Giustizia riparativa, la vera svolta della Cartabia di Luca Cereda Vita, 10 luglio 2021 Uno degli emendamenti al ddl di riforma del processo penale, voluto dalla ministra della Giustizia e approvato dal Consiglio dei Ministri, disciplina in modo organico il metodo della giustizia riparativa. Nel rispetto di una direttiva europea e nell’interesse sia della vittima che dell’autore del reato. Ieri in tarda serata il Consiglio dei Ministri su forte impulso di Mario Draghi ha approvato una serie di emendamenti al disegno di legge (ddl) che delegherà al governo la riforma della giustizia, di cui si sta occupando la ministra Marta Cartabia, da quando a febbraio 2021 ha preso il posto di Alfonso Bonafede, trovando un difficile accordo su una delle riforme più importanti tra quelle che l’Italia deve “mettere in piedi”, e non solo in cantiere, per ottenere i finanziamenti europei del Recovery Fund. Sono mesi che sono in corso discussioni e divergenze nella maggioranza, e l’accordo è stato raggiunto a fatica tra le proteste soprattutto del Movimento 5 Stelle: ora dovrà passare in Parlamento, ma ci si aspetta che possano saltare fuori nuove divisioni e scontri. Se la maggior parte dei punti della riforma sono riferiti a elementi della giustizia italiana lenti o “difettosi”, uno costituisce una grossa novità: la giustizia riparativa diventa operativa, e non è più solo una direttiva europea. L’intervento su cui agisce la riforma è corposo: dal “reset” della durata delle indagini preliminari, al “contingentamento” della obbligatorietà dell’azione penale, al capitolo sanzioni e riti alternativi - per cui chi riporta una condanna entro i 4 anni di pena detentiva può chiedere una misura alternativa al carcere -, ma soprattutto per il ritorno “parziale” della prescrizione. La vera novità risiede in uno degli emendamenti al ddl voluto dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia che disciplina in modo organico la giustizia riparativa, nel rispetto della direttiva europea (2012/29/UE) e nell’interesse sia della vittima che dell’autore del reato. Se il ddl passerà alle Camere così com’è - difficile, ma probabile su questo punto - si prevede l’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni fase del procedimento, su base volontaria e con il consenso libero e informato della vittima e dell’autore e della positiva valutazione del giudice sull’utilità del programma in ambito penale. Trovare una definizione per la giustiziai riparativa è complesso, ma il suo obiettivo è restituire attenzione alle dimensioni umane e sociali che investono il crimine. Senza le quali la pena altro non è che una punizione. Per questo motivo le pratiche riparative non riguardano soltanto le dinamiche a rilevanza penale, ma i diversi conflitti che possono generarsi nella comunità. Inoltre è prevista la ritrattabilità del consenso a questi percorsi in qualsiasi momento, ed è ribadita una nota espressa chiaramente nella direttiva europea, per cui la confidenzialità delle dichiarazioni rese nel corso del programma di giustizia riparativa le rende inutilizzabile nel procedimento penale. La riparazione culturale e sociale - La riforma della giustizia propone, non solo l’uscita dai percorsi riparativi, ma anche l’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni fase del procedimento (col consenso libero e informato della vittima e dell’autore e della positiva valutazione del giudice). Il disegno voluto dalla Ministra Cartabia include infine la formazione di mediatori esperti in programmi di giustizia riparativa, accreditati presso il Ministero della Giustizia. La giustizia riparativa è importante ricordare non riguardi soltanto le dinamiche a rilevanza penale, ma i diversi conflitti che possono generarsi nella comunità, dalla famiglia, alla scuola, al lavoro. La giustizia riparativa è infatti un orizzonte culturale che appoggia sul rispetto, sull’equità, sull’inclusione e sulla partecipazione Lo sforzo è quello di indirizzare il dolore di chi subisce il reato, il reo stesso e la società tutta verso il bisogno che dal dolore nasca qualcosa. Qualcosa che non può essere l’odio. Perché i fatti di cronaca - come quelli del carcere di Santa Maria Capua Vetere, ma quelli non sono gli unici - rivelano che il carcere in Italia, e la cultura del “Buttiamo via la chiave”, consumano la vita dell’intera comunità. Senza restituire nulla. L’orizzonte ultimo e culturale dev’essere quello in cui ogni comunità diventi riparativa per se stessa. Un altro carcere è possibile (e urgentemente necessario) di Cinzia Sciuto micromega.net, 10 luglio 2021 Intervista a Luigi Pagano. Le inaudite violenze di Santa Maria Capua Vetere dovrebbero essere l’occasione per modificare radicalmente l’organizzazione delle strutture penitenziarie. Luigi Pagano, ex direttore di carcere, ci spiega perché e come. Le inaudite violenze che si sono verificate nel carcere di Santa Maria Capua Vetere impongono di interrogarsi sulle condizioni delle carceri italiane, per capire come tali fenomeni siano anche solo possibili. Nel carcere vivono i detenuti, vi lavorano gli agenti penitenziari. E le condizioni di vita degli uni e di lavoro degli altri si influenzano a vicenda. Nella prefazione al libro “Il direttore. Quarant’anni di lavoro in carcere” (Zolfo editore, 2020), il pm antimafia Alfonso Sabella scrive che “il carcere è un mistero per chi non ci vive e non lo vive”. Per Luigi Pagano, l’autore del libro, il carcere non è un mistero: in quarant’anni di carriera nell’amministrazione penitenziaria ne ha diretti diversi, da Pianosa all’Asinara, da Brescia a San Vittore. Fino ad arrivare a Bollate, il carcere “modello”. Un carcere normale, secondo Pagano. Luigi Pagano, lei che la situazione delle carceri italiane la conosce molto bene, che spiegazione si dà di quello che è accaduto a Santa Maria Capua Vetere? Quello che abbiamo visto nelle immagini che sono state diffuse è semplicemente inqualificabile. Si è trattato di una vera e propria aggressione a freddo, premeditata e non c’è commento adatto a definirla. Confesso che mi hanno fatto molta impressione quelle immagini, hanno evocato in me ricordi di un carcere che non ho neanche vissuto, di com’era il carcere prima che io stesso ho iniziato a lavorarvi. È una brutta sensazione: quella di aver fatto un salto all’indietro di quarant’anni. Quello che è accaduto a Santa Maria Capua Vetere però ha coinvolto decine e decine di agenti, non si può certo parlare di casi isolati o “mele marce”. C’è in qualche senso un “sistema” che avalla simili derive? Se con sistema intende l’idea che le carceri italiane vengono quotidianamente rette con metodi violenti di questo tipo assolutamente no. Le assicuro che è semplicemente impossibile reggere un carcere alla lunga con la violenza. Ma anche la tesi delle “male marce” non sta in piedi. Il carcere è un sistema complesso, che si fonda su equilibri delicatissimi, che vanno curati ogni giorno anche nelle piccole cose. Una volta quando dirigevo San Vittore un detenuto venne da me dicendomi: “Signor direttore, lo so che lei è una brava persona, ma io avrei una richiesta: non è che si potrebbe avere un letto?”. Capisce? Questa persona, che nel carcere ci viveva, chiedeva un letto! E gli agenti di polizia penitenziaria sono quelli che ogni giorno devono rimandare in celle così i detenuti. Il carcere è un luogo in cui la tensione è sempre molto alta e ogni inezia può innescare una valanga che poi non si riesce a controllare. Per questo gestire un carcere significa innanzitutto tentare con ogni mezzo di smorzare la tensione, di evitare che salga, di prevenire situazioni che poi non sai dove possono portare. Quando ero in servizio dicevo sempre ai miei agenti penitenziari: “Ricordate che il modo in cui ogni sera chiudete la porta della cella può segnare per sempre la vita delle persone che ci vivono dentro”. Nel carcere nulla può essere lasciato al caso, tutto, anche le minime cose, assumono un senso e un’importanza che fuori da quelle mura non hanno. Tutto questo non può neanche lontanamente fungere da giustificazione per quello che è accaduto a Santa Maria Capua Vetere, naturalmente, e la mia condanna di questi fatti è assoluta. Quello che intendo dire è che limitarsi alla condanna sarebbe troppo poco perché in un certo senso sì, è un problema di sistema: un sistema di amministrazione penitenziaria che andrebbe rivoltato come un calzino. E cosa serve? Nuove leggi? Assolutamente no! Sulla carta noi potremmo avere un sistema carcerario modello. La legge sull’ordinamento penitenziario del 1975 e la legge Gozzini creano un quadro normativo che risponde esattamente al principio costituzionale previsto dall’articolo 27 della nostra Carta: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Del resto il fatto che esistano esempi come Bollate dimostra che se si vuole si può. Ecco, Bollate: ci racconti un po’ come è nato e come funziona... A Bollate semplicemente si è preso sul serio quello che dice la legge 354 del 1975. A partire dal fatto che in quella legge non si cita mai, mai, la parola “cella”. Le “celle” sono chiamate “camere di pernotto”. E se le celle sono le camere dove si pernotta, allora bisogna che si pensino degli altri spazi dove i detenuti possano trascorrere le loro giornate. E a quel punto bisogna anche essere creativi e immaginare dei modi in cui il tempo in questi spazi trascorra in maniera sensata, piena. Non dobbiamo mai dimenticare che il carcere è sì il luogo dove le persone che hanno commesso dei reati espiano la loro pena, ma nella pratica quotidiana è un luogo dove le persone vivono. Perché il “modello Bollate” non si è esteso ovunque? Innanzitutto c’è da dire che a Bollate abbiamo avuto la fortuna di poter partire da zero. Era un carcere nuovo, costruito per alleggerire San Vittore, e quindi abbiamo potuto impostarlo anche proprio fisicamente in maniera diversa. Molto più complicato è applicare questo modello in strutture molto vecchie, il cui impianto di base è pensato esclusivamente per garantire la funzione detentiva, ossia per tenere i detenuti chiusi nelle celle e farli uscire solo poche ore al giorno. In secondo luogo naturalmente un’esperienza come quella di Bollate ha bisogno della convergenza di diverse volontà: la direzione del carcere, certo, ma anche più in generale dell’amministrazione penitenziaria (che avrebbe bisogno di stabilità e di personale competente, mentre molto spesso vengono catapultate al Dap, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, persone che non sanno come si gestisce un carcere e che magari dopo due anni vengono spostate, per ricominciare da capo) e, non ultima, dei soggetti politici. Ecco, la politica. Diverse ricerche dimostrano che un carcere più umano, che rispetti la dignità dei detenuti, rappresenta anche un elemento di sicurezza per la società tutta. Il tasso di recidiva a Bollate, per esempio, è molto più basso della media, anche fra i detenuti che sono stati trasferiti da altre carceri. Questo dovrebbe indurre la politica a prendere molto sul serio la questione e fare di tutto per estendere il “modello Bollate”. Perché questo non accade? Perché il carcere è diventato un simbolo e perché i numeri e le statistiche sono molto meno convincenti di facili battute come “i delinquenti devono marcire in carcere”. Una frase che lede la dignità non solo dei detenuti ma anche del personale che nelle carceri lavora: se quelli che vivono in carcere ci devono “marcire”, io che ci lavoro che funzione svolgo? Io non sono un becchino! È vero che le persone che stanno fuori dal carcere di fronte a esperienze come quella di Bollate all’inizio possono avere paura: ma come, non li tenete chiusi in cella tutto il giorno? Ma il problema a mio parere è che il legislatore nel corso degli anni ha dato segnali di schizofrenia: prima la legge 354 del 1975 che però è stata mandata allo sbaraglio, perché non sono state create le condizioni affinché potesse funzionare (a partire da una ristrutturazione degli edifici carcerari che non erano adatti a realizzare quello che la legge prevedeva), poi si costruiscono le carceri di massima sicurezza, poi con la legge Gozzini si introducono una serie di misure alternative e benefici, che però poi si limitano con l’articolo 4 bis della legge sugli ordinamenti penitenziari e con i decreti antimafia. E nel frattempo si fanno amnistie e indulti per svuotare le carceri sovraffollate. Ecco, il sovraffollamento è forse la questione delle questioni, quella preliminare a tutte le altre. Come la si risolve? C’è chi suggerisce la necessità di costruire nuove carceri, lei che ne pensa? Penso che le riempiremmo subito… No, non è questa la strada. Certo, servono nuove carceri ma soprattutto per chiudere alcune strutture assolutamente inadeguate agli standard di civiltà di un paese democratico nel 2021, strutture come San Vittore, Poggioreale, Regina Coeli, Brescia. E non servono neanche amnistie e indulti, che hanno un effetto nell’immediato ma non risolvono il problema in via strutturale, oltre a creare disagio nei cittadini. No, la strada è solo una: in carcere ci devono finire meno persone. Fuori dal carcere si ha un’idea molto appiattita della realtà dei detenuti, ma dobbiamo fare lo sforzo di capire che i detenuti sono persone molto diverse fra loro, che hanno commesso reati diversi, per motivi diversi, con livelli di gravità diversi, che si trovano in condizioni sociali, psicologiche, fisiche diverse. Prendiamo la grande questione dei tossicodipendenti. Nelle carceri italiane abbiamo circa il 30 per cento di detenuti che hanno commesso reati legati alla tossicodipendenza. Ora, per un tossicodipendente qual è il senso di stare in carcere, dove evidentemente non può ricevere quell’assistenza di cui ha bisogno? O pensiamo ai malati di mente o a soggetti affetti da gravi patologie. E poi alle persone che devono scontare una pena breve, 1-2 anni: che senso ha intasare le strutture carcerarie di persone che vi transitano per brevi periodi e con le quali è impossibile anche solo iniziare dei progetti di medio e lungo termine? È solo uno spreco di risorse che non serve a nessuno. Torniamo in chiusura alle vicende di Santa Maria Capua Vetere. Se da un lato non c’è dubbio che vanno radicalmente modificato il sistema carcerario nel suo complesso, dall’altro è altrettanto innegabile che le responsabilità individuali vanno accertate e i colpevoli di violenze così gravi puniti. In molti, da diversi anni, chiedono l’introduzione dei codici identificativi sulle divise degli agenti: lei cosa ne pensa? Penso che se una simile proposta viene avanzata come unico provvedimento “spot” da una politica che vuole lavarsi le mani dai problemi strutturali, allora sarebbe non solo inutile ma anche controproducente. Se invece lo si inserisce all’interno di una grande rivoluzione del sistema carcerario che finalmente ridia dignità sia ai detenuti sia al personale della polizia penitenziaria, allora sono sicuro che gli agenti sarebbe i primi a volerlo. “È necessario che le forze di polizia agiscano in maniera riconoscibile” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 luglio 2021 Il parere del Garante mauro palma dopo i fatti di Santa Maria Capua Vetere. “L’identificazione delle forze di polizia è un elemento di preoccupazione e un problema che avevo sollevato 20 anni fa per Genova e continuo a sollevare. C’è una necessità che le forze di polizia agiscano in maniera riconoscibile”. Lo ha detto il garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma, durante la presentazione del libro “La vendetta del boss. L’omicidio di Giuseppe Salvia” di Antonio Mattone nell’aula magna dell’Università Federico II di Napoli. Il garante nazionale Palma ha sottolineato che la necessità non è nella “riconoscibilità del singolo, perché poi si pongono anche questioni di tipo civile, riverberandosi contro il singolo distruggendo delle vite. Significa la riconoscibilità della micro organizzazione di appartenenza. A me basta questo, le persone che lavorano in piccoli gruppi. Nessuno vuole rovinare la vita delle persone, ma penso che sia una sconfitta quando una Procura archivia un’indagine o la fa parziale perché dice che non è riuscita a identificare gli altri. È una sconfitta complessiva anche nostra”. Al carcere di Santa Maria Capua Vetere non ha funzionato la catena di comando? Mauro Palma ha riposto: “Diciamo che in generale la catena di comando si ha meglio quando agisce un corpo già strutturato, anche un corpo particolare, più speciale. Quando invece le persone sono raccolte da più istituti e senza una linea di comando in maniera precisa è molto più rischioso. Secondo il Garante nazionale “c’era una linea di una sorta di indicazione, ma non di comando. Mi è sembrata anzi che ci fosse la mancanza di una linea di comando. In quei giorni chiesi che intervenissero i Gom, Gruppo operativo mobile, perché oltre alla professionalità è comunque un corpo di cui io conosco le responsabilità e se uno sbaglia so con chi prendermela. Se hai un corpo raccogliticcio tutto questo non lo vedo”. A proposito dell’incontro avuto con il leader della Lega Matteo Salvini, il Garante ha spiegato: “Qualche mese fa in una dichiarazione ero il garante dei delinquenti, ora invece dire che abbiamo avuto un ottimo colloquio”. Palma ha proseguito: “Abbiamo parlato dei problemi perché noi dobbiamo fare un lavoro di democrazia, depurare questi temi che attengono ai diritti fondamentali delle persone, anche di chi ha sbagliato e necessariamente deve eseguire una pena, ma dobbiamo depurare da ideologismo. In carcere può esserci anche una necessità di un uso della forza, ma dev’essere fatto in maniera professionale, controllata, documentata e quando è una misura di estrema necessità. Quelle cose che ho visto a Santa Maria Capua Vetere - ha concluso il Garante - non hanno nessuna di queste caratteristiche”. L’orrore e i troppi impuniti: parlano i detenuti picchiati di Nello Trocchia Il Domani, 10 luglio 2021 “Io non sono riuscito a vederli interamente i video, ho provato brividi. Ma quella scena dei detenuti che passavano sotto i cordoni mi ha impressionato. Successe anche a me, ma erano gli anni ottanta”, dice Pietro Ioia, garante dei detenuti di Napoli. “Non ho ancora capito come sono riuscito a salire, io non ce la facevo più a camminare. Non ho mai preso così tante botte in vita mia”, dice un ex detenuto che ha denunciato. “A me non sembra una cosa normale, dopo articoli, dopo denunce, che mio fratello sia rimasto nello stesso reparto con i suoi aguzzini per mesi. Come avrebbe potuto denunciare? Ha avuto paura di ritorsioni”, racconta il familiare di uno dei detenuti picchiati. “Devono fare il presente altrimenti dimostreranno che l’omertà non gli è estranea”, dice Pietro Ioia, garante dei detenuti di Napoli. Il “presente” di cui parla è l’obbligo morale che gli agenti picchiatori, non ancora identificati, hanno nei confronti delle vittime e del paese: quello di presentarsi all’autorità giudiziaria e confessare la partecipazione alla mattanza. Sono decine gli agenti, muniti di casco e non riconoscibili, che hanno partecipato al pestaggio del 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Fatti che hanno portato all’emissione di 52 misure cautelari, alla sospensione di 77 agenti in una indagine che coinvolge 117 persone. Identificare gli altri protagonisti del pestaggio di stato è una delle richieste che arriva dai detenuti e dai loro familiari. Ioia, un passato da narcotrafficante, pagato il suo conto con la giustizia, è diventato prima attivista e poi garante dei detenuti. Poggioreale 30 anni fa - Per i familiari dei reclusi non è solo un riferimento, ma uno di loro. Uno che ha vissuto sulla propria pelle pestaggi simili a quelli ripresi dalle telecamere del carcere Francesco Uccella. Nudo e massacrato. “Io non sono riuscito a vederli interamente i video, ho provato brividi, non ho avuto il coraggio di arrivare alla fine. Ma quella scena dei detenuti che passavano sotto i cordoni mi ha impressionato. Ci sono passato anche io. Erano gli anni Ottanta, oltre trent’anni fa, amaramente dico, sembra non sia cambiato niente”. Erano gli anni della cella zero, di un carcere, quello napoletano di Poggioreale, dove agivano le squadrette e dove lo stato non controllava niente, nell’istituto di pena entrava di tutto: droga e armi. Nelle chat agli atti dell’inchiesta, gli indagati per il pestaggio nel carcere di Santa Maria Capua Vetere evocano proprio l’istituto partenopeo. Pasquale Colucci, dirigente aggiunto della polizia penitenziaria, oggi ai domiciliari, definisce la violenza camuffata da perquisizione straordinaria con un nome: “Il sistema Poggioreale”. “Quando ti portavano in cella zero, ti aspettavano in quattro, cinque agenti e ti piegavano a forza di colpi. Quando nell’aprile dell’anno scorso il telefono ha cominciato a squillare, ho capito piano piano che era successo di nuovo e in maniera indecente”. Ioia e il garante regionale, Samuele Ciambriello, sono diventati destinatari di telefonate, audio e messaggi da parte dei familiari che raccontano quanto accaduto il 6 aprile. Così Ciambriello ha inviato, la sera dell’8 aprile, l’esposto alla procura dal quale è partita l’indagine. Tra le vittime denuncianti c’è anche un detenuto che lo scorso settembre aveva raccontato a Domani le violenze subite, ma soprattutto che aveva visto i video del massacro durante la sua testimonianza in procura. La paura delle vittime - “Ho rivisto i video, ho provato di nuovo terrore. Ho rivissuto le violenze, la paura. In mezzo alle scale c’ero io che venivo massacrato, arrivavo dal passeggio, mi avevano già picchiato in ogni modo. Ad oggi non ho ancora capito come sono riuscito a salire, io non ce la facevo neanche a camminare. Non ho mai preso così tante botte in vita mia”, dice. A settembre ci aveva raccontato l’interrogatorio davanti ai pubblici ministeri Daniela Pannone e Alessandra Pinto, la prima visione dei video, utile al riconoscimento degli agenti picchiatori. Ora l’inchiesta, coordinata dal procuratore Maria Antonietta Troncone e dall’aggiunto Alessandro Milita, ha riportato alla luce quelle immagini, sequestrate dai carabinieri e salvate ai tentativi di depistaggio. “Aspettiamo il processo