Giustizia, Flick: “Difficile fare la riforma senza toccare la Costituzione” di Liana Milella La Repubblica, 7 giugno 2021 L’ex Guardasigilli ed ex presidente della Corte costituzionale: “Ammiro Cartabia ma temo che la ricerca del consenso di tutti acuirà le divisioni. I referendum di Salvini? La sconfitta del Parlamento” Giovanni Maria Flick, da ex Guardasigilli, ex presidente della Consulta, avvocato famoso, nonché professore di diritto penale, lei è un padre nobile che può dare giusti consigli. Quale sarebbe il primo da offrire alla ministra Cartabia e a questa maggioranza? “Innanzitutto i titoli nobiliari sono stati aboliti dalla Costituzione. Non ho alcuna legittimazione a dare consigli perché ciascuno sa e può sbagliare da solo, com’è capitato a me in tutte queste esperienze. Posso solo esprimere qualche riflessione a titolo personale, rispettoso della fatica e dell’impegno altrui”. È possibile riformare la giustizia senza toccare la Costituzione? “Non credo. Non vorrei con questo dare ragione alle valutazioni politiche di due autorevoli esponenti, uno della maggioranza e uno dell’opposizione...”. Si riferisce a Salvini e Meloni? “Non faccio nomi, ma temo abbiano ragione. Se è difficile raggiungere un accordo su particolari tecnici tutto sommato meno rilevanti, immagino quanto lo sarebbe raggiungere oggi la coesione per una modifica costituzionale di grande rilievo, come mi sembra emerga anche dalla riflessione della commissione Luciani che si occupa del Csm”. Allora fa bene Salvini a proporre il referendum? “Sì e no. Prescindo dal significato politico attribuito o presente in questa mossa. Certo è strano che il referendum con cui il popolo chiede al Parlamento di cambiare una legge venga utilizzato da un esponente del Parlamento stesso per chiedere al popolo di farlo. È un’ennesima riprova della delegittimazione del Parlamento. Inoltre i temi sottoposti a referendum sarebbero di un tecnicismo tale da poter essere difficilmente compresi dagli elettori”. Questa maggioranza non omogenea ce la farà a portare a casa qualcosa di utile sulla giustizia? “Mi auguro soprattutto che la magistratura accetti - a differenza del passato - che si intervenga su di essa, senza opposizioni aprioristiche; che la politica non utilizzi argomenti e profili essenzialmente tecnici per una battaglia molto più semplicemente politica tra maggioranza e opposizione, o addirittura all’interno della stessa maggioranza”. Per Cartabia vede una mediazione è possibile? “Ammiro la sua perseveranza e impegno politico nell’affrontare problemi tecnici che hanno una matrice comune ed essenzialmente politica, al di là delle loro specificità. Mi domando se questa totale trasparenza nel metodo e nella ricerca del consenso di tutti non rischi di tradursi in un fattore che può acuire le rispettive contrarietà e contraddizioni”. Palamara e la grave questione morale del correntismo esasperato. Come se ne può uscire? “Non mi piace parlare di questione morale di fronte a vicende come queste. Se sussistono, si tratta di illeciti disciplinari gravi o di illeciti penali; entrambi non possono essere rimossi con una sorta di auto rigenerazione all’interno della categoria dei magistrati, come ci si illudeva agli inizi. Né possono essere liquidati come mele marce da isolare”. E allora qual è la riforma giusta? “Servirebbe un’Alta Corte, prevista dalla Costituzione, invece della cosiddetta giurisdizione domestica che lascia dubbi e perplessità nell’opinione pubblica”. Ma una modifica costituzionale ora è impossibile. “Me ne rendo conto. Posso solo sperare, da cittadino, che il prossimo Consiglio lavori con molta incisività”. Come eleggerebbe il futuro Csm? Luciani propone il “voto singolo trasferibile”. “Valuto un sistema elettorale se e quando lo vedo alla prova perché la nostra capacità di trovare scappatoie ed escamotage è superiore a qualsiasi barriera. Mi pare che anche l’attuale sistema fosse stato pensato per evitare quello che poi puntualmente si è verificato”. Sui tempi dei processi e prescrizione qual è la sua proposta? “Non vorrei aggiungerne una terza rispetto alle due che Lattanzi ha già fatto. Mi interessa il riconoscimento del principio della ragionevole durata del processo che è un obbligo per lo Stato e non un dovere di collaborazione per l’imputato, l’avvocato e le parti del processo”. Dopo Lattanzi s’intravvede un pm che sarà meno libero di