Marzabotto. Anche questa votazione era avvenuta all’unanimità. Parve un bel colpo di immagine portare una giovane donna alla testa di un partito assai sensibile - nei documenti e nelle dichiarazioni ufficiali - al tema della promozione di figure femminili. Senonché Cuppi - rimasta presidente dopo il passaggio da Nicola Zingaretti ad Entico Letta - non si è mai accontentata di rivestire un ruolo per così dire ornamentale. E nei giorni scorsi - prima dell’aggressione di cui, Cartabia consentendo, si occuperà Patronaggio - ha rilasciato a Daniela Preziosi una clamorosa intervista. Nel colloquio con la giornalista del “Domani”, Cuppi - forse memore della coincidenza tra la sua elezione e quel voto contro gli aiuti economici alla Guardia costiera tripolina - esortava il proprio partito ad uscire dal vago e a votare no, adesso, a quel genere di finanziamenti alla Libia. Un no secco. Bilanciato dall’erogazione della stessa somma di denaro per sovvenzionare lo sminamento di alcuni quartieri di Tripoli, il potenziamento dell’ospedale di Misurata e per chiunque in terra libica fosse impegnato in attività benefiche compiute nel rispetto dei diritti umani. All’interno del partito le dichiarazioni di Cuppi sono cadute purtroppo nel vuoto. Ci sono moltissime giustificazioni a tale sordità dal momento che è sotto gli occhi di tutti l’impegno del Pd a favore del ddl Zan, della riforma della giustizia, del rinnovo delle cariche Rai e delle infinite conseguenze politiche generate dalle questioni suddette. Ma forse per il partito di Letta è giunto il momento di prestare attenzione, oltre che agli innumerevoli problemi del momento, anche a quel che ha dichiarato Valentina Cuppi. E di dire con chiarezza se e come intende onorare l’impegno preso solennemente un anno e mezzo fa. Arabia Saudita. “Donne attiviste per i diritti torturate nelle carceri”: la denuncia di Hrw Il Messaggero, 12 luglio 2021 Scariche elettriche, frustate, pestaggi e violenze sessuali, carceri “segrete”: un nuovo rapporto di Human Rights Watch (Hrw), basato sulla testimonianza di alcune fra le stesse guardie carcerarie, alza un velo inquietante sulle prigioni femminili in Arabia saudita e sul trattamento riservato nel 2018, in particolare a detenute di rango elevato: per lo più avvocati e attiviste dei diritti umani e delle donne. Fra le persone ad aver subito abusi e torture figurano, secondo Hrw, anche la nota avvocata per i diritti delle donne Loujain al-Hathloul, e l’attivista (uomo) Mohammed al-Rabea. Il rapporto, spiega Hrw, è basato su alcuni messaggi di testo inviati da secondini testimoni di questi trattamenti, che insieme ad alcune testimonianze, formano un mosaico piuttosto sinistro: “Nuove prove che indicano l’uso di torture brutali su donne che difendono i diritti delle donne e altri detenuti di alto profilo mettono ancora più a nudo il disprezzo saudita per lo stato di diritto e il fallimento di qualunque credibile tentativo di indagare su queste accuse”, dichiara in una nota Michael Page, vicedirettore dell’Ong umanitaria per il Medio Oriente e il Nord Africa. “Lasciare che chi compie abusi la passi sempre liscia significa mandare loro il messaggio che possono torturare impunemente senza dover mai rispondere di questi crimini”, ha aggiunto Page. Le testimonianze riportate da Hrw si riferiscono in particolare al carcere di Dhabhan, a nord di Gedda, e a un’altra prigione definita “segreta”.