per costituirci parte civile, chiederemo i danni allo stato per quello che abbiamo trascorso. La cosa che però io cerco, oltre alla giustizia, è un lavoro perché non voglio sbagliare più”, conclude. Non tutti i detenuti vittime hanno denunciato, ma dopo la pubblicazione dei video da parte di Domani, ci hanno scritto perché hanno riconosciuto figli, mariti, padri, cari. “Io ho rivisto mio fratello, era nell’area socialità, dove solitamente vanno per scambiare una chiacchiera, giocare a biliardino, invece l’hanno devastato di botte, ma non ha denunciato”, ci racconta il congiunto di un detenuto che deve finire di scontare la sua pena in carcere. È ancora lì al reparto Nilo, luogo del pestaggio. “A me non sembra una cosa normale, dopo articoli, dopo denunce, che mio fratello sia rimasto nello stesso reparto con i suoi aguzzini per mesi. Come avrebbe potuto denunciare? Ha avuto paura di ritorsioni. Non voleva neanche parlarne, raccontava solo di un recluso sfasciato di botte. Io provo rabbia e schifo, siamo una famiglia di lavoratori, mio fratello sta pagando la sua pena, ma non siamo abituati al carcere. Questa storia ci ha segnati. Ci costituiremo parte civile, ma vogliamo giustizia e che chi ha sbagliato lasci la divisa. Non sono agenti, hanno fatto cose bestiali”, conclude. I familiari temono che sulla vicenda possa cadere il silenzio. Un altro detenuto, presente quel 6 aprile, ricorda la storia di Lamine Hakimi, il giovane algerino, picchiato e portato, senza ragioni, in isolamento, lasciato senza farmaci, morto dopo aver assunto un mix di oppiacei. “Ho visto le manganellate che gli hanno dato, ero lì. Era un ragazzo malato (affetto da schizofrenia, ndr), non doveva stare in carcere nelle sue condizioni. Invece, come noi, ha vissuto l’inferno prima di morire. Ho ancora gli incubi, ma non ho denunciato”, ci racconta un altro ex detenuto. Altri, invece, hanno deciso di raccontare tutto. Sono 77 i reclusi che sono stati ascoltati dalla procura contribuendo alla ricostruzione dei fatti e al riconoscimento degli agenti, anche se molti poliziotti penitenziari restano ancora impuniti e senza volto. Stato di diritto e Bonafede di Concita De Gregorio La Repubblica, 10 luglio 2021 È ricomparso ieri fra noi Alfonso Bonafede. Interrompendo il silenzio stampa che gli esponenti del Movimento Cinque Stelle osservano da quando Conte e Grillo sono ai ferri corti l’ex ministro di Giustizia ha scelto un post su Facebook, sede ormai quasi esclusiva del dibattito politico, per intervenire con parole nettissime sul caso che tiene banco da giorni. Era molto atteso a raccontare la sua versione dei fatti sulla mattanza di Santa Maria Capua Vetere: uno squadrone punitivo di agenti penitenziari privi di insegne ha massacrato di botte i detenuti inermi. L’unica ragione per cui da settimane si parla della mattanza è che per sbaglio una telecamera di sorveglianza è rimasta accesa ed ha filmato le violenze. Le quali violenze, si suppone, e in qualche raro caso si sa da testimonianze inascoltate, possono avvenire anche quando le telecamere sono spente - dalla Caserma di Bolzaneto a Genova, vent’anni fa, sino ad oggi. Penso a come si devono sentire di fronte a quelle immagini i familiari di persone detenute, magari in attesa di giudizio. Non che i criminali conclamati si possano prendere a botte, naturalmente: è solo per ricordare che migliaia e migliaia di persone in carcere devono essere ancora giudicate. Il pilastro del garantismo, la presunzione di innocenza: i fondamenti dello Stato di diritto. Mano, non è su questo che è intervenuto Bonafede. Ha invece bocciato la riforma della giustizia di Marta Cartabia, che ha preso il suo posto al ministero, e i Cinque Stelle che l’hanno approvata con “timoroso e ossequioso benestare”: “Il più grande e grave fallimento di uno Stato di diritto”, ha detto. Uno dei più gravi, semmai, diciamo. Ma attendiamo il suo prossimo post su Facebook. Ddl penale, dalla prescrizione alla giustizia riparativa: la sintesi delle principali novità di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 10 luglio 2021 Il Cdm dell’8 luglio ha approvato all’unanimità gli emendamenti governativi al Ddl delega sul processo penale (A.C. 2435) proposti dal Ministro della giustizia, Marta Cartabia, per ridurre i tempi e dare maggiore efficienza ai tribunali. Il Consiglio dei Ministri dell’8 luglio ha approvato all’unanimità gli emendamenti governativi al disegno di legge recante “delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello” (A.C. 2435) proposti dalla Ministra della giustizia, Marta Cartabia. Molte le novità a partire dal cambio di passo sulla prescrizione che ha tenuto in scacco la riforma per diverse settimane a cause delle diverse visioni presenti in maggioranza. Nell’illustrare il testo, a quanto si apprende da fonti governative, la Ministra Cartabia, ha detto: “Lo sforzo della riforma è stato dare un’immagine del processo penale, in cui tutti potessero riconoscersi”. Oltre ai nuovi ‘tempi’ in materia di prescrizione, gli emendamenti prevedono: criteri trasparenti per l’esercizio dell’azione penale, regole per le impugnazioni, misure alternative, digitalizzazione. Le novità dunque riguardano molti aspetti del processo, ed hanno l’obiettivo di ridurre i tempi e assicurare maggiore efficienza, condizioni per l’accesso ai fondi del Recovery. Prescrizione - Viene confermata l’attuale disciplina, che prevede lo stop alla prescrizione dopo la sentenza di primo grado (sia in caso di condanna sia in caso di assoluzione). Inoltre, si stabilisce una durata massima di due anni per i processi d’appello e di un anno per quelli di Cassazione. È prevista la possibilità di una ulteriore proroga di un anno in appello e di sei mesi in Cassazione per processi complessi relativi a reati gravi (per esempio associazione a delinquere semplice, di tipo mafioso, traffico di stupefacenti, violenza sessuale, corruzione, concussione). Decorsi tali termini, interviene l’improcedibilità. Sono esclusi i reati imprescrittibili (puniti con ergastolo). Inoltre a quanto si legge dai commi 2 e 3 dell’articolo 14 bis, la nuova disciplina sulla prescrizione e la durata del processo, si applica ai reati commessi dopo il 1° gennaio 2020, data di entrata in vigore della legge Bonafede. Quindi, non a tutti i processi per fatti avvenuti prima. (2. Le disposizioni del presente articolo si applicano ai soli procedimenti di impugnazione che hanno ad oggetto reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020. 3. Per i procedimenti di cui al comma 2 nei quali, alla data di entrata in vigore della presente legge, siano già pervenuti al giudice dell’appello o alla Corte di cassazione gli atti trasmessi ai sensi dell’articolo 590 del codice di procedura penale, i termini massimi di durata del processo decorrono dalla data di entrata in vigore della presente legge). Processo telematico - deposito atti e notificazioni. Si delega il Governo a rendere più efficiente e spedita la giustizia penale attraverso la digitalizzazione e le tecnologie informatiche. Si prevede tra l’altro che il deposito degli atti e le notifiche possano essere effettuate per via telematica, con notevole risparmio di tempo. Indagini preliminari e udienza preliminare - Si stabilisce che il pubblico ministero possa chiedere il rinvio a giudizio dell’indagato solo quando gli elementi acquisiti consentono una “ragionevole previsione di condanna”. Termini di durata delle indagini e discovery - Si rimodulano i termini di durata massima delle indagini rispetto alla gravità del reato. Inoltre, alla scadenza del termine di durata massima delle indagini, fatte salve le esigenze specifiche di tutela del segreto investigativo, si prevede un meccanismo di discovery degli atti, a garanzia dell’indagato e della vittima, anche per evitare la prescrizione del reato associato a un intervento del giudice per le indagini per le indagini preliminari che in caso di stasi del procedimento. Criteri di priorità - Gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito di criteri generali indicati con legge dal Parlamento, dovranno individuare priorità trasparenti e predeterminate, da indicare nei progetti organizzativi delle Procure e da sottoporre all’approvazione del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM). Effetti dell’iscrizione della notizia di reato - In linea con il principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza, si prevede che la mera iscrizione del nominativo della persona nel registro delle notizie di reato non possa determinare effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo. Udienza preliminare - Si limita la previsione dell’udienza preliminare a reati di particolare gravità e, parallelamente, si estendono le ipotesi di citazione diretta a giudizio. Il giudice dovrà pronunciare sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentano una ragionevole previsione di condanna. Appello - Si conferma in via generale la possibilità - tanto del pubblico ministero, quanto dell’imputato - di presentare appello contro le sentenze di condanna e proscioglimento. Si recepisce il principio giurisprudenziale dell’inammissibilità dell’appello per aspecificità dei motivi. Si prevedono limitate ipotesi di inappellabilità delle sentenze di primo grado, per esempio in caso di proscioglimento per reati puniti con pena pecuniaria e di condanna al lavoro di pubblica utilità. Cassazione - Si introduce un nuovo mezzo di impugnazione straordinario davanti alla Cassazione, per dare esecuzione alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo. Inoltre, si prevede la trattazione dei ricorsi con contradditorio scritto, salva la richiesta formulata dalle parti di discussione orale in pubblica udienza o camera di consiglio partecipata. Procedimenti speciali: a. patteggiamento - Si prevede che, quando la pena detentiva da applicare supera i due anni (c.d. patteggiamento allargato), l’accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata, nonché alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare; b. giudizio abbreviato - si prevede, tra l’altro, che la pena inflitta sia ulteriormente ridotta di un sesto, nel caso di mancata proposizione di impugnazione da parte dell’imputato; Giudizio ordinario - Mutamento del giudice o del collegio - si prevede che, nell’ipotesi di mutamento del giudice o di uno o più componenti del collegio, il giudice disponga, in caso di testimonianza acquisita con videoregistrazione, la riassunzione della prova solo quando lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze. Querela - Si delega il Governo ad estendere la procedibilità a querela a specifici reati contro la persona e contro il patrimonio con pena non superiore nel minimo a due anni, salva la procedibilità d’ufficio, se la vittima è incapace per età o infermità. Pena pecuniaria - Si mira a razionalizzare e semplificare il procedimento di esecuzione delle pene pecuniarie; a rivedere, secondo criteri di equità, efficienza ed effettività, i meccanismi e la procedura di conversione della pena pecuniaria in caso di mancato pagamento per insolvenza o insolvibilità del condannato; a prevedere procedure amministrative efficaci, che assicurino l’effettiva riscossione e conversione della pena pecuniaria in caso di mancato pagamento. Pene sostitutive delle pene detentive brevi - Si delega il Governo a effettuare una riforma organica della legge 689 del 1981, prevedendo l’applicazione, a titolo di pene sostitutive, del lavoro di pubblica utilità e di alcune misure alternative alla detenzione, attualmente di competenza del Tribunale di sorveglianza. Le nuove pene sostitutive (detenzione domiciliare, semilibertà, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria) saranno direttamente irrogabili dal giudice della cognizione, entro il limite di quattro anni di pena inflitta. È esclusa la sospensione condizionale. In questo modo, si garantisce maggiore effettività all’esecuzione della pena. Particolare tenuità del fatto - Per evitare di celebrare processi per fatti bagatellari, si delega il Governo a estendere l’ambito di applicazione della causa di non punibilità, di cui all’articolo 131 bis del Codice penale, ai reati puniti con pena edittale non superiore nel minimo a due anni. Sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato - Per valorizzare un istituto che ha avuto una felice applicazione nella prassi (22.271 applicazioni al giugno 2021), si delega il Governo a estendere l’ambito di applicazione dell’art. 168 bis c.p. a specifici reati, puniti con pena detentiva non superiore a 6 anni, che si prestino a percorsi di riparazione. Si prevede che la richiesta di messa alla prova dell’imputato possa essere proposta anche dal pubblico ministero. La messa alla prova comporta la prestazione di lavoro di pubblica utilità e la partecipazione a percorsi di giustizia riparativa. Giustizia riparativa - Si delega il Governo a disciplinare in modo organico la giustizia riparativa, nel rispetto di una direttiva europea (2012/29/UE) e nell’interesse sia della vittima che dell’autore del reato. Si prevede l’accesso ai programmi di giustizia riparativa in ogni fase del procedimento, su base volontaria e con il consenso libero e informato della vittima e dell’autore e della positiva valutazione del giudice sull’utilità del programma in ambito penale. Si prevede la ritrattabilità del consenso, la confidenzialità delle dichiarazioni rese nel corso del programma di giustizia riparativa e la loro inutilizzabilità nel procedimento penale. Disciplina sanzionatoria delle contravvenzioni - Si conferma quanto previsto dal disegno di legge 2435 in materia di estinzione per adempimento delle prescrizioni dell’autorità amministrativa. Cartabia: “La riforma? Non è solo un compromesso, ma rispetto della Costituzione” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 10 luglio 2021 La ministra: “Si dovevano correggere gli squilibri della legge Bonafede”. Ministra Marta Cartabia, quanto è stato complicato trovare l’accordo sulla riforma della giustizia penale? “Sono state settimane di continui colloqui. Il fatto però che il Consiglio dei ministri abbia approvato il progetto all’unanimità è stato un traguardo importante. Raggiunto nell’ultimo miglio, anche grazie alla determinata guida del premier che lo ha sostenuto con convinzione. Molti si erano detti increduli o scettici sulla possibilità che questo governo potesse farcela laddove altri erano caduti, compreso l’ultimo. La giustizia da anni è il tema più divisivo in Italia, e le forze politiche dell’attuale maggioranza hanno sensibilità opposte e molto infiammate. Che si sia riusciti ad approdare ad un testo condiviso e comunque incisivo rende il traguardo ancora più significativo”. Qual è stato il passaggio più complicato della trattativa? “Indubbiamente la prescrizione, come era facile prevedere. Gradualmente, in questi mesi le diffidenze e le distanze tra cosiddetti giustizialisti e garantisti si sono accorciate. E questo testo riflette l’apporto di tutti. Le resistenze residue emerse nel Consiglio dei ministri sono nate da esigenze politiche, e non da considerazioni sul merito”. Ma proprio per questo, lei confida davvero che in Parlamento i partiti rispetteranno l’impegno di non darsi battaglia? “Ripartiamo dai fatti. Il primo giorno di questo governo tutte, dico tutte le forze politiche di maggioranza, compreso il M5S, hanno sottoscritto un ordine del giorno impegnandosi a modificare la riforma del 2019 che peraltro era animata dal giusto obiettivo di limitare la prescrizione dei reati e dei processi, troppo frequente in Italia. Ma lo ha fatto con un intervento a detta di molti, e anche mio, sbilanciato: trascurando il diritto degli imputati alla ragionevole durata del processo, che è un principio costituzionale e di civiltà giuridica. È vero che il Greco, organo anticorruzione del Consiglio d’Europa, ha richiamato l’Italia per l’alto numero di prescrizioni, ma l’Italia è anche, e di gran lunga, il Paese col più alto numero di condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo per violazione della ragionevole durata del processo: 1.202 dal 1959 ad oggi; al secondo posto c’è la Turchia, doppiata, con 608. Su temi così importanti e complessi, bisogna avere l’onestà intellettuale di leggere i dati nell’insieme. Quanto alla lealtà futura, le forze politiche conoscono bene gli impegni presi con l’Europa e le scadenze. Mi auguro che il senso di responsabilità dimostrato da tutti i ministri prevalga su ogni altra considerazione, nell’interesse del Paese”. L’ex premier Giuseppe Conte e l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede hanno criticato aspramente la sua soluzione, e diversi parlamentari grillini annunciano battaglia... “La riforma conserva l’impianto della prescrizione in primo grado della legge Bonafede: chi l’aveva allora proposta potrebbe ritenersi soddisfatto. È stato confermato il valore di quell’intervento per arginare il fenomeno delle troppe prescrizioni; un processo che finisce nel nulla è davvero un fallimento dello Stato, su questo io sono la prima ad essere d’accordo, come ben sa Alfonso Bonafede che in queste settimane ha avuto un’interlocuzione costante con il ministero. Tuttavia non si poteva evitare di correggere gli effetti problematici di quella riforma. Per questo abbiamo stabilito tempi certi e predeterminati per la conclusione dei giudizi di appello e Cassazione. Giudizi lunghi recano un duplice danno: frustrano la domanda di giustizia delle vittime e ledono le garanzie degli imputati. La riforma proposta vuole rimediare ad entrambi questi problemi. Non è un banale compromesso politico, è ispirata al bilanciamento tra quelle due esigenze: fare giustizia, nel rispetto delle garanzie. Questo è ciò che ci chiede la Costituzione: bilanciamento fra principi, proporzionalità tra valori, equilibro tra esigenze in conflitto. E quando si parla di giustizia ritengo che l’equilibrio sia una virtù, non un demerito”. Qualcuno ha già paventato rischio per il processo per la strage del ponte Morandi... “Non c’è ragione di preoccuparsi. Intanto questa disciplina si applicherà per reati commessi dopo il 1° gennaio 2020, gli stessi a cui si applica l’attuale legge sulla prescrizione. Ma soprattutto, la riforma prevede che i processi per reati gravi e complessi abbiano garanzie e tempi più lunghi per celebrare ogni grado, con la possibilità di proroghe. E sa a Genova in quanto tempo si celebrano, mediamente, in appello i processi? Meno di due anni. A Roma, l’appello di un caso complesso come “Mafia capitale” è stato celebrato in poco più di un anno. La Cassazione ha impiegato meno di un anno per la pronuncia sulla strage di Viareggio”. Con la dichiarazione di improcedibilità, però, il problema dell’impunità resta... “Uno dei principi in cui più credo è che dopo un reato occorre sempre una “parola di giustizia”. Ed è per questo che anche dopo 40 anni ho lavorato per ottenere dalla Francia il via libera alle procedure per le estradizioni degli ex terroristi rossi, macchiatisi di reati gravissimi. Qui non si tratta di concedere l’impunità a nessuno, bensì di fare in modo che in tutta Italia i processi arrivino a quella parola di giustizia in tempi certi. Perché se a Milano a Palermo questo è già realtà, non dovrebbe esserlo anche altrove? Ogni imputato ha il diritto di sapere se è colpevole o innocente in tempi ragionevoli. Come la vittima e i suoi familiari devono avere quelle risposte in tempi altrettanto brevi”. Ma come si può pensare che superare due o anche tre anni per un processo d’appello non diventi un obiettivo per imputati e avvocati, come accadeva con la prescrizione? “No, non è possibile. Abbiamo pensato anche a questo, introducendo sospensioni che bloccano la clessidra; ad esempio nei casi di legittimo impedimento. L’improcedibilità non può essere un escamotage per difendersi dal processo”. Non teme una “falcidia” di processi in realtà come Napoli, Reggio Calabria, Roma o Catania, dove la durata media dei processi di appello va da tre a cinque anni? “I tempi che abbiamo fissato si basano sui termini della “legge Pinto” che risarcisce le vittime dell’irragionevole durata dei processi, oltre sei anni per i tre gradi. Dunque, è giusto chiedere che i tribunali li rispettino. In 19 distretti d’Italia questo già avviene. In grandi città come Milano, Palermo e Genova, con processi anche complessi, l’appello già dura meno di due anni. Poi ci sono Bari, Bologna e Firenze con tempi medi di poco superiori ai 2 anni. Ma è sulle realtà che lei citava prima come Napoli e altri sei distretti, che noi dobbiamo intervenire. Con più risorse, più magistrati, cancellieri, personale tecnico; con più tecnologia e anche con queste modifiche del rito. Perché mai a Napoli non dovrebbero riuscire a fare quello che fanno già a Palermo, se noi assicuriamo le condizioni giuste? Il tempo per supportare gli uffici giudiziari più in affanno c’è. E rispetto al passato, la vera svolta è che ora abbiamo risorse come mai prima. Ci saranno due concorsi in magistratura, ora entreranno altri 2700 cancellieri, ci saranno interventi anche sull’edilizia e sulla digitalizzazione. E arriveranno a partire dai prossimi mesi, 16.500 assistenti per l’ufficio del processo. Sto girando l’Italia e sto raccogliendo grande attesa per questa novità, perché laddove la sperimentazione dell’Ufficio del processo c’è già stata, i tempi di durata dei procedimenti sono stati abbattuti drasticamente. La giustizia è un pilastro troppo importante del Paese, per permettere diseguaglianze”. Che cosa risponde a chi ha definito la sua riforma un placebo, anziché un vaccino? “Dico di leggere con attenzione tutto il testo. Non solo la prescrizione. Questa riforma è un vaccino proprio perché sveglia gli anticorpi del sistema immunitario della giustizia, che ha al suo interno forze straordinarie, che devono essere messe nelle condizioni di operare al meglio. Nella riforma si interviene su tutte le fasi del processo: dalla regolazione dei tempi per le indagini all’uso di videoregistrazioni per gli interrogatori, a una più severa regola per disporre il rinvio a giudizio, fino a una incisiva riforma delle sanzioni alternative alle pene detentive brevi. Quest’ultimo punto per me è molto qualificante, unitamente alla previsione della giustizia riparativa”. La prossima tappa è la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, che dopo il caso Palamara è diventata materia politicamente incandescente. Teme che le tensioni politiche si ripresenteranno come o peggio che sul penale? E come pensa di poter trovare una mediazione tra le diverse posizioni? “Abbiamo tempi strettissimi anche in questo caso. E stavolta non solo per gli impegni del Pnrr, ma anche per il rinnovo del Csm tra un anno. Un punto è assodato: l’organo di autogoverno non potrà essere rinnovato con queste regole. Chiusa la riforma del processo penale, ora mi concentrerò su quest’altro capitolo, valutando anche cambiamenti che potrebbero richiedere modifiche costituzionali”. Giustizia, l’assenza delle questioni reali di Gaetano Azzariti Il Manifesto, 10 luglio 2021 La riforma. Oltre la questione della prescrizione, su cui è in corso un “derby”, ci sono altri elementi fondamentali di come funziona la giustizia che andrebbero discussi. L’attenzione è tutta concentrata sullo scontro che attraversa le forze politiche sulla questione della prescrizione. Si rischia così di non cogliere i più gravi problemi che affliggono il nostro sistema giudiziario. Non credo infatti che ci si possa limitare a dichiarare la propria contrarietà o il proprio favore per l’istituto della prescrizione “in astratto”, si tratta invece di attuare il principio costituzionale del giusto processo e della sua ragionevole durata (art. 111 Cost.). In questa chiave dovrebbe anzitutto essere evidente che la media di tre anni e otto mesi anni per il compimento di un processo penale o, addirittura, di sette anni e tre mesi per svolgere un processo civile appaiono insopportabili. Il nostro Paese - com’è noto - ha il record delle condanne dei giudici europei per la lentezza dei processi. Pertanto, l’impegno a ridurre nei prossimi cinque anni del 40% i tempi del processo civile e del 25% quelli del processo penale non può che essere condiviso. Ma è proprio qui che si apre la riflessione: come ottenere questo risultato sperato? Per ora si ragiona solo di “termini” e ci si divide tra coloro che in nome della certezza della pena sono disposti a sacrificare ogni ragionevole durata e coloro che in nome della rapidità dei giudizi sono disposti a sacrificare i principi del giusto processo. Infatti, eliminare la prescrizione tout court permetterebbe ai giudici di tenere aperto per l’eternità un procedimento, mentre la fissazione di termini perentori (a pena di successiva improcedibilità) rischierebbe di compromettere sia i diritti di difesa, sia quelli della pienezza del contraddittorio, che si pongono a fondamento di un processo equo. Per ora l’attenzione s’è concentrata su questo derby e si è raggiunto un compromesso solo apparente: s’è mantenuto il blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, ma vengono fissati termini certi per il compimento dei restanti gradi di giudizio. È evidente che si tratta di un gioco delle parti e la sostanza è rappresentata dalla preventiva fissazione di tempi per concludere comunque un processo. È questo in fondo la sola cosa che ci chiede l’Europa. Ma, lo ripetiamo, non sarebbe necessario prestare maggiore attenzione anche a come si raggiunge questo risultato visto che oltre alla durata ragionevole è necessario assicurare anche che il processo sia “giusto”? Per questo dovremmo occuparci anche - soprattutto - delle norme che devono essere applicate durante il processo, nonché quelle relative all’organizzazione della magistratura che pure sono state definite dalle diverse Commissioni incaricate dalla Ministra Cartabia. È in queste proposte che batte il cuore e si rileva il senso delle riforme in materia di giustizia che ci accingiamo a varare. Di queste dovremmo maggiormente discutere. Mi limito a due esempi che credo significativi. Se si vogliono ridurre i tempi dei processi una via potrebbe essere quella di ostacolare l’accesso alla giustizia. Ma sino a dove può spingersi questa prospettiva senza finire per violare il diritto ad agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi assicurata dall’articolo 24 della nostra Costituzione? Ecco allora che le norme sulle inappellabilità delle sentenze di primo grado ovvero anche quelle in sede civile relative agli incentivi per la soluzione conciliativa appaiono decisivi per garantire un processo rapido, ma anche giusto. Distratti dalla prescrizione di questo nessuno parla. Il secondo esempio riguarda proprio la prescrizione. Se riuscissimo ad uscire dalla contrapposizione manichea e tutta politica che ha assunto la contesa tra fautori e denigratori dovremmo cercare di cogliere le ragioni di fondo che spiegano e che limitano quest’istituto. Non si vuole certo dare la possibilità all’indagato di sottrarsi al giudizio, si ritiene invece che la pretesa punitiva dello Stato si affievolisca con il decorso del tempo. Se questa è la ratio della prescrizione ciò che appare veramente inaccettabile è l’uso strumentale di tale istituto. Ciò che bisognerebbe combattere sono le strategie processuali di molti indagati eccellenti (quelli in grado di farsi patrocinare da avvocati maestri del rinvio processuale) che anziché difendersi nel processo puntano ad allungare i tempi per evitare di essere giudicati. Ma allora per combattere questa piaga della giustizia sarebbe opportuno riflettere sulle misure idonee ad impedire i rinvii strumentali senza violare i diritti di difesa. Bisognerebbe guardare cioè non ai tempi dei processi, ma alla farraginosità delle regole processuali. Anche di questo nessuno si parla. “Improcedibilità”, il surrogato della prescrizione con un mare d’incognite di Valentina Stella Il Dubbio, 10 luglio 2021 Santalucia, presidente Anm, considera i due anni per l’appello una “tempistica troppo stringente”. Altre perplessità dai professori Amodio e Spangher. Mentre Albamonte s’interroga sul patteggiamento di nuovo “indebolito”. Il clima politico intorno alla riforma del processo penale firmato Marta Cartabia non è sereno. Lo raccontiamo in altre parti del giornale. Ma anche dal punto di vista tecnico non tutto sembra filare liscio. In primis relativamente all’improcedibilità dell’azione penale. Normata dall’articolo 14 bis del pacchetto di emendamenti governativi, è la vera novità della riforma. La partita per raggiungere l’obiettivo dell’effettiva riduzione dei tempi processuali si gioca anche sul nuovo meccanismo che dovrebbe garantire la ragionevole durata: blocco della prescrizione dopo il primo grado, per salvare parte della Bonafede, ma improcedibilità per appello e Cassazione se non si rispettano dei termini di fase. Si tratta di un istituto nuovo che immediatamente suscita questa domanda: non estinguendo il reato, come si concilia, tale itituto, con il principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale? Come può un processo svanire nel nulla, pur restando in piedi il reato? A una prima lettura è una perplessità condivisa anche dal presidente dell’Anm Santalucia, che al Dubbio dice: “Non è agevole cogliere quale possa essere il fondamento costituzionale di un siffatto meccanismo, calato in un sistema in cui non poche Corti di appello sono in difficoltà e non sono ad oggi nelle condizioni di rispettare una tempistica così stringente. Il meccanismo, se non calibrato ragionevolmente sulle condizioni organizzative e operative di tutti gli uffici giudiziari, potrebbe non armonizzarsi con il principio di obbligatorietà dell’azione penale”. Questo in parte è vero, perché se in appello, in 19 distretti su 29, la durata media è già inferiore ai 2 anni, sette distretti registrano tempi anche di molto superiori alla media (Napoli 2.031 giorni, Reggio Calabria 1.645, 1.247 Catania, 1.111 Lecce, 1.142 Roma, 1.028 Sassari, 996 Venezia). Inoltre è vero che la norma risolve il problema della retroattività sostenendo che si applica a tutti i reati commessi dal 1° gennaio 2020, data dell’entrata in vigore della legge Bonafede, ma, per Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto processuale penale alla Sapienza di Roma, “sarà necessario chiarire meglio la natura della norma. E comunque resta la mia perplessità sulla mantenuta omologazione del condannato con l’assolto nella cessazione della prescrizione con la sentenza di primo grado”. Spangher aggiunge un altro elemento: “Se il pubblico ministero impugna la sentenza di assoluzione in primo grado e sopraggiunge l’improcedibilità per decorso dei tempi processuali, l’assoluzione si converte in improcedibilità. Si tratta di una reformatio in peius per decorso del tempo”. Infine si chiede se “non sarebbe meglio parlare di causa di non punibilità invece che di improcedibilità. Non basta modificare l’articolo 578 cpp, prevedendo che, in caso di condanna al risarcimento del danno e di sopravvenuta improcedibilità, il giudice di appello o di Cassazione rinvii per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello. Questo nuovo istituto andrebbe ridefinito in tutti i profili e le conseguenze che può determinare”. Un’altra questione nasce proprio dal punto di approdo a cui si è dovuti arrivare per far digerire la riforma ai cinque stelle: il regime speciale per i reati contro la pubblica amministrazione. Per alcuni, come il professor Ennio Amodio, si viola così il principio di uguaglianza: “Non si capisce perché debba avere un trattamento deteriore chi è colpito dall’accusa di corruzione”. Ci sarebbe voluto poi più coraggio sui riti alternativi: nella prima bozza Lattanzi, si era detto che il patteggiamento poteva arrivare fino alla metà della pena, ora però questa ipotesi è scomparsa. Solo così, per il pm e segretario di “Area” Eugenio Albamonte, invece “avremmo avuto una decurtazione degli arretrati e una riduzione dei tempi”. Sparita anche l’archiviazione meritata. Conte dichiara guerra al governo sulla giustizia: “No alla riforma Cartabia” di Andrea Colombo Il Manifesto, 10 luglio 2021 Anche Bonafede con l’ex premier, in Senato si annuncia lo scontro. I contiani pronti a uscire dalla maggioranza. Processo ai ministri 5S. A sparare è direttamente Giuseppe Conte dal convegno dei giovani imprenditori di Confindustria. Rispetto di rito per il lavoro della ministra Cartabia, poi le bordate: “Non canterei vittoria. Non sono sorridente. Sulla prescrizione siamo tornati all’anomalia italiana. Se un processo svanisce per nulla, per una durata così breve non può essere una vittoria per lo Stato di diritto”. Come se aspettare anni una sentenza fosse invece la piena affermazione dello Stato di diritto, ma tant’è. La sconfessione dell’accordo sulla riforma della prescrizione siglato la sera prima anche dai ministri 5S più vicini all’ex premier come Patuanelli, secondo le indiscrezioni pubblicate dal sito del Fatto Quotidiano ma smentite dai diretti interessati anche in seguito a un intervento diretto di Grillo, è clamorosa, inevitabilmente gravida di conseguenze. Dimostra che la guerra sulla giustizia non è finita con il severo richiamo all’ordine rivolto da Draghi ai ministri, giovedì sera. Al contrario è appena cominciata. La rivolta dei parlamentari 5S, che domenica pomeriggio si riuniranno con i quattro ministri del Movimento per dar vita a quello che si profila come un vero processo, mette ormai apertamente in discussione la permanenza nella maggioranza. Qualcuno lo dice apertamente, come l’ex sottosegretario e braccio destro di Bonafede Vittorio Ferraresi (“Se non conti nulla meglio stare fuori”) o come la deputata di prima linea Giulia Sarti (“Non ci sono più le condizioni per restare al governo”). Ma tutti lo pensano e molti lo fanno chiaramente capire. Nel Pd la preoccupazione si taglia con l’accetta. Renzi invece soffia sul fuoco, ci mette del suo per spingere almeno i contiani, se non tutti i 5S, fuori dalla maggioranza: “Sono morti e ancora non lo sanno”. Con tanto di annuncio di una nuova offensiva sul reddito di cittadinanza. Di certo occasione migliore di questa per mollare gli ormeggi, Conte non potrebbe trovarla. Il 23 luglio, quando la riforma arriverà nell’aula della Camera, si potrebbe aprire e secondo ogni legittima previsione si aprirà dunque un durissimo scontro, all’opposto di quanto chiesto da Draghi ai ministri: “Una maggioranza eterogenea richiede compromessi. Nessuno può tenersi le mani libere in Parlamento. La riforma va approvata così com’è. Chiedo lealtà e responsabilità”. Sul momento tutti, anche i ministri 5S, hanno accolto il perentorio invito. Ma dopo il cannoneggiamento di ieri è difficile sperare che le cose vadano secondo gli auspici di Draghi. La cannonata di Conte è la più fragorosa, dato il ruolo dell’ex premier. Non la prima, né l’ultima e neppure la più violenta. Ad aprire il fuoco ci aveva pensato già Marco Travaglio, voce che per il Movimento non è affatto solo quella di un pur amato giornalista ma conta come quella di un dirigente a tutti gli effetti. Pesantissimo, con l’accusa esplicita di pusillanimità rivolta ai ministri che avevano accettato la mediazione. In coro Di Battista, il dirigente in libera uscita fino a che i 5S non usciranno dalla maggioranza: “Incapaci, pavidi. Questa settimana è stata un bagno di sangue”. Infine, poco prima di Conte, il diretto interessato, Fofò Bonafede: “È stata annacquata una battaglia durata 10 anni. Il M5S è stato drammaticamente uguale a tutti gli altri. Si producono isole di impunità e si allungano i tempi dei processi”. Molto dipenderà naturalmente dall’esito del tentativo di mediazione tra Grillo e Conte, che però a questo punto somiglia a una missione disperata, essendo le parti in causa più che mai reciprocamente incarognite. Ma con premesse del genere è quasi impossibile immaginare un passaggio senza traumi della riforma alla Camera, per non parlare del Senato, dove i contiani sono ampiamente maggioritari e dove la legge arriverà quasi certamente dopo il 3 agosto, cioè dopo l’inizio del semestre bianco. Cioè quando l’impossibilità di sciogliere le camere sino all’elezione del nuovo capo dello Stato, in marzo, suonerà come la campanella del liberi tutti. È alta l’eventualità che scocchi in quel momento l’ora della verità per i 5S contiani, con un voto contrario che equivarrebbe alla rottura immediata o con un’astensione che preparerebbe il terreno per l’uscita dalla maggioranza nei mesi successivi. Riforma giustizia, per Draghi la garanzia sulla legge è la telefonata con Grillo di Emanuele Lauria La Repubblica, 10 luglio 2021 Dal premier nessun commento sulle posizioni del suo predecessore. Ma il messaggio è chiaro: sui temi del Pnrr non sono leciti smarcamenti. “Adesso in Parlamento mi aspetto lealtà”. Mario Draghi, il suo avviso ai partiti, l’ha notificato già giovedì sera, al termine della tesissima riunione del consiglio dei ministri che si è conclusa con il sì alla riforma della giustizia. E non cambia di una virgola, la posizione del premier, di fronte al fragore dello scontro interno ai 5Stelle e agli echi del malcontento forzista. Barra dritta: Draghi ha pubblicamente apprezzato il lavoro fatto dalla Guardasigilli Marta Cartabia “in cui ogni partito si può riconoscere” e ha ringraziato i ministri che, ciascuno in rappresentanza degli interessi della propria parte politica, hanno fatto un passo indietro per raggiungere l’obiettivo. Adesso, è l’indicazione, non potranno e non dovranno esserci stravolgimenti in aula. Ciò non significa che la legge vada “approvata così com’è”: Palazzo Chigi smentisce infatti che il presidente abbia mai pronunciato quella frase. Il Parlamento, Draghi lo sa bene, è sovrano. Ma nessuno fra le forze che sostengono l’esecutivo, è il ragionamento del capo del governo, potrà sottrarsi al senso di responsabilità. Proprio perché la faticosa intesa trovata in cdm è figlia di tante mediazioni. E dunque, di conseguenza, di molti leader che si sono fatti garanti. Il primo, che garante lo è anche per statuto del suo partito, è Beppe Grillo. L’ufficio stampa del premier non smentisce che Draghi abbia sentito telefonicamente, giovedì, il fondatore dei 5S e che dunque il disegno di legge approvato abbia la sua benedizione. E la circostanza viene sottolineata da Chigi anche dopo che Giuseppe Conte ha manifestato il dissenso per un provvedimento che mantiene la prescrizione “come anomalia italiana”. Il senso è chiaro: al premier basta e avanza l’impegno preso da Grillo. E Draghi non fa alcun commento infatti sulla posizione espressa dal suo predecessore alla guida del governo. Certo, il cammino della legge non sarà facile. Perché al di là del terremoto che sta squassando i 5Stelle, si avvertono turbolenze anche dentro Forza Italia. Il coordinatore Antonio Tajani, ieri mattina, ha detto chiaramente che “bisogna correggere qualcosa”. Ha parlato addirittura di un maxi-emendamento che dovrebbe contenere delle modifiche in senso garantista, opposte a quelle chieste da parte dei 5Stelle. Fi non ha nascosto i dubbi sui prolungati tempi della prescrizione per i reati di corruzione. E non solo: “Penso soprattutto alle richieste fatte dai sindaci per quanto riguarda i reati legati alla pubblica amministrazione”, afferma Tajani. Con riferimento anche a una revisione della disciplina dell’abuso d’ufficio. In realtà, l’irritazione dei berlusconiani è soprattutto legata al metodo: non sono piaciuti i cambiamenti fatti “in zona Cesarini” su input proprio dei 5Stelle. Il fatto è che a cozzare, malgrado la sintesi fatta da Cartabia (definita “un capolavoro politico” dalla collega Mara Carfagna), sono due visioni agli antipodi della giustizia. Sarà presto di nuovo l’ora dei pontieri, nella maggioranza. E in questa schiera si inserisce Matteo Salvini: anche lui ha giocato un ruolo per appianare la strada della riforma e potrebbe portare a più miti consigli l’intero centrodestra di governo che vorrebbe federare. Draghi può acconsentire a qualche ritocco al testo ma non ha alcuna intenzione di mettere in discussione quella che adesso è la sua direzione di marcia: le riforme legate al Pnrr vanno approvate da una sola maggioranza. Sempre la stessa. Non ammesso, dunque, lo strumento dell’astensione al quale volevano aggrapparsi i 5Stelle: si discute, si cambia, si giunge a un onorevole compromesso ma poi niente defezioni. Più che un orientamento, è una dottrina, quella dell’ex presidente della Bce, chiamato alla guida dell’esecutivo per rispettare i patti con l’Europa. E sa bene che la conflittualità è destinata a estendersi ad altre materie delicate (ad esempio il fisco) con l’approssimarsi delle amministrative e del semestre bianco. Non può permettersi il lusso, proprio ora, di deflettere o concedere rinvii. Lo tsunami giustizia travolge il Movimento di Rocco Vazzana Il Dubbio, 10 luglio 2021 La riforma della prescrizione lacera il M5S. Conte e Bonafede contro i ministri del loro partito che hanno accettato la mediazione. La scissione è a un passo. Il giorno dopo l’ok alla riforma Cartabia, che di fatto cancella la prescrizione targata Bonafede, il Movimento 5 Stelle esplode. Quello che fino al giorno prima era solo carbone sotto la cenere pentastellata, ventiquattro ore dopo si trasforma in un incendio che nessuno sembra essere in grado di domare. Da un lato i seguaci di Giuseppe Conte, ostili alle modifiche sulla Giustizia e allo stesso Mario Draghi, dall’altro i fedelissimi di Beppe Grillo, decisi a proseguire nell’esperienza di governo e inclini al compromesso con le altre forze di maggioranza. E la prescrizione era lo “sparo di Sarajevo” che tutti aspettavano per lanciarsi in uno scontro fratricida dagli esiti incerti. Per il Movimento 5 Stelle e per lo stesso esecutivo, visto che una folta pattuglia grillina sembra intenzionata a ribaltare in Aula il compromesso sulla giustizia raggiunto in Consiglio dei ministri. Un proposito bellicoso che potrebbe velocizzare la scissione, al momento congelata, e l’uscita dal governo di un consistente numero di deputati e senatori contiani, come auspicato dal Fatto quotidiano e dall’ex onorevole Alessandro Di Battista, l’asse Conte-Bonafede contro i ministri M5S. Il clima insomma non è dei più sereni e il primo ad aprire le ostilità è un peso da novanta come l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, l’ideologo del “processo a vita” tramutato in legge, che dal suo profilo Facebook rompe il silenzio per dissociarsi dalla scelta dei colleghi ministri di accettare la mediazione al ribasso. “Qualcuno approfitta della riforma del processo penale passata ieri in consiglio dei ministri, con il timoroso e ossequioso benestare dei ministri M5S (che non hanno avuto nemmeno il tempo e la possibilità di analizzare la proposta), per attaccare me e le battaglie che ho portato avanti”, scrive l’ex ministro, che - fanno notare alcuni parlamentari grillini dello schieramento avverso - ai tempi in cui rivestiva i panni di capo delegazione del Conte due non avrebbe mai permesso un simile attacco nei confronti di ministri 5S da parte di esponenti pentastellati. Ma il Conte due non esiste più e Bonafede si sente libero di sparare sui compagni di partito senza troppi fronzoli: “Purtroppo, ieri il M5s è stato drammaticamente uguale alle altre forze politiche nonostante fosse trapelata la volontà di un’astensione”, scrive l’ex ministro con piglio movimentista. Lo stesso stile con cui Di Battista qualche ora prima suona la carica dalle colonne di Tpi, con un editoriale al vetriolo contro l’ala moderata del suo ex partito: “Il fallimento dell’ala governista del M5S è un dato di fatto e solo chi è “interessato” al governo o chi ormai ha la carta intestata ministeriale davanti agli occhi non riesce ad ammetterlo”, scrive Dibba, convinto che impunità e prescrizione siano tornate a causa di chi ha scelto di calarsi “le braghe” in Cdm. “Mai vista una débâcle tale nella storia repubblicana”, aggiunge, riferendosi a tutti i provvedimenti pentastellati smantellati dall’attuale maggioranza. “Una prova di grave irresponsabilità”, tuona l’ex 5S, chiedendo al gruppo parlamentare una “presa di posizione netta”. A prendere posizione però è Giuseppe Conte, aspirante leader da mesi, che intervenendo al convegno dei Giovani industriali, ne approfitta per lanciare la sua bordata: “Ho apprezzato molto il lavoro della ministra Cartabia. Ma io non canterei vittoria oggi, non sono sorridente in particolare sull’aspetto della prescrizione. Siamo ritornati a quella che era nel passato ed è un’anomalia italiana”, sentenzia l’ex premier, che pure assicura di non avere alcuna intenzione di bombardare Palazzo Chigi. Ma l’artiglieria pesante è ormai schierata. Ci pensa il Fatto quotidiano, da mesi critico col “governo dei migliori” e ancora molto influente su una parte di elettorato grillino, a cannoneggiare. Questa volta nel mirino del giornale di Marco Travaglio finisce direttamente il garante, il fondatore, l’elevato: Beppe Grillo. Poco prima dell’ora di pranzo sull’homepage del quotidiano spunta una notizia “esclusiva”: a obbligare i ministri ad accettare la mediazione sulla prescrizione sarebbe stato il comico in persona, dopo un colloquio telefonico con Mario Draghi, di cui ormai sarebbe quasi intimo. È lui, è il sotto testo dell’articolo, il responsabile del tradimento. Apriti cielo. Molti parlamentari cominciano a mugugnare e chiedono spiegazioni alla pattuglia ministeriale. Ma tutto tace. A sorpresa però si rianima il nuovo sito del M5S (movimento5stelle.eu) su cui compare una durissima nota per smentire ogni retroscena giornalistico e rinnegare gli attacchi del mattino lanciati da Conte e Bonafede. “Stiamo sentendo e leggendo ricostruzioni d’ogni tipo. Ma, per fortuna, ci sono i fatti”, recita il comunicato postato sulla pagina ufficiale del partito. E i fatti, l’anonimo estensore dell’articolo (secondo i ben informati istruito da Luigi Di Maio) dicono che “la nostra riforma della prescrizione vige fino al primo grado di giudizio: l’alternativa era cancellarla”. Non solo: “I tempi della prescrizione per i reati dei potenti, quelli contro la collettività (vedi la corruzione) sono stati allungati: non a caso rappresentanti di alcune forze politiche ieri hanno avuto forti mal di pancia”. E “i pm potranno proporre appello anche di fronte a un’assoluzione in primo grado: nel progetto originario non potevano farlo”. Questo è ciò che la comunicazione pentastellata, oggetto del contendere nella disputa Conte-Grillo ma ancora in mano al comico, intende rivendicare. “Se non ci fossimo stati noi, l’esito sarebbe stato molto diverso. Ma attenzione: questo testo dovrà andare in Parlamento. E ci proveranno, state sicuri, tutti, a smantellare le conquiste che abbiamo ottenuto. Dobbiamo farci trovare pronti, ancora una volta a difendere col coltello fra i denti quanto conquistato”, conclude il post, ribaltando la narrazione della debacle sostenuta da Dibba e dai contiani. La presa di posizione però non basta a calmare gli animi. scissione in vista Lo scontro è andato troppo oltre per siglare una tregua. E lo “spettacolo” della frammentazione del Movimento è troppo divertente per gli avversari storici che colgono al balzo l’occasione per girare il coltello nella piaga. Come fa il leader di Italia viva Matteo Renzi, soddisfatto per aver archiviato “l’era Bonafede” e sicuro che il M5S sia “finito, morto, non glielo hanno detto, non lo sanno, lasciamoli, fare”, dice, giocando coi nervi degli alleati di governo, ormai dilaniati da una scissione di fatto. Renzi spera in qualche reazione scomposta e viene subito accontentato. A reagire a viso aperto è ancora l’ala contiana, sempre più convinta della necessità di uscire dalla maggioranza. A parlare pubblicamente dell’opzione è più di un esponente pentastellato, tra cui spicca Vittorio Ferraresi, ex vice di Bonafede in via Arenula. “Al governo in questo Paese ci devi stare, che sia con uno o con l’altro, per impedire che le idee spesso identiche da “sinistra” a “destra”, che muovono su interessi estranei ai cittadini possano dilagare. Ma non ci puoi stare per starci, non combattendo”, dice l’ex sottosegretario, prima di aggiungere serio: “Se non conti nulla meglio stare fuori”. Ma ancora più dura del collega è Giulia Sarti, grillina della prima ora e membro della commissione Giustiza alla Camera: “L’unica cosa da fare adesso è essere coerenti: non ci sono più le condizioni per restare nel governo Draghi. Fine”, scandisce Sarti, aprendo ufficialmente un dibattito pubblico sull’opportunità di posizionare il Movimento all’opposizione. Ma uscire dal governo equivale ad uscire dal partito. Ed è proprio lungo questo confine che si gioca la partita anche interna tra Grillo e Conte. Il primo, ex comico del Vaffa diventato garanzia di stabilità per Draghi, il secondo, ex premier con equilibrio avvocatizio, trasformato nell’intransigente custode del verbo originario. Il futuro del governo è offuscato dalle nubi, quello del Movimento sembra un po’ più definito: la scissione, a questo, punto resta l’unica strada percorribile. Letta: “La riforma della giustizia più importante da 30 anni, i ministri grillini hanno votato sì” di Francesco Olivo La Stampa, 10 luglio 2021 Il segretario del Pd: essenziale per attrarre nuovi investimenti e soprattutto per garantire i cittadini. “È la riforma della giustizia più importante degli ultimi 30 anni”, Enrico Letta è appena sceso dal palco dei giovani di Confindustria al porto antico di Genova. Stringe mani, si intrattiene a lungo con il presidente Riccardo Di Stefano e con i vice di Bonomi, Orsini e Pan. È soddisfatto della riforma e non è il solo da queste parti. C’è un buon clima, l’accoglienza è stata positiva e il segretario del Pd coglie l’opportunità per mandare messaggi al mondo delle imprese. Passano pochi minuti ed ecco che, nella stessa sede, sebbene da remoto, arrivano le parole ben diverse di Giuseppe Conte sulla riforma della giustizia. L’ennesimo scossone M5S può avere ricadute sul Pd, che non può permettersi di restare al governo da solo con il centrodestra. Letta alterna prudenza a comprensione: “La natura di questa maggioranza fa sì che ci siano dei passaggi oggettivamente delicati, i licenziamenti è stato uno di questi, ora c’è la giustizia. Capisco quindi le difficoltà dei Cinque Stelle - dice prima di lasciare Genova - ma i loro ministri giovedì sera hanno votato a favore ed è un risultato positivo”. Il segretario del Pd è uno dei leader politici arrivati ai Magazzini del Cotone, invitati al congresso annuale dei giovani industriali che, per esigenze di protocollo sanitario, si è spostato da Santa Margherita al capoluogo ligure. Nell’agenda del segretario del Pd questo appuntamento era segnato con una certa evidenza. A Genova infatti Letta è arrivato con un messaggio per gli imprenditori, un’offensiva per riallacciare il rapporto con il mondo delle imprese (“che pure non si era mai interrotto”), che rischiava di apparire trascurato nei primi cento giorni da segretario, vista la rilevanza di alcuni provvedimenti più “identitari”, (“di bandiera” attacca Renzi), come il ddl Zan. Oggi però si parla d’altro. L’operazione Genova, alla quale farà seguito una conferenza con le piccole e medie imprese giovedì prossimo a Roma, si fonda di tre parole d’ordine: Europa, (“non si può stare con i nemici del Next Generation Eu”); tasse (“il cuneo fiscale è un’anomalia italiana”) e, appunto, giustizia. L’ennesima tormenta in casa degli alleati non offusca la soddisfazione per il via libera del Consiglio dei ministri, solo qualche ora prima, della riforma Cartabia: “Questa mediazione ha portato a un grande risultato, anche per le imprese è un punto fondamentale. È essenziale per attirare nuovi investimenti e soprattutto per proteggere e garantire i nostri cittadini”. Letta è attento a smarcare il Pd dalla polemica del giorno: “La precedente riforma della prescrizione era del governo gialloverde. Lo dico perché è stato fatto un discorso come se ci fossimo noi di mezzo”. Poco prima di lui al porto antico si era visto Matteo Salvini, meno entusiasta del risultato ottenuto in Consiglio dei ministri, “è solo un primo passo, Draghi ha fatto un miracolo visto che ha dovuto mediare con il M5S. La partita vera si gioca con i referendum”. Letta la pensa diversamente: “La verità è che Salvini è rimasto spiazzato, lui aveva scommesso sul fatto che non sarebbe passata, e quindi ha cominciato un’altra partita. Ora si trova in una situazione di ambiguità, come su altre materie”. L’altra ambiguità che Letta vuol fare emergere è quella europea, qui il messaggio che rivolge al mondo delle imprese è molto netto: “O si sta di qua o di là”. La partita politica italiana la dovete giudicare anche rispetto a con chi si sta in Europa. O si sta con i governi che hanno fatto il Next Generation Eu o con quelli che erano contro. Il riferimento è chiaro: “Meloni e Salvini sono ambigui anche su questo punto, dicono di stare con le imprese ma poi appoggiano quelli che hanno messo il veto sullo strumento più importante che l’Europa abbia messo a disposizione”. L’altro punto che a Letta interessava far passare davanti a questa platea è smentire la teoria, “Pd partito delle tasse”, alla quale Salvini aveva fatto riferimento in mattinata: “C’è una totale sintonia con il presidente dei giovani di Confindustria su un punto: la vera anomalia italiana è rappresentata dal cuneo fiscale. Ho apprezzato molto la sua relazione e credo che una riforma delle tasse debba partire da qui”. Il tema verrà sviluppato giovedì prossimo a Roma, nella conferenza del Pd con le Piccole e medie imprese, organizzata da Cesare Fumagalli, ex leader della Confartigianato che Letta ha voluto come collaboratore. La giornata è intensa, nel pomeriggio arrivano anche le nomine Rai: “Sono contentissimo di questa soluzione. È autorevole e in linea con la nostra richiesta di vertici indipendenti e autonomi dai partiti. Ciampi nominò, Sellerio, Demattè e Locatelli, oggi Draghi si muove sullo stesso terreno”. Conte: “Non canterei vittoria. Siamo tornati ad un’anomalia italiana” di Francesco Olivo La Stampa, 10 luglio 2021 Tensione dentro il Movimento. L’ex premier: “Non sono contro Mario Draghi”. Ma Sarti incalza: “Non ci sono più le condizioni per stare al governo”. Dopo una settimana di silenzio, Giuseppe Conte torna e parla (ma non solo) del suo possibile ruolo alla guida del M5s, chiarendo che “la leadership è una premessa indispensabile” e confermando che bisogna ancora “chiarire i ruoli”. Se questo schema verrà “pienamente condiviso, io ci sono”, avverte, “altrimenti no”. Una settimana dopo che Beppe Grillo ha dato vita ad un comitato di sette mediatori incaricati di dirimere la contesa sul nuovo statuto dei 5 stelle proposto dall’ex premier, il punto di caduta nella disputa tra il Garante e “l’avvocato del popolo” ancora non è stato individuato. In collegamento con il convegno nazionale dei Giovani Imprenditori di Confindustria, Conte allora ribadisce: “Non sono il leader al momento, ci stiamo lavorando”. Le sue parole arrivano al termine di una settimana travagliata nel Movimento, con le fibrillazioni interne che hanno pesato sull’attività parlamentare e su quella del governo, dalla richiesta di rinvio sulle nomine nel Cda Rai alla ricerca di una mediazione sulla riforma della giustizia, che supera quella varata dall’ex ministro grillino Alfonso Bonafede. Conte parla anche dei prossimi appuntamenti elettorali. “Veniamo da un’esperienza di lavoro di governo che ritengo molto proficua con il Pd e Liberi e Uguali. Ma non ha senso oggi, nel quadro politico attuale, ragionare di alleanza precostituita anteponendola ai contenuti” ribadisce l’ex premier. Che specifica: “Stavamo lavorando su tanti appuntamenti amministrativi, Pd e LeU sono gli interlocutori privilegiati”. Tra tre mesi si vota a Roma, Milano, Torino, Bologna e Napoli, e nessuno tra i 5 stelle vuole attribuirsi la titolarità di una tornata elettorale che - stando ai sondaggi - potrebbe vedere una frenata del Movimento e dei suoi candidati. Capitolo riforma della Giustizia. Conte non nasconde il suo disappunto sulla modifica delle norme relative alla prescrizione, una delle bandiere del Movimento al governo. “Non canterei vittoria, non sono sorridente sulla prescrizione, siamo tornati all’anomalia italiana. Se un processo svanisce per nulla per una durata così breve non può essere una vittoria per lo stato di diritto”, incalza Conte. “Non è una - puntualizza - questione di me contro Draghi. Delle mediazioni erano state offerte, ci sono mille espedienti per assicurare una durata ragionevole dei processi accertando la verità”. Poi, un’apertura sul suo orizzonte per rifondare il Movimento: “Se ci sarò con il M5s, il progetto politico sarà chiaro, avrà una forte identità e con dei principi forti. Nessuno dovrà permettersi di dire che il M5s sarà il partito dei No, dei veti ideologici. Sarà la forza più innovatrice ed ecologica”. Sarti: “Non ci sono più le condizioni per stare al governo” - In casa 5Stelle - tema giustizia - la tensione resta alta. Basta leggere le dichiarazioni rilasciate sui social da Giulia Sarti, componente della Commissione Giustizia alla Camera: “Ieri si è consumato in Consiglio dei ministri il tradimento di tutto ciò per cui abbiamo lavorato duramente subendo insulti, pressioni e attacchi personali pesantissimi. Una delle condizioni principali per il nostro ingresso nel governo Draghi era quella di non toccare le leggi e i risultati faticosamente ottenuti da tutti noi, durante i governi Conte. Ora, le condizioni che avevamo posto per restare in questo Governo sono state tutte completamente disattese”. E ancora: “Non esiste nessuna transizione ecologica e non si fanno passi verso la tutela dell’ambiente. I nostri decreti vengono fatti a pezzi, vedi il decreto dignità o le buone misure come il cashback. Ciliegina sulla torta: il Consiglio dei ministri di ieri. Smantellamento totale della giustizia penale e della nostra riforma sulla prescrizione, una riforma in vigore per tutti i reati commessi dal 1 gennaio 2020. Cancellata dopo un anno e mezzo dalla Cartabia con il placet di tutti i ministri nel Cdm di ieri, prima ancora che inizi a dispiegare i suoi effetti”, attacca la parlamentare riminese. Che aggiunge: “Ora, è ovvio che la battaglia si sposterà in Parlamento ma il punto è un altro. Non si distrugge in pochi minuti il lavoro di una vita fregandosene dei propri colleghi. Deve essere chiaro che quanto è successo ieri avrà delle conseguenze e deve essere altrettanto chiaro che la resa di ieri sulla prescrizione, non è stata una decisione di tutto il M5S”. Con la nuova prescrizione di Cartabia i processi non dureranno di meno di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 10 luglio 2021 O muoiono (senza colpevoli) o si allungano. Ecco perché. Il nuovo meccanismo sull’improcedibilità inserito nella legge delega penale applica al processo d’appello una data di scadenza. In questo modo gli imputati saranno incentivati a fare ricorso, puntando alla “morte” stessa del procedimento. E per fare “morire” il processo l’unica alternativa è puntare sulle tattiche dilatorie, che qualsiasi penalista di esperienza sa bene come mettere in campo. Processi più veloci e che durano meno tempo. Era questa la richiesta all’Italia da parte della commissione Europea per avere accesso ai fondi del Recovery plan. Un obiettivo che sembra difficile da raggiungere con la legge delega licenziata giovedì sera dal Consiglio dei ministri del governo di Mario Draghi. Il motivo? Sono molteplici. Per esempio mancano elementi concreti che incentivino in modo sostanziale la scelta dei riti alternativi. Ma soprattutto ad apparire non particolarmente efficace è la nuova riforma della prescrizione della guardasigilli Marta Cartabia. La norma, nei fatti, soppianta la legge di Alfonso Bonafede, che dall’1 gennaio del 2020 blocca la prescrizione del reato dopo il primo grado di giudizio. Quella riforma, a suo tempo bandiera dei 5 stelle, produrrà i suoi effetti solo a partire dal 2025: sarebbe dunque prematuro cercare di tracciarne un bilancio. Di sicuro, però, chi si è visto applicare una norma che congela la prescrizione dopo la prima sentenza, non ha molto interesse a fare ricorso in appello. Soprattutto quando è stato magari condannato a pene molto lievi. La tagliola di Cartabia - Il nuovo meccanismo studiato da Cartabia, invece, mantiene la prescrizione esistente solo fino al primo grado. Nel secondo subentra un altro concetto, quello dell’improcedibilità. Se l’Appello non si conclude entro due anni, il processo non può più andare avanti, cioè muore in via definitiva. Lo stesso vale per quello in Cassazione, dove la tagliola scatta entro un anno. I ministri dei 5 stelle hanno assicurato il sostegno al testo dopo che la guardasigilli ha modificato leggermente la riforma. Cartabia ha previsto l’allungamento (ma solo a discrezione del giudice) del termine entro cui si devono completare i gradi di giudizio - a pena di improcedibilità - a tre anni in Appello e 18 mesi in Cassazione per i più gravi reati contro la pubblica amministrazione: concussione, corruzione, istigazione alla corruzione e induzione indebita a dare o promettere utilità. Tempi più lunghi sono previsti anche per reati gravi come la mafia e il terrorismo, mentre sono completamente esclusi da questo meccanismo quelli puniti con l’ergastolo, come l’omicidio e la strage. I 5 stelle rivendicano la minuscola modifica inserita nella riforma come una loro personale vittoria: “I tempi della prescrizione - sostengono in una nota - per i reati dei potenti, quelli contro la collettività (vedi la corruzione) sono stati allungati: non a caso rappresentanti di alcune forze politiche ieri hanno avuto forti mal di pancia”. Processi più veloci del 25%? “Previsione irrealistica” - Una verità parziale. Intanto perché un sistema simile crea una discriminazione tra imputati e quindi può prestare il fianco a una questione di legittimità costituzionale. Ma soprattutto perché è evidente che in questo modo i processi non dureranno di meno. Non è un caso se un insigne giurista e celebre legale come Ennio Amodio ha definito la riforma come “un’occasione mancata”. A sentire Draghi le norme introdotte da Cartabia accorceranno del 25 percento i tempi dei processi penali, ma Amodio non è d’accordo. “Non mi sembra una previsione realistica perché si basa su un pensiero pieno di prospettive ma lontano dalla realtà”, ha detto tranciante il professore alla Stampa. Il giudice in pensione: bisogna sostituirlo entro 60 giorni - Senza considerare che applicando sul processo d’appello una data di scadenza gli imputati saranno incentivati a fare ricorso, puntando alla “morte” stessa del procedimento. E per fare “morire” il processo l’unica alternativa è puntare sulle tattiche dilatorie, che qualsiasi penalista di esperienza sa bene come mettere in campo. In effetti basta addentrarsi tra gli articoli della legge delega per accorgersi che mancano una serie di norme per disincentivare i tentativi di dilazione. A cominciare da eventuali sanzioni per i giudici e il personale amministrativo dei procedimenti che andranno in fumo. Ma non solo. La norma contenuta nell’ultima bozza della legge delega prevede che “i termini di durata massima del processo sono sospesi, con effetto per tutti gli imputati nei cui confronti si sta procedendo, nei casi previsti dall’articolo 159, primo comma, del codice penale e, nel giudizio di appello, anche per il tempo occorrente per la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale”. Che cosa vuol dire? Che nel caso in cui occorresse far ripartire il dibattimento - succede per esempio quando cambia il giudice - il tetto dei due anni viene congelato. La stessa norma però prescrive che “in caso di sospensione per la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, il periodo di sospensione fra un’udienza e quella successiva non può comunque eccedere i sessanta giorni”. Quindi se, per fare un esempio, un giudice va in pensione, bisognerà sostituirlo entro 60 giorni: in alternativa le lancette dell’improcedibilità riprenderanno a correre. In più, scritto in questa maniera, sembra che dal momento in cui il processo ripartirà, bisognerà concluderlo nel tempo rimasto. Tattiche dilatorie e tempi morti: più processi più lunghi - Ma non solo. L’articolo 159, primo comma, del codice penale, citato nella norma precedente, disciplina eventuali impedimenti di difensori e imputati: prevede che in caso di assenza giustificata ogni rinvio deve essere fissato entro 60 giorni dalla cessazione dell’impedimento. Se per esempio l’imputato presenta un certificato medico che ne testimonia l’impedimento per 30 giorni, il giudice potrà fissare una nuova udienza anche tre mesi dopo (si sommano 30 giorni di impedimento ai 60). In questo lasso di tempo la “tagliola” dell’improcedibilità viene congelata ma è evidente che un sistema del genere non produrrà certo processi più veloci. Anzi: ne produrrà molti di più e più lenti. Senza considerare che, come si legge sempre nella bozza, la nuova disciplina sulla prescrizione si applica per reati commessi dopo l’1 gennaio 2020, data di entrata in vigore della riforma Bonafede, e non per quelli precedenti. Ma perché un imputato per un reato commesso il 31 dicembre del 2019, che magari è ancora in attesa di giudizio, deve essere giudicato con la vecchia legge sulla prescrizione - in questo caso la riforma Orlando - e non con la nuova, molto più favorevole al reo? È solo uno dei tanti interrogativi che pesano su una riforma nata per velocizzare i processi. Ma che rischia o di ucciderli o di rallentarli. Di sicuro ne produrrà di più. La prescrizione e la parossistiche ossessioni del giustizialismo mediatico di Cinque Stelle & co. di Gian Domenico Caiazza* Il Dubbio, 10 luglio 2021 Oggi il forcaiolismo nostrano è listato a lutto. La riforma (sia detto senza offesa) della prescrizione firmata 5 stelle è deceduta. Piangono, i poveretti, la dipartita di una grande conquista di incompresa civiltà. Quella per la quale se uno Stato, per propria incapacità strutturale, non sa impiegare meno di una decina di anni per stabile se sei innocente o colpevole, beh chissenefrega. Devi rimanere prigioniero del tuo processo fino a quando ci aggrada. Stai lì e aspetta, quando stiamo comodi te lo diremo, se la tua presunzione di innocenza (che palle con ‘ sta storia, suvvia!) debba trovare conferma o smentita. Nel frattempo, la tua vita è maciullata, divorata dal pubblico discredito. Sei un presunto colpevole d’altronde, la prossima volta imparerai a non metterti in condizione di essere sospettato. Sarei curioso di sapere cosa ne pensano gli alfieri di questa roba - i Caselli, i Davigo, i Travaglio e travaglini vari, nonché i sommi giuristi di comesichiama Appula - della recentissima sentenza della Corte Costituzionale, che in tema di prescrizione ha appena finito di ribadire i seguenti principi: “Il rispetto del principio di legalità richiede, quindi, che la norma, la quale in ipotesi ampli la durata del termine di prescrizione (art. 157 cod. pen.), ovvero ne preveda il prolungamento come conseguenza dell’applicazione di una regola processuale, sia sufficientemente determinata”. Ed ancora, che il rispetto del principio di legalità esige “la predeterminazione per legge del termine entro il quale sarà possibile l’accertamento nel processo, con carattere di definitività, della responsabilità penale”. Sapete cosa significa questo, illustri signori? Che la vostra conquista di civiltà è, molto semplicemente, un obbrobrio fuori dalla Costituzione. Firmato: Corte costituzionale. Senonché il Paese è così malridotto, che da due mesi stiamo impazzendo per capire come non irritare gli artefici e i corifei di una simile porcheria. Invece di come si diceva un tempo - mandarli a ripetizione di diritto costituzionale, tocca rispettarne “l’identità politica”, che si risolve ormai solo in quella robetta incostituzionale lì. E poiché questo non è più oltre possibile e tollerabile, è toccato dargli il contentino forcaiolo buono per tutte le stagioni. Inseriamo qualche reato “identitario” nel famoso catalogo (mafia, terrorismo, violenza sessuale eccetera) per i quali il giudice, a determinate condizioni, potrà prorogare di un annetto il nuovo termine di prescrizione processuale (due anni per l’appello, un anno per la Cassazione). Quindi dentro corruzione, concussione, peculato. Per questi eroi del nostro tempo, la cosa riveste evidentemente una funzione analgesica, balsamica. Almeno questo! Hanno frignato. E il governo li ha dovuti accontentare, a quanto pare contro la volontà degli altri partner di maggioranza, ma quando devi quadrare un cerchio può accadere anche questo. Quindi ora un processo - per dire - a carico di un vigile urbano che ha preteso mille euro dal barista per chiudere un occhio sui tavolini messi fuori senza licenza, può finalmente durare un po’ di più del processo al bancarottiere miliardario che ha depredato migliaia di risparmiatori. Sono soddisfazioni, diciamoci la verità. È confortante sapere che ci sono costoro - i Di Battista, i Crimi, quell’altra dello scatarro (mi sfugge il nome), gli Scanzi e i Barbacetto eccetera - a vegliare su ciò che resta della pubblica moralità. Certo, hanno dovuto arrendersi alla Corte costituzionale, ma almeno qui hanno tenuto il punto caspita. Questo, amici miei, è il Paese nel quale, al momento, ci tocca vivere. Quale “riforma della giustizia” potevamo e possiamo seriamente attenderci da queste macerie del diritto, della ragione, e anche del senso del ridicolo? E infatti il prodotto di una simile “mission impossible” è una cosa mezza sì e mezza no, costellata da qualche buona idea, da tante altre abortite a svuotate, e da altre ancora contro le quali occorrerà che il Parlamento si impegni molto seriamente. Oggi possiamo dire questo: la obbrobriosa riforma Bonafede della prescrizione è alle spalle; il tentativo di stravolgere il processo di appello è stato in larga parte sventato; qualche altra buona idea, di schietta ispirazione costituzionale, è stata incartata dal Governo in una legge delega che, non dimentichiamolo, era da brividi. È la riforma del processo che vorremmo, e che scriveremmo noi? Nemmeno lontanamente, ed il nostro impegno per migliorarla ora dovrà moltiplicarsi. Ma, questo essendo il Paese che abbiamo democraticamente scelto di darci, almeno salutiamo come merita la fine di una stagione che non avremmo mai voluto vivere, e che ora comincia davvero a scivolarci dietro le spalle. Che quella della ministra Cartabia sia più o meno una “mission impossible” è chiaro a tutti. I temi della giustizia penale sono radicalmente identitari per tutte le parti in gioco. I pentastellati sono avvinghiati al loro mostriciattolo - la riforma Bonafede della prescrizione - come le cozze allo scoglio; la Lega continua a voler essere il partito del “buttate le chiavi” delle galere, dunque strepita appena si mette mano a riti alternativi e pene diverse dal carcere; Forza Italia appena fiata viene sospettata di essere il partito degli avvocati di Berlusconi; il Pd, come da tradizione, si occupa solo di interpretare i desiderata più minuti e dettagliati della magistratura associata. Lavoro quest’ultimo, del tutto inutile: ci pensa già l’Ufficio Legislativo del ministero, da sempre consegnato agli avamposti della magistratura distaccati, come una falange oplita, presso le felpate stanze di via Arenula. Siamo l’unico Paese al mondo - ripeto: l’unico in tutto il mondo - che affida la amministrazione qualificata della politica di governo sulla giustizia al potere giudiziario, e non è certo un caso che quella del sacrosanto divieto di distacco dei magistrati nell’esecutivo sia l’unica riforma sulla quale non si riesce nemmeno ad iniziare una parvenza di discussione. Siamo tutti in attesa di conoscere il testo degli emendamenti governativi alla legge delega, frutto di questo generoso tentativo di quadratura del cerchio. Siamo solidali con l’immane sforzo della Ministra, apprezziamo molto che - almeno da quanto ci dicono le cronache - abbia concreta considerazione di alcune delle obiezioni fondamentali che i penalisti hanno sollevato nelle loro interlocuzioni con il Governo (no al blocco della prescrizione, no alla compressione del diritto di impugnazione delle sentenze), e ne valuteremo gli esiti. Ma intanto, sarebbe il caso che nessuno dimentichi che le sentenze della Corte costituzionale, almeno quelle, debbano prevalere sulle testarde pretese identitarie delle forze politiche. Mi riferisco alla sentenza che la Corte costituzionale ha pronunziato solo qualche giorno fa in tema di prescrizione. In soldoni, si è dichiarata incostituzionale la norma emergenziale Covid che prevedeva la sospensione del decorso della prescrizione determinata da imprevedibili esigenze organizzative di ciascun ufficio giudiziario. Ebbene, nel motivare la decisione la Corte ha statuito un principio le cui ricadute sulla sciagurata riforma Bonafede appaiono inesorabili. Afferma infatti la Corte che “la garanzia del principio di legalità richiede che la persona incolpata di un reato deve poter avere previa consapevolezza della disciplina della prescrizione concernente sia la definizione della fattispecie legale, sia la sua dimensione temporale”. Per conseguenza, “Il rispetto del principio di legalità richiede, quindi, che la norma, la quale in ipotesi ampli la durata del termine di prescrizione (art. 157 cod. pen.), ovvero ne preveda il prolungamento come conseguenza dell’applicazione di una regola processuale, sia sufficientemente determinata”. La riforma Bonafede ha esattamente introdotto una “regola processuale” (sospensione del corso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado) che comporta come conseguenza un prolungamento assolutamente indeterminato di un termine che la Corte ritiene invece indispensabile sia prefissato. Quale? “la predeterminazione per legge del termine entro il quale sarà possibile l’accertamento nel processo, con carattere di definitività, della responsabilità penale”. Difficile essere più chiari di così nel dire che il principio barbaro sancito da quella riforma, per il quale il cittadino, dopo la sentenza di primo grado, resta prigioniero del proprio processo fino a quando lo Stato non deciderà, con tutto comodo, di concluderlo, si colloca al di fuori di ogni parametro di legalità costituzionale. Morale: capisco le questioni di identità politica, capisco i rapporti di forza in Parlamento, capisco tutto. Ma a quel tutto c’è un limite: nessuno può pretendere il rispetto di un principio di inciviltà giuridica così esplicitamente qualificato come incostituzionale da un pronunciamento fresco fresco della Corte costituzionale. Se qualcuno avesse la bontà di spiegare ai 5S, con parole semplici, il senso di questa sentenza (n. 140/ 2021), in modo che alla fine riescano anche a comprenderlo, faremmo tutti un bel passo avanti. *Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane Comuni sciolti per mafie: l’altra epidemia, ancora senza un vaccino di Paolo Riva Corriere della Sera, 10 luglio 2021 Compie 30 anni la legge sulle “infiltrazioni”, applicata 356 volte. E la percentuale annua dei Comuni colpiti non è cambiata di molto. Strumento utile ma da aggiornare, specie su appalti e trasparenza. L’ultimo in ordine di tempo è stato Marano, in provincia di Napoli. A metà giugno questo Comune campano di quasi sessantamila abitanti è stato sciolto per infiltrazioni della camorra e ha portato le amministrazioni fermate nel nostro Paese a quota 205. Il 20 per cento di queste, pari a 41 Comuni, è stato sciolto per mafie. E cioè, dice la legge, perché sono emersi “concreti, univoci e rilevanti elementi sui collegamenti degli amministratori con la criminalità organizzata”. Come ben spiegato da Openpolis, che su questo tema ha istituito un osservatorio specifico, si tratta di “una misura di prevenzione straordinaria” che “si applica quando esiste il reale pericolo che l’attività di un Comune o di un’altra amministrazione locale sia piegata agli interessi dei clan mafiosi”. Lo strumento è stato introdotto nell’ordinamento italiano nel 1991, trent’anni fa esatti. Da allora sono stati 356 gli scioglimenti, distribuiti su 262 Comuni. Non è raro infatti che alcuni vengano commissariati anche più volte, come nel caso di Marano, che era stato già toccato dal provvedimento in altre tre occasioni. Ma cosa succede esattamente quando un’amministrazione viene sciolta per mafia? Sindaco, assessori e consiglieri comunali perdono le loro cariche e vengono sostituiti nella gestione provvisoria del Comune da una commissione straordinaria di tre funzionari statali, che resta in carica per un periodo che va da un minimo di un anno a un massimo di due, in casi eccezionali. Poi si torna a votare. Nel prendere questo provvedimento, quindi, le autorità devono prendere in considerazione sia la doverosa lotta alla criminalità organizzata sia il rispetto della volontà popolare, decidendo quando la prima prevale sulla seconda. Quest’anno, è successo cinque volte. Lo scorso, undici. Nel 2019, ventuno. E numeri simili si sono registrati anche negli anni precedenti, con il picco massimo raggiunto nel 1993, con 34. Trovare una tendenza nel corso degli anni però è difficile: i valori spesso oscillano e i fattori che influenzano l’andamento sono numerosi. La pandemia per esempio ha posticipato la data delle elezioni amministrative e quindi ha prolungato alcuni commissariamenti ma, al tempo stesso, ha anche complicato le attività delle prefetture, uno degli organi con il compito di proporre gli scioglimenti. A livello geografico invece la situazione è più chiara. I dati di Avviso Pubblico, associazione di enti locali contro la corruzione, evidenziano come la stragrande maggioranza dei comuni sciolti si trovi al Sud. Calabria, Campania e Sicilia contano per quasi il 90 per cento dei provvedimenti dal 1991 ad oggi. “Eppure, ormai è noto, la presenza mafiosa esiste anche al nord. L’hanno sancito inchieste e commissioni”, commenta Simona Melorio, ricercatrice di criminologia all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Conferme A confermarlo è anche il Ministero degli Interni che, nell’ultima relazione annuale sul tema, scrive: “Lo scioglimento del consiglio comunale di Saint Pierre in Valle D’Aosta, disposto nel 2020, è il nono provvedimento dissolutorio disposto nei confronti di un Comune del Nord e il primo cha ha interessato la Regione”. La geografia dei comuni sciolti, quindi, potrebbe cambiare, ma secondo Melorio andrebbe cambiata anche la legge, in meglio. “La normativa del 1991 nasce da un’idea molto giusta: la forza delle mafie sta nel loro saper dialogare con pezzi di politica e di stato. Dopo 30 anni e alcune modifiche, però, la legge andrebbe ulteriormente aggiornata per combattere meglio le mafie anche al nord. Lì la presenza della criminalità organizzata è più legata all’economia, più subdola e meno riconoscibile”, sostiene la ricercatrice, che ha collaborato con Avviso Pubblico. Una definizione ancora più precisa degli elementi “concreti, univoci e rilevanti” che collegano mafie e amministrazioni sarebbe quindi un modo per migliorare la situazione. Un altro potrebbe essere una più efficace applicazione della legge 190 del 2012, che prevede la rotazione dei dirigenti pubblici per abbassare il rischio di corruzione. Infine, aggiunge Melorio, sarebbe importante anche una maggiore trasparenza nei documenti delle commissioni, che oggi non sono pubblici. “Se, per esempio, un Comune viene sciolto per appalti dati a una certa azienda l’opinione pubblica non sa se questa ha continuato a lavorare anche in seguito. Più trasparenza - conclude la ricercatrice - potrebbe portare anche a più fiducia dei cittadini nelle istituzioni”. Congresso di Md: al centro le riforme e l’autonomia da Area di Giulia Merlo Il Domani, 10 luglio 2021 Al via il XXIII congresso di Magistratura democratica a Firenze. L’evento segna un passaggio fondamentale per il gruppo associativo, chiamato a discutere non solo il contenuto delle riforme della giustizia, ma anche la propria collocazione dentro Area. Sul tema del ruolo dei gruppi associativi e della crisi della magistratura è intervenuto il professor Luigi Ferrajoli, con una lectio magistralis che si è chiusa con un lungo applauso. A seguire, la relazione della segretaria Maria Rosaria Guglielmi e le tavole rotonde dedicate al Csm e all’ordinamento giudiziario, al diritto e al processo penale. La colpa è del carrierismo - Ferrajoli ha ragionato su quali misure sono idonee a garantire indipendenza e imparzialità della giurisdizione, e “perciò da un lato a garantire e a rifondare la legittimazione e la credibilità della magistratura e, dall’altro, a porre riparo ai guasti dell’autogoverno rivelati dagli scandali recenti”. Quanto all’indipendenza, Ferrajoli ha richiamato la prima battaglia di Md, negli anni Sessanta, “contro le carriere e le gerarchie”. Contro il carrierismo suggerisce tre rimedi. La prima, “la regola deontologica, per così dire di stile, dovrebbe consistere nel rifiuto della carriera: nell’aspirazione, più che ai ruoli dirigenti, al miglior esercizio dei ruoli giurisdizionali, a garanzia dei diritti fondamentali delle persone”. La seconda, “ridurre quanto più possibile i poteri dei dirigenti degli uffici - a cominciare dai poteri di assegnazione dei processi, che andrebbero sempre sostituiti, anche nell’organizzazione delle procure, da meccanismi automatici - onde ridurre le ragioni delle ambizioni a ricoprirli” con l’abolizione dunque della riforma Castelli del 2006. La terza, “riabilitare, quale criterio di conferimento degli incarichi direttivi, il vecchio principio oggettivo dell’anzianità, ovviamente salvo che il più anziano abbia chiaramente demeritato. I giudizi di professionalità potrebbero quindi limitarsi alla sola segnalazione dell’inidoneità del magistrato. Certamente il criterio dell’anzianità può apparire un prezzo. Ma tutte le garanzie hanno un prezzo”. In sintesi, se l’indipendenza interna è minacciata “allora il rimedio deve essere radicale: la riduzione sia dei poteri dei capi degli uffici che dei poteri di chi designa i capi”. I tre rifiuti - Per garantire l’indipendenza, infine, i magistrati dovrebbero attenersi ad altre tre regole. “Il rifiuto di ogni atteggiamento partigiano o settario, non solo da parte dei giudici ma anche dei pubblici ministeri. La giurisdizione non conosce - non deve conoscere nemici, neppure se terroristi o mafiosi o corrotti - ma solo cittadini. È chiaro che questa concezione del processo esclude non solo qualunque spirito partigiano o settario, ma anche l’idea, frequente nei pubblici ministeri, che il processo sia un’arena nella quale si vince o si perde”. “Il rifiuto del protagonismo giudiziario, oggi favorito dai media televisivi. L’imparzialità è incompatibile con il protagonismo dei magistrati. Dobbiamo riconoscere che ogni forma di protagonismo dei giudici nei rapporti con la stampa o peggio con la televisione segnala sempre, inevitabilmente, partigianeria e settarismo, incompatibili, ripeto, con l’imparzialità. Di qui il valore della riservatezza del magistrato riguardo ai processi di cui è titolare”. Infine, Ferrajoli elenca “l’etica del dubbio quale elemento essenziale della deontologia giudiziaria, e perciò il rifiuto di ogni arroganza cognitiva, cioè della convinzione di essere in possesso della verità, la prudenza del giudizio - da cui il bel nome “giuris-prudenza” - come stile morale e intellettuale della pratica giudiziaria, la disponibilità all’ascolto di tutte le diverse ed opposte ragioni e alla rinuncia alle proprie ipotesi di fronte alle loro smentite”. La relazione di Guglielmi - È seguita la relazione della segretaria di Md, Maria Rosaria Guglielmi. I temi principali: la crisi della magistratura e dell’autogoverno; le riforme e l’autonomia di Md per il futuro. Sulla crisi della magistratura, Guglielmi ha detto che “la crisi innescata dallo scandalo delle nomine ha mostrato in questi mesi pericolosi segnali di avvitamento intorno a un intreccio, sempre piu’ inestricabile, fra cause irrisolte delle degenerazioni e delle cadute, analisi incompiute e letture strumentali, proposte di cure sbagliate, tentativi di rinnovamento di facciata e progetti concretissimi, capaci di travolgere l’assetto costituzionale voluto a tutela di una giurisdizione indipendente. Dopo l’iniziale rivolta venuta dalle assemblee autoconvocate, la magistratura appare immobile, percorsa da divisioni e contrapposizioni al suo interno, incapace di dare segnali riconoscibili di una svolta unitaria verso il necessario cambiamento”. Il clima nel paese, infatti, è quello “della più recente stagione di imperante populismo: la volontà del popolo contro i giudici-nemici del popolo, l’interesse dei cittadini contro privilegi della corporazione, i giudici che se vogliono interpretare le leggi devono farsi eleggere. È un argine che sta cedendo sotto il peso di questi attacchi ripetuti. È l’argine che in democrazia protegge le istituzioni dalle pericolose delegittimazioni”. Secondo Guglielmi, la crisi innescata dallo scandalo delle nomine “ha mostrato in questi mesi pericolosi segnali di avvitamento intorno a un intreccio, sempre più inestricabile, fra cause irrisolte delle degenerazioni e delle cadute; analisi incompiute e letture strumentali; proposte di cure sbagliate, tentativi di rinnovamento di facciata e progetti concretissimi, capaci di travolgere l’assetto costituzionale voluto a tutela di una giurisdizione indipendente”. Il rapporto con Area - Infine, Guglielmi è entrata nel merito della posizione di Md rispetto al gruppo di Area. “Dopo il mandato ricevuto a Bologna, abbiamo cercato di riavviare il percorso di Magistratura democratica, ritrovando slancio e presenza come soggetto collettivo nella societa?, nella magistratura, e come parte importante del fronte progressista rappresentato da AreaDG” ma, ha aggiunto, “l’impegno a continuare nel percorso unitario, anche come gruppo non ha portato ai risultati attesi”. La critica è chiara: “Chi in questi anni piu? ha lavorato a questo progetto, e con questa prospettiva, ha scommesso sulla capacita? di aggregazione che nasce dall’unita? nei valori e ha scommesso sul pluralismo interno di AreaDG, come tratto caratterizzante di un nuovo soggetto”, tuttavia “nessuna delle proposte che hanno in seguito variamente declinato l’opzione di cedere sempre più soggettività a favore di AreaDG, e di arrivare ad una unita? di voce anche all’esterno, ha mai chiaramente teorizzato lo scioglimento di Magistratura democratica. E la richiesta di maggiore investimento politico in AreaDG si e? sempre fondata sull’assunto dell’irrilevanza dei contenitori rispetto alla preminenza dei contenuti”. Volendo ricostruire il percorso passato, “le ragioni dell’evoluzione dei nostri rapporti interni sono strutturali ma sempre piu? chiaramente nel tempo ne e? emersa la cifra politica. Il mancato scioglimento dei gruppi fondatori, per molti necessario punto di approdo del progetto di fare uscire AreaDG dallo stato di liquidita?; in parallelo, la scelta di AreaDG di strutturarsi nelle forme di gruppo, di cui in origine voleva rappresentare il superamento, con la sua dirigenza e i suoi iscritti; quella di Magistratura democratica di non assecondare la prospettiva”. In conclusione, le perplessità sono emerse in modo sempre più evidente, anche a causa di quelli che Guglielmi chiama “processi paralleli a quelli dichiarati e ribaditi nelle mozioni congressuali unitarie. Percorsi non esplicitati nei nostri luoghi di discussione e di confronto”. La richiesta di Guglielmi è di “giudicare se questa dirigenza ha represso il dissenso interno, guidando il gruppo verso l’autoreferenzialita? e la chiusura, dividendo e indebolendo il percorso di AreaDG, o se invece la linea unitaria ha dato sempre concretissima prova di se? con il sostegno unitario, decisivo e convinto al progetto di AreaDG, e a tutti i candidati chiamati ad attuarlo nell’autogoverno e in ANM”. L’interrogativo sarà il filo rosso che guiderà gli interventi congressuali dei prossimi tre giorni, in cui Md è chiamata a scegliere il suo futuro. La sensazione tra i congressisti è che la linea probabile sia quella di una dichiarazione di indipendenza da Area in virtù proprio di una divaricazione di intenti tra i due gruppi associativi. I primi interventi della giornata, infatti, si sono focalizzati su questo punto e hanno confermato una volontà di chiarificazione tra due gruppi, dopo che da anni il rapporto non era più funzionale. Dovrebbe rimanere, però, la possibilità per i magistrati di iscriversi a entrambe le correnti. Incognita, invece, rimane la formazione eventuale di un gruppo autonomo in Anm e Csm. Caso Ambrogio Crespi, la lezione per giudici e pm: basta carcere a tutti i costi di Simona Giannetti Il Riformista, 10 luglio 2021 La decisione dei magistrati di sorveglianza di Milano, che hanno scarcerato Ambrogio Crespi il 23 giugno scorso, ha un valore che scavalca i confini del singolo caso. “Nei lunghi anni trascorsi dal fatto oggetto della condanna, ad oggi Crespi Ambrogio non solo ha condotto la sua esistenza nei binari della legalità, in una dimensione … che non ha registrato ombre, ma ha indirizzato le proprie capacità professionali verso produzioni pubblicamente riconosciute come di alto valore culturale di denuncia sociale e impegno civile, ed efficaci strumenti di diffusione di messaggi di legalità e di lotta alla criminalità. Proprio questo impegno, che lo ha portato via via ad essere identificato come esempio positivo dal pubblico delle sue opere e da chi gli ha conferito vari riconoscimenti, appare come elemento eccezionale nella valutazione delle ripercussioni di una pena detentiva applicata a distanza di molti anni per un reato riconducibile proprio alla criminalità organizzata”. Questo è quanto scrivono nell’accogliere la richiesta del differimento della pena, che scadrà il 9 settembre prossimo, a sei mesi dall’irrevocabilità della sentenza. A distanza di una decina di anni dal fatto, pur senza aver mai smesso di rivendicare la sua innocenza, Crespi accettava la decisione definitiva e l’11 marzo scorso si costituiva nel carcere di Opera. Dello “stile di comportamento tale da apparire certamente al di fuori del contesto detentivo” scrive la relazione dell’istituto penitenziario; l’assenza di collegamenti con la criminalità è l’esito delle rituali note delle direzioni nazionale e distrettuale antimafia. Evidente è l’anacronismo giuridico di una pena in carcere a ogni costo, che si scontra con l’urgenza di un correttivo in nome della giustizia sostanziale. Diversamente significherebbe accettare il rischio di trasformare la pena in una duplicazione del percorso di riabilitazione: se il carcere è rieducazione, la sua inutilità nei confronti di una persona chiaramente reinserita socialmente diviene trattamento inumano e degradante, seppur ritualmente disposto con una sentenza di condanna. È qui che il caso Crespi fa i conti con un ordinamento, che non prevede l’ipotesi della rieducazione inesigibile al di là dell’automatismo della pena a ogni costo: cosa che fa il paio con l’irrinunciabile pretesa punitiva dello Stato, che utilizza l’alibi della rieducazione senza prevedere gli anticorpi a una pena ingiusta nei confronti del condannato che, durante l’attesa di un processo che duri ben oltre i tempi della funzione risocializzante della pena, abbia già dato prova di aver riparato nei fatti e di essersi riabilitato. È qui che si esprime tutta l’urgenza di riparare nell’ordinamento al rigorismo legislativo della pena che si presenti illogica: il fatto che Crespi fosse stato letteralmente dimenticato dallo Stato per quasi nove anni e che, solo a sentenza definitiva, fosse stato costretto a fare le valigie per entrare in una cella, era già un anacronismo. Del resto anche l’impegno artistico dei suoi film costituirebbe una forma di riparazione. La domanda di grazia è stata per Crespi la richiesta di un atto di clemenza che, come scrivono anche i magistrati nel considerarla non manifestamente infondata ai fini del differimento della pena, risponde a “un’esigenza di rimedio agli anacronismi legislativi”. Ciò avviene in un contesto normativo, in cui la irrinunciabile pretesa punitiva dello Stato, in termini di carcere ad ogni costo, va a braccetto con l’automatismo della pena detentiva per condanne al di sopra dei 4 anni - soglia che non ha limiti nel caso si versi nell’ipotesi dei reati dell’art 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Nel suo ultimo Congresso, Nessuno tocchi Caino dedicò un’ampia discussione al tema del diritto penale e della pena in una sessione dal titolo, appunto, “Non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale”. Oggi, anche in attesa del Congresso che si terrà a dicembre, conforta sapere che la Guardasigilli Marta Cartabia, emerita Presidente della Consulta, abbia dichiarato di recente che una riforma del sistema penale non possa lasciar fuori, senza essere incompleta, la materia dell’esecuzione della pena: sullo sfondo c’è la sua idea di un sistema sanzionatorio che si orienti verso il superamento del carcere, come unica risposta al reato, e che dia spazio all’incremento del valore delle condotte riparatorie. Vogliamo essere speranza e augurarci che il caso Crespi possa costituire fonte di ispirazione per un rinnovamento dell’esecuzione penale, che non consideri più il carcere come l’unica via della rieducazione. L’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Milano è una traccia perfetta per una riforma legislativa, tanto necessaria quanto urgente, volta ad affrontare e risolvere le migliaia di altri casi di condannati in via definitiva per i quali la pena carceraria può rivelarsi in concreto non solo inutile, ma anche dannosa. Napoli. Detenuto s’impicca e finisce in coma, il figlio: “Non riesco a darmi pace” di Alessandro Pirozzi internapoli.it, 10 luglio 2021 Si chiama Rosario Toriello il detenuto che, due giorni fa, ha tentato il suicidio nel carcere di Avellino. L’uomo, 63 anni, ha utilizzato un lenzuolo per compiere l’estremo gesto, procurandosi anche un taglio alla gola. Ora è in coma, dopo i primi soccorsi della Polizia Penitenziaria e poi del personale sanitario. La storia di Rosario, il 63enne aveva già tentato una volta il suicidio - A quanto pare non è la prima volta che il detenuto ha tentato di uccidersi. Ma iniziamo dalla sua storia e, per fare questo, bisogna tornare indietro a 25 anni fa. L’uomo è accusato di associazione a delinquere e contraffazione. Rosario lavorava in un deposito che realizzava prodotti ‘pezzotti’. Dopo 25 anni, a dicembre 2020, la causa finisce in Cassazione e quando la sentenza diventa definitiva, con fine pena nel 2031, tra 10 anni, Rosario si costituisce nel carcere di Secondigliano. Lì resta per un mese, fino a quando non scatta il trasferimento nella casa circondariale di Avellino. Per il 63enne non è facile. L’uomo, infatti, combatte anche contro un tumore alla prostata. Dopo un primo tentativo di suicidio, sono allertate le autorità, sia per le sue condizioni di salute sia per il supporto psicologico di cui ha bisogno: fuori dal carcere, infatti, Rosario era seguito da psichiatri e psicologi. Nel corso della permanenza l’uomo ha espresso costantemente il suo malessere e, in diverse occasioni, avrebbe accennato anche al folle gesto commesso poi lo scorso 7 luglio. Lo sfogo del figlio - “Dopo 25 anni la causa è finita in Cassazione e mio padre avrebbe dovuto scontare una pena fino al 2031. Nel carcere è stato lasciato da solo, perché aveva già tentato il suicidio e noi lo abbiamo fatto presente alle autorità. Abbiamo tutto documentato”. Inoltre, sulle condizioni di Rosario: “Adesso è ricoverato all’ospedale Moscati di Avellino, dove si trova in coma. Inoltre - spiega il figlio Luigi - i medici ci hanno riferito che potrebbe uscirne anche in stato vegetativo. Non riesco a darmi un perché”. Anche nelle chiamate di famiglia, Rosario dimostrava il suo malcontento: “Ci diceva che ogni giorno lottava contro i suoi demoni, e che prima o poi avrebbe tentato il folle gesto”. Adesso non resta altro che tanta rabbia nei familiari di Rosario, convinti che la vicenda poteva concludersi diversamente. L’uomo adesso è costretto a lottare per restare accanto alle persone di cui ha bisogno, strette nel dolore e nella rabbia per quanto accaduto. Milano. Cpr, in stato di abbandono i migranti con patologie psichiche di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 10 luglio 2021 Nel Cpr di Via Corelli a Milano sono in aumento i migranti con patologie psichiche. Lo denuncia l’associazione Naga, alla quale le cooperative che gestiscono il Cpr hanno chiesto un aiuto. C’è bisogno di medici volontari che effettuino visite specialistiche. “Tale richiesta sarebbe un’ulteriore conferma dell’assenza di un protocollo d’intesa tra Prefettura e strutture pubbliche sanitarie sul territorio, previsto all’art. 3 del Regolamento CIE 2014. Questa assenza risulta a nostro avviso di estrema gravità, considerando soprattutto l’apertura del Cpr a settembre 2020 e il conseguente vuoto di tutela della salute di chi si ritrova rinchiuso all’interno”, scrive il Naga sulla sua pagina Facebook. Tale mancanza di protocollo è stata denunciata anche dal senatore Gregorio De Falco che ha fatto visita al Cpr di Milano il 5 e 6 giugno scorso. Il senatore ha denunciato di aver trovato all’ interno del centro una situazione di abbandono, mala gestione e assenza di tutele nei confronti delle persone, stranieri e migranti, che vi sono ospitate. “È peggio di un carcere: in un carcere ci sono delle regole. (…) Non c’è tutela per le persone. Come facciamo a dirci un paese civile? Noi critichiamo l’Egitto quando reitera in maniera indefinita la carcerazione di Patrick Zaki. Bene, noi facciamo la stessa cosa in tutti i Cpr!”, così ai microfoni di Radio Popolare ha raccontato il senatore De Falco. Per capire meglio, è interessante leggere la sua diffida al gestore del Cpr e prefettura. Sabato 5 giugno, intorno alle 13 subito dopo aver fatto accesso nella struttura del CPR di via Corelli a Milano, il senatore si è trovato nella sala di controllo nella quale sono posti gli schermi che mostrano quanto ripreso dalle numerose telecamere distribuite nel Centro stesso. Su uno degli schermi ha visto il sig. B. che in un cortile stava compiendo atti di autolesionismo praticandosi numerosi tagli su braccia e tronco, mentre un gruppo di agenti in tenuta antisommossa, introdottisi nel corridoio che conduceva al cortile, si dirigevano nella sua direzione, salvo tornare sui propri passi al cenno di altro componente, verosimilmente superiore gerarchico. Il sig. B veniva quindi condotto nella sala d’ingresso, dove il senatore De Falco lo ha potuto incontrare dinanzi all’accesso dell’infermeria. “Egli era a torso nudo e sul suo corpo erano visibili lunghi e numerosi tagli sanguinanti che coprivano l’intero addome ed entrambe le braccia. Presentava segni di sutura alle labbra. Parlava in modo confuso e piuttosto incoerente, ripetendo in modo ossessivo ‘ Voglio uscire da qui, se non esco mi ammazzo, mi impicco’“, scrive il senatore nella diffida. Sottolinea, inoltre, che gli atti di autolesionismo di quel giorno non erano i primi da quando era trattenuto, avendone egli già messi in atto molti altri, come ebbe ad ammettere. Non è l’unico caso, ma la gestione di questi casi avverrebbe soltanto tramite la somministrazione di sedativi. Il senatore De Falco, sempre nella lettera di diffida, sottolinea che il signor B gli ha anche elencato i farmaci che ufficialmente servirebbero per dormire ma che, come osservava lo stesso interessato, erano eccessivi. “Egli stesso - si legge nella diffida - denunciava di esserne ormai dipendente. Il sig. B. evidenziava un modo di parlare sconnesso e grosse difficoltà di concentrazione, non riuscendo nemmeno a ricordare la propria data di nascita e continuando a chiedere di essere rilasciato, minacciando insistentemente il suicidio”. Ma ritorniamo alla denuncia dell’associazione Naga. “Nel maggio scorso - si legge nella nota su Facebook -, il direttore del Cpr, Federico Bodo, ha scritto una mail al Garante Nazionale dei diritti delle persone private e delle libertà personali e al Garante Diritti Milano del Comune di Milano in cui denuncia che sono soprattutto le condizioni psicologiche e psichiatriche dei rinchiusi a destare preoccupazione”. Il direttore stesso conferma “la mancanza di un protocollo di intesa tra l’Ats Città Metropolitana di Milano e la Prefettura di Milano”. Una mancanza che “fa sì che gli ospiti del Cpr possano accedere a visite specialistiche e presa in carico da parte del Sistema Sanitario Nazionale con i tempi previsti per i cittadini italiani, e quindi con lunghe liste di attesa”. Napoli. Cella zero, sui pestaggi a Poggioreale l’ombra della prescrizione di Viviana Lanza Il Riformista, 10 luglio 2021 La prescrizione rischia di abbattersi sul processo per i presunti pestaggi avvenuti tra il 2012 e il 2014 nella “cella zero”, l’unica non numerata, la più temuta del carcere di Poggioreale secondo il racconto di quattro ex detenuti che anni fa denunciarono di aver subìto botte e umiliazioni nel grande penitenziario cittadino. Il processo sui fatti di “cella zero”, avviato a dicembre 2017, non ha avuto un iter molto spedito e in questo anno e mezzo di pandemia è stato caratterizzato da una serie di rinvii che hanno diluito ancor di più i tempi del dibattimento. Dodici agenti della polizia penitenziaria, all’epoca in servizio a Poggioreale, sono imputati a piede libero. Il prossimo appuntamento in aula è previsto per il 16 settembre: bisognerà ascoltare ancora altri testimoni, valutare indizi e trovare riscontri alle testimonianze e alle varie versioni agli atti. Il momento della sentenza, dunque, non è imminente, il che inizia a far delineare la possibilità che alcuni dei reati contestati possano andare in prescrizione. Due tesi a confronto nel processo, accusa e difesa: da una parte gli agenti della polizia penitenziaria che respingono le accuse di violenza, dall’altra parte quattro ex detenuti e la moglie di un quinto che circa sette anni fa denunciarono i presunti pestaggi in carcere. Tra coloro che hanno raccontato le torture di “cella zero” c’è Pietro Ioia, attuale garante dei detenuti di Napoli ed ex detenuto. Nei racconti di chi ha denunciato, “cella zero” è descritta come un luogo di torture, di umiliazioni e violenza. Oggi, a Poggioreale, quella stanza di punizioni non c’è più, ma nella ricostruzione al vaglio dei giudici che scava nel passato del carcere cittadino “cella zero” sarebbe una stanza spoglia, spesso imbrattata di sangue, al piano terra, non numerata, arredata con un letto ancorato con le viti al pavimento e lenzuola di carta. Lì si finiva rinchiusi per punizione o con un banale pretesto. “Verso le 22 e 30 ero fermo accanto alle sbarre della cella quando un assistente della polizia penitenziaria, addetto alla sorveglianza del piano, si avvicinò a me e in dialetto napoletano disse: “Tu hai detto che voglio fare il guappo”. Fu il pretesto per condurre il detenuto “in una saletta senza arredi”. “Mi fecero spogliare, mi fecero togliere anche gli indumenti intimi - si legge nel racconto agli atti del processo - e in tre iniziarono a picchiarmi, a insultarmi e a farmi eseguire flessioni sulle gambe”. Diversamente da quanto sta accadendo in questi giorni nell’ambito dell’inchiesta sui pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, le accuse relative ai fatti di “cella zero” non sono sostenute anche da filmati delle telecamere del circuito di videosorveglianza per cui il confronto tra accusa e difesa si fonda principalmente sulle testimonianze. L’indagine, nata dalla denuncia dell’allora garante regionale dei detenuti Adriana Tocco e del Carcere Possibile, la onlus della Camera penale di Napoli impegnata per la tutela dei diritti dei reclusi, fu lunga e complicata, i pm conclusero la fase preliminare chiedendo il rinvio a giudizio per i dodici agenti e l’archiviazione per altri otto. Cinque gli episodi di presunti pestaggi al cuore delle accuse. Nel processo i capi di imputazione spaziano, a vario titolo, dall’abuso di potere nei confronti di persone detenute a maltrattamenti. Una violenza con cui si sarebbero regolati i rapporti tra detenuti e guardie carcerarie, sguardi o parole di troppo. Una violenza che mostra il lato più critico e fallimentare dell’istituzione carcere. Pistoia. Garante dei detenuti, avanti con le candidature quinewspistoia.it, 10 luglio 2021 Per proporsi c’è tempo fino al 23 agosto per quanti siano in possesso di laurea magistrale o diploma di laurea. La scelta avviene su base curriculare. Il Presidente del consiglio comunale, nel rispetto del Regolamento del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale approvato il 10 maggio scorso, rende noto che è stato indetto un avviso pubblico per la presentazione delle candidature per l’elezione del Garante. Gli aspiranti potranno presentare la propria candidatura entro e non oltre lunedì 23 agosto 2021, cioè entro 45 giorni dalla pubblicazione dell’avviso. Il Garante, in possesso di laurea magistrale o diploma di laurea, verrà individuato sulla base di un curriculum dettagliato che ne evidenzi l’esperienza e competenze maturate nell’ambito sociale e socio-sanitario, delle scienze giuridiche, dei diritti umani. Spetterà al Garante favorire, con contestuali funzioni d’osservazione e vigilanza, l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone private della libertà personale, con particolare riferimento ai diritti fondamentali al lavoro, alla formazione, alla cultura, all’assistenza, alla tutela della salute, allo sport. Inoltre, saranno promosse iniziative di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani delle persone private della libertà personale e organizzati momenti congiunti con il Difensore Civico territoriale e con altri soggetti pubblici competenti nel settore. Sarà cura del Garante rivolgersi alle autorità competenti per avere informazioni rispetto a possibili segnalazioni che giungano, anche in via informale, alla sua attenzione e riguardino violazioni di diritti, garanzie e prerogative delle persone private della libertà personale e, eventualmente, segnalare il mancato o inadeguato rispetto di tali diritti. Potrà infine promuovere con le Amministrazioni interessate - Regione Toscana, Provincia di Pistoia, Comuni della Provincia di Pistoia - protocolli di intesa finalizzati all’espletamento delle proprie funzioni anche attraverso visite ai luoghi di detenzione, concordandole preventivamente con gli organi preposti alla vigilanza penitenziaria. Salerno. Il carcere di Sala Consilina non riaprirà di Federica Pistone italia2tv.it, 10 luglio 2021 La decisione del Tar: “Struttura non adeguata. Infondato ricorso del Comune”. Il Tar respinge il ricorso presentato dal Comune di Sala Consilina e dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lagonegro nel quale veniva richiesta la riapertura del Carcere di Sala Consilina. La struttura penitenziaria in via Gioberti, quindi secondo il Tribunale Amministrativo Regionale non riaprirà. “Il motivo di ricorso, si legge nella sentenza del Tar, è infondato”. Gli snodi valutativi che hanno condotto alla decisione di chiudere la struttura sono 8 e sono i motivi per cui il Tribunale Amministrativo ha deciso di respingere il ricorso. “1) la considerazione dell’elemento strutturale, in quanto l’edificio consiste in una vecchia sede vescovile, edificato nell’anno 1809 e nel 1948 trasformato in carcere, risultando oggi non adeguato agli standards nazionali ed europei; 2) il carattere storico dell’edificio limita, e comunque rende più complessa e condizionata, la possibilità di interventi di adeguamento, dato il vincolo di tutela monumentale, che impedisce di apportare quelle modifiche strutturali che consentirebbero il raggiungimento di standards adeguati; 3) tra i vari deficit strutturali vi è ad esempio il mancato rispetto della disciplina in tema di abbattimento delle barriere architettoniche; 4) altro grave difetto consiste nella non conformità della struttura alla disciplina della sicurezza sul lavoro sotto il profilo dell’igiene edilizia; 5) inoltre, a parte il problema della sicurezza sul lavoro, emerge la generale angustia e ristrettezza dei vari ambienti, tale da compromettere la qualità della presenza dei detenuti, del personale, e dei visitatori; 6) tra i locali inidonei vi sono anche gli spazi insufficienti degli uffici, della caserma, della mensa; 7) anche l’accesso alla struttura con veicoli risulta non agevole; 8) sono presenti aree scoperte collocate in centro abitato, tanto da compromettere le norme di sicurezza che impongono l’adeguata separazione dei detenuti dal pubblico. Sulla base di questi rilievi l’amministrazione ha valutato l’inidoneità della struttura ad assolvere la funzione rieducativa della pena, senza che sussistano adeguati e ragionevolmente agevoli margini di adeguamento dell’edificio. “In aggiunta a tali valutazioni, il Tar ritiene legittima la chiusura del carcere di Sala Consilina, considerando il più ampio piano nazionale di riorganizzazione delle strutture penitenziarie, che prevede in linea di massima la chiusura delle strutture penitenziarie più piccole, per concentrare gli sforzi organizzativi, lavorativi ed economici nelle strutture più grandi”. Non viene ritenuta “risolutiva” nemmeno l’offerta dell’amministrazione comunale di contribuire all’adeguamento della struttura, sia perché la tipologia dell’edificio e il vincolo storico impedirebbero l’adeguamento integrale, sia perché in ogni caso non si riuscirebbe a superare la soglia minima di 100 posti per i detenuti (così come previsto dalla Legge). Chieti. “Il carcere che non vuoi vedere”, il J’accuse nell’ultimo numero di Voci di dentro chietitoday.it, 10 luglio 2021 L’associazione lavora nelle carceri di Chieti e Pescara e accoglie, come volontari, ex detenuti e affidati dagli uffici di esecuzione penale esterna. Il nuovo numero di Voci di dentro, la rivista realizzata dall’omonima associazione di Chieti e da detenuti ed ex detenuti, è una fotografia amara di quello che è il carcere al suo interno con una carrellata di immagini che sembrano appartenere a un’altra epoca e a un’altra terra. Sono invece state scattate in un carcere del Nord Italia nel 2016. “Cos’è il carcere? chi va lì? come e perché ci vanno, cosa succede lì? e qual è la vita dei detenuti, e quella, ugualmente, del personale di sorveglianza? come sono gli edifici, il cibo e l’igiene? come funzionano i regolamenti interni, il controllo medico e le officine; come si esce e cosa significa essere, nella nostra società, uno di quelli che sono usciti”. “Sommersi da montagne di informazioni e notizie - si legge nell’editoriale - ancora oggi la realtà resta ben nascosta. “Mascherata”. Davvero, se la pena del carcere fosse visibile allora nessuno invocherebbe il carcere…per nessuno. Perciò, ecco le fotografie e i testi che provano a raccontare il carcere, quello di oggi, quello dove la dignità umana è calpestata in tutte le sue forme, in tutti i suoi momenti”. L’ultimo numero della rivista contiene anche gli articoli di detenuti ed ex detenuti, il testo del professor Ceraudo, autore di “Uomini come bestie. Il medico degli ultimi”, un viaggio nelle carceri come nei campi di concentramento raccontati in “Se questo è un uomo” da Primo Levi. E ancora: un’intervista all’arcivescovo Forte e al presidente del tribunale di sorveglianza di Firenze Bortolato, autore con Edoardo Vigna di un libro dal titolo “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia”, le riflessioni del portavoce di Amnesty International Riccardo Noury con il quale Voci di dentro approfondisce anche la vicenda di Zaki, in carcere dal febbraio dello scorso anno. C’è anche un’ampia sezione “il corpo e il diritto” con un intervento sul Ddl Zan e un approfondimento sullo spettacolo teatrale “Stabat Mater”, fino a un viaggio con Eric Salerno in Israele e Palestina. Per sfogliare la rivista: https://ita.calameo.com/read/0003421546318817bbaa1 Ravenna. Il maestro Muti incontra i detenuti: concerto nel carcere Corriere della Romagna, 10 luglio 2021 “Qui voi fate un lavoro straordinario”: con queste parole Riccardo Muti ha preso la parola dopo il concerto dei “suoi ragazzi” della Cherubini nel cortile della Casa circondariale di Ravenna. Un appuntamento che si rinnova da quattro anni, nell’ambito dell’iniziativa “Musica senza barriere”, che porta la musica nei luoghi di cura, di recupero, di volontariato. Nella convinzione, sono parole del maestro, che “la musica non è solo un atto estetico, ma anche etico”. È difficile immaginare l’aspetto di un carcere, se non lo si è mai visto, e quanto quelle alte pareti, quei cancelli pesanti, quell’abbondanza di luci e di sguardi possa avere un forte impatto emotivo. Attraversare un lungo corridoio spoglio, arrivare nel cortile (dedicato allo sport, a giudicare dal campo da calcio di erba sintetica) e vedere questo gruppo di ragazzi seduti ad aspettare un evento importante: molti sono giovani, sembrano attenti ed emozionati. Ciò che colpisce subito è il rapporto che lega detenuti e guardie: l’atmosfera è rilassata, scherzosa, c’è reciproco rispetto, collaborazione. L’arrivo di Riccardo Muti e delle autorità viene salutato da un lungo applauso, ricambiato dall’attenzione del maestro che si dirige subito al gruppo di detenuti e scherza con loro: “avete visto la partita?” e a uno di loro “Come sta lei? È ancora qua?”. L’ensemble di musicisti della Cherubini - Elena Nunziante, Debora Fuoco, Gabriella Marchese ed Emanuela Colagrossi ai violini, Francesco Zecchi e Sergio Lambroni alle viole, Matteo Bodini al violoncello, Claudio Cavallin al contrabbasso e Federico Fantozzi al corno - regala al pubblico un bellissimo concerto sulle note de “I classici del rock”: gli arrangiamenti di Claudio Cavallin riscrivono le più note canzoni dei Beatles, brani dei Led Zeppelin (“Stairway to heaven”) e dei Guns ‘n’ Roses (“Sweet child of mine”), fino ad una toccante versione di “Bohemian Rapsody” dei Queen. Alla fine del concerto, è la direttrice Carmela De Lorenzo a dare voce all’emozione e alla gratitudine: “serate come queste non sono assolutamente scontate e ancora meno in periodi duri come questo. Il maestro ci fa sentire dei privilegiati, da quattro anni è con noi per serate che sono davvero senza barriere”. Muti si complimenta con i suoi musicisti, che hanno saputo affrontare un genere musicale lontanissimo da quello che frequentano abitualmente in orchestra: “questo genere è diverso ma importante: quando è di qualità, tutto è musica”. Il maestro conclude la serata nel gruppo dei detenuti, a scherzare con loro e ad autografare programmi e magliette: “un vero rito”, conferma la direttrice. È difficile comprendere le dinamiche sociali di un luogo così particolare e delicato come un carcere, e i fatti di cronaca recente fanno purtroppo immaginare situazioni spaventose e inumane. Gli applausi riservati dai detenuti al personale della struttura, dalla direttrice agli agenti di polizia, le attività in cui sono coinvolti, dai laboratori di teatro e pittura alla preparazione della pizza, fanno capire come a Ravenna ci si dedichi davvero al recupero e alla crescita personale di chi vive nella struttura. E tutto è racchiuso in quel saluto con la mano, quando la serata finisce e gli ospiti se ne vanno. Pandemia sociale: un milione di poveri in più, 734 mila precari senza lavoro di Mario Pierro Il Manifesto, 10 luglio 2021 Il rapporto annuale dell’Istat. Aumenta la povertà al Nord. I più colpiti: giovani, donne e partite Iva. “Consumi al minimo, mai così bassi dal secondo Dopoguerra”. Più di una persona su cinque ha avuto difficoltà nel fronteggiare impegni economici e oltre 9 persone su 10 si sono rivolti a un parente, un amico o un vicino per ricevere un aiuto durante la pandemia. Sebbene gli interventi pubblici stanziati - circa 61 miliardi di euro - sono stati cospicui e hanno sostenuto il potere d’acquisto di chi è stato messo in cassa integrazione o ha perso il lavoro, nei primi 15 mesi del Covid le famiglie italiane hanno perso 32 miliardi di euro, mentre i loro consumi finali sono crollati quasi dell’11%, una percentuale mai registrate dal dopoguerra. Lo sostiene l’Istat nel rapporto annuale presentato ieri dal presidente Gian Carlo Blangiardo alla Camera. Nel 2020 la povertà assoluta è cresciuta e ha coinvolto oltre 2 milioni di famiglie e più di 5,6 milioni di individui, un milione in più nel primo anno del Covid-19. La condizione peggiora di più al Nord che al Centro e nel Mezzogiorno dove però l’incidenza è ancora più elevata. Le più colpite sono le famiglie composte da cittadini stranieri extracomunitari dove il tasso di povertà è al 26,7% mentre quest’ultimo scende al 6% tra le famiglie italiane. Va ricordato che i nuclei stranieri residenti da meno di 10 anni in Italia sono stati esclusi dal cosiddetto “reddito di cittadinanza” da una norma voluta dai Cinque Stelle e dalla Lega nel primo governo di Giuseppe Conte. Secondo i dati forniti ieri dall’Istat le misure del Welfare dell’emergenza adottate per contenere gli effetti delle chiusure per contenere la diffusione del virus sono state ripartire in questo modo: 13,7 miliardi sono andati alla copertura della cassa integrazione guadagni e 14 miliardi ad altri assegni e sussidi. Oltre 7 miliardi sono stati erogati per il “reddito” e la “pensione di cittadinanza”: 1,6 milioni di nuclei familiari percettori e 3,7 milioni di persone coinvolte. Il “reddito di emergenza”, creato per evitare di estendere senza condizioni il “reddito di cittadinanza” ha interessato 425mila nuclei familiari, un numero enorme che tuttavia non rispecchia ancora il reale bisogno rimasto sommerso nei mesi della pandemia dove molti sono stati esclusi da questi sostegni di ultima istanza. A maggio 2021 sono state perse 734 mila posizioni di lavoro, in particolare quelle precarie nel terziario. I più colpiti sono stati i giovani under 29, e le donne. Durante i primi mesi della pandemia è diventata ancora più evidente la diseguaglianza economica e sociale che colpisce le donne che hanno un titolo inferiore alla maturità. Nel 2020 aveva un’occupazione il 76% delle donne laureate (tra i 25 e i 54 anni) con figli sotto i 6 anni, mentre hanno mantenuto un lavoro solo il 26,4% di quelle che possiedono al massimo la licenza media. La disparità imposta dal mercato è aumentata da 47,9 a 49,5% ed è peggiore nel Mezzogiorno, dove gli stessi tassi risultano, rispettivamente, pari al 13,9 e 66,7%. Questa situazione non è solo il frutto di un mercato del lavoro che penalizza in maniera molto grave le donne, imponendo loro anche gravissime disparità salariali rispetto agli uomini. è anche il segno di un fallimento riconosciuto dell’intero sistema dell’istruzione. In Italia i laureati sono solo il 20,1% della popolazione attiva tra i 25-64 anni contro il 32,5% nella Ue27. Il totale, impressionante, di perdite legate alle occupazioni precarie sono avvenute in particolare tra i lavoratori occupati saltuariamente, e in maniera intermittente negli alberghi e ristoranti (-12%), nei servizi alle famiglie (-9,6%), nel commercio (-3%) e noleggio, nelle attività professionali e nei servizi alle imprese (-2,9%). Il lavoro dipendente a termine, da solo, ha assorbito oltre l’85%. Tra le altre tipologie di occupazione la più colpita è il lavoro autonomo. Nuovo minimo storico di nascite dall’Unità d’Italia”, “massimo di decessi dal secondo dopoguerra. Il totale dei decessi è stato pari a 746.146, 100 mila in più rispetto alla media 2015-2019. E sono stati celebrati oltre 97 mila matrimoni in meno, si presume anche a causa delle norme anti-covid. Ma non solo. Per l’Istat c’è anche la precarietà che impedisce ai “giovani” di “realizzare i loro progetti”, mentre “la crisi ha amplificato gli effetti del malessere demografico strutturale”. I nati tra i residenti sono stati 404.104, in diminuzione del 3,8% rispetto al 2019 e di quasi il 30% a confronto col 2008, anno di massimo relativo più recente delle nascite. Per la ripresa l’Istat vede una congiuntura favorevole, in particolare nelle costruzioni, nella manifattura e nei servizi. Ma, per il momento, la crisi sanitaria ha compromesso la solidità delle imprese: risultano strutturalmente a rischio la metà delle micro (3-9 addetti) e un quarto delle piccole (10-49 addetti), soprattutto nel terziario. Il 44,8% è per l’Istat “a rischio strutturale”. Gli orfani della scuola. I dati Istat sulla didattica a distanza di Linda Laura Sabbadini La Repubblica, 10 luglio 2021 Concentrati sui nostri traumi nel nostro mondo di adulti ci stiamo occupando poco dell’impatto di questa pandemia sul mondo dei bambini. Non sono semplici ipotesi, non sono le valutazioni delle associazioni o degli insegnanti. Sono i dati Istat che parlano e preoccupano, quelli presentati nel Rapporto annuale alla Camera dei deputati dal presidente Gian Carlo Blangiardo. Sì, perché un anno così critico per la formazione dei bambini rappresenta un grave rischio per il Paese, oltre che per la qualità della loro vita. Ricordiamocelo, abbiamo già un basso livello di competenze rispetto agli altri Paesi avanzati e più bassi livelli di istruzione. Non possiamo più permettercelo, questo è un punto cruciale per il futuro del Paese e per la qualità della vita dei bambini. Ci vuole una svolta. Solo 1 milione e 700 mila bambini, un terzo, hanno fatto lezione tutti i giorni e con tutti gli insegnanti. Si arriva a 2 milioni 630 mila, circa la metà, se si includono quelli che hanno dichiarato di aver fatto lezioni con la maggioranza dei docenti, mentre per gli altri la vita scolastica è stata connotata dalla saltuarietà delle lezioni e dalla parzialità degli insegnamenti erogati. E non dimentichiamoci dei circa 800 mila bambini per i quali l’emergenza sanitaria ha compromesso fortemente la continuità didattica, non pochi. Per il 65% dei bambini è cresciuto l’impegno dei familiari nell’aiuto nello studio, ciononostante molti hanno avuto un abbassamento del rendimento scolastico, secondo la percezione soggettiva dei familiari. Per di più tra i bambini che hanno seguito le lezioni a distanza, anche se non assiduamente, 4 su 10 hanno avuto problemi di concentrazione e di motivazione, uno su 3 ha avuto difficoltà a seguire le lezioni in autonomia, senza considerare tutti i problemi di connessione a Internet e di carenza di computer in casa. Ma c’è un altro aspetto critico che non va sottovalutato, l’impatto emotivo - comportamentale della Dad. Un bambino su tre ha espresso irritabilità o nervosismo. Uno su 10 disturbi alimentari, altrettanti del sonno e la paura del contagio. Insomma, si arriva a 4 bambini su 10 che hanno avuto almeno uno dei problemi elencati. Non più rimandabile sarà una assistenza psicologica per i nostri bambini, anche nelle scuole. La ripresa dell’anno scolastico è stata migliore, ma non per tutti. È avvenuta in modalità mista per il 17,5% ed esclusivamente a distanza ancora per il 13,9%. Certo la continuità didattica è stata garantita in tutte le materie per il 92,7% dei bambini, che erano in gran parte contenti di tornare a scuola. Ma non va sottovalutato quel 15% che non lo era. Il rientro ha portato un miglioramento dell’atteggiamento dei bambini nei confronti della scuola soprattutto tra chi è stato sempre in presenza. Segnali di stanchezza e scarsa concentrazione emergono ancora, e anche problemi di socializzazione. Elementi che possono incidere fortemente sull’apprendimento e il livello delle competenze. Dobbiamo investire di più sui nostri bambini. Dobbiamo comprendere i segnali di sofferenza che trasmettono. Dobbiamo fare di tutto per garantire la scuola in presenza e le relazioni sociali, punto chiave dell’apprendimento e delle competenze. Se una cosa ci è chiara dopo quest’esperienza tragica è che nulla potrà sostituire il contatto umano, la socializzazione, il pathos e la percezione che lo stare insieme fra umani ha da sempre plasmato. Abbiamo un problema culturale stratificato negli anni nel nostro Paese che dobbiamo affrontare: lo scarso valore dato alla formazione. Nel Pnrr, in questo senso, ci sono molti segnali positivi e investimenti. Ma dobbiamo cambiare anche il nostro atteggiamento culturale rispetto al valore del titolo di studio. La laurea serve. I laureati hanno resistito di più alla crisi. In tutte le crisi, il livello degli studi raggiunto è fondamentale. I nostri giovani si laureano troppo poco. Non ci credono più. E invece la formazione è decisiva per il riscatto sociale. Al governo il compito di tenere fermo il timone sui diritti dei bambini, fin dall’asilo nido, investendoci di più, e di potenziare le diverse figure professionali. Ai giovani e alle famiglie il compito di riscoprire il valore e la bellezza dello studio, uno strumento fondamentale di lotta alle disuguaglianze. *Direttora centrale Istat Legge Zan, maggioranza per il sì. Ma un italiano su due ne sa poco di Nando Pagnoncelli Corriere della Sera, 10 luglio 2021 Il 51% lo approva (è prioritario per il 37%). Tra gli elettori di Forza Italia ok dal 48%. A fronte del clima sociale in netto miglioramento rispetto ai mesi scorsi si contrappongono forti divisioni politiche su un tema al centro del dibattito, il disegno di legge Zan. Sono divisioni all’interno delle forze che sostengono la maggioranza e secondo alcuni commentatori potrebbero rappresentare una minaccia per la tenuta del governo. Solo una minoranza degli italiani (14%) si è informato sui contenuti del ddl e ha seguito con attenzione il confronto tra i partiti, il 38% ha seguito abbastanza la questione, il 38% ne ha solo sentito parlare e il 10% ignora il tema. Nel complesso prevalgono i favorevoli al provvedimento, infatti il 37% si dichiara d’accordo e lo considera prioritario e il 14%, pur mostrandosi favorevole, lo considera un tema poco importante. Viceversa, il 13% disapprova il testo attuale e ritiene che debba essere modificato almeno in parte e il 10% è nettamente contrario. Ma un italiano su quattro (26%) non è in grado di esprimere un giudizio. Le opinioni differiscono in relazione all’orientamento di voto, con gli elettori pentastellati e del centrosinistra nettamente più favorevoli. Tuttavia fa riflettere la quota non marginale (anche se minoritaria) di elettori del centrodestra favorevoli, in particolare tra i sostenitori di FI e delle formazioni “centriste” (il 27% lo considera prioritario e un altro 21% è favorevole). Il consenso è nettamente più elevato tra le persone più informate. E anche tra i cattolici praticanti prevalgono i favorevoli. Una delle questioni più controverse riguarda il fatto che con il testo attuale si potrebbe mettere a rischio la libertà di opinione di coloro che non accettano orientamenti o comportamenti diversi da quelli eterosessuali o il concetto di “identità di genere”. Le opinioni si dividono: il 34% non ritiene che vi sia questo rischio (con picchi del 56% tra gli elettori dem e del 46% tra i pentastellati), il 27% è di parere opposto (47% tra gli elettori di FdI e 43% tra i leghisti), mentre la maggioranza relativa (39%) non prende posizione. In questo caso i credenti sono molto divisi. Nei giorni scorsi Matteo Renzi ha proposto di introdurre due modifiche al testo: una prevede di togliere il termine “identità di genere”, l’altra intende assicurare che la legge preveda il rispetto “dell’autonomia scolastica” a proposito delle iniziative contro l’omofobia nelle scuole. Anche in questo caso si registra una quota molto elevata (43%) di intervistati che non si esprimono; tra gli altri il 17% si dichiara a favore delle proposte (40% tra gli elettori di FI, 33% tra quelli di FdI e 29% tra i leghisti), un altro 17%, pur ritenendo che non migliorino il testo, sono a favore per ragioni tattiche (consentirebbero di far approvare la legge), mentre il 23% reputa che le proposte vadano respinte perché renderebbero meno incisiva la legge (45% tra i dem). È stato avanzato il sospetto che le proposte di Renzi siano motivate da un calcolo politico, dall’intenzione di porsi come interlocutore del centrodestra, anche in vista di un possibile accordo per l’elezione del prossimo capo dello Stato. Quasi un elettore su due (47%) si dichiara molto (19%) o abbastanza (28%) d’accordo con questa interpretazione, mentre il 17% dissente e il 36% non si esprime. Le opinioni degli italiani riguardo al ddl Zan evidenziano due elementi interessanti: innanzitutto che a dispetto del rilievo mediatico una quota rilevante di cittadini non è informato e fatica a districarsi con le diverse implicazioni del ddl; in secondo luogo si conferma che quando vengono affrontati i temi che hanno risvolti etici le opinioni possono divergere rispetto alle posizioni dei rispettivi partiti. Insomma, le attuali contrapposizioni politiche appaiono assai distoniche rispetto a uno scenario nel quale la maggioranza dei cittadini esprime una ritrovata concordia, un elevato apprezzamento per l’operato del governo e una ripresa di fiducia. L’Europa al bivio dei diritti di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 10 luglio 2021 Al modo d’essere fondato sulla Carta di Ventotene si contrappone quello dei Paesi ex comunisti. Il bancomat si è inceppato, infine. Dopo anni di ambiguità, raccomandazioni inutili e procedure d’infrazione tardive, l’Unione europea sembra stanca di farsi usare come mera dispensatrice di risorse da membri ostili ai suoi principi ispiratori (“un bancomat”, appunto, secondo la tagliente definizione del polacco Kaczynski). Lo scontro di queste ore tra la Bruxelles di Ursula von der Leyen e l’Ungheria di Viktor Orbán è assai più vasto e profondo del suo casus belli: una legge varata a giugno da Budapest. Il testo, proponendosi in origine la “protezione dei bambini contro i pedofili”, getta, tramite quattro emendamenti, nello stesso calderone d’infamia tutti coloro che non rientrino nella morale di Stato ungherese, omosessuali e transessuali in testa. Una normativa che la presidente della Commissione ha definito “vergognosa” e che lede diritti fondamentali protetti dai nostri trattati secondo diciassette Stati membri: in pratica tutta l’Europa dell’Ovest. Perché questa è, nella sua essenza, la vera questione della quale Orbán oggi rappresenta una sorta di simbolo vivente, il bivio tra due modi d’essere dell’Unione: un’Europa che, sia pure tra drammatiche discontinuità e guerre fratricide, ha tratto dai propri dolori ed errori i motivi per allargare vieppiù i diritti dei suoi cittadini nello spirito della carta di Ventotene; e un’altra Europa che, uscita da mezzo secolo di dittatura comunista, manifesta un ritardo patologico nella comprensione di quei diritti e sceglie di inverarsi nell’ossimoro della “democrazia illiberale” (a titolo di esempio, secondo l’Economist, meno del 50% di ungheresi, polacchi e romeni pensa che gli omosessuali debbano avere gli stessi diritti degli eterosessuali). Le ripetute crisi dell’Unione (massime quella del debito sovrano a cavallo del 2010) hanno rinviato a lungo il redde rationem. Lo scatto culturale indotto dalla pandemia, con i salvifici danari del Recovery Plan generati per la prima volta da debito comune (e comunitario), ha di colpo sbloccato l’impasse e spinto alla resa dei conti. Perché stavolta Bruxelles non ha dalla sua solo vacue minacce o procedure che per andare a dama richiedono anni di pazienza e improbabili unanimità. Ha l’arma di fine mondo, la micidiale possibilità di non erogare i fondi del Pnrr: una punizione immediata che costerebbe a Orbán sette miliardi e mezzo. Il leader magiaro è uomo di paradossi, dunque tenta di rovesciare la sua guerra contro le libertà degli ungheresi in una battaglia a favore delle loro libertà contro un’Unione europea “colonialista”, presentata quale novella Unione Sovietica (sic). Del resto, pur essendo diventato beniamino della destra radicale italiana deve (paradossalmente) l’ingresso del suo Paese nella casa europea a un padre nobile della nostra sinistra. Fu Romano Prodi, da presidente della Commissione, a battersi e a ottenere nel 2004 l’allargamento della Ue agli “orfani” dell’Urss, con una fretta dettata di certo da lodevoli intenti ma foriera di discutibili risultati. “Invece di scrivere le nuove regole istituzionali dell’Unione prima di aprire le nostre porte ai nuovi arrivati, invitammo a scriverle insieme a noi alcuni Paesi che non avevano tradizioni europeiste ed erano soprattutto interessati a salvaguardare gelosamente la loro sovranità nazionale”, ha osservato anni fa su queste colonne Sergio Romano. L’idea era che il benessere tra le due parti d’Europa si livellasse in fretta. La delusione conseguente al suo fallimento è stata la migliore benzina di Orbán, che dal 2010 ha cambiato in senso autoritario la Costituzione ed è diventato il punto di riferimento del gruppo di Visegrad, ostile ad ogni ripartizione di migranti tra Paesi dell’Unione: oggettivamente, un temibile avversario dell’Italia in uno dei dossier per noi