oggi e più controllato dal gip. “Non si tratta né di libertà, né di controllo, ma di osservanza della legge da parte del pm come del giudice. Se la legge prevede termini per le indagini preliminari e verifica del rispetto delle leggi da parte del pm ad opera del gip mi pare una cosa ovvia e non dovrebbe scandalizzare nessuno. Ciò vale anche per il principio che si va a processo solo se vi sono elementi per una prevedibile condanna se confermati in dibattimento. È più comodo e meno faticoso scrivere un decreto di rinvio a giudizio che non un provvedimento motivato di archiviazione”. Dopo il caso Uggetti il tema della presunzione di non colpevolezza e della reazione politica agli arresti è sul tavolo. Bisogna cambiare le norme oppure cambiare la testa dei politici? “Bisogna, nell’ordine, cambiare la testa di alcuni magistrati, di alcuni giornalisti e di alcuni politici: no alle conferenze stampa; no ai processi mediatici; custodia cautelare solo nei limiti rigorosi già previsti dalla legge, durata ragionevole del processo”. Magistrati in politica, possono tornare a fare il loro lavoro? “Se la porta girevole non è chiusa, come pare che ci si avvii a fare, finirà per sbattere in continuazione”. Giustizia, Fiandaca: “Può finire l’era della rozza demagogia” di Salvo Toscano livesicilia.it, 7 giugno 2021 Intervista al giurista. “I referendum? Tentato di sostenerli ma la condotta di Salvini è ambigua”. Giovanni Fiandaca, giurista da sempre in trincea in difesa del garantismo coerente con lo spirito costituzionale, intravede un momento di speranza per la giustizia italiana. Dopo anni difficili. Il docente di diritto penale confida nella riforma che verrà della ministra Cartabia ma mette in guardia dai garantisti dell’ultima ora a cui confessa di guardare con sospetto. Professore, la sensazione è che sulla Giustizia alcune idee in questi anni minoritarie nel Paese comincino a prendere piede e a trovare spazio nell’opinione pubblica. È così e perché? “Ritengo che sia così. Stanno finalmente anche a mio avviso emergendo i presupposti di contesto perché inizi una svolta in termini di riorientamento generale rispetto al modo di guardare alla giustizia penale e anche ai rapporti tra magistratura penale e politica. Certamente questo iniziale mutamento di prospettive si può considerare in non piccola parte effetto dell’approfondimento dell’entrata in crisi della magistratura sotto l’aspetto della sua credibilità anche agli occhi di gran parte dei cittadini. Contribuisce anche la presa d’atto del numero notevolissimo di indagini anche a carico di esponenti politici che si concludono in un nulla di fatto, come emblematicamente dimostra la recentissima vicenda del sindaco Uggetti”. È una crisi da cui può venire fuori qualcosa di buono? A volte accade… “Se non si commettono errori e se opinione pubblica e forze politiche nel loro insieme riescono a interagire promuovendo oltre che in primo luogo un processo di generale revisione della cultura penale, riforme che si muovano nella direzione giusta, sarà possibile voltare veramente pagina. Devo aggiungere però un forte richiamo al ruolo della stampa, che non da ora come studioso considero gravemente complice del deterioramento e dell’imbarbarimento della cultura penale nel nostro Paese: com’è noto ci sono ampi settori della stampa, e non mi riferisco soltanto a quelli notoriamente manettari in senso stretto, che hanno contribuito direi nel ruolo di co-protagonisti ad alimentare il circo mediatico-giudiziario autonomamente o in frequente interazione con i settori più giustizialisti del mondo politico. Giustamente Claudio Cerasa sul Foglio di oggi (sabato, ndr) rileva come al sopravvenuto pentimento, non so quanto opportunistico, di Luigi Di Maio che ha proclamato di essersi convertito al garantismo, non risulta che abbia finora fatto seguito una diffusa manifestazione di scuse da parte di molti giornalisti che in questi ultimi decenni anche dalle colonne dei principali giornali hanno assecondato la indebita trasformazione di ogni indagato in un colpevole e la conversione del ruolo dei magistrati da tutori della legalità in custodi delle virtù morali”. Questo è un terreno minato. Penso all’esposizione dei tre accusati della tragedia della funivia, per due dei quali le accuse non hanno resistito neanche qualche ora quando si è arrivati davanti al giudice terzo. Ma la macchina mediatica