“I magistrati condannano al carcere senza sapere cosa vuol dire vivere in una cella” di Valentina Stella Il Dubbio, 8 giugno 2021 Il presidente del tribunale di sorveglianza di Firenze Marcello Bortolato invita a riprendere la lezione della scuola di magistratura francese che “spedisce” i futuri giudici in galera per una settimana. Qualche giorno fa vi abbiamo raccontato che in Francia l’Ècole nationale de la magistrature prevede da anni degli stage penitenziari obbligatori per coloro che vogliono fare i magistrati al fine di misurare e superare lo scarto tra alcune idee preconcette e la realtà delle carceri. E in Italia è previsto tipo di alta formazione? Ne parliamo con il dottor Marcello Bortolato, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, e autore - insieme ad Edoardo Vigna - del libro “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia” (Editori Laterza 2020, pag. 160, euro 14) Presidente, come giudica questa iniziativa dei francesi? La giudico molto positivamente. Il magistrato deve calarsi nella realtà in cui opera ed avere ben presente, soprattutto nel momento dell’apprendistato, che anche la funzione afflittiva della pena ha una sua legittimità solamente in una cornice di legalità e ragionevolezza. Secondo Lei sarebbe utile da proporre anche in Italia? Non solo sarebbe utile, ma è stato già fatto. Quando Presidente della Scuola Superiore della Magistratura era il professor Valerio Onida, i giovani magistrati in tirocinio erano tenuti a frequentare degli stage penitenziari addirittura per 15 giorni. Poi, per alcune ingiustificate polemiche che sono sorte anche all’interno della magistratura, non se ne è fatto più nulla perdendo, a mio avviso, un’occasione unica di crescita professionale ed esperienza umana. Non dimentichiamo che anche la Corte costituzionale, i massimi Giudici dello Stato, hanno fatto il loro viaggio nelle carceri due anni fa, come è noto. Una giovane procuratrice francese ha detto in un podcast: “Ogni volta che chiediamo la reclusione per un imputato dobbiamo avere chiaro in mente il luogo dove vanno a finire i condannati, mentre vedo che il racconto sociale che si fa della prigione è del tutto distorto, si ha quasi l’impressione che si tratti di un villaggio turistico dove le persone dormono, mangiano e fanno sport”. Lei ha scritto un interessante libro per rispondere ai luoghi comuni dei cittadini sul carcere. Ma, invece, pensando ai magistrati italiani, esiste da parte loro la reale percezione della situazione carceraria italiana quando emettono una decisione? Non si può certo generalizzare ma l’impressione che ho tratto dopo più di 30 anni di carriera (dei quali più della metà quale giudice della cognizione) è che molti magistrati del penale, ben più di quelli che si possa immaginare, non hanno mai fatto ingresso in un carcere se non nella piccola saletta ove si svolgono gli interrogatori con i detenuti. I cancelli raramente sono stati oltrepassati, anche solo per curiosità. Il problema della percezione è reale e purtroppo non riguarda solo la generalità dei cittadini ma anche gli ‘addetti ai lavori’. Nel libro che ho scritto il tema centrale è proprio quello dei luoghi comuni sul carcere, del racconto sociale deformato e falsificato che descrive una prigione da un lato a ‘cinque stellè dove non manca nulla e dall’altro un luogo in cui ‘far marcire la gentè: ora, in carcere o si sta bene o si sta male. È più che opportuno che i magistrati in tirocinio si rendano conto delle reali condizioni delle carceri italiane, anche dei loro aspetti positivi laddove esistenti, perché quello è il luogo ove le pene che infliggeranno saranno espiate. Non ci vedo alcun demagogismo o idealismo ma solo un bisogno di conoscenza che è la base di ogni professione del giudicare. Forse conoscendo il carcere si eviterebbe l’abuso della carcerazione preventiva. Secondo lei esiste questo problema? Non ho conoscenze sufficienti per esprimere un’opinione su questo perché, come è noto, la Magistratura di sorveglianza si occupa dei condannati definitivi, ma certo i dati degli imputati in carcere sono tra i più alti d’Europa. L’ultimo dato al 31 maggio 2021 è di 16.723 detenuti non definitivi, pari al 31,16 % del totale. Ma quello che qui mi interessa sottolineare è che, a proposito di percezione falsata, i carcerati italiani hanno in media pene più lunghe rispetto ai vicini europei: le condanne fra i 10 e i 20 anni riguardano il 17 per cento dei detenuti con condanna definitiva, sei punti in più della media dei Paesi europei, mentre quelli che hanno una pena fra i cinque e i dieci anni sono il 27 per cento, contro il 18 del resto del continente. Ciò significa che in Italia si rimane in carcere di più. Il che, tradotto nella realtà, significa che le pene sono più de-socializzanti che altrove, tendono cioè a creare più facilmente individui che, scontata la pena, fanno una fatica maggiore per ritrovare un posto nella società. Ecco è questo che i giovani magistrati dovrebbero conoscere andando in carcere, parlando con gli operatori penitenziari e con gli stessi detenuti. In questo ultimo anno la magistratura di sorveglianza, quella che in realtà ha più conoscenza dell’esecuzione penale, ha subìto dei tentativi di commissariamento dalla politica. L’impressione è che la magistratura di sorveglianza sia una magistratura di serie B, che nel prendere le decisioni ha bisogno ad esempio dei pareri delle procure in particolari circostanze. Non sarebbe il caso di rivendicare con maggiore forza la vostra indipendenza e la vostra autonomia di giudizio? Gli atti di sfiducia nei confronti della Magistratura di sorveglianza sono molteplici e si sono intensificati negli ultimi anni. Anche qui la percezione che si tratti di una magistratura diversa, marginale, o addirittura poco in sintonia con il sentire comune che vuole il carcere e non le misure alternative al centro del sistema, anche da parte di larghi settori della politica progressista, è alterata da scarsa conoscenza. Ma non voglio lamentarmi, non c’è bisogno di rivendicazioni, posto che ogni magistrato è soggetto solo alla legge e soprattutto alla Costituzione, dove si dice ben altro in tema di funzione della pena. Il modello attuale basato sulla riabilitazione ha certamente dei limiti, ma è il fondamento culturale dell’ordinamento penitenziario che nasce, ispirato dal principio costituzionale dell’art. 27, solo nel 1975, ben dopo 27 anni di vita della Carta. Lo scopo è quello di offrire al condannato il massimo di opportunità per riabilitarsi attraverso gli strumenti del trattamento: il lavoro, l’istruzione, la cultura, i rapporti con la famiglia. E su questo l’opera della Magistratura di sorveglianza, cui si aggiunge quella di tutelare i diritti dei ristretti, è il fondamento giuridico di quell’approccio. Anche per questo io credo che il tirocinio in carcere per i giovani magistrati debba diventare un obbligo. “Mettere in sicurezza le carceri, non costruire dei nuovi padiglioni” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 giugno 2021 Parla Stefano Anastasìa, Garante delle persone private della libertà dell’Umbria e del Lazio. Non costruiscono nuove carceri, ma ampliano la capienza attraverso la realizzazione di nuovi padiglioni. In sostanza, il programma della ministra della Giustizia Marta Cartabia, dal punto di vista dell’edilizia penitenziaria, è in continuità con quello del guardasigilli precedente. Ampliare la capacità del sistema penitenziario è, di fatto, una vecchia opzione e rischia di amplificare alcune criticità in mancanza di una ampia progettualità. Quali? Ci viene in aiuto Stefano Anastasìa, il garante delle persone private della libertà dell’Umbria e del Lazio. Come abbiamo visto, tra le carceri dove si ampliano i padiglioni, c’è quello di Perugia. Un progetto, ribadiamo, che appartiene all’ex ministro Alfonso Bonafede. Il garante Anastasìa, in una lettera indirizzata all’ex guardasigilli aveva evidenziato il problema dell’ampliamento della capacità detentiva della Casa circondariale di Perugia del 60%, attraverso la realizzazione di due padiglioni contenenti 120 posti detentivi ciascuno. In questo modo la capacità detentiva dell’Istituto passerebbe dagli attuali 363 posti regolamentari a 603. Ebbene, secondo il garante Anastasìa, è discutibile la scelta “di sovraccaricare ulteriormente la regione Umbria di una capacità penitenziaria che non corrisponde alle necessità del suo bacino territoriale, dei propri servizi giudiziari e di polizia, nonché dei propri cittadini e delle sue istituzioni”. Il problema è che il carcere di Perugia è diventato un contenitore di diversi detenuti che provengono da altre carceri, di alte regioni, e trasferiti perché problematici. Parliamo di profili problematici perché raggiunti da provvedimenti disciplinari o con problemi di salute mentale. Un problema, in realtà, che riguarda anche altre carceri. Uno è problematico? Viene trasferito in un altro carcere. Si ricrea il problema, lo si rimanda altrove. È il fenomeno della “girandola dei detenuti”, e il carcere di Perugia è uno dei contenitori. Allargare i padiglioni, senza risolvere questa problematica generale, vuol dire aggravare la situazione e incoraggiare nuovi trasferimenti. “Questa politica di trasferimento nelle sedi provveditoriali periferiche dei detenuti che nelle sedi di precedente assegnazione abbiano dato problemi di gestione è purtroppo molto diffusa a seguito degli accorpamenti dei provveditorati che prima erano regionali”, spiega il garante Anastasìa. In sostanza, progettare un ulteriore ampliamento della capacità detentiva dell’Istituto di Perugia, fin quasi a raddoppiarlo, significa - secondo il garante regionale - “prefigurare nuovi ingenti trasferimenti di detenuti dalla Toscana o da altre regioni limitrofe di detenuti che pure avrebbero diritto a essere assegnati a un Istituto del territorio di domicilio, e che invece verranno allontanati dai luoghi di stabile dimora familiare e di futuro reinserimento sociale sulla base dei soliti criteri di indesiderabilità che causeranno nuove e più ampie condizioni di criticità, cui si aggiungerà quella della insufficienza delle risorse umane che vi potranno essere dedicate”. I fondi per l’edilizia penitenziaria dovrebbero essere, invece, indirizzati nella messa in sicurezza di tutti gli istituti penitenziari che presentano situazioni non a norma. A partire dai servizi igienici, le docce che dovrebbero essere individuali (ricordiamo la pandemia e il contagio diffuso anche per questo motivo), il rifacimento delle cucine e via discorrendo fino ad arrivare anche ai piccoli dettagli, ma non insignificanti. Pensiamo al discorso dell’utilizzo delle bombole a gas per cuocere il cibo. Giorni fa, al carcere di Terni, tre detenuti hanno utilizzato le bombolette per cucinare insieme. Sono scoppiate e li hanno tutte e tre gravemente ustionati. Uno di loro, 34 enne, è gravissimo. Portato all’ospedale romano Santo Eugenio, è finito in terapia intensiva. Salvato in extremis, i medici lo hanno sottoposto ad un intervento chirurgico per tentare di ricostruire quanto resta delle mani. Una tragedia gravissima. Sempre il garante Anastasìa ha ricordato che più volte ha consigliato di sostituire le bombolette con un fornelletto elettrico, magari in induzione. Ma vale per tutte le carceri, in maniera tale di mettere in sicurezza i detenuti che hanno la necessità- anzi il diritto - di poter cucinare. I soldi per l’edilizia penitenziaria sono importanti, ma andrebbero indirizzati per rendere più moderne e sicure le carceri esistenti. Cartabia: “Fondamentale l’educazione dei minori in carcere” di Errico Novi Il Dubbio, 8 giugno 2021 Bisogna “offrire reali possibilità ai ragazzi che sono entrati in un circuito penale”, dice la guardasigilli. “Se la finalità rieducativa della pena di cui parla l’art. 27 della Costituzione non diviene per i più giovani una effettiva possibilità di scrivere una nuova pagina della loro esistenza, come potrebbe diventarlo per tutti gli altri?”. “Negli istituti penali per minorenni l’educazione è tutto. Se è vero che nella nostra Costituzione, pena ed educazione sono sempre un binomio inscindibile, ciò è ancor più vero quando la pena riguarda ragazze e ragazzi minorenni o giovani adulti. Per questo trovo che le borse di studio offerte dalla Luiss e i programmi di summer school che coinvolgono anche i ragazzi degli istituti penali siano davvero una occasione straordinaria: un modello esemplare da replicare su larga scala”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, inviando un messaggio scritto alla cerimonia conclusiva della quarta edizione del progetto “Legalità e Merito nelle scuole”, iniziativa ideata dalla vicepresidente Luiss, Paola Severino, per promuovere la cultura dell’anticorruzione ed il rispetto delle regole tra i più giovani. “Approfitto - ha sottolineato - della presenza dei colleghi Patrizio Bianchi e Cristina Messa per lanciare uno spunto di riflessione e di lavoro: forse in questo ambito, il ministero della Giustizia, quello dell’Istruzione e quello dell’Università potrebbero collaborare più strettamente per offrire reali possibilità ai ragazzi che sono entrati in un circuito penale. Se la finalità rieducativa della pena di cui parla l’art. 27 della Costituzione non diviene per i più giovani una effettiva possibilità di scrivere una nuova pagina della loro esistenza, come potrebbe diventarlo per tutti gli altri? In questo anno di pandemia - ha osservato ancora Cartabia - i ragazzi ospiti degli istituti penali per i minorenni hanno sofferto enormemente l’isolamento. Così come lo hanno sofferto gli operatori e gli educatori, nonché le forze dell’ordine che stanno loro accanto quotidianamente. Ora che il piano delle vaccinazioni prosegue alacremente e i contagi allentano la morsa, occorre al più presto riprendere le attività sociali e le attività formative anche in presenza. Occorre ripartire con un nuovo slancio. E forse provare a immaginarci qualche forma di sinergia nuova, più creativa, più innovativa per contribuire alla cultura della legalità attraverso l’educazione e la formazione”. “Questo - aggiunge - deve valere anche in un’ottica di prevenzione per quei ragazzi che non sono in circuiti penali, ma vivono a volte prigionieri di un contesto, che impedisce loro di respirare “il fresco profumo della libertà”, per citare una celebre espressione di Paolo Borsellino. In queste zone - prosegue Cartabia - dove la logica dell’indifferenza e della complicità ha radici profonde e diffuse, difficili da estirpare, spesso sono stati straordinari maestri a cambiare la traiettoria di giovani vite a rischio. Vite, pericolosamente risucchiate dalla cultura del malaffare e non di rado dall’assenza di speranza. E mi turba ogni volta notare l’età, sempre più bassa, di tanti arresti in indagini per camorra, mafia, ’ndrangheta. Come mi turba leggere i tassi di dispersione scolastica in quelle stesse aree dove i clan allignano con più ostinazione”. “In queste realtà, lo sappiamo bene, la distanza fisica dalla scuola o da preziosi percorsi di legalità durante la pandemia, ha avuto un impatto ancor peggiore che altrove. Ha allontanato a volte la stessa fiducia nei giovani. E allora proprio da qui - conclude Cartabia - da questi ragazzi, dobbiamo ripartire ora, come giustamente ha scelto di fare il progetto “Legalità e Merito”, supportando comunità scolastiche di aree più esposte. Questo binomio può aprire un orizzonte diverso, di luminosità, di bellezza e rinnovata speranza, anche laddove pure il cielo a volte sembra più plumbeo”. Fermate chi vuole carceri “chiuse” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 8 giugno 2021 Una botta dopo l'altra. E non importa niente a nessuno - cioè no, siamo giusti: a quasi nessuno - perché in effetti son botte su quelle materie che di voti e consenso ne portano zero (cioè no, siamo giusti anche qui: ne portano pochi, non zero). Così una è arrivata dieci giorni fa da Bologna con la chiusura di Mozart14, associazione che per anni ha fatto vivere e moltiplicato in più ambiti sotto la guida di Alessandra Abbado il sogno sociale del padre Claudio, la musica portata ai detenuti nelle carceri, ai bambini negli ospedali, ai fragili nei luoghi di cura: stop delle attività causa Covid, taglio dei fondi, fine della storia. La seconda è arrivata poco dopo da Milano, diciamo di rimbalzo, sotto forma di appello per tentar di evitarla: parliamo dell'annunciata chiusura dell'Icam, “Istituto di custodia attenuata” per detenute madri con figli piccoli, realizzato dall'ex provveditore delle carceri lombarde Luigi Pagano e tuttora uno degli unici quattro in tutta Italia creati per (provare a) risolvere l'indegna consuetudine per cui un bambino con la madre arrestata, senza altra persona a potersene occupare, si ritroverebbe e anzi in assenza di lcam si troverà (pur piccolissimo, che già basterebbe, e in più ovviamente innocente) in galera con lei. Motivo della fine annunciata: ultimamente a Milano non sono state arrestate madri con figli (ah già, un anno e mezzo di Covid ha fatto diminuire anche i reati) e il personale in servizio nella struttura è ritenuto sprecato. A lanciare l'appello per non farla chiudere è stato Francesco Maisto, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Milano, il quale è riuscito per ora a spuntare solo un rinvio a settembre. All'appello si è unito Paolo Petracca per le Acli milanesi. La terza botta è il trasloco forzato cui è stata costretta Asom, la “Associazione salto oltre il muro” che con cavalli provenienti da sequestri o donazioni, o salvati da maltrattamenti, recuperava e avviava al lavoro dal 2007 i detenuti del carcere di Bollate, sempre vicino a Milano. “Stalle pericolanti”, è stato comunicato via pec all'associazione un mese fa da parte dell'amministrazione penitenziaria (già una bella stranezza, visto che l'ultimo sopralluogo con l'ok degli ingegneri era di pochi mesi prima) e quindici giorni per sbaraccare. Ora, vedete voi cosa sa fare il volontariato: una nuova struttura per gli animali e per far ripartire le attività è stata trovata vicino a Bergamo. Ma appunto sempre grazie a gente del Terzo settore, e comunque solo con detenuti in permesso esterno, per quelli dentro stop. Morale di queste storie? Il monito che viene dal loro denominatore comune: il loro essere considerati “servizi superflui” per persone ai margini. E per questo, alla fine, servizi “tagliabili” da parte di chi deve scegliere tra cosa è importante e cosa no. Quindi: la musicoterapia con detenuti e bambini considerata passatempo, una struttura per evitare la galera ai bambini considerata privilegio, non parliamo dei cavalli. Eppure è questa la prospettiva da rovesciare: non pensare a queste cose come optional, come premio, e pensarle necessarie perché rendono migliori le persone. E quindi, anche, migliore e più sicura la società. Senza chiedere voti in cambio. Ecco: le istituzioni che le uccidono dovrebbero pensare così. Abolire il carcere. un atto di civiltà per la giustizia italiana di Carlo Taormina* Italia Mensile, 8 giugno 2021 Il sistema penale italiano, contrariamente a quanto solitamente si afferma, è caratterizzato da un altissimo e diffusissimo regime sanzionatorio. Il carcere da misura eccezionale da riservare ai comportamenti criminali violenti contro le persone e contro la società è divenuto un abusivo sistema di compressione delle libertà laddove sia riferito a beni protetti importanti ma non essenziali. Nessuna fantasia è mai stata esercitata per fare in modo che la Costituzione venisse attuata allorché richiede che la pena sia strutturalmente rieducativa, ciò che significa che il carcere vada evitato ogni volta che rieducativo non sia. La logica repressiva alla quale si abbevera il nostro ordinamento penale sulla spinta becera e manovrata di una opinione pubblica che deve essere solo accontentata e mai adeguatamente governata e indirizzata alla comprensione ed alla tolleranza, si esprime sistematicamente con l’aumento delle pene carcerarie a fronte di qualsiasi dibattito che si inscena al verificarsi di un qualsiasi episodio delittuoso. Siamo giunti alla situazione che si paga meno un omicidio che una corruzione e che sia preferibile commettere una rapina piuttosto che un reato d’opinione. Nessuno si fa carico della situazione delle carceri e bisogna entrarvi per capire di quale livello di vergogna e di schifo si macchia giornalmente il nostro Paese: al sovraffollamento, all’abbandono ad una sorte di animali cui sono lasciati cittadini italiani, alla condizione da ammasso di cervelli cui i detenuti sono costretti a vivere, si aggiungono le gravi, spesso mortali, conseguenze derivate dalla pandemia: non sta scritto in nessuna norma costituzionale che una detenzione rispettosa della natura umana debba essere sopravanzata dal maltrattamento, dall’invivibilità, dalla riduzione allo stato bestiale; come non sta scritto da nessuna parte che sia ammissibile il carcere duro e che la sofferenza per la pena debba essere inferiore o superiore a seconda dei casi: la detenzione deve essere rispettosa di tutti i diritti umani e deve garantire la possibilità di vita decorsa e attuativa della personalità fisica e morale. La storia insegna che ogni sistema imperfetto o inaccettabile contenesse dentro di sé sempre gli antidoti attraverso i quali si può pervenire ad una sorta di riequilibratura. Nel nostro Paese, giusto o sbagliato che sia, l’antidoto è sempre stato costituito dai provvedimenti di amnistia e indulto con i quali, per un verso si riparava alla eccessività del numero di reati e per un altro verso alla eccessività abnorme delle pene, soprattutto dopo l’invalere dell’abitudine a dare in pasto all’opinione pubblica aumenti di galera per placare la voglia di sangue. Di qui l’incarognirsi del sistema penitenziario, il sovraffollamento, la bestialità del trattamento dei detenuti e la istituzione di barriere a qualsiasi restituzione dei colpevoli alla rieducazione ed al contatto con il mondo esterno, anzitutto con le famiglie e con il lavoro. Sono quindici anni che questo meccanismo di riequilibratura non funziona, sono quindici anni che la vita penitenziaria si è trasformata in un inferno, sono quindici anni che la Costituzione è stata sospesa perché la rieducazione è diventata una chimera. La conseguenza è quella che tutti osserviamo: l’incancrenimento del mondo delinquenziale e la sua nascita come contraltare al potere dello Stato perché questo accade quando a principi di libertà di sovrapporre l’oppressione della dittatura giudiziaria. Credo che, se si vuole riprendere un cammino di restaurazione del rispetto dei diritti umani e di difesa della società dalla ingravescente barbarie, si debba cominciare dal carcere, tornando ad una amnistia e ad un indulto ragionati ben organizzati che decongestionino gli istituti penitenziari e agevolino una riforma radicale del sistema giudiziario che renda assoluta rarità la detenzione carceraria e che si arricchisca di alternative capaci di contemperare il trattamento di chi ha commesso errori con una vita sociale adeguata, pur se controllata. *Avvocato, politico, giurista e accademico Le parole di Vasco mi permettono di fare una riflessione sulle carceri e sulla loro abolizione di Viviana Correddu* Il Fatto Quotidiano, 8 giugno 2021 Delle persone detenute nelle nostre carceri e delle loro condizioni si parla sempre troppo poco e allora, se Vasco Rossi fa un videomessaggio di pochi minuti, rivolto direttamente a loro, per loro, in occasione della “Maratona oratoria” organizzata dalla Camera penale di Bologna, io penso che si debba cogliere questo gesto e farlo diventare elemento di approfondimento. Le carceri italiane sono infatti tra le più sovraffollate dell’Unione europea e, sulla situazione dei penitenziari, l’Italia registra dati migliori solo della Turchia (!!!), con una media di 120 detenuti ogni 100 posti contro i 127 delle carceri turche, nonché il più alto tasso percentuale di over 50. Ci sono i numeri, ma soprattutto ci sono le persone, oltre 53mila, che vivono una condizione di estremo disagio, certamente aumentato con l’inizio e il perdurare della pandemia. Nel 2020 i morti in carcere sono stati 154 di cui 61 sono stati accertati come suicidi, quasi un terzo. Da gennaio 2021 se ne contano già 22. L’ultimo è Luca, un 25enne campano. Tossicodipendente. Venticinque anni e un contesto dentro il quale evidentemente il suo disagio non è riuscito a reggere. Un caso emblematico, se pensiamo che un detenuto su tre, sconta la sua pensa per reati legati all’abuso di sostanze stupefacenti. Ebbene, qualcuno certamente penserà: “ma che ce frega!”. Del resto, sono “delinquenti”, “tossici”, magari spacciatori, relitti della società. Per fortuna abbiamo un faro acceso, sempre più oscurato però dai moralismi e dai bigottismi, dall’indifferenza dilagante del nostro secolo, dalla deficienza civile della nostra politica. È l’art. 27 della Costituzione dentro il quale è specificato chiaramente che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ebbene non è solo un mio parere quello per cui tale principio, nel nostro paese, viene meno ormai da troppo tempo. Detto questo, si apre un altro tema che mi preme sottolineare. Perché se i termini “rieducazione” e “reinserimento” costituiscono la finalità ideologica della pena, per cui lo Stato durante l’esecuzione della stessa, deve creare le condizioni necessarie affinché il condannato possa “reinserirsi” nella società in modo dignitoso mettendolo poi in condizioni, una volta in libertà, di non commettere nuovi reati, capiamo immediatamente che, a prescindere da come uno la pensi, tale sintesi viene meno e quel principio costituzionale viene costantemente violato. E anche qui parlano i dati: il tasso di recidiva dei carcerati in Italia è pari al 68%. Dopodiché, invece di ragionare sul sistema penitenziario italiano, sulla legalizzazione delle sostanze, quindi sulla depenalizzazione dei reati correlati e/o conseguenti, e su misure alternative per cui dal carcere, in tanti, troppi, neanche ci dovrebbero passare, sentiamo da anni un unico mantra: “Costruiamo più carceri”. Belin, che illuminati che siamo! Che strateghi! Poi c’è un tema che va ancora oltre, per cui, per quanto mi riguarda, il carcere in sé, per come si concretizza, mero strumento punitivo, vada abolito. Lo pensassi solo io mi direste che sono pazza e invece non potete farlo perché addirittura lo hanno dichiarato, solo per fare qualche esempio emblematico, l’ex magistrato del pool di “mani pulite” Gherardo Colombo, il sociologo Luigi Manconi, o Thomas Galli che ha lavorato 15 anni nel sistema penale dirigendo alcune carceri italiane. Perché semplicemente è inaccettabile l’idea e la pratica di rinchiudere in una gabbia alcune decine di migliaia di nostri simili, arrivando ad annullare non soltanto la loro mobilità fisica ma anche l’accesso alla cultura, alla socializzazione, alla vita affettiva e in generale alle risorse materiali e simboliche su cui si costruisce l’identità e la dignità della persona. E allora, tornando a Vasco Rossi, oggi si può solo dare “un senso a questa condizione, anche se questa condizione un senso non ce l’ha”. “Tenete duro!” gli ha detto. “Teniamo duro. Bisogna tenere duro, in ogni caso, sia dentro che fuori” ha concluso. Io invece voglio concludere con una frase di Angela Davis: “Le prigioni non eliminano i problemi sociali, eliminano gli esseri umani”. *Sindacalista CGIL Politica e magistratura: il difficile equilibrio di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 8 giugno 2021 L’adesione di Salvini ai referendum dei Radicali apre nuovi scenari nella destra, ma anche nel centro e nella sinistra. E sulla riforma Cartabia si potrebbero spaccare i Cinque Stelle. È bastato l’annuncio per scatenare un maremoto. Con onde alte che minacciano di abbattersi sui fragili equilibri della politica italiana. La raccolta delle firme dei referendum radicali sulla Giustizia appoggiati dalla Lega non è ancora partita ma ha già innescato movimenti trasversali forse destinati a rimescolare diverse carte a destra, a sinistra e al centro. In parte ha contato la scelta dei tempi: la magistratura non gode più del consenso incondizionato dell’opinione pubblica. In parte ha contato, e conta, il metodo: quella capacità di stabilire alleanze trasversali su specifiche battaglie politiche di grande rilievo che il Marco Pannella dei suoi dì migliori ha lasciato in eredità ai radicali. Ricordiamo che i sei quesiti referendari depositati in Cassazione sono espressione del “liberalismo giudiziario” che ispira i radicali e riguardano la responsabilità dei magistrati, i meccanismi di elezione del Consiglio superiore della magistratura, la limitazione della custodia cautelare, la separazione delle carriere, il ruolo dei componenti non togati (come gli avvocati) nei collegi giudiziari, l’abolizione di alcune norme della legge Severino in materia di ineleggibilità. Per capirne meglio le implicazioni, conviene separare gli aspetti della questione che hanno a che fare con le contingenti tattiche e strategie dei partiti dagli aspetti che riguardano gli “equilibri di sistema”, lo stato presente e futuro della democrazia italiana. Sposando la campagna referendaria radicale Salvini ha fatto una mossa tatticamente molto abile. Costringerà l’intero centrodestra a subire la sua leadership in materia di rapporti fra politica e magistrati. L’iniziativa radicali/Lega, inoltre, funge da calamita per tutta la (frammentatissima) area centrista, da Italia viva all’Udc, al gruppo Bonino eccetera. Per giunta, come si è già visto, essa mette in grande difficoltà il Partito democratico. Per quanto riguarda la Lega bisognerà capire se si tratta solo di tatticismo. O se invece siamo in presenza di qualcosa che si avvicina a una riconversione strategica. È evidente che il “progetto lepenista” di Salvini ha mostrato la corda. La concorrenza di Fratelli d’Italia, soprattutto al Sud, lo obbliga a rifare i suoi conti. Sia in termini di posizionamento all’interno del centrodestra sia in termini di alleanze in Europa. Vedremo nei prossimi mesi se alla scelta di appoggiare l’iniziativa referendaria dei radicali corrisponderanno da parte di Salvini mosse conseguenti, come, per esempio, la ricerca di nuove alleanze nel Parlamento europeo. Nel frattempo l’effetto più dirompente è quello che si sta abbattendo sul Pd. Da Goffredo Bettini ad altri importanti esponenti di quel partito sembra piuttosto ampio il fronte di coloro che intendono appoggiare i referendum radicali. Il segretario e, sicuramente, una buona parte del partito, sono contrari. Gli argomenti che usano sono deboli. Si va dal classico “non dobbiamo fare il gioco di” all’altrettanto scontato “la riforma della giustizia si deve fare in Parlamento”: come se in Parlamento, nella stessa maggioranza che sorregge il governo, non ci fossero molti nemici della suddetta riforma e come se i referendum non fossero - come invece sono - un utile strumento di pressione. È la storia a spiegarci il perché di tale opposizione. Il Pd e i suoi predecessori (Pci, sinistra democristiana, Pds, Ds) sono sempre stati schierati con il “partito delle procure”. Anche se con qualche insofferenza ideologica da parte degli eredi di Togliatti, di coloro che, come Massimo D’Alema, credono nel primato della politica, Pd e predecessori non hanno mai rotto con il giustizialismo giudiziario. Per convenienza, per garantirsi un salvacondotto e perché, anche se di tanto in tanto veniva colpito qualche loro esponente, i colpi giudiziari più duri riguardavano comunque i loro avversari. È un segno dei tempi, ossia del fatto che forse la stagione del giustizialismo trionfante è ormai alle nostre spalle, che l’iniziativa referendaria apra un conflitto all’interno del Pd. Non si esagera se si dice che il futuro della democrazia italiana dipende da come verranno affrontati i nodi della giustizia. In primo luogo bisogna sapere che se il governo Draghi tra qualche mese cadrà (con conseguenze imprevedibili), esso, quasi certamente, cadrà proprio sulla questione giustizia. È sulla riforma Cartabia che, presto o tardi, si spaccheranno i 5 Stelle: dopo di che, si tratterà di vedere se la loro fazione filogovernativa sarà oppure no abbastanza numerosa da non far mancare al governo il sostegno parlamentare. Sorte del governo a parte, si pensi a che cosa potrebbe accadere quando si cominceranno a spendere i soldi del Recovery Fund. Immaginiamo lo scenario peggiore. Poniamo che, per una combinazione di normative confuse e di eccessi di protagonismo di alcune procure, in quel momento fioriscano le inchieste e fiocchino gli avvisi di garanzia, gli arresti, eccetera, bloccando tutto o quasi. Poi, facilmente, come spesso avviene, dopo qualche anno la maggioranza degli imputati verrebbe assolta. Nel frattempo, l’Italia avrebbe, però, sprecato la più importante occasione di sviluppo che le sia mai capitata dai tempi del piano Marshall e si troverebbe nei guai. È il non detto della politica italiana, il tabù su cui quasi tutti glissano. Ci fu un tempo - la si chiamasse Repubblica dei partiti oppure partitocrazia - in cui la politica comandava e i magistrati erano dominati e controllati. Ci fu poi, con Mani Pulite, un rovesciamento dei ruoli: i magistrati occuparono il ponte di comando. Poterono farlo perché la corruzione politica aveva in precedenza superato il livello di guardia. Da allora viviamo in un regime di democrazia giudiziaria che ha assunto il controllo della politica rappresentativa, l’ha posta in libertà vigilata. Siamo passati da una condizione di squilibrio a una condizione di squilibrio di segno opposto. Entrambe le situazioni (la partitocrazia prima, la democrazia giudiziaria dopo) hanno aspetti illiberali o autoritari. Ci saranno tensioni crescenti e durissime contrapposizioni. Ma se alla fine si ottenesse un ragionevole equilibrio, una condizione in cui siano salvaguardate tanto l’indipendenza dei magistrati quanto le prerogative della politica rappresentativa, ecco che allora forse nascerebbe qualcosa di nuovo: qualcosa di somigliante a una democrazia liberale. Referendum sulla giustizia: cosa contengono i sei quesiti di Giulia Merlo Il Domani, 8 giugno 2021 Gli argomenti sono: separazione delle carriere; elezione al Csm; responsabilità diretta dei magistrati; abolizione della legge Severino; limite alla custodia cautelare; equa valutazione dei magistrati. Il 4 giugno 2021 la Lega e il Partito radicale hanno depositato in Cassazione i sei quesiti referendari sulla giustizia, pubblicati anche in Gazzetta Ufficiale. Il 2 luglio inizierà la raccolta firme: ne servono 500 mila, ma il leader della Lega Matteo Salvini punta a raccoglierne il doppio entro settembre e ha mobilitato tutto il partito. Ecco i sei quesiti. Elezione al Csm - Per candidarsi a venire eletto al Consiglio superiore della magistratura, un magistrato deve raccogliere dalle 25 alle 50 firme. Il quesito chiede di abrogare il vincolo del numero di firme. La ragione è che, secondo i proponenti, la raccolta di firme obbliga necessariamente il candidato a venire a patto con i gruppi associativi. Eliminandole, invece, ogni magistrato potrà liberamente candidarsi senza alcun condizionamento. Responsabilità diretta dei magistrati - Attualmente il cittadino che si sia sentito leso nei propri diritti dalla condotta del magistrato nel processo non ha diritto di chiamarlo in causa civilmente in modo diretto, ma deve citare lo Stato che poi si può rivalere sul magistrato. Il quesito referendario prevede di abrogare una parte della legge n.117 del 1988, negli articoli in cui prevede che il magistrato non possa essere chiamato direttamente in causa in un giudizio civile. Equa valutazione dei magistrati - I magistrati devono essere valutati ogni quattro anni in merito alla loro condotta professionale. Questo avviene nel consiglio direttivo della Corte di Cassazione e nei Consigli giudiziari di ogni distretto. In questi organi sono presenti anche dei componenti laici, avvocati e professori universitari, ma sono esclusi dal diritto di tribuna e di voto quando si tratta delle valutazioni dei magistrati. Il quesito prevede che la compone laica possa esprimersi sulla qualità del lavoro delle toghe. Su questo tema ci sono state proposte di emendamento all’interno del ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario ed ha avuto luogo anche un duro dibattito anche dentro l’Associazione nazionale magistrati, che ha approvato un documento contrario. Separazione delle carriere - Attualmente i magistrati requirenti (i pubblici ministeri) e i giudicanti seguono lo stesso percorso per entrare in magistratura e, nel corso della carriera, possono passare da un ruolo all’altro per un massimo di quattro volte. Secondo i proponenti, questo crea contiguità tra figure e rischia di generare un corporativismo incompatibile con il principio della terzietà del giudice e della decisione nel contraddittorio tra le parti, in situazione di parità tra accusa e difesa. Per questo il quesito punta a stabilire che il magistrato, una volta scelta la funzione, non possa più passare all’altra. Su questo punto la contrarietà è di quasi tutta la magistratura: il dibattito è in corso da più di vent’anni. Limiti della custodia cautelare in carcere - Attualmente il pubblico ministero può disporre la custodia cautelare in carcere nella fase delle indagini preliminari, nel caso in cui esistano gravi indizi di colpevolezza sommati a pericolo di fuga, pericolo di reiterazione del reato e pericolo di inquinare le prove. La misura deve essere convalidata dal giudice delle indagini preliminari e deve essere disposta solo nel caso in cui le misure meno afflittive (come gli arresti domiciliari o l’obbligo di firma) non siano sufficienti a prevenire il pericolo. Il quesito referendario punta a limitare la possibilità di ricorrere alla carcerazione preventiva prima della sentenza definitiva. Abrogazione della legge Severino - La legge Severino prevede che, in caso di condanna anche solo di primo grado per alcune specifiche ipotesi di reato - in particolare quelle contro la pubblica amministrazione - scatti immediatamente anche la sanzione accessoria dell’incandidabilità alla carica di parlamentare, consigliere e governatore regionale, sindaco e amministratore locale. Il quesito punta ad abolire la norma, lasciando quindi al giudice la decisione di comminare, in aggiunta alla sanzione penale, anche la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici. Dal trauma Bettini nel Pd alle distanze fra FI e Lega: la lite trasversale sui referendum di Giacomo Puletti Il Dubbio, 8 giugno 2021 I referendum sulla giustizia proposti da Lega e Partito radicale continuano a far discutere la maggioranza, per ragioni distinte. Da un lato il centrodestra, che oltre a essere diviso tra sostegno e opposizione al governo Draghi, su questi temi vede la Lega saldamente schierata da una parte, con il leader Salvini convinto dell’importanza dei quesiti “per fare, tramite il volere popolare, ciò che una maggioranza così ampia non potrà mai fare” e Fratelli d’Italia a ruota, mentre Forza Italia continua a prediligere la linea della riforma da portare avanti in Parlamento, se necessario (e lo è), anche attraverso un serrato dialogo con il Movimento 5 Stelle. “Le porte girevoli di magistrati che entrano ed escono dalla politica, l’abolizione dell’abominevole riforma della prescrizione voluta da Bonafede e l’introduzione del sorteggio nel Csm per eradicare la cancrena lottizzatoria a cui abbiamo assistito finora - spiega Andrea Delmastro, deputato di Fd’I - sono i nodi da risolvere nella giustizia, ma vengono scansati clamorosamente da questa maggioranza, oltremodo balcanizzata sulla giustizia e incapace di interventi che non siano altro che pannicelli caldi”. Ma se l’opposizione sovranista tenta, legittimamente, la spallata, dall’altro lato, in quello che potremmo definire “nuovo centrosinistra” c’è forse ancora più confusione sotto il cielo, visto che pentastellati e dem sono per motivazioni diverse intrappolati nelle loro diatribe interne. I primi, impegnati nel traumatico passaggio di consegne che terminerà con l’ex presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, al vertice del nuovo Movimento (che magari avrà un altro nome, chissà); i secondi, alle prese con i liberi pensatori à la Bettini, che avallando alcuni (non tutti) i quesiti referendari hanno mandato in subbuglio il Nazareno, fermamente convinto che la consultazione popolare allungherebbe soltanto i tempi delle riforme. Le parole dell’ex guru di Nicola Zingaretti sono state classificate come “pensieri personali” da alcuni dirigenti dem, giustificate dal fatto che il Pd “non è una caserma, a differenza di altri partiti”, e che alcune idee in linea con il garantismo democratico di quello che sarcasticamente Matteo Renzi definì “il leader della corrente thailandese del Pd” sono note da tempo. Ma certo le recenti uscite di Bettini hanno fatto discutere, sia perché pronunciate e scritte da chi vorrebbe un Pd a braccetto con il M5S (e quindi con il suo giustizialismo) alle prossime Politiche, sia perché collimano, almeno in parte, con quelle di Salvini. E questo, a chi come Letta ha incentrato la prima parte del proprio mandato di segretario con le risposte colpo su colpo al leader leghista non può che lasciare l’amaro in bocca. Bettini, che ha definito Conte “un democratico, colto, equilibrato e ragionevole”, è quindi piuttosto isolato nella sua visione, respinta in maniera compatta dal resto del partito. “Vogliamo che il Parlamento si cimenti con la riforma, perché quello è il luogo dove si fanno le riforme - spiega una fonte dem al Dubbio - Certo poi è bene analizzare i quesiti referendari nel merito, senza pensare al fatto che sono sostenuti anche dalla Lega”. Se non riuscirà a spaccare la maggioranza, la questione dei referendum sulla giustizia rischia insomma di dare adito a una discussione accesa, in particolare sulla separazione delle carriere e sulla responsabilità civile dei magistrati. Per non parlare del fatto che alla riforma della giustizia è legato l’arrivo di una parte dei fondi del Recovery, attraverso i quali sarà realizzato il Piano di ripresa e resilienza. “Ci aspetta dietro l’angolo il Pnrr che ci impone riforme immediate sull’efficienza del processo”, è il ragionamento di Mario Perantoni, presidente grillino della commissione Giustizia a Montecitorio. Lo stesso M5S che ha avviato una fase nuova di cosiddetta maturità politica e istituzionale, anche se lo stesso Conte ha tenuto a precisare di essere contrario “a meccanismi che aumentino la denegata giustizia”. Per forza di cose il nuovo Movimento dovrà misurarsi con il vero obiettivo della riforma, quello che da tutta la maggioranza viene definito “una giustizia giusta in tempi rapidi”. A parole sono tutti d’accordo, nei fatti il lavoro della ministra Cartabia è ancora lungo. Referendum o meno. Perché avete paura dei referendum radicali? di Alberto Cisterna Il Riformista, 8 giugno 2021 La magistratura è stata resa negli ultimi decenni un sistema verticale, gerarchizzato, controllato, burocratizzato e che si pone in contrasto con la Costituzione. Una prova di maturità democratica di alto livello. In un paese in cui si aggirano grumi consistenti di un reducismo giudiziario che pretende - dopo alterne e discusse carriere - di impartire lezioni di legalità costituzionale e processuale in vista degli incerti tempi della riforma, l'iniziativa referendaria sulla giustizia ha il merito di misurare la vitalità di un dibattito che solo una democrazia si può permettere. Un tempo l'avremmo chiamata democrazia diretta - sintagma prezioso poi involgarito dal demagogico ricorso al popolo - che ha quale momento qualificante non solo il voto in sé considerato, ma la discussione che lo precede in cui le opinioni si confrontano e le idee collidono. Per una Repubblica nata da un referendum chi muove obiezioni farebbe bene a rendere palesi le reali preoccupazioni che lo agitano prima di dire che la “materia” non si presta alla votazione popolare. Negli ultimi tempi si palesano in modo insistente sulla stampa i fantasmi di una giurisdizione che, poco inclini al meritato pensionamento, si affannano nel voler esprimere opinioni e imprimere orientamenti dopo aver trascorso quasi tutti interi decenni sotto l'ombrello acconciato dalle correnti e dopo aver usufruito a piene mani delle sue prebende. È un buon segno sia chiaro. Se è necessario richiamare dalle retrovie i grand commis di una certa magistratura - quasi sempre pubblici ministeri con apprezzabili entrature mediatiche - vuol dire che la discussione sta prendendo una brutta piega e che un mondo è in fibrillazione. Perché, si badi bene, malgrado le convergenze politiche degli ultimi tempi, anzi delle ultime ore, questo modello di magistratura, con le sue storture e le sue deviazioni andava benissimo a tanti e pure a tantissimi. Basterebbe fare una rapida ricognizione dei contatti politici, giornalistici, economici, accademici dell'ex presidente dell'Anm finito nella bufera due anni or sono, del numero di convegni, dibattiti, pubblicazioni, delle sponsorizzazioni di ogni genere per comprendere che quel modello di magistratura, friabile e permeabile, stava bene a molti. E sono proprio quei tanti, quegli apparati che, oggi, temono che un sistema possa essere incrinato. La magistratura - per ragioni che in questa sede sarebbe impossibile esporre - è stata resa negli ultimi due decenni un sistema verticale, gerarchizzato, controllato, burocratizzato. L'affresco costituzionale di una magistratura orizzontale, paritaria, insensibile alle imposizioni verticistiche è stato deturpato, piegato e sagomato in favore di istanze del tutto difformi. Non si vuol dire che queste istanze siano prospettive eversive o illecite di per sé, quanto evidenziare che sono assetti diversi da quelli immaginati dal Costituente del 1947 che, in tanto aveva riversato sulla magistratura un potere ampio, autonomo e incondizionato, in quanto lo aveva concepito come parcellizzato, diffuso, sottratto a spinte centripete. L'ergersi dì un corpo giudiziario - come lo si suole definire - articolato, centralizzato e minuziosamente disciplinato secondo regole, però, ad ampia discrezionalità (si pensi solo ai criteri per le nomine agli gli uffici direttivi) si pone in contrasto con la Costituzione e con la riserva di legge che regola l'ordinamento giudiziario (articolo 108). Ed è questo il vero punto della discussione che le persistenti camarille sulla separazione delle carriere pongono in ombra e lasciano pericolosamente in disparte. Occorre realisticamente prendere atto che le forze riformatrici che hanno di mira questo risultato, inteso come la madre di tutte le battaglie, sono cadute in una gigantesca trappola. f del tutto evidente che gli argomenti che militano contro la formazione di un pericoloso apparato composto di soli pubblici ministeri sovrastano le ragioni di quanti immaginano di guadagnare il risultato di un processo reso più giusto per effetto della piena equiparazione tra difesa e accusa e della scissione delle carriere con il giudice. Aver spostato praticamente solo su questo piano la discussione in corso sulla giustizia agevola oltre ogni misura la conservazione dello status quo. Ci si batte contro un fantasma che sarà impossibile scacciare; una lotta impari e inutile, perché trascura l'aspetto fondamentale della necessità di contenere e ribaltare il centralismo illiberale che regge le sorti della magistratura italiana. La discussione è stata traslata in una palude in cui i contendenti, non a caso, sono impantanati da decenni e la momentanea illusione di una sortita con il favore della politica - oggi indignata domani chissà - è nient'altro che un modo per affondare di più nelle sabbie mobili di un dibattito animato, ma senza un'effettiva way out. Il processo di verticalizzazione dell'ufficio del pubblico ministero ha circa 30 anni di vita ed è perfettamente consolidato in ogni suo risvolto. E purtroppo non sarà certo qualche circolare del Csm a metterlo seriamente in discussione, né a scalfirne la possente efficacia che non ha eguali in Occidente. un tema cruciale per una riforma della magistratura e del processo che voglia contenere l'espansione di un perverso disegno che ha sostituito al protocollo costituzionale del cd. potere diffuso l'ergersi di diffuso potere di sorveglianza penale a guida oligopolistica. A questo occorre aggiungere che il controllo burocratico esercitato sull'attività dei giudici - in vista del solo risultato esteriore di una produttività senza qualità che svilisce la funzione - è non solo parimenti giunto a compimento, ma appare addirittura incentivato alla luce di riforme prossime che puntano al consolidamento degli uffici di giustizia in freddi e meccanici “sentenzifici”. Di questo i referendum non discutono, ma il dibattito che li precede è un momento importante per fare chiarezza sugli snodi decisivi della giustizia in Italia che conosce esempi fulgidi di dedizione e valore, ma anche - occorre ricordare ai mistici dell'ancien regime - vizi e aberrazioni che non hanno eguali altrove in Europa. “Quei quesiti ostacolano le riforme del governo. La giustizia si cambia in Parlamento” di Giacomo Puletti Il Dubbio, 8 giugno 2021 Intervista a Walter Verini, tesoriere del Partito democratico: “Dopo la guerra dei trent’anni tra giustizialismo e impunitismo oggi l’Italia ha l’occasione di modernizzare la giustizia”. Walter Verini, tesoriere del Partito democratico e membro della commissione Giustizia alla Camera, spiega al Dubbio che “dopo la guerra dei trent’anni tra giustizialismo e impunitismo oggi l’Italia ha l’occasione di modernizzare la giustizia”, ma anche che “ora anche i Cinque Stelle dovranno trovare il modo di tutelare i propri principi senza rimanere attaccati a un tempo che è ormai superato”. Onorevole Verini, che reazione hanno provocato le parole di Bettini sui referendum della Lega? Sono opinioni e stimoli coerenti con posizioni espresse anche in passato. Ha precisato di avere parlato a titolo personale e il Pd non è una caserma. Detto questo, noi stiamo lavorando come partito in una prospettiva chiara, che è quella di fare le riforme. Il referendum le ostacola, non le stimola. Senza voler demonizzare l’istituto dei referendum, oggi il tema è fare le riforme: i quesiti di Salvini rischiano di indebolire lo sforzo di governo e Parlamento. Dall’altro lato, i difensori del referendum dicono che la maggioranza è troppo ampia ed eterogenea per trovare un accordo e quindi sia meglio lasciare la parola ai cittadini. Che ne pensa? Per me è una tesi sbagliata. I referendum suonano come sfiducia nella capacità di questo governo, presieduto da Mario Draghi e la cui ministra della Giustizia è Marta Cartabia, che ha adottato un metodo molto inclusivo e dialogante. E decidente. Per la prima volta dopo la “guerra dei Trent’anni” tra gli opposti estremismi del giustizialismo e dell’impunitismo (cioè di un garantismo finto) oggi l’Italia ha a portata di mano l’occasione di vedere l’approdo di riforme che modernizzeranno la giustizia nel nostro Paese applicando pienamente la Costituzione. Nel civile, nel penale e, con la riforma del Csm, rafforzando la credibilità e l’indipendenza della magistratura. Aiutandone la necessaria e urgente autorigenerazione. Non pensa sia sbagliato mettere sullo stesso piano il giustizialismo imperante in Italia da Tortora e Tangentopoli in poi, con un impunitismo che in fondo è sempre stato minoritario? Il populismo giudiziario precede i Cinque Stelle e a volte ha influenzato anche la sinistra, in termini negativi. E gli stessi organi di informazione. Quasi che qualcuno pensasse che le scorciatoie giudiziarie potessero supplire alla forza politica. È una cosa antica che precede di anni il grillismo, ma attenzione: i tentativi di colpire l’indipendenza della magistratura e metterla sotto il tacco della politica non sono stati minoritari. Sono stati il cuore dell’azione di qualche governo, che su questo tema è pure caduto. Oggi si possono gettare alle spalle questi trent’anni e guardando insieme al futuro si può costruire un ordinamento legislativo e giudiziario nel pieno solco della Costituzione. Togliendo la giustizia dalla tossicità dello scontro politico e riportandola nella bellezza del confronto politico- parlamentare. E si può fare perché c’è un governo non di parte, che può trovare soluzioni innovative ed equilibrate. Quali risultati stanno arrivando finora? Sul civile sono stati fatti molti passi avanti e siamo in dirittura. Sul Csm ci sono tutte le condizioni per far recuperare ai cittadini fiducia nella magistratura. Questo grazie alle proposte fatte dalla commissione Lattanzi e al dibattito che si è aperto tra le forze politiche. La commissione ha fatto proposte che la ministra ha presentato e sono arrivati gli emendamenti dei gruppi. C’è un terreno di merito, un nuovo meccanismo elettorale che combatte le degenerazioni di carrierismo e correntismo, misure che premiano meriti e performances, rafforzano la distinzione delle funzioni, valorizzano il ruolo dell’Avvocatura, distinguono il disciplinare. E prevede, nell’orizzonte più ampio, l’istituzione di quell’Alta corte che come Pd abbiamo rilanciato. Queste cose già rendono inutili e superati almeno tre dei quesiti referendari. È sulla riforma del processo penale che si rischia lo scontro tra le diverse visioni di giustizia interne alla maggioranza? Qui abbiamo l’occasione di portare i processi a durare secondo Costituzione, con un equilibrio ulteriore tra accusa e difesa. Ci sono proposte contro la gogna mediatica e che attenuano la possibilità di rinvio a giudizio se non in presenza di una ragionevole fondatezza che quel processo vada all’esito di colpevolezza. Tutto questo per cercare di disincentivare certi automatismi che si sono sviluppati nel corso degli anni. In più si rafforza la giustizia riparativa, si porta la durata del processo a tempi ragionevoli (e la prescrizione come tema si ridimensiona, anche se si prevede in caso di non rispetto dei tempi previsti dalle fasi). Eppure Salvini, i Radicali e altri, come Bettini, insistono... Ma che c’entra Bettini… Da parte di Salvini è l’ennesimo tentativo di fare una campagna partitica di propaganda, quando invece oggi dovremmo rimboccarci le maniche e insieme, Lega compresa, dare al Paese una giustizia moderna. Ma Salvini continua a fare la Lega di lotta e di governo. Indebolendo governo e riforme. E poi, sinceramente, Salvini diventa garantista con la stessa velocità con cui è diventato europeista… Cosa significa, oggi, “giustizia moderna”? Significa un processo che dura ragionevolmente, perché un imputato - presunto innocente - ha il diritto a non essere condannato a un fine processo mai. E men che mai condannato dalla gogna mediatica. Ma riguarda anche uno speculare diritto delle vittime dei reati, siano collettività o privati cittadini, ad avere un processo che abbia comunque un esito, qualunque esso sia. Crede che i partiti, e in particolare il Movimento 5 Stelle, siano dello stesso parere? Secondo me oggi sarebbe imperdonabile se la politica non riuscisse a dare una mano per questo sforzo. Dobbiamo farlo perché è giusto e anche perché perderemmo i fondi del Recovery plan. Se malauguratamente non si riuscisse a fare le riforme, sarebbe un colpo per il Paese e per il governo e si aprirebbe uno scenario pericoloso. Per quanto riguarda il Movimento, non vedo un clima barricadero. È attento sì al proprio patrimonio identitario, ma non è più il tempo delle rigidità e dei totem, ma quello di porsi in una posizione di ascolto e di volontà di trovare sintesi. E in tutto questo il Pd come si sta muovendo? Il Pd da tempo e ora con il segretario Letta ha cercato di essere promotore di proposte, approcci, cambiamenti anche innovativi nel solco della Costituzione, aiutando a indebolire gli estremismi. Abbiamo cercato di difendere i principi, mettendoli a confronto con quelli degli altri e trovando una sintesi. Ora anche i Cinque Stelle dovranno trovare il modo di tutelare i propri principi senza rimanere attaccati a un tempo che è ormai superato. Anche perché estremismo chiama estremismo e a rimetterci sarebbe il Paese. Nello Rossi: “I referendum mirano a condizionare pesantemente la politica della giustizia” di Liana Milella La Repubblica, 8 giugno 2021 Il direttore di Questione giustizia, la rivista di Magistratura democratica: “C'è del metodo in questa bizzarria”. Nei sei quesiti l'ex pm vede annidarsi anche la possibilità per i mafiosi di candidarsi se cade la legge Severino. E, con la stretta sulla custodia cautelare, che restino liberi anche gli autori di gravi reati economici e contra la Pubblica amministrazione. I referendum, della Lega e del Partito radicale schierati insieme, futuri protagonisti del dibattito sulla giustizia. Se ne parla molto, ma solo “in toni generici, tattici, politicisti, senza entrare nel merito dei quesiti”. Ne parliamo con Nello Rossi, oggi direttore di Questione Giustizia, la rivista online promossa da Magistratura democratica, che domani pubblicherà un ampio articolo sui contenuti dei singoli referendum. Una toga “rossa” come lei, Nello Rossi, contro i referendum della Lega. Dov'è la notizia? “Ah, bene. Questa intervista la cominciamo così? Definendomi toga rossa? Potrei protestare per il cliché ma diciamo che, con gli anni, mi sono rassegnato. La pigrizia dei cronisti è leggendaria e sono condannati a lavorare troppo in fretta per escogitare nuovi appellativi. Comunque la vera notizia per i cittadini è che questi sei referendum, guardati da vicino, sono molto sorprendenti. Innanzitutto per il loro reale contenuto e poi per la singolare alleanza che li propone: Radicali e Lega, libertari ad oltranza e propugnatori del “buttiamo la chiave”, fuori dal potere i primi, al governo gli altri”. Lei contesta che un partito possa essere, al contempo, “di lotta e di governo”? “Ricordo che i primi a promuovere un referendum abrogativo contro la legge sul divorzio furono i conservatori della Dc, partito di maggioranza relativa e i nostalgici dell'Msi. Un referendum che, grazie alla saggezza degli italiani, fu respinto con la vittoria dei no all'abrogazione. Da allora la storia dei referendum è stata molto travagliata, ma diciamo che in prevalenza o hanno avuto un'impronta di destra o hanno avallato, con il loro fallimento, politiche di destra. Forse è questo che spiega l'attuale scelta di un partito conservatore come la Lega”. In tempi di pentapartito, per una mossa del genere, ci sarebbe stata già la crisi, invece la Lega partecipa alle riunioni con Cartabia e lavora alle tre riforme della giustizia. È politicamente logico questo comportamento? “C'è del metodo in questa bizzarria. Il referendum abrogativo dovrebbe essere un mezzo con cui minoranze estranee al potere chiedono ai cittadini di cancellare leggi ritenute ingiuste o non più adatte ai tempi. Ma la storia, come ho già detto, prende talvolta pieghe strane. Quando chi è nella maggioranza si accoda a referendum come questi è evidente che vuole sovrapporre i suoi obiettivi all'indirizzo politico del governo o condizionarlo pesantemente dall'esterno. La storia dei referendum di stimolo, di pungolo o estranei all'azione di governo non regge”. Però ha notato che nessuno si meraviglia? Nel senso che la Lega potrà votare in Parlamento sulle nuove regole per passare da pm a giudice e viceversa e poi tenere in piazza i banchetti per separare le carriere. A chi dovrebbe credere l'elettore? “In effetti non è esaltante vedere che esponenti di partiti diversi dalla Lega si pronuncino sull'iniziativa con toni generici, allusivi, politicisti, senza mai sfiorare il merito dei quesiti. C'è da sperare, invece, che lo facciano gli elettori. E sono convinto che moltissimi elettori moderati e conservatori salteranno sulla sedia decrittando alcuni dei quesiti”. La separazione delle carriere, per anni cavallo di battaglia di Berlusconi. Ricorda la battuta del pm e del giudice che s'incontrano al bar del tribunale? Pensa che gli italiani attribuiscano alla carriera unica la lentezza e gli errori della giustizia? “Oggi, come dimostrano le statistiche delle assoluzioni, il pm è tutt'altro che onnipotente e viene quotidianamente smentito dai giudici in un enorme numero di processi. Detto questo, la vecchia storia raccontata da Berlusconi del pm che, all'indomani della separazione delle carriere, si presenta al giudice “con il cappello in mano” è una gag malriuscita. Un pm separato dalla giurisdizione ed attratto nell'orbita dell'esecutivo avrebbe molto più potere dell'attuale. Ci pensino gli avvocati penalisti. E non abbiano nostalgia dei processi americani che iniziano con formule del tipo “lo Stato dell'Alabama contro XY” che sottolinea, già nell'esordio, il grande squilibrio di potere tra accusa e difesa”. Il referendum abrogativo ora proposto può realizzare la separazione delle carriere? “Secondo me, il referendum sulla separazione delle carriere è un'impervia scorciatoia che porta solo in un fosso. Per come è congegnato è destinato a essere dichiarato inammissibile dalla Corte costituzionale. Cinque leggi coinvolte. Una raffica di quesiti difficili da capire persino dagli addetti ai lavori che investono aspetti eterogenei della normativa in vigore. Impossibile rispondere con un sì o con un no, com'è nella logica del referendum abrogativo giustamente salvaguardata dalla Corte costituzionale. Ma forse ci si propone solo di alimentare una campagna vittimistica in caso di diniego del giudice costituzionale allo svolgimento del referendum”. Se i passaggi da una funzione all'altra si ridurranno solo a due - come già prevedeva Bonafede e adesso conferma il costituzionalista Massimo Luciani che, su incarico di Marta Cartabia, ha presieduto il gruppo di lavoro sulla riforma del Csm - si sentirà ancora il bisogno di un pm potente e autonomo? “Un pm potente? Nella mia carriera sono stato pubblico ministero per quasi quindici anni e le assicuro che non mi sono mai battuto per l'obiettivo di un pm “potente”. Indipendente dal potere politico, questo sì. Messo in grado di fare il suo mestiere, che è quello di coordinare le indagini in vista e in funzione della prova nel processo. Investito del compito di essere il primo garante dei diritti del cittadino imputato. E le assicuro che la stragrande maggioranza dei magistrati del pm che ho conosciuto la pensa come me e agisce di conseguenza. Le do un consiglio: non ascolti solo chi parla e talvolta straparla nei talk show”. La custodia cautelare. I Radicali, da sempre, vogliono ridurla al minimo. Ma come fa il Salvini che mima le manette per il sindaco Uggetti a essere d'accordo con loro? “Ecco, questa è una delle sorprese che si hanno leggendo davvero e non limitandosi solo ad orecchiare i quesiti. Come tutti sanno, oggi si possono adottare misure cautelari per il pericolo di fuga, per il rischio che l'indagato inquini le prove, e per il pericolo di reiterazione di gravi reati. Ed è qui che cade la mannaia della proposta referendaria. Il pericolo di reiterazione potrà essere invocato solo per i delitti di criminalità organizzata, di eversione o per i reati commessi con uso di armi o altri mezzi di violenza personale. I potenziali autori seriali di gravi reati politico-amministrativi, economici, contro la libertà personale o sessuale (commessi con mezzi non violenti) non potranno essere sottoposti a misure cautelari nei casi in cui non ci sarà il rischio di inquinamento delle prove o il pericolo di fuga. Mi auguro solo che i promotori del referendum non si ritrovino a protestare davanti ai palazzi di giustizia contro le decisioni adottate in conformità al risultato referendario”. L'eventuale colpo di spugna sul decreto Severino che disciplina ineleggibilità e incandidabilità di chi ha fatto i conti con la giustizia riporterà nelle istituzioni i condannati anche per reati gravi? “Le assicuro che, essendo abbastanza incredulo, ho controllato più volte il quesito referendario sino a che il testo ufficiale non è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Si propone di abrogare l'intero testo unico sulle incandidabilità a tutte le cariche elettive (Parlamento europeo, Camera e Senato, Regioni, Comuni, Province, Circoscrizioni). Così che potrebbero candidarsi a “ tutto” mafiosi, terroristi, rei di gravi fatti di corruzione e di altri gravi reati condannati in via definitiva”. Il magistrato che “paga” di tasca sua per gli errori commessi, la responsabilità civile che diventa personale: come si concilia, nel caso della Lega, questa richiesta con la costante propaganda per il “tutti dentro in manette”, anche nel caso del ladruncolo di strada? “Nessuna persona sensata può credere che un'azione civile diretta contro il magistrato che abbia sbagliato - di regola un modesto “salariato dello Stato” - possa aumentare le garanzie di ristoro del danneggiato. È lo Stato che deve rispondere applicando poi al magistrato incisive sanzioni disciplinari e rivalendosi in una misura accettabile contro di lui. Come prevede la legge oggi in vigore e come ripetono incessantemente le alte Corti italiane ed internazionali. Ogni diverso assetto - e quello che scaturirebbe dal referendum è confuso e indecifrabile - può solo servire per intimorire preventivamente i magistrati”. La toga giudicata e valutata dagli avvocati. Non c'è un'evidente contraddizione tra questa ipotesi e la separazione delle carriere? Se tutto deve essere separato per evitare commistioni, com'è possibile che un avvocato voti sulla carriera di un magistrato che magari ha messo in carcere oppure ha condannato un suo cliente? “A mio avviso per migliorare le valutazioni di professionalità dei magistrati che sono attualmente insoddisfacenti occorre ammettere i membri laici dei Consigli giudiziari a partecipare attivamente alle discussioni sui pareri di professionalità da fornire al Csm. Ma il referendum va ben oltre, perché mira a una partecipazione dei non togati non solo alle discussioni, ma anche alle deliberazioni sui pareri. Con una serie di rischi: di ostilità preconcette ma anche di indebite compiacenze. Non sarebbe un buon risultato”. Sul Csm, Cartabia al bivio tra tecnici soft e partiti hard di Errico Novi Il Dubbio, 8 giugno 2021 Dagli esperti norme più restrittive anche sulla presenza di Foro e professori nell’Ufficio studi. “La svolta dev’essere culturale”. Diciamo che in termini di lavoro, la commissione Luciani ne dà molto, alla ministra Marta Cartabia. La proposta di modifica avanzata sul Csm dagli esperti, resa pubblica ieri, è infatti ampia, forse più di quanto lo sia la relazione Lattanzi sul penale: quasi 100 pagine solo per le ipotesi di emendamento, oltre a una ventina di “illustrazione”. È anche una relazione meditata, consapevole dei propri limiti: “La commissione non può fare a meno di richiamare l’attenzione” su un dato, è infatti la frase con cui si conclude il contributo, e cioè sul fatto che “nessun intervento riformatore può avere successo senza un profondo rinnovamento culturale, del quale devono essere partecipi la politica, i mezzi di informazione, l’opinione pubblica e - soprattutto - la stessa magistratura”. Lo aveva detto anche Cartabia nell’esporre le proprie linee programmatiche in Parlamento. Non è una dichiarazione di resa ma un atto di realismo. Va pure detto che dal ministero viene data notizia del testo prodotto dagli esperti con la ripetuta puntualizzazione che “le conclusioni della commissione sono ora al vaglio della ministra”, la quale “effettuerà le sue valutazioni e una sua sintesi”. Sembra il richiamo a una scelta davvero sospesa, come in parte era apparsa venerdì scorso, quando il professor Luciani aveva sottoposto per grandi linee il lavoro ai capigruppo di maggioranza. Ne era seguito un giudizio pressoché unanime, riportato anche dal sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto in un’intervista al Dubbio: “È stata una riunione interlocutoria”. Dalla lettura della relazione e degli emendamenti si coglie il motivo di quella indeterminatezza: la proposta Luciani rielabora sì il ddl da cui si parte e che è all’esame della Camera, cioè la riforma del Csm targata Bonafede, offre spunti di modifica utili, ma non sceglie l’accetta, non indica ipotesi estreme. Non c’è ad esempio il “sorteggio temperato” per la scelta dei togati né la composizione random delle commissioni di Palazzo dei Marescialli. Non si suggerisce di scendere sotto il limite dei due passaggi da giudicante a requirente o viceversa, già fissato nel ddl Bonafede. Non ci si inoltra in proposte d’avanguardia come quella indicata in uno degli emendamenti depositati da Enrico Costa alla Camera, cioè l’istituzione di commissioni “separate per funzione” (diverse per giudici e pm) in materia di nomine e trasferimenti, sempre per ridurre il peso dei requirenti. E il tenersi indietro rispetto alla linea della rivoluzione è di fatto un assist politico per Cartabia: in vista degli emendamenti governativi da proporre sul Csm, la ministra a questo punto dovrà scegliere fra una pur profonda manutenzione normativa, messa sul tavolo dagli esperti, e i colpi d’acceleratore bruschi, ma forse necessari, indicati sia dai gruppi parlamentari che dai referendum di radicali e Lega. Si può andare per esempi e capire meglio il senso del bivio. Sui Consigli giudiziari, le norme già previste da Bonafede all’articolo 3 non vengono stravolte: ci si ferma alla istituzionalizzazione del diritto di tribuna per gli avvocati e i professori, “con la conseguente uniformazione di prassi, allo stato, discordanti”, come si legge nella relazione. Si aggiunge solo che la partecipazione dei laici alle riunioni dei “mini Csm” in cui si discute di promozioni dei magistrati deve avvenire “con pieno diritto di parola”: un po’ pleonastico. Il referendum, ma anche gli emendamenti parlamentari di Fi, Azione e Pd introducono invece il diritto di voto. Altra distanza dal referendum: la raccolta firme a cui sono tenuti i magistrati per candidarsi al Csm. Uno dei 6 quesiti promossi dai pannelliani e da Salvini prevede l’azzeramento di quelle sottoscrizioni, la commissione Luciani si limita a ridurne il numero. Agli avvocati interesserà molto anche la novità relativa all’Ufficio studi e documentazione, articolazione tecnica ma strategica del Csm: il ddl Bonafede riserva 8 posti aperti sia ad avvocati e professori che ai magistrati, la proposta degli esperti indica almeno 8 posti e un massimo di 12, ma ne riserva 2 terzi “arrotondati per difetto” alle toghe, e un terzo “arrotondato per eccesso” a professione forense e accademia. Meglio o peggio? Certo, dal punto di vista dei magistrati viene scongiurato il rischio di vedere quella riserva di posti monopolizzata dagli “estranei”, però gli stessi estranei sono certi che almeno 3 posti, nella peggiore delle ipotesi, andrebbero a loro. Riguardo agli avvocati, si chiarisce che chi entra nell’Ufficio studi viene sospeso dall’esercizio della professione ai sensi della legge forense, articolo 20. Altri dettagli: è ormai noto che sulle cosiddette porte girevoli i tecnici sono meno tranchant del ddl Bonafede. Lo sono anche, seppur in modo sfumato, sui limiti ai fuori ruolo, che i deputati puntano a ridurre più drasticamente. Ma tra i correttivi utili, la relazione resa pubblica ieri reintroduce la riserva di seggi per categorie, con la tradizionale prevalenza di giudici rispetto ai pm (rapporto 3 a 1): d’altronde Cartabia l’aveva quasi promessa. Sul “rinnovo modulare” ogni due anni, pure ipotizzato dalla ministra in Parlamento, si spiega, non a torto, che sarebbe difficile arrivarci senza una modifica della Costituzione. Da ultimo, su un punto sembra esserci convergenza fra esperti e deputati garantisti: le valutazioni di professionalità positive vengono diversificate in “distinto”, “buono” e “ottimo”: novità opportuna. Però la commissione non arriva a istituire un peso specifico per i rinvii a giudizio e i relativi insuccessi processuali. Anche qui, i partiti vanno oltre. E anche da qui emerge che la ministra dovrà scegliere fra misura e scelte più drastiche. Feticci dell’azione penale di Edmondo Bruti Liberati* Il Foglio, 8 giugno 2021 Art. 112 della Costituzione: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Una frase, 9 parole o, come si conta oggi, 64 battute spazi inclusi. Obbligatorietà sì, obbligatorietà no? Forse si può fare un passo avanti rispetto a una contrapposizione che spesso sembra assumere i caratteri di una guerra di religione. Prescrivendo l’obbligatorietà dell’azione il Costituente ha voluto “soltanto” fissare un principio: l’eguaglianza di tutti davanti alla legge sancita dall’art. 3 esige che nell’applicazione della legge penale il primo attore, il pm, sia sottratto a ogni influenza dell’esecutivo. Era allora viva l’esperienza dell’influenza del regime fascista sull’attività del pubblico ministero, al quale, per di più, il codice Rocco consentiva l’archiviazione diretta senza alcun controllo del giudice istruttore. Ma la democrazia non ha definitivamente risolto il problema se è vero che ancora negli anni Ottanta del secolo appena trascorso si parlava della Procura di Roma come “porto delle nebbie”. Basterebbe solo evocare quello che fu chiamato l’”assalto” alla Banca d’Italia con l’incarcerazione di Mario Sarcinelli e il ritiro del passaporto a Paolo Baffi. Nella lettera con la quale trasmette il suo diario, intitolato asetticamente “Cronaca breve di una vicenda giudiziaria”, al giornalista Massimo Riva si legge l’amara considerazione di Baffi: “Ho dovuto accorgermi della potenza del complesso politico-affaristico-giudiziario che mi ha battuto”. Sono passati trent’anni, tutto è cambiato alla Procura di Roma, ma la lettura di quel diario, pubblicato su Panorama dell’11 febbraio 1990 è tuttora istruttiva. In Francia vige il principio della opportunité des poursuites e non si è voluto recidere fino in fondo il cordone ombelicale tra esecutivo e pubblico ministero, ma tutta la recente evoluzione è nel senso di delimitare e circoscrivere l’intervento del governo con direttive ai procuratori generali: dapprima direttive scritte e non più discrete telefonate, poi direttive scritte e inserite nel fascicolo, quindi direttive solo in positivo come invito a procedere e non nel senso di non procedere. Ora è sempre più vivo il dibattito sulla permanenza di quel che resta del cordone ombelicale. Se in Francia la tendenza è quella di delimitare la discrezionalità, che nella pratica ormai opera solo come deflazione per i casi di minima offensività (come d’altronde in Germania), in Italia all’opposto è oggetto di critica il principio di obbligatorietà. Sgombriamo subito il campo dai cortocircuiti argomentativi. Non esistono nella realtà i “modelli puri” di processo, inquisitorio o accusatorio; non esiste negli stati democratici a livello globale e neppure nella nostra piccola Europa e neppure nell’ambito più ristretto dell’area di civil law un “modello di pm”. Per fortuna nel 1989 abbiamo adottato un codice di procedura penale che dalla ispirazione accusatoria trae il principio fondamentale del contraddittorio e per fortuna, saggiamente, non abbiamo adottato il modello del pm americano. Voler trarre la conseguenza della soppressione del principio di obbligatorietà dalla adozione di un processo ispirato al contraddittorio è una forzatura. D’altronde, e in senso opposto, in Francia la discrezionalità è inserita in un sistema che mantiene istituti del processo inquisitorio. Torniamo allora al nostro art. 112 della Costituzione: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Il principio, lo si è detto, esprime un valore, ma l’attuazione concreta apre una serie di problemi, che non possono essere elusi. Obbligo, ma quando, su quali presupposti? La facile risposta del codice “quando vi è una notizia di reato” non risolve nulla. Si tratta di una “notizia” circostanziata o una vaga suggestione o peggio la polpetta avvelenata di una fake news? E cosa è “reato”? La risposta dei manuali è semplice, perché meramente formale: “Reato è ciò per cui è prevista una sanzione penale”. Ma inquadrare il fatto concreto nella congerie delle norme previste dal codice penale e dalle innumerevoli leggi speciali che prevedono sanzioni penali è tutt’altro che una operazione meccanica. Oggi di fronte alla complessità della legislazione, interna, europea, internazionale, non appaga la figura del giudice “bocca che pronuncia le parole della legge… essere inanimato”. Se questo vale per il giudice che, in penale come nel civile, non procede d’ufficio, ma su impulso di parte e dunque su un terreno già circoscritto e inoltre è “assistito” dal contraddittorio tra le parti, varrà a maggior ragione per il “povero pm”. Una provocazione “povero pm” a fronte dei grandi poteri che gli sono attribuiti? Egli è solo in questa fase del tutto iniziale, non è “assistito” dal contraddittorio con la difesa, deve individuare la norma che sarebbe applicabile. Deve governare le inevitabili pulsioni della polizia alla ricerca di un risultato immediato. Deve resistere alle suggestioni di una opinione pubblica altalenante, che un giorno è occhiutamente garantista, ma il giorno appresso chiede al pm di dare risposte a problemi politici e sociali, di indagare su “fenomeni criminali”, o addirittura di “lanciare segnali alla politica” o infine di farsi custode della virtù pubblica, intervenendo su fatti di malcostume o irregolarità amministrative. Alcuni pm, per insufficienza di cultura quando non per smania di protagonismo, non resistono a queste sirene, dimenticando che il pm ha l’obbligo di accertare fatti di reato specifici e responsabilità individuali, con il livello di prova elevato che si esige per una condanna, nel pieno rispetto delle garanzie di difesa. Oggi è passata nel linguaggio giornalistico la impropria ridondante locuzione “reati penali”, ma forse serve a segnare un limite. Compito difficile quello del “povero pm” in questa fase iniziale: strattonato da una parte e dall’altra, deve attuare il principio di “obbligatorietà” attraverso una serie di scelte ineluttabilmente discrezionali, tra diverse opzioni possibili. È inconsistente il pretestuoso trincerarsi di alcuni pubblici ministeri dietro il principio della obbligatorietà dell’azione penale, o peggio dietro la fuorviante giaculatoria dell’”atto dovuto”, per evitare di misurarsi con la assunzione di responsabilità per le scelte che percorrono tutta l’attività del pm, pur se rigorosamente svolta nella osservanza delle regole e delle garanzie del processo. Una recente vicenda ha attirato l’attenzione sul momento della “iscrizione della notizia di reato”. “Immediatamente” dice la norma processuale, ma spesso non è né semplice né immediato individuare se la notizia riguardi un “reato”. Infatti è previsto anche il Registro mod. 45 per le “non notizie di reato”, accanto ad altri due, uno per le notizie a carico di ignoti (Mod. 44) e altro per i noti (Mod 21). Il pm iscrive “immediatamente”, ma in quale dei tre registri mod 21, 44 o 45? Reato o non reato? Noti o ignoti? Qualunque scelta ha margini di opinabilità e può prestarsi ad arbitri, ma appunto è una scelta che il pm deve operare. Immediatamente? Ma già l’esame preliminare della “notizia” può non essere così semplice. Ed è più garantista, nel dubbio, iscrivere comunque e subito a mod. 21 noti? Procedere ad iscrizioni non necessarie è tanto inappropriato quanto omettere le iscrizioni dovute. Dunque se neanche quello che apparirebbe più semplice, la “immediata” iscrizione della notizia di reato è automatico, successivamente scelte che comportano esercizio di discrezionalità punteggiano tutta la attività di indagine del pm. Da ultimo: obbligatorietà/priorità. Adattando la nota replica di Mark Twain alla pubblicazione della notizia della sua morte, mi verrebbe da dire che la questione dei criteri di priorità dell’azione penale “è fortemente esagerata.” Mi riferisco al valore salvifico che si attribuisce all’idea di un elenco di reati messi in fila uno dopo l’altro. La assunzione di responsabilità per l’indicazione di priorità a livello nazionale non può che essere del Parlamento. Naturalmente il Parlamento non potrebbe mai dare la direttiva più drastica: non perseguite questi reati. Sarebbero quelli che proprio il Parlamento dovrebbe cancellare con la depenalizzazione. La Commissione Lattanzi insediata dalla ministra Cartabia ha proposto un emendamento ragionevole al disegno di legge Bonafede n. 2034: “Prevedere che il Parlamento determini periodicamente, anche sulla base di una relazione presentata dal Consiglio superiore della magistratura, i criteri generali necessari a garantire efficacia e uniformità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi; prevedere che, nell’ambito dei criteri generali adottati dal Parlamento, gli uffici giudiziari, previa interlocuzione tra uffici requirenti e giudicanti, predispongano i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi, tenuto conto della specifica realtà criminale e territoriale, nonché del numero degli affari e delle risorse disponibili”. Viene abbandonata la originaria proposta Bonafede: “Prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica”, che tagliava fuori del tutto il Parlamento e il Csm. Rimane, nel clima del dilagante populismo penale, il rischio che si verifichi quanto descriveva qualche anno fa un procuratore francese. “Siamo sommersi da circolari di politica generale che ci impongono delle priorità, ma queste circolari sono così numerose che praticamente tutto è prioritario e dunque dobbiamo noi ridefinire un poco le priorità […] Se facciamo l’inventario di tutte queste circolari, le quali ci dicono che un tale settore deve essere trattato con diligenza, fermezza e celerità, vediamo che esse riguardano quasi l’80 per cento dei nostri fascicoli. E dunque dobbiamo fare una selezione di ciò che è realmente urgente e importante” (Testimonianza di un procuratore della Repubblica in Ph. Milburn, K. Kostulski, D. Salas, Les procureurs. Entre vocation judiciaire et fonctions politiques, Puf, Paris 2010, pp. 91-92, mia traduzione) La politica criminale più che in direttive di priorità si concreta nell’adeguamento della normativa penale processuale e sostanziale, nelle scelte organizzative sull’impiego delle risorse materiali e tecnologiche e nella distribuzione del personale di magistratura e delle forze di polizia. Le eventuali priorità definite annualmente a livello nazionale devono essere calibrate a livello locale e costantemente monitorate. La attuazione pratica di questi indirizzi nella singola Procura si traduce nella dislocazione delle risorse materiali, tecnologiche e umane. La normativa del 2006 ha realisticamente precisato il potere/dovere del procuratore nella responsabilità della organizzazione di un ufficio, che nel rispetto della dignità professionale di tutti i magistrati sostituti, richiede una uniformità di indirizzo. Le scelte organizzative del procuratore si devono attuare nella trasparenza dei “Criteri di organizzazione dell’ufficio”, che sarebbe bene il legislatore raccordasse con le “Tabelle degli uffici giudicanti”. Andrebbe generalizzato lo strumento del Bilancio di responsabilità sociale.; la pionieristica iniziativa, diversi anni, addietro dal procuratore della Repubblica di Bolzano Cuno Tarfusser, è tuttora poco seguita, con l’unica rilevante eccezione degli uffici giudiziari di Milano. Ma in conclusione ritorniamo alla grande responsabilità in capo al pubblico ministero, che esige cultura professionale, rigoroso rispetto delle garanzie e forte impegno deontologico. *Ex magistrato Mottarone, sostituita la Gip che ha difeso lo Stato di diritto di Simona Musco Il Dubbio, 8 giugno 2021 Il legale: “Provvedimento anomalo”. Il giudice Donatella Banci Buonamici che aveva scarcerato due dei tre indagati per la strage del Mottarone esce di scena. Al suo posto il gip “titolare per tabella” Elena Ceriotti. E ora il pm chiede l'annullamento dell'ordinanza. Non si occuperà più della tragedia della funivia del Mottarone la gip di Verbania Donatella Banci Buonamici, che nei giorni scorsi ha scarcerato due dei tre indagati, mandando ai domiciliari il terzo. Una decisione presa dal presidente del tribunale Luigi Montefusco proprio nel giorno in cui la giudice avrebbe dovuto decidere sulla richiesta di incidente probatorio relativa alle modalità attraverso cui procedere alle verifiche e alle perizie tecniche sul relitto della cabina e sul cavo spezzato, depositata il 3 giugno da Marcello Perillo, avvocato di Gabriele Tadini, il capo servizio della funivia ora ai domiciliari. Richiesta contro la quale la Procura si è opposta, con l’intenzione di disporre un “accertamento tecnico non ripetibile”. La palla, ora, passa al giudice Elena Ceriotti, “titolare per tabella del ruolo” ed esonerata a febbraio scorso da Banci Buonamici dalle funzioni di gip per la “grave situazione di sofferenza” del suo ufficio, esonero valido fino al 31 maggio. La scelta di Montefusco, secondo le difese, rappresenta una novità assoluta. A far discutere è soprattutto la tempistica: nonostante la gip Ceriotti sia tornata in ballo il 31 maggio, la richiesta di incidente probatorio, presentata tre giorni dopo, è comunque arrivata sulla scrivania di Banci Buonamici, così come la replica della procura. E il cambio di giudice è arrivato proprio nel giorno in cui la giudice si sarebbe dovuta pronunciare. Era stata la stessa Banci Buonamici ad assegnarsi il fascicolo, che sarebbe toccato, invece, alla collega Annalisa Palomba, “contestualmente impegnata in udienza dibattimentale”. In casi del genere, scriveva però Banci Buonamici, “le funzioni di gip, dal 1.1.2021, sono state esercitate da questo presidente”. Sarebbe stata lei, dunque, secondo questa consuetudine, il giudice naturale del caso. Ma per il presidente del Tribunale, “tale assegnazione, se giustificata per la convalida del fermo, non è conforme alle regole di distribuzione degli affari e ai criteri di sostituzione dei giudici impediti disposti nelle tabelle di organizzazione dell’Ufficio gip/gup”. Stando al provvedimento, infatti, “in base alle tabelle il giudice assegnatario del procedimento si sarebbe dovuto individuare, in caso di assenza o impedimento del gip titolare, in via graduata tra i giudici Alesci, Palomba, Sacco e Michelucci, e non nella dottoressa Banci Buonamici”. E sarebbe impossibile, secondo Montefusco, applicare “la disposizione di cosiddetta prorogatio della competenza del primo gip che ha adottato un atto del procedimento anche per tutti gli atti successivi, essendo questa dettata, ovviamente, per disciplinare la distribuzione degli affari ed evitare incompatibilità tra i gip titolari del ruolo, e non quando il singolo atto venga adottato da un gip supplente, che non deve, per un’equa e coerente distribuzione del lavoro, accollarsi, sino alla definizione del procedimento, affari per tabella non spettantegli, fatti salvi giustificati motivi”. Rientrata Ceriotti, dunque, il fascicolo può tornare a lei. Il provvedimento arriva dopo le polemiche sulla decisione di Banci Buonamici di non convalidare il fermo della procura, che aveva motivato il pericolo di fuga con la “risonanza mediatica” dell’inchiesta. Così la richiesta avanzata dalla procuratrice Olimpia Bossi di tenere tutti in carcere è stata cassata malamente dalla gip: nessun elemento concreto, infatti, sarebbe stato portato a sostegno del pericolo di fuga, “presupposto indefettibile per procedere al fermo di indiziati di reato”, mentre non è stato ritenuto valido, giuridicamente, il richiamo al clamore mediatico della vicenda (“è di palese evidenza la totale irrilevanza”, al punto da definirlo “suggestivo”). La decisione non era piaciuta alla procuratrice Bossi, che commentando l’esito dell’udienza di convalida si era lasciata andare ad un attimo di amarezza: “Prendevamo insieme il caffè - ha detto parlando della gip -, per un po’ lo berrò da sola”. E da qui la replica della giudice all’assalto dei giornalisti: “È il sistema, dovreste ringraziare di vivere in uno Stato dove il sistema fa giustizia o è una garanzia. L’Italia è un Paese democratico”. La decisione, ora, rischia di avvelenare ancora di più il clima attorno all’inchiesta. Che ieri ha registrato, da parte della procura, anche la richiesta di “annullamento dell’ordinanza di rigetto” nei confronti del gestore della funivia del Mottarone Luigi Nerini e del direttore d’esercizio dell’impianto Enrico Perocchio, scarcerati da Banci Buonamici il 30 maggio. E le difese hanno subito espresso sconcerto per la decisione di Montefusco. “È un provvedimento anomalo. Non è mai capitato che durante una partita venga cambiato l’arbitro nonostante tutti riconoscano abbia operato bene”, ha commentato Pasquale Pantano, legale di Nerini. Stessa reazione da parte di Perillo, che al Dubbio spiega: “Non è mai successo nulla del genere. I cambi di giudice dipendono, in genere, da motivi di salute o eventuali trasferimenti. Sono molto stranito da questa cosa, ma aspetto con serenità il provvedimento del nuovo giudice”. Per Alberto De Sanctis, presidente della Camera penale del Piemonte occidentale, “mai viene riassegnato ad altro gip un fascicolo in fase di indagini, salvo in casi di impossibilità a svolgere le funzioni (per esempio: maternità o trasferimento ad altro ufficio). È doppiamente singolare che accada in un piccolo Tribunale in cui il vero problema dovrebbe essere quello di evitare l’incompatibilità tra gip e gup. Non “bruci” due gip perché avresti problemi a trovarne il terzo per celebrare l’udienza preliminare. È ancora più incredibile che questo avvenga d’urgenza così di fatto da impedire al gip originario di decidere su una richiesta di incidente probatorio formulata dalla difesa. Spero che qualcuno all’interno della magistratura e dell’Anm se ne accorga così da tutelare l’indipendenza e la terzietà del giudice”. Sardegna. Sit-in dei Radicali: “Subito il Garante regionale per i detenuti” ansa.it, 8 giugno 2021 Petizione con 180 firme già depositata in Consiglio regionale. Manifestazione a Cagliari di fronte all'ex istituto penitenziario di Buoncammino: l'associazione radicale “Diritti alla Follia” ha depositato sabato scorso una petizione in Consiglio regionale, sostenuta da 180 firme di residenti in Sardegna, per chiedere subito la nomina nell'Isola del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Una indicazione attesa da dieci anni. “Si tratta - spiegano i promotori - del primo importante passo di una battaglia che si preannuncia lunga e che ha trovato oggi il sostegno di consiglieri regionali, dei quattro Garanti comunali nominati in Sardegna, di consiglieri comunali di Cagliari e Nuoro e delle associazioni impegnate nella promozione e tutela dei diritti fondamentali”. Davanti all'ingresso dell'ex carcere di Buoncammino è stata illustrata la petizione. “Dopo 10 anni dalla legge regionale, è urgente - sottolinea Cristina Paderi, presidente dell'associazione Diritti alla Follia - la nomina di una figura che possa svolgere con continuità quell'azione di monitoraggio nei confronti di ogni restrizione della libertà personale, ivi comprese quelle sanitarie e quelle che riguardano gli immigrati, che il Garante nazionale svolse nel giugno 2019. Leggere ora quel rapporto, reso clandestino alla comunità sarda, dà il senso del cammino da compiere. I consiglieri regionali presenti hanno preso l'impegno di 'fare propria' la petizione che abbiamo depositato. Li ringraziamo e continueremo a seguire l'iter di questa approvazione”. Il riferimento è a un documento lungo 23 pagine che fa seguito a una visita del Garante nazionale a case di reclusione, ospedali e altre strutture sarde. Un report che evidenziava già all'epoca diverse criticità. Modena. “Detenuti morti, non furono tutelati” di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 8 giugno 2021 Familiari delle vittime e associazioni si sono opposte alla richiesta di archiviazione. Ieri il giudice si è riservato. “Nel carcere di Modena, quel maledetto 8 marzo, sono morte 9 persone. Persone che erano private della libertà personale e sottoposte alla tutela e cura dello Stato, morte perché hanno avuto facile accesso ad una smisurata quantità di metadone custodito nella farmacia del carcere. In qualità di legale dei familiari, ma prima ancora di singolo cittadino, non posso non chiedermi se tale tragedia poteva essere evitata”. Così l’avvocato Luca Sebastiani dopo l’udienza di ieri mattina in tribunale a Modena, in cui il gip Andrea Romito si è riservato in merito alla decisione se archiviare o meno le indagini relative ai decessi di nove detenuti, avvenuti l’8 marzo dello scorso anno nel corso della maxi rivolta al carcere Sant’Anna. A chiedere l’archiviazione sono stati i pm Francesca Graziano e Lucia De Santis dopo che gli esiti degli esami autoptici sulle salme hanno confermato come i decessi dei detenuti fossero legati ad overdose da metadone e psicofarmaci. Ad opporsi all’archiviazione del caso, invece, l’avvocato Luca Sebastiani per il padre e il fratello di Hafedh Chouchane, l’avvocato Giampaolo Ronsisvalle per il garante nazionale dei detenuti e il legale Simona Filippi per l’associazione Antigone. “Abbiamo voluto porre l’attenzione su due grandi tematiche dirimenti in questa vicenda - sottolinea Sebastiani - le modalità di conservazione del metadone, presente in così larga scala e risultato troppo facilmente accessibile dai detenuti, che ne erano dipendenti, ma anche il colposo ritardo nei soccorsi ad Hafedh, uno dei detenuti deceduti - diverse ore dopo l’assunzione del farmaco - che ha impedito di salvargli la vita”. Nell’opposizione alla richiesta di archiviazione si parla anche di “dubbia gestione dei soccorsi” e autopsie eseguite “a metà”. “Lo Stato aveva in custodia i detenuti e lo Stato avrebbe dovuto fare di tutto per tutelarli e garantire la loro incolumità”, sottolinea Sebastiani. Ieri mattina, durante l’udienza il comitato Verità e Giustizia, insieme ad alcuni cittadini e attivisti ha dato vita ad una manifestazione davanti al tribunale, chiedendo appunto che venga fatta luce sui decessi. Sara Manzoli, membro del Comitato Verità e Giustizia ha sottolineato che “nel giro di un anno non si possono archiviare le indagini su tanti morti. A fine giugno avvieremo una raccolta fondi per il rimpatrio della salma di Hafedh Chouchane in Tunisia, al momento seppellita a Ganaceto. C’è un accordo tra Tunisia e Italia per i rimpatri ma, a causa dell’emergenza Covid, nulla è stato fatto - aggiunge - e i parenti di Chouchane sperano di poter presto riavere la salma in patria”. Milano. L’Agesol e il concetto di rinserimento sociale e lavorativo nelle carceri di Aurora Malossi milanoallnews.it, 8 giugno 2021 Agesol è un’associazione Onlus volta al rinserimento sociale e lavorativo per persone coinvolte nel circuito penale ed è, in particolare, pensata per “creare i detenuti protagonisti della loro vita e quindi provare anche a reinventarsi come imprenditori”, dice Licia Rosselli, direttrice di Agesol, parlando dell’associazione. “Il carcere è un luogo chiuso, un luogo segregato, soprattutto è un luogo infantilizzante della persona, bisogna chiedere tutto, anche una pastiglia per il mal di testa […]. Anche una breve detenzione […] depriva la persona delle proprie risorse e quindi si deve reinventare completamente.” Da questa affermazione di Licia parte la missione dell’associazione e se ne può comprendere l’importanza. Agesol aiuta a mantenere vive le risorse che fanno parte della persona, ad implementarle e metterle in pratica in tutti gli aspetti sia dentro che fuori dagli istituti di reclusione. Quale può essere la soluzione per dare accesso al lavoro in modo continuativo per chi è detenuto? Da questa domanda prende vita il nuovo progetto dell’associazione, pensato per dare possibilità anche a coloro che sono detenuti per un tempo maggiore, di formarsi per un’occupazione che gli garantirà delle possibilità nel futuro. Inoltre, come sottolinea Corrado Coen, collaboratore di Licia, è un servizio anche alla socialità perché “il carcere non è quel posto dove dimenticarsi degli esseri umani, ma dove possano essere aiutati a trovare una strada”. Il progetto prevede delle fasi di sviluppo: una è la creazione di uno spazio sempre aperto tra domanda e offerta con la messa a disposizione di un database dove caricare annunci di ricerca di figure professionali e quindi cercare le compatibilità all’interno degli istituti di pena; un’altra è la realizzazione di incontri tra detenuti e aziende alla scoperta delle varie realtà lavorative e la sponsorizzazione di un laboratorio creativo per aspiranti imprenditori. Milano. Bollate, sfratto per la scuderia del carcere: “Ha aiutato molti detenuti” di Roberta Rampini Il Giorno, 8 giugno 2021 Il progetto della Onlus “Salto oltre il muro” era stato avviato nel 2007 per la riabilitazione sociale. L‘ultimo cavallo adottato e salvato si chiama Vago. Era in un centro di Grosseto, con un’infiammazione in stato avanzato. Le donazioni e le cure dei volontari hanno consentito a Vago di guarire e dopo qualche settimana è ritornato nella scuderia dove era nato e cresciuto. Come lui, dal 2007 ad oggi, sono stati aiutati “tanti cavalli e uomini (detenuti) a ritrovare la vita perduta, attraverso un rapporto empatico reciproco”. Ma ora la scuderia all’interno del carcere di Milano-Bollate, unica in Europa dietro le sbarre, chiudere i battenti perché, secondo il provveditorato dell’amministrazione penitenziaria, “ci sono problemi di agibilità della struttura. Il progetto promosso dall’associazione “Salto oltre il muro” Asd Onlus chiede in malo modo, “ci dicono che la scuderia non va più bene - commenta Claudio Villa, presidente dell’associazione - e ci hanno dato quindici giorni per spostare cavalli e smontare la struttura. Ci serviranno mesi, non giorni. E soprattutto ci servono contributi in denaro e manodopera. Sono molto arrabbiato, negli ultimi mesi, secondo me, hanno messo tanti ostacoli al nostro progetto probabilmente sperando che fossimo noi a gettare la spugna. Alla fine ci hanno mandato via”. In questi anni la scuderia ha accolto tantissimi cavalli maltrattati, malati o posti sotto sequestro. E centinaia di detenuti hanno iniziato il loro percorso di reinserimento proprio qui. Roma. Carenze per la scuola nel carcere di Rebibbia: docenti in sciopero degli scrutini romatoday.it, 8 giugno 2021 I docenti di Cub scuola manifestano per le condizioni scolastiche all'interno della struttura detentiva di Rebibbia. “Motivi per scioperare ne avremmo tutti i giorni e non lo facciamo, ma nelle nostre scuole si è superata la soglia della pazienza! La Scuola in carcere cosi come nelle nostre periferie non può essere ridotta ad un gesto di beneficenza pelosa, sempre più misera” si esprimono così i docenti della Cub che hanno indetto lo sciopero degli scrutini finali, escluse le classi terminali, per tutte le scuole della periferia est di Roma con sezioni carcerarie presso il carcere di Rebibbia. Gli istituti coinvolti saranno il CPIA1, l’IISS “J.von Neumann”, il Liceo Artistico “E.Rossi”, l’Alberghiero “Vespucci” e l’Istituto Agrario “E. Sereni”. Mancato confronto tra le istituzioni, scuola, carcere, ASL - Nonostante la normativa per le sezioni carcerarie, i penitenziari di Rebibbia, unici nel Lazio, da novembre hanno sospeso la didattica in presenza, senza DAD, se non per una decina di studenti per poche ore prima degli esami, mentre centinaia rimanevano in cella a caccia di qualche segnale dall’esterno. Il mancato confronto tra le istituzioni, scuola, carcere, ASL non ha permesso neppure la definizione di un Protocollo per la gestione delle attività scolastiche, almeno nella fase emergenziale; “la ASL Roma 2 ha imposto la chiusura, negando ai docenti il minimo di controllo con tamponi periodici”. È questa la denuncia del personale Cub che dopo un le criticità dettate dal covid si sono ritrovati a far fronte a diverse problematiche tra cui l'impossibilità di svolgere in sicurezza il proprio lavoro. Covid e scuola a Rebibbia - “Risultato di questa gestione è che la scuola a Rebibbia è stata ridotta a meno di una scuola per corrispondenza senza libri scolastici, altro che nuove tecnologie.” Così come affermano i docenti, inoltre questo non ha fermato i disagi dettati dal Covid a Rebibbia, né provvedimenti come la cancellazione, a febbraio, di decine di studenti dai Registri elettronici, che non ha permesso che in tanti potessero fare gli esami per la licenzia media e per alcuni è un’impresa andare a quelli di Stato, tutto si aggiunge alla riduzione delle “risorse umane” a disposizione della scuola con il taglio di migliaia di ore di lezione di questi ultimi anni. “Sembra semplice a noi capire che il prossimo a.s. 2021/22 vi sarà bisogno di uno sforzo straordinario per recuperare sia le carenze disseminate dalla DAD, dove si è svolta, sia l'immensa dispersione scolastica nei nostri territori, tra i figli dei lavoratori e delle classi meno abbienti, eppure l’operazione di decurtazione degli organici delle “riforme” - continuano - quest’anno è toccato al Liceo Artistico, mentre le altre sono state graziate perché già al minimo. La Scuola tutta è stata tormentata dalla gestione a spot della pandemia, gli ultimi atti poi sono uno schiaffo: dopo i tavoli con le rotelle, 4 soldi per un Piano Estate da gestire anche con i privati per garantire al massimo un parcheggio estivo dei ragazzi, il Curriculum dello Studente, retaggio della “Mala Scuola” (tentativo di togliere valore al Diploma creando discriminazioni di reddito), lo stesso anticipo degli scrutini (ipotesi fatta nel 2020) e imposta a 10 giorni dalla fine dell’anno proprio quando l’emergenza sanitaria si sta allentando”. Tutto ciò rende la vita della scuola una corsa percepita, al meglio, come inutile. La “Scuola al centro della ripresa” è il mantra del Governo, dicono i docenti, “forse si sono accorti del basso numero di laureati e diplomati dei pochi ricercatori scappati all’estero, mantra che si sostanzia come frenetica privatizzazione e svuotamento della funzione costituzionale della scuola”. “La gestione della pandemia ha messo a nudo i veri problemi” - Mannaia sugli organici sia in termini numerici che contrattuali, salariali e dei diritti, aumento del numero degli studenti per classi, irrisori e propagandistici investimenti sull’edilizia scolastica. “L’idea stessa della collegialità, della democrazia e del diritto allo studio, e alla salute, sono un orpello”. “Lo vediamo anche nei nostri Collegi Docenti. Per rialzarci dalla crisi: Scuola, Sanità e Trasporti devono essere in mano pubblica con un grande piano di assunzioni, l’abbassamento dell’età pensionabile, aumenti salariali e ripristino e di tutte le libertà costituzionali, da quella di insegnamento a quelle sindacali. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza va in tutt’altra direzione: ci indebitiamo per i prossimi decenni ma non un posto di lavoro in più verrà creato, anzi, il massiccio e indiscriminato uso delle nuove tecnologie non ci libererà dalle fatiche ma aumenterà la disoccupazione. È ora che si torni a parlare davvero di Scuola con chi la fa tutti i giorni”. Roma. Nella “città dolente” di Rebibbia, 25 detenuti-attori celebrano Dante regione.lazio.it, 8 giugno 2021 Riflessioni sui concetti di colpa, pena, pietas, speranza, liberazione, attraverso le visioni della Divina commedia. Dopo un anno e più di chiusura sanitaria, il prossimo 2 luglio anche il teatro di Rebibbia Nuovo complesso tornerà alla vita. Una riapertura nel rispetto delle regole di prudenza, con un pubblico esterno limitato, in vista della nuova stagione d’autunno. In occasione del settimo centenario della morte di Dante Alighieri (1321 - 2021), i detenuti-attori attueranno sul palco un progetto di Fabio Cavalli, con il sostegno della Regione Lazio, direzione Affari generali, in collaborazione con il Garante delle persone private della libertà personale e il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap). Dalle nostre “città dolenti”, attraverso la voce degli interpreti detenuti, capaci di appropriarsi della Commedia, emerge una visione diversa del carcere: un percorso nuovo e difficile, poetico ed etico, attraverso la caduta, la pena, il riscatto. 25 detenuti attori del reparto di alta sicurezza (fra loro alcuni protagonisti del film Cesare deve morire dei fratelli Taviani) riflettono sui concetti di colpa, pena, pietas, speranza, liberazione attraverso le visioni della Commedia. Sul palcoscenico Dante torna a rivelarsi come poeta senza tempo, capace di parlare dell’umano agire e patire con parole e idee sempre attuali e trasversali a tutti i contesti sociali e culturali. Mediante traduzioni multilingue (inglese, spagnolo, tedesco) e soprattutto multi-dialettali colte (Scervini, Donnarumma, Girgenti), le terzine diventano poesia del dolore penitenziario ed il loro ascolto può produrre negli spettatori, ma anche negli interpreti detenuti, un effetto emotivo e spirituale che potrebbe essere paragonato all’idea aristotelica della catarsi. L’Inferno dantesco assomiglia alla descrizione di un antico carcere. I suoi Canti sono carichi di orrore e condanna per le crudeltà umane, ma anche di pietà per gli sconfitti, di sdegno per le vergogne dei potenti e dei loro servi. Per parlare della detenzione, spesso si evoca la metafora dantesca della “città dolente”: “Per me si va ne la città dolente / per me si va ne l’etterno dolore / per me si va tra la perduta gente…”. La privazione della libertà è causa di un dolore inesprimibile. Da sempre la giustizia carica questo dolore sul piatto della bilancia come contrappeso per l’ingiustizia commessa dal colpevole. Dalle più antiche civiltà fino al secolo scorso, l’inferno della pena era previsto per legge e accettato dalla società. Il colpevole era un peccatore. Peccato e Reato erano la stessa cosa. Era così soprattutto ai tempi di Dante. Ma Dante si eleva sul proprio tempo e su ogni tempo. Dalla cupa visione infernale emergono figure capaci di mantenere una profonda umanità e dignità, anche nella consapevolezza dell’errore e dell’inevitabile condanna. I grandi “peccatori” danteschi sono portatori universali della emozionante tragedia del vivere e del morire. Per questo, per alcuni di loro, la condanna è come sospesa. La stessa “giustizia divina” non osa infierire. Non osa spezzare l’abbraccio amoroso di Paolo e Francesca. A Ulisse e Diomede - inseparabili artefici di inganni - è consentito di rimanere uniti per l’eternità. Addirittura al Conte Ugolino - pure immerso nel più profondo dei gironi - è concesso di sfogare per sempre il suo furore, affondando i denti nel cranio dell’arcivescovo Ruggieri, l’affamatore dei sui figli. Dalla disperazione dell’Inferno, Dante esce infine “a riveder le stelle”. Alessandria. I detenuti pittori dipingono la chiesa del carcere di Marina Lomunno Avvenire, 8 giugno 2021 Fra' Giunti: nei disegni e nelle opere la loro storia, percorrendo la via della conversione. Tutto è nato nel corso promosso sulle tecniche di decorazione e stucco. “Gesù risorge ma porta con sé le ferite della sua croce: anche io porto le ferite del mio passato ma spero di risorgere con le mie cicatrici come il crocifisso che ho dipinto con i miei compagni di cella”. Sono le parole di un detenuto della sezione Collaboratori di giustizia della casa di reclusione San Michele di Alessandria. Ce le riferisce frate Beppe Giunti, francescano dei minori conventuali del Convento Madonna della Guardia di Torino, formatore della cooperativa sociale “Coompany &” che si occupa di reinserimento dei reclusi. Fra’ Beppe ogni settimana incontra i collaboratori di giustizia, quei “fratelli briganti”, come san Francesco chiamava chi era caduto nelle maglie del crimine, con cui il frate ha scritto il libro Padre nostro che sei in galera (Edizioni Messaggero di Padova). Nei mesi scorsi una decina di ristretti della sezione, grazie alla collaborazione di direzione, educatrice e agenti, ha partecipato ad un corso tenuto da Adamo Demetri, docente di tecniche di decorazione e stucco gestito dalla fondazione Casa di carità arti e mestieri, ente di formazione professionale nelle carceri del Piemonte. La cappellina al piano terra dell’istituto, dopo alcuni lavori edili, era da rinfrescare e diventata l’”aula” del corso concluso nei giorni scorsi e che si è rivelato un itinerario di fede per molti allievi. “Sono i detenuti - alcuni non avevano mai preso un pennello in mano - che hanno proposto al docente di decorare la cappella”, racconta il francescano. “Ogni settimana in cui incontravo i “restauratori” quel luogo finora anonimo via via cambiava aspetto: pareti decorate con cura, una Via Crucis, angeli, santi, una Madonna, un Crocifisso come pala d’altare, una Croce tabernacolo con foglia d’oro, quadri con rappresentazioni di brani della Scrittura. Il professore mi riferiva di come non si è mai sentito a disagio in mezzo a persone con alle spalle reati molti pesanti e che si è creato un bel clima. Ogni lezione per il docente finiva con una preghiera nella cappellina che, a sorpresa, stava diventando un gioiello, nonostante i corsisti non si fossero mai cimentati con l’arte sacra”. E così i “fratelli briganti” iniziano a leggere la Bibbia chiedendo spiegazioni a fra’ Beppe. “C’è chi ha deciso di dipingere un quadro ispirato all’Apocalisse. Un altro recluso ha scelto la stazione della Via Crucis in cui Gesù cade sotto il peso della Croce perché mi ha confessato “anche io ho sperimentato il peso della Croce a causa della mia colpa”“. E lezione dopo lezione avviene quasi un miracolo. “Dentro ogni scena rappresentata, in ogni avvenimento della vita di Cristo e in ogni parola c’è la loro vita cambiata, la loro nuova vita”, aggiunge Adamo Demetri. E davvero torna alla mente l’etimologia della parola “educare”, che sta per “tirare fuori”, “far emergere”. La scuola che educa, anche dietro le sbarre. Un bell’esempio di come “anche per chi ha commesso delitti e reati gravi c’è sempre una seconda possibilità e di come - conclude il francescano - sia fondamentale l’applicazione dell’articolo 27 della nostra Costituzione che recita che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato” anche attraverso l’educazione alla bellezza”. Catania. In mostra le opere dei giovani detenuti dell’IP Bicocca di Catania e Pontremoli cronacaoggiquotidiano.it, 8 giugno 2021 Sabato 12 giugno, in occasione dell’evento “Non chiamatelo amore”, promosso e organizzato dall’assessora alla Cultura e alle Pari Opportunità del Comune di San Gregorio, Giusy Lo Bianco, verrà esposta al pubblico la mostra d’arte “Polifemmes”, a cura di Ivana Parisi dell’associazione La Poltrona Rossa. Le opere sono state realizzate dalle ragazze e i ragazzi ristretti degli Istituti Penali per Minorenni di Pontremoli (Toscana) e Bicocca di Catania durante i laboratori artistici svolti dagli operatori culturali dell’associazione. La mostra raccoglie le più belle opere galeotte realizzate e inserite nella Collezione Galea di proprietà della stessa associazione. Ma chi sono le Polifemmes? “Sono le figlie dei ciclopi, mostri, titani divini con un occhio solo che vivono sotto terra - spiega Ivana Parisi -. Conoscono l’arte e l’artigianato e fabbricano i fulmini al dio Zeus. Le Polifemmes sono invisibili perché vivono nelle grotte e dentro i vulcani, senza poterne uscire. La loro è una vita crudele, senza regole e ne sono oppresse. Le Polifemmes non possono emergere, perché la società non le vuole. Queste giovani titane nascoste fanno paura a Zeus e il loro silenzio sotto terra è un grido soffocato. Il grido di chi denuncia il fallimento della società”. Dal 2013 La Poltrona Rossa promuove e sviluppa progetti artistici e teatrali nei due Istituti Penali per Minorenni della Toscana e della Sicilia. I progetti sono sostenuti con i Fondi Otto Per Mille della Tavola Valdese e dal Ministero della Giustizia, Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità. “A Catania, presso l’Istituto penale per Minorenni di Bicocca -, continua Parisi - grazie alla disponibilità manifestata da parte della dirigente Letizia Bellelli e di tutto il personale interno che lavora nella struttura detentiva, continuiamo a lavorare su progetti artistici e teatrali. Questo per noi operatori culturali è un segno importante che ci conferma l’importanza del ruolo che hanno la cultura e l’arte nell’ambito di un percorso rieducativo per i e le minori che in passato hanno intrapreso una strada tortuosa e senza sbocco”. L’evento “Non chiamatelo amore” è ad ingresso gratuito ed è aperto al pubblico il giorno 12 giugno alle ore 18:00 presso l’Auditorium Carlo Alberto dalla Chiesa in via Carlo Alberto dalla Chiesa n.6 a San Gregorio di Catania. Severino: “I giovani e la legalità per riedificare il Paese” di Roberta Amoruso Il Messaggero, 8 giugno 2021 Dove c'è legalità c'è merito, ma anche rispetto, solidarietà e molti altri ingredienti cruciali per riedificare un Paese colpito dalla pandemia e per insistere su quella strada imboccata quattro edizioni fa dal progetto Legalità e merito nelle scuole lanciato dall'università Luiss. Perché la contaminazione tra giovani, studenti universitari, liceali e detenuti degli Istituti Penali minorili porti a rafforzare quel legame tra legalità e merito capace di combattere tutte le mafie e dare il senso di un merito motore davvero del successo, oltre che ascensore sociale di chi vuole farcela anche in contesti difficili. Il senso profondo del progetto arrivato alla chiusura della quarta edizione è stato rievocato ieri con una premiazione dei progetti finalisti concentrati tra la necessità di rinascita, non solo ambientale, a quella del riscatto sociale, e con il rinnovo del Protocollo d'Intesa tra le istituzioni promotrici. Quest'anno il progetto aveva il volto di oltre 20 istituti tra licei classici, scientifici ed artistici, tecnici professionali di tutta Italia, 3 Istituti Penali minorili (Catania, Firenze e Milano) a confronto sui temi della legalità con oltre 100 Luiss Ambassadors e dottorandi, assegnisti di ricerca, tutor, dei quattro Dipartimenti dell'ateneo. Un percorso di incontri virtuali, con un focus particolare sui nodi aperti dalla crisi in corso: dai rischi economici e sociali dell'illegalità in tempi di pandemia al potere della rete sulla disinformazione, dal lavoro nero alla cyber-criminalità. Professoressa Paola Severino, vice presidente della Luiss e già ministro di Giustizia, lei ha ideato e fortemente voluto un progetto che crede nel ponte scuola-università e nella contaminazione dei valori. Il ministro dell'Istruzione, Patrizio Bianchi, ha parlato di “dovere della solidarietà” e di “necessaria continuità tra scuola e università”. Tutto ciò è oggi ancora più cruciale per la ripresa del Paese. Qual è il vero cuore del progetto? La collaborazione con le carceri minorili? “Scuola e formazione costituiscono i pilastri imprescindibili per la ripartenza del nostro Paese. Il piccolo-grande segreto di questo progetto sta nel fatto che esso nasce e si rinnova, di anno in anno, attraverso i nostri studenti universitari: giovani che insegnano ad altri giovani i valori della legalità e le speranze che nascono dal puntare sul merito come il mezzo più efficace per raggiungere il successo. Quest'anno, nonostante le difficoltà legate alla pandemia, ben 133 dei nostri ragazzi, iscritti a giurisprudenza, a scienze politiche ed economia si sono offerti volontari per portare in 21 scuole italiane ed in 3 carceri minorili una serie di dialoghi con i ragazzi che ne sono frequentatori e ospiti”. Insomma, la forza del dialogo... “Certo. Si tratta di una dialettica bellissima e spontanea che porta poi alla costruzione di programmi pieni di fantasia e di insegnamenti: il gioco dell'oca della legalità, il telegiornale alla rovescia, in cui si danno solo notizie belle sulla onestà della gente comune, un cortometraggio sul pentimento di un giovane ladro che restituisce il motorino al ragazzo cui lo aveva sottratto, tanto per fare alcuni esempi. E poi, oggi (ieri ndr), il grande giorno della premiazione dei progetti migliori, alla presenza del ministro dell'Istruzione e di tutti i firmatari del Protocollo sulla legalità: il ministro della Giustizia, il ministro dell'Università e della Ricerca, il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo e il presidente dell'Autorità Nazionale Anticorruzione. Infine, il sogno dei vincitori che si realizza, con borse di studio per frequentare la Luiss o per iscriversi alla Summer School, perché a chi merita va data sempre la possibilità di una formazione di qualità”. Cittadinanza attiva, lotta alla corruzione e alle mafie e cybersecurity, sono alcuni temi del progetto. Ma come si fa a incidere in contesti familiari difficili? Quanto funziona il contagio tra ragazzi? “Sono proprio i contesti familiari e sociali difficili quelli con cui i nostri ragazzi si confrontano per portare la voce dell'onestà. Lo scorso anno abbiamo promosso una raccolta fondi per le famiglie più bisognose a causa della disoccupazione originata dalla pandemia, che sono state scelte dalle scuole coinvolte nel progetto legalità e merito per distribuire generi di prima necessità ed evitare che diventassero vittime di prestiti usurai o di erogazioni a fondo perduto da parte della criminalità organizzata per poi assoldarle in attività illecite. È anche con gesti concreti che i nostri giovani sono stati vicini ai loro meno fortunati studenti, per dimostrare solidarietà nei confronti di chi sceglie la via del rifiuto di comportamenti criminali. Quanto al carcere minorile, è stata per me illuminante la constatazione che la più bella definizione di legalità è stata data ai nostri giovani tutor da un altrettanto giovane detenuto”. Può essere più esplicita? “Con voce ferma e senza esitazioni ci ha detto che la legalità consiste nel sentirsi in pace con se stessi e con il mondo. Grazie a lui abbiamo tutti compreso quanto si impara insegnando e quanto sia stata importante anche per i nostri studenti universitari questa esperienza”. L'allargamento delle disuguaglianze e l'isolamento educativo sono effetti collaterali della pandemia. E rischiano di rendere più difficili contesti sociali già molto esposti all'illegalità. Cosa si può fare di più per contrastare questo processo? “Far sentire la presenza dello Stato e delle istituzioni non solo e non tanto nelle forme assistenzialistiche finora praticate, ma dando a ciascuno, anche ai più in difficoltà, la possibilità di istruirsi e guadagnare lavorando”. Sostegno, ma non sussidio. O meglio, non solo sussidio, come ha sottolineato lei stessa durante la cerimonia... “È così. Nell'anno della pandemia siamo addirittura riusciti con alcuni dei nostri ragazzi coinvolti nel progetto a girare un docufilm sul carcere di Rebibbia nel corso del lockdown e delle rivolte originate da alcuni detenuti per il timore del contagio e per l'impossibilità di avere colloqui con i familiari. Ebbene, abbiamo potuto tutti constatare quanto gli incontri da remoto con i nostri studenti per la preparazione degli esami siano stati di sollievo per i detenuti, quanto il senso della legalità li abbia tenuti fuori dal gruppo dei rivoltosi e quanto l'essersi sentiti tutti, fuori o dentro dal carcere, privati della libertà personale, abbia reso molto più intenso il dialogo”. Professoressa, la sfiducia nella giustizia è un tema molto sentito tra i ragazzi. Quanto serve diffondere anche la cultura della fiducia nella legalità e nella giustizia? Certi correttivi normativi possono aiutare? “La prima forma di ingiustizia percepita dai ragazzi è basata sulla constatazione che non sempre la competizione premia i migliori. Apprestare dunque forme di selezione nelle quali emerga la capacità di problem solving, dalle quali escano vincitori i più bravi e non i più raccomandati rappresenta una fondamentale spinta verso la giustizia”. Una bella sfida... “La sconfitta di chi si sente più furbo da parte di chi è più preparato consolida il valore del merito. Le nuove forme di selezione per il reclutamento nella Pubblica amministrazione rappresentano certamente un esempio di come cambiamenti normativi, volti ad aumentare la trasparenza e la capacità selettiva delle procedure, possano restituire ai giovani il senso più profondo della legalità e del merito ed invogliarli a partecipare alla competizione”. Omofobia, Cirinnà: “Sul ddl Zan i renziani temo si vogliano sfilare per calcolo politico” di Giovanna Casadio La Repubblica, 8 giugno 2021 La senatrice del Pd: “Se il confronto con le destre fallisce, Italia viva approverà la legge?” “Sul ddl Zan il mio timore è che i renziani si sfilino per calcolo politico”. Monica Cirinnà, senatrice dem, non ci gira attorno. Confermata dal segretario Enrico Letta responsabile diritti del partito, avendo vinto la battaglia sulle unioni civili nella passata legislatura, ora vuole portare a casa l’ok definitivo alla legge contro l’omotransfobia. Dopo l’approvazione alla Camera il 4 novembre scorso, il disegno di legge si è impantanato al Senato. Stamani in commissione Giustizia di Palazzo Madama riprendono le audizioni. Arcigay e 5Stelle denunciano: sono “audizioni farsa”. Ma il presidente leghista della commissione, e relatore, Andrea Ostellari tiene il punto. Cirinnà, proseguono le audizioni sul ddl Zan, lei è ottimista sull’approvazione? “Sono ottimista se i colleghi senatori della maggioranza giallo-rossa capiscono che non c’è altra strada se non approvare il ddl Zan così com’è”. Ma Italia Viva chiede un tavolo politico per il confronto con le destre. Lo farete? “Lo si può fare, certo. Però vorrei sapere dai renziani se, davanti al fallimento di quel tavolo, loro sono poi disposti a votare la legge Zan. Vogliono la prova dell’impossibilità del dialogo? Facciamola. Però alla fine votino. La mediazione sul testo delle destre, il ddl Ronzulli-Salvini, è insostenibile” Perché? “Quel disegno di legge interviene sull’articolo 61 del codice penale, ovvero sull’aggravante semplice, che può sempre essere bilanciata con le attenuanti. Mira ad annullare la legge Mancino (richiamata invece nel ddl Zan), che la destra ha sempre detestato. Ricordo tra l’altro che il leghista Roberto Calderoli nel 2019 è stato condannato per avere detto che la ex ministra Cecile Kyenge somigliava a un orango: gli è stata contestata 'l’aggravante razzialè prevista dalla norma Mancino. Onestamente non credo che un tavolo politico potrà mai comporre differenze di impostazione sull’omofobia così grandi”. La ministra delle Pari opportunità, Elena Bonetti, di Iv, insiste e rilancia la necessità di un dialogo, proprio per non affossare la legge contro l’omofobia... “La ministra Bonetti con la sua posizione contraddice anche se stessa rispetto a quanto detto, oltre a quanto fatto dai renziani alla Camera. Ad esempio, la richiesta di inserire all’articolo uno del testo Zan a proposito della discriminazione le definizioni di 'sesso, genere, orientamento sessuale e identità di generè, è stata di Italia Viva e approvata in aula con un emendamento a prima firma Lucia Annibali. La contraddizione vale anche per gli altri due punti controversi, ovvero la clausola del 'salva ideè e le iniziative nelle scuole. I renziani hanno condiviso tutto il percorso fin qui del ddl Zan”. Il Pd teme quindi che i renziani si sfilino? “C’è una questione politica assai grave: nei confronti di tanti giovani discriminali, colpiti da crimini d’odio o bullizzati, Iv sta facendo tattica politica per dimostrare al centrodestra la disponibilità di programmi e valori in vista delle elezioni future”. In pratica lei accusa i renziani di calcolo politico? “La determinazione con cui il segretario dem Letta si sta spendendo per il ddl Zan è un altro elemento che conduce, a mio avviso, i renziani a colpire il Pd su questo punto”. Ma anche tra voi dem ci sono perplessità... “Sì, ci sono. Però entrambe le riunioni di gruppo che abbiamo tenuto si sono concluse con la decisione di votare in modo compatto. E anzi ringrazio senatrici e senatori del mio partito per il senso di responsabilità”. Anche lei ritiene le audizioni in commissione una farsa? “A Ostellari abbiamo chiesto di acquisire il fascicolo delle audizioni già fatte alla Camera. È evidente che averne accolte 170, seppure poi ridotte a 70, semplicemente doppia le posizioni già espresse. Fa bene Arcigay non volersi prestare a questa pantomima”. Migranti. Prigionieri come in Libia, la vergogna dei Cpr italiani di Andrea Palladino Il Domani, 8 giugno 2021 La verità dei Centri di Permanenza e Rimpatrio. I senatori De Falco (gruppo misto) e Nocerino (M5S, membro della commissione diritti umani) hanno svolto un’ispezione nel Cpr milanese di via Corelli. Erano presenti quaranta “trattenuti”, in un clima di sospensione della vita e dei diritti. “Appena entrati - racconta il senatore De Falco a Domani - i militari di guardia ci hanno mostrato la sala controllo”. La scena ha subito reso l’idea del luogo: “Le telecamere di sorveglianza mostravano un ragazzo che si stava ferendo il corpo”. In tre ore di ispezione parlamentare “l’ambulanza per i casi gravi è entrata due volte”, spiega il il senatore. Il Cpr di Milano è l’ultimo dei nuovi centri aperti, ha iniziato l’attività il 28 settembre 2020, ma da subito mostrato criticità, già segnalate nel rapporto del Garante. Pareti grigie, poche suppellettili e un diffuso senso di abbandono. Potrebbe essere uno dei tanti centri di detenzione per migranti libici, dove perdi la libertà solo per il fatto di aver lasciato il tuo paese. Ma è via Corelli, cuore di Milano. Un Cpr, Centro di permanenza per rimpatri, la terra di nessuno dove finiscono gli stranieri destinati all’espulsione. Negli atti legislativi e burocratici non viene mai definito per quello che è, una prigione, ma “luogo di trattenimento” amministrativo. Sabato i senatori Gregorio De Falco (gruppo misto, membro del comitato parlamentare Schengen) e Simona Nocerino (M5S, membro della commissione diritti umani) hanno svolto un’ispezione nel Cpr milanese, accompagnati da alcuni collaboratori della rete milanese “No Crp”, composta da diverse associazioni. Erano presenti quaranta “trattenuti”, in un clima di sospensione della vita e dei diritti. La testimonianza - “Appena entrati - racconta il senatore De Falco a Domani - i militari di guardia ci hanno mostrato la sala controllo”. La scena ha subito reso l’idea del luogo: “Le telecamere di sorveglianza mostravano un ragazzo che si stava ferendo il corpo”. Non era una protesta, ma il disperato tentativo di poter uscire dalla terra di nessuno, dal luogo del “trattenimento” destinato ai colpevoli di migrazione. “Quell’uomo ha poi raccontato - aggiunge De Falco - che non ce la faceva a spezzarsi le gambe lanciandosi dalla rete, come avevano fatto altri qualche mese fa”. Rischiare la vita per riottenere la vita. Sono stati sei i casi di decessi segnalati dal Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale, morti registrate tra il giugno del 2019 e il luglio del 2020. “Il sintomo di realtà detentive gravemente e fisiologicamente problematiche non sempre in grado di proteggere e tutelare la sicurezza e la vita delle persone poste sotto custodia”, aveva già evidenziato l’ufficio del Garante nel suo ultimo rapporto dello scorso 12 aprile. In tre ore di ispezione parlamentare, con quaranta persone registrate, “l’ambulanza per i casi gravi è entrata due volte”, spiega il senatore. Ed è la punta di un iceberg. Parlare con le famiglie per i migranti “trattenuti” è una sorta di roulette quotidiana. Appena dieci minuti al giorno per utilizzare un cellulare, e se in quel momento non risponde nessuno perdi il turno. Nessuna videochiamata, quello che è quel luogo puoi provare solo a descriverlo. La videocamera è coperta da un nastro adesivo, perché nessuna immagine può uscire dai cancelli di via Corelli. “No, non potevamo filmare né fotografare”, spiega De Falco. Nessuno può documentare i volti dei “trattenuti”. L’opacità - Le loro voci, gli sguardi, i corpi feriti rimangono chiusi a chiave. Poter raccontare quello che avviene all’interno dei Cpr è di fatto impossibile: “Le visite realizzate hanno confermato la sostanziale opacità delle strutture di detenzione amministrativa - si legge nell’ultimo rapporto del Garante - generalmente chiuse al mondo dell’informazione e della società civile organizzata, che anche prima dell’emergenza sanitaria si vedevano regolarmente negare dalle prefetture le richieste di accesso”. Il Garante, nella stessa relazione, ha poi denunciato la violazione del diritto alla comunicazione con l’esterno per i reclusi nei Cpr, ricordando come i regolamenti non vietino l’utilizzo di cellulari personali o le videochiamate, permesse all’interno negli istituti penitenziari. Per i due parlamentari è stato impossibile verificare la documentazione obbligatoria che i Cpr devono tenere. “Non c’era nessuno dei gestori, abbiamo chiesto di poter vedere i registri, di poter consultare gli eventi critici, i Tso (trattamenti sanitari obbligatori), ma ci hanno spiegato che non erano consultabili, chiusi a chiave, dove il personale presente non aveva accesso”, prosegue il racconto. Eppure molte cose andavano chiarite. “Abbiamo incontrato un uomo chiuso a via Corelli da aprile; ha due figli nati in Italia, lavora da 22 anni per le Ferrovie dello Stato, con un contratto a tempo indeterminato e quindi assolutamente regolare; aveva avuto un litigio violento con la moglie, era stato recluso cinque giorni in carcere e poi liberato. Ci ha raccontato che dopo la scarcerazione gli hanno detto di presentarsi in Questura: da lì lo hanno portato direttamente nel Cpr. Perché?”. La domanda di De Falco è rimasta senza una risposta. Peggio di un carcere - Il tempo è senza fine. “L'isolamento, l'abbandono, l'assenza di informazione legale, di assistenza medica e psicologica, la superficialità mista a discrezionalità assoluta nella gestione dei diritti e l'abbrutimento dell'esasperazione per la chiusura in una gabbia senza senso da mesi”, è la situazione registrata dai due senatori, che oggi si ripresenteranno davanti ai cancelli della struttura. “In Marina si dice ‘lasciare alla branda’, ovvero senza poter far niente; ecco, così passa il tempo per le quaranta persone rinchiuse nel CPR, senza nessuna attività, senza poter far nulla”, aggiunge De Falco. Un Cpr non è un penitenziario, ma forse qualcosa di peggio: “Oggi abbiamo visto una struttura che è peggio di un carcere - racconta De Falco - non c'è alcuna organizzazione gestionale, critichiamo l'Egitto che reitera continuamente la detenzione di Patrick Zaki ma noi facciamo la stessa cosa”. Il Cpr di Milano è l’ultimo dei nuovi centri aperti in Italia; ha iniziato l’attività il 28 settembre dello scorso anno, ma ha fin da subito mostrato diverse criticità, già segnalate nel rapporto del Garante. Migranti. “Opaca e inefficace”, la Corte dei conti europea boccia Frontex di Francesca De Benedetti Il Domani, 8 giugno 2021 Frontex e chi la dirige, cioè Fabrice Leggeri, sono passati per ora indenni dalle molte accuse ben documentate di aver contribuito a respingere illegalmente i richiedenti asilo. La nuova accusa non proviene da qualche difensore dei diritti umani ma dai revisori dei bilanci. La Corte suggerisce che l’ingiustizia costa pure cara: ha appena finito di scrutinare l’attività dell’agenzia, i suoi conti, e il responso è impietoso. Frontex è inefficace e opaca. Una scatola nera, con sempre più risorse. I suoi bilanci crescono esponenzialmente, così come aumentano le allerte sulla sua malagestione. “Frontex non è efficace”. Con una relazione speciale, la Corte dei conti Ue boccia l’agenzia europea che controlla le frontiere. Dice in sostanza che l’ingiustizia costa pure cara. Frontex e chi la dirige, cioè Fabrice Leggeri, sono passati per ora indenni dalle molte accuse ben documentate di aver contribuito a respingere illegalmente i richiedenti asilo. Leggeri è ancora al suo posto nonostante le pressioni di europarlamentari e società civile. Ora però c’è questa nuova accusa, che non proviene da qualche difensore dei diritti umani ma dai revisori dei bilanci. La Corte ha appena finito di scrutinare l’attività dell’agenzia, i suoi conti, e il responso è impietoso. A fronte di “un aumento esponenziale delle risorse”, il sostegno di Frontex agli stati “nella lotta contro immigrazione illegale e reati transfrontalieri non è efficace”. Altra accusa: l’agenzia è opaca, e “nonostante sia pubblica” non condivide “informazioni sui costi reali”. Non fa neppure “analisi dei rischi né valutazioni d’impatto”. I revisori non valutano la questione dei diritti violati di chi viene in Europa per avere protezione, anzi danno per scontata la attività di sorveglianza dell’agenzia. Ma anche da questo punto di vista, meramente economico, Frontex risulta un fallimento. E finisce per violare pure altri diritti: quelli degli europei i cui soldi sono spesi male e in modo per nulla trasparente. L’agenzia europea è una scatola nera, e il paradosso è che incassa sempre più risorse. Quanto ci costa - Nonostante gli scandali, Frontex cresce: il suo bilancio medio e le sue risorse umane arriveranno a 900 milioni annui e 10mila dipendenti da qui al 2027. La Corte lo definisce un “aumento esponenziale”. E in effetti dieci anni fa, nel 2011, i dipendenti erano 304; oggi sono 6.500. I milioni di euro all’anno erano 118 nel 2011, oggi sono 544. Entro sei anni le cifre odierne saranno quasi raddoppiate. È dal 2015, l’anno in cui l’Europa si è confrontata con la crisi dei rifugiati, che i bilanci di Frontex si ingrossano notevolmente; ma dal 2019 il trend è verticale, a seguito di un regolamento europeo che ha attribuito all’agenzia un ruolo anche operativo, non solo di supporto. Bruxelles, come ha scritto in autunno nel suo piano di riforma su asilo e migrazione, e come continua a ribadire, ha in serbo di rafforzare e far crescere ancora di più Frontex, nonostante tutto. Storia di malagestione - Mancato coordinamento, scarsa trasparenza, e tanti altri rilievi contenuti nella relazione speciale della Corte suggellano - se ancora servisse - il fallimento della gestione Leggeri, da più punti di vista. Intanto l’ufficio europeo anticorruzione, Olaf, sta investigando su Frontex da fine 2020. L’indagine potrà portare alla luce elementi nuovi sia sui respingimenti illegali che sulle cattive pratiche nell’agenzia. Da febbraio inoltre i Frontex Files, i documenti sull’influenza delle lobby raccolti dal Corporate europe observatory permettono di dimostrare che l’agenzia incontra l’industria della difesa assiduamente. Fa gola ai produttori anche perché dal 2019 il budget allargato consente all’agenzia di acquistare equipaggiamenti, di dotare il personale di armi. C’è poi il grande business della sorveglianza, biometrica inclusa. Tra il 2017 e il 2019 l’agenzia ha incontrato 108 aziende. Non è tutto: ha ricevuto anche lobbisti che non sono nel registro Ue sulla trasparenza (il 72 per cento è non registrato); nessuna udienza alle organizzazioni per i diritti umani. Un patto con l’islam per tendere la mano a tutte le Saman di Pasquale Annicchino Il Domani, 8 giugno 2021 La tragica storia di Saman Abbas sta emergendo sempre di più come un pozzo senza fondo della violenza motivata da una visione oscurantista della realtà, dei rapporti sociali e del ruolo delle donne nella società. Così si fronteggiano i due negazionismi: da una parte quello che fa finta di non vedere, dall’altra quello che pensa che per risolvere i problemi si potrebbe eradicare il diverso dalla sfera civile. Sono due approcci tipici dei tempi del populismo che ci troviamo a vivere. La tragica storia di Saman Abbas sta emergendo sempre di più come un pozzo senza fondo della violenza motivata da una visione oscurantista della realtà, dei rapporti sociali e del ruolo delle donne nella società. Scavando negli archivi ho recuperato un articolo che sembra di un’altra era. Un’intervista di Magdi Allam per Repubblica del 7 febbraio 2003 a un ventenne che poi diventerà parlamentare del Partito democratico. Allora Khalid Chaouki era portavoce dei Giovani musulmani d’Italia e avanzava richieste del tutto ragionevoli. Chiedeva un maggiore coinvolgimento dello stato in quanto “i nostri diritti e i nostri doveri li conosciamo, sono sanciti dalla Costituzione, ovviamente servono norme specifiche per regolarne l’attuazione”. Quasi venti anni dopo cosa è cambiato? Continuiamo a restare abbagliati da nomi collettivi che esorcizzano le nostre paure, le semplificano, ci convincono che esistano delle risposte semplici, ma spesso sono quelle sbagliate. Due negazionismi - Così si fronteggiano i due negazionismi: da una parte quello che fa finta di non vedere, dall’altra quello che pensa che per risolvere i problemi si potrebbe eradicare il diverso dalla sfera civile. Sono due approcci tipici dei tempi del populismo che ci troviamo a vivere. Negli ultimi vent’anni le istituzioni italiane, soprattutto tramite l’azione del ministero dell’Interno, hanno provato a far avanzare l’agenda delle relazioni con il mondo islamico italiano. Il Patto con l’Islam italiano, firmato nel febbraio 2017, è stato un primo importante risultato che le istituzioni hanno raggiunto con le comunità musulmane. Se si pensa che l’istituzione della prima Consulta per l’islam italiano è del 2005, con conferme successive, fino ad arrivare al gennaio 2016 con la creazione da parte dell’allora ministro Angelino Alfano dell’attuale Consiglio per le relazioni con l’islam italiano, ci si rende conto che è da anni che l’apparato statale ha potuto investigare il magmatico ribollire del complesso e plurale mondo dell’islam italiano. Il rapporto con le comunità religiose è uno dei casi tipici in cui si rende necessario un nuovo protagonismo dello stato, una sua innovativa azione per pensare un paese sempre più plurale, che sta profondamente cambiando anche nella sua demografia religiosa. Ma l’azione delle istituzioni, da sola, non sarà sufficiente. È necessaria anche una lotta per il cuore dei giovani musulmani, per garantire il loro protagonismo nelle comunità insieme a quello delle donne. È necessario, inoltre, un ruolo delle forze politiche nella battaglia culturale per i diritti per tutti. Individuali, universali e non in base ai gruppi di appartenenza. L’azione di Lamorgese - Cosa hanno da dire le forze progressiste del paese sul caso di Saman? Se lo è chiesto Giulio Cavalli in un interessante editoriale apparso su Left: “Si tratta di donne libere, che rivendicano il diritto di dire no. Servirebbe una sinistra che abbia il coraggio di dismettere un certo relativismo culturale per cui un femminicidio di una donna straniera passa sottotraccia. Davvero siamo a una sinistra con una così bassa capacità di elaborazione per cui teme di risultare razzista?”. Quella per i diritti delle giovani donne italiane, per la loro libertà, per il loro diritto di dire no, indipendentemente dalla religione di appartenenza, è una battaglia che non dovrebbe avere colore politico. Dovrebbe essere una battaglia universale per i diritti di tutti, per la cittadinanza e la libertà. Quella che Saman Abbas cercava e non è riuscita a trovare. La ministra Luciana Lamorgese ha ben chiari questi problemi e anche durante i mesi della pandemia, quando le energie del Viminale erano impegnate su numerose urgenze, ha continuato a tenere alta l’attenzione sul tema. Ma senza un pari investimento delle forze politiche che sia netto e deciso, la macchina del Viminale da sola non può fare miracoli. Questo impegno è necessario ora, per tutte le Saman che ancora lottano e cercano la nostra mano. Il suicidio di Seid è un dolore privato che ci chiama in causa di Lanfranco Caminiti Il Dubbio, 8 giugno 2021 La morte dell’ex promessa del calcio è anche un fatto politico. Fosse stato verde, Seid, o arancione o pure bianco - oggi staremmo qui comunque a piangere la sua scomparsa. Perché che il “male oscuro” di vivere ti acchiappi a vent’anni e ti trascini in un orribile abisso senza ritorno - è cosa che strazia il cuore. È la seconda causa di morte tra i giovani, il suicidio - la prima, con cifre impressionanti, sono gli incidenti stradali. E troppo spesso il suicidio arriva a chiudere un percorso di autolesionismo. Sono dati non solo italiani, ma d’Europa e del mondo. Il “male oscuro” tra i giovani è globale, e non bada ai nazionalismi e al colore della pelle. L’allarme è cresciuto durante il contagio. Psicologi, neuropsichiatri, operatori denunciano l’aumento dei casi - si parla di un 20 percento in più. L’isolamento, la solitudine, il confinamento, l’allontanamento dalle “occasioni” di incontro con i coetanei come la scuola, lo sport o il tempo libero - funzionano da detonatore di implosione. Si rompe vieppiù o anche solo si inabissa il rapporto con i genitori, con gli adulti. Peraltro, quello che si teme è che il tempo non funzionerà da soluzione, quando si tornerà alla “normalità”. Perché il tempo può funzionare anche da accumulatore di sensazioni negative, fino a trasformarle in patologie. È già accaduto, con la Spagnola nel 1919, con la Sars nel 2003: la scienza lavora sulla casistica. Perciò, la morte di Seid ci pone crudamente di fronte la nostra fragilità, la nostra comune e collettiva fragilità del vivere. Che il contagio ha moltiplicato. Siamo una società che tende a “dimenticare” il dolore e la morte, presi dall’iperattivismo, dalla performance e la morte non è contemplata, è un evento lontano, forse pure solo una leggenda che gli umani si tramandano ma che la scienza moderna - la farmacologia, la tecnologia, la biomedicina - saprà come “rimediare”. Dobbiamo lavorare - si dice e si legifera qui e là - oltre i settant’anni: come potremmo morire? Invece, con il contagio la morte è irrotta di nuovo nelle nostre vite: le immagini dei camion militari che trasportavano le bare a Bergamo verso i crematori, dei detenuti che scavavano le fosse comuni a New York, delle pire per le strade di Nuova Delhi ci hanno spaventato, terrorizzato. Presto rimosse. Ciascuno si è affidato a una propria “strategia di sopravvivenza” - non sempre confidando nei provvedimenti governativi, che chi ne voleva di più e chi pensava fossero già eccessivi. Non sempre le strategie di sopravvivenza funzionano: qualcuno ce la fa, qualcuno non ce la fa. Seid non ce l’ha fatta. Non ce ne vogliano perciò i genitori. La morte di Seid oltre a essere un fatto, un dolore privatissimo è un fatto sociale, è un fatto collettivo. Ci sono morti che ci interrogano - come società. Ogni lutto è individuale, ogni dolore è personale, ogni morte strazia i familiari. E non c’è lutto o dolore che possa essere paragonato, che possa essere sovrapposto. Ma la morte della giovane operaia Luana - ci ha sconcertato. La morte del giovane Willy - ci ha sconvolto. La morte del giovane Seid - ci ha spezzato. Sono storie, le loro, che ci chiamano in causa, tutti. Sono storie, le loro, che ci raccontano non solo della condizione dei giovani, ma di quello che siamo diventati tutti noi, come società. Di questi ragazzi a noi rimangono poche cose che diventano pubbliche, virali - molte invece costruiscono il tessuto vivo della memoria dei familiari. Di Luana, per dire, rimangono foto di una bellissima giovane donna che voleva diventare un’attrice. Di Seid rimangono le foto della sua breve carriera nelle giovanili del Milan, e tante della sua passione per il calcio. Ma rimane anche un documento crudele, terribile, nobile - quella sua lettera di un paio di anni fa. Una lettera che ha una forza politica - e lo dico nel senso più forte, di civiltà, di comunità - mai letta. Non solo nel denunciare il “razzismo banale”, quello, di cui scriveva Seid: “mi raccontava un amico, anch’egli adottato, che un po’ di tempo fa mentre giocava a calcio felice e spensierato con i suoi amici, delle signore si sono avvicinate a lui dicendogli: “Goditi questo tuo tempo, perché tra un po’ verranno a prenderti per riportarti al tuo paese”. Seid provava a “storicizzare” la sua stessa biografia, la sua stessa vita: “Prima di questo grande flusso migratorio ricordo con un po’ di arroganza che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, ovunque mi trovassi, tutti si rivolgevano a me con grande gioia, rispetto e curiosità. Adesso, invece, questa atmosfera di pace idilliaca sembra così lontana; sembra che misticamente si sia capovolto tutto, sembra ai miei occhi piombato l’inverno con estrema irruenza e veemenza, senza preavviso, durante una giornata serena di primavera. Adesso, ovunque io vada, ovunque io sia, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone”. Quindi, c’è stato un “prima” e c’è stato un “dopo” - ovvero la grande ondata migratoria, che però dura da oltre due decenni proprio l’età di Seid, e il progressivo scivolamento della nostra società verso l’intolleranza. In questo, la politica della paura, la politica del sospetto, la politica che ha fatto del razzismo banale una forma di consenso ha avuto un ruolo determinante: un cortocircuito tra la pancia del paese e le istituzioni. Un testacoda che ci sta mandando fuori strada come società. Forse le polemiche nel mondo politico sono state un filo sopra le righe: chi ha voluto giocare la semplice equazione razzismo=suicidio, per farne stato d’accusa a avversari, è stato presto smentito dagli stessi genitori di Seid. Non si può ricondurre quel gesto a una semplificazione: e d’altronde, il male oscuro non ha “una” sola origine. D’altra parte, “certificare” la lettera di Seid come “vecchia di due anni” e quindi che nulla c’entrerebbe è una cosa senza senso, proprio per gli stessi motivi di prima: il malessere scava a lungo dentro la nostra anima e non è detto che ci porti obbligatoriamente a farla finita; ma tutto quello che si è pensato, due anni fa, quattro anni fa, non per questo ha meno valore, ha meno significato, ha meno potenza distruttiva. Perciò, se lo strazio per la perdita incolmabile di Seid non può che restare dentro lo spazio privato dei suoi familiari, a noi rimane il dovere civile di non disperdere quella testimonianza. Quella lettera, quel documento politico. Io vorrei che quella lettera diventasse libro di testo nelle scuole italiane di ogni ordine e grado. Vorrei che un brano di quella meravigliosa lettera d'amore per la vita diventasse una delle tracce per gli esami di stato di questo sventurato paese. Vorrei che il presidente Mattarella donasse alla memoria di quel talentuoso e straordinario ragazzo un premio, un'onorificenza. Perché quella lettera è la cosa più nobile, più cruda, più politica che mai sia stata scritta su cosa siamo diventati. Vorrei un lutto nazionale, per dire a voce alta a quei genitori che loro hanno cresciuto un figlio bellissimo. Medio Oriente. Gaza, l’ombra del Covid sulla ricostruzione che non parte di Michele Giorgio Il Manifesto, 8 giugno 2021 Tra divieti di Israele ed esitazioni dei donatori, Gaza attende che i paesi donatori intervengano per riparare ai danni fatti dai bombardamenti israeliani. Sullo sfondo c'è l'emergenza Covid dimenticata da tutti. “Ci sono dei trasformatori che sono stati completamente distrutti (dagli attacchi aerei) e i nostri operai fanno il possibile per riparare la rete elettrica. Comunque il problema principale resta il gasolio industriale, non ne abbiamo abbastanza per far funzionare a pieno regime la centrale”. Dagli studi di Shaab Radio ieri l’ingegnere Mohammed Thabet ha spiegato alcuni dei tanti problemi che la Gedco, compagnia dell’elettricità di Gaza, affronta ogni giorno per distribuire quanta più energia possibile alla popolazione. Poca, 3-4 ore al giorno. E mai come in questo momento ne serve tanta a Gaza per riparare i danni alle infrastrutture, tenere accesi i depuratori delle acque reflue e aiutare gli ospedali a conservare le scorte di combustile per i generatori autonomi. L’elenco delle priorità è lungo e chi lo scorre lo accompagna alla parola “Ricostruzione”, la più pronunciata nel dopo escalation tra Israele e Hamas. Ma anche questa volta la ricostruzione, come è avvenuto dopo le altre grandi offensive militari israeliane contro Gaza - 2008, 2012, 2014 - appartiene solo al mondo delle idee. I paesi più ricchi promettono fondi sapendo che non li verseranno. Vorrebbero che Hamas sparisse all’improvviso ma il movimento islamico è sempre lì, al comando di Gaza. E tutto resta fermo. Nel 2009 nei mesi successivi alla prima guerra israeliana a Gaza (“Piombo fuso”), i donatori internazionali si impegnarono per 4,5 miliardi di dollari a sostegno dell’economia palestinese e per la ricostruzione della Striscia. Non se ne fece quasi nulla. Nell’ottobre 2014, qualche mese dopo la fine dell’offensiva “Margine protettivo”, gli stessi donatori internazionali si dichiararono pronti a rendere disponibili 5,4 miliardi di dollari. Tre anni dopo solo 194 milioni di dollari di quella promessa miliardaria sono stati erogati e i palestinesi hanno ricostruito da soli ciò che hanno potuto. Le stesse condizioni riemergono ora. I donatori non si sentono tutelati da un cessate il fuoco non vincolante, trovano arduo intervenire mentre i palestinesi sono divisi e governati da due partiti rivali (Fatah e Hamas) e, più di tutto, non osano ignorare il divieto di Israele alla cooperazione con funzionari del movimento islamico nei progetti per la ricostruzione. Israele da anni limita l’ingresso a Gaza dei materiali per la ricostruzione poiché, sostiene, verrebbero usati da Hamas per costruire gallerie sotterranee. Un rapporto dell’Undp afferma che nel 2017 dei 602 milioni di dollari stanziati per rivitalizzare il settore produttivo a Gaza, solo 16 milioni di dollari sono stati spesi a causa delle condizioni molto rigide poste da Israele. Sullo sfondo del “dopo-guerra” c’è l’emergenza Covid, dimenticata anche se della pandemia a Gaza si è parlato durante i giorni dei raid israeliani per i danni subiti dal centro sanitario Hala al-Shawa, sito di vaccinazione e principale laboratorio per l’esame dei tamponi, l’uccisione per una bomba del dottor Ayman Abu Alouf, responsabile per le misure anti Covid nella Striscia. Eppure, il coronavirus continua a circolare nei Territori palestinesi occupati. E mentre in Cisgiordania da un mese a questa parte si registrano meno casi positivi e pochi decessi, a Gaza invece c’è stato un boom di contagi poco prima dell’escalation militare che aveva riempito le poche unità di terapia intensiva disponibili negli ospedali. I raid aerei hanno costretto la popolazione ad abbandonare il distanziamento sociale e le autorità sanitarie di Gaza nei giorni scorsi avevano previsto una impennata di contagi che si è puntualmente verificata. Dei palestinesi che sono risultati positivi nell’ultima settimana, l’84% si trova Gaza e il 16% in Cisgiordania. L’Organizzazione mondiale della sanità fissa il tasso di positività di Gaza al 25% rispetto al 5% della Cisgiordania. La mortalità è salita al 3,4%. I vaccini erano e restano un sogno anche se comincia ad arrivare qualche fiala in più rispetto ai mesi scorsi. Nei giorni scorsi l’Unicef ha consegnato 9.600 dosi del vaccino di AstraZeneca a Gaza e la settimana prima erano entrate nella Striscia 20.000 dosi di Sinopharm insieme a 46.800 di Pfizer. 486.900 dosi di vaccini sono state spedite in Cisgiordania e 196.500 a Gaza, oltre 300.000 abitanti della Cisgiordania sono stati vaccinati ma solo 39.937 a Gaza. In totale appena il 7% dei palestinesi è stato vaccinato. In Israele circa il 60% dei 9,3 milioni di abitanti hanno ricevuto le due dosi. Afghanistan. “Non lasciateci qui, ci uccideranno”. Roma aiuterà gli interpreti afghani di Lorenzo Cremonesi Corriere della Sera, 8 giugno 2021 Sono 50 i collaboratori minacciati dai talebani. Occorre portarli fuori dal Paese con le loro famiglie. L'appello: “I talebani ci uccideranno. Saremo per sempre braccati con l’accusa di aver cooperato con l’Italia”. “Per favore non abbandonateci, non lasciateci a morire in Afghanistan. Portateci nel vostro Paese. Noi e le nostre famiglie. I talebani altrimenti ci uccideranno. Saremo per sempre braccati con l’accusa di aver cooperato con l’Italia”. Torna d’urgente attualità la richiesta dei civili afghani che hanno lavorato con varie mansioni al funzionamento del contingente italiano nel loro Paese. Appello peraltro lanciato nell’editoriale sul Corriere di ieri di Paolo Mieli. I più esposti sono gli interpreti, coloro che per anni, alcuni sin dall’arrivo dei primi soldati italiani nel dicembre 2001, hanno funzionato da punto di contatto diretto tra i soldati e la popolazione locale. Visibili, noti e dunque fragili, più a rischio. L’imminenza dello smantellamento della grande base italiana di Herat rende il problema sempre più all’ordine del giorno. I numeri ufficiali dovrebbero venire divulgati nelle prossime ore dallo stesso ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ma da tempo si parla di una cinquantina di interpreti con le loro famiglie, cui si aggiungono altri collaboratori a vario titolo. In tutto circa 500 persone. Gli americani lo stanno già facendo. Con l’avvicinarsi del prossimo 11 settembre, data finale del ritiro dell’intero contingente internazionale fissata due mesi fa dal presidente Biden, progettano di portare via con loro circa 18 mila persone che hanno già fatto richiesta di un apposito visto d’immigrazione comprendente anche le quarantene e i vaccini anti-Covid. Gli inglesi hanno già dato autorizzazione a 450 visti. Ma sul tavolo esistono programmi di evacuazione più ampi da parte americana, che prevedono una massiccia campagna di visti per 70 mila afghani oltre a circa 100 mila iracheni. L’esperienza, del resto, induce a prendere il massimo delle precauzioni. Secondo la Croce Rossa e le maggiori organizzazioni umanitarie internazionali, sono infatti almeno un migliaio gli interpreti assassinati negli ultimi anni che lavoravano per i contingenti internazionali in Afghanistan e Iraq. Ieri i portavoce talebani hanno diffuso un comunicato in cui affermano che “gli interpreti e le loro famiglie non avranno nulla da temere, se dimostreranno di essersi pentiti e proveranno rimorso per le loro attività di collaborazionismo con gli stranieri invasori”. Ma il timore rimane, anzi, cresce con l’aumento di abusi contro i diritti umani fondamentali, contro le donne, oltre al moltiplicarsi di attentati e omicidi mirati. I talebani espandono di giorno in giorno le regioni sotto il loro controllo e le cronache locali non paiono per nulla rassicuranti. Tanto che numerosi interpreti sono emigrati a spese loro, specie verso Iran e Pakistan, senza attendere l’aiuto degli ex datori di lavoro. Il tema si pose urgente dopo il primo massiccio ritiro Usa dall’Iraq nel 2011. In Afghanistan comparve al momento del cambio delle caratteristiche fondamentali della missione internazionale Nato-Isaf alla fine del 2014. Da truppe impiegate nella lotta attiva contro al Qaeda e le bande talebane (in quel periodo il contingente italiano tra la regione di Kabul ed Herat arrivò a contare circa 5.000 soldati) divennero addestratori delle nuove forze di sicurezza afghane. A parte limitati corpi scelti americani e inglesi rimasti operativi sull’intero territorio del Paese, il grosso del contingente internazionale si chiuse nelle proprie basi per assistere la preparazione di esercito e polizia afghani. Anche gli interpreti, dunque, furono molto meno esposti di prima. Eppure, a cavallo tra 2014 e 2015, anche l’Italia accolse circa 130 afghani. Allora fu stanziata una cifra iniziale di 750 milioni di euro per il loro assorbimento. A prodigarsi fu in particolare il generale degli Alpini da poco in pensione, Giorgio Battisti, che anche pubblicamente s’impegnò affinché non venissero dimenticati.