più delicati; ma, per ulteriore paradosso, un rivale difeso a oltranza proprio da taluni sovranisti che vagheggiano la primazia degli italiani. La ragione di questa difesa, diciamo d’ufficio, è che, se Orbán la passasse liscia, si dimostrerebbe davvero che l’Unione è una Disunione, un lasco condominio di confederati che non condividono più nemmeno un’antenna parabolica sintonizzata sul futuro, e l’Europa tornerebbe quella delle piccole patrie, cara a chi non ha capito che il mondo globalizzato non ha il tasto di “rewind” incorporato. Naturalmente, il blocco dei fondi del Recovery troverebbe giustificazioni più strutturali dell’omofobia normativa di Orbán. Il commissario italiano Paolo Gentiloni ha citato la corruzione, l’accesso alle informazioni, l’indipendenza della giustizia, il controllo degli appalti pubblici: tutti nervi scoperti di una democratura che ha sottomesso da un pezzo giudici e giornalisti ed è sotto scrutinio per l’elevato tasso clientelare dei suoi snodi istituzionali. I due dossier corrono, insomma, paralleli anche se sarebbe ipocrita negare che il primo possa influenzare pesantemente la valutazione del secondo. Il bivio è qui, ora. Per la prima volta, forse perché accomunati dall’angoscia di un anno e mezzo di pandemia, gli europei danno l’impressione di avere compreso quale sia la posta in gioco: contagiare davvero, con la cultura liberale dei diritti, anche quella metà di Unione rimasta indietro o acconciarsi a una tuttora impensabile Eurexit, un’Unione che esca dalla creatura infelice disegnata nel 2004 e si ritrovi, un po’ più piccola sul planisfero, ma molto più forte e coesa. Prima di arrendersi, bisognerà tuttavia avere inseguito ancora ed esaurito infine la speranza più grande: che i nostri fratelli dell’Est si liberino delle tirannie mascherate seguite alla grande tirannia sovietica, scoprendo come il bancomat cui hanno attinto finora inconsapevolmente abbia una parola chiave a loro troppo a lungo preclusa. Dieci lettere: democrazia. Oxfam, nel mondo la fame uccide più del Covid di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 10 luglio 2021 Nel mondo ogni minuto 11 persone rischiano di morire di fame, quasi il doppio delle vittime provocate dal Covid 19 che uccide 7 persone al minuto. È l’allarme lanciato oggi da Oxfam con il rapporto “Il virus della fame si moltiplica”, che fotografa le cause e le dinamiche dell’aumento esponenziale della fame globale dall’inizio della pandemia: 155 milioni di persone in questo momento sono colpite da insicurezza alimentare o denutrizione, ossia 20 milioni in più rispetto all’anno scorso. La guerra resta la prima causa della fame: 2 persone su 3 - quasi 100 milioni in 23 paesi - vivono infatti in aree di conflitto. Oltre mezzo milione di persone in più nell’ultimo anno si trovano sull’orlo della carestia: un numero sei volte superiore rispetto a 12 mesi fa. All’impatto dei conflitti in corso, nonostante l’appello del segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Gutertes di oltre un anno fa per un cessate il fuoco globale, si aggiungono la crisi economica e il progressivo peggioramento dell’emergenza climatica. Il vertiginoso aumento della disoccupazione globale e le prolungate interruzioni nel ciclo della produzione alimentare - che in molti paesi si sono verificate nel corso del 2020 e dall’inizio dell’anno - hanno causato un aumento del 40% dei prezzi globali, il più alto degli ultimi 10 anni. “Siamo di fronte alla tempesta perfetta in cui guerre, pandemia e caos climatico stringono popolazioni inermi in una morsa che non lascia via di scampo - ha detto Francesco Petrelli, policy advisor per la sicurezza alimentare di Oxfam Italia -. In molte aree attraversate da sanguinosi conflitti si continua ad usare la mancanza di cibo come un’arma, lasciando le persone senza acqua o beni di prima necessità e impedendo l’arrivo degli aiuti umanitari alle comunità più colpite. Di fronte a tutto questo, dobbiamo quindi chiederci, come milioni di persone in paesi già poverissimi possano far fronte anche alle più basilari necessità quotidiane, con la pandemia ancora in corso; se il mercato accanto a casa viene bombardato e i raccolti e gli allevamenti da cui dipendono per sopravvivere vengono distrutti”. Nonostante la pandemia, la spesa militare globale è aumentata di 51 miliardi di dollari, una cifra sei volte e mezzo superiore al totale dei finanziamenti richiesti dalle Nazioni unite per fronteggiare la crescita della fame a livello mondiale. I conflitti in corso hanno inoltre portato alla cifra record di 48 milioni gli sfollati interni a fine 2020. La pandemia ha anche aggravato enormemente le disuguaglianze: la ricchezza dei 10 più facoltosi del pianeta l’anno scorso è aumentata di 413 miliardi, ossia 11 volte quanto le Nazioni unite stimano basterebbe per finanziare l’intera risposta umanitaria globale. Una risposta che deve essere potenziata al più presto per salvare i milioni di persone che oggi affrontano livelli di insicurezza alimentare senza precedenti in molti aree del mondo. “In Paesi come Afghanistan, Etiopia, Sud Sudan, Siria e Yemen, la guerra nell’ultimo anno ha portato a un aumento esponenziale del numero di persone che si trovano ad un passo dalla carestia” ha aggiunto Paolo Pezzati, policy advisor per le emergenze umanitarie di Oxfam Italia. Secondo gli ultimi dati 350mila persone nella regione etiope del Tigray vivono ora in questa condizione, il numero più alto mai registrato dal conflitto in Somalia del 2011, quando morirono di fame oltre 250 mila persone. In Yemen più della metà della popolazione (oltre 15 milioni di persone) è a rischio, a oltre 6 anni e mezzo dall’inizio del conflitto, che ha già causato centinaia di migliaia di vittime. Tra i paesi più colpiti al mondo dall’aumento della fame in questo momento ci sono Brasile, India, Yemen, regione del Sahel, Sud Sudan. “L’emergenza è globale e colpisce soprattutto le fasce più vulnerabili della popolazione, a partire dalle donne, che in molti casi rinunciano al cibo per sfamare i propri figli, ed in molti contesti sono esposte al rischio di abusi e violenze - ha concluso Petrelli - lanciamo un appello urgente alla comunità internazionale perché intervenga per il rispetto di un cessate il fuoco globale; ai grandi Paesi donatori perché finanzino al più presto l’appello per la risposta umanitaria delle Nazioni unite nelle più gravi aree di crisi, prima che sia troppo tardi; contribuendo a creare un sistema alimentare più giusto; ai paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu perché intervengano sulle parti in conflitto che continuano a usare la fame che colpisce civili inermi come un’arma. Ma per prevenire morti che si possono ancora evitare è allo stesso tempo indispensabile sconfiggere la pandemia”. Alle origini della radicalizzazione religiosa nelle carceri di Emanuel Pietrobon it.insideover.com, 10 luglio 2021 Carceri, luoghi di punizione e di correzione. Carceri, luoghi che possono rivelarsi una condanna nella condanna o che, al contrario, possono condurre alla redenzione. I carceri sono tutto questo: luoghi in cui il bene e il male si mescolano, diventando un tutt’uno indistinto e inscindibile, e dove sono presenti persone aventi a cuore il fato dei detenuti, come operatori sociali, psicologi, insegnanti e religiosi. Nell’intrico delle carceri, quando si spengono le luci e vengono chiuse le celle, emergono dall’ombra anche degli altri operatori: gli operatori del male. Detenuti, e talvolta personale carcerario - come gli imam -, che lavorano notte e giorno, senza sosta e instancabilmente, per persuadere gli Ultimi a trasformare l’odio covato nei confronti della società in un’idea, o meglio in un’ideologia: il jihadismo. Carceri, focolai di radicalizzazione - Il divenire del mondo un villaggio globale interconnesso - e connesso (ad Internet) - ha avuto delle implicazioni profonde per l’internazionale del terrorismo islamista, una realtà oggi più che mai de-territorializzata e internetizzata. Moschee e luoghi di ritrovo fisici, come scuole coraniche, centri culturali, palestre, bar e ristoranti, continuano a rivestire un ruolo centrale all’interno delle agende di proselitismo degli apostoli dell’islam radicale, ma la loro rilevanza va scemando di pari passo con l’incremento dell’internetizzazione delle relazioni sociali. Oltre alla cosiddetta “radicalizzazione a cielo aperto”, però, c’è (molto) di più: un mondo fatto di camere da letto che diventano luoghi di autoradicalizzazione in rete, cullando futuri lupi solitari e aspiranti tagliagole, e di camere detentive esposte al rischio che i loro ospiti vengano introdotti ad una delle varie scuole dalla sfaccettata galassia dell’islam radicale - come il qutbismo, il salafismo e/o il wahhabismo - e si convertano in assassini una volta rimessi in libertà. Quello della radicalizzazione religiosa nelle carceri è un problema di rilevanza mondiale, sentito e radicato in ognuna delle terre emerse, dall’Asia all’Africa, passando per Americhe e Oceania. Ed Europa e Stati Uniti, cuori pulsanti dell’Occidente, hanno scoperto di avere delle serpi in seno a partire dall’11 settembre 2001, il giorno che ha sancito l’inizio di una nuova epoca - macchiata dal sangue del terrorismo islamista e alimentata dal carburante offerto da periferie e carceri - che quest’anno compie esattamente vent’anni. I numeri del fenomeno - Il fenomeno della radicalizzazione religiosa tra i detenuti delle carceri di Europa e Stati Uniti è ampio e datato - le sue origini risalgono, verosimilmente, agli anni della guerra fredda - e può essere illustrato chiaramente per mezzo dei numeri. Numeri che, in quanto imparziali e neutri, possono essere senz’altro utili a comprendere la vastità e l’effettiva pericolosità del problema. Numeri che, stando alle ricerche e alle indagini più recenti, sono i seguenti: Una ricerca del King’s College di Londra, analizzando le biografie di 79 jihadisti europei - nati e cresciuti in Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Gran Bretagna e Paesi Bassi - allo scopo di studiare il presunto legame intercorrente tra incarcerazione e radicalizzazione, ha concluso come un terzo di loro fosse stato introdotto all’islam radicale durante la permanenza in carcere. La Francia conta, attualmente, 505 detenuti condannati per reati di terrorismo islamista e 702 detenuti per reati comuni che vengono monitorati ufficialmente perché in odore di radicalizzazione religiosa. Sorvegliare chiunque e separare radicalizzati noti dal resto della popolazione carceraria, però, è impossibile per una semplice questione numerica: i detenuti di fede islamica costituiscono stabilmente il 60% del totale dai primi anni Duemila - una sovra rappresentazione statistica di proporzioni enormi, indicativa di un grave problema di (mancata) integrazione, considerando che i musulmani compongono circa il 9% della popolazione totale francese. Il Belgio, le cui prigioni hanno cullato alcuni degli attentatori di Parigi 2015 e Bruxelles 2016, presenta un problema molto simile a quello dei cugini francesi: la sovra rappresentazione dei detenuti musulmani, che costituiscono circa il 6% della popolazione nazionale e il 20-30% di quella carceraria. Sovra rappresentazione che, unitamente al sovraffollamento, complica il compito della sorveglianza dei carcerati a rischio e inibisce il funzionamento dei programmi di reintegrazione sociale e de-radicalizzazione. Gli ultimi dati, relativi al 2020, dipingono un quadro cupo, ma certamente migliore di quello francese: “soltanto” 220 detenuti indicati come terroristi islamisti, combattenti di ritorno e/o radicalizzati noti. In Spagna, nel periodo compreso fra il 2015 e il 2019, è più che raddoppiato il numero dei detenuti condannati per terrorismo islamista e/o monitorati perché in odore di radicalizzazione religiosa: da 118 a 254. Negli Stati Uniti, dove i musulmani costituiscono dal 9% al 20% della popolazione carceraria - una sovra rappresentazione rassomigliante a quelle di Belgio e Francia, dato che i musulmani formano circa l’1% della popolazione totale -, le strutture penitenziarie sono da più di quarant’anni al centro dell’agenda evangelizzatrice della Nazione dell’Islam e sono considerate dei veri e propri incubatori di conversioni all’islam: una media di 35mila “ritornati ad Allah” su base annua, cioè l’80% di tutte le conversioni religiose che avvengono dietro alle sbarre. Quanti di questi convertiti vivano la loro fede in armonia e quanti cadano nella trappola del radicalismo non è noto, ma le autorità ne sono sicure: “[i gruppi islamisti] dominano nel reclutamento carcerario di musulmani”. I numeri di cui sopra sono la conferma della natura intrinsecamente antipodica delle carceri: luoghi che offrono contemporaneamente correzione e corruzione e all’interno dei quali si possono conseguire la redenzione o la perdizione. Luoghi in cui si può riconquistare la fiducia nella società o nei quali si può imparare ad odiarla profondamente, a seconda dell’operatore che il detenuto ha la (s)fortuna di trovare. Luoghi che perscruteremo nel corso di questa rubrica dedicata al fenomeno della radicalizzazione religiosa nelle carceri di Europa e Stati Uniti. Bielorussia un anno dopo tra arresti, purghe e botte: l’opposizione non esiste più di Giuseppe Agliastro La Stampa, 10 luglio 2021 Lukashenko è riuscito a spegnere le proteste anti-regime con la forza: in carcere oltre 530 prigionieri politici, gli altri costretti all’esilio all’estero. Perquisizioni, arresti, manganellate, oppositori rinchiusi in galera o costretti a fuggire all’estero. Poco più di un anno fa in Bielorussia la gente cominciava a manifestare contro “l’ultimo dittatore d’Europa” Aleksandr Lukashenko e il regime tornava a premere sull’acceleratore della repressione pur di non mollare le redini del potere che tiene in pugno da oltre un quarto di secolo. Dopo le presidenziali dello scorso agosto e l’improbabile trionfo di Lukashenko, ritenuto frutto di massicci brogli elettorali, migliaia e migliaia di persone hanno inondato le strade delle città bielorusse con le bandiere bianche e rosse dell’opposizione chiedendo le dimissioni del satrapo di Minsk. Le proteste sono andate avanti per mesi, nonostante la brutale repressione della polizia. Divieto di voto - Tutti i principali oppositori oggi sono in carcere o oltreconfine e la persecuzione di dissidenti e giornalisti non accenna a diminuire. Tra ieri e giovedì le forze di sicurezza hanno effettuato dei blitz nelle sedi di diversi media locali e hanno perquisito le case di alcuni reporter. Il sito della testata indipendente “Nasha Niva” è stato bloccato e secondo l’Afp il direttore Yegor Martinovich è stato picchiato e ha riportato delle ferite alla testa quando è stato fermato. Risale a pochi giorni fa anche la pesantissima condanna a Viktor Babaryko. Martedì la Corte Suprema ha inflitto 14 anni di reclusione per corruzione e riciclaggio all’ex capo di BelGazpromBank, ma le accuse contro di lui sono ritenute politiche. L’ex manager era infatti considerato il principale rivale di Lukashenko alla vigilia delle presidenziali del 2020, ed è stato arrestato nel giugno dell’anno scorso, due mesi prima del voto. Non si è potuto candidare neanche l’ex ambasciatore negli Usa, Valery Tsepkalo, che temendo ritorsioni è andato a Mosca e poi in Europa. E la candidatura è stata negata pure a Mikola Statkevich e a Sergey Tikhanovsky, entrambi in carcere. Statkevich è uno dei leader storici dell’opposizione bielorussa. Sfidò Lukashenko alle presidenziali del 2010 e finì dietro le sbarre per cinque anni. È stato arrestato di nuovo nel maggio dell’anno scorso e ora rischia un’altra dura condanna. Tikhanovsky è invece il videoblogger che ha paragonato Lukashenko alla Grande Blatta, il prepotente scarafaggio coi baffi nato dalla penna di Korney Chukovsky, e ha così ispirato le “proteste della pantofola”, con i manifestanti che agitavano simbolicamente una pantofola contro il despota. Anche Tikhanovsky è finito in carcere alla fine di maggio dello scorso anno, ed è stato allora che sua moglie Svetlana Tikhanovskaya ha deciso di sostituirlo e di candidarsi. Tikhanovskaya ha unito il fronte del dissenso alleandosi con la responsabile della campagna elettorale di Babaryko, Maria Kolesnikova, e con la moglie di Valery Tsepkalo, Veronika, e dando vita a un terzetto tutto femminile che è stato uno schiaffo morale a Lukashenko, secondo cui la Bielorussia non era pronta per una presidente donna. Veronika Tsepkalo ha lasciato la Bielorussia ad agosto e lo stesso hanno poi fatto l’ex ministro della Cultura, Pavel Latushko, e Olga Kovalkova, che racconta di essere stata portata alla frontiera dai servizi di sicurezza. La stessa Tikhanovskaya è stata costretta dal regime ad andare in Lituania subito dopo il voto di agosto. Maria Kolesnikova invece a settembre è stata fatta salire su un pulmino scuro da degli uomini a volto coperto, probabilmente agenti del Kgb, ma pare che pur di non essere portata in Ucraina contro la propria volontà abbia fatto a pezzi il passaporto. Ora è in carcere, così come Katerina Bakhvalova e Daria Chultsova, due giornaliste della tv Belsat condannate a due anni per aver compiuto il loro dovere coprendo le manifestazioni antiregime. Erano state arrestate a novembre dopo aver filmato la violenta repressione di un corteo in memoria del manifestante Roman Bondarenko, morto dopo essere stato picchiato da degli sconosciuti sospettati di essere agenti in borghese. Detenuti politici - Nelle mani del regime sono finiti anche Roman Protasevich e la sua fidanzata Sofia Sapega. Protasevich è l’ex direttore e il cofondatore di Nexta, un canale Telegram che è stato un punto di riferimento durante le proteste. A maggio lui e la sua ragazza sono stati arrestati dopo che l’aereo sul quale viaggiavano è stato costretto dalle autorità bielorusse ad atterrare a Minsk per un allarme bomba rivelatosi infondato e in cui molti vedono un tranello del regime per arrestare il dissidente. Secondo l’Onu, sono circa 530 i detenuti considerati “prigionieri politici” rinchiusi nelle famigerate carceri bielorusse. Uno di loro era Vitold Ashurak, condannato a 5 anni per aver partecipato alle proteste e morto in cella in circostanze poco chiare. America Latina. Ergastolo per i torturatori del Plan Condor di Elena Basso Il Manifesto, 10 luglio 2021 La Corte di Cassazione di Roma ha condannato in via definitiva 14 ex militari e gerarchi delle dittature cilene e uruguaiane. “La decisione ha un significato profondo per la giustizia sovranazionale”, dice al manifesto l’avvocato dei familiari delle 43 vittime italiane. Nel primo pomeriggio del 9 luglio a Roma i giudici della Corte di Cassazione hanno letto una sentenza storica: sono stati tutti condannati all’ergastolo gli imputati del maxi-processo Condor. Iniziato nel 2015, riguarda 43 cittadini italiani che sono state vittime delle sanguinose dittature sudamericane degli anni 70. Sono 14 imputati tra militari e gerarchi dei regimi militari cileni e uruguaiani che ora sono stati condannati all’ergastolo dalla giustizia italiana, fra cui spicca l’ex fuciliere della Marina uruguaiana Jorge Nestor Troccoli. Fuggito nel nostro Paese quando in Uruguay si è aperto un processo contro di lui, vive in Italia dal 2007 e ha la cittadinanza italiana. Sarebbe ricoverato da due giorni in ospedale, per cui non sarebbe possibile al momento arrestarlo. È il primo importantissimo caso in cui un torturatore delle dittature sudamericane residente nel nostro Paese viene processato in Italia. Un precedente fondamentale per avviare nuovi processi contro altre persone, accusate di torture e omicidi avvenuti durante le dittature sudamericane degli anni ‘70, che oggi vivono in Italia. Come Carlos Luis Malatto, ex tenente argentino accusato del sequestro e della tortura di decine di militanti, che vive nel nostro Paese da oltre 10 anni e per il cui caso il 26 maggio del 2020 il ministro della giustizia Alfonso Bonafede ha autorizzato a istruire un processo nei suoi confronti. O come don Franco Reverberi, ex cappellano militare accusato di aver assistito alle torture di vari detenuti in un campo di sterminio argentino nella cittadina di San Rafael. Reverberi oggi celebra messa a Sorbolo, un piccolo comune in provincia di Parma e lo scorso aprile dall’Argentina è stata richiesta per la seconda volta l’estradizione nei suoi confronti. In aula c’è stata enorme commozione tra i familiari e gli avvocati che portano avanti il processo da oltre sette anni. Giancarlo Capaldo, l’ex pubblico ministero che ha dato il via alle indagini per iniziare il processo, ha dichiarato al manifesto: “La sentenza di oggi è un importantissimo traguardo per l’Italia, uno sforzo di civiltà giuridica che potrà essere un insegnamento per tutti gli altri Paesi. È una pagina storica per l’Italia. È stato un percorso lungo e difficile per arrivare alla sentenza pronunciata oggi, un cammino reso possibile dall’incredibile collaborazione umana che si è sviluppata tra i familiari, i sopravvissuti e gli avvocati”. È dello stesso parere Andrea Speranzoni, avvocato dei familiari, che dice: “Questa sentenza è importantissima sia per l’Italia che per l’America latina perché si appura una colpevolezza per imputati che si sono macchiati di reati atroci e gravissimi che hanno condizionato la storia di un intero continente. Ora si deve valorizzare il senso di questa sentenza che ha un significato profondo che riguarda sicuramente la giustizia italiana, ma anche quella sovranazionale”. La sentenza è arrivata ieri a conclusione di due intensi giorni di discussione di fronte ai giudici della Corte di Cassazione nell’Aula Magna a Roma. Per molte ore giovedì si sono susseguite le discussioni degli avvocati dei familiari delle vittime, seguiti dagli avvocati difensori degli imputati. L’ultimo a parlare è stato Francesco Guzzo, legale dell’ex fuciliere uruguaiano Jorge Nestor Troccoli, che ha definito l’imputato un “bersaglio”. La presidente della Corte, Maria Stefania di Tommasi, ha preso la parola: “Gli unici bersagli sono state le vittime del processo che con le loro dichiarazioni hanno fatto piangere tutti noi, anche lei avvocato Guzzo, ne sono sicura”.