li aveva già travolti. D’altro canto, ci sono processi di cambiamento che richiedono dei tempi che non possono essere immediati... “Ormai questa tendenza anticipatamente criminalizzatrice diffusa nella stampa scritta e parlata è diventata simile a un consolidato riflesso condizionato, per cui è difficile che si faccia un’ampia retromarcia in tempi brevi. Che fiducia ha nell’imminente riforma della ministra Cartabia? “Conosco e ho molta fiducia nella ministra Cartabia e ho apprezzato la sua scelta di avere istituito una commissione ministeriale di studio composta da esperti molto competenti per prospettare un insieme di proposte di riforma della giustizia penale che possano costituire per la ministra stessa la base di emendamenti da presentare al Parlamento in preparazione dell’approvazione della riforma in discussione”. L’obiettivo è quello di arrivare a una giustizia penale che somigli di più all’idea costituzionale? “Ho già letto attentamente le proposte contenute nella predetta commissione, presieduta dall’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi. Si tratta di proposte di notevole livello tecnico e a mio giudizio ampiamente condivisibili nel merito che puntano a obiettivi importanti quali il potenziamento della dimensione garantistica delle indagini preliminari, la riduzione dei tempi del processo nelle sue varie fasi, la delimitazione in senso garantista delle funzioni di accusa (prescrivendo ai pubblici ministeri di richiedere il rinvio a giudizio solo in presenza di elementi tali da determinare la condanna), l’estensione della sfera di applicabilità della causa di non punibilità per tenuità del fatto, la revisione del sistema sanzionatorio all’insegna di una riduzione del ricorso alla pena detentiva, di una modifica della disciplina della pena pecuniaria volta a potenziarne l’applicazione, di un ampliamento del ventaglio delle sanzioni extracarcerarie e di un maggiore spazio agli strumenti della giustizia riparativa. In poche parole, un insieme di proposte che segnano un potenziale passaggio dalla rozza demagogia punitiva degli ultimissimi anni a una prospettiva di recupero di una giustizia penale finalmente di nuovo orientata secondo i principi del costituzionalismo nazionale ed europeo”. Ha letto i quesiti referendari presentati dai radicali e dalla Lega e radicali? E che cosa ne pensa? “Le confesso che ho l’animo diviso. Da un lato, sento la forte tentazione non solo di aderire all’iniziativa radicale ma anche di impegnarmi per contribuire al suo successo. Dall’altro però non sono ancora riuscito a vincere la preoccupazione che questa iniziativa referendaria possa per un verso complicare l’iter parlamentare delle riforme e per altro verso essere politicamente strumentalizzata da parte di chi ha anche in maniera sotterranea interessi a minare la tenuta del governo Draghi. E non posso non rilevare gli elementi di forte ambiguità rilevabili nella condotta di Salvini, che con questo suo appoggio al referendum realizza lo stupefacente ossimoro di mettere insieme il suo vecchio sé stesso forcaiolo con un suo presunto nuovo sé stesso garantista. Se non sono sicuro della sincerità di Di Maio non lo sono neppure di quella di Salvini. Rispetto a quest’ultimo metterei in evidenza l’aggravante che lui tende a essere ‘carceromanè quando si tratta di immigrati, mafiosi o criminali da strada mentre diventa difensore dei diritti individuali quando sono coinvolti uomini politici o colletti bianchi che gli interessano”. Lei è stato candidato con il Partito democratico qualche anno fa. Che effetto le fa leggere le sortite dell’attuale segretario del Pd Letta come quella che contrapponeva “giustizialisti” e “impunitisti”? “Questi dubbi nei confronti di Di Maio e Salvini non mi impediscono affatto di manifestare il mio risalente punto di vista critico anche nei confronti del Pd, cioè un partito che per molti anni è stato filo-magistratura non sempre in maniera disinteressata perché ha più volte ceduto anch’esso alla tentazione di utilizzare le indagini giudiziarie contro avversari politici di turno, favorendo specie in passato forme di collateralismo politico da parte di settori progressisti della magistratura inclini a finalizzare l’azione penale a pregiudiziali obiettivi di rinnovamento politico. Aggiungo che il tradizionale popolo del Pd è stato anch’esso in maggioranza giustizialista e suppongo che lo sