Il ruolo fondamentale della giustizia riparativa nella riforma Cartabia di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 9 giugno 2021 Un capitolo della relazione della commissione Lattanzi, presentata in commissione Giustizia dalla guardasigilli, è dedicato alla giustizia riparativa. “Occorre consegnare alla politica e alla collettività il valore di un approccio al fare giustizia costruttivo, inclusivo, volto alla riparazione dell’offesa, rispettoso della dignità della vittima e dell’autore di reato - che debbono essere considerati dal sistema in primis come persone - e senza perdita di sicurezza”. Parliamo di un capitolo importante della relazione elaborata dalla commissione Lattanzi presentata il 4 giugno scorso in commissione Giustizia dalla guardasigilli Marta Cartabia. Tra le varie proposte di legge delega, c’è appunto quella della giustizia riparativa. L’importanza di introdurre una normativa in tal senso è stata già espressa nelle Linee programmatiche della ministra Cartabia, che raccolgono e sintetizzano le molteplici indicazioni internazionali. “Non posso non osservare - aveva ben spiegato la guardasigilli - che il tempo è ormai maturo per sviluppare e mettere a sistema le esperienze di giustizia riparativa, già presenti nell’ordinamento in forma sperimentale che stanno mostrando esiti fecondi per la capacità di farsi carico delle conseguenze negative prodotte dal fatto di reato, nell’intento di promuovere la rigenerazione dei legami a partire dalle lacerazioni sociali e relazionali che l’illecito ha originato”. La Commissione Lattanzi, nella relazione, sottolinea che le più autorevoli fonti europee e internazionali ormai da tempo hanno stabilito principi di riferimento comuni e indicazioni concrete per sollecitare gli ordinamenti nazionali a “elaborare paradigmi di giustizia riparativa che permettano alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se entrambi vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale”. Come si è sempre osservato sulle pagine de Il Dubbio, c’è una convinzione collettiva che il crimine sia un’offesa contro lo Stato, che le persone che commettono un reato debbano essere punite esclusivamente con la detenzione carceraria e che le decisioni sul come trattare gli autori di reato debbano essere eseguite da parte di amministratori della giustizia attraverso un procedimento legale formale. Ciò che è incredibile della “giustizia riparativa” è che modifica tutte queste assunzioni: essa vede infatti il crimine non come un’offesa contro lo Stato, ma come un danno alle persone e alle relazioni e, invece di punire gli autori del reato esclusivamente con la galera, si preoccupa di riparare il dolore inflitto dalla commissione del crimine. Non solo viene presa in considerazione la vittima, ma anche tutte le vittime del reato specifico. La Commissione Lattanzi ha quindi elaborato i decreti legislativi recanti una disciplina organica della giustizia riparativa e conseguenti modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, alla legge di ordinamento penitenziario e alle leggi complementari collegate. E sono adottati nel rispetto di cinque principi e criteri direttivi. Il primo. Prevedere, anche sulla base della Direttiva 2012/29/UE che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato e delle normative internazionali in materia, una disciplina organica della giustizia riparativa quanto a nozione, principali programmi, garanzie, persone legittimate a partecipare, con particolare riferimento alla vittima e all’autore del reato. Il secondo. Disciplinare la formazione degli operatori pubblici e privati sulla giustizia riparativa tenendo conto della sensibilità e delle esigenze delle vittime di reato. Il terzo. Disciplinare l’organizzazione dei servizi di giustizia riparativa con particolare riferimento alla regolamentazione dei centri che erogano percorsi di giustizia riparativa e alla formazione degli operatori di giustizia riparativa, anche con il coordinamento metodologico di un Tavolo interistituzionale dedicato presso il Ministero della Giustizia. Il quarto. Prevedere specifiche garanzie per l’attuazione dei programmi di giustizia riparativa che includano: completa ed effettiva informazione alla vittima del reato circa i servizi di giustizia riparativa disponibili a partire dal primo contatto con la pubblica autorità e ogni volta che debba essere sentita; diritto all’assistenza linguistica delle persone alloglotte; previsione di meccanismi di informazione sulla giustizia riparativa per l’autore di reato, anche minorenne; svolgimento dei programmi di giustizia riparativa nel prevalente interesse delle vittime; acquisizione e trattamento dei dati personali; volontarietà, consenso ritrattabile in ogni momento, confidenzialità delle dichiarazioni espresse nel corso di un programma di giustizia riparativa; inutilizzabilità delle dichiarazioni rese nel corso di un programma di giustizia riparativa nel procedimento penale e in fase di esecuzione della pena, salvo che le dichiarazioni integrino di per sé reato o che vi sia il consenso delle parti alla loro utilizzazione; inutilizzabilità dell’esito di percorsi di giustizia riparativa con effetti pregiudizievoli per l’indagato, l’imputato o il condannato. Infine il quinto. Prevedere la possibilità di accesso ai programmi di giustizia riparativa senza preclusioni in relazione alla gravità dei reati e di recepire gli esiti del ricorso a detti programmi in ogni stato e grado del procedimento di merito, nell’ambito degli istituti previsti dal codice penale, dal codice di procedura penale, dall’ordinamento penitenziario, dall’ordinamento minorile e da leggi speciali che possano essere arricchiti dall’innesto della prospettiva riparativa. Attenzione, c’è molto di più. La giustizia riparativa, aumenta anche il diritto della vittima, la persona offesa del reato, ad avere molte più prerogative. Tra di esse, come si legge nel testo della commissione, viene contemplato il diritto di una più ampia partecipazione a livello processuale ma anche rispetto ai programmi di giustizia riparativa per affrontare e definire le questioni legate alla riparazione dell’offesa. Oppure il diritto ad avere “più voce in merito alle misure opportune da adottare in risposta alla loro vittimizzazione, a comunicare con l’autore dell’illecito e a ottenere riparazione e soddisfazione nell’ambito del procedimento giudiziario”. Dei delitti e del carcere sull’onda emotiva del caso Brusca di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 9 giugno 2021 La recente scarcerazione per fine-pena del boss “pentito” Giovanni Brusca ha provocato profondo turbamento e reazioni indignate. Non solo tra i familiari delle vittime, ma anche nella pubblica opinione e in alcuni settori del mondo politico. Sino al punto di indurre a sollevare l’interrogativo se non siano maturati i tempi per rivedere la legge sulla collaborazione giudiziaria. Lo sconcerto era del resto prevedibile. Anche perché corrisponde ormai a una sorta di legge statistica che a ogni occasione di interruzione, o mitigazione del rigore detentivo di condannati mafiosi (persino molto anziani e gravemente ammalati), seguano subito preoccupazione e allarme. Contribuisce ad alimentare questi sentimenti la stampa scritta e parlata, che - specie da quando il paradigma vittimario ha preso il sopravvento nello scenario pubblico - tende, più che a registrare, a sollecitare e drammatizzare le reazioni negative dei parenti delle vittime (a cominciare dalle figure più note o simbolicamente rilevanti) con interviste e altre tecniche comunicative atte a provocare e diffondere forti ondate di emotività. E da queste correnti emotive finiscono, purtroppo, col farsi coinvolgere anche esponenti politico-istituzionali, cui può accadere di lasciarsi andare a esternazioni estemporanee destinate però a essere corrette o ridimensionate non appena torna a prevalere, dopo qualche giorno, una più fredda capacità di giudizio. D’altra parte, è anche vero che il tema del pentitismo è problematico e divisivo non da ora, e lo comprova la sua lunga storia non a tutti nota. Come attesta tra altri lo storico Salvatore Lupo, casi di mafiosi disposti a fornire agli organi inquirenti informazioni sulla struttura della mafia, sulle attività delle cosche e sui crimini commessi dagli affiliati, per riceverne in cambio benefici di vario genere o per sgominare indirettamente gruppi avversari, sono documentabili sin dall’Ottocento postunitario; e ciò - per dirla con Lupo - “in barba ai loro codici presunti intangibili e alla loro altrettanto presunta ripulsa etica alla collaborazione con lo Stato”. E, proprio in considerazione del carattere tutt’altro che disinteressato di questa disponibilità a parlare, si è sin da allora affacciato il tormentoso dubbio se la collaborazione fosse sincera o strumentale e se, di conseguenza, le informazioni date fossero a loro volta genuine o manipolate. Un dubbio, questo, che è andato ciclicamente riproponendosi lungo parecchi decenni, provocando contrapposizioni e accese polemiche in particolare quando le dichiarazioni dei collaboratori hanno coinvolto politici di rango o, più in generale, persone del ceto dirigente. Nulla di nuovo sotto il sole, potremmo dunque dire. Se è così, c’è allora da chiedersi se il contesto contingente in cui si è verificato il ritorno in libertà di Brusca sia connotato da tali elementi di novità, da giustificare una rinnovata riflessione pubblica sulla collaborazione giudiziaria in vista di eventuali modifiche della legge che in atto la regola. Ora, considerando le motivazioni delle più recenti reazioni negative, al centro delle contestazioni non sembra esservi la credibilità dei collaboratori di giustizia sotto l’aspetto della veridicità delle loro dichiarazioni (anche se non può non apparire alquanto sospetta, ad esempio, la quantità via via crescente di personaggi “fantasmatici”, di presunta appartenenza all’oscuro e torbido sottosuolo dei soliti servizi segreti immancabilmente deviati, immessi a scoppio ritardato nella ribalta giudiziaria da pentiti vecchi o nuovi, pronti - guarda caso - a recuperare la memoria al momento processuale da loro ritenuto opportuno). Piuttosto, sembra posta in discussione soprattutto la “giustizia” di un trattamento punitivo che, per effetto delle attenuanti previste a favore di chi collabora (e di altri sconti più in generale preveduti dall’ordinamento penitenziario per ogni detenuto che tenga buona condotta in carcere), consente a un pluriassassino mafioso di riacquistare la libertà dopo 25 anni di galera: cioè un tempo detentivo che viene ora percepito come sproporzionato per difetto in rapporto alla quantità e gravità delle azioni criminose di cui, nel nostro caso, lo stesso Brusca ha ammesso di essere autore. Evidentemente, si tratta di una sproporzione che viene avvertita in chiave di giustizia “retributiva”, vale a dire del modello di giustizia tradizionalmente più radicato nel campo dei delitti e delle pene: secondo questo modello, la pena “giusta” sarebbe appunto quella commisurata, nei termini di una proporzione il più possibile stretta, all’entità della colpevolezza individuale; per cui, quanto più grave è il reato commesso, tanto più severa dovrebbe risultare la risposta sanzionatoria. Ma è possibile fissare un rapporto di precisa corrispondenza tra uno o più delitti e la pena che l’autore merita? In realtà, né il più grande scienziato vivente del diritto penale, né il legislatore più saggio, né il giudice più equilibrato (ammesso che queste figure ideali esistano oggi da qualche parte in carne e ossa!) sarebbero in grado di additare in proposito parametri certi e univoci di riferimento. Come i giuristi di mestiere da gran tempo sanno, la determinazione della pena meritata è sempre influenzata da un irriducibile coefficiente di arbitrio, che rende intrinsecamente problematica la valutazione relativa al trattamento punitivo più “giusto”: vengono infatti in gioco anche fattori emotivi e irrazionali, non affioranti con chiarezza alla coscienza, che entrano in concorrenza, e talora in conflitto con le istanze della razionalità punitiva di matrice illuminista, oggi ri-declinabili nell’orizzonte del costituzionalismo penale. Non a caso, nell’ambito della riflessione penalistica degli ultimi decenni l’approccio retribuzionista al punire è progressivamente entrato in crisi a causa, non ultimo, delle sue componenti emotive: ed è stato soppiantato da concezioni che pongono in primo piano, al posto della pena “giusta” in sé considerata, la pena socialmente utile, cioè concepita quale strumento prevalentemente orientato all’obiettivo della prevenzione dei reati. A ben vedere, in questa prospettiva finalizzata alla prevenzione ricevono certamente una giustificazione razionale anche gli sconti di pena per i collaboratori di giustizia: come sappiamo, l’ordinamento li prevede infatti proprio allo scopo di contrastare la sopravvivenza e/o di prevenire l’espansione del fenomeno mafioso premiando, con alleggerimenti del carico sanzionatorio, quegli associati che fanno rivelazioni utili a scompaginare le organizzazioni criminali. Questa filosofia di fondo sottostante all’istituto della collaborazione necessita davvero di essere oggi ridimensionata per riflesso di riemergenti sentimenti retribuzionisti? Certo, questa riemersione è abbastanza comprensibile, quale immediata reazione umana di fronte alla uscita di prigione di un boia mafioso responsabile, oltre che di molti omicidi, addirittura di un crudelissimo strangolamento di un ragazzino figlio di un altro mafioso che aveva deciso di pentirsi. Tuttavia, bisogna guardarsi dal rischio che la giustificata indignazione per l’enormità di un crimine come questo sfoci, troppo affrettatamente, in una cosiddetta fallacia di generalizzazione. Un buon legislatore, prima di porre mano a una eventuale revisione in senso restrittivo della normativa premiale, dovrebbe piuttosto, innanzitutto, vagliare attentamente l’entità complessiva della minaccia mafiosa che continua a incombere sul nostro paese, tenendo conto dell’insieme delle associazioni criminali che in atto vi operano. È verificabile una forte regressione della suddetta minaccia? In realtà, dalle relazioni periodiche degli organi investigativi di polizia seguitiamo ad apprendere che, mentre sotto certi aspetti è caduta in crisi Cosa nostra siciliana, lo stesso non è accaduto rispetto alla camorra e soprattutto alla ‘ndrangheta (la quale ultima, anzi, avrebbe continuato a espandersi anche a causa della assai minore presenza al suo interno di membri disposti a collaborare). Se ciò impedisce di sostenere che il fenomeno delle mafie nel loro insieme sia in regressione, e se esistono invece segnali che inducono a considerare in crescita la capacità in particolare di qualche organizzazione mafiosa di espandersi ulteriormente, diagnosticare una sopravvenuta minore utilità dei collaboratori di giustizia sarebbe frutto di un giudizio poco aderente a quella che verosimilmente sembra essere la realtà effettuale. Ma per altro verso superficiale e affrettato sarebbe, a ben guardare, sopravvalutare i bisogni emotivi di punizione dura e intransigente che, subito dopo la scarcerazione di Brusca, abbiamo sentito venir fuori anche dalle bocche di uomini politici di primo piano, con espressioni del tipo “un pugno nello stomaco” o una “schifezza” et similia, peraltro convergentemente pronunciate dal progressista Enrico Letta e dal leghista Matteo Salvini. Che uomini politici importanti per il ruolo protagonistico rivestito si lascino andare a espressioni del genere, facendosi portavoce - sinceramente o strumentalmente - di pur comprensibili sentimenti di rabbia, indignazione e risentimento di non poche vittime di mafia, non sembra in effetti un atteggiamento consono a una democrazia matura. Al contrario, si tratta di un atteggiamento non solo troppo precipitoso nell’assecondare pulsioni emotive momentanee, ma anche eccessivamente cedevole al paradigma vittimario, di per sé compatibile con una cultura più populista che liberale. E non solo perché una giustizia penale liberale, o meglio - diremmo oggi - costituzionalmente orientata, dovrebbe puntare a un bilanciamento equilibrato delle contrapposte esigenze e dei concorrenti diritti delle vittime e degli autori di reato. Ma per una ragione ulteriore, e per certi versi più profonda. Pur con tutta la comprensione empatica e col massimo rispetto per le sofferenze psicologiche e le ferite morali patite da chi subisce le conseguenze di gravi crimini, un dato non dovrebbe essere trascurato ed è questo: gli studi di psicologia della vittima mettono cioè bene in evidenza che il cuore delle vittime è attraversato da sentimenti complessi, ambivalenti e non di rado contraddittori; e questo complicato magma interiore contribuisce a spiegare perché il castigo anche più severo dell’autore del fatto criminoso, lungi dal fungere da rimedio risolutivo, rechi soltanto un sollievo superficiale e poco duraturo. Da qui l’idea, avanzata già da qualche tempo da alcuni studiosi esperti della questione, che occorrerebbe creare un nuovo binario per la riabilitazione delle vittime, da affiancare a quello già esistente per la rieducazione dei rei: beninteso, un nuovo binario da affidare alla competenza di psicologi e assistenti sociali tecnicamente in grado di aiutare a elaborare i danni psicologici - che talvolta raggiungono la soglia di veri e propri traumi - provocati dalle azioni delittuose. Inoltre, non è forse superfluo rilevare che, come dimostrano significative esperienze compiute anche in Italia, ai fini della “elaborazione del lutto” conseguente al divenire vittime di reati può risultare comparativamente più adatto, rispetto alla tradizionale giustizia punitiva, quel diverso modello di giustizia che da noi prende il nome di giustizia riparativa. Carceri, solo 180 detenuti positivi al Covid-19 di Marco Belli gnewsonline.it, 9 giugno 2021 Continuano a scendere i contagi da Covid-19 all’interno degli istituti penitenziari. Secondo l’ultimo monitoraggio svolto dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e aggiornato alla data di ieri, si registrano 180 detenuti positivi (-37 rispetto alla scorsa settimana) su una popolazione di 52.517 reclusi presenti. Soltanto 3 i sintomatici, mentre 9 risultano ricoverati in strutture ospedaliere. Anche sul fronte del personale la situazione è in miglioramento rispetto a sette giorni fa: sono 161 gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria positivi (-26), con un solo ricoverato; 32 i contagiati fra il personale amministrativo e dirigenziale dell’Amministrazione Penitenziaria, anche in questo caso un ricoverato. Sul fronte delle vaccinazioni, sono salite a 42.064 le somministrazioni di dosi alla popolazione detenuta (+2.861 in questa settimana). Sono 23.266 gli appartenenti al comparto Sicurezza avviati alla vaccinazione e 2.539 quelli del comparto delle Funzioni Centrali. Più coraggio e riforme, così si salva il diritto dalla deriva populista di Samuele Ciambriello* Il Riformista, 9 giugno 2021 La riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario, la revisione della giustizia penale e di quella del civile per accedere ai fondi del Next Generation Eu, necessitano di audacia che contrasti i pregiudizi del rito mediatico e il fenomeno del populismo giudiziario. Sono interventi urgenti e improcrastinabili perché qualcosa si è guastato nel rapporto fiduciario magistratura-cittadini. Stavolta ce lo chiede l’Europa, non è una dichiarazione preconfezionata dalla politica. Sulla giustizia, sul carcere dal volto umano e sul giusto processo la riforma della ministra della Giustizia Marta Cartabia può archiviare populismo e giustizialismo. Come? Con una riforma urgente, grazie al contributo di tecnologia e più personale, alla mobilitazione di più risorse finanziarie e investimenti sul capitale umano, date le lacune nell’organico dei magistrati e del personale amministrativo. Vi deve poi essere spazio per le forme alternative di giustizia. In una espressione: meno carcere. Punire non vuol dire necessariamente sbattere in galera e spesso innocentemente, come ci dicono i dati. Si deve ricorrere a pene alternative al carcere. L’Italia è l’unico Paese europeo dove, a proposito della pena da scontare, si usa il singolare: “carcere”. In tutta Europa si usa il plurale, “pene”, e si ricorre alla detenzione solo in casi estremi. Devono essere incrementate le misure alternative al carcere. E poi ancora lo spinoso problema: i magistrati, dopo una esperienza politica, potranno tornare a indossare la toga? E poi il tema del sovraffollamento delle carceri. Lì si è chiusi, invisibili al mondo di fuori, che giudica e condanna, sorvegliati e spiati nell’universo di dentro, rimossi, emarginati. Quando si potrà parlare di indulto e amnistia? Le questioni non sono facili, ma sono chiare e concrete. È un tema sensibile per la politica italiana. Poiché non esistono soluzioni semplici a problemi complessi, nel caso della giustizia. Ci vogliono risposte che partano dalla normativa costituzionale ed europea. Insomma l’approdo finale dovrebbe essere aderente allo spirito di uno ius commune europeo. Il sano pragmatismo della ministra Cartabia saprà tener fuori dalla porta i referendum sulla giustizia proposti dai Radicali e utilizzati da Salvini come strumenti per fare lotta politica? Una cosa è certa: non bisogna dimenticare che la giustizia incide su aspetti fondamentali della persona e della sua dignità. In tale scenario, l’emergenza sanitaria causata dal Covid ha rappresentato un momento di crisi del percorso di trattamento in termini di diminuzione di visite, permessi e opportunità di istruzione, formazione e inserimento lavorativo, ma al contempo può caratterizzarsi come un momento di cambiamento, per esempio per il pianeta sanità nelle carceri. Ad oggi i detenuti vaccinati in Campania sono 5.278 su 6.388, ma i medici specialistici presenti nei penitenziari campani non sono sufficienti ad accogliere tutte le richieste sanitarie dei ristretti e non sempre garantiscono una copertura h24. Sono 13 anni che la sanità è regionale: è giunto il momento di stabilizzare gli operatori sanitari che operano in tali luoghi. Ciò che emerge è un mondo spesso dimenticato, a volte rimosso, forse considerato marginale ma che rappresenta lo specchio dei vizi e delle virtù della nostra società. Quella dei luoghi di privazione della libertà personale, nomina una comunità dolente, che accomuna agenti, operatori e ristretti, spesso in grado d’insegnare a chi sta fuori senso di sacrificio, responsabilità e speranza di riscatto. La giustizia dev’essere in grado di bilanciare le esigenze di tutti: una cura che salvi insieme recluso e città. *Garante dei diritti dei detenuti della Ragione Campania I referendum sulla giustizia di Michele Gelardi L’Opinione, 9 giugno 2021 Abbiamo nutrito fiducia nella vocazione liberale della Lega, fin dagli albori, ben prima dei superficiali osservatori dell’ultima ora, sicché non ci coglie di sorpresa la recente decisione di promuovere, di concerto con il Partito Radicale, la raccolta delle firme per i referendum sulla giustizia. Quella vocazione era impressa nella ragione sociale di un movimento, che nasceva per valorizzare le autonomie locali e difendere la libertà d’impresa dall’invadenza dello Stato accentratore, ispirandosi alla cultura storica del federalismo, declinata nei tempi moderni secondo la dottrina politica del professor Gianfranco Miglio. D’altronde la Destra Liberale Italiana ha avuto un ruolo non secondario nel suggerire la linea garantista, propria del conservatorismo liberale, alla Lega e all’intero centrodestra; pertanto, non possiamo dirci stupiti del nostro stesso successo. A differenza di altri, preferiamo dunque parlare di un “ritorno alle origini”, piuttosto che di un “cambiamento” di linea, improvviso e inatteso. La rotta, oggi ritrovata, era stata smarrita, per esempio, quando la Lega, in occasione dell’approvazione della cosiddetta legge “spazza-corrotti”, non aveva saputo opporre un netto rifiuto alle pretese del variegato partito delle manette, facente capo in primo luogo ai Cinque Stelle; o quando un “Carneade” aveva esibito il cappio nell’aula parlamentare. Detto questo sugli errori del passato, perché non è mai producente nascondere la testa nella sabbia, non possiamo sottovalutare la rilevanza della scelta di oggi. La raccolta di centinaia di migliaia di firme non è esattamente una mera dichiarazione d’intenti; non ha lo stesso peso di un tweet o di una episodica dichiarazione ai giornali, per la quale è sempre pronta l’opportuna “smentita” a posteriori. La campagna referendaria raggiunge l’intero corpo dell’elettorato (almeno potenziale); coinvolge tutte le risorse umane e logistiche dei componenti del comitato promotore; esprime la linea programmatica e la visione strategica di lungo periodo. Insomma, non è esattamente robetta di poco conto. E poi la questione della giustizia non è esattamente l’ultima in ordine di importanza; anzi è lecito opinare che, tra i nodi strutturali che avviluppano il sistema Italia e affliggono la nazione, lo squilibrio dei poteri occupi un posto centrale. Sulla giustizia penale basta osservare che la libertà di ogni italiano è appesa a un filo molto sottile, che si può spezzare in ogni istante, ben prima di una sentenza di condanna, in virtù di opinabilissimi giudizi prognostici, riguardanti ipotetici pericoli di “reiterazione del reato” (seppure il “reato” non sia stato ancora accertato), di “fuga” o “inquinamento delle prove”. L’opinabile discernimento del Giudice può risultare favorevole, per esempio, a colui che abbia ucciso la moglie e sia stato colto in flagranza di reato, non essendo in circolazione alcuna altra moglie da uccidere e non essendo possibile “inquinare le prove”; mentre può risultare sfavorevole all’imprenditore, al quale deve essere inibito l’esercizio dell’impresa, giacché si suppone, benché non sia stato ancora accertato, che abbia commesso reato nell’esercizio della sua attività imprenditoriale. Se poi, all’opinabilità dei criteri prognostici, si aggiunge la variabile “politica” - dal momento che certe indagini sembrano dirette a cercare le prove del fatto ignoto, attribuito al colpevole predestinato (basta pensare alle centinaia di fascicoli giudiziari aperti nei confronti del “reo” Silvio Berlusconi), piuttosto che a cercare l’ignoto autore del fatto noto - risulta chiaro quanto sia precaria la libertà di ogni cittadino italiano e particolarmente precaria quella di chi non intende arruolarsi nel partito dei “manettari”. Sulla giustizia civile si può osservare che il bene più prezioso, dal quale dipende lo sviluppo economico-sociale della nazione, è ravvisato, nel mondo anglosassone, nel cosiddetto “rule of law”, corrispondente pressappoco a ciò che noi chiamiamo “certezza del diritto”. Lo scambio di beni e servizi è il motore dello sviluppo ed è anche, per certi versi, l’espressione della più autentica socialità alla base della convivenza umana. Ogni scambio è economico e giuridico, al contempo, poiché non si trasferisce solo la cosa, che ha valore economico, ma anche il diritto sulla cosa. Ovviamente, se il diritto è incerto, lo scambio si paralizza. E se la controversia sul diritto dura 10 anni, lo scambio rimane paralizzato per 10 anni, fin quando il diritto sulla cosa non potrà essere trasferito dal dante causa all’avente causa. Ciò spiega bene la paralisi degli investimenti in Italia, dove le controversie giudiziarie durano mediamente 10 anni. Un discorso analogo si può fare sulla giustizia ammnistrativa, ammalata non meno grave delle cugine, penale e civile. L’uomo della strada sa benissimo quanto sia economicamente e umanamente pesante l’oppressione della burocrazia e quanti ostacoli e ritardi burocratici si frappongano al libero esercizio del suo diritto di fare impresa; ma non sa che i cani da guardia di questa burocrazia, opprimente e asfissiante, si chiamano “Tar” e “Consiglio di Stato”. Ignora che metà del mondo occidentale può fare tranquillamente a meno di queste “insostituibili” istituzioni, chiamate Tar e Consiglio di Stato; e anzi lo sviluppo economico-sociale di quei Paesi trae grande giovamento dalla loro assenza. Come Candido, è convinto di vivere nel migliore dei mondi possibili, sotto l’ala protettrice della Costituzione “più bella del mondo”, la quale gli conferisce tutti i possibili diritti individuali, da far valere nei confronti di chicchessia e in primo luogo nei confronti della burocrazia pubblica. Non sa il poveretto che non può vantare diritti, ma solo “interessi legittimi” nei confronti del “Leviatano”, e solo l’autorizzazione amministrativa, in guisa di “concessione del Re”, gli conferisce il vero diritto di fare impresa. In attesa di tale autorizzazione, deve rimanere a braccia conserte e nessuno pagherà il risarcimento dei danni, cagionati dai ritardi e dagli ostacoli, che avrà ingiustamente patito. Va da sé che, in questo quadro, gli investimenti sono scoraggiati, mentre il tempo perduto impoverisce l’intera società e non soltanto l’imprenditore in paziente attesa. Questi brevi cenni mi paiono sufficienti per significare la centralità della questione giustizia, nella vita di ognuno di noi e della polis, nel suo complesso. È chiaro, infatti, che l’esorbitante potere di quel ramo della Magistratura, che dirige le indagini ed esercita l’azione penale, altera l’equilibrio dei poteri dello Stato, giacché influenza e condiziona la dinamica politica. Se il “sistema Palamara” non è un’invenzione, alcune sconcertanti vicende “giudiziarie” dei nostri tempi non possono che leggersi come un’”invasione di campo”, non più tollerabile. Che ben vengano dunque i referendum popolari: sulla responsabilità civile dei magistrati, perché non sia più precluso al cittadino di chiedere il risarcimento direttamente al magistrato che abbia cagionato il danno; sulla separazione delle carriere, per eliminare le “porte girevoli”, in modo che il magistrato, una volta scelta inizialmente la carriera del giudicante o dell’inquirente/requirente, non possa più transitare nell’altra; sulla custodia cautelare, in modo che la carcerazione preventiva sia limitata ai soli reati gravi e, in tutti gli altri casi, la pena riacquisti la sua essenziale funzione sanzionatoria e perciò sia susseguente, non precedente, alla sentenza di condanna; sulla legge Severino, affinché la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici non sia irrogata in modo automatico; sulla raccolta delle firme per le liste dei magistrati, in modo che i candidati al Csm non abbiano l’obbligo di iscriversi a una delle correnti e possano presentare la propria candidatura, senza vincoli di sorta; sui Consigli giudiziari, affinché gli avvocati e i docenti universitari possano esercitare il diritto di voto sulla valutazione professionale dei magistrati. La decisione del popolo sovrano non sarà la panacea di tutti i mali, ma potrà senz’altro innescare un circolo virtuoso e creare le condizioni politiche, affinché non siano ulteriormente tollerate le “invasioni di campo”, sia consentito il sereno esercizio della funzione di indirizzo politico, nel quadro della corretta divisione dei poteri dello “Stato di diritto”, sia ripristinata la “certezza del diritto” e il cittadino abbia la garanzia di una Giustizia efficiente e super partes. È un bene che l’intero centrodestra, come pare, abbia consapevolezza dell’urgenza e rilevanza della questione. Il giudice controcorrente: penalità ai pm che fanno flop di Errico Novi Il Dubbio, 9 giugno 2021 Clamorosa apertura del magistrato Guido Salvini alle ipotesi di riforma più coraggiose: “Giuste le pagelle per noi toghe. Vincolo di sobrietà sulle indagini”. Salvini è intervenuto due sere fa a un dibattito sulla crisi della magistratura organizzato dalla Camera penale di Milano e ha detto cose molto interessanti. Anche dal punto di vista di Enrico Letta. Un esempio? “Sono molto importanti”, a suo giudizio, le proposte del Pd su “pagelle” per i magistrati e “sobrietà” dei pm. Nel primo caso “si tratta finalmente di valutare per i pm e i giudici, nelle promozioni o nelle nomine, la loro percentuale di successi e insuccessi. Gli insuccessi qualche volta portano a delle promozioni”, è il paradosso evocato dal gip, “qualcosa del genere è successo anche a Milano in un caso”. È vero, il Pd ha inserito fra i propri emendamenti al ddl sul Csm il nesso fra valutazioni dei magistrati ed esiti processuali delle richieste e ordinanze di rinvio a giudizio. Sono meccanismi condivisi anche dai partiti del cosiddetto fronte garantista e da gran parte dell’avvocatura. A Milano il giudice Guido Salvini ha aggiunto di trovare positiva anche la proposta sul vincolo di sobrietà nella proiezione mediatica delle indagini: “È assolutamente inammissibile che magistrati, soprattutto delle procure, intervengano in trasmissioni televisive per sostenere le proprie indagini. L’utilizzo massiccio dei mezzi di comunicazione interferisce fortemente, e sempre in un senso, nei confronti dei testimoni, dei giudici e dell’opinione pubblica”, ha scandito con lucida verità il magistrato milanese. Pensate: un gip, che per funzione si trova spesso a dover convivere con la ridondanza mediatica delle inchieste, plaude ai partiti che, come il Pd, vogliono introdurre l’obbligo per i pm a una “comunicazione sobria”. È proprio vero: siamo in presenza di un allineamento astrale irripetibile. In realtà, come detto, Salvini è un giudice illuminato e acutissimo nelle proposte. Lo attestano altri passaggi del suo intervento al dibattito dei penalisti. Come il consenso all’ipotesi di una “corte di giustizia” che sottragga al Csm “la funzione disciplinare”. Colpisce la sintonia del giudice con posizioni che sembravano esclusivo appannaggio dell’avvocatura. Sulla separazione delle carriere ad esempio, il magistrato coglie il vero nocciolo della questione: prima ancora della osmosi fra i percorsi da giudicante e requirente, spiega, va limitata l’egemonia politica dei pm nell’autogoverno: “Io proporrei che il Csm fosse diviso in due: uno dei giudicanti e uno dei requirenti, così si impedirebbe l’assoluta prevalenza delle procure nel governo dell’intera magistratura”. È incredibile: sembra di ascoltare un leader delle Camere penali. E qui non è solo la convergenza di un magistrato con gli avvocati a stupire, ma anche l’originalità del discorso: “Oggi il Csm è parte importante della governance del Paese: i suoi interventi, e quelli dei procuratori che ne sono la parte predominante, possono incidere sugli equilibri politici dei governi Pensiamo all’avviso di garanzia a Mastella che ha fatto cadere il governo Prodi, poi Mastella è stato assolto”. A proposito di vicinanza alle idee del mondo forense, non si può tacere un altro passaggio in cui il giudice milanese avanza una proposta sull’accesso in magistratura per figure provenienti dall’avvocatura: di fronte alla carenza degli organici e ai rallentamenti nei processi, Salvini ipotizza “concorsi per avvocati con un’anzianità di servizio di 8-10 anni, che siano assolutamente specchiati e che possono diventare magistrati: un’iniezione che potrebbe fare molto bene”. Non è solo un’attestazione di stima per la professione forense, è anche il riconoscimento di un ruolo organico dell’avvocatura nella giurisdizione. Di un coprotagonismo del Foro di cui hanno parlato spesso altre figure di rilievo dell’ordine giudiziario come Gianni Canzio. È una sinergia fra giudici e professione forense che secondo il Cnf dovrebbe trovare corrispondenza nella riforma dell’avvocato in Costituzione. L’allineamento di pianeti di cui ha parlato ieri Letta a Cartabia è, certo, anche un modo allusivo per contestare la scelta eterodossa dell’altro Salvini, il leader leghista, sui referendum: “È il Parlamento ad avere la responsabilità di fare tutto ciò che non si è riusciti a fare negli ultimi dieci anni”, ha detto il segretario del Pd nell’incontro con la ministra, “oggi la riforma è possibile e serve il massimo sforzo di tutte le forze politiche per cogliere questa opportunità”. Tutto vero. Ma la coincidenza favorevole sembra riguardare la stessa magistratura, disponibile, almeno nei suoi settori più avanzati, a non sottrarsi al cambiamento. Così la giustizia complica la vita agli amministratori di Ermes Antonucci Il Foglio, 9 giugno 2021 “Non è possibile che un sindaco sia chiamato a rispondere di tutto ciò che accade all’interno dei confini del suo comune. Si rischia di spazzare via un’intera classe dirigente. Si rischia che nessuno voglia fare più il sindaco”. Intervistata dal Foglio, non nasconde lo sconforto Stefania Bonaldi, sindaca di Crema, raggiunta da un avviso di garanzia per un incidente avvenuto in un asilo comunale della città lo scorso ottobre, quando un bambino si schiacciò due dita infilando una mano nel cardine di una porta tagliafuoco che si era chiusa automaticamente. Il bambino non ha subito lesioni permanenti ed è tornato a frequentare l’asilo poco tempo dopo. La sindaca, però, ora si ritrova indagata dalla procura di Cremona per violazione di una delibera regionale che riguarda gli asili nido e impone “l’installazione di dispositivi idonei a evitare la chiusura automatica delle porte tagliafuoco”. Una vicenda paradossale, emblematica della condizione angosciante vissuta ogni giorno da migliaia di sindaci e amministratori locali sparsi per il paese, destinatari di continui avvisi di garanzia da parte di una magistratura iperattiva (e sostenuta dal circo mediatico). “La mia vicenda, visto che non ha contorni drammatici, perché il bimbo non ha riportato lesioni permanenti, consente di avviare una riflessione ampia e serena attorno a tema della responsabilità dei sindaci”, dichiara Bonaldi. “Esiste una netta distinzione tra gli atti di tipo gestionale, in capo ai dirigenti o ai responsabili di servizio, e gli atti di indirizzo politico-amministrativo, che sono appannaggio degli organi politici, come il sindaco, la giunta e il consiglio. Sempre più spesso, però, le responsabilità di atti gestionali vengono allocate ai sindaci. Evidentemente c’è qualcosa che non va”. Per comprendere il paradosso, spiega la sindaca Bonaldi, è sufficiente ragionare all’inverso: “Laddove io dessi indicazioni operative al mio comandante della polizia locale o al mio dirigente dell’ufficio tecnico rischierei di essere accusata di abuso d’ufficio, perché sono ambiti di loro competenza. Quando non intervengo, però, le responsabilità di ordine tecnico vengono comunque attribuite a me”. Seguono gli avvisi di garanzia, presentati dai pm come “atti dovuti” e spesso scambiati dall’opinione pubblica per condanne anticipate. “Dal punto di vista giuridico, l’avviso di garanzia costituisce un avviso a tutela dell’indagato e del suo diritto di difesa. Rispetto al principio, però, conosciamo bene la portata mediatica di queste notizie”, afferma la sindaca di Crema. L’incredibile iniziativa giudiziaria nei confronti di Bonaldi ha generato la rivolta dei sindaci in tutta Italia. “Insieme a Stefania siamo tutti indagati, se lo Stato non cambia regole ci costituiremo parte civile”, ha commentato Antonio Decaro, sindaco di Bari e presidente dell’Anci, aggiungendo: “Lo Stato deve metterci nelle condizioni di fare il nostro lavoro serenamente. Non chiediamo l’immunità o l’impunità, chiediamo solo di liberare i sindaci da responsabilità non proprie. Così non è più possibile andare avanti”. “La solidarietà mostrata dai colleghi mi ha commosso - confida Bonaldi - e allo stesso tempo mi ha confermato che siamo di fronte a un tema di grande attualità, sulla quale occorre pretendere maggiore chiarezza. Ne va della tenuta di una classe dirigente. Con questa spada di Damocle si rischia che nessuno voglia fare più il sindaco. Alla fine una persona rispettabile, con un lavoro e con una reputazione, si chiede: ‘Ma chi me lo fa fare?’”. Il formidabile schiaffo dei sindaci di sinistra alla giustizia impazzita di Claudio Cerasa Il Foglio, 9 giugno 2021 “Siamo tutti indagati”. Sui giornali di oggi troverà probabilmente molto spazio la notizia arrivata ieri dalla Francia relativa allo schiaffo rifilato a Emmanuel Macron da un anarchico incrociato dal presidente francese durante un viaggio nel dipartimento della Drôme, all’uscita dalla scuola alberghiera di Tain-l’Hermitage. Simbolicamente, quello schiaffo è clamoroso, ma non è più clamoroso di un altro schiaffo, politicamente più rilevante, che è andato in scena ieri in Italia e che meriterebbe di far rumore ben più di un buffetto al presidente francese. Lo schiaffo di cui stiamo parlando è quello trasversale che hanno mollato ieri all’unisono alcuni tra i principali primi cittadini italiani, che in modo tanto coordinato quanto inaspettato hanno colto al volo un assist arrivato da Crema per urlare tutta la propria indignazione contro la giustizia ingiusta, contro la magistratura impazzita, contro la trasformazione degli amministratori locali in furfanti fino a prova contraria. L’assist arrivato da Crema coincide con una notizia incredibile che è quella che avrete probabilmente già letto. Ieri mattina, il sindaco di Crema, Stefania Bonaldi, del Pd, ha annunciato sul suo profilo Facebook di avere ricevuto un avviso di garanzia in relazione all’infortunio di un bimbo che si era chiuso due dita in una porta tagliafuoco dell’asilo nido comunale. E come reazione all’indagine, il sindaco ha posto ai suoi colleghi una domanda: non pensate anche voi che sia il caso di porre l’attenzione “su un sistema che, a livello nazionale, forse necessita di interventi e correttivi che aumentino le tutele giuridiche a favore dei sindaci?”. In un’altra stagione politica, la storia dell’indagine al sindaco del Pd sarebbe stata probabilmente o nascosta dal Pd (meglio evitare rogne) o usata dai nemici del Pd per dimostrare l’inaffidabilità del Pd (meglio non perdere l’occasione). La particolarità della giornata di ieri è stata invece l’accumularsi, ora dopo ora, di messaggi di solidarietà rivolti alla prima cittadina di Crema da parte di alcuni tra i più importanti sindaci d’Italia, che probabilmente non attendevano altro che una scusa buona per denunciare ad alta voce quello che fino a ieri avevano denunciato solo a voce bassa. Siamo tutti indagati, hanno detto diversi sindaci, e le loro reazioni ci portano a riflettere sull’unicità di questa fase politica, in cui il garantismo sembra essere misteriosamente e sorprendentemente diventato per una volta mainstream. Il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, del Pd, si è chiesto “se sia possibile andare avanti così”. Il sindaco di Milano, Beppe Sala, ha affermato che su questi temi, da parte dei sindaci, “il livello di esasperazione è altissimo”. Il sindaco di Pesaro, Matteo Ricci, del Pd, ha parlato di “pazzie” e ha ricordato che non sia necessario sorprendersi se poi, in Italia, “scarseggino i candidati a sindaco”. Il segretario lombardo del Pd, Vinicio Peluffo, ha invitato a “fermare questa deriva”, che ha portato “a un cortocircuito assurdo nel rapporto tra enti dello stato”. Il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, ex grillino ora emancipato, ha espresso anche lui solidarietà al sindaco di Crema, ricordando che “così è davvero difficile amministrare”. Virginia Raggi, sindaco di Roma, pezzo da novanta di un movimento che in passato ha spesso e volentieri usato le indagini a carico dei sindaci avversari per delegittimare l’operato dei sindaci avversari, ieri, testimoniando la progressiva trasformazione del M5s da Movimento 5 stelle a Movimento 5 scuse, ha espresso “solidarietà” al sindaco di Crema e ha chiesto “più chiarezza sulle responsabilità dei sindaci per evitare il blocco delle azioni amministrative”. Il sindaco di Bari, Antonio Decaro, presidente dell’Anci, è arrivato a dire che “insieme con Stefania siamo tutti indagati” e che “se lo stato non cambierà regole noi ci costituiremo parte civile”. E poi ha aggiunto una considerazione dirompente: “Ogni volta che un sindaco firma un atto rischia di commettere un abuso d’ufficio. Se non firma, rischia l’omissione di atti d’ufficio. Così non si può andare avanti”. La storia della formidabile rivolta dei sindaci contro la malagiustizia è istruttiva almeno per tre ragioni. In primo luogo, è significativo che un fronte imponente di amministratori locali del centrosinistra individui come un problema centrale per il buon funzionamento del paese la presenza di una giustizia impazzita, specializzata cioè (a) nell’usare in modo discrezionale l’arma dell’obbligatorietà dell’azione penale e (b) nel trasformare con disinvoltura i politici in banditi fino a prova contraria. In secondo luogo, è interessante notare come un fronte imponente di amministratori locali del centrosinistra sia sceso in campo per demolire un vecchio e ridicolo dogma, in base al quale l’avviso di garanzia sarebbe, come si dice, un atto a tutela dell’indagato e non invece, come di fatto è, una lettera scarlatta, utile il più delle volte non a tutelare i diritti dell’indagato ma a macchiare a vita la sua reputazione. In terzo luogo, è interessante notare come la politica, anche quella un tempo più ostaggio delle fesserie giustizialiste, abbia capito che uno dei guai dell’Italia, e anche dei comuni, è quello di avere avuto per molto tempo un fronte trasversale specializzato nel regalare alla magistratura tipologie di reato spesso inafferrabili, come l’abuso d’ufficio, in grado cioè di offrire con molta frequenza ai pm la possibilità di trasformare in indagini infinite alcuni sospetti basati sul nulla. L’energia mostrata ieri dai sindaci contro le pazzie della giustizia ingiusta è un buon segnale per la politica, che può diventare qualcosa in più di un semplice atto di dimostrazione simbolica se i sindaci avranno il coraggio nei prossimi anni di essere non i semplici testimoni di un problema ma i cani da guardia della più importante riforma che la politica dovrà necessariamente portare avanti: contro lo strapotere delle procure, contro la discrezionalità dei pm, contro le lettere scarlatte, contro il populismo penale e contro la giustizia impazzita. Se non ora, cari sindaci, quando? Pronto il decreto di Draghi sulla cyber-sicurezza italiana di Liana Milella La Repubblica, 9 giugno 2021 Il nome è stato scelto e lo sentiremo pronunciare prima del previsto. Si chiama Agenzia per la cyber-sicurezza nazionale, acronimo: Acn, e già domani il decreto legge che la istituisce potrebbe finire sul tavolo del Consiglio dei ministri, sempre che il premier Draghi riesca a convocarlo prima di partire per il G7 in Cornovaglia. L’Agenzia, fino ad oggi tassello mancante della complessa architettura di difesa delle nostre reti e infrastrutture strategiche, ha in sé l’ambizione di far recuperare all’Italia il ritardo accumulato nell’ultimo decennio in un settore cruciale come quello della protezione cibernetica. La cui importanza continua a sfuggire a gran parte dell’opinione pubblica, ma è ben chiara ai governi dell’Alleanza Atlantica, preoccupati dall’aggressività di camaleontici gruppi di hacker legati ad apparati parastatali e paramilitari cinesi, russi, nordcoreani. I danni arrecati all’economia non sono virtuali, sono devastanti, come dimostra quanto accaduto il 7 maggio al Colonial Pipeline, il più grande oleodotto degli Stati Uniti: 8.800 chilometri di tubazioni tra Texas e New Jersey bloccati dai pirati digitali e da una richiesta di riscatto in bitcoin. Non a caso Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, in visita al Pentagono ha ribadito che la difesa dalle minacce informatiche “sempre più sofisticate” è e deve essere la priorità. Dunque, l’Agenzia nazionale. La bozza del decreto legge, a cui ha lavorato Franco Gabrielli, ex capo della Polizia adesso Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, è articolata e molto tecnica: definisce gli obiettivi, la struttura e il funzionamento dell’Acn e, contemporaneamente, riscrive la governance della cyber-security in Italia. Il testo è già stato mandato al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), in nome di un impegno preso da Gabrielli a condividere il dl con gli onorevoli. Segnando così, una volta di più, la discontinuità col metodo del governo Conte II. A dicembre, infatti, l’allora premier ha provato a forzare la mano, inserendo la norma che faceva nascere un Istituto italiano di Cyber-sicurezza (molto diverso, nella concezione, dall’Agenzia) nella legge di Bilancio, senza dire niente a nessuno e spiazzando l’intera maggioranza. Il blitz, ideato col suo braccio destro al Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis), l’ex direttore Gennaro Vecchione, è fallito. Con la nomina di Gabrielli e con l’arrivo al Dis della nuova direttrice, Elisabetta Belloni, il piano per un organismo nazionale che funga da referente unico per Bruxelles e per la miriade di imprese e ricercatori impegnata nella sicurezza cibernetica, è rientrato sul binario della prassi istituzionale, si è definito e rilanciato. Come anticipato da Repubblica, l’Agenzia sarà pubblica, avrà un capo scelto dal governo e sarà incardinata nella Presidenza del Consiglio, sotto l’Autorità delegata. Ma a che cosa servirà? E perché è una buona notizia per tutti? Facciamo un passo indietro. Nel 2013 la Nato e l’Unione hanno preteso dall’Italia uno sforzo di aggiornamento del perimetro di difesa digitale, allora completamente inadeguato. Il governo Monti ha deciso di affidare al Dis il compito di mettere in piedi, nel più breve tempo possibile, una governance nazionale sulla sicurezza cibernetica. Spingendo però il Dis su un crinale estraneo dalla sua missione tipica, che è coordinare le due agenzie di intelligence, Aise e Aisi. Col governo Gentiloni, nel 2017, si è piantato il seme della futura Agenzia: al di là della risposta ai cyber-attacchi, infatti, era impellente potenziare la sicurezza dei sistemi, dei computer nei ministeri e nella pa, dei prodotti tecnologici connessi alla Rete, degli operatori dell’energia e delle telecomunicazioni. Un obiettivo raggiungibile solo mettendo in contatto le aziende con le Università, il mondo dell’accademia e i centri di ricerca. E solo dando a questo variegato universo indicazioni unitarie che evitino la dispersione delle risorse e convoglino gli sforzi su cosa effettivamente serve al Paese. Da qui l’esigenza di un’Agenzia nazionale pubblica. Che dialoghi col Dis ma che dal Dis non sia controllata o partecipata, a differenza di come la voleva Conte. Si evita così di esporre il Paese al rischio della sorveglianza di massa. La Giustizia va in ferie: ad agosto si fermano i sistemi digitali di Francesca Spasiano Il Dubbio, 9 giugno 2021 Dal 9 al 22 agosto sarà garantito soltanto un “presidio minimo” nei servizi essenziali. L’Usb Giustizia: “Decisione assurda”. Anche la giustizia va in vacanza. A chiudere i battenti sono i “sistemi informativi automatizzati” che andranno “in ferie” dal 9 al 22 agosto: per due settimane sarà garantito soltanto un “presidio minimo” nei servizi essenziali, cioè sui sistemi di rete e i server nazionali. La decisione viene direttamente dalla Dgsia (Direzione generale per i sistemi informativi automatizzati) del ministero della Giustizia, che con una nota ha informato l’Unione sindacale di base (Usb) per il pubblico impiego della sospensione. Il motivo? “La riduzione dell’attività lavorativa degli uffici ministeriali e giudiziari, nonché le chiusure aziendali”, si legge nel provvedimento. Ma per Giuseppa Todisco, segretaria dell’Usb Giustizia, si tratta dell’ennesimo “atto di forza” delle società private di cui si avvale il ministero nei confronti dei lavoratori della pubblica amministrazione. E anche di una vera e propria contraddizione rispetto alla tanto proclamata esigenza di velocizzare la Giustizia. “È inutile sottolineare l’assurdità di questa decisione in un momento in cui l’Unione Europea rimarca la necessità di ridurre i tempi della Giustizia, condizione essenziale, tra l’altro, per ricevere i Fondi del Recovery Plan”, scrive il sindacato in un comunicato. Ma “ancora più grave - si legge - è rilevare che la chiusura estiva di queste società private imponga un fermo delle attività di questa articolazione pubblica snaturando completamente la funzione di questa direzione e svilendo il personale che in essa vi opera. In sostanza la massiccia privatizzazione dell’informatica nel Ministero della Giustizia ha prodotto che la direzione informatica e le sue articolazioni territoriali si debbano piegare ai diktat delle imprese private contrariamente a quanto dovrebbe avvenire”. Le articolazioni a cui si fa riferimento sono gli Uffici dirigenziali di coordinamento territoriale denominati Cisia (Coordinamenti Interdistrettuali per i Sistemi Informativi Automatizzati), di cui la Dgsia ha disposto la chiusura ad agosto unitamente a quella degli “Uffici della Direzione Generale e dei Presidi”. Mentre la Dgsia si occupa sostanzialmente della digitalizzazione dell’amministrazione della Giustizia, gli uffici Cisia hanno funzione di supporto, con il compito di garantire presso le articolazioni territoriali il funzionamento dei sistemi informatici, telematici e di telecomunicazione, e di “coordinare il personale tecnico-informatico dell’amministrazione e dei fornitori”. La loro chiusura ha più di un risvolto negativo, sottolinea l’Usb. Il primo riguarda certamente il personale amministrativo, che sarà messo in ferie forzate, e al rientro sarà costretto a turni massacranti per recuperare l’attività informatica arretrata. “Ma il punto focale di questa faccenda” è un altro, spiega Todisco al Dubbio, dipingendo un quadro alquanto drammatico delle infrastrutture digitali. “La Dgsia sembra andare controcorrente e invece che approfittare della riduzione delle attività giudiziarie per un intervento massiccio di aggiornamento e/o manutenzione straordinaria dei sistemi, decide di chiudere i battenti”, scrive il sindacato. Sistemi che “che fanno acqua da tutte le parti”, sottolinea Todisco. Caso emblematico è quello del portale telematico del processo penale, il cui malfunzionamento, più volte denunciato dall’Ucpi, mette a rischio l’esercizio del diritto di difesa. “Abbiamo investito cifre enormi nella digitalizzazione - conclude Todisco - un miliardo e 100 milioni dal 2014 a oggi, per arrivare all’anno zero. Perché praticamente siamo all’anno zero: la giustizia penale telematicamente è ancora tutta da costruire, la giustizia civile più o meno funziona. Finché i server reggono…capita infatti che non reggano, e per giorni non possiamo lavorare. Ecco la situazione della giustizia…”. Csm, il sistema Amara anche sull’Ilva. “Un pm amico per fermare le indagini” di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci La Repubblica, 9 giugno 2021 Arrestato l’avvocato già al centro dell’inchiesta sulla loggia Ungheria: è accusato di aver corrotto l’ex procuratore di Taranto, Capristo, dopo pressioni sul Csm per nominarlo. Obiettivo: manovrare il processo sull’inquinamento. La storia è quella a cui, da qualche tempo, ci si è quasi abituati: “Giustizia svenduta”, per citare le parole del gip di Potenza, Antonello Amodei, da magistrati infedeli. E acquistata da affaristi, interessati a fare soldi. Nel ruolo dell’acquirente, insegna la cronaca degli ultimi anni, si trova spesso l’avvocato Piero Amara, legale siciliano condannato per corruzione in atti giudiziari, cuore dell’inchiesta di Perugia (e prima di Milano e in parte di Roma) sulla fantomatica loggia Ungheria, e da ieri in carcere su ordine del tribunale di Potenza: per il procuratore Francesco Curcio ha corrotto pm e pubblici ufficiali per far ottenere favori processuali ai suoi clienti. Che lo pagavano lautamente: la Guardia di Finanza ha individuato investimenti finanziari riconducibili ad Amara per non meno di due milioni di euro. Questa volta, però, la storia è, se possibile, persino peggiore, per due motivi almeno: perché a essere “svenduta” era stata anche la funzione del Consiglio superiore della magistratura. E perché oggetto della “compravendita” era stato uno dei processi più delicati della storia del Paese, quello sull’inquinamento dell’Ilva di Taranto. Se un giudice terzo non avesse impedito ad Amara di compiere il suo progetto, con la complicità di due pezzi dello Stato (la magistratura, ma anche Ilva in amministrazione straordinaria per cui Amara lavorava) non si sarebbe mai arrivati alle condanne per 400 anni, pronunciate dal tribunale di Taranto. Mai si sarebbe saputa la verità sulla morte di due operai: Alessandro Morricella e Giacomo Campo. I fatti: Amara è accusato di aver brigato, e aver messo a disposizione la sua rete di conoscenze, per far nominare un magistrato a lui amico, Carlo Maria Capristo (per lui ora c’è l’obbligo di dimora), come procuratore capo di Taranto. Per farlo si sarebbe affidato a un poliziotto “particolare”, dalle grandissime relazioni. Filippo Paradiso, anche lui in carcere. Insieme avrebbero mosso membri del Csm, politica, imprenditori, riuscendo nell’operazione. “Amara si muoveva - scrive il gip - in molteplici direzioni istituzionali di altissimo livello, in modo tentacolare, attraverso scambi di favori che minano alla radice i principi su cui si fonda la società democratica e civile, nonché lo Stato di diritto”. Ma perché per Amara era così importante mandare Capristo a Taranto? Perché - arriviamo al secondo motivo - Amara era diventato consulente dell’amministrazione straordinaria di Ilva. A introdurlo era stato un altro consulente, Nicola Nicoletti. “Sin dalle prime fasi dell’insediamento a Taranto - ricostruisce il procuratore Francesco Curcio - Capristo si rendeva promotore di un approccio dell’ufficio certamente più aperto dialogante e favorevole alle esigenze di Ilva”. Approccio che si concretizzava in tre circostanze: nonostante il parere contrario dei pm, Capristo chiuse un patteggiamento nell’ambito del processo “Ambiente Svenduto” per Ilva. Patteggiamento che poi fu bocciato dal giudice perché ritenuto troppo sbilanciato per l’azienda. Dopo l’incidente mortale avvenuto all’operaio Giacomo Campo, fu Amara a “suggerire a Capristo il nome del perito da nominare”. Fu Amara a sollecitare e ottenere, in meno di 48 ore, il dissequestro dell’altoformo. Stessa operazione fatta in caso della morte di un altro operaio, Alessandro Morricella. Quando un altro operaio fu costretto a “confessare la sua esclusiva responsabilità per escludere qualsivoglia coinvolgimento dell’azienda”. “Un sistema di potere - scrive ancora Curcio - in cui il contesto giudiziario, lungi dall’essere sede di tutela dei diritti, rappresenta un palcoscenico in cui i protagonisti agiscono in vista di vantaggi individuali”. Il tutto, chiaramente, aveva un costo. L’amministrazione straordinaria di Ilva concesse “incarichi per centinaia di migliaia di euro” a un avvocato del foro di Trani, Giacomo Ragno, “amico di Capristo e legato a Paradiso”. Amara, dicono i magistrati, ha continuato a fare affari sino a qualche mese fa. Per evitare le indagini “aveva fidelizzato tutti i soggetti che avevano intensi rapporti con lui comunicando con il sistema dì cripto-messaggistica Wickr che, utilizzando algoritmi di crittografia militare, rende segrete le chat”. Non troppo, evidentemente. Mottarone, lo strano caso del fascicolo tolto alla Gip: è l’unico che è stato riassegnato di Federica Cravero La Repubblica, 9 giugno 2021 Il colpo di scena è una delle tante anomalie sulla vicenda che ha travolto il tribunale di Verbania. Sarà anche frutto di un automatismo e di un ritorno al “giudice naturale”, come si sono affrettati a dire negli uffici giudiziari, ma è un dato di fatto che il fascicolo sul Mottarone è l’unico riassegnato alla gip Elena Ceriotti dopo il suo rientro, esonerando la collega Donatella Banci Buonamici che aveva fatto da “supplente”. Per un numero consistente di altri casi infatti non è stato preso lo stesso provvedimento e sono rimasti sulla scrivania dei giudici che li avevano trattati in questi quattro mesi, quando Ceriotti era fuori servizio. Dunque il documento con cui il presidente del tribunale di Verbania, Luigi Montefusco, spiega perché ha tolto dal caso la giudice che ha scarcerato i tre indagati è un provvedimento ad hoc che ha sollevato le ire degli avvocati che già il primo giorno parlavano dell’anomalia di “cambiare arbitro a partita iniziata: non si è mai visto”. Il retroscena è uno dei passaggi che la Camera penale di Verbania indica tra le motivazioni che hanno spinto gli avvocati a un giorno di astensione, il prossimo 22 giugno. Ma nel documento si parla anche di influenze di alte cariche della magistratura. La vicenda in ogni caso non finisce qui poiché il documento passerà alla valutazione del consiglio giudiziario di Torino e la giudice Banci Buonamici avrà la possibilità di fare delle deduzioni. Poi, dopo il parere del consiglio, la vicenda sarà trattata dal Csm. Si fa fatica a capire anche perché il presidente del tribunale abbia sollevato la gip dal caso dopo che lui stesso aveva approvato che se ne occupasse e perché abbia scritto il documento il giorno dopo averla invece appoggiata quando aveva ricevuto delle minacce per il suo operato. Certo è che la vicenda ha creato scalpore ed è stata uno dei momenti più accesi di una dialettica già infuocata tra anime della magistratura sul caso della funivia che va avanti da giorni. Ieri sembrava il giorno in cui tirare le fila, invece la situazione si è ulteriormente complicata. La giornata era iniziata con l’attesa di un sopralluogo a Stresa. Sul Mottarone erano arrivate squadre di vigili del fuoco, protezione civile, elicotteristi, soccorso alpino, carabinieri, tutti attorno al consulente della procura, l’ingegnere Giorgio Chiandussi, che guardavano da destra e da sinistra la carcassa della cabina numero tre, accartocciata contro gli alberi da più di due settimane, per capire come rimuoverla - probabilmente con l’elicottero - senza danneggiare pezzi utili alle indagini. Nel frattempo la giudice Donatella Banci Buonamici era impegnata a rispondere alla richiesta dell’avvocato Marcello Perillo che domandava di fare al più presto un incidente probatorio, con un perito super partes nominato dal tribunale, per capire quali fossero le cause dell’incidente, dal perché la fune si è rotta alle anomalie ai freni che avevano indotto il caposervizio a far viaggiare la cabina con il freno disinserito, cosa che poi ha provocato lo schianto della vettura e la morte di 14 persone. Una richiesta fatta con urgenza, prima che le intemperie (e l’improvviso e violento temporale di ieri è stato un monito) alterino la scena. Forse la gip aveva già persino finito di scrivere quella risposta. E comunque sicuramente ci aveva lavorato a lungo, analizzando anche punto per punto le deduzioni della procura che chiedevano più tempo per identificare tutti i potenziali responsabili (oltre ai tre indagati che ci sono ora) trattandosi di accertamenti irripetibili. E tutti erano lì incuriositi a pensare se stavolta la gip avrebbe accolto l’opposizione delle pm Olimpia Bossi e Laura Carrera o se (come si mormora nei corridoi) avesse di nuovo dato loro contro, dopo aver smontato pezzo per pezzo e respinto dieci giorni fa la loro richiesta di tenere in carcere i tre indagati: il gestore della funivia Luigi Nerini, il direttore d’esercizio Errico Perocchio e il caposervizio Gabriele Tadino. Invece il colpo di scena è arrivato nel primo pomeriggio quando, al posto dell’atteso responso, è arrivata la comunicazione che il presidente del tribunale sollevava la giudice Banci Buonamici dall’incarico assegnando il caso a un’altra gip. Stupore per gli avvocati. Stupore più grande per la gip Banci Buonamici, visto che in questi mesi aveva sostituito la collega assente altre volte ma non era stata esonerata dagli altri casi. E un’attesa che si è allungata di altri due giorni almeno per dare il tempo alla nuova gip di prendere in mano il fascicolo. Inoltre anche oggi, mentre la nuova gip Elena Ceriotti sarà al lavoro per pronunciarsi sull’incidente probatorio, la procuratrice capo e la sostituta sono impegnate nel deposito del ricorso al Riesame contro la decisione di scarcere Nerini e Perocchio e di mettere ai domiciliari Tadini. Ancora attesa. Sopratutto mentre sono tutti a discutere delle regole, il gioco è fermo: in questi giorni gli investigatori si sono impegnati soprattutto sul ruolo dei tre indagati, sentendo più volte gli stessi dipendenti. Un aspetto importante ma che non fa fare molti passi avanti nella ricerca della verità. E d’altra parte non si può neanche andare avanti sulle cause dell’incidente, visto che qualunque accertamento, anche solo esaminare la scatola nera, è un accertamento da fare alla presenza dei consulenti delle parti. Una situazione di stallo che la decisione della - nuova gip - potrà sbloccare. Lo scontro tra magistrati invade l’indagine sulla funivia di Stresa di Giulia Merlo Il Domani, 9 giugno 2021 Il presidente del tribunale di Verbania ha sostituito la gip che aveva scarcerato i tre indagati. Per “ragioni tabellari”, dice lui. Ma per gli avvocati è una scelta “anomala” che desta preoccupazione sulla terzietà del giudice. La storia processuale della tragedia di Stresa si complica ancora di più e rischia di venire soffocata da nuove tensioni: prima quelle create dal cortocircuito tra media e procura, ora lo scontro interno alla magistratura stessa. Il presidente del tribunale di Verbania, Luigi Montefusco, ha tolto il fascicolo a Donatella Banci Buonamici, la gip che aveva deciso per il rigetto della richiesta di convalida di fermo, presentata dalla procura per i tre indagati. Una revoca che è arrivata proprio nel momento in cui la gip stava per depositare la sua decisione sulla richiesta di incidente probatorio sulla cabina, chiesto dalle difese e a cui si è opposta la procura perché, se fatto subito, “pregiudicherebbe in modo irreversibile lo svolgimento delle attività di indagine”. Sulla carta, le motivazioni del cambio di gip sono di natura tecnica: Banci Buonamici era la gip supplente e ora il fascicolo è stato assegnato alla gip titolare, Elena Ceriotti, che è rientrata nel suo ruolo il 31 maggio facendo terminare la supplenza. Nelle motivazioni scritte dal presidente del tribunale, l’assegnazione a Banci Buonamici era “giustificata per la convalida del fermo”, ma “non è conforme alle regole di distribuzione degli affari e ai criteri di sostituzione dei giudici impediti disposti nelle tabelle di organizzazione”. Secondo il vertice del tribunale, dunque, la scelta è stata dettata da banali ragioni procedurali di distribuzione del lavoro interno perché il procedimento è stato riassegnato alla “titolare per tabella del ruolo”, sulla base di una “equa e coerente distribuzione del lavoro”. Nulla c’entrerebbe il duro scontro a colpi di dichiarazioni sui giornali dei giorni successivi alla scarcerazione dei tre indagati. La gip aveva detto che gli estremi per il fermo (che la pm aveva motivato anche con il “clamore mediatico”, pur avendo lei stessa reso molte dichiarazioni alla stampa) non c’erano e che “si dovrebbe essere felici di vivere in uno Stato in cui il sistema fa giustizia ed è una garanzia”. La pm Olimpia Bossi, annunciando la richiesta di riesame aveva ribattuto di essere convinta delle sue scelte d’indagine e aveva aggiunto che la decisione “sta nelle regole del nostro lavoro” e ma che “per un po’ il caffè che a volte bevevo con il giudice alla macchinetta, lo prenderò da sola nella mia stanza”. Un botta e risposta che, soprattutto nell’ultima parte riferita al pm, aveva inasprito ancora di più il dibattito e soprattutto infastidito gli avvocati per l’apparente rappresentazione di contiguità tra procura e tribunale. Scelta anomala - Eppure, il tempismo della decisione del presidente del tribunale di riassegnare il fascicolo stride. Questo particolare tipo di esonero, infatti, è del tutto eccezionale: normalmente, infatti, un gip viene sostituito da un procedimento su cui ha già iniziato a lavorare per ragioni di impedimenti personali oppure di incompatibilità. Non consueto, invece, è che questo avvenga per ragioni “tabellari”. La prassi, infatti, prevede che la competenza resti al primo gip che ha adottato un atto del procedimento. Secondo il presidente del tribunale, invece, questa regola non varrebbe nel caso di una gip supplente. Inoltre questa sostituzione in corsa potrebbe creare un problema: in piccoli tribunali con pochi magistrati come è Verbania, il rischio spesso è di creare incompatibilità tra i giudici che se sono stati gip nel procedimento non possono poi essere anche giudici dell’udienza preliminare. Con questa mossa, invece, il presidente del tribunale ha perso la possibilità di utilizzare uno dei suoi magistrati: Banci Buonamici non potrà più svolgere alcun ruolo nel processo. Ancora più stridente, infine, è che il presidente del tribunale pubblichi un comunicato per spiegare una scelta che viene considerata una semplice prassi burocratica, proseguendo sul filone di un procedimento che ha fatto della stampa il suo luogo privilegiato. Le polemiche con gli avvocati - La decisione ha inevitabilmente riacceso un faro non tanto sul merito dell’inchiesta, quanto ancora sulla gestione delle indagini preliminari da parte della procura e del tribunale. I primi ad attaccare sono gli avvocati, sia quelli degli indagati che la Camera penale. “È un provvedimento anomalo. Non è mai capitato che durante una partita venga cambiato l’arbitro”, ha commentato l’avvocato Pasquale Pantano, legale di uno degli indagati. Anche la Giunta dell’Unione camere penali italiane ha annunciato di aver attenzionato la situazione, “verificando natura e ragioni del clamoroso provvedimento” che “crea allarme nell’avvocatura per il contesto giudiziario nel quale esso è maturato”. I penalisti, dunque, si riservano l’adozione di “di ogni eventuale iniziativa”. La scelta è stata definita “singolare” anche dal presidente della Camera penale del Piemonte occidentale, Alberto de Sanctis: “È ancora più incredibile che questo avvenga d’urgenza così di fatto da impedire al gip originario di decidere su una richiesta di incidente probatorio formulata dalla difesa”. Il sospetto dei legali, infatti, è che la sostituzione in corsa del gip che ha dato ragione alle difese sulla scarcerazione sia servita a evitare un’altra decisione sfavorevole alla procura sul tema della concessione dell’incidente probatorio sulla cabina, su cui la gip sostituita stava per decidere e che ora sarà responsabilità della nuova giudice affrontare. Al netto della vicenda processuale - che tuttavia continua a complicarsi per ragioni che esulano dal merito della tragedia - la scelta del presidente del tribunale rischia di avere ulteriori echi mediatici sull’indagine. Un livello di scontro che esula dall’indagine vera e propria ma che rischia di influenzarla, instillando dubbi sulla terzietà del tribunale ma soprattutto minando la serenità della nuova gip. A lei ora spetta decidere sull’incidente probatorio: il ruolo le impone di decidere sulla base degli atti e nulla fa nemmeno ipotizzare che i criteri siano diversi. Tuttavia, una inattesa sostituzione in corsa di questo tipo e le tensioni che sta generando fanno presagire che il livello di scontro intorno alla gestione del fascicolo non si abbasserà, soprattutto nel caso in cui la gip decida in favore della procura di non concedere l’incidente probatorio. Violare il tempo doccia in carcere giustifica l’esclusione dalle attività comuni di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2021 La sanzione disciplinare è legittima se la condotta è connotata dalla spavalderia di affermarsi leader della comunità carceraria. Il detenuto, che si trattiene sotto la doccia 25 minuti - più di un quarto d’ora, oltre i dieci minuti previsti dall’organizzazione carceraria - e ignora apertamente i richiami dell’agente di custodia, può ben essere sanzionato disciplinarmente con dieci giorni di sospensione dalle attività comuni che si svolgono all’interno del carcere. E a maggior ragione se il mancato rispetto degli ordini e il tempo di attesa imposto agli altri detenuti mira ad affermare la propria posizione di leader nel luogo di detenzione. In via di principio, la legittimità della sanzione discende non solo dal rispetto di tutte le regole procedurali del giudizio disciplinare, ma anche e soprattutto da un compiuto e adeguato raffronto tra natura/gravità della contestazione e comportamento/condizioni del detenuto. Esame demandato o al direttore o al consiglio di disciplina. La sanzione è poi reclamabile fino in Cassazione. A fronte di un giudizio congruo e rispettoso delle garanzie difensive non è reclamabile la sanzione disciplinare solo perché fondata su rilievi diversi e non direttamente connessi tra loro. Infatti, come dice la sentenza n. 22381/2021 della Cassazione penale, non costituisce vizio di legittimità per intima incoerenza dei presupposti il fatto che - nel caso concreto - la contestazione fosse stata mossa sia per l’atteggiamento spavaldo mirato ad affermare una propria leadership all’interno della comunità carceraria sia per lo spreco di acqua. Due rilievi che - come afferma la Cassazione - non si escludono tra loro per incoerenza. Nessuna illegittimità quindi per la decisione disciplinare che ha contemporaneamente stigmatizzato la mancanza di rispetto proditoriamente agita contro chi condivide la medesima condizione di reclusione e il comportamento socialmente riprovevole di aver sprecato un bene comune, l’acqua. In concreto il ricorso voleva far rilevare l’incongruenza dei due rilievi disciplinari per affermare l’incompletezza della contestazione più grave: quella di aver voluto dimostrare apertamente all’interno del carcere il proprio ruolo di leader che non si piega alle regole penitenziarie. Con la conseguente induzione di un senso di timore e di rispetto “mafioso” negli altri carcerati e l’affermazione di una posizione personale di supremazia anche in rapporto all’istituzione penitenziaria. Ciò può ben avverarsi attraverso l’esibizione di un’esplicita mancanza di rispetto verso l’agente con atteggiamenti direttamente percepiti dai detenuti. L’accaduto vedeva gli altri detenuti, in attesa del proprio turno per farsi la doccia, assistere al menefreghismo del ricorrente a fronte dei richiami dell’agente di custodia iniziati dopo il superamento di 5 minuti dei dieci concessi per tale momento di igiene personale. Trattamento sanzionatorio in relazione al reato di diffamazione a mezzo internet di Fabrizio Ventimiglia e Giorgia Conconi Il Sole 24 Ore, 9 giugno 2021 Nota a sentenza: Cass. pen., Sez. V, 14 aprile 2021, n. 13993. Con la sentenza in commento la Cassazione torna ad occuparsi del reato di diffamazione a mezzo internet, precisando in merito al trattamento sanzionatorio che “l’irrogazione di una pena detentiva, ancorché sospesa, per il reato di diffamazione connesso ai mezzi di comunicazione, anche se non commesso nell’ambito dell’attività giornalistica, possa essere compatibile con la libertà di espressione garantita dall’art. 10 Cedu soltanto in circostanze eccezionali, qualora siano stati lesi gravemente altri diritti fondamentali, come, per esempio, in caso di discorsi di odio o di istigazione alla violenza”. Questa in sintesi la vicenda processuale - La Corte d’appello di Messina riformava la sentenza con cui il Tribunale di Patti aveva assolto l’autore del reato di diffamazione commesso mediante la pubblicazione di post denigratori su Facebook nei confronti del Vice sindaco di un comune, condannando lo stesso alla pena di quattro mesi di reclusione con il beneficio della sospensione condizionale della pena. L’imputato ricorreva, dunque, per cassazione, lamentando che la riforma della sentenza fosse stata pronunciata in assenza di una rinnovazione dell’istruttoria, che mancasse la motivazione rafforzata richiesta in caso di riforma della decisione di primo grado e che fossero stati, altresì, violati gli artt. 595 c.p. e 10 Cedu, avendo la Corte territoriale inflitto una pena detentiva, nonostante la Corte Edu sostenga con orientamento costante la sproporzione della pena della reclusione in relazione al delitto diffamazione, fatti salvi i casi di “discorsi d’odio” o incitamento alla violenza. Secondo la Corte di Cassazione i primi due motivi di ricorso risultano infondati, in quanto l’impugnata sentenza ha riformato la pronuncia di primo grado sulla base di una prova documentale non suscettibile di rinnovazione e poiché la Corte territoriale ha motivato la propria decisione, delineando correttamente le argomentazioni del proprio ragionamento probatorio contrario a quello alla base del provvedimento riformato. I Giudici di legittimità decidono, invece, di accogliere l’ultimo motivo di ricorso, allineandosi all’interpretazione dell’ordinanza n. 132 del 2020 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’incompatibilità degli artt. 595 co. 3 c.p. e 13 l. 47/1948 - che prevedono la possibile applicazione della pena detentiva in caso di diffamazione aggravata dall’uso della stampa o di un qualsiasi altro mezzo di pubblicità e dall’attribuzione di un fatto determinato - con gli artt. 117 cost. e 10 Cedu. Tale orientamento, infatti, in conformità con la Giurisprudenza della Corte di Strasburgo, sostiene che la pena detentiva possa essere ritenuta compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti, garantita dall’art. 10 Cedu, solo nei casi eccezionali in cui vengano gravemente lesi altri diritti fondamentali. Ebbene, con la sentenza in commento, anche la Cassazione, ha affermato che in ipotesi di condanna per diffamazione posta in essere tanto con il mezzo della stampa quanto con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, il ricorso alla pena detentiva debba essere limitato ai soli casi in cui l’accertamento compiuto dal Giudice di merito abbia fatto emergere una eccezionale gravità della condotta, consistente, nello specifico, nell’istigazione alla violenza o nella propalazione di “messaggi d’odio”. Toscana. Orti sociali, un avviso pubblico per progetti di formazione dei detenuti toscana-notizie.it, 9 giugno 2021 A disposizione 93.500 euro della Cassa Ammende. I progetti, di formazione interna ed esterna, dovranno riguardare gli istituti penitenziari di Livorno, Prato e Massa Marittima. Come manuale, la “Guida per una orticoltura pratica” di Centomila orti in Toscana. Nardini: “Occasione seria di riqualificazione professionale”. Avviso aperto fino al 2 luglio. Orticoltura e agricoltura sociale diventano occasione di formazione professionale per i detenuti negli istituti penitenziari di Livorno, Massa Marittima e Prato, con l’obiettivo di facilitare l’inserimento lavorativo al termine dell’esecuzione della condanna. È pronto l’avviso pubblico della Regione Toscana, che mette a disposizione 93.500 euro stanziati dalla Cassa delle Ammende, nell’ambito di una Convenzione firmata un anno e mezzo fa, per avviare percorsi di formazione interna ed esterna ai tre istituti toscani, dove sono in fase di attivazione spazi per la coltivazione di orti sociali. Un avviso che conserva anche un legame con i “Centomila orti in Toscana”, uno dei progetti regionali capaci di coinvolgere nel corso del tempo cittadine e cittadini, numerose amministrazioni locali e istituzioni presenti sul territorio regionale. La formazione dovrà infatti essere ispirata alle indicazioni e ai consigli della “Guida per una orticoltura pratica”, lo strumento di lavoro nato in seno al progetto e redatto dalla Regione con il sostegno della Accademia dei Georgofili per offrire un sostegno ai soggetti e agli enti locali che hanno avviato esperienze di orticoltura sociale. L’avviso resterà aperto da domani 9 giugno al 2 luglio prossimi. Saranno coinvolte complessivamente duecento persone in esecuzione penale per la formazione interna; quindici - cinque per ogni istituto - saranno quelle coinvolte nelle attività di formazione esterna. “Grazie alla Convenzione con la Cassa delle Ammende - dichiara l’assessora regionale alla formazione e al lavoro Alessandra Nardini - possiamo dare una seria occasione di riqualificazione professionale a persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria, valorizzando competenze già acquisite, da acquisire o da accrescere. Crediamo che sia una buona misura capace di offrire maggiori e diverse opportunità occupazionali. Mi fa piacere che abbia un legame con un bel progetto della Regione Toscana come i Centomila orti”. Per la realizzazione del progetto che si aggiudicherà l’avviso, sono a disposizione 93.500,00 euro, di cui 56.322 riservati alla formazione interna e i restanti 37.178 euro alla formazione esterna. Sono previsti inoltre 137.822 euro, che potranno essere stanziati dalla Regione Toscana in base alle disponibilità di bilancio e ai vincoli previsti dalla legislazione vigente, per sostenere ulteriori interventi di formazione interna ed esterna che intenderà realizzare il progetto che risulterà finanziato. La formazione interna si svilupperà in due distinti momenti. Il primo di tipo teorico e avrà come manuale la “Guida per una orticoltura pratica” del progetto Centomila orti in Toscana. Il secondo consisterà nella parte pratica che verrà svolta nelle strutture dell’orto all’interno degli istituti penitenziari. Il programma di formazione esterna prevedrà invece percorsi formativi finalizzati al conseguimento di un certificato di competenze, in riferimento unicamente a mansioni, conoscenze e capacità afferenti alle Figure Professionali del Repertorio Regionale delle Figure Professionali. L’eventuale seconda fase del progetto integrato, vincolata alle eventuali risorse aggiuntive, prevedrà percorsi di formazione obbligatoria - non finalizzati all’acquisizione di una specifica qualifica professionale - la cui frequenza e, in alcuni casi, anche il superamento di una prova finale, costituiscono uno dei requisiti per lo svolgimento di particolari attività lavorative inserite nel Repertorio Regionale della Formazione Regolamentata. Chi può partecipare all’avviso - I progetti possono essere presentati da partenariati composti da almeno un organismo formativo accreditato ai sensi della Dgr 1407/2016 e successive modifiche e integrazioni (o che si impegna ad accreditarsi entro la data di avvio delle attività), in qualità di capofila, e da un’impresa senza finalità formative, con una propria unità produttiva attiva nel territorio di almeno una delle province nelle quali si trovano gli istituti penitenziari e il cui ambito di operatività sia coerente con gli interventi richiesti dall’avviso. Ogni partenariato di progetto - per un massimo di sette soggetti attuatori - può essere integrato da organizzazioni di volontariato, associazioni di promozione sociale, associazioni di categoria, ulteriori organismi formativi accreditati e ulteriori imprese come sopra definite. Valutazione dei progetti - Nella valutazione dei progetti, verrà data priorità ai progetti impostati sull’impiego di metodologie formative personalizzate e individualizzate, finalizzate all’acquisizione di competenze teoriche e pratiche facilmente spendibili nel mondo del lavoro, oppure a progetti che prevedono la collaborazioni di enti o associazioni aventi con esperienza specifica o affine alla tipologia di utenza cui sono destinate le attività di formazione, oppure a progetti che presentano dichiarazioni di impegno all’assunzione da parte delle imprese. Le domande potranno essere presentate fino al 2 luglio 2021. L’avviso è disponibile on-line al seguente link: https://www.regione.toscana.it/por-fse-2014-2020/bandi. Per ulteriori informazioni è possibile scrivere all’indirizzo formazionestrategica@regione.toscana.it. Modena. “Morti in carcere, le autopsie mai eseguite” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 9 giugno 2021 I parenti di alcune vittime chiedono al giudice di non archiviare. “Poco prima di morire aveva subito un trauma contusivo al volto di non scarsa entità ma erroneamente non è stata compiuta l’autopsia sul cadavere”. “I detenuti erano arrivati in carcere ma non erano stati visitati: dormivano”. Sono alcune delle circostanze - non di poca importanza - messe nero su bianco nell’opposizione alla richiesta di archiviazione delle indagini relative ai decessi di nove detenuti, avvenuti l’8 marzo dello scorso anno nel corso della maxi rivolta al carcere Sant’Anna. Lunedì il gip Andrea Romito si è riservato in merito alla decisione se archiviare o meno il caso, come richiesto dai pm Graziano e De Santis dopo che gli esiti degli esami autoptici sulle salme hanno confermato come i decessi siano legati ad overdose da metadone e psicofarmaci. Nell’opposizione, presentata dall’avvocato Ronsisvalle per il garante nazionale dei detenuti, dalla Onlus Antigone e dal legale dei parenti di una vittima, l’avvocato Luca Sebastiani, si fa presente come sia stato escluso ogni nesso di causalità tra i decessi dei detenuti e la gestione sanitaria e penitenziaria, compresi i trasferimenti presso altri istituti di detenzione senza esplorare l’eventualità di altre cause di morte e la responsabilità connessa all’assunzione dei farmaci. Quello che si chiede è quindi un ulteriore approfondimento investigativo, in particolare per i decessi dei detenuti trasferiti in altri penitenziari e per quelli avvenuti il 10 marzo 2020, ovvero ad emergenza cessata. Nel documento infatti vengono sottolineati episodi significativi: per quanto riguarda il decesso di uno dei detenuti, Hadidi Ghazi, viene riportata la consulenza tecnica redatta dal consulente nominato in cui si precisa che: “Non è stata erroneamente compiuta autopsia sul cadavere. È dunque palese che Hadidi poco prima di morire aveva subito un trauma contusivo al volto di non scarsa entità: da qui il quesito se non vi fosse stato anche un trauma encefalico che avrebbe potuto condurre ad una commozione o ad un’emorragia cerebrale che può portare al decesso in un arco di tempo anche di ore e con sintomi confondibili con quelli dell’intossicazione. Senza l’autopsia del capo a questa domanda non si può dare risposta”. Ma non si tratta dell’unico caso: per quanto riguarda il decesso di un altro detenuto, Iuzu Arthur la consulente rileva che “L’apparenza modesta delle lesioni cutanee lasciano spazio al dubbio che vi sia stata una successione tale di colpi da produrre lesioni cerebrali che possono evolvere verso il peggio. Ma, anche in questo caso, mancando l’esame autoptico sulla testa, il dubbio non può essere fugato”. Palermo. L’appello: “Riprendano i colloqui dei detenuti con i familiari” di Caterina Ganci livesicilia.it, 9 giugno 2021 “È urgentissimo che riprendano i colloqui dei detenuti con i loro familiari, dopo il successo della campagna vaccinale in carcere e dopo che per 15 mesi a decine di migliaia di detenuti non è stato possibile riabbracciare i propri cari, anche e soprattutto figli minori”. Rita Bernardini torna a lanciare un grido d’allarme. La presidente di ‘Nessuno Tocchi Caino’ sabato farà tappa a Palermo, davanti al carcere dell’Ucciardone con Memento l’iniziativa nonviolenta volta a denunciare lo stato di abbandono delle carceri nazionali. L’emergenza Covid-19 ha reso necessario l’attivazione di misure straordinarie in ambito penitenziario al fine di ridurre la diffusione dell’infezione in un contesto dove, la promiscuità e la convivenza di un numero molto elevato di cittadini, può rappresentare un aumentato fattore di rischio. Ma a distanza di oltre un anno è necessario individuare delle soluzioni. “Privati della libertà guardano costantemente le TV - scrive sul social la storica leader radicale - e vedono che la vita dappertutto è ripresa, che addirittura si parla di riaprire le discoteche, ma per loro ancora non si annuncia una decisione che, a mio avviso, deve essere a carattere generale per tutti i 186 istituti penitenziari. Per far questo - prosegue - occorre modificare subito il decreto in scadenza il 31 luglio, dopo aver tenuto un tavolo tecnico con il Ministero della Salute per dare disposizioni univoche. Almeno 150 istituti sono dotati di aree verdi che devono tornare ad essere utilizzate perché consentono incontri più umani ed è proprio per questo che sono state istituite. Nel contempo - conclude - è necessario continuare a mantenere le video chiamate, una conquista finalmente adeguata ai tempi che viviamo”. Dopo l’approvazione della proposta di delibera del “Regolamento Comunale per l’istituzione del Garante dei diritti dei detenuti e delle persone private della libertà”, avvenuta a maggio scorso nel comune di Palermo, adesso si attende la nomina della figura prima d’ora non prevista al livello comunale ma presente e attiva al livello nazionale e regionale. “Nelle carceri la situazione è pesante - dice Gaetano D’Amico, presidente del Comitato Esistono i Diritti che si è battuto insieme al resto dei componenti per introdurre questa figura a tutela dei reclusi nelle carceri cittadine - è necessario che sia nominato il garante comunale che possa coadiuvare quello regionale. È passato più di un mese ma ancora l’amministrazione non si è espressa. Chiediamo che sia nominato con urgenza perché nelle carceri continuano a esserci emergenze umane, sanitarie e sociali”. Benevento. Carceri, per il Sannio report in chiaroscuro di Mariateresa De Lucia ottopagine.it, 9 giugno 2021 La relazione per il 2020 è stata presentata dal Garante dei detenuti Ciambriello. Da un lato il primato positivo di una campagna vaccinale efficiente e veloce per i detenuti del Sannio, dall’altro criticità da risolvere da anni. È un report in chiaroscuro quello stilato, per le carceri del Sannio, dal Garante Samuele Ciambriello per il 2020 su scala provinciale, presentato questa mattina, a Palazzo Mosti alla presenza delle istituzioni: il sindaco Clemente Mastella, il Procuratore della Repubblica di Benevento Aldo Policastro, la Presidente del Tribunale di Benevento Marilisa Rinaldi, il Direttore dell’Istituto Penitenziario di Benevento, il Presidente della Camera penale di Benevento Domenico Russo e il Vescovo di Benevento Monsignor Felice Accrocca. “Il carcere è un luogo rimosso, per l’avida e cinica politica è la risposta semplice a bisogni complessi compreso quello della sicurezza” ha esordito Ciambriello. “Durante la pandemia nelle carceri di Benevento, Airola e Ariano Irpino (ndr competente la Procura di Benevento) i problemi si sono triplicati. Sono venuti meno i rapporti con le famiglie, sono aumentate le criticità sanitarie, c’è stata assenza di scuola e corsi di formazione”. Il Covid, purtroppo, non ha dato scampo a sei detenuti, 5 agenti di polizia penitenziaria e 1 medico nell’intera Regione. Essenziale dunque, secondo Ciambriello, che soprattutto le autorità conoscano le difficoltà che lì si vivono. A cominciare dal sovraffollamento: il carcere di Benevento ospita 355 persone a fronte di una capienza di 261 unità; ad Airola ci sono 23 minori e ad Ariano 208 ristretti (sui 275 posti). Carente il personale: se ad Airola non si manifestano criticità a Benevento, a fronte dei 244 agenti previsti ce ne sono 229 (sott organico di 15 unità) ad Ariano Irpino dovrebbero essere 165 a fronte dei 142 effettivamente presenti. E sono numerosi anche gli eventi critici che si sono registrati. “A Benevento 2 morti per suicidio, decine di tentativi di suicidio, scioperi della fame, diverse forme di autolesionismo, in un anno e mezzo i detenuti si sono sentiti soli e abbandonati”. E poi Ciambriello rincara la dose: “È necessario fare di più anche in campo sanitario. Se con i vaccini l’Asl ha dimostrato efficienza e rapidità la sanità è ancora in un periodo nero. Occorre - aggiunge - la stabilizzazione degli operatori sanitari in Regione Campania. Figure che dovrebbero essere assunte dalle carceri e non prestare lavoro per qualche mese attraverso cooperative. E ancora manca, presso l’ospedale San Pio, un piccolo reparto per i detenuti. Alla persona che sbaglia non può essere tolto il diritto alla salute”. Non solo Ciambriello aggiunge: “Abbiamo bisogno di più psicologi e assistenti sociali”. Ma mette in evidenza anche le buone pratiche che si sviluppano presso le case circondariali con i progetti di inserimento al lavoro e tante altre iniziative. In sostanza un monito a richiamare l’attenzione sul mondo delle carceri a cui tutte le autorità presenti hanno risposto dimostrando sensibilità e impegno. Monza. Novanta reclusi in arrivo, il carcere scoppia di Marco Galvani Il Giorno, 9 giugno 2021 I sindacati degli agenti penitenziari denunciano: mancano educatori, i detenuti sono insofferenti e aumentano le aggressioni. I detenuti sempre più insofferenti e intolleranti alle regole. La grave carenza di educatori. La riapertura dell’ex detentivo femminile che, subito dopo l’estate, porterà 90 reclusi in più da gestire senza, però, la garanzia di ricevere rinforzi. Il sindacato Uil polizia penitenziaria sul piede di guerra. Gli agenti del carcere di via Sanquirico a Monza da tempo sono in stato di agitazione e ieri mattina hanno deciso di alzare la voce per mettere in evidenza pubblicamente “una situazione che ormai ha raggiunto livelli di guardia altissimi”, denunciano il segretario nazionale Uil polizia penitenziaria Calogero Marullo e i segretari regionali Domenico Benemia e Carmine Villani. “Stiamo uscendo da un anno in cui le condizioni di lavoro in carcere sono peggiorate notevolmente - continuano - da gennaio gli agenti hanno subito numerose aggressioni e 14 sono finiti in ospedale. In compenso non abbiamo visto provvedimenti idonei ed efficaci a carico dei detenuti violenti”. Del resto “le carenze del sistema si fanno sentire anche per quanto riguarda gli educatori penitenziari dell’Area trattamento”. Oggi la casa circondariale di Monza ha 16 sezioni detentive maschili, con una capienza normalmente di oltre 600 detenuti, la metà stranieri. E un sovraffollamento di 200 detenuti rispetto alla capienza regolamentare prevista dal Ministero. In via Sanquirico dovrebbero essere al lavoro 6 educatori, ma in servizio effettivo ce ne sono solo 4. Da oltre due anni. Ma “il ruolo degli educatori è fondamentale perché si occupano dei colloqui di osservazione della personalità, dell’ascolto e conoscenza dell’altro, degli interventi di trattamento penitenziario e dell’attivazione delle sinergie con servizi interni od esterni, organizzare le attività di trattamento (scolastiche, professionali, lavorative)”. Ad aggravare la preoccupazione tra gli agenti è la apertura dell’ex detentivo femminile: la ristrutturazione ormai è completata, per una nuova sezione da 90 posti. Ma “con quali risorse educative saranno seguiti questi nuovi detenuti che arriveranno?”, il dubbio del sindacato. Al momento comunicazioni ufficiali da parte del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non ce ne sono. Anche se gli agenti sono “certi che entro la fine di settembre quella sezione sarà operativa”. Nemmeno la tipologia di detenuti, ma non è escluso che possa ospitare persone con ‘custodia attenuata’, come ad esempio i semiliberi. In ogni caso “serviranno nuove risorse - auspicano i sindacalisti -. Oggi a Monza gli agenti di polizia penitenziaria sono 320. Con qualche sacrificio possiamo anche dire di non essere sotto organico. Ma con una sezione in più da gestire, è necessario l’arrivo di almeno altri 30 agenti”. Udine. Migliorare la vita dei detenuti stretti tra povertà e solitudine di Franco Corleone* Messaggero Veneto, 9 giugno 2021 Ho vissuto una bella esperienza all’interno della struttura di via Spalato, partecipando a un incontro con una delegazione dei detenuti che intendevano avanzare richieste per migliorare le condizioni di vita. Sono state due ore intense di scambio serrato con lo scopo non di una generica denuncia, ma con la volontà di individuare soluzioni ragionevoli e praticabili. La direttrice Tiziana Paolini e la comandante Monica Sensales, oltre a mostrare un’intelligente disponibilità, hanno chiarito le difficoltà oggettive e i limiti non immediatamente superabili. Sono stato colpito dalla precisione dei dodici punti che sono stati scritti a mano (in carcere si scrive ancora a mano) in un documento che mi è stato consegnato alla fine della riunione. Il primo problema è rappresentato dal costo delle telefonate e dal sistema di autorizzazione anche per i colloqui con skype, che rende impossibile per molti stranieri mantenere i rapporti con le famiglie assai lontane, e il dodicesimo è rappresentato dall’esigenza di rapporti affettivi intimi come accade in tantissimi altri Paesi, anche nella vicina Slovenia. La scelta di queste due questioni all’inizio e come chiusura del cahier de doléances, può essere casuale, ma voglio interpretarla invece come il segno di una condizione di abbandono e l’invocazione a essere aiutati per uscire da una condizione di solitudine insopportabile. E che va contro i principi dell’ordinamento penitenziario e della Costituzione. La fotografia che emerge è di un luogo in cui è presente tanta estrema povertà: anche l’euro dovuto per l’uso della lavatrice per alcuni è eccessivo; la richiesta di un kit di ingresso adeguato e la domanda di biancheria intima, di magliette e di scarpe è significativa così come l’invocazione del lavoro. Alcune sollecitazioni non dovranno cadere nel vuoto, ad esempio, l’individuazione di uno spazio per l’attività fisica e di attrezzi per il tempo libero. Segnalo infine la preoccupazione per le condizioni di lavoro della polizia penitenziaria che rischiano di rendere difficile la convivenza in una struttura chiusa e sovraffollata e l’appello per l’accoglimento di alcune richieste di avvicinamento alle famiglie. Ho approfittato dell’occasione di prima conoscenza per indicare le linee del mio impegno e ho annunciato che sarà presto costituito un “Consiglio dei detenuti” che mensilmente si riunirà con tutti i soggetti indispensabili, dai magistrati di sorveglianza agli avvocati, dall’Ufficio dell’esecuzione penale esterna ai volontari, dal servizio sanitario agli educatori, dagli insegnanti alle istituzioni, Comune e Regione. Sarà un tavolo di approfondimento con l’obiettivo di costruire un carcere dei diritti. Ho anche annunciato che è stato approvato un progetto di ristrutturazione del carcere che trasformerà la vita interna. Spero di non tradire la fiducia accordatami. *Garante dei diritti dei detenuti nel carcere di Udine Reggio Calabria. La Garante: “Scade l’avviso pubblico per tre componenti l’Ufficio” reggiotoday.it, 9 giugno 2021 La Garante delle persone private della libertà personale, avv. Russo, a pochi giorni dalla scadenza dell’avviso pubblico per tre componenti dell’Ufficio, parla dei luoghi di pena e del confronto con i detenuti. C’è tempo fino al 10 giugno per presentare la propria candidatura per la composizione dell’Ufficio del Garante delle persone private della libertà personale. Dopo l’avviso di febbraio quando sono state presentate poche domande ecco che c’è una riapertura dei termini dell’avviso pubblico del Comune di Reggio Calabria per cercare tre componenti che andranno a collaborare con la Garante, avvocato Giovanna Francesca Russo. “La prima volta, che sono entrata nel carcere di Arghillà nella funzione di Garante cittadino per la città di Reggio Calabria, mi colpì subito un largo androne ed una scalinata di accesso - racconta Russo- che necessariamente si attraversa per passare alla zona delle sezioni detentive. In quell’ androne si intravedono i colori accesi di alcune pareti tinteggiate dai detenuti atti a creare un ambiente “confortevole” per i colloqui dei più piccoli con il proprio genitore. Ogni gradino che percorrevo avvicinandomi verso la prima sezione faceva tuonare nella mia mente una frase che ripeto spesso a me stessa “Chi salva un uomo salva l’umanità ed anche se stesso”. Un pensiero forte che non lascia indenne nessuno: persone detenute, operatori che lavorano nel carcere, avvocati, giudici e in ultimo ma non per minore importanza la polizia penitenziaria che con immani sforzi e spesso sottodimensionata cerca di colmare le profonde difficoltà che ogni istituto incontra. Qui inevitabilmente sento di voler ringraziare il Direttore del carcere reggino Calogero Tessitore ed i comandanti di Reggio ed Arghillà: il comandante Stefano la Cava e la Comandante Marialuisa Alessi e la polizia penitenziaria a cui va tutta la mia stima”. Continua nella sua riflessione la Garante e si sofferma sull’accesso dei luoghi di detenzione come luoghi in cui l’umanità si mostra più scoperta e dolente, con una più acuta consapevolezza del proprio quotidiano, dei sentimenti, delle ansie e delle speranze, e lì ci si espone inevitabilmente all’onda d’urto del confronto con le persone detenute e con il loro bisogno estremo di essere ascoltate, prima ancora che comprese ed esaudite. L’avv. Russo rappresenta come la realtà penitenziaria mostri uno scenario non esente da criticità e mancanze che, incidendo su un panorama di forte disagio sociale, corre il rischio di tradursi in lesione di diritti fondamentali e di limitare dunque la funzione risocializzante della pena. L’ordinamento penitenziario, ha apprestato strumenti giuridici sempre più efficaci per la tutela dei diritti delle persone detenute, ma la strada da compiere è ancora lunga non priva di insidie, c’è da mettersi in cammino per conoscere direttamente chi e come si vive dentro le mura. L’auspicio dell’avvocato Russo, del Sindaco Giuseppe Falcomatà e dell’Assessore competente Demetrio Delfino è di poter individuare professioniste/i del settore che sì abbiano le dovute competenze, ma soprattutto che nel loro bagaglio umano non dimentichino mai di indossare la veste della carità cristiana. Napoli. Intervista a Catello Maresca: “Via il carcere, a Nisida ci vuole il turismo” di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 9 giugno 2021 “Il carcere a Bagnoli è follia. E dirò di più: bisognerebbe chiudere anche l’istituto minorile di Nisida. Due dei luoghi più belli al mondo devono avere una prospettiva turistica”: ha le idee chiare Catello Maresca, l’ex pm che punta a diventare sindaco di Napoli. Anzi, il pm. Perché, per il 49enne magistrato, “la toga è una seconda pelle” e a chi lo definisce “ex” fa notare di essere “in aspettativa senza assegni, al servizio della città”. Di dimettersi, d’altra parte, Maresca non ha mai avuto intenzione. Tanto è vero che, nel caso la sua esperienza in politica dovesse terminare, ha già individuato un obiettivo: tornare pm e chiedere come sede Palermo per arrestare il boss Matteo Messina Denaro. Intanto è alle prese con la composizione delle liste. I suoi candidati dovranno comprovare la propria “illibatezza” esibendo certificato penale e dei carichi pendenti: ha dimenticato il principio di non colpevolezza? “Sui candidati faremo verifiche di merito che comprendono valutazioni non solo giuridiche. Il principio di non colpevolezza è sancito dalla Costituzione e resta la nostra guida. Poi c’è un discorso di opportunità politica. Chi ha pendenze con la giustizia va lasciato tranquillo affinché possa rimuoverle”. Ha senso escludere da una lista un candidato valido solo perché sotto inchiesta, magari per un reato banale? “Ci sono accuse infamanti e non infamanti. Valuteremo caso per caso non solo questo aspetto, ma anche la capacità di rappresentare un preciso modello di uomo politico: avveduto, affermato nella propria attività, desideroso di dedicarsi a Napoli mettendo da parte gli interessi personali. Non è un approccio giustizialista, ma di buon senso”. Ha già fatto sapere di non voler salire sul palco col senatore Luigi Cesaro che, tuttavia, non è mai stato condannato. Se Cesaro dovesse invitare i suoi elettori a sostenerla, accetterebbe quei voti? “Anche per Cesaro vale il principio di non colpevolezza, ma non mi risulta che sia in procinto di candidarsi a Napoli. Detto ciò, ognuno è libero di fare ciò che vuole”. Andiamo sui programmi. Gaetano Manfredi, suo principale competitor, punta sul patto per Napoli stipulato da Conte, Letta e Speranza. Lei ha una soluzione alternativa al problema del debito? “Quel patto non mi convince per due motivi: parte da Roma e non da Napoli; punta a creare una sorta di bad company alla quale imputare i debiti e prevede un aumento dell’addizionale Irpef che qui è già ai massimi livelli. Noi intendiamo agire sull’imputazione delle spese. Ma ci sono anche altre questioni da affrontare. Napoli, per esempio, deve entrare nella gestione dell’inceneritore di Acerra. E poi il comparto dell’assistenza sociale va razionalizzato attraverso modelli di compartecipazione pubblico-privato”. Quindi abbandonerà la gestione pubblica dei servizi sbandierata dall’amministrazione de Magistris? “Il modello di gestione pubblica non ha funzionato. Emblematica è la gestione del patrimonio immobiliare del Comune che con Napoli Servizi è stata deludente. Eppure parliamo di un comparto strategico. Perciò bisogna accelerare sulle dismissioni e assicurare una manutenzione ordinaria più puntuale soprattutto in zone come Scampia e Ponticelli, dove la presenza di un’istituzione pubblica come il Comune dev’essere evidente. Per centrare questi obiettivi non esiteremo ad aprirci ai privati, nella massima trasparenza e senza criminalizzare chi legittimamente cerca un profitto”. Si parla di un carcere a Bagnoli: che cosa ne pensa da pm e da aspirante sindaco? “Una follia. Stesso discorso per l’istituto minorile di Nisida che andrebbe eliminato. Da candidato sindaco trovo assurdo negare una prospettiva turistica a due dei luoghi più belli al mondo. A Bagnoli, in particolare, è indispensabile valorizzare la vocazione all’accoglienza, il verde e le testimonianze di archeologia industriale. Da magistrato, invece, penso che l’istituto di Nisida vada sostituito con un polo della rieducazione, dislocato altrove, che assicuri ai giovani in area penale la possibilità di formarsi e di trovare uno sbocco immediato nel mondo del lavoro: è la filosofia che anima l’associazione Arti e Mestieri di cui sono promotore”. Se dovesse essere sconfitto alle urne, si dimetterà? “Resterò all’opposizione perché il mio è un impegno serio per Napoli”. E se la sua esperienza in politica dovesse prima o poi chiudersi, rientrerà in magistratura? “Per me la toga è una seconda pelle. Quindi sì, rientrerò in magistratura. Se le norme me lo consentissero, mi piacerebbe lavorare a Palermo e assicurare alla giustizia Matteo Messina Denaro. Il mio metodo di cattura dei latitanti, d’altra parte, è oggetto di studio nelle università”. Intanto ha atteso mesi prima di mettersi in aspettativa e ufficializzare la candidatura, continuando a esercitare le funzioni nella stessa città che ora punta ad amministrare: non crede di aver danneggiato la giustizia italiana? “Affatto. Il Csm ha ritenuto legittima la mia attività di ascolto. E poi mi sono messo in aspettativa quattro mesi prima delle elezioni, a differenza di miei colleghi che l’hanno fatto nell’ultimo giorno disponibile. Io sono in aspettativa senza assegna, a riprova del sacrificio che intendo fare per Napoli”. Su di lei, però, si è pronunciato il Csm più delegittimato della storia: come si restituisce credibilità alla giustizia italiana? “La magistratura è sacra e il fatto che i suoi componenti siano fallibili non deve intaccare la fiducia dei cittadini nei suoi confronti. Di sicuro il sistema delle correnti è stato protagonista di una degenerazione. Bisogna ripartire dalle valutazioni di professionalità dei magistrati che sono standardizzate e troppo spesso positive. Servono valutazioni più rigorose, ma soprattutto parametri che tengano conto della specificità dell’attività svolta da ciascun magistrato, e strategie per coinvolgere l’avvocatura in questo delicato ambito”. Si parla di riforma del processo penale: che cosa ne pensa? “Bisogna potenziare l’ufficio del processo, aiutando il giudice nell’organizzazione del lavoro, e contingentare i tempi entro i quali vanno svolte le varie attività. La ministra Marta Cartabia troverà la soluzione migliore insieme col resto del Governo e col Parlamento”. Cassino (Fr). Detenuti lavorano per il Comune, in Ciociaria dal carcere ai lavori pubblici area-c.it, 9 giugno 2021 Ha preso l’avvio oggi la fase operativa di un progetto in campo da mesi e che, anche a causa della pandemia, ha avuto non poche difficoltà a vedere la luce. Il progetto nasce da una collaborazione tra la società Autostrade per l’Italia ed il Comune di Cassino che prevede interventi di piccola e grande manutenzione (sono previsti interventi sull’asfalto, miglioramento e ripristino del decoro urbano e manutenzione del verde); oltre a personale dell’amministrazione il progetto vede coinvolti detenuti, percettori di reddito di cittadinanza e persone sottoposte a regime di pena alternativa al carcere: l’obiettivo è quello di rendere concreta l’idea che tutti possano contribuire al benessere della collettività. “Non nascondo che un altro aspetto che ci rende orgogliosi - ha detto l’assessore al Personale, Barbara Alifuoco, che ha curato il progetto unitamente al sindaco, Enzo Salera e al consigliere Fabio Vizzacchero - è la fiducia che un grande gruppo come Autostrade per l’Italia ripone nella nostra Amministrazione e voglia redistribuire parte della sua ricchezza anche a favore della città di Cassino. È un fatto di valore etico e morale di grandissimo rilievo. Oggi è solo l’inizio, penso che la sinergia tra le forze - ha aggiunto Alifuoco - possa continuare nel tempo e dare risultati notevoli alla nostra città. Anche questo può essere considerato un simbolo di rinascita e di ripartenza dopo un anno molto difficile. “L’attenzione di un grande gruppo come Autostrade per l’Italia per il nostro territorio - ha detto invece il Sindaco - è un grande orgoglio per noi, ed è anche frutto della fiducia che gli uomini della Direzione del VI Tronco di Cassino ripongono nella nostra Amministrazione. Per questo desidero ringraziare il direttore, l’ing. Costantino Ivoi, ed il dott. leandro Zapparato, responsabile dell’Ufficio Traffico che, per primi, hanno creduto nella bontà del progetto e nella necessità di creare sinergie tra le forze del territorio per centrare quello che è il nostro unico obiettivo: lavorare per Cassino e per la sua rinascita. Ringrazio infine l’assessora Barbara Alifuoco che, insieme al consigliere Fabio Vizzacchero, ha seguito passo dopo passo l’iter del progetto”. Rossano (Cs). “No al trasferimento dal carcere”, Battisti inizia lo sciopero della fame Corriere della Calabria, 9 giugno 2021 “L’Alta sicurezza 2 è una tomba. L’Italia ha mentito garantendo un trattamento umano a clemenza”. Cesare Battisti lancia un lungo “appello alla giustizia” dal carcere di Corigliano Rossano, dove è detenuto da quasi un anno in regime di Alta sicurezza (AS2) e da dove attendeva la decisione del Dap sulla sua istanza di trasferimento, presentata dai suoi legali, Gianfranco Sollai e Davide Steccanella, all’indomani dell’arrivo in Calabria. Istanza rigettata nei giorni scorsi e per la quale l’ex terrorista dei Pac ha iniziato lo sciopero della fame e interrotto le terapie cui si sottopone per problemi di salute. Nella sua lettera-appello inviata tramite gli avvocati, Battisti parte dalle motivazioni che hanno spinto il Dap a non concedere il suo trasferimento: il regime di Alta sicurezza legato alla tipologia di reato commesso e un percorso che secondo il Dap è comunque teso alla rieducazione e al reinserimento del condannato. Tesi che Battisti contesta, ricordando di “aver trascorso 40 anni in esilio, conducendo una vita di cittadino contribuente perfettamente integrato nella società civile, con incessante attività professionale, pacifico coinvolgimento nell’iniziativa culturale e nel volontariato, ovunque mi è stato offerto rifugio”. “Incompatibilità con i detenuti musulmani” - “Il Dap pare ignorare che nel reparto dove sono detenuto, nel carcere di Rossano, nulla è predisposto per i detenuti che non condividono i costumi e la tradizione musulmana o che abbiano vivaci incompatibilità di convivenza con questa categoria di detenuti” scrive Cesare Battisti nella sua lettera appello dal carcere di cui l’Adnkronos è venuta a conoscenza, consegnata ai suoi avvocati dopo il rigetto della sua istanza di trasferimento dal reparto di Alta sicurezza dove è recluso insieme a detenuti appartenenti all’Isis. “L’As2 di Rossano è una tomba, lo sanno tutti - aggiunge ancora Battisti. È l’unico reparto sprovvisto persino di mattonelle e servizi igienici decenti, dove nessun operatore sociale mette piede. Il famigerato portone ‘Antro Isis’ è tabù perfino per il cappellano, che finora ha regolarmente ignorato le mie richieste di colloquio. Qui tutto è predisposto per tenere a bada dei ferventi musulmani, ai quali, se pure in condizioni esecrabili, è stato concesso il diritto di pregare insieme”. “Avevo riposto speranze in quest’ultima istanza di trasferimento, immaginando che, dopo oltre due anni in condizioni estreme, le autorità non infierissero oltre, considerata la mia età e il mio precario stato di salute. Ma anche e soprattutto per aver mostrato grande disponibilità alla riconciliazione con quei settori della società che più hanno sofferto le conseguenze della lotta armata degli anni ‘70, con particolare riferimento alle famiglie delle vittime” è un altro dei passaggi chiave della lettera-appello alla giustizia inviata da Cesare Battisti “ai familiari, ai legali difensori, alle istanze competenti e a tutti coloro che si sono fin qui solidarizzati affinché mi fosse garantito un regime di carcerazione dignitoso”. “Il Dap non tiene conto del grande disagio - L’ex terrorista dei Pac accusa il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria - che ha respinto la sua istanza di trasferimento dal reparto di Alta sicurezza di Rossano - di non tener conto “del grande disagio dovuto alla distanza che separa il condannato dai suoi affetti” e di trattare il suo caso con un carattere sanzionatorio della pena e non, come prevede la Costituzione, recuperatorio. “L’Italia ha mentito garantendo un trattamento umano a clemenza” - “Le cose - scrive Battisti - non sono mai quelle che sembrano secondo i media. La questione dei rifugiati in Francia è una farsa, così come è reale l’intenzione dello Stato di negarmi i diritti stabiliti fino alla fine. L’Italia - accusa Battisti - ha mentito garantendo un trattamento umano a clemenza. Lo provano le condizioni della prigionia di Cesare Battisti. L’opposto di quello che dovrebbero aspettarsi veramente i rifugiati che, dalla Francia, arrivano in Italia”. Lecce. Diritto e piacere di leggere: donati cento libri alla biblioteca del carcere lecceprima.it, 9 giugno 2021 Le associazioni #RecidivaZero e Nessuno tocchi Caino, che si battono per l’abolizione della pena di morte, hanno consegnato la donazione al Borgo San Nicola. Una donazione di circa cento libri è stata destinata alla biblioteca della Casa circondariale “Borgo San Nicola” alla presenza dell’assessora al Welfare del comune di Lecce, Silvia Miglietta, della Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della città di Lecce, Maria Mancarella, del responsabile dell’area trattamentale, Fabio Zacheo. A donare i libri sono Rossana Elia, in rappresentanza dell’associazione #RecidivaZero e Anna Briganti, in rappresentanza dell’associazione Nessuno tocchi Caino, associazioni che si battono per l’abolizione della pena di morte nel mondo e, con specifico riferimento ai detenuti, ex detenuti ed al mondo carcerario in genere, si prefiggono di contribuire alla riduzione della recidiva. Di seguito la dichiarazione della Garante delle persone private della libertà Maria Mancarella: “I libri sono un’opportunità di vita per i detenuti e le detenute e, come le persone, hanno diritto ad una seconda vita. Donare libri ai detenuti e alle detenute è garantire a chi sta scontando una pena il diritto e il piacere di leggere, consentire a chi è chiuso in spazi ristretti e sempre uguali di esplorare nuovi mondi e nuove possibilità di vita; leggere un libro aiuta ad aprire la mente, consente di volare con la fantasia e ripensarsi in modo diverso, libero e creativo. La biblioteca carceraria è lo spazio ove è possibile superare l’isolamento, la deprivazione culturale, le barriere mentali e fisiche, è il luogo che può, invece, favorire la crescita culturale e il superamento dei pregiudizi e delle reciproche diffidenze. Tutto questo acquista un significato particolarmente rilevante se a compiere il gesto di donare dei libri sono delle persone, come nel caso dell’associazione #recidivazero che, dopo aver vissuto l’esperienza della carcerazione, sono riuscite ad andare oltre e, da persone libere, hanno ripreso in mano la propria vita e, nonostante le difficoltà, sono oggi parte attiva e vitale della società, impegnate in azioni di promozione e tutela dei diritti umani, civili, sociali e politici di tutti i cittadini, in particolare di coloro che sono in condizione di marginalità sociale”. “Sistema giudiziario, cosa non va” di Sebastiano Depperu La Nuova Sardegna, 9 giugno 2021 È appena uscito il libro “Divieto di arresto e di detenzione - un virus ideologico del sistema Italia” di Giovanni Usai. È un libro scritto da uno che non ama definirsi scrittore per rispetto di quelli che “lo sono davvero e meritano quel titolo”. Il lurese Giovanni Usai, attualmente consigliere di minoranza a Luras e possibile candidato alla carica di sindaco alle prossime elezioni d’autunno, ha un approccio pragmatico, determinato e pare già essere impegnato anche in un altro lavoro che potrebbe vedere la luce nella primavera del 2022. “Sono un appassionato di cronaca giudiziaria e un osservatore attento delle dinamiche complementari, compreso l’impatto che queste determinano presso la pubblica opinione - dichiara l’autore -. Il mio è un approfondimento informale sui temi legati all’inadeguatezza del sistema sanzionatorio penale, all’incertezza della espiazione - effettiva - della pena e all’insicurezza in molte città italiane nelle quali, specie nelle periferie, milioni di italiani sono divenuti minoranza e succubi di ciò che è correlato a promiscuità ed insediamenti selvaggi”. Il volume è autoprodotto dallo stesso autore attraverso Amazon. Usai si definisce “sostenitore della necessità di pene meglio calibrate alla natura del reato per il quale vengono inflitte, di un riequilibrio complessivo nel rapporto tra lo stato e chi viola la legge, di quello tra guardie e ladri; punto il dito sul rito abbreviato del 1989 e sull’ordinamento penitenziario del 1975 che sono le norme principali dalle quali discendono gli sconti di pene e le liberazioni anticipate che, oltre ad un senso di sfiducia crescente, creano subbuglio tra milioni di cittadini che, senza alcuna casacca politica, si interrogano con sempre maggiore rammarico”. A completare il lavoro c’è anche un approfondimento sul sistema penitenziario italiano, sulle difficoltà ad operare per le forze di polizia, compresa l’assenza di tutele nei loro confronti e un’intervista esclusiva ad un veterano della direzione carceraria che riferisce, tra questioni di interesse, che il detenuto Salvatore Riina, già capo di cosa nostra, grande appassionato di ciclismo, non apprezzava il pugilato perché lo riteneva uno sport violento”. “Facendo il volontario ho imparato che bisogna ascoltare per essere ascoltati” di Laura Solieri Vita, 9 giugno 2021 Molto di quello che fa il volontariato, spiega l’ex magistrato Gherardo Colombo - oggi impegnato su molti fronti del sociale - “dovrebbe essere fatto dalle istituzioni, quindi dovrebbe essere fatto non per bontà ma per obbligo di legge”. Senza il Terzo settore, il sistema non reggerebbe, ma al tempo stesso è proprio l’agire mutualistico a ricordarci l’importanza delle regole di base di ogni convivenza: tolleranza, rispetto, perdono. La giustizia è un prodotto umano e in quanto tale è intrinsecamente imperfetta e perfettibile. Essa dovrebbe rimodularsi avendo come base il riconoscimento della dignità di tutti, come vuole l’art. 3 della nostra Costituzione e bisognerebbe operare affinché la condanna implichi un recupero della persona e non la sua esclusione dalla comunità. A questo proposito, tanto di quello che fa il mondo del volontariato dovrebbe essere portato avanti dalle istituzioni, dovrebbe essere fatto non per bontà ma per obbligo di legge. Ne abbiamo parlato con un volontario sui generis, Gherardo Colombo, che nel 2007 si è dimesso dalla magistratura per dedicarsi a incontri formativi nelle scuole, dialogando negli anni con migliaia di ragazzi sui temi della giustizia e del rispetto delle regole, e nel 2010 ha fondato l’associazione Sulle regole, punto di riferimento per il dibattito sulla Costituzione e la legalità. Oltre che nelle scuole, opera anche nelle carceri. Cosa ha imparato dai ragazzi e dai detenuti in tutti questi anni? Nelle scuole ho imparato la cosa più importante: la necessità di cercare un modo di porsi per riuscire contemporaneamente ad ascoltare e ad essere ascoltato. All’inizio facevo lezioni frontali, cosa che progressivamente ho abbandonato. Il dialogo e l’ascolto mi hanno aiutato molto nel confronto con i detenuti dai quali ho imparato tanto sulla diversità delle vite: prima e dopo la commissione di un reato, c’è comunque l’esistenza, la vita, le sofferenze, le contraddizioni ed è una prospettiva, un punto di osservazione da tenere sempre a mente. Come è cambiata la sua concezione della giustizia da quando è entrato in magistratura ad oggi? Come realizzare una giustizia migliore o quantomeno migliorabile? Credo che il punto di partenza del cambiamento dovrebbe essere costituito dal rispetto dell’art. 3 della Costituzione che dice che tutte le persone sono degne, indipendentemente dalle loro condizioni sociali, e questo riguarda anche la commissione di un reato e il fatto di trovarsi in carcere. La giustizia dovrebbe rimodularsi avendo come base il riconoscimento della dignità di tutti. Nel settore penale, dovrebbe succedere che al processo ci si arrivi solo quando effettivamente, in concreto, le probabilità che l’imputato sia colpevole siano elevate. Le ultime statistiche dicono che la percentuale delle persone assolte è piuttosto elevata quando invece questo numero dovrebbe essere abbastanza marginale. È vero che i processi servono per vedere se una persona è colpevole o innocente ma è altrettanto vero che al processo bisognerebbe arrivare con basi altamente solide. L’altro punto riguarda quali potrebbero essere le conseguenze dell’accertamento della responsabilità: una volta che si accerta se una persona ha commesso un reato, quale deve essere la risposta della società e quindi dell’ordinamento tenuto conto che tutte le persone sono degne anche se hanno commesso un reato, che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso dell’umanità, che devono tendere alla rieducazione del condannato, che è punita qualsiasi forma di violenza fisica o morale nei confronti delle persone la cui libertà è in un qualche modo limitata? Quale deve essere la conseguenza della trasgressione, tenuto conto di tutti questi principi? Bisognerebbe operare affinché la condanna consista in un recupero della persona piuttosto che nella sua esclusione dalla società. A questo proposito, per evitare questa esclusione, il mondo del volontariato fa veramente tanto, e probabilmente gli viene chiesto troppo. Lei cosa ne pensa? Molto di quello che fa il volontariato dovrebbe essere fatto dalle istituzioni, quindi dovrebbe essere fatto non per bontà ma per obbligo di legge. Una riflessione importante va inoltre riservata a come vengono spesi i soldi amministrati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. All’educazione e al reinserimento dei detenuti ne vanno veramente pochi. Nella cura della psicologia della persona, nella rieducazione si investe ancora troppo poco. La speranza è che con la disponibilità che arriva in Italia anche nel campo della giustizia tramite il Recovery Fund si possa modificare l’impostazione sono tanti aspetti, anche sotto il profilo della vivibilità del carcere oltre che nella promozione effettiva e vera degli aspetti trattamentali nei confronti dei detenuti. Qual è la sua concezione del perdono? Il tema del perdono lo vedo da un punto di vista assolutamente laico, come disponibilità a riallacciare le relazioni interrotte, come disponibilità ad accorgersi dell’altro, a vederlo, ad assumersi responsabilità per l’altro e chiedere che l’altro si assuma le sue responsabilità. Mi sono dimesso dalla magistratura perché secondo me perché si rispettino le regole è necessario conoscerle, aiutare le persone a comprenderle quindi a farle proprie. E la nostra prima regola è la Costituzione che dice che tutte le persone sono importanti. Isolata da tutti, l’Europa resiste alla sospensione dei brevetti di Francesca De Benedetti Il Domani, 9 giugno 2021 Il fronte dei Paesi che chiedono la sospensione dei brevetti dei vaccini è sempre più ampio. Alla Wto è in corso il consiglio Trips, Usa e Cina sono riuscite a convergere, ma Bruxelles no. Per difendere Big Pharma, rischia l’isolamento internazionale. Per paradosso, dentro le istituzioni Ue la posizione della Commissione potrebbe uscire inaspettatamente rafforzata. Gli eurodeputati stanno per esprimersi sul tema. Ma la risoluzione congiunta che arriva al voto non contiene nessuna richiesta esplicita di deroga sui brevetti. A Ginevra, dove ha sede la World Trade Organization, i rappresentanti dei vari paesi, riuniti ieri e oggi nel “consiglio Trips”, stanno discutendo di sospendere i brevetti per i vaccini anti Covid-19. Il consenso globale diventa sempre più ampio, persino Usa e Cina sono riuscite a convergere, ma Bruxelles no. Va per la sua strada, in direzione contraria: difende la proprietà intellettuale e le posizioni di Big Pharma. Così rischia l’isolamento internazionale. Il paradosso è che invece sul fronte interno, cioè dentro le istituzioni Ue, la posizione di Bruxelles potrebbe uscire inaspettatamente rafforzata. A Strasburgo, dove è in corso la plenaria dell’europarlamento, gli eurodeputati stanno per esprimersi sul tema; aspettano da maggio. Ma la risoluzione congiunta che arriva al voto stasera non contiene nessuna richiesta esplicita di deroga sui brevetti: è stata espunta nella trattativa. L’ultima chance sono gli “emendamenti”. Se non vanno in porto neppure quelli, la Commissione avrà un alibi in più per opporsi alla deroga. Il voto rischia di trasformarsi in un boomerang. Nelle ultime ore le organizzazioni della società civile stanno tempestando di appelli gli eurodeputati. Solitudine a Ginevra - Nei paesi ricchi, una persona su quattro (il 23,8 per cento) ha già completato il ciclo di vaccinazione. Nei paesi a basso reddito, è vaccinata una persona su mille (lo 0,1 per cento). Il divario è evidente, e per ridurlo c’è un blocco globale che chiede di sospendere i brevetti. La novità non è questa: è da ottobre che India e Sudafrica propongono questo. Hanno convinto 118 paesi, ma pochi ricchi come Canada, Giappone, e Unione europea hanno messo il freno. Adesso però l’inusuale asse Washington-Pechino è pronto a negoziare sul testo emendato, presentato a fine maggio, che circoscrive la deroga a tre anni. L’Ue, dopo aver usato tattiche dilatorie per mesi, il 4 giugno ha presentato una sua proposta in cui difende tuttora la proprietà intellettuale e suggerisce eventualmente le licenze obbligatorie. Per il governo indiano questa posizione rappresenta di fatto un attacco al multilateralismo, perché significa che ogni paese deve agire da solo, prodotto per prodotto, rischiando lo scontro con Big Pharma. Nuova Delhi lo ha sperimentato direttamente, con il farmaco antitumorale Nexavar di Bayer, azienda che ha portato la questione in tribunale; dopo dieci anni ancora si vedono le conseguenze. Anche le donazioni non bastano: secondo lo scenario più ottimistico, il programma Covax doveva garantire la vaccinazione a un miliardo di persone entro il 2021; e non basta. Uno studio elaborato da Public Citizen assieme ai ricercatori dell’Imperial College di Londra mostra invece dati alla mano che se le barriere - brevetti in primis - fossero sospese, sarebbe possibile produrre 8 miliardi di vaccini mRna entro maggio 2022. Ci sono già, in potenza, le condizioni per accelerare rapidamente la produzione a livello globale: sei mesi per avviarla, sei mesi per il prodotto finito. Washington è già convinta. Qui si trova Burcu Kilic, direttrice di ricerca a Public Citizen, che ha assistito al cambio di direzione degli Stati Uniti sul tema. “Ho incontrato l’ambasciatrice Usa alla Wto, Katherine Tai, prima che annunciasse di sostenere la deroga ai brevetti. Ha ascoltato tutti, sia le ong che le aziende farmaceutiche. Ma ha una visione ad ampio raggio”. Secondo Kilic l’America sosterrà fino in fondo il Trips Waiver, “l’Ue è rimasta praticamente la sola a voler impedire la text-based negotiation”, cioè il negoziato sulla proposta aggiornata di India e Sudafrica. “La nuova proposta di Bruxelles in realtà è vino vecchio in una bottiglia nuova: si tratta dell’ennesimo tentativo di fermare la deroga ai brevetti. Ma ormai l’Ue è isolata”. L’allineamento Cina-Usa intanto sprigiona le spinte pro-waiver: per esempio, i governi di Asia e Pacifico (Apec) chiedono di procedere sul testo, e in fretta. Ultima chance a Strasburgo - Il paradosso è che mentre la linea di Bruxelles (e di Berlino) diventa sempre più solitaria nel consesso internazionale, proprio dentro le istituzioni europee la Commissione potrebbe trovare inaspettatamente una legittimazione. Nel corso dei mesi, il Trips waiver ha trovato un consenso sempre più trasversale tra le famiglie politiche europee: non solo la sinistra, o i verdi, ma anche i socialdemocratici, e qualche sostenitore in altri gruppi. Ma al momento di votare una risoluzione sul tema, popolari, conservatori e liberali hanno frenato e l’esito è un testo congiunto, sì, ma senza la richiesta di sospensione dei brevetti. Sinistra, verdi e socialdemocratici sperano di reinserire il punto attraverso emendamenti, ogni gruppo ha presentato i suoi, e la speranza è che qualche battitore libero, magari dentro Renew, porti i numeri. A maggio un emendamento pro-deroga in questo modo è passato. Ma se il piano saltasse, sarebbe un boomerang. “Ma ci rendiamo conto? L’Europa, con la sua tradizione di diritti e di stato sociale, rischia di essere più conservatrice degli Usa, e tutto questo per difendere Big Pharma”, dice Dimitrios Papadimoulis della sinistra. La società civile, che ha avuto un suo ruolo nel cambio di posizione di Joe Biden, spedisce appelli agli eurodeputati. Ci sono oltre 230 tra associazioni e sindacati, oltre 170 tra Premi Nobel ed ex premier, e c’è pure papa Francesco, a chiedere il Trips waiver. Oltre 203mila europei hanno firmato l’iniziativa “Right to cure”. Il rischio è che proprio dall’europarlamento, la più progressista tra le istituzioni Ue, arrivi un segnale non favorevole. “Questo è un momento decisivo, non c’è spazio per posizioni pavide né per misure inefficaci. Ci aspettiamo dagli eletti una posizione chiara”: così ieri le ong Global Health Advocates, Health Action International, Human Rights Watch, Médecins Sans Frontières e Oxfam, si sono rivolte via mail agli eletti. Ultima chance per evitare una disfatta. Migranti. La bozza di maggioranza per sostenere la linea Draghi di Tommaso Ciriaco La Repubblica, 9 giugno 2021 Dai salvataggi in mare alla redistribuzione e aiuti alla Libia. Ci lavora il Pd. Contatti con Viminale e Chigi. Si punta a tenere dentro anche Salvini in vista del Consiglio Ue di fine mese. Mentre i ministri degli Interni europei sembrano arrancare anche per rilanciare il patto di Malta sulla redistribuzione volontaria dei migranti tra Paesi volenterosi dell’Unione, la maggioranza di governo prova a costruire le condizioni per aiutare Mario Draghi nel difficile negoziato in Europa, in vista del Consiglio europeo del 24-25 giugno. L’obiettivo è portare l’Unione a investire - politicamente e finanziariamente - sui Paesi costieri del Nord Africa. Contestualmente, si mira a favorire un’intesa per la chiusura dei campi in Libia, per rafforzare i salvataggi in mare e creare corridoi umanitari, oltreché per puntare sui rimpatri assistiti. Sono tutte linee guida della mozione che il Partito democratico sta scrivendo proprio in queste ore, in vista del passaggio parlamentare del 21 giugno, alla vigila del summit dei leader Ue di fine mese. Una bozza che il Nazareno sta negoziando con l’esecutivo, a partire dal Viminale. E che ha l’ambizione di diventare testo condiviso di maggioranza - Salvini permettendo - che aiuti il premier nella difficile trattativa a Bruxelles. È una partita tutta in salita. Un accordo complessivo in sede europea sconta resistenze fortissime dei Paesi di Visegrad. Sono le capitali di solito “gestite” con grande abilità da Angela Merkel. Nulla di tutto questo è più possibile, a causa delle imminenti elezioni tedesche che sanciranno la fine dell’era della Cancelliera. La conseguenza è lo stallo della grande riforma dei migranti presentata ormai dieci mesi fa dalla Commissione di Ursula von der Leyen, rimasta lettera morta a causa dei veti incrociati dei Paesi dell’Est e di quelli Mediterranei, che la giudicano troppo timida. E siamo all’oggi. Draghi, come è noto, su muove su due binari. Il primo è quello che mira a rafforzare l’intesa con Parigi, per costruire la stabilizzazione del teatro libico. Il secondo passa dalla pressione diplomatica per far avanzare il negoziato a Bruxelles. Le resistenze, però, restano. Per questo, proprio la segreteria del Partito democratico ha affidato a Enrico Borghi e Lia Quartapelle la missione di elaborare un testo che possa nello stesso tempo segnare l’identità del partito e aiutare il governo in vista della battaglia in Europa. Nelle scorse settimane, riservatamente, la piattaforma è stata illustrata alla ministra Luciana Lamorgese. E non sono mancati i contatti con Palazzo Chigi. Ne sta uscendo fuori un testo che prevede tra i punti centrali alcuni principi: salvataggi in mare, corridoi umanitari e chiusura dei campi in Libia, redistribuzione dei migranti, rimpatri assistiti e integrazione degli aventi diritto (anche sulla base delle esigenze dei Paesi “ospitanti”). E ancora, presidio delle frontiere Sud della Libia, con particolare attenzione alle vicende del Sahel (dossier che sta a cuore soprattutto a Macron). Infine, un piano europeo per l’Africa che punti a sostituire l’economia illegale basata sul traffico illecito di esseri umani con investimenti sullo sviluppo. Nella bozza è stato inserito anche il richiamo al rischio che i flussi migratori illegali possano essere utilizzati da potenze straniere ai fini di una cinica competizione geopolitica. L’obiettivo è portare anche Matteo Salvini e il resto del centrodestra su questa linea. Facendo leva sul fatto che gran parte del piano richiama principi enunciati proprio da Draghi. Tutto per sostenere lo sforzo del premier in Europa. Nel frattempo, anche l’incontro tra i ministri dell’Interno non sembra portare a risultati sul fronte del patto di Malta (che tra l’altro lo stesso Draghi considerava non sufficiente a risolvere in modo strutturale i nodi sul tavolo). Lo lascia intendere anche Luciana Lamorgese, che rivolgendosi ai colleghi continentali ha insistito sulla necessità di sostenere i Paesi della sponda africana: “Per ridurre la pressione migratoria ai confini esterni europei, e conseguentemente anche i movimenti secondari all’interno dell’Unione - ha detto - dobbiamo intensificare tutti i nostri sforzi a livello politico affinché le istituzioni della Ue pongano subito mano a robusti accordi di partenariato strategico con i Paesi di origine e di transito dei flussi migratori, a partire dalla Libia e dalla Tunisia, per consolidare i processi di stabilizzazione in atto e per contribuire al loro sviluppo economico”. È lo stesso pallino di Draghi. Il premier italiano, assieme a Macron, punta a rafforzare anche finanziariamente Tripoli per stabilizzare l’attuale quadro politico, nonostante le resistenze del blocco dell’Est Europa. “Per i Paesi mediterranei riuniti nel gruppo Med5 - ha aggiunto non a caso Lamorgese - è fondamentale che la trattativa sul nuovo Patto immigrazione e asilo segua contemporaneamente, su un doppio binario: i temi legati alla responsabilità e quelli concernenti la solidarietà tra Stati membri con la previsione di un equo meccanismo di redistribuzione dei migranti in Europa”. Non sarà un obiettivo facile da raggiungere. In Europa niente accordo sui migranti e l’Italia accetta di trattare di Carlo Lania Il Manifesto, 9 giugno 2021 Il vertice dei ministri dell’Interno. In Lussemburgo non si parla di ricollocamenti. Via libera sul regolamento Easo. Non riuscendo a mettersi d’accordo su come gestire i flussi di migranti in arrivo, l’Unione europea trova una strategia comune nel guardare fuori dai propri confini scegliendo - cosa tra l’altro non nuova - di intensificare i rapporti con i Paesi di origine di quanti cercano di attraversare il Mediterraneo. Il che significa provare a siglare accordi bilaterali per i rimpatri, affiancati da aiuti economici utili per rendere le frontiere africane più difficili da attraversare. A cominciare, è stato sottolineato nel vertice dei ministri degli Interni che si è tenuto ieri a Lussemburgo, da Tunisia e Libia, principali Paesi di partenza dei barconi. Il tutto nella speranza di riuscire a trovare una mediazione possibile entro il 24 giugno, quando a Bruxelles torneranno a riunirsi i capi di Stato e di governo. “Per i Paesi mediterranei riuniti nel gruppo Med5 (oltre all’Italia ci sono Spagna, Grecia, Cipro e Malta, ndr) è fondamentale che la trattativa sul nuovo Patto immigrazione e asilo segua contemporaneamente i temi legati alla responsabilità e quelli concernenti la solidarietà tra Stati membri”, aveva spiegato prima dell’incontro la ministra Luciana Lamorgese. Per l’Italia, che da tempo spinge per un maggiore impegno dei partner europei nella ricollocazione dei migranti, è difficile considerare il summit un successo visto che, come ammesso dalla commissaria agli Affari interni Ylva Johansson, “non si è discusso di schemi volontari di redistribuzione dei richiedenti asilo tra i Paesi Ue, come quello concordato a Malta tempo fa”. Ricreare quell’accordo tra Paesi “volonterosi”, siglato alla Valletta da Lamorgese poco dopo il suo arrivo al Viminale nel 2019 e poi naufragato a causa della pandemia, era uno degli obiettivi che l’Italia sperava di raggiungere in mancanza di un meccanismo che rendesse finalmente obbligatorio per tutti gli Stati accogliere i richiedenti asilo. Che anche questo risultato minimo fosse però in bilico lo si era capito da giorni. Nonostante le promesse, sia Germania che Francia hanno fatto sapere di non essere interessate, riducendo così il gruppo dei “volenterosi” ai soli Irlanda, Lussemburgo e Lituania, per un totale di appena 28 posti con la Lituania che per di più da giorni chiede aiuto all’Unione europea per fermare i tentativi della Bielorussia di far attraversare le sue frontiere da gruppi di migranti. La strada è talmente in salita da costringere l’Italia a cambiare la propria strategia. Finora, infatti, Roma ha sempre sostenuto di voler modificare il Patto su Immigrazione e asilo presentato lo scorso settembre dalla presidente Ursula von der Leyen discutendo tutti insieme i punti su quali non è d’accordo, a partire proprio dai ricollocamenti. Ieri, di fronte al muro opposto da Austria, Danimarca, Ungheria, Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia, ma anche al passo indietro fatto nel frattempo da Berlino e Parigi, i ministri dell’Intero di tutto il gruppo Med5 hanno comunicato con una lettera di voler arrivare a un compromesso accettando intanto di sbloccare le trattative sul regolamento dell’Easo, l’Agenzia europea per l’asilo. Un passo in avanti definito “un grande successo” dal ministro dell’Interno portoghese Eduardo Cabrita, e che potrebbe avere ripercussioni sul vertice di fine mese. Appuntamento reso però più complicato da un’altra lettera fatta arrivare sempre ieri a Bruxelles e sottoscritta questa volta da Germania, Lussemburgo, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Svizzera. Alla Commissione europea i sei Stati dell’area Schengen chiedono di fermare i movimenti secondari dalla Grecia, ovvero quei migranti che dopo aver presentato richiesta di asilo ad Atene, si mettono in viaggio verso il nord Europa con l’intenzione di raggiungere, prima fra tutti, la Germania. Finché non daremo risposta a Musa Balde l’Italia non sarà civile di Gianni Cuperlo* Il Domani, 9 giugno 2021 L’errore è convincersi che nulla e nessuno abbia reagito o mosso un dito o proferito verbo dopo la vicenda di Musa Balde. Ieri la rubrica delle lettere di questo giornale ha ospitato lo sfogo di un lettore, Nazzareno Tittarelli, contro l’indifferenza che la politica, tutta, avrebbe mostrato verso la tragedia di Musa Balde, 23 anni, nativo del Gambia, morto suicida nel Cpr (Centro di permanenza per il rimpatrio) di Torino. Musa Balde era in Italia dal 2017 dopo essere fuggito da disperazione e terrore nel suo paese. Qui da noi voleva integrarsi, studiare, e lo ha fatto con una licenza di terza media conseguita a un anno dall’arrivo. Neppure quella, però, gli è bastata per essere accolto dal paese che doveva restituirgli una speranza di vita. Mesi, anni, sono trascorsi così, mentre le prospettive dell’integrazione si allontanavano. Sino ai primi di maggio quando a Ventimiglia è rimasto vittima di un pestaggio da parte di tre sbandati. Lo hanno picchiato perché, a dire loro, stava rubando un telefonino. In verità stava semplicemente elemosinando qualche moneta. Come nei brutti film o nelle storie paradossali i tre se la sono cavata senza guai, lui no. Lui non avendo documenti in regola, non potendone avere, è finito nel Cpr di Corso Brunelleschi, sotto la Mole. Ci è restato poco perché nella notte del 22 maggio non ha resistito oltre e ha scelto di andarsene e di farlo nel solo modo possibile. Il nostro lettore ha una ragione e un torto e credo meriti una risposta su entrambi. L’errore è convincersi che nulla e nessuno abbia reagito o mosso un dito o proferito verbo. Alcuni lo hanno fatto, tra i primi gli avvocati in toga, alcune centinaia scesi in piazza Castello a denunciare quello che molti sapevano e sanno. Gianluca Vitale, uno di loro, Musa Balde lo ha incontrato dietro le mura del Cpr e il luogo lo descrive così: “Gabbie come pollai, situazioni non degne di un paese civile”. La proposta - Da giuristi hanno chiesto e preteso la chiusura di quei centri, luoghi di afflizione nati in una stagione lontana, era il 1998 e il Testo unico sull’immigrazione a doppia firma Turco-Napolitano prevedeva un tempo massimo di trenta giorni per trattenere persone in attesa di espulsione. Il duo Bossi-Fini quel periodo ha pensato bene di raddoppiarlo mentre il leader attuale della Lega nella sua permanenza al Viminale lo aveva portato a un anno e mezzo, tempo ridotto dalla ministra Lamorgese a novanta giorni. Un rimpallo della tempistica, ma lì dentro come in altri contesti eguali si è continuato a soffrire e morire. Sei sono le persone decedute in quei Centri dal giugno 2019. Per la verità anche la politica, o parte di essa, un colpo lo ha battuto. Due esponenti locali del Pd e di Liberi uguali verdi, Domenico Rossi e Marco Grimaldi, all’indomani della tragedia nel Cpr sono entrati, hanno raccolto le testimonianze e denunciato l’assenza di supporto e controllo verso Musa Balde fin dal momento dell’arrivo. Hanno parlato della riduzione di servizi di aiuto per “detenuti” che “detenuti” non sono: sedici ore settimanali di assistenza psicologica per cento persone, fa nove minuti e mezzo a testa. E ancora, cinque ore al giorno di presenza medica e trentasei alla settimana di mediazione culturale. Fino qui, dunque, la conferma che la morte annunciata di un ragazzo non è finita nel silenzio di tutti. E però il lettore di Domani, nella sua denuncia della politica silente e immobile, ha più di una ragione. La prima è nell’aver lasciato che una situazione simile si rinnovasse nel tempo. La colpa grave, soprattutto quando al governo un pezzo della sinistra non era costretta a convivere con la Lega, è nell’avere rinviato un azzeramento delle peggiori soluzioni messe in atto dalla destra. L’altra responsabilità non giustificabile è l’avere evocato migliaia di volte, ma senza esito, il superamento di quel reato di clandestinità che punendo una condizione oggettiva e non un presunto reato ha violato il perimetro dello stato di diritto col risultato di recludere per un tempo dilatato donne e uomini senza fornire neppure un motivo che sorreggesse la privazione più grave, quella della loro libertà. Non serviva la morte di Musa Balde a certificare il fallimento di un sistema che negli anni ha caricato di sofferenze corpi già prostrati, il tutto alimentando inefficienze e costi privi di qualunque senno. Spiega Massimiliano Bagaglini, responsabile migranti del Garante nazionale delle persone private della libertà personale: “Non esiste una legge organica che regola la vita all’interno dei centri e definisce la modalità di trattenimento”. Se è così, e le cose stanno precisamente così, dovremmo concludere che in assenza di una legge che lì dentro “regoli la vita” se ne è affermata un’altra, mai votata da nessuno, che legittima la morte di un ragazzo senz’altra colpa dalla propria miseria. Possiamo gioire di una ripresa dell’economia e del tutto esaurito nei ristoranti, ma se l’Italia e il governo che c’è non daranno risposta alla tragedia di Musa Balde sarà difficile dirsi di nuovo un paese civile. *Dirigente Pd La sfida di spiegare i diritti a comunità chiuse come quella di Saman di Gianfranco Pasquino* Il Domani, 9 giugno 2021 Per spiegare la probabile uccisione di Saman Abbas ad opera dello zio, credo che il punto di partenza più utile sia quello espresso dal presidente delle comunità islamiche in Italia: i matrimoni combinati sono “una pratica tribale che non ha nessuna giustificazione religiosa”. Tutti i casi che segnalano sofferenze e discriminazioni per il colore della pelle, per il genere, per le scelte di vita debbono essere trattati come unici, esemplari. Cercare una causa generale che li comprenda e li spieghi tutti insieme indistintamente come il prodotto di una religione, di una (in)cultura, di un contesto ampio non solo non offre lezioni utilizzabili per una futura prevenzione, ma finisce per oscurare le responsabilità e per impedire le contromisure. Anzi, sostanzialmente la ricerca di una causa generale approda ad una assoluzione delle nostre incapacità di comprensione. Per spiegare la probabile uccisione di Saman Abbas ad opera dello zio, credo che il punto di partenza più utile sia quello espresso dal presidente delle comunità islamiche in Italia: i matrimoni combinati sono “una pratica tribale che non ha nessuna giustificazione religiosa”. Naturalmente, è augurabile che questo sia l’insegnamento impartito in tutte le scuole islamiche non soltanto in Italia. E lecito dubitarne. Non dobbiamo, però, avere dubbi sul fatto che “pratiche tribali” sopravvivono in alcune, non poche, comunità di immigrati. Purtroppo, anche in Italia alcune di quelle pratiche hanno avuto lunga vita e, forse, non sono del tutto sparite. Non è questo il punto. Piuttosto, bisogna esplorare le modalità con le quali in maniera rispettosa delle persone e delle loro credenze è possibile insegnare quanto importanti debbano essere considerati i diritti, a cominciare da quelli delle donne e dei bambini e, più in generale, di tutti i “diversi”. Ho la tentazione di sostenere che i problemi nascono e crescono nell’ambito di comunità chiuse che difendono e impongono le loro tradizioni sulle nuove generazioni che a contatto con la modernità vorrebbero liberarsene. Conoscere come funzionano e come si comportano quelle comunità è decisivo sia per liberare le componenti che desiderano vivere una vita diversa sia per aprire quelle stesse comunità a nuove opportunità e a nuove visioni. Talvolta, invece, vedo affermare/rsi una concezione di multiculturalismo che giustifica oppressione e persino crimini in nome del riconoscimento che “questa/quella è la loro cultura”. Poiché ho scritto che preferisco che non si proceda in maniera troppo generale che diventerebbe vaghissima, ritengo che le migliori risposte al multiculturalismo nella versione sopra delineata, si trovino nelle varie dichiarazioni dei diritti prodotte dalle Nazioni Uniti e, per quel che riguarda le democrazie occidentali, nelle rispettive Costituzioni. La domanda allora diventa ineludibilmente: quanto noi cittadini/e di queste democrazie ci comportiamo osservando e attuando quelle norme mostrando nei nostri comportamenti “universalistici” che nessuna discriminazione è accettabile? Quanto nelle scuole questo è il messaggio insegnato, ribadito, fatto valere? Quanto gli operatori culturali addetti all’accoglienza e all’inserimento dei migranti nei contesti europeo e italiano sfidano le tradizioni che vanno contro i diritti umani? Per essere convincenti e esaurienti, le risposte debbono essere molto documentate, nel tempo e nello spazio, in una molteplicità di contesti. Anche eventuali, possibili carenze da parte delle autorità, però, non debbono mai condurre alla conclusione di loro responsabilità salvo che si tratti di omissioni consapevoli e provate. La responsabilità di comportamenti contro la legge fino agli omicidi rimane sempre di coloro che si impegnano in intollerabili “pratiche tribali”. Poi discuteremo se, perché, quanto e come quelle pratiche trovino giustificazioni religiose, a mio modo di vedere, mai attenuanti, ma aggravanti. *Professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna Saman: non piace a nessuno stare come te di Marcello Pesarini Ristretti Orizzonti, 9 giugno 2021 Due sere fa per la prima volta ho ascoltato per radio una discussione seria sulle vicende che ora portano il nome di Saman Abbas, ma hanno e avranno una storia lunga, tragica, per le donne che l’hanno subita anche in Italia. Per intelligenza dei registi sono stati invitati/e a parlare rappresentanti di testate locali e associazioni di mutuo aiuto non identificabili nello schieramento politico. Il risultato? Un senso di mortificazione in chi, incluso chi scrive, resta legato a una serie di stereotipi del tipo” è un’usanza di quel popolo, non ci possiamo intromettere”, mentre ci veniva rivelato che molte donne nel loro paese indossavano vestiti occidentali, e in Europa, costretti anche dalla non accettazione del loro colore di pelle e lingua, finivano a essere ricondotte in alvei difensivi patriarcali, per essere picchiate, promesse in spose e uccise se non accettano. Non esistono schemi, modelli, neanche nel male. Non esiste, purtroppo, solidarietà femminile, come fatica ad emergere la figura della donna nella mafia d’oggi. Il solo fratellino di Saman la comprendeva, mentre la madre, per confermare il suo ruolo all’interno del nucleo familiare, è stata durissima con sua figlia. Così mi vengono chiari gli atteggiamenti che trovo quando vado nei quartieri a maggioranza araba nella mia città; sono cambiati da quando li frequentavo per organizzare riunioni della Rete Migranti Diritti Ora!, quando organizzavamo le cose assieme perché si parlava, anche ingenuamente, di lotta di classe, non solo di accoglienza. Erano momenti qualificanti, quelli in cui parlavamo in maniera meno paternalistica con chi veniva da terre lontane e che, come i bangladeshi, erano già abituati a lavorare alle carrette del mare. Ora sono ai cantieri, nei subappalti, e fanno fatica a staccarsi dai loro connazionali, che sono i primi che controllano il lavoro, le buste paga truccate, gli accordi con le dita appaltanti. Ora, per me, è più facile comprendere questo arroccarsi sulle identità d’origine, con tutti i risvolti negativi. Anche la diffidenza nei confronti dei vicini di casa è aumentata, anche la loro nei miei confronti. Vorrei dire che abbiamo perso, e l’unico modo per reagire è uscire da questi stereotipi “politcally correct”: se una donna vuole essere libera in Italia come in Iraq (vedi gli ultimi esempi) è mio dovere di maschio internazionalista appoggiarla, e non trincerarmi dietro la retorica del velo scelto da loro. È ovvio che ci siano molte sfaccettature, come molte persone più giovani di me che mi contesterebbero. Ma ne ho conosciute altre, che mi hanno dato speranza. Rivolgo un pensiero di speranza pensando alle manifestazioni Pro Palestina organizzate da donne universitarie di seconda generazione, col velo e anche vestite all’occidentale, molto decise, preparate, allegre, che avevano molto da insegnare agli universitari maschi che le avevano seguite, e hanno concluso il tutto con danze multicolori. Droghe & pandemia, non tornare a prima. La “normalità” fa male di Stefano Vecchio Il Manifesto, 9 giugno 2021 Di fronte a questo scenario dell’emergenza pandemica che ha acuito le contraddizioni già ribollenti di trent’anni di politiche proibizioniste fallimentari sulle droghe, occultando ulteriormente i danni collegati, abbiamo individuato il tema delle leggi come orizzonte per la ripresa della nostra iniziativa politica, sia sulla depenalizzazione e decriminalizzazione di tutte condotte legate all’uso di droghe che sulla legalizzazione della cannabis. L’anno scorso in piena emergenza pandemica Forum Droghe ha festeggiato il suo venticinquesimo compleanno mettendo al centro il tema dell’esigenza di una ripresa dell’azione politica secondo nuove prospettive. Dopo un anno, in occasione della assemblea annuale che si terrà venerdì undici giugno di questo 2021, ci incontreremo scegliendo come filo conduttore il tema dell’iniziativa politica che è ancora un punto nodale e sospeso delle nostre riflessioni e del nostro impegno. Le droghe nel corso della pandemia pure hanno fatto capolino più volte nello scenario dei media che non hanno esitato a riproporne le immagini più arretrate e stigmatizzanti. Di fronte a questo scenario dell’emergenza pandemica che ha acuito le contraddizioni già ribollenti di trent’anni di politiche proibizioniste fallimentari sulle droghe, occultando ulteriormente i danni collegati, abbiamo individuato il tema delle leggi come orizzonte per la ripresa della nostra iniziativa politica, sia sulla depenalizzazione e decriminalizzazione di tutte condotte legate all’uso di droghe che sulla legalizzazione della cannabis. Lo faremo insieme alle nostre reti in coerenza con la nostra vocazione originaria di “forum” di incontri e confronti. Vogliamo ripensare a come rilanciare il senso che attribuiamo ai contenuti di cambiamento radicale che queste proposte di legge esprimono. In particolare intendiamo impegnarci a elaborare una strategia di comunicazione più efficace per diffondere questi principi in modo comprensibile tra la popolazione anche attraverso il coinvolgimento critico dei media richiamando la funzione etica legata al ruolo che svolgono verso l’opinione pubblica. Nello stesso tempo pensiamo a riattivare il dibattito con il mondo variegato della politica distratta dall’emergenza, intensificando alcune iniziative positive già in atto di rinnovato dialogo con la società civile. Partiamo da una considerazione di fondo: le due leggi delineano un cambiamento epocale dello sguardo politico e sociale sul fenomeno dell’uso delle sostanze psicoattive spostando il baricentro dalla repressione, che ha fallito nei suoi stessi obiettivi e dal controllo del mercato da parte della criminalità organizzata, verso il governo legale diffuso del fenomeno, verso una regolazione sociale degli usi di droghe, verso il riconoscimento delle competenze delle persone a autoregolarsi, verso il recupero della garanzia dei diritti violati dalla legge, verso la costituzione di uno spazio conviviale nelle relazioni tra le persone. Si comprende come nelle nostre intenzioni, le due proposte di legge prima ancora di delineare un iter normativo parlamentare rappresentino una vera e propria piattaforma politica e culturale di riferimento a partire dalla quale è possibile individuare anche obiettivi intermedi e parziali per le nostre iniziative nel tempo presente e per promuovere un discorso laico aprendo uno spazio pubblico con la cittadinanza. All’interno di questo orizzonte discuteremo sulla opportunità di riscrivere i nostri principi in un nuovo testo di legge autonomo e compiuto per la depenalizzazione e decriminalizzazione dei comportamenti connessi con gli usi di droghe, che non si presenti come una modifica o abrogazione degli articoli della attuale normativa. E, nello stesso tempo, discuteremo su come rendere più leggibili e comprensibili i principi alla base delle proposte di legge sulla legalizzazione della cannabis, i vantaggi che comportano per la salute e le relazioni sociali, familiari e la vita delle persone e non solo dei consumatori. Si tratta anche di disarmare l’attenzione mediatica verso un proibizionismo becero delle nuove destre nostrane. Il nostro impegno in questo orizzonte si orienterà nell’ allargare in modo esponenziale il dibattito pubblico e rendere sempre più incisiva l’iniziativa politica. Stati Uniti. Le esecuzioni capitali diminuiscono, ma la battaglia politica continua di Matteo Muzio Il Domani, 9 giugno 2021 Nel 2021 si dovrebbero portare a termine soltanto dieci esecuzioni, il record negativo dal 1983, ma gli stati governati dai repubblicani resistono alla moratoria proposta da Joe Biden e pensano a modalità sempre più sinistre per aggirare il rifiuto delle aziende farmaceutiche di fornire le droghe letali. L’immagine del condannato che attraversa un lungo corridoio, si distende su un lettino, viene legato con delle cinghie e poi gli viene iniettato un potente barbiturico nelle vene è sempre più rara nelle prigioni americane. Tutt’altro che il revival sognato dall’amministrazione Trump, che a cavallo tra il 2020 e il 2021 ha deciso di mandare al patibolo ben tredici persone in attesa della sentenza capitale comminata dal governo federale. Le sentenze di morte nel penitenziario federale di Terre Haute, in Indiana, sono riprese dopo l’ultima che era stata comminata dal suo predecessore George W. Bush il 18 marzo 2003, due giorni prima dell’invasione dell’Iraq. Da allora molte cose sono cambiate, a cominciare dai freddi numeri. In quell’anno, sul territorio americano, erano avvenute 65 esecuzioni, di cui 25 nel solo Texas e alcune proclamate da governatori democratici, tra cui l’allora governatore della Virginia, Mark Warner, attuale presidente della commissione intelligence al Senato. Passiamo al 2019, l’anno prima della pandemia, dove il confronto non è falsato dai rallentamenti dovuti alle condizioni di sicurezza dovute al Covid: 22 esecuzioni, quasi tutte nel sud ex confederato, tranne una, eseguita in South Dakota. Una drastica riduzione. Secondo le informazioni fornite dal Death Penalty Information Center, nel corso del 2021 si dovrebbero portare a termine soltanto dieci esecuzioni, il record negativo dal 1983. Non è solo merito dell’abolizione portata a compimento negli stati governati dai democratici: la Virginia è stata l’ultimo stato nel 2021, ma anche l’ultimo a portare a termine una condanna il 6 luglio 2017 con la firma del governatore Terry McAuliffe, il ventitreesimo stato a cancellarla formalmente. I farmaci letali scarseggiano - Ma c’è anche la scarsità delle droghe usate nelle iniezioni letali, da circa trent’anni il metodo prevalente usato dai boia statali. L’originario cocktail di tre droghe è sempre stato più difficilmente reperibile a causa della riluttanza delle aziende farmaceutiche a fornire i farmaci, usati principalmente come anestetici o nell’eutanasia, ai singoli stati. Per questo dal 2017 a oggi di fatto l’unica alternativa è rimasta il pentobarbital, utilizzato per la prima volta in Missouri nel novembre 2013 per l’esecuzione di un serial killer, che normalmente è prescitto come sonnifero veterinario. Una sola droga che peraltro è stata criticata per causare inutili sofferenze al condannato, secondo un rapporto del Bureau of Prisons presentato al procuratore generale Jeff Sessions nel 2017 all’interno del quale si affermava che questa iniezione dava ai condannati una sensazione come di “annegamento”. Ma nonostante questo, nelle conclusioni del rapporto si ridimensionava questa preoccupazione, definendolo come un metodo “umano” di esecuzione. Il produttore di questa droga, l’azienda danese Lundbeck, però non è convinta da questa spiegazione e ne ha proibito la distribuzione alle prigioni statunitensi. Come si sono organizzati quindi gli Stati come il Texas che fanno un ampio uso della pena capitale, dopo che anche l’azienda americana Pfizer ne ha proibito la vendita nel 2016? Hanno cominciato a produrre attraverso delle aziende locali dei preparati simili al pentobarbital, fuori dal controllo della Food and Drug Administration. E per evitare ritorsioni con le aziende coinvolte, gli scambi avvengono con un protocollo di segretezza tale che è impossibile rintracciare chi le ha fabbricate. Non solo: per prolungare l’utilizzo del farmaco, spesso la scadenza viene rimandata. Secondo un’inchiesta del Texas Tribune, questa pratica riduce l’efficacia delle esecuzioni e rischia di renderle più dolorose e lente. Ci sono degli esempi drammatici: nell’aprile 2014 in Oklahoma è finito sul lettino del boia il serial killer Clayton Lockett: durante l’inoculazione la sua vena è collassata ed è morto molti minuti dopo per arresto cardiaco. Nel 2018 in Alabama Doyle Hamm, condannato per aver ucciso un dipendente di albergo durante una rapina nel 1987, malato di cancro terminale alla gola, è stato sottoposto per due ore a una ricerca estenuante della vena dove infilare l’ago, prima di cancellare l’esecuzione per l’impossibilità di portarla a termine. L’Ohio, governato dal repubblicano Mike DeWine, ha deciso di posticipare sine die tutte le esecuzioni finché non verrà trovato un metodo sicuro. La California ha attuato una moratoria sin dal 2006, nonostante circa 747 detenuti siano nel braccio della morte e di fatto stanno scontando l’ergastolo. Ma altri due stati repubblicani hanno deciso di ripristinare vecchi metodi per portare a compimento le sentenze: la South Carolina lo scorso 14 maggio ha promulgato una legge che, qualora non siano disponibili le sostanze necessarie, il condannato può scegliere tra la sedia elettrica e la fucilazione. In questo modo il governatore Henry McMasters ha potuto programmare due esecuzioni per il mese di giugno. La camera a gas - Invece l’Arizona, che aveva sospeso le condanne dopo che nel 2014 il detenuto Joseph Wood era morto dopo due ore dopo aver ricevuto un cocktail sperimentale di farmaci, ha deciso di tornare a un metodo come la camera a gas: secondo un’inchiesta del Guardian l’Arizona Department of Correction ha acquistato gli ingredienti per produrre l’acido cianidrico allo stato gassoso, tra cui un blocco solido di cianuro di potassio costato 1.530 dollari. Non solo: ha iniziato la ristrutturazione della struttura, costruita nel 1949 e inutilizzata da ventidue anni. A suonare ancor più sinistro è il fatto che la sostanza prodotta sarebbe molto simile allo Zyklon B utilizzato nei lager nazisti. Senza contare che la riproposizione di un simile metodo incontrerebbe sicuramente di ricorsi legali. Possiamo quindi tornare alla scelta di Trump e del suo Procuratore Generale William Barr di abolire la moratoria sulla pena di morte federale. Scelta supportata dalla profonda trasformazione attuata nella composizione della Corte suprema, dove c’è una robusta maggioranza di 6 giudici su 9 favorevoli al mantenimento delle esecuzioni di stato. Questi ultimi potrebbero quindi mettere in discussione la proposta di Joe Biden di cancellare la pena di morte a livello federale. E consentire agli stati che fanno uso del boia di continuare con la pratica, contro un boicottaggio globale delle aziende farmaceutiche. Stati Uniti. Dallo spaccio alla toga, la nuova vita di Edward grazie a un giudice di Sara Gandolfi Corriere della Sera, 9 giugno 2021 Era stato arrestato per droga nel Michigan. A distanza di 16 anni si è presentato in Tribunale davanti allo stesso giudice per giurare come avvocato. La sua storia ha conquistato le pagine del Washington Post e di molti altri quotidiani americani. La riproponiamo qui, a testimonianza che è sempre utile offrire una seconda occasione, anche a chi all’apparenza non la merita o non la chiede, e che il sistema giudiziario ha il dovere di offrire a tutti, quando possibile, un rientro a pieno titolo nella società. La prima volta che Edward Martell si è presentato nell’aula del giudice Bruce Morrow, nella contea di Wayne, in Michigan, aveva 27 anni ed era considerato un “dropout”, un emarginato, quasi uno scarto della società. Aveva abbandonato la scuola superiore con una lunga fedina penale che risaliva addirittura alla pre-adolescenza. Era il 2005 e Martell, di origini latino-americane, era stato da poco rilasciato su cauzione quando fu arrestato nuovamente, per traffico di droga, qualche giorno prima del compleanno di sua madre. Si dichiarò colpevole di vendita e produzione di cocaina crack, era passibile di una condanna fino a 20 anni di carcere. Nessuno avrebbe più scommesso su di lui, una “mela marcia”. “Qualsiasi altro giudice mi avrebbe asfaltato”, ha ricordato in un’intervista al giornale Deadline Detroit. Il giudice Morrow, però, aveva altri piani. Ha condannato Martell a tre anni di libertà vigilata, invitando però a fare qualcosa di se stesso prima che fosse troppo tardi. Lo scorso 14 maggio, Martell è tornato in un’aula di tribunale, davanti al giudice Morrow, accompagnato da due avvocati e dai suoi familiari. E ha prestato giuramento... A 43 anni è diventato avvocato dello Stato del Michigan. Vent’anni prima il giudice aveva visto in lui un giovane intelligente, persino brillante. “Un uomo proveniente da un ambiente economicamente depresso, con la polizia sempre alle calcagna, non aveva mai avuto una chance, capii che dovevo dargliela io”, ha spiegato Morrow. “Pensavo che, se solo ne avesse avuto l’opportunità, poteva essere qualsiasi cosa volesse essere”. Aveva ragione. Nei quindici anni successivi alla sentenza, giudice e condannato sono rimasti in contatto regolarmente. Dopo la laurea al college, Martell ha vinto una borsa di studio all’Università di Detroit Mercy e ha fatto un tirocinio presso il Federal Public Defender per il Distretto di Columbia. “La maggior parte dei fallimenti - ha concluso il giudice Morrow - derivano dal fatto che le persone che hanno più bisogno di aiuto spesso non lo ottengono mai”. Se si dà loro fiducia, però, possono davvero sorprendere. Sudan. Caso Zennaro, rischio rinvio a giudizio per un’altra causa di Giacomo Costa Corriere del Veneto, 9 giugno 2021 Un passo a destra, due a sinistra, nessuno in avanti. Le autorità sudanesi continuano a trattenere in arresto Marco Zennaro, l’imprenditore veneziano accusato di frode per una partita di trasformatori elettrici che la sua azienda aveva venduto a un intermediario del posto, il quale avrebbe dovuto poi rivenderli alla società deputata a gestire l’illuminazione pubblica nel Paese. Ora il 46enne sembra saltare da un inferno all’altro: dopo una settimana di carcere “vero” è tornato nel suo golgota personale, la cella del commissariato. Tra l’altro rischia il rinvio a giudizio in un secondo procedimento giudiziario. Lo scrive il portale Focus On Africa sottolineando che è comparso nuovamente davanti alla corte nella causa presentata da un’altra società di Dubai. Un nuovo procedimento contro cui il suo legale - che è a Khartoum - ha presentato ricorso per chiedere la non procedibilità in quanto la società in questione non avrebbe titolo per promuovere la causa. Zennaro aveva raggiunto la repubblica africana proprio per cercare di risolvere il problema commerciale, ma il primo aprile è stato incarcerato. Dopo oltre sessanta giorni chiuso in una cella di sicurezza del commissariato di Khartum, spazio che divideva con altre trenta persone e con picchi di caldo di 46 gradi (ma con un solo servizio igienico), sarebbe dovuto essere trasferito ai domiciliari in una struttura alberghiera, sempre nella capitale sudanese. Ma le cose non sono andate come speravano i familiari. L’udienza in tribunale è stata rimandata (comunque non prima di aver spostato il veneziano in un sottoscala del tribunale, dove è rimasto confinato per ore senza potersi muovere) e in attesa della prossima data - che sarebbe dovuta essere il 10 giugno, domani - si è deciso per il trasferimento dell’accusato nel carcere vero e proprio, a Ordurman. Non un bel segnale, ma tutti hanno cercato di concentrarsi sui pochi lati positivi: la casa circondariale era comunque più organizzata e razionale della sovraffollata cella del commissariato. Nemmeno questa volta le cose sono andate come ci si poteva augurare. “Lunedì Marco è stato condotto nuovamente davanti alla corte e poi di nuovo nella cella del commissariato - ha raccontato ieri il fratello Alvise - La sua condizione lì è ancora senza letto, senza materasso, ora con 50 gradi percepiti, senza diritto di visita, di movimento o d’aria”. Sembrerebbe infatti che il procuratore abbia disposto una nuova integrazione istruttoria - in poche parole un nuovo interrogatorio - e fino ad allora resterà nella sua cella “provvisoria”. Un orizzonte temporale, in questo caso, non c’è. A maggio sarebbe dovuta bastare una firma su un fascio di documenti già preparati per far uscire Zennaro ma quella firma non è mai arrivata. La paura ora è che si replichi. Bosnia. Ergastolo confermato a Mladic, il boia di Srebrenica: commise anche genocidio di Francesco Battistini Corriere della Sera, 9 giugno 2021 Carcere a vita per il generale, 79 anni, che guidò i serbi in Bosnia: il tribunale dell’Aja conferma in appello undici capi d’accusa. Fu il comandante che orchestrò il massacro di 8.372 uomini musulmani nel 1995. “Fu un genocidio”, buttate via la chiave. Dopo 26 anni, arriva la verità definitiva su uno dei peggiori criminali di guerra della storia. Ratko Mladic. Il Boia di Srebrenica. Il generale serbo-bosniaco che nel luglio 1995 ordinò il massacro di 8.372 persone (ma la cifra sulla lapide in memoria è stata scolpita coi puntini di sospensione: centinaia di corpi non sono mai stati trovati…). Lo stratega del più lungo e angosciante assedio del XX secolo, a Sarajevo. L’uomo che alla sua bambina, anziché le bambole, dava la pistola da pulire (finché la figlioletta non crebbe, non si vergognò di tanto padre e non sui suicidò). A 79 anni, Mladic è stato condannato definitivamente, all’ergastolo, per genocidio. Stanco e malato, non ha reagito al pronunciamento della corte e alle cinque toghe - tra cui la presidentessa, Prisca Matimba Nyambe, giudice dello Zambia - che elencavano tutte le accuse: genocidio, assassinio, sterminio, persecuzione, terrorismo… Gli hanno fatto solo uno sconto: assolto dall’accusa di genocidio per l’espulsione dei non-serbi da varie città, all’inizio della guerra. È una sentenza che risarcisce le vittime e incarognisce i carnefici. In un’atmosfera tesa, d’attesa. L’occasione per chiudere finalmente i conti col più spaventoso eccidio in Europa dai tempi della Seconda guerra mondiale. Oppure la scusa, come volevano i sostenitori di Mladic, per rileggere in ottica revisionistica gli anni cupi degli stupri etnici, dei cecchini sulle colline, dei campi di concentramento. I giudici del cosiddetto “Meccanismo residuale” dell’Aja, quel che ormai resta del disciolto Tribunale penale internazionale sull’ex Jugoslavia, hanno deciso di confermare il carcere a vita, già inflitto nel 2017 per crimini di guerra e contro l’umanità. E d’evitare una ripetizione del processo, cosa che invece sperava il figlio di Mladic. Bisognerà leggere le motivazioni. Che nel caso specifico assumono il valore d’un documento storico. Perché con questa decisione, i giudici dell’Aja erano chiamati a chiarire soprattutto un aspetto: se quello della Bosnia potesse essere considerato non solo una sequela terrificante di crimini di guerra e contro l’umanità, ma un vero genocidio. Ideato. Pianificato. Eseguito. Nascosto. Per cancellare un intero popolo. In primo grado, Mladic era già stato ritenuto colpevole di dieci degli undici capi d’accusa, ma assolto proprio dall’imputazione di genocidio (stavolta, gli sono stati “abbuonati” solo gli orrori a Foca, a Vlasenica, a Kljuc, a Sanski Most, a Kotor-Varos, a Prijedor, ovunque la sua soldataglia di Mladic organizzò violenze sessuali sistematiche, allestì lager, distrusse moschee). Stabilire se sia stato o no un genocidio, dicono i parenti delle vittime, era un passo importante. Specie ora che da parte serba si tende a ridimensionare i centomila morti della guerra e perfino a negare quel che accadde a Srebrenica, in quegli afosi giorni di luglio. C’è stata una certa attesa a Sarajevo, la città che a Mladic deve un bel po’ degli undicimila ammazzati fra il ‘92 e il ‘95. Al monumento che ricorda i 1.600 bambini uccisi durante l’assedio, non mancano neanche in queste ore fiori e candele. E pure al memoriale di Srebrenica, un’impressionante distesa di croci bianche, ogni giorno si vedono familiari delle vittime, visitatori sbalorditi, turisti attoniti. “È una giornata difficile”, ha confidato a Belgrado il premier serbo Aleksandar Vucic, nazionalista e in passato sostenitore delle guerre, da sempre critico sui processi dell’Aja (“ce l’hanno solo con noi serbi: ai nostri hanno inflitto 1.138 anni di reclusione, ai bosniaci soltanto 42…!”) e alle prese, proprio questa settimana, con la consegna al tribunale internazionale di due deputati ultranazionalisti. La diretta tv è stata seguita anche a Pale, capitale dell’enclave serba in Bosnia: qui, Mladic è ancora considerato un eroe della causa serba. Lunedì sera a Bratunac, 10 km da Srebrenica, nella piazza del paese si son trovati a proiettare un film celebrativo della sua vita. E Milorad Dodik, leader serbo-bosniaco e membro della presidenza della Bosnia Erzegovina, non ha problemi ad attaccare di nuovo L’Aja (“non è un luogo di giustizia”) e i suoi processi “politici”, che “non aiutano a riappacificare i popoli”. L’ombra nera di Mladic non si ferma ai Balcani: il pazzo australiano che nel 2019 ammazzò decine di musulmani a Christchurch, disse d’ispirarsi a lui. E così pure Anders Breivik, il suprematista norvegese che sparò su 77 ragazzi. Con questa condanna, si giunge a una verità definitiva sulla guerra di Bosnia. Perché mancava solo lui: è morto in cella Slobodan Milosevic, il presidente serbo che sconvolse i Balcani; è stato condannato a vita Radovan Karadzic, il capo dei serbi che ideò le pulizie etniche, da poco trasferito in un carcere inglese; sono stati prosciolti, scarcerati oppure assassinati gli altri comprimari di quella tragedia: da Vojislav Seselj a Biljana Plavsic, per non dire della feroce “tigre” Arkan. Ad aspettare l’ultima sentenza era rimasto solo Mladic. Ha voluto assistere al verdetto. E per l’ultima volta ha fuggito sprezzante lo sguardo delle Mamme di Srebrenica, presenti in aula: “Aspettavamo la parola fine”, dice una di loro. “Le nostre vite si sono fermate quel giorno. Ma serve un futuro, per chi è sopravvissuto”. Afghanistan. Gli italiani vanno via, le stragi restano di Giuliano Battiston Il Manifesto, 9 giugno 2021 Nella base militare di Herat, Lorenzo Guerini ammaina la bandiera. Ce ne andiamo ma non vi abbandoniamo, assicura il ministro della Difesa italiano. A Kabul, nel quartiere sciita di Dasht-e-Barchi, si chiedono giustizia e protezione. “Siamo sotto attacco, il governo non ci ascolta: chiediamo alle Nazioni unite, a tutti i Paesi del mondo di fermare gli attentati contro la comunità hazara, di trovare i colpevoli”. Mohammad Hussein Nazari ci accoglie sulla porta di casa, lungo una strada polverosa che sale sulla collina. Siamo nel quartiere occidentale di Dasht-e-Barchi. “Siamo sciiti, siamo hazara, vogliamo educare le nostre figlie e progredire. Per questo ci attaccano”. Sul cancello in metallo, un ritratto commemora la figlia Rehana, 16 anni, studentessa alla scuola Sayed al-Shohada, a qualche centinaio di metri da casa sua. Un mese fa, l’8 maggio, durante il Ramadan, un triplice attentato colpisce le studentesse che escono dalla scuola. “Erano le 4 e 30 del pomeriggio. In uscita c’erano 4.500 studenti e studentesse, 150 insegnanti, tra cui molti volontari”, ci racconta Aqila Tavaqoli, già insegnante, preside dal 2012. “La prima macchina imbottita di esplosivo è saltata in aria a cento metri dall’ingresso della scuola”. Fuori, annerite o scheggiate, le mura che costeggiano la scuola portano i segni della prima esplosione. “Poi, a distanza ravvicinata, altre due esplosioni”. Tavaqoli racconta di aver provato inutilmente a chiamare polizia e ambulanze, dopo la prima. Di aver visto crescere intorno a sé le richieste, le urla, le corse affrettate, le chiamate. Il caos. Il vuoto. “Sono svenuta. Quando mi sono ripresa la scuola era vuota”. Fuori, residenti e genitori fronteggiano una strage. La preside sostiene che le vittime “sono 79, di cui 72 studentesse, i feriti 275, almeno 500 le ragazze con problemi psicologici”. La lista ufficiale che otteniamo noi elenca 85 vittime, nomi, cognomi, classe e famiglia. Fuori dall’edificio principale della scuola, madri e padri sono in attesa, seduti su panche impolverate o in drappelli, al riparo dal sole. Ci mostrano fogli bollati, attestati, tessere studentesche, diagnosi mediche, richieste di mutuo. Chiedono aiuto, spiegazioni. Le figlie sono rimaste ferite, ma i loro nomi non compaiono nelle liste di chi ha diritto all’assistenza. Oppure gli aiuti tardano ad arrivare. Anche i soccorsi, ripetono tutti, sono arrivati in ritardo. Padri, madri, residenti, docenti, tutti qui hanno prestato aiuto, un mese fa. Trasportando feriti, raccogliendo i morti. “Non posso descrivere ciò che ho visto, è difficile da tollerare”, prova a ricordare Mohammad Hussein Nazari, il padre di Rehana. Zaini, libri, astucci, scarpe spaiate, insanguinate. Corpi non più riconoscibili. “Continuavo a controllare i corpi in terra, uno dopo l’altro, a cercare le mie figlie”. L’8 maggio scorso, alle 4 e mezzo del pomeriggio a uscire dalla scuola al-Shohada ci sono 4 figlie di Nazari. “Un parente mi ha chiamato per dirmi che Habiba e Hakima erano salve, a casa con la madre”. Poco dopo, “un altro mi avverte che anche Farzana era arrivata a casa”. La quarta figlia, Rehana, non si trova. “L’ho cercata ovunque, per ore, di ospedale in ospedale, sempre più preoccupato”. La ritrova all’ospedale Watan, lungo la via Shaheed Mazari. “L’ho dovuta riconoscere tra altri quindici corpi. Quindici studentesse. Tutte morte”. Chi le abbia uccise, non è dato saperlo. “Talebani, Daesh, qualcun altro. Non sappiamo chi sia stato. Sappiamo che siamo un obiettivo. Vogliamo protezione”, dichiara la preside Tavaqoli. La scuola è ancora chiusa. “Bisogna fare i conti con il trauma collettivo, con le difficoltà di tante ragazze e famiglie. C’è l’assistenza psicologica, ma non basta. Vogliamo riaprire, tornare a insegnare e imparare, ma prima servono garanzie sulla sicurezza”, spiega. Sulle sue spalle, il futuro della scuola, i rapporti con le autorità, le famiglie che recriminano, quelle che spingono per la riapertura, quelle che temono. Qui per gli hazara, la minoranza sciita perseguitata al tempo dell’Emirato islamico dei Talebani, oggi obiettivo della branca locale dello Stato islamico, è l’intero quartiere di Dasht-e-Barchi, l’intera comunità a essere sotto attacco. Su Twitter gli attivisti dell’ampia diaspora due giorni fa hanno chiesto #StopHazaraGenocide. C’è chi critica la distinzione: siamo tutte vittime, in Afghanistan. Mohammad Hussein Nazari, il padre di Rehana, lo sa. Più di 40 anni di guerra, 20 anni di quel conflitto che la bandiera ammainata da Guerini non chiude, hanno causato lutti in ogni famiglia. Senza distinzione. “Ma qui ci attaccano proprio in quanto hazara”, sottolinea. Elenca gli obiettivi degli ultimi attentati nel quartiere, “moschee, ospedali, palestre, perfino i reparti maternità. Vogliono ucciderci nel grembo, prima che nasciamo”. E scuole pubbliche come la Sayed al-Shohada, qui a Dasht-e-Barchi, a un’ora di auto dal centro, dalle ambasciate straniere in cui si preparano valigie e piani di evacuazione, dai ministeri, dall’Arg, il palazzo presidenziale. “Erano tutte studentesse, giovanissime. Non conoscevano violenza, cattiveria. Erano le più innocenti di tutta Kabul. Perché loro?”. Myanmar. Dopo l’arresto scompare nel nulla la regista Ma Aeint di Cristina Piccino Il Manifesto, 9 giugno 2021 I militari l’avrebbero condotta in un centro segreto di detenzione, dove si muore sotto tortura. Dal suo arresto, il 5 giugno a Yangon, nessuno ha avuto più sue notizie. Neppure la famiglia che è stata informata solo il giorno successivo senza peraltro poter contattare in alcun modo Ma Aeint, regista, produttrice (Money Has Four Legs) di cinema indipendente nello Myanmar, molto conosciuta in Asia e nei circuiti internazionali. In risposta i familiari hanno ricevuto informazioni molto laconiche, che sarebbe stata portata in un luogo segreto per essere interrogata. Ma questa è la prassi del regime militare di Myanmar al potere dopo il golpe che ha destituito la leader Aung San Suu Kyi (anche lei detenuta in segreto): sparizioni, omicidi, violenza, tortura, nel mirino ci sono i dissidenti, i sostenitori di Aung San Suu Kyi, i giornalisti, ma chiunque può scomparire in uno dei centri segreti di detenzione, e centinaia di persone sono state uccise negli ultimi mesi durante le proteste contro il regime. Immediate le reazioni delle istituzioni cinematografiche in tutta l’Asia: il festival di Busan ha lanciato una petizione a cui hanno aderito altri 11 festival tra Sud Corea e Thailandia, in cui si chiede il rispetto dei diritti civili e di garantire l’incolumità fisica di Ma Aeint. “Domenica scorsa alcuni ufficiali (non militari) hanno informato mia zia che Ma Aeint era detenuta in un centro militare segreto per un interrogatorio, Non è stata la polizia a prenderla, hanno parlato di ‘militari’ anche se nessuno si è ufficialmente qualificato” ha dichiarato a “Variety” la sorella della regista, Su Wai, che vive negli Stati uniti. Un collega di Ma Aeint, Maung Sun, ha detto che dopo l’arresto gli uffici della loro società sono stati “devastati”. “Ci sono cinque centri per gli interrogatori, e tutti sono noti per le torture e le violenze che vi sono compiute - ha spiegato a “Variety” - Nei giorni scorsi molti prigionieri sono morti mentre venivano interrogati”.