Un’altra giustizia oltre il carcere di Francesco Occhetta L’Espresso, 11 luglio 2021 Il 69% di recidivi indica il fallimento della rieducazione; i lunghi tempi delle sentenze non placano la violenza tra le parti e il dolore delle vittime rimane fuori dal processo. La violenza di Santa Maria Capua Vetere dimostra che dall’albero che affonda le sue radici nella volontà di ripagare il male con altro male possono nascere solo frutti velenosi. I fatti sono noti. In piccolo, nella Casa circondariale Santa Maria Capua Vetere, è esploso il sistema giudiziario, come capita a una pentola a pressione quando si guasta la valvola di sicurezza. Una violenza sedimentata e incontrollata, icona di una regressione collettiva e di un sistema che rende vittime (ingiustificabili) anche gli stessi agenti carnefici. Eppure anche il giustizialista Voltaire aveva ammesso che il grado di civiltà di un Paese si misura dalla qualità delle sue carceri. Nessuno si stupisca. Da un albero di giustizia che affonda le sue radici nella vendetta e nella volontà di ripagare il male con altro male, possono nascere solo frutti velenosi. Quel drammatico video che documenta la violenza ne è solo un esempio. Le carceri sono spazi in cui si vive del passato, il presente è mediato dal rumore della chiave che apre le porte blindate, dalle luci al neon, dall’aria irrespirabile, dall’odore dei pasti, dall’ora d’aria. Entrare in un carcere è come scendere in una catacomba dove persone e storie sono allontanate dalla vista per rimuoverle dall’inconscio sociale. È per questo che Bauman definiva le carceri “discariche sociali”. Ma ciò che nascondiamo rivela sempre ciò che siamo, una società di relazioni fratturate che coinvolge le procure, l’amministrazione carceraria, gli operatori, gli avvocati, i volontari e l’intera classe politica. Rimane una via sola da percorrere: capovolgere la giustizia. L’attuale modello è una strada senza uscita: come è possibile garantire la certezza della pena insieme alla certezza della rieducazione in questo tempo? Bastano tre dati per riconoscere il fallimento del sistema: l’alto tasso di recidivi (circa i169 per cento) che indica il fallimento della rieducazione; i lunghi tempi delle sentenze che non placano la violenza tra le parti; l’assenza delle vittime con il loro dolore per dare valore costituzionale alla giustizia processuale ed extra-processuale. Le riforme della giustizia in atto, condizione per ricevere gli investimenti del Pnrr, sono segnate da incontri e scontri, interessi politici e paradossi legati alle correnti della Magistratura. Invece è proprio della giustizia ripartire da una antropologia condivisa che curi le relazioni rotte per (ri)costruire una civiltà giuridica. Il modello vigente di “giustizia retributiva”, che dovrebbe garantire certezza e proporzionalità della pena, ha portato a difendersi dal processo e non nel processo. È giunto il momento di creare un punto di ripristino del sistema a partire da una nuova amnistia, condizione per introdurre un nuovo paradigma culturale, quello della giustizia riparativa, che ponga al centro dell’ordinamento la ricostruzione della verità, il dolore della vittima, la riparazione del reo, la responsabilità della società, l’espiazione come ricostruzione della dignità del detenuto e l’incentivo delle misure extracarcerarie per superare “il carcerecentrismo”. L’alternativa altrimenti è perpetrare il modello di cui tutti si indignano, almeno teoricamente. La giustizia va costruita, è una scelta culturale: scuola, famiglie, religioni, società civile sono decisive per capovolgere il modello vigente e investire nella cultura e nelle pratiche della riparazione. L’attuale ministra della Giustizia, Marta Cartabia, è tra le più autorevoli sostenitrici del modello. Sulle sue spalle, fatte di roccia giuridica, si sta scaricando il peso storico del momento anche se il peso della solitudine e dei forti interessi corporativi potrebbero sgretolargliele. Ma questo non è più il tempo dei burocrati per i quali la giustizia è solo amministrazione, abbiamo bisogno di statisti che amino e servano la giustizia come visione e ideale, sogno e ricomposizione di ciò che si è spezzato. La giustizia biblica lo insegna: ogni volta che il sangue sporca la terra è compito di tutti bonificarla, altrimenti i frutti non cresceranno più per nessuno. Un mondo a parte da chiudere, la Cartabia apra un dibattito di Paolo Aquilanti L’Espresso, 11 luglio 2021 I fatti accaduti a Santa Maria Capua Vetere rivelano un mondo a parte, oggi visibile ai più ma noto da sempre a chi se ne occupa. Il carcere è l’istituzione più anacronistica, relitto di tempi che fuori di esso hanno lasciato il posto a una realtà diversa in ogni aspetto. Lì dentro, invece, si perpetua la soluzione meno adeguata al suo stesso scopo, un rimedio brutale, rozzo. La privazione fisica della libertà personale, l’inibizione degli affetti e delle normali attività vitali, in un luogo senza legge comune, di esclusione e di sopraffazione. Un mondo che rispecchia e aggrava le diseguaglianze di censo, non rieduca affatto, mortifica senza redimere, alimenta il crimine. Il carcere lava la coscienza dei benpensanti, li solleva dalla responsabilità di immaginare metodi evoluti, che sarebbero più umani e anche più efficaci. Potrebbe rimanere come deterrente estremo, residuale, per i casi di fallimento delle pene alternative, di comunità, riparatrici. Oltre che per segregare i criminali pericolosi all’incolumità altrui e per scongiurare la vendetta privata. Invece è ancora usato per ogni tipo di reato, variabile solo in misura del tempo, tanti anni, mesi, giorni. Possibile che nel terzo decennio del XXI secolo la sua riduzione al minimo necessario come pena ordinaria sia ancora un tabù? Il codice Rocco, intatto nel suo impianto fondamentale, nella concezione autoritaria che esprime, sembra protetto da un riflesso condizionato di paura e ignavia. La discussione pubblica sul sistema penitenziario è ostaggio di chi brandisce la legge penale e la reclusione anche senza condanna definitiva come un randello contro la corruzione e i comportamenti antisociali. E di chi ne abusa come proposta indolente per risolvere questioni importanti: a ogni nuovo interesse da tutelare, diritto da difendere, progetti di legge con declamazioni a mo’ di gride spagnolesche, pronunciamenti indignati e requisitorie da tastiera che preludono a invocazioni di ceppi e sbarre. Il moralismo intransigente e a buon mercato si compiace di reclamare anni di detenzione, se possibile senza fine, e di lamentare le scarcerazioni seppure previste dalle norme e disposte dai giudici. Anche una parte della sinistra politica ha inseguito, imitato e sopravanzato la cultura repressiva più tradizionale in una innaturale vocazione legge e ordine portata in qualche caso, per racimolare consensi precari, alla sciagurata tolleranza zero. Quindi, irretita dalla suggestione di ascendenza giacobina per l’equazione tra lotta politica e gattabuia per gli avversari e immemore, invece, del ramo di famiglia libertario, ha persino evocato riscosse politiche in forma di processi penali e di auspicate condanne. Così da interpretare una singolare transizione storica: dapprima allarmati per il tintinnar di sciabole e poi sedotti dal tintinnar di manette. E così da nutrire opinioni comuni e infine movimenti politici animati dall’estremismo penale. Chi ricorda i girotondi intorno ai palazzi di giustizia, solidali senza riserve con le inchieste delle procure e dunque con i loro possibili esiti detentivi? Si sono mai interrogati i pensosi e giocondi esponenti del ceto medio riflessivo su cosa succede ogni giorno in carcere? Uomini e donne chiusi a chiave in spazi tanto angusti che neanche per le bestie, violenze tra loro e su di loro, legami primordiali ridotti a colloqui sorvegliati e senza contatto fisico, abusi e angherie di ogni sorta. Molti, invece, da tempo si adoperano per portare lì dentro umanità, civiltà e diritto: associazioni di volontariato e di promozione culturale, Garanti dei diritti dei detenuti, alcuni uomini di governo più consapevoli - Franco Corleone, Luigi Manconi, Gennaro Migliore - direttori degli istituti di pena, operatori delle carceri, anche agenti di polizia penitenziaria, magistrati di sorveglianza. Al contempo, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha censurato gli aspetti più gravi della segregazione che umiliano oltre ogni necessità, a causa del sovraffollamento carcerario. E anche il diritto italiano è progredito nel ridurre la distanza dalla Costituzione: la legge Gozzini, ormai pluridecennale, è ancora un esempio, il giudice delle leggi ha fatto la sua parte, da ultimo sull’aberrante ergastolo ostativo. Eppure è il momento di considerare con razionalità anche l’abolizione del carcere come pena ordinaria, di seguire e sviluppare il pensiero di chi ha ragionato sulla giustizia riparativa, tra gli altri Francesco Occhetta, Gherardo Colombo, la stessa Marta Cartabia. Fondare il riscatto dal delitto sulla riparazione del torto inflitto alle persone e alla società e sulla riconciliazione con le vittime del reato darebbe più risultati del carcere, con minori costi. Signora ministra, lei ha l’autorevolezza e la cultura per poter aprire una discussione senza pregiudizi. “Giustizia non è vendetta. Carcere solo se indispensabile” di Alessandro Nidi ilsussidiario.net, 11 luglio 2021 Gherardo Colombo, ex magistrato, ha commentato la riforma Cartabia in materia di Giustizia: “Eliminerà i processi a vita”. Gherardo Colombo, ex magistrato e pm di Mani Pulite e del delitto Ambrosoli, ha rilasciato in queste ore un’intervista all’Huffington Post nella quale esprime il proprio giudizio sulla riforma della Giustizia dopo la sua approvazione in Consiglio dei Ministri. Secondo l’esperto, la mediazione individuata sulla prescrizione rappresenta una soluzione in grado di eliminare la possibilità che si possa rimanere sotto processo a vita; infatti, “gli effetti consistono nel proscioglimento dell’imputato, se la durata del processo in grado d’appello o in Cassazione supera i termini di improcedibilità stabiliti dall’articolo 14 bis del provvedimento”. Tuttavia, l’ex ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, sostiene che con questo meccanismo si paleseranno numerosi casi di impunità, ma, a detta di Colombo tutto dipenderà da come il sistema processuale risponderà alle altre modifiche introdotte dalla legge delega in tema di impugnazioni, di facilitazioni a soluzioni alternative a quella che passa attraverso il dibattimento, ai rimedi tendenti ad evitare che si vada a processo anche quando gli elementi di prova sono insufficienti per ottenere la condanna. “Il nodo, a mio parere, sta da un’altra parte ed è, per certi versi, filosofico: si tratta di scegliere tra il rischio di tenere sotto processo a vita una persona innocente e il rischio che un colpevole possa non essere condannato”. L’ex magistrato Gherardo Colombo, ai microfoni dell’Huffington Post, ha poi sottolineato come “giustizia” non sia sinonimo di “vendetta” e che non è sicuro che l’esigenza di giustizia della vittima consista nella condanna del responsabile, magari addirittura dopo che la vittima ha smesso di soffrire per il male subìto: “Vorrebbe dire che le migliaia di anni trascorse dal codice di Hammurabi, che aveva introdotto la regola ‘occhio per occhio, dente per dente’, sono trascorse invano”, ha commentato. A detta di Colombo, la visione della pena come strumento per far soffrire non serve a nulla e il carcere è “criminogeno, piuttosto che rieducativo”. Successivamente, ha citato la Costituzione che, all’articolo 27, stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. “La frase ci dice più cose - ha evidenziato: parlando di ‘pene’ e non di ‘pena’ stabilisce che debbano esistere non solo la pena per antonomasia, quella del carcere, ma anche altri tipi di pena, come le sanzioni alternative, che sono applicate già ora e che riabilitano a rientrare nella comunità molto più del carcere. Se vogliamo sicurezza, dobbiamo garantire la dignità di tutti, ricorrendo al carcere soltanto quando è assolutamente indispensabile per tutelare i diritti fondamentali dei cittadini”. Riforma giustizia, toghe convinte a metà di Liana Milella La Repubblica, 11 luglio 2021 Magistratura democratica: “Serve l’amnistia per i piccoli reati”. Il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: “Non vorremmo che si mandassero al macero un gran numero di processi”. Non la pensano come Davigo. Per loro la riforma Cartabia non sarà un’amnistia. Ma tra le toghe rosse, riunite a congresso a Firenze, c’è chi pensa che solo una vera amnistia per i piccoli reati sgombrerebbe le corti d’Appello, specie la dozzina più intasata, ed eviterebbe un regalo ai colletti bianchi corrotti. Ma non è una platea anti-Cartabia quella di Magistratura democratica. Tutt’altro. Lei ha dato forfait solo per via dei suoi impegni. Sulla sua riforma si raccolgono ombre, ma non stroncature, e pure giudizi positivi. Nonché l’invito a osare di più, come la stretta ai ricorsi in Appello. Ma l’applausometro conta. E certo ha ricevuto consensi il giudice di Torino Andrea Natale quando ha detto che “per non far partire il nuovo processo con un fardello che rischierebbe di comprometterne l’efficacia, suggerisco di prendere in seria considerazione una parola scomparsa dal dibattito pubblico. La dico sottovoce: amnistia. Perché un’altra storia possa iniziare da qui. Per davvero”. Proprio così. Amnistia. E il segretario in pectore di Md, il pm di Reggio Calabria Stefano Musolino, dimensiona il possibile passo: “Il futuro sistema della prescrizione è ragionevole, anche se si può discutere sulla capacità di alcune corti di Appello di smaltire i processi. Un’amnistia per reati con pena edittale bassa potrebbe essere utile”. Liberarsi dei vecchi processi “aiuterebbe a rispettare i nuovi tempi e a evitare l’effetto dell’amnistia paventata da Davigo”. L’invito fa riflettere. E basta sentire a Firenze il giudizio del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia: “Non do voti alla politica, ma non vorremmo che la riforma mandasse al macero un numero elevato di processi perché gli uffici non riescono a tenere il passo. Alcune corti di Appello hanno carichi di lavoro tali da poter affrontare una riforma che impone tempi stringenti per il giudizio. Altre no, e non sono poche”. Per questo, tra le voci critiche, ecco quella di Nello Rossi, il direttore della rivista di Md Questione giustizia: “La commissione Lattanzi aveva giustamente suggerito significative limitazioni degli Appelli dei pm, delle parti civili e degli stessi imputati per ridurne il numero e accelerare i tempi dei processi. Tornare indietro sarebbe un grave errore. Corti di Appello sovraccariche stenterebbero a rispettare i termini previsti per i giudizi a pena di improcedibilità”. Ma chi, come Ezia Maccora, vice presidente aggiunta dei gip di Milano, valuta ogni giorno il lavoro dei pm, vede aspetti positivi nella riforma. Perché “ci sono passi seri per un processo penale contenuto in tempi ragionevoli”. Maccora apprezza “l’investimento sulla funzione del gup quale filtro su ciò che deve sfociare al dibattimento, l’ampliamento dei riti alternativi, su cui forse il legislatore poteva osare di più perché già oggi in alcune realtà davanti a lui si definisce fino al 70% dei procedimenti”. Ok di Maccora anche sul maggior ricorso alla messa alla prova e alla non punibilità per fatti di lieve entità, nonché sulla giustizia riparativa. Insomma “una nuova visione del processo che la cultura giuridica richiedeva da tempo”. Lo scontro sulla giustizia terremota i 5 Stelle di Emanuele Buzzi e Monica Guerzoni Corriere della Sera, 11 luglio 2021 Grillo incoraggia Di Maio, l’ira di Conte sul premier. Oggi l’assemblea degli eletti del Movimento 5 Stelle di Camera e Senato. L’ira dell’avvocato sul premier. Quel post sparato a sera da Beppe Grillo in difesa del ministro degli Esteri minacciato di morte dall’Isis, per qualche lungo minuto ha scatenato il panico nel Movimento. “Luigi Di Maio non ti preoccupare - lo ha abbracciato a distanza il fondatore. Sono meno pericolosi dei grillini più agguerriti!”. Visto il clima incandescente per lo scontro sulla giustizia, i contiani hanno temuto un altro siluro contro l’ex premier. Ma dall’entourage del comico è arrivata la rassicurazione che no, era solo “una battuta nello stile di Grillo”. La tensione resta altissima, i 5 Stelle sono al tutti contro tutti. Lo scontro tempestoso sulla prescrizione - ministri da una parte e Conte dall’altra e poi la telefonata risolutiva di Draghi a Grillo - ha complicato il lavoro dei sette “saggi”, che da giorni si confrontano in videocall per conciliare i “punti fermi” dell’aspirante leader con il ruolo un po’ ingombrante del fondatore e garante. La scissione sembrava a un passo. Finché ieri sera dal tavolo dei mediatori è arrivato un refolo di ottimismo: “C’è stata un’accelerazione e l’accordo è vicino”. Il caos che si è scatenato attorno alla riforma Cartabia della prescrizione avrebbe convinto i vertici del Movimento che non si può andare avanti senza un capo politico, con i gruppi parlamentari sbandati e attraversati dalla tentazione di uscire dalla maggioranza. L’incontro tra i notai delle due parti, in lotta sui punti più controversi del nuovo statuto, avrebbe avuto esito positivo. Di conseguenza Grillo sarebbe pronto a dare il via libera a Conte come capo politico vero e forte, purché l’ex premier accetti di essere affiancato da una segreteria di peso. Ma lo scontro sulla giustizia ha sollevato un’onda di sospetti, scatenato la base contro i vertici e infiammato gli animi dei parlamentari. Oggi l’assemblea straordinaria chiesta dai contiani e convocata dai capigruppo Crippa e Licheri con l’avallo di Crimi, si aprirà in un’aria da resa dei conti. L’idea di riunire su Zoom deputati e senatori (a poche ore dalla finalissima degli Europei di calcio) ha fatto saltare i nervi a tanti. C’è rabbia, voglia di ribaltare il tavolo. I ministri Di Maio, Patuanelli e D’Incà faticheranno a placare i bollenti spiriti di un’assemblea delusa e spaccata tra grillini e contiani, che registra le reazioni furiose della base. La ministra Dadone ha scritto su Facebook un post sul reddito di cittadinanza ed è stata assalita dalle voci di dissenso. “Uscite dal governo!”. “Incoerenti e senza dignità umana, vergognatevi”. La deputata Giulia Sarti è netta: “Io non voterò mai la schifezza incostituzionale sulla prescrizione”. E adesso l’enigma è se il M5S andrà avanti in Aula sulla linea governativa di Draghi e Di Maio, o se prevarranno le spinte di Conte, che denuncia l’”anomalia italiana” e vuole tornare alla prescrizione modello Bonafede. A quanto trapela dal suo entourage, il giurista pugliese è ancora irato perché il capo del governo ha telefonato a Grillo. “Una scorrettezza in un momento così delicato”, lamentano i fedelissimi dell’avvocato, che spiegano così il via libera dei ministri pentastellati al ritorno della prescrizione: “Draghi ha minacciato di salire al Quirinale e rimettere il mandato, cosa che ha intimidito i ministri”. Questa narrazione dei fatti è stata smentita da fonti di governo eppure dice molto dello stato d’animo con cui i contiani proveranno a cambiare la riforma in Aula: “Sarà battaglia”. Ma intanto l’ex premier ieri ha sentito Di Maio e Patuanelli e avrebbe ricucito con i ministri. E c’è anche chi accredita una telefonata con Grillo. Nel Movimento 5 Stelle un’area parlamentare trasversale spinge per uscire dalla maggioranza, o almeno cambiare l’intera squadra dei ministri che hanno dato il via libera alla riforma Cartabia. Molti si chiedono se incollare i cocci sia davvero possibile e chi ha parlato con Conte assicura che il primo a domandarselo sia lui, lasciato fuori dai contatti tra Draghi e Grillo e, a margine del Consiglio dei ministri di venerdì, criticato sottovoce anche dai ministri. “Giuseppe sta riflettendo - conferma un senatore -. È normale che si interroghi. Chi può giurare che Grillo non continuerà a dettare la linea ai ministri, anche se il leader sarà lui?”. Al Pd sono preoccupati, il segretario Enrico Letta tifa per un chiarimento: “Senza le riforme, innanzitutto quella della giustizia, non ci saranno i soldi del piano europeo”. Giustizia, oggi “processo” ai ministri 5S. Cartabia difende la sua riforma di Andrea Carugati Il Manifesto, 11 luglio 2021 Guerra nel Movimento. I contiani per il no, pesano i dubbi dell’Anm sui tempi dell’appello. I timori di Letta per il governo: ma con Giuseppe non ci divideremo. La ministra della Giustizia Marta Cartabia, col pieno sostegno di Draghi, difende a spada tratta la sua riforma. Ma nel M5S il fronte del no guidato da Conte e Bonafede non arretra. E si prepara a dare battaglia, senza escludere l’uscita dalla maggioranza. per oggi è prevista una tesissima riunione tra la truppa parlamentare e i ministri 5S, che si annuncia come un processo a chi ha detto sì al compromesso senza aver ricevuto un via liberA. “Le forze politiche dell’attuale maggioranza hanno sensibilità opposte e molto infiammate sulla giustizia”, ha detto Cartabia al Corriere. “Che si sia riusciti ad approdare a un testo condiviso e comunque incisivo rende il traguardo ancora più significativo”. Per la guardasigilli la nuova riforma “conserva l’impianto della prescrizione in primo grado della legge Bonafede: chi l’aveva allora proposta potrebbe ritenersi soddisfatto”. Tuttavia, “non si poteva evitare di correggere gli effetti problematici di quella riforma. Per questo abbiamo stabilito tempi certi e predeterminati per la conclusione dei giudizi di appello e Cassazione. Giudizi lunghi recano un duplice danno: frustrano la domanda di giustizia delle vittime e ledono le garanzie degli imputati. La riforma proposta vuole rimediare ad entrambi questi problemi: è ciò che ci chiede la Costituzione”. Per i duri del M5S arriva come un sollievo la presa di posizione del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, che parla di “perplessità” sulla riforma, in particolare per il tetto di due anni per i processi d’appello (tre per i reati più gravi), dopo in quali scatterebbe l’improcedibilità. Il numero uno dell’Anm è preoccupato che le Corti d’appello possano non essere in grado di rispettare tempi così stretti e per il rischio che le vittime non abbiano giustizia. “Non siamo isolati”, esulta il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni (M5S). “Le conseguenze sociali della morte dei processi sarebbero insopportabili”. Giulia Sarti rincara la dose: “I nostri ministri dovranno rendere conto di fronte a tutti per l’annacquato papocchio sulla prescrizione. Io non voterò mai questa schifezza incostituzionale. Non mi rappresenta. E non rappresenta nessun parlamentare del M5S che abbia la capacità e la voglia di prendere posizione”. La faglia sulla giustizia riapre la ferita sulla leadership del Movimento che si stava tentando di ricomporre (a fatica) con i sette saggi. Da una parte i contiani che difendono la riforma Bonafede, dall’altra chi sta con il fondatore e accetta la mediazione trovata nel governo. Ma anche tra i contiani non tutti tifano per l’uscita dalla maggioranza. “Uscire non è la soluzione se non risolviamo i nostri problemi interni. Anzi, potrebbe rappresentare un ulteriore danno perché sarebbe vissuta come un “liberi tutti” e perderemmo ancor più incisività”, avverte la senatrice contiana Alessandra Maiorino. Quanto al ruolo di Grillo, dice la senatrice: “È tempo che il M5S si emancipi dalla figura paterna”. Per il Pd le tensioni in casa dell’alleato restano un grave problema. “Senza le riforme, innanzi tutto quella della giustizia, non ci saranno i soldi del piano europeo e non ci sarà la possibilità della ripartenza”, dice Letta augurandosi che il dibattito nel M5s “non abbia ripercussioni sul governo”. “Con Conte abbiamo un approccio diverso sulla giustizia, ma il rapporto tra noi è positivo e faremo lunghi pezzi di strada insieme”, dice il leader Pd. Inusuale arriva l’appello del vicepresidente del Csm David Ermini a tutti i partiti a “convergere su soluzioni condivise”. Un appello che viene letto, tra le righe, come un segnale delle preoccupazioni del Quirinale. La battaglia sulla prescrizione di Niccolò Zancan La Stampa, 11 luglio 2021 Dall’epoca di Berlusconi ai grillini, con la mediazione finale della ministra Cartabia. Mettiamo il caso di una truffa. Quella di un promotore finanziario che abbia abbindolato un cliente e che sia scappato, da qualche parte, con i suoi soldi. Fino a gennaio del 2020, cioè al tempo della “riforma Berlusconi”, il reato si prescriveva in sette anni e sei mesi. Questo era il tempo massimo in cui tutto il procedimento penale doveva concludersi: denuncia, indagini preliminari, rinvio a giudizio, primo e secondo grado, ricorso in Cassazione. In sette anni e sei mesi bisognava scrivere la parola fine su quella truffa, e cioè dare una riposta al truffato e al truffatore. Poi, ecco la “riforma Bonafede”, gennaio 2020/luglio 2021, nata proprio con l’intenzione di allungare quei termini: la prima sentenza, di assoluzione o di condanna, interrompe la prescrizione in via definitiva. E quindi, dopo il processo di primo grado, ci sarà ancora tutto il tempo necessario per arrivare alla verità processuale. Per paradosso: anche una vita intera. Per scrivere la parola fine e restituire una giustizia alle parti. Ora siamo alla “riforma Cartabia”. Siamo a oggi, quindi. A questo nuovo processo penale. Il compromesso politico che la produce si basa su una questione formale, quasi linguistica. E cioè: la prescrizione resta identica a come era stata fissata dall’ex guardasigilli Alfonso Bonafede. Ma accanto ad essa compare adesso un nuovo istituto: quello della “improcedibilità”. In sostanza: due anni di tempo massimo per fissare e concludere il processo d’appello. Altrimenti quel processo verrà dichiarato “improcedibile”. Cosa cambia rispetto a un reato prescritto? Nulla. Il processo si estinguerà per implosione. Per incapacità. Per lentezza sistemica. Ma l’obiettivo della riforma è ottenere, con queste nuove scadenze, un processo celebrato più in fretta e una giustizia più giusta. Nel caso di truffa finanziaria, per restare all’esempio, in circa la metà del tempo. Da 7 anni e mezzo, dovrebbe chiudersi in tre anni e mezzo o qualcosa del genere: dipenderà dal primo grado. Sono già previste deroghe e eccezioni per i processi più articolati e per quelli con reati più gravi, sono già previste sospensioni temporali se il secondo grado di giudizio richiederà nuovi interrogatori o perizie. Insomma, deroghe per cercare di salvare tutto: il tempo per fare bene, il dovere di fare in fretta. Come cambia la prescrizione: i pro e i contro di Giulia Merlo Il Domani, 11 luglio 2021 La prescrizione approvata ieri dal drammatico Consiglio dei ministri in cui si è rischiato lo strappo del Movimento Cinque Stelle prevede lo stop della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sia in caso di condanna sia in caso di assoluzione. Per le due successive fasi di giudizio, invece, sono previsti tempi prefissati: una durata massima di due anni per i processi d’appello e di un anno per quelli di Cassazione. È prevista la possibilità di una ulteriore proroga di un anno in appello e di sei mesi in Cassazione per processi complessi relativi a reati gravi, tra i quali sono previsti associazione a delinquere semplice, di tipo mafioso, traffico di stupefacenti, violenza sessuale e, per volontà dei Cinque stelle, i reati gravi contro la pubblica amministrazione come corruzione, concussione. Sono esclusi i reati imprescrittibili, cioè quelli puniti con ergastolo. Decorsi tali termini, interviene l’improcedibilità: il reato dunque non si prescrive, ma viene dichiarato improcedibile per decorso dei termini. Quanto all’entrata in vigore, una volta approvata dal parlamento, la nuova previsione verrà applicata per tutti i reati commessi a partire dal 1 gennaio 2020, esattamente la data in cui avrebbe dovuto prendere efficacia lo stop alla prescrizione voluto dal precedente governo. Contro - Contro la prescrizione di Cartabia, le critiche più forti sono state espresse da Alessandro Di Battista, che ha condiviso il contenuto di un editoriale di Marco Travaglio in cui si evidenzia il rischio che la prescrizione processuale lasci tutti impuniti. Secondo i detrattori della riforma, infatti, basterebbe che gli avvocati o i magistrati decidano di perdersi in lungaggini processuali per pilotare il processo di appello e cassazione sul binario per l’improcebidilità. Pro - In realtà - ammesso che questi strumenti dilatori siano percorribili nonostante le deroghe per i reati più gravi - la logica che ha guidato la riforma è quella di salvaguardare la ragionevole durata del processo, che non ha termini fissati per il primo grado, evitando di incorrere in sanzioni europee: “Il processo penale, nel suo complesso, non potrebbe durare più di nove anni dopo l’esercizio dell’azione penale. Un tempo massimo comunque considerevole, se si considera che non comprende la fase delle indagini”, si legge nella relazione della commissione. Sostanzialmente, l’argomento a favore della riforma è quello di ritenere che, anche con la prescrizione processuale per i gradi di appello e cassazione, il tempo per arrivare a sentenza definitiva è comunque consistente. L’inquadramento complessivo - I sostenitori della riforma, inoltre, non considerano la prescrizione come un provvedimento isolato ma lo contestualizzano nel testo complessivo del ddl penale, che prevede una serie di norme per velocizzare i processi, in modo che tutti giungano a sentenza senza finire nella tagliola nè della prescrizione sostanziale prima della sentenza di primo grado, né di quella processuale negli altri due. Gli strumenti sono da un lato la digitalizzazione e le tecnologie informatiche che dovrebbero ridurre le lungaggini burocratiche, dall’altro le previsioni procedurali. Si stabilisce che il pubblico ministero possa chiedere il rinvio a giudizio dell’indagato solo quando gli elementi acquisiti consentono una “ragionevole previsione di condanna”, con una rimodulazione dei termini di durata massima delle indagini rispetto alla gravità del reato. Inoltre, alla scadenza del termine di durata massima delle indagini, fatte salve le esigenze specifiche di tutela del segreto investigativo, si prevede un meccanismo di discovery degli atti, a garanzia dell’indagato e della vittima, anche per evitare la prescrizione del reato associato a un intervento del giudice per le indagini per le indagini preliminari che in caso di stasi del procedimento. Vengono estese le ipotesi di citazione diretta a giudizio, riducendo ai reati di particolare gravità la previsione dell’udienza preliminare. Infine, si allargano le maglie di accesso ai procedimenti speciali. In particolare per il patteggiamento: si prevede che, quando la pena detentiva da applicare supera i due anni, l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata. Per il giudizio abbreviato si prevede che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto, nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato. Nel giudizio ordinario si prevede che, nell’ipotesi di mutamento del giudice o di uno o più componenti del collegio, il giudice disponga, in caso di testimonianza acquisita con videoregistrazione, la riassunzione della prova solo quando lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze. Tutto questo dovrebbe produrre l’effetto di limitare significativamente i procedimenti a rischio prescrizione. L’Anm “processa” la riforma di Eugenio Fatigante Avvenire, 11 luglio 2021 Le perplessità del presidente Santalucia: “Valutare se la gente comprenderà l’improcedibilità”. Cartabia: si dovevano correggere gli squilibri di Bonafede. Non sono solo i partiti (soprattutto M5s) in fibrillazione per il nuovo processo penale delineato dal tandem Draghi-Cartabia. “Ci sono aspetti dei disegni di riforma che suscitano perplessità”: il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, intervenuto ieri al congresso di Magistratura Democratica a Firenze, ha manifestato dubbi sulle misure contenute negli emendamenti al ddl sulla giustizia penale approvati giovedì sera in Consiglio dei ministri. La ministra della Giustizia ha spiegato ieri in una lunga intervista al Corsera che la nuova struttura “conserva l’impianto della prescrizione in primo grado della legge Bonafede”, ma tuttavia “non si poteva evitare di correggere gli effetti problematici” di quel testo. Per questo sono stati stabiliti “tempi certi e predeterminati per la conclusione dei giudizi di appello e Cassazione”. Ed è proprio a questi che si riferisce il “numero uno” dell’Anm e all’impatto sulla società civile delle norme prospettate: “Occorrerà discutere”, ha affermato risoluto, precisando però che l’associazione nel suo complesso non ne ha ancora discusso. Santalucia ha citato con preoccupazione le condizioni organizzative degli uffici giudiziari e delle Corti di appello. “Molte Corti territoriali - ha evidenziato - versano in sofferenza organizzativa, bisogna chiedersi se saranno capaci di rispettare la stringente tempistica processuale”. Ma, soprattutto, a dar da pensare è come potranno “impattare” sulla società. Per il presidente dell’Anm, infatti, “bisogna interrogarsi sulla comprensibilità sociale di una eventuale risposta di improcedibilità con vittime che avvertano ancora forte la ferita loro recata dal reato. Reato che la prescrizione non ha estinto, che magari è stato commesso non molto tempo prima, il cui ricordo sociale ben può essere ancora vivido e che potrebbe ancora essere ricondotto nell’area dell’obbligatorietà dell’azione penale”. Il presidente del “sindacato” dei magistrati è tornato poi anche a respingere al mittente l’accusa spesso rivolta alla magistratura di essere “casta”: “Se si esprime una critica, qualche dubbio, un punto di vista in apparente controtendenza con quel che appare il pensiero dominante, si è accusati di essere e muoversi come casta”, ha fatto notare invitando, dal momento che “viviamo in un tempo complicato, a sperimentare il valore dell’unità”. Un valore sottolineato anche dal vicepresidente del Csm, David Ermini, sempre al congresso di Md, che davanti alle critiche di vari parlamentari ha sostenuto di confidare sul fatto che le forze politiche “responsabilmente convergano su soluzioni condivise e nel solo interesse generale di un sistema giudiziario efficace e giusto”. Perché “la sede naturale per riforme condivise” è “il Parlamento, anziché un percorso referendario che, in ragione della sua natura necessariamente abrogativa, potrebbe condurre esclusivamente a esiti parziali e asistematici”. Processo infinito rischio da evitare di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 11 luglio 2021 Da qualche tempo, e con rinnovato vigore negli ultimi giorni, sulla prescrizione penale si è sviluppato un confronto che farebbe sfigurare i cori delle rispettive curve nei derby Milan/Inter o Roma/Lazio, senza risparmiare neppure il classico dei classici degli insulti da stadio: “Arbitro cornuto”. Matteo Renzi questa volta abbandona il più ruvido “asfaltare” e, forse per galanteria verso la ministra, attenua i toni: “Non è la riforma che sognavamo, ma è finita l’era Bonafede. Cartabia lo ha sbianchettato”. Ma non va per il sottile invece l’avvocato Giulia Bongiorno: “La “bomba atomica” di Bonafede è stata finalmente superata”. Salvini, che alterna i toni da “legge e ordine” con il sostegno ai referendum “garantisti”, si tiene le mani libere limitandosi a un più prudente preannuncio di modifiche da presentare in Aula. Meno sobrio l’avvocato Gian Domenico Caiazza in un lungo intervento così sintetizzato nel sommario: “Piangono i forcaioli d’Italia: è morta la legge che voleva tutti prigionieri del processo, un obbrobrio fuori dalla Costituzione”. Per non farsi mancare nulla il quotidiano “Libero” si esibisce in una ardita incursione al Tribunale di Tempio Pausania. “Coincidenze sospette. Grillo aiuta la Cartabia e Ciro non va a giudizio. Il fondatore fa digerire ai Cinque Stelle la riforma della giustizia che sconfessa Bonafede. Il giorno successivo l’udienza preliminare del processo al figlio slitta al 5 novembre”. Il tema prescrizione irrompe nel dibattito in corso all’interno dei 5 Stelle: “Grillo si schiera con Draghi. L’ira di Conte”. Alcuni schieramenti erano prevedibili. Curiosa la posizione dell’ex Guardasigilli Bonafede che liquida la riforma Cartabia: “Una falcidia processuale che produce isole di impunità e che, comunque, allungherà i tempi dei processi”. L’intervento sulla prescrizione tecnicamente è oggetto di un emendamento aggiuntivo all’art. 14 del Disegno di legge AC 2435, che l’on. Bonafede dimentica forse di aver a suo tempo presentato quale ministro. Degli altri 17 emendamenti della “riforma Cartabia”, alcuni recepiscono le innovative proposte della commissione Lattanzi, nominata dalla stessa ministra, ma non pochi sono i miglioramenti tecnici a originarie formulazioni della “riforma Bonafede”. Ma torniamo alla prescrizione. La legge ad personam ex Cirielli ha ormai da tempo raggiunto gli scopi per i quali era stata introdotta, ma seguita a vanificare indagini e processi anche per reati gravi e anche dopo la pronuncia di primo grado. Era maturo il tempo per un intervento e nel dibattito tra i giuristi vi erano diverse proposte per attuare un ragionevole equilibrio. La prescrizione è concetto ignoto al processo accusatorio. Il blocco dopo il giudizio di primo grado è la regola in gran parte d’Europa, ma nella nostra situazione potrebbe portare al “fine processo mai”. La equilibrata modifica introdotta con la riforma del ministro Orlando non ha fatto in tempo a essere sperimentata, per la sopravvenuta riforma del governo giallo-verde. Il processo infinito non è la soluzione, ma occorre evitare che la prescrizione sia agevolmente raggiungibile. L’emendamento Cartabia o lodo Draghi che dir si voglia, propone una tra le tante opzioni tecnicamente possibili. Si pongono dei limiti temporali oltre i quali il processo si blocca, ma l’obbiettivo deve essere quello che i processi si concludano in tempi ragionevoli e che la prescrizione non operi se non in casi del tutto marginali. Non dobbiamo dimenticare ovvietà. La ragionevole durata del processo non in ogni caso è un obbiettivo che l’imputato desidera perseguire: anche ove consapevole che le probabilità di sfuggire alla condanna sono limitatissime cercherà almeno di rinviare l’esito negativo il più possibile e solleciterà il difensore a utilizzare tutti, nessuno escluso, i mezzi previsti dalla legge utili allo scopo. Il difensore, nei limiti della correttezza processuale, ha il dovere di fornire il supporto tecnico alla scelta del cliente. Il difensore ha il dovere deontologico di avvertire il cliente che una impugnazione meramente dilatoria con possibilità di successo zero, può far fruttare la prescrizione. Sono le regole del processo che devono individuare il punto di equilibrio tra fondamentali e irrinunciabili garanzie di difesa e l’obbiettivo che il processo si concluda il più celermente possibile. Del tutto opportuno è avere compreso anche i processi per corruzione tra quelli con prescrizione più lunga. Non è questa la sede per una analisi delle tante innovazioni, tra processo telematico, notificazioni, criteri per l’archiviazione, per citarne solo alcune, che contribuiranno a velocizzare i processi. Ma forse la novità più importante è quella dell’art.15 bis che introduce il “Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale”. Servono norme processuali più agili, ma il nodo fondamentale è l’aspetto organizzativo. Vi sarà una ragione se oggi, a parità di normativa, il problema prescrizione è pressoché irrilevante a Milano, mentre raggiunge percentuali pesanti in altre sedi e se la durata dei processi di appello vede una forbice inaccettabile tra le Corti più virtuose e quelle meno. L’organizzazione della giustizia non è “un altro discorso” e sarebbe auspicabile che suscitasse una benché minima percentuale dell’interesse dedicato alla prescrizione. Referendum, miracolo Radicale che spinge il leghista Siri a parlare contro il carcere afflittivo di Gianpaolo Catanzariti Il Riformista, 11 luglio 2021 A Milano per lavoro ancora per qualche giorno, decido di andare, al Palazzo delle Stelline, per assistere alla manifestazione sui referendum promossa dalla Lega a Milano. Presenti il senatore Siri (Lega), Irene Testa (Partito Radicale), il professor Guzzetta, l’ex procuratore Nordio e il professor Becchi. Partecipazione notevole e attenta in sala (piena ed erano le 21, sino alle 22.30) mentre fuori si firma continuamente. Sono molto perplesso e titubante, come sempre, quando ascolto rappresentanti di forze politiche secondo cui “si deve marcire in carcere” perché si deve “buttare la chiave” o che “in carcere si sta troppo bene” o che “è il più sicuro” e giù di lì… e lo sono ancor di più perché non riesco a controllare l’irrequietezza viscerale che mi attraversa ogni volta che ascolto simili baggianate. Ascolto timoroso mentre prende la parola Siri. Ed ecco ‘o miracolo, direbbero a Napoli… non di San Gennaro, ma di “Santo Pannella”. Dal podio il senatore leghista (segreteria nazionale) si lancia in una filippica contro lo strapotere giudiziario, ma soprattutto contro il carcere che oggi così come è non va perché “è estremamente afflittivo” e “non sempre è necessario” insomma si teorizza il carcere come extrema ratio e soprattutto il venir meno dello Stato di diritto. I nostri referendum saranno un messaggio dirompente per un sistema ed un parlamento che non farà mai quelle riforme (testuale). Capite, allora, il passaggio rivoluzionario: dallo scandalo radicale al miracolo radicale. Siamo andati oltre lo scandalo. Sentire parlare, due mondi sideralmente distanti, la stessa lingua su obiettivi comuni dinanzi ad una platea che, in silenzio, ha ascoltato e applaudito quegli argomenti - quella stessa platea che magari ascolta in tv da Giletti con la bava alla bocca che il carcere deve essere estremamente punitivo - fa tremare “le vene e i polsi”. E allora, saranno traditi i referendum? Salvini giocherà a fare il furbetto gettando a mare milioni di firme (i primi segnali diffusi sul territorio dimostrano che potrebbero essere davvero vicino al milione)? Non ci credo! E quand’anche dovesse succedere, ne è valsa la pena e ne varrà per parlare con i cittadini sino a settembre di tutto ciò… per arrivare a dire loro messaggi dal profondo significato civile e politico su cui difficilmente, senza i referendum, verremmo ascoltati. Processo penale, David Ermini: “Bene la riforma, ma le toghe devono cambiare mentalità” di Barbara Jerkov Il Messaggero, 11 luglio 2021 La questione morale nella e della magistratura, per l’impatto e le ricadute sull’opinione pubblica, più che questione democratica è ormai una vera emergenza democratica. Perché il crollo di fiducia che ha colpito l’ordine giudiziario e il suo organo di governo autonomo mina alle fondamenta la legittimazione democratica della stessa giurisdizione”. David Ermini parla al congresso di Md. Parole chiare, davanti a una platea di toghe. Tanto che, approvando senz’altro la riforma Cartabia appena varata dal Cdm, avverte: “La premessa è una svolta culturale prima ancora che normativa”. Quale valutazione dà della riforma, presidente Ermini? “Ottima sul piano del metodo. Nel merito giudicherà il Parlamento. La ministra è riuscita intelligentemente a trovare un punto di caduta per riforme condivise. Era opportuno che si arrivasse a un accordo, perché una riforma del processo penale e civile è necessaria non solo per dare un segnale all’Europa ma in primo luogo per i cittadini. L’auspicio è che in Parlamento il clima non ridiventi gladiatorio, la giustizia deve restare fuori da strumentalizzazioni o pregiudiziali ideologiche e di interesse”. L’improcedibilità dopo due anni dall’avvio dell’appello secondo i detrattori della riforma è una prescrizione di fatto. Lei cosa ne pensa? “Mi limito a un’osservazione di principio. Se in Costituzione è sancita la ragionevole durata del processo, perché non ci concentriamo sulla celerità? Senza ovviamente limitare le garanzie. L’obiettivo deve essere quello di accorciare la durata dei processi portandoli su standard europei, se un processo dura il tempo giusto anche la risposta dello Stato sarà più giusta. Voglio aggiungere che gli interventi per la celerità dei percorsi processuali mediante la fissazione di termini da rispettare è importante siano accompagnati da misure organizzative che rendano concretamente possibile ed esigibile il rispetto dei termini”. Spicca un rafforzamento del ruolo del giudice rispetto al pubblico ministero. Una svolta opportuna? “Posso rispondere con una domanda? Non lo prevedeva già il codice Vassalli dell’89? E’ tempo che si capisca che il dominus del processo è il giudice, il pubblico ministero svolge e dirige le indagini nell’interesse dello Stato, è chiamato a raccogliere prove a carico e a favore dell’imputato ma è comunque una parte. Forse si dovrebbe fare un ragionamento sui rapporti tra le procure e i mass media”. Il principale obiettivo è velocizzare i processi e smaltire l’arretrato-monstre del sistema giuridico italiano, anche alla luce di una richiesta cogente dell’Europa. Lo ritiene possibile, alla luce delle nuove norme? “Aspetto di conoscerle nel dettaglio, è possibile se si rafforzano i riti alternativi. Il processo vero e proprio, ossia il dibattimento, dovrebbe essere riservato ai reati che hanno oggettivamente la necessità di un vaglio approfondito. E così nel civile si dovrebbe dare largo spazio alla mediazione e alla risoluzione alternativa delle controversie. Mi sembra sia la strada che si sta percorrendo, perché è chiaro che l’arretrato diminuisce se si riesce a ridurre il nuovo contenzioso. C’è chi sostiene, penso a ciò che ha detto Flick sulla Stampa l’altro giorno e non è certo il solo, che senza un cambio di mentalità da parte degli stessi magistrati non c’è riforma in grado di scardinare il sistema. Secondo lei? “Sono pienamente d’accordo. Le riforme della precedente legislatura che tendevano a deflazionare il contenzioso, come ad esempio la tenuità del fatto, la messa alla prova e la depenalizzazione, devono trovare sempre più profonda applicazione. Ogni riforma per funzionare richiede la convinta applicazione da parte degli operatori, altrimenti è lettera morta. E’ questo che intendo quando dico che la premessa è una svolta culturale prima ancora che normativa”. L’ultima classifica della Commissione UE sull’efficacia della giustizia nei Ventisette ha certificato come in Italia si destini alla giustizia la stessa quota di Pil come in Germania ma i magistrati italiani sono solo la metà di quelli tedeschi. C’è un problema di efficientamento della macchina giudiziaria in termini di costi? “C’è sicuramente un problema di numeri, sono troppo pochi i magistrati e gli amministrativi e servono interventi di edilizia giudiziaria. Forse si possono impiegare meglio le risorse, l’intervento sull’ufficio per il processo è un passo importante in questo senso: investire nella giurisdizione, perché di questo si tratta quando parliamo di giustizia, significa investire nella democrazia. L’accesso alla giustizia e l’indipendenza della magistratura sono strumentali all’esercizio dei nostri diritti e libertà”. La stessa classifica dice che l’Italia è agli ultimi posti in Ue per la fiducia delle imprese nell’autonomia del sistema giurisdizionale da governo e pressioni politiche. Un dato disastroso sulla credibilità delle toghe… “Che la percezione possa essere quella non discuto, ma la realtà è un’altra, è che l’autonomia e l’indipendenza della nostra magistratura ci sono, sono piene e garantite dal Consiglio superiore. Non nego certamente la portata degli scandali di questi anni, ma fermarsi solo a quelli dà una rappresentazione inevitabilmente deformata della magistratura. L’immagine di una parte, comunque contenuta, di faccendieri delle nomine non può e non dovrebbe offuscare quella di una stragrande parte di magistrati che quotidianamente fanno il loro lavoro con competenza, indipendenza, imparzialità e dedizione. È chiaro però che il patto fiduciario con i cittadini va rinsaldato perché la mancanza di fiducia nella magistratura mina alle fondamenta la legittimazione democratica della stessa giurisdizione”. Mentre la riforma del processo ha fatto un balzo in avanti, sembra tornata nelle nebbie quella del Csm. Ma non era una priorità per far ripartire il Consiglio scevro da correntisti e vecchi vizi? “La riforma dell’ordinamento giudiziario e della legge elettorale del Csm è sempre una priorità. Ed è urgente, anche perché poi andranno cambiati i regolamenti interni per far funzionare al meglio il prossimo Consiglio. Noi siamo una consiliatura di transizione, ci è esplosa in mano una bomba il cui innesco risale a molto tempo prima, ma che ora è un’opportunità per un cambio netto di mentalità. Va rigettato il carrierismo, che ha infettato le correnti trasformandole in oligarchie di potere e scambi immorali e non più in importanti luoghi di confronto e riflessione culturale. Noi abbiamo fatto i conti con il passato, ora il nostro compito è spianare la strada al nuovo Csm affinché la svolta sia definitiva. Se andrà in porto, potremo esserne orgogliosi”. “Dal testo Cartabia passi avanti, ma l’improcedibilità per ora è un rebus” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 11 luglio 2021 Intervista alla consigliera del Cnf Giovanna Ollà: “L’addio alla prescrizione è positivo, ma la strada scelta è piena di incognite”. “L’improcedibilità manda in archivio la prescrizione bloccata dopo la sentenza di primo grado, sia in caso di condanna che di assoluzione, voluta dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. E questo credo sia già un successo”, esordisce così l’avvocata Giovanna Ollà, consigliera Cnf e coordinatrice della commissione Diritto penale della massima istituzione forense, in una prima analisi sul “restyling” del ddl sul processo proposto giovedì al Consiglio dei ministri dalla guardasigilli Marta Cartabia. La riforma si è resa necessaria per rispettare gli impegni presi con la Commissione europea, in particolare la riduzione del 25 per cento della durata media dei giudizi per il penale. L’Italia, come si ricorderà, è il primo Paese nell’area del Consiglio d’Europa per numero di condanne da parte della Corte Edu di Strasburgo per l’irragionevole durata dei processi. La nuova disciplina con cui la ministra della Giustizia rimedia al “fine processo mai” si applicherà a tutti i reati commessi dopo il 1° gennaio 2020, data di entrata in vigore della legge Bonafede che dunque, nella propria versione originaria, non avrà effetto su alcun imputato. Consiglierà Ollà, il nuovo sistema voluto dalla ministra Cartabia funzionerà? Si garantiranno tempi certi per lo svolgimento dei processi? Rispondere adesso non è facile. Ci sono diversi punti da chiarire. Ad esempio? Che cosa succede quando un giudizio diventa improcedibile perché la Corte d’appello non ha rispettato i tempi, in particolare se ci troviamo in presenza di una condanna in primo grado? Il casellario giudiziale riporterà o no la sentenza? Dalla lettura delle norme, quanto meno dal testo che è stato sottoposto al Consiglio dei ministri e che però non risulta ancora depositato in Parlamento, non è chiaro. L’incognita sul destino dell’imputato è tutt’altro che marginale... Infatti, non è chiaro. Si tratta di un concetto nuovo. Ripeto, se il reato non si è estinto ed essendo l’azione penale obbligatoria, cosa succede? Sotto il profilo tecnico giuridico diversi punti sono, almeno per adesso, oscuri. Teniamo presente che la prescrizione è una norma di diritto sostanziale. Una norma con più ombre che luci? A me pare abbastanza pasticciata, anche se una valutazione più approfondita andrà fatta probabilmente fra qualche giorno. Di positivo, nel pacchetto di emendamenti presentato dalla guardasigilli cosa ha visto? Ho letto molto velocemente. Però devo dire che ero partita con tanto ottimismo. Ad esempio, per l’ampio spazio riservato al rafforzamento delle misure alternative, delle sanzioni pecuniarie, della messa alla prova. Ma forse, leggendo bene, non è proprio il caso. L’udienza preliminare pare essere migliorata. Il giudice, in pratica, dovrà pronunciare sentenza di non luogo a procedere, quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna... Spero che l’udienza preliminare faccia effettivamente da filtro. Adesso non è così. È indiscutibile che l’intervento su quella parte della procedura sia un passo avanti, e si tratta di un punto sul quale il Cnf e le altre rappresentanze dell’avvocatura si battono da anni. Un’altra parte del testo riguarda i riti alternativi... Mi limito a valutare positivamente le norme relative al patteggiamento con le quali si prevede che, quando la pena detentiva da applicare supera due anni, quindi nel cosiddetto patteggiamento allargato, l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata, nonché alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare. E le modifiche relative al giudizio abbreviato? Si può essere d’accordo sulla parte in cui si prevede che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto, nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato, stabilendo che la riduzione sia applicata dal giudice dell’esecuzione. È scomparsa, poi, la Corte d’appello monocratica per i reati a citazione diretta... Era una riforma attesa. Modifiche anche per la querela... Credo possa essere efficace l’estensione a specifici reati contro la persona e contro il patrimonio con pena non superiore nel minimo a due anni, salva la procedibilità d’ufficio, se la vittima è incapace per età o infermità. Sulle sentenze di assoluzione? Qui invece è mancato il coraggio. Resta in via generale la possibilità, tanto del pm, quanto dell’imputato, di presentare appello contro le sentenze di condanna e proscioglimento. Ecco, si poteva eliminare l’appello del pm e alla fine quella ipotesi è tornata nel cassetto. Quindi è presto per un giudizio? Vedremo che modifiche ci saranno quando il provvedimento andrà in Aula. Non sono sicura che resterà così. Magistratura democratica, “autonomi ma uniti negli obiettivi” di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 11 luglio 2021 L’eco di quello che accade “là fuori” rimbalza nel congresso di Magistratura democratica: la lotta degli operai di Campi Bisenzio, le morti sul lavoro, le violenze delle forze di polizia, le condizioni dei migranti, delle persone con disagio psichiatrico, dei carcerati. A parlarne sono sia gli ospiti esterni, come i rappresentanti dell’Arci, dei sindacati e delle associazioni di avvocati, sia i membri della corrente delle toghe progressiste: la visione è comune, sempre dal punto di vista dei soggetti più deboli e più meritevoli di tutela. Franco Corleone, garante dei detenuti di Firenze e presidente della Società della ragione, chiede a Md un impegno contro l’ergastolo: “La Corte costituzionale ha dato un anno di tempo al parlamento per intervenire sul tema, bisogna farsi sentire”. Altro terreno di iniziativa auspicato da Corleone è quello contro il proibizionismo in materia di droghe, una delle cause del sovraffollamento dei penitenziari italiani. Inevitabile, però, che il dibattito congressuale, entrando nel vivo nel secondo giorno, sia soprattutto dedicato alle questioni “interne”. Sono quelle che riguardano l’intera magistratura e la politica sulla giustizia, risuonate anche negli interventi del vicepresidente del Csm David Ermini e del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, tornati entrambi a puntare il dito contro il carrierismo, “virus letale e motore di scambi immorali - così Ermini - che hanno inquinato la vita consiliare”. Ma sono soprattutto le questioni legate alla linea politica della corrente: il nodo da sciogliere è il rapporto con Area, il “gruppo dei gruppi” delle toghe di sinistra al quale Md aveva ceduto il compito di rappresentarla nel Csm e nell’Anm. La maggioranza sottolinea l’importanza della riconquista dell’autonomia piena di Md, la minoranza “filo-Area” paventa il rischio di un ripiegamento identitario e settario. A farsi portavoce di queste preoccupazioni sono in particolare Alessandra Dal Moro, consigliera del Csm, e Cristina Ornano, giudice a Cagliari, che di Area è la presidente: per loro la via di uscita è la doppia iscrizione, il rischio da evitare “la competizione aggressiva” fra i due gruppi progressisti. La maggioranza difende la scelta di recupero della piena sovranità di Md. “C’è una sensibilità dentro la magistratura che solo una Md nuovamente autonoma può riuscire a intercettare”: questa la tesi di Stefano Musolino, nuovo segretario in pectore del gruppo. Le parole non spaventano: viene invocata “radicalità”, il presidente uscente Riccardo De Vito, giudice di sorveglianza a Sassari, si richiama al “valore dell’eresia” perché una corrente non deve essere “un ufficio di collocamento per dirigenti degli uffici giudiziari”. Per Simone Silvestri, gip a Lucca, è stato un errore avere abbracciato, attraverso Area, “posizioni più moderate”, rivendicando la scelta solitaria di Md di schierarsi per il “no” al referendum costituzionale voluto da Matteo Renzi. L’avversario culturale è “il populismo giudiziario che dilaga”, sottolinea Emilio Sirianni, giudice della corte d’appello di Catanzaro, terra del procuratore e star mediatica Nicola Gratteri. Chi ha spinto per il nuovo inizio di Md tiene a evidenziare però la necessità dell’unità politica del fronte progressista. Può sembrare un paradosso, ma non lo è: l’idea è quella del marciare divisi per colpire uniti. Rita Sanlorenzo, ex segretaria e una delle maggiori artefici di questa svolta, parla di “geometrie variabili” nel rapporto fra Md e Area, che andranno trovate volta per volta. Stamattina si chiuderanno i lavori, i dettagli della mozione finale saranno importanti per una conclusione unitaria oppure no. Santa Maria Capua Vetere. Così i torturatori hanno ottenuto l’appoggio di Salvini di Nello Trocchia Il Domani, 11 luglio 2021 Gli agenti penitenziari coinvolti nella mattanza del 6 aprile, il pestaggio ai danni di detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, hanno cercato una sponda politica nel leader della Lega Matteo Salvini. L’ex ministro dell’Interno non ha mai nascosto la sua vicinanza agli agenti anche quelli indagati per reati gravissimi, come la tortura, ma dalle informative dei carabinieri che hanno condotto l’indagine emerge anche un messaggio, inviato da uno dei poliziotti penitenziari alla pagina social di Matteo Salvini. Alessandro Biondi è un ispettore capo della polizia penitenziaria. Il giudice Sergio Enea ha disposto per Biondi gli arresti domiciliari perché su di lui, come su altri ufficiali indagati, “grava la responsabilità di aver diretto sul campo le operazioni di perquisizione senza l’adozione di cautela alcuna per scongiurare il sistematico pestaggio dei detenuti, cui alcuni di loro (Biondi Alessandro e Iadicicco Angelo) hanno, seppur sporadicamente partecipato”. Il 15 aprile, una decina di giorni dopo il pestaggio, quando ormai la repentina operazione di procura e arma dei carabinieri aveva messo al sicuro le immagini delle violenze, Biondi scrive un messaggio alla pagina Facebook “collegata, verosimilmente, al leader politico della Lega Nord Matteo Salvini”, scrivono i militari dell’arma nelle informative. “Ciao matteo sono un poliziotto penitenziario al momento in quarantena per Covid 19. Nell’istituto di Santa Maria Capua Vetere dal 9 marzo si sono susseguiti una serie di eventi che hanno portato i detenuti ad avere una sorta di indipendenza gestionale. Per riprendere il controllo dell’istituto vi è stata una operazione di autorità”, scrive Biondi. L’operazione è il pestaggio generalizzato, celato dietro la perquisizione straordinaria, disposta dal provveditore regionale Antonio Fullone, interdetto e indagato. “I detenuti e loro familiari strumentalizzando la cosa per tramite del garante e difensori si sono rivolti alla locale procura della repubblica e come puoi immaginare noi polizia non abbiamo garanti. Stiamo passando un brutto periodo. Se puoi tramite qualche tuo referente locale cerca di approfondire/intervenire in merito”, conclude Biondi che a Salvini chiede anonimato e gli dice che ha sempre creduto nel leader della Lega. Il leader della Lega ha letto quel messaggio? Si è insospettito di quella formula “operazione di autorità”? Salvini, contatto tramite il suo portavoce, non risponde e il suo staff ricorda il grande seguito che ha sui social il leader leghista. Ma quanto Biondi scriveva viene rappresentato pubblicamente da Salvini, quando l’11 giugno, arriva davanti al carcere di Santa Maria Capua Vetere. Quel giorno i carabinieri eseguono una perquisizione sequestrando i cellulari a 57 agenti che vengono indagati per tortura. Una perquisizione che scatena un conflitto anche interno alla magistratura. Il procuratore generale di Napoli Luigi Riello chiede una sollecita relazione alla procura sammaritana e all’arma dei carabinieri “al fine di accertare ogni dettaglio dell’operazione e la veridicità, o meno, di quanto riferito dalla stampa e denunciato da alcuni esponenti sindacali della polizia penitenziaria sulla correttezza del modus procedendi”. Viene contestata la perquisizione davanti agli occhi dei familiari dei detenuti. Oggi si scopre, leggendo gli atti dell’inchiesta, che alcuni degli indagati venivano informati da complici ancora da identificare, già a metà aprile, pochi giorni dopo il pestaggio, di elementi dell’indagine coperti da segreto. I buoni con la divisa - Salvini si precipita a Santa Maria Capua Vetere. “La mia solidarietà ai servitori dello stato indegnamente indagati. I buoni sono quelli in divisa e gli altri devono solo obbedire e fare le persone perbene”, dice Salvini mentre gli agenti della polizia penitenziaria, anche alcuni coinvolti nell’inchiesta, lo applaudono. Salvini continua e sposa le tesi degli agenti torturatori che hanno depistato le indagini con foto e video manipolati per giustificare, con il ritrovamento falso di olio bollente e bastoni, l’orribile mattanza. “Una schifezza senza precedenti. Se ci sono state delle rivolte tu le rivolte nelle carceri con coltelli, fornellini e olio bollente difficilmente le plachi con le margherite e i fiorellini”, dice Salvini l’11 giugno. L’ex ministro non cambia posizioni neanche dopo la lunga inchiesta di Domani che svela, tra settembre e ottobre, la mattanza. Santa Maria Capua Vetere. Akimi, dai pestaggi alla cella di isolamento. Morto un mese di Fulvio Bufi Corriere della Sera, 11 luglio 2021 Tra i quindici detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere che dopo i pestaggi del 6 aprile 2020 nel reparto Nilo furono messi isolamento ce n’era uno che meno di un mese dopo, il 4 maggio, è morto. Si chiamava Akimi Lamine, era algerino e aveva ventotto anni. Ed era schizofrenico. Secondo i magistrati che hanno condotto l’inchiesta c’è un legame strettissimo tra il decesso e i pestaggi, e infatti ritengono che i poliziotti penitenziari che lo picchiarono e quelli che ne disposero l’isolamento debbano rispondere di averne provocato la morte in seguito a torture e maltrattamenti. Ma il gip non ha accolto la tesi dei pm: per lui si è trattato di un suicidio, non ci sarebbero responsabili. Sulla fine tragica di questo ragazzo, però, resta un’ombra enorme. Magari sarà anche vero che a provocarne il decesso fu l’abuso di farmaci, ma è vero sicuramente che quelle medicine che Akimi doveva prendere quotidianamente per mantenere un equilibrio psichico decente non gli furono date per quattro o cinque giorni, quando fu rinchiuso in isolamento al reparto Danubio. Ed è altrettanto vero che quando ricominciarono a dargliele, gli infermieri gliele consegnavano tutte insieme e se ne andavano, perché non era previsto che il detenuto dovesse assumere i farmaci sotto il controllo di un sanitario. Poteva non prenderli affatto o prenderli tutti in una sola volta, nessuno avrebbe mai controllato. Eppure la mattina del 4 maggio, quando trovarono il corpo, c’erano pasticche sparse sul pavimento. E c’erano vomito e urina. Akimi era morto durante la notte e nessuno se ne era accorto. Perché non gli avevano dato nemmeno il piantone, un altro detenuto che condividesse la cella con lui e lo sorvegliasse. E del piantone l’algerino aveva diritto, ma quello che gli avevano messo accanto all’inizio dell’isolamento se ne era voluto andare perché Akimi urlava in continuazione, chiedeva le medicine, e lui non ce la faceva più a sopportarlo. Era andata bene i primi giorni, quando l’algerino aveva dormito per ventiquattro o trentasei ore di seguito, e chissà se quel sonno eccessivo non fosse dovuto proprio alle botte prese, perché tutti i detenuti che lo videro la sera del 6 e che sono stati ascoltati dai magistrati, hanno raccontato che “aveva la testa gonfia”, che “quella testa non era normale”. Di botte Akimi ne aveva prese tantissime. Più degli altri, perché lui non riusciva a controllarsi e reagì dando un pugno a un agente. “E allora lo schiattarono a terra”, riferisce a verbale un detenuto che vide la scena, intendendo dire che lo massacrarono. Lo picchiarono così forte che un altro agente raggiunse i colleghi e li fermò: “Non lo uccidete perché se no lo paghiamo”, disse mentre quelli lo riempivano di calci in faccia e dappertutto. E lo picchiarono anche al Danubio, dove colpì un altro agente e quello reagì schiacciandogli la faccia contro il pavimento e colpendolo alla testa. Gli ultimi giorni Akimi parlava in arabo. Poche ore prima che morisse un poliziotto chiamò un altro detenuto algerino perché voleva capire che cosa stesse dicendo. Ma lui, quando vide il connazionale, disse soltanto: “Salutami mia madre”. Milano. La Camera penale: “Subito un indulto, dopo video Santa Maria Capua Vetere” adnkronos.com, 11 luglio 2021 “I filmati diffusi dagli organi di stampa sulle violenze subite dalle persone detenute all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere ad opera della Polizia penitenziaria hanno acceso i riflettori su quello che sono le carceri italiane oggi. Luoghi gestiti dallo Stato, che dovrebbero rappresentare il grado di civiltà del medesimo, in cui sempre con maggiore frequenza avvengono fatti di inaudita violenza e gravità per i quali tutti e nei rispettivi ruoli dovranno assumersi le proprie responsabilità”. È quanto si legge in un comunicato della Camera penale di Milano che “chiede pertanto con estremo vigore l’immediata emissione di un provvedimento d’indulto”. Quanto accaduto a Santa Maria Capua Vetere “evidenzia che il sistema penitenziario - al collasso da anni - ha faticato e fatica a reggere situazioni emergenziali, come da ultimo la crisi pandemica che altro non ha fatto se non acuire i problemi già esistenti. Sono oltremodo note le carenze strutturali che caratterizzano la quasi totalità degli istituti di pena che insieme al perenne sovraffollamento generano un clima di inaccettabile tensione e violenza di cui si discute solo in occasione di fatti eclatanti”, continua la nota. “Il cammino verso il rispetto dei principi costituzionali che disciplinano l’esecuzione della pena è quindi ancora assai tortuoso e necessita di essere affrontato con una seria e pronta riforma, ma non può prescindere da un concreto ed immediato provvedimento deflattivo della popolazione carceraria”. Firenze. Protesta nel carcere di Sollicciano: otto detenuti salgono sul tetto La Nazione, 11 luglio 2021 Una protesta è in corso dalla serata di sabato 10 luglio nel carcere fiorentino di Solllicciano da parte di otto detenuti che sono saliti sul tetto del carcere. “Otto detenuti si sono rifiutati di far rientro nelle rispettive celle all’orario previsto delle 21 e successivamente hanno divelto le inferriate delle finestre del locale docce. Da lì si sono arrampicati fino al tetto del carcere, da dove hanno inscenato una protesta ancora in corso. I motivi sarebbero riconducibili al non aver ottenuto alcuni benefici richiesti alla magistratura di sorveglianza”, spiega Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria. Secondo le prime informazioni, all’interno del carcere ci sarebbe stato anche un principio di incendio, tanto da richiedere l’intervento dei vigili del fuoco. De Fazio continua: “Dopo i drammatici video di Santa Maria Capua Vetere il clima nelle nostre carceri è ancora più incandescente. Da un lato il Corpo di polizia penitenziaria colpito nell’orgoglio, mortificato e ancor di più demotivato, dall’altra alcune frange della popolazione detenuta animate da sentimenti di rivalsa e convinte anche di poter infrangere impunemente le regole. Questi elementi, di per sé fortemente destabilizzanti, divengono assolutamente pericolosi in un carcere come quello di Firenze Sollicciano da mesi senza né direttore né comandante della Polizia penitenziaria titolari e con ben 650 detenuti presenti, di cui 451 stranieri, a fronte di una capienza regolamentare inferiore a 490 posti”. Al momento, dice ancora De Fazio “gli otto detenuti sono ancora sul tetto, sorvegliati a distanza dalla Polizia penitenziaria che cerca di negoziarne il rientro. È di tutta evidenza, però, che il Governo, la ministra Cartabia e il sottosegretario Sisto non abbiano molto tempo per le teorizzazioni accademiche e servano immediati interventi concreti. Non è tollerabile, per esempio, che a fronte di sei diverse dirigenze annoverate nell’Amministrazione penitenziaria, cui aggiungere i magistrati fuori ruolo, si lascino carceri con migliaia di detenuti e operatori privi di una guida stabile e certa, tanto più se, proprio come nel caso di Sollicciano, il comandante titolare della Polizia penitenziaria viene per scelta destinato a compiti non operativi. Napoli. “È in gioco la tua vita”, progetto socioeducativo per ludopatici detenuti Il Roma, 11 luglio 2021 Oggi nel carcere di Poggioreale è terminato il progetto “È in gioco la tua vita” un intervento socio-educativo diretto al trattamento della ludopatia, iniziativa promossa da Samuele Ciambriello Garante campano dei diritti delle persone private della libertà personale e realizzata dall’associazione “Sognatore nel deserto”. Il manuale disgnostico e statistico dei disturbi mentali definisce la ludopatia come “comportamento problematico persistente e ricorrente legato al gioco d’azzardo”. Esso viene inserito nella categoria diagnostica dei disturbi ossessivi compulsivi e inquadrato nelle “dipendenze senza sostanze”. Il corso si è svolto due volte la settimana presso il reparto Roma, il martedì e il sabato, dalle 13 alle 15. Il numero totale degli incontri è stato di 33, ovvero dal 9 marzo 2021 al 3 luglio 2021, per un totale di 66 ore., ed ha visto coinvolti 16 detenuti. Presenti all’iniziativa per la consegna degli attestati il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, la vicedirettrice del carcere Giulia Leone, il garante di Napoli Pietro Ioia, le animatrici del progetto Maria Donata Chiarappa e Simona Napoli. Per Samuele Ciambriello:” la ludopatia è fortemente connessa ad ulteriori patologie psichiatriche e di dipendenza, del quale quest’ultima può esserne in alcuni casi causa, in altre conseguenza, in altri ancora può affiancarsi in maniera indipendente e influenzarle. Obiettivo specifico del progetto è stato l’avvio di un percorso di consapevolezza rispetto alla dipendenza da gioco patologico. I sotto-obiettivi sono stati la suddivisione per aree di intervento: emotiva, cognitiva e comportamentale. Ringrazio l’associazione Sognatore nel deserto che anche per altri progetti sia a Poggioreale che in altri istituti ha mostrato la sua sensibilità e competenza per tematiche sensibili”. L’Italia in bilico tra populismo e riforme di Maurizio Molinari La Repubblica, 11 luglio 2021 La battaglia sulla Giustizia, il bivio sulla transizione ecologica e la sfida dell’Agenzia cyber testimoniano come l’Italia sia una nazione in bilico sulle riforme e decisiva per la ricostruzione dell’Unione Europea. Il bilico è fra il populismo e il pragmatismo: da una parte c’è la lacerazione dei Cinque Stelle, partito di maggioranza relativa in Parlamento grazie al voto del marzo 2018 dove prevalse la protesta, e dall’altra c’è il governo Draghi chiamato a risollevare la nazione dalla pandemia per cogliere l’occasione del Recovery Plan europeo. Non si tratta solo di una situazione di instabilità innescata dalla crisi del Movimento 5S, diviso fra il progetto di Giuseppe Conte e la fedeltà a Beppe Grillo, che priva la coalizione di maggioranza della coesione del partito numericamente più importante: c’è dell’altro. A confrontarsi sono due dimensioni diverse di tempo storico. Come spesso avviene quando la Storia accelera nello stesso spazio, umano e geografico, si trovano a coesistere dimensioni del tempo contrastanti. Ed oggi in Italia c’è chi ancora vive nella dimensione della protesta populista, frutto della rivolta del ceto medio contro le diseguaglianze che ha segnato più Paesi dell’Occidente negli anni precedenti la pandemia, a fianco di chi invece è impegnato nella ricostruzione economica e civile per risollevarci dopo la pandemia. Lo spartiacque è il Covid-19: se il populismo accusava la democrazia rappresentativa di inefficienza, nasceva sulla sfiducia nelle istituzioni e si faceva beffa dello Stato di Diritto, i devastanti danni causati dal virus di Wuhan hanno dimostrato il valore dello Stato di Diritto, il bisogno di istituzioni più efficienti e la validità delle democrazie rappresentative dell’Occidente sul fronte della scienza, della ricerca, della medicina. Dunque chi ancora si sente protagonista della rivolta populista vive congelato nel tempo della protesta mentre chi affronta la sfida della ricostruzione accetta la difficile sfida del presente. È una linea di demarcazione che passa non solo all’interno dei Cinque Stelle ma anche della Lega che fu l’altro partito vincitore delle elezioni del 2018, che condivise con i grillini il governo Conte I e che oggi è altrettanto lacerata fra chi ancora predica il sovranismo, basato sull’esaltazione delle radici etnico-nazionali, e chi invece lavora per rafforzare l’integrazione europea da cui dipende la sorte della ricostruzione economica. Tanto nella Lega come nei Cinque Stelle la differenza fra i due fronti è netta: chi cavalca ancora la protesta contro lo Stato, adoperando temi come i migranti o presunti complotti, si oppone a chi lavora per un’Italia protagonista della ricostruzione europea affrontando le difficili sfide che il piano Next Generation EU ci impone. C’è chi guarda all’indietro e chi guarda in avanti. Di questo si è parlato durante la Repubblica delle Idee a Bologna, un laboratorio di proposte ed iniziative che ha visto interagire l’agenda delle riforme necessarie con i bisogni di un Paese a cui servono più protezioni, più lavoro e in ultima istanza più diritti. Sul palco di piazza Maggiore come al Teatro Comunale si sono confrontate visioni diverse sulle priorità della ripresa, sulle tipologie di welfare e sull’interesse nazionale dimostrando come la forza di una democrazia sta nella capacità di dibattere con franchezza prima di unirsi nelle decisioni. Che investono il bisogno di innovazione nel lavoro, sviluppo di un’economia sostenibile e più protezioni dei diritti nell’ambito di un grande patto sociale capace di consentire all’Italia di uscire più forte dalle riforme di pubblica amministrazione, giustizia e fisco. Per poter cogliere le opportunità che ci offrono le nuove tecnologie e la transizione ecologica a partire dal Green Deal che la Commissione Ue sta per approvare. È grazie al piano di resilienza e ricostruzione concordato proprio con Bruxelles che il nostro Paese ha davanti a sé un percorso di sei anni capace di accompagnarci sul palcoscenico della competizione globale. Trasformandoci in tassello strategico del rafforzamento dell’integrazione Ue. È un’occasione che vale la sorte di una generazione e per coglierla governo, aziende, lavoratori, famiglie e singoli cittadini sono chiamati a interpretare lo spirito repubblicano lì dove coniuga creatività personale, rispetto per le istituzioni e unità nazionale. È questo il patto nazionale sulla ricostruzione auspicato, in forme e con linguaggi diversi, dal capo dello Stato Mattarella, dal premier Draghi e dal commissario europeo Gentiloni. I valori alla base della nostra Costituzione sono l’humus indispensabile della stagione della ricostruzione ma per consentire al Paese di superare resistenze ideologiche e ostilità burocratiche bisogna riuscire a unirsi, lasciandosi alle spalle la stagione della protesta populista-sovranista per entrare in quella delle opportunità. È un passaggio delicato e difficile che coinvolge ognuno di noi e conferma come in ultima istanza ad essere decisiva sarà la responsabilità personale: esercitandola saremo protagonisti della ricostruzione, dimenticandola resteremo prigionieri del passato. Se il lavoro viene umiliato di Roberto Mania La Repubblica, 11 luglio 2021 I licenziamenti specchio di un capitalismo malato. Questo è un capitalismo malato. È malato di egoismi, di finanza, di ipocrisia: dà smaccatamente sempre più ai ricchi e toglie senza remore ai poveri, vecchi e nuovi. La sua malattia sta corrodendo dovunque le regioni della convivenza solidale tra le persone. Le lunghe catene della produzione del valore hanno sradicato le fabbriche dai territori, svalorizzato il lavoro, resi apolidi gli imprenditori, quando al loro posto non è arrivato l’algoritmo a comandare o la sola legge della remunerazione del capitale che guida l’azione dei fondi finanziari e non di rado anche quella dei gruppi multinazionali. La pandemia globale ha tolto la maschera a un modello di sviluppo (globale) sbagliato che ha moltiplicato le diseguaglianze nonostante abbia sottratto dalla povertà oltre un miliardo di persone, generato il rancore dei troppi esclusi, portato al potere i populisti in molte regioni del mondo, sconquassato l’ambiente (di tutti). Un po’ alla volta ha travolto l’economia reale del globo, non solo quella delle sue periferie. Risale all’inizio di maggio la morte della giovane operaia di Prato Luana D’Orazio rimasta intrappolata nell’orditoio probabilmente manomesso perché potesse funzionare più velocemente, violando le norme sulla sicurezza sul lavoro anche per competere con i bassi costi di produzione delle periferie del mondo. Perché c’è sempre una periferia più periferia che minaccia la sopravvivenza della tua produzione nel sistema dell’approvvigionamento globale. Nel mercato (pure in quello dove opera il “capitalismo politico” cinese, sia ben chiaro) c’è sempre qualcuno che si offre a costi inferiori, tanto più dopo la recessione globale generata dal Covid-19. L’Etiopia, per esempio, rispetto a Rupganj nel distretto industriale di Narayanganj, alla periferia di Dacca, capitale del Bangladesh, dove giovedì scorso è scoppiato un terribile incendio in una fabbrica di succhi di frutta destinati ad essere esportati anche nei ricchi Stati Uniti d’America. Più di 50 operai sono morti, rimasti intrappolati nello stabilimento perché la porta di ingresso era chiusa dall’interno impedendo ai soccorritori di intervenire. Anche lì una violazione della legge locale che le autorità avevano inasprito dopo una serie di tragedie consumate proprio in quelle fabbriche che producono con i loghi globali, per gli scaffali dei consumatori globali. Gli industriali bengalesi si sono lamentati perché stanno cominciando a sentire il fiato sul collo della tigre africana di Addis Abeba. Periferie contro periferie, appunto. Ma - l’abbiamo visto - c’è anche il nord del mondo. Quello dove ci sono le grandi fabbriche, le tutele sindacali, il welfare protettivo e risarcitorio, i diritti, un tempo l’area nobile della civiltà del lavoro. Un tempo. Venerdì scorso sulla posta certificata dei 422 operai della Gkn Driveline di Campi Bisenzio (periferia sì, ma di Firenze) è arrivata la lettera di licenziamento. Punto. Mittente il gruppo britannico Melrose che controlla la fabbrica di componenti per auto. Più o meno nello stesso modo si era “liberato”, qualche anno fa, di 185 operai di Birmingham. Dev’essere lo stile della casa, da Padrone delle ferriere, il titolo del romanzo di Georges Ohnet, che però lo pubblicò nel 1882. Anche i 152 lavoratori della brianzola Gianetti, controllata da un fondo tedesco, sono stati licenziati con un messaggio via WhatsApp. La globalizzazione con la sua inedita distribuzione e frammentazione del lavoro ci ha davvero riportati indietro, ma bisogna cominciare a fermare questa slavina. Il mercato ha le sue regole, ma non sono le uniche. Se il cosiddetto “avviso comune” firmato a Palazzo Chigi dal governo e le parti sociali non è sufficiente a fermare i “padroni delle ferriere” lo si cambi, lo si rafforzi, lo si adatti. Quello che sta accadendo riguarda tutti noi. Papa Francesco l’ha scritto con la sua efficace semplicità: “Per molto tempo abbiamo pensato di poter restare sani in un mondo malato. Ma la crisi ci ha fatto accorgere di quanto sia importante operare perché ci sia un mondo sano”. Migranti. La fatica solitaria di chi continua a salvare vite in mare di Maso Notarianni Il Domani, 11 luglio 2021 Nella notte di venerdì, dopo giorni di navigazione difficilissimi, la Ocean Viking è arrivata nel porto di Augusta. A bordo della nave della ong Sos Méditerranée ci sono 572 naufraghi raccolti nel Mediterraneo centrale. Complicato effettuare il test anti Covid a tutti. I migranti potrebbero dover rimanere a bordo per giorni in condizioni impossibili. “Un delirio”. Inizia così il racconto dalla nave Ocean Viking che venerdì, dopo giorni di navigazione, ha attraccato al porto di Augusta. Un delirio perché non si sa quanto tempo servirà per fare il test per il Covid a tutti i 572 naufraghi raccolti dalla ong Sos Méditerranée che saranno così costretti a scendere a terra e poi tornare a bordo perché sulla nave manca lo spazio fisico per poter effettuare i tamponi. Nel frattempo hanno iniziato a sbarcare i più fragili. “Abbiamo a bordo un pupo di 4 mesi, due ragazzi paraplegici uno dei quali in sedia a rotelle, che sono a bordo dal primo salvataggio e cioè da undici giorni, abbiamo donne incinte, abbiamo persone ferite da spari, abbiamo persone ustionate. Circa 150 minori non accompagnati. Un delirio”. Appunto. Le violenze libiche - “Le donne portano in grembo il “frutto” delle violenze subìte nelle prigioni libiche. Donne e uomini hanno ferite da arma da fuoco perché sono stati colpiti dalle pallottole dei carcerieri e delle guardie libiche, magari pallottole prodotte in Italia e poi regalate dal nostro governo”. Moltissimi dei naufraghi raccolti hanno ustioni anche gravi causate da quella devastante miscela che si forma quando acqua salata e benzina si mescolano producendo un liquido pericolosissimo. Di quel liquido era pieno il fondo della barca del terzo dei quattro soccorsi effettuati in questa missione della Ocean Viking. “Un salvataggio casuale. Il barchino, di legno, non era stato segnalato da nessuno degli aerei della società civile che fanno spotting sul Mediterraneo centrale e tantomeno dalle autorità. Lo abbiamo visto per caso: un puntino bianco nella immensa vastità deserta. Erano le sette di sera quando uno dei volontari che costantemente monitorano il mare con i binocoli lo ha notato. Ci siamo avvicinati con i gommoni dopo aver capito che era un’imbarcazione. A bordo c’erano 26 persone. Non un telefono, non una radio, non un gps. Nulla per comunicare la loro disperata situazione. Sul fondo della barca c’erano già 20 centimetri di acqua e benzina. Erano le sette di sera, per fortuna il mare era ancora calmo. Alle dieci c’era un metro e mezzo di onda. Non li avessimo trovati sarebbero tutti morti annegati. La maggior parte di loro erano minori. Non sarebbero nemmeno finiti nelle statistiche che contano i morti e i dispersi, perché nessuno sapeva che fossero in mezzo a quel nulla infernale che può diventare il Mediterraneo centrale quando sei in una situazione come quella”. Gli invisibili - Quando chi opera sulla frontiera più assassina del mondo dice che le cifre ufficiali sono enormemente sottostimate lo fa perché è stato testimone diretto della casualità di certi salvataggi, e perché solo stando in mezzo a quel mare ci si rende conto di quanta fortuna ci vuole per essere visti nel mezzo del nulla se non si hanno mezzi per comunicare, è capitato anche a chi scrive. “È stata davvero una missione durissima”, raccontano ancora da bordo mentre la Ocean Viking entra nel porto di Augusta. “Era notte quando abbiamo fatto l’ultimo soccorso, uno dei più numerosi degli ultimi anni: una wooden boat con a bordo 369 persone. Un delirio”. Le wooden boat sono le imbarcazioni di legno che hanno ricominciato ad attraversare il Mediterraneo, o quantomeno a provarci. Molto più grandi dei gommoni, erano scomparse negli ultimi quattro anni dalla rotta libica. Da qualche tempo sono ricomparse, segno che i libici - che gestiscono i flussi di persone per ottenere regalie oppure più distrazione verso i loro traffici di petrolio e armi di contrabbando - stanno spingendo per ottenere qualche cosa dall’Italia e dall’Europa. “Ma quattro anni fa, quando si trattava di soccorrere una wooden boat in difficoltà, intervenivano più navi, o delle ong o delle marine militari o della guardia costiera. Insomma c’era un coordinamento, perché gestire un trasbordo di centinaia di persone è una impresa davvero difficile e rischiosa”. Il barcone era stato visto da un aereo di Pilotes Volontaires durante il giorno. Ma quando la Ocean Viking è arrivata in zona, era già notte. “Ci siamo messi a pattugliare la zona sia con i gommoni sia con la nave. Ma per quanto possa essere grande una imbarcazione, di notte è come cercare un ago in un pagliaio”. La luce che può emettere una wooden boat arriva a un miglio e mezzo, forse due. E la zona che i volontari di Sos Méditerranée si sono trovati a pattugliare era di molte decine di miglia. “Nel nostro caso si trattava, in sostanza, di trovare una lucetta in mezzo al nulla. È andata bene, l’abbiamo trovata. Ma era tanto fioca che credevamo fosse una boa. Quando abbiamo acceso le nostre torce, ci siamo trovati davanti a una imbarcazione che dai gommoni pareva enorme. Abbiamo impiegato quasi sei ore per fare il trasbordo di tutti i naufraghi. Ci sembrava che non finissero mai, perché tanti caricavamo sui gommoni tanti salivano da sottocoperta. A un certo punto si sono messi a vomitare tutti, perché erano troppo compressi gli uni sugli altri. Un delirio. Abbiamo fatto avanti e indietro più di trenta volte con due gommoni per portarli tutti a bordo della nostra nave. Noi ce l’abbiamo fatta, ma è davvero assurdo che si sia rimasti soli, che non ci siano le istituzioni a operare i salvataggi. E che poi, per giunta, ci abbiano fatto attendere tutto questo tempo per assegnarci un porto di sbarco”. Enrico Letta nel 2015 twittava: “Ripristinare Mare Nostrum. Che gli altri paesi europei lo vogliano oppure no, che ci faccia perdere voti oppure no”. Speriamo che non abbia cambiato idea, e che ripensi anche alla concessione del finanziamento italiano alla cosiddetta guardia costiera libica. La strategia dell’Europa sui migranti: chiudere gli occhi e pagare la Turchia e gli altri di Francesca Mannocchi L’Espresso, 11 luglio 2021 Continua la pioggia di soldi verso i Paesi che blindano i confini. Così sceglie di continuare a non risolvere i problemi. E il governo Draghi prende tempo. Urgenza e esternalizzazione. Queste le parole chiave sulle migrazioni che emergono dal recente vertice di Bruxelles. Se è vero, riconoscono i leader europei, che le misure degli ultimi anni hanno ridotto gli arrivi e i flussi irregolari, è vero anche, dicono i numeri, che l’evoluzione di alcune rotte migratorie torna a preoccupare l’Europa che esprime una volta ancora la necessità di “vigilanza costante e interventi urgenti”. A oggi sono circa 20 mila le persone sbarcate irregolarmente lungo le coste italiane. Erano 6.500 lo scorso anno, 2.500 l’anno precedente. Un aumento del 66 per cento dal 2020, destinato ad aumentare con la stagione estiva, che allarma soprattutto i Paesi dell’area mediterranea, chiamati a gestire insieme il flusso migratorio e le scadenze elettorali. Il Consiglio europeo del 24 e 25 giugno scorsi, che avrebbe dovuto trovare la quadra tra le esigenze dell’Europa meridionale, l’Europa di confine, e le resistenze degli altri che toccano l’apice nell’ostruzionismo del blocco di Visegrad, ha fatto slittare al prossimo autunno gli accordi sui ricollocamenti, rafforzando la dimensione esterna delle politiche in materia di immigrazione. Vanno sostenuti i Paesi terzi, è la sostanza delle intese che si stanno disegnando in Europa. Vanno sostenuti, cioè, i Paesi da cui si originano i flussi, i Paesi che ospitano migranti, i Paesi che bloccano le partenze, i Paesi che, in sostanza, proteggono i confini (sempre più esterni, sempre più lontani) della fortezza Europa. Senza aver fatto nessun significativo passo avanti sugli accordi di ricollocamenti interni e “redistribuzione” (termini che già da soli descrivono l’approccio europeo alle persone costrette all’esilio o a migrazioni spesso forzate), l’Europa torna quindi a registrare una stasi: tutto è delegato alle relazioni tra Paesi, e i fondi europei destinati a Stati di confine (Turchia, Libano, Giordania e, forse, anche Libia) cui viene di fatto subappaltato il controllo dei flussi. Draghi non è soddisfatto ma nemmeno deluso: il suo obiettivo, l’ha ribadito al termine del Consiglio, non era ottenere un accordo sui ricollocamenti che giudica prematuro, ma trovare un’intesa conveniente per l’Italia sul lungo periodo. L’aveva anticipato alla Camera alla vigilia del vertice: “La solidarietà obbligatoria verso i Paesi di primo arrivo attraverso la presa in carico dei salvati in mare rimane divisiva per i 27 Stati membri”. La responsabilità sulle persone salvate era e resta divisiva per il premier, è dunque per lui più realistico cambiare modello che avere fretta, più concreto impegnare gli Stati europei nel finanziare l’onere dei Paesi terzi che gestire accordi bilaterali tra due o tre Stati dell’Unione. Più pratico spostare il confine a sud, pagando altri affinché contengano ciò che l’Europa non ha saputo gestire, e prendere tempo. Non tutti però sono d’accordo a temporeggiare. Il risultato del vertice è per il premier italiano un primo passo importante, ma il Presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, ha commentato criticamente l’esito del Consiglio definendo “moralmente inaccettabile che le questioni dell’immigrazione e dell’asilo siano legate a vicende elettorali degli Stati membri”. Sassoli ha indicato poi due priorità: la prima è una riconsiderazione del meccanismo europeo di ricerca e soccorso in mare che coinvolga i Paesi, le organizzazioni umanitarie, la società civile e le agenzie delle Nazioni Unite, probabilmente recependo le indicazioni del Rapporto del Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa dello scorso marzo. Il documento metteva in rilievo le inefficienze delle attività di ricerca e soccorso nel Mediterraneo sottolineando i profili di illegalità dei rimpatri forzati in Libia e i conseguenti trattenimenti prolungati di migranti e richiedenti asilo. La seconda priorità è un sistema di reinsediamento fondato su un appello alla comune responsabilità. Ennesimo appello inascoltato. Già all’inizio di maggio, dopo l’arrivo di 1.400 persone in una settimana a Lampedusa, l’Italia aveva chiesto aiuto all’Europa. In risposta, l’Irlanda aveva accolto dieci persone, altrettante la Lituania e il Lussemburgo aveva espresso solidarietà e intenzione ad accogliere dei rifugiati. Non è ancora chiaro quanti, non è ancora chiaro quando. Se la responsabilità e la solidarietà si esprimono così, se i ricollocamenti su base volontaria non funzionano, e non funzionano, si sono detti al Consiglio d’Europa, tanto vale consolidare il modello-Turchia. A conclusione del vertice Ue, la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen ha dichiarato che l’Europa ha rinnovato “il sostegno pari a tre miliardi di euro di finanziamento per i rifugiati in Turchia”. Si mantiene, rafforzandosi, il patto del 2016, nato come soluzione per tamponare la crisi del 2015, anno in cui un milione di persone cercò di attraversare la rotta balcanica per raggiungere l’Europa. Un accordo controverso che destinava 6 miliardi di euro per i rifugiati siriani in Turchia, in cambio di maggiori sforzi da parte delle autorità turche per arginare il flusso diretto in Europa. Molte cose sono cambiate da allora, la Turchia, che prima che scoppiasse la guerra siriana nel 2011 ospitava solo 60 mila richiedenti asilo, ospita oggi sei milioni di migranti tra cui quasi quattro milioni di rifugiati siriani. Due milioni in più rispetto al 2016, anno della stipula degli accordi. L’Europa ringrazia e paga, sentendosi in debito con Erdogan che tiene chiusi i confini. Intanto, più di un milione di uomini siriani in Turchia non riesce ad ottenere un permesso di lavoro, e mezzo milione di bambini siriani non va a scuola ed è esposto a forme di sfruttamento lavorativo e sessuale. Lo stesso accade negli altri Paesi a cui il Consiglio d’Europa ha destinato altri 2 miliardi: Giordania e Libano. In Libano, che attraversa una crisi economica senza precedenti, il 90 per cento dei rifugiati siriani vive in condizioni di estrema povertà. Catherine Woollard, direttrice del Consiglio europeo per i rifugiati ed esiliati a Bruxelles, ha affermato di essere preoccupata che i finanziamenti per il controllo delle frontiere impediscano nei fatti alle persone di vivere al sicuro, “se i soldi destinati al supporto sociale e lavorativo vengono destinati al controllo delle frontiere c’è un altro rischio che si finanzino di fatto delle violazioni”. Tradotto, significa che è vero che i Paesi come la Turchia vanno supportati economicamente perché ospitano 4 milioni di siriani mentre da noi un intero continente fatica a ospitarne poche migliaia e reinsediarne una trentina, ma significa anche che continuare ad elargire denaro in cambio della gestione dei flussi migratori sta rendendo l’Europa altamente ricattabile. “La Turchia in un certo senso è in grado di chiedere tutto ciò che vuole dall’Unione ed è anche in grado di agire come vuole a causa della dipendenza creata dall’accordo Ue-Turchia”, ha detto Catherine Woollard. Erdogan l’ha già dimostrato nel febbraio 2020 quando ha aperto i confini occidentali del suo Paese e decine di migliaia di profughi siriani si sono ammassati verso il confine europeo mentre le truppe greche cercavano di respingerle. Allora furono proprio Ursula Von der Leyen e lo stesso Sassoli a raggiungere la penisola ellenica e manifestare solidarietà ad Atene sostenendo che la Grecia fosse lo “scudo d’Europa”. L’Europa oggi è un continente spaventato dai suoi elettori che si esprime attraverso politiche di confine, che rischiano di diventare politiche di autoconfinamento. I soldi elargiti per proteggere le frontiere stanno esasperando e isolando le politiche di Paesi frustrati da un fenomeno che andrebbe gestito e non tamponato o arginato. Durante una conferenza stampa a Palazzo Chigi, ad aprile, il premier Draghi (senza mai scusarsi) aveva definito Erdogan un dittatore di cui si ha bisogno. Oggi l’utile dittatore è protagonista su due tavoli cruciali per la gestione del fenomeno migratorio, in Turchia, ovviamente, e in Libia. Sarà difficile perciò non fare i conti con lui anche sulle coste nordafricane, dove le trattative sul ruolo militare di Erdogan in Libia sono destinate a incrociarsi sul negoziato degli accordi sui migranti. E i negoziati, si sa, hanno dei costi. Il prezzo che paga l’Europa dopo il Consiglio del 24 giugno è di dieci miliardi. Il costo umano del Mediterraneo centrale, da gennaio, 800 morti. Migranti. La violenza nascosta nei centri d’asilo ticinesi di Luigi Mastrodonato Il Domani, 11 luglio 2021 È sera quando un migrante rientra da una passeggiata nel centro federale d’asilo di Balerna, a tre chilometri dal confine italiano. Gli agenti di sicurezza lo perquisiscono, usano modi particolarmente aggressivi e umilianti. Il ragazzo si divincola e si rifiuta di sottoporsi alla pratica. Viene immobilizzato, denudato e lasciato per diverso tempo in questo stato negli ambienti comuni, sotto gli occhi di tutti. Poi viene chiuso sempre nudo e per almeno un’ora nella “sala di riflessione”, un container senza finestre situato in cortile. Il coprifuoco - È solo una delle tante storie che arrivano dai centri d’asilo ticinesi. I migranti che popolano queste strutture non sono criminali, si tratta di persone arrivate nel paese e in attesa di vedere accolta o rigettata la loro richiesta di permanenza. Possono restare nei centri fino a un massimo di 120 giorni e la loro condizione non è tanto diversa da quella dei detenuti in stato di semilibertà. Si può uscire solo alla luce del sole, alle 19 scatta il coprifuoco. Per mangiare e prendere i medicinali ci sono finestre temporali prestabilite, guai a violarle. Altre regole ferree, come il divieto di portare beni di vario tipo all’interno, complicano la quotidianità. Se qualcosa non va per il verso giusto nella migliore delle ipotesi si vedrà sospeso il pocket money settimanale e il diritto all’uscita, nella peggiore si dovrà far fronte alla violenza fisica e psicologica. Un rapporto di Amnesty International uscito a maggio denuncia i maltrattamenti e le violenze subìte dai migranti nei centri federali d’asilo della Svizzera tedesca e francese. Umiliazioni, percosse, forme di contenimento fisico tali da limitare la respirazione e causare una crisi epilettica, isolamenti forzati nei container, ricoveri e negazione delle cure sanitarie, per un totale di decine di casi verificatisi tra gennaio 2020 e aprile 2021. Dalle testimonianze che abbiamo raccolto di associazioni locali per i diritti umani, migranti e di chi in questi centri ci lavora, emerge però che le violenze avvengono in modo sistematico anche nei centri d’asilo di Chiasso e Balerna, situati proprio in prossimità del confine italiano di Como e popolati da una media di 150 ospiti complessivi. Violenze al confine - C’è il caso di un cane degli addetti alla sicurezza che ha aggredito uno degli ospiti, poi rinchiuso nella “sala di riflessione” per aver colpito l’animale nel tentativo di difendersi. Ci sono ripetute storie di alterchi tra i controllori e i migranti risolti in calci e pugni contro questi ultimi, con ricoveri in ospedale, prognosi di diversi giorni e dolori che si trascinano per mesi. Un’altra costante è l’utilizzo di spray al pepe e al peperoncino all’interno delle sale quando si verificano momenti di tensione, con problemi respiratori per le persone che ne subiscono gli effetti. A un ospite con pesanti disturbi psichici è stata negata l’assunzione dei suoi psicofarmaci perché si è presentato troppo tardi allo sportello: per quel giorno niente, ne è conseguita una violenta crisi punita nella solita stanza esterna. Nemmeno le donne e i minori vengono risparmiati da questa violenza e in punizione nel container ci sarebbe finito anche chi ha meno di 18 anni. Un’altra testimonianza racconta di un ragazzo chiuso lì dentro che urlava di dover andare urgentemente in bagno. La sicurezza gli ha intimato di stare zitto e di farsela nei pantaloni, lo hanno liberato dopo sei ore. Denunce e silenzi - Alcuni di questi casi sono finiti in tribunale, un’associazione che si occupa di diritti umani ha raccolto negli ultimi due anni una decina di segnalazioni credibili provenienti dai centri ticinesi. La maggior parte degli episodi rimangono però silenti. I migranti non hanno il tempo di denunciare, i tempi della magistratura sono molto lunghi e la loro permanenza nei centri e più in generale in Svizzera spesso ha i giorni contati. Oltre a questo, esporsi proprio nel momento in cui si è in attesa della concessione dell’asilo rischia di avere controindicazioni per il proprio status. Gli abusi vanno allora avanti e chi lavora all’interno ci descrive un sistema dove “niente funziona e non c’è dignità di trattamento nei confronti delle persone”. Il quadro ricorda quello dei terribili centri per il rimpatrio (Cpr) italiani, dove morti sospette e violenze vengono denunciate da anni. Nel caso dei centri federali d’asilo del Ticino il problema avrebbe a che fare con la società privata che si occupa della sicurezza, la Securitas SA. Come si legge sul sito, i suoi dipendenti fanno un po’ di tutto, dalla sorveglianza delle case private durante le ferie al presidio di eventi e fiere, passando per il controllo degli autosilo e della circolazione stradale. In questo pacchetto si inserisce anche l’attività nei centri di accoglienza, svolta dunque da personale con una preparazione generica e poco adatta al contesto particolarmente delicato. Contattata per una replica, la società non ha risposto. Come ci racconta una fonte, quando la cosa è stata fatta presente all’organo che gestisce i centri, la Segreteria di Stato della migrazione (Sem), la risposta è stata che gli addetti alla sicurezza svolgono un apposito training di comunicazione interculturale e prevenzione del rischio. La sua durata è però di una giornata, a riprova di come si stia sottovalutando il tema dell’addestramento. E se il problema è a monte, anche nella soluzione delle criticità le cose non vanno meglio. Una testimonianza racconta di un addetto di sicurezza particolarmente violento che negli ultimi mesi è stato punito non con il licenziamento ma con trasferimenti continui da una struttura all’altra. Un’altra costante sono poi gli insulti razzisti contro i migranti, rivolti in italiano per non farsi capire. In generale, c’è un clima di ostilità degli addetti contro gli ospiti. I due volti dei centri d’asilo - Ma la situazione è tesa anche tra i lavoratori dei centri d’asilo. Da una parte chi tra la sicurezza porta avanti un sistema fatto di abusi di potere e rapporti verticali, dall’altra chi tra gli educatori e gli assistenti si batte per mettere una pezza a una situazione definita insopportabile e subisce minacce velate e pressioni. Anne Cesard, portavoce della Sem, ha negato le accuse di violazione dei diritti umani: “Non corrispondono per nulla alla realtà in uno stato di diritto come la Svizzera”. Un assistente impiegato in un centro ticinese si rammarica invece dell’opposto: “Chi supera il confine penserebbe di trovarsi in un luogo sicuro. I fatti dimostrano che non è così”. Droghe. Con la pandemia è cambiato lo spaccio: ora la droga te la porta a casa il dog sitter di Floriana Bulfon L’Espresso, 11 luglio 2021 L’emergenza Covid in un primo momento ha colto alla sprovvista le organizzazioni del narcotraffico. Che però si sono adeguate in fretta. Adottando i bitcoin per i pagamenti, il web per il monitoraggio e finti rider per le consegne in zona rossa. Inventività e flessibilità. Le narcomafie hanno saputo adattarsi all’emergenza da pandemia riconvertendo in fretta il business più redditizio. Hanno intrecciato joint venture transnazionali per aggirare i lockdown e le frontiere chiuse, assicurandosi nuove rotte per gestire l’intera filiera, dalla produzione al consumo. Hanno nascosto i carichi di cocaina in sottomarini capaci di attraversare l’Atlantico o stipato l’eroina liquida nei serbatoi dove nessuno controlla. E, come tutte le altre attività imprenditoriali durante il Covid-19, si sono convertite ovunque alla dimensione digitale, dalle contrattazioni online con servizi di messaggistica criptata fino alle consegne a domicilio con i pusher travestiti da rider. All’inizio la pandemia li ha spiazzati. Per loro è stata una doppia minaccia, che ostacolava le vendite al dettaglio nelle piazze e le esportazioni all’ingrosso tra nazioni. C’è stata una rapida carenza di materiali e mezzi. Basti pensare ai precursori per le metanfetamine, prodotti soprattutto in Cina. Proprio a Wuhan, dove tutto è partito, ha sede la Yuancheng Group un’azienda chimica premiata in patria come innovativa, ma che per il giornalista americano Ben Westhoff, autore del libro Fentanyl, Inc, ha una clientela privilegiata: i cartelli messicani. Gli effetti della crisi però sono stati temporanei, il traffico di droga è la fonte più remunerativa e le organizzazioni criminali hanno sviluppato schemi operativi innovativi. Con un salto di qualità. Basta con i corrieri che ingoiano ovuli: si è passati completamente alle catene logistiche commerciali e ai container. Quanto allo spaccio, meglio il web: ordini telematici, quasi mai in contanti, e spedizioni postali a domicilio. Così dopo un iniziale rallentamento i traffici sono volati. Un segnale arriva dai sequestri e per l’Italia è record: ben 58 tonnellate, oltre il 7 per cento in più del pre-pandemia. A colpire sono soprattutto i dati sulla cocaina: 13,4 tonnellate con un aumento del 62,2 per cento rispetto al 2019, che aveva già segnato un traguardo mai raggiunto di oltre 8 tonnellate sequestrate. Più della metà arriva dal porto di Gioia Tauro. La conferma che questo è sempre l’affare principale per la ‘ndrangheta che “mantiene un ruolo egemone nei circuiti globali con Gioia Tauro come hub anche per i carichi diretti nella regione balcanica”, come spiega il vicecapo della Polizia Vittorio Rizzi. Le organizzazioni albanesi e serbo-montenegrine hanno ormai consolidato un ruolo di primo piano nel traffico, instaurando rapporti di stretta collaborazione sia con i cartelli dei produttori sia con le nostre mafie. La relazione annuale della Direzione centrale dei servizi antidroga fotografa lo sviluppo dello spaccio online: ci si muove sul dark web o sui canali social. Si può acquistare comodamente dal divano, pagando in criptovalute su piattaforme terze. I servizi di delivery sono garantiti da pusher camuffati da rider o da dog sitter, categorie libere di muoversi anche in zona rossa: l’accordo avviene con il telefonino, su una chat criptata, e allo spacciatore sarà sufficiente nascondere la droga in un posto concordato. Naturalmente, come per l’e-commerce ci sono pure le spedizioni postali. “La pandemia ha fatto accelerare questi processi, per questo stiamo lavorando ad accrescere l’intervento nel territorio virtuale”, sottolinea il generale della Guardia di Finanza Antonino Maggiore a capo dei nostri servizi antidroga. Si punta a formare il personale e acquisire software di ultima generazione per monitorare le consegne gestite da corrieri pubblici e privati. Con un occhio di riguardo alle droghe sintetiche, trattate soprattutto in rete: il lockdown ha fatto decollare il consumo tra i giovanissimi. C’è un boom delle nuove sostanze psicoattive, molecole ottenute attraverso una costante manipolazione delle strutture chimiche di base e ancora non inserite tra le sostanze vietate: solo lo scorso anno ne sono state individuate ben 46. Il collasso afgano. I rischi globali della guerra civile di Gianluca Di Feo La Repubblica, 11 luglio 2021 Il collasso. L’Afghanistan sta rapidamente precipitando nel baratro di un conflitto civile: il peggiore degli scenari, forse più nefasto di una vittoria dei talebani. Gli americani hanno accelerato il ritiro, costringendo anche gli alleati della Nato ad anticipare la partenza, e lasciano un vuoto che neppure l’offensiva del movimento coranico è in grado di occupare. Il Paese si sgretola, aprendo la strada alla resurrezione dei signori della guerra. Ogni giorno nasce una nuova milizia, con il ritorno sulla scena dei comandanti che trent’anni fa guidarono la resistenza contro i sovietici e poi hanno combattuto i talebani. Vecchi condottieri mujaheddin come Ismail Khan, Abdul Rashid Dostum, Gulbuddin Hekmatyar stanno chiamando alle armi i loro fedeli e prendono posizione in città chiave come Herat, Mazar-I-Sharif e nella stessa capitale. Altri capi tribali ostili all’etnia pashtun mettono in campo forze di autodifesa mentre ci sono segnali di una ripresa della branca locale dell’Isis nella regione nord-orientale. “Rischiamo di ripetere la situazione degli anni Novanta - ha profetizzato il generale Nick Carter, comandante della Difesa britannica - dove dominerà la mentalità dei signori della guerra e molte delle istituzioni più importanti, come le forze di sicurezza, si divideranno secondo linee tribali o etniche. Se accadrà, i talebani controlleranno parte del Paese ma non tutto l’Afghanistan”. La stessa preoccupazione espressa da Austin Miller, il generale a cui il Pentagono ha affidato la gestione della ritirata statunitense. Perché questo scenario fa tanta paura? Ogni fazione cercherà una potenza straniera che la sostenga. Oggi Dostum, l’uomo che nell’ottobre 2001 accompagnò i commandos americani nella celebre carica a cavallo contro i talebani, lancia i suoi proclami dalla Turchia, nazione che potrebbe prendere il controllo dell’aeroporto di Kabul. Hekamatyar guida un partito islamico, sospettato di legami con l’Iran. Anche Ismail Khan in passato è stato protetto da Teheran e oggi i suoi tajiki guardano anche alla Russia. E non a caso Mosca ha intensificato i contatti con altri signori della storica Alleanza del Nord, più vicina alle sue frontiere. Il governo del presidente Ghani oltre al sostegno degli Usa nell’ultimo periodo si è avvicinato all’India. I talebani contano sul Qatar e hanno rapporti controversi ma forti con il Pakistan, che è il principale alleato della Cina. Insomma, l’Afghanistan rischia di diventare una copia del Libano anni Settanta, con tanti eserciti che combatteranno per sé e per conto terzi. E con tante basi terroristiche. I signori della guerra cercheranno di finanziarsi con traffici di droga, estorsioni e rapimenti, azzerando le realtà imprenditoriali e commerciali nate nel Paese in questo ventennio. E tutti tenteranno di ottenere il sostegno sul campo di truppe esperte, mercenari o guerriglieri. Al Qaeda si impose al fianco dei talebani proprio offrendogli denaro e veterani per andare all’assalto di Kabul. Nelle valle di Surabi - pacificata quindici anni fa dagli alpini italiani - sono ricomparsi i killer di Lashkar-e-Taiba, attiva nel Kashmir e protagonista del terribile assalto a Mumbai del 2008 che provocò 175 morti. E l’Isis, sorta all’improvviso nel Nord grazie ad appoggi mai chiariti, cerca di fare reclute promettendo di creare presto un “Califfato d’Afghanistan”. Nel giro di mesi, le vallate afgane potrebbero popolarsi di campi d’addestramento e centrali operative, dove pianificare attentati in tutto il mondo praticamente senza correre rischi. Pechino, Mosca, Teheran, Nuova Delhi e persino Islamabad sono molto preoccupate per questa minaccia, che potrebbe riversare il terrore nei loro confini: i pachistani stanno velocemente completando una barriera sulla frontiera afgana, un reticolato lungo più di duemila chilometri con sensori per controllare i movimenti e fortini presidiati da commandos. Ma anche l’Occidente ha da temere. In tutto il Paese non resterà una sola struttura della Nato e non ce ne saranno più nemmeno negli Stati confinanti. L’intelligence americana non avrà più uomini sul campo, né alleati affidabili: potrà contare soltanto su droni spia e aerei da ricognizione basati a migliaia di chilometri di distanza. Insomma, quello che sta accadendo sotto i nostri occhi è la nascita di una colossale sorgente di instabilità globale. Di cui rischiamo di pagare le conseguenze per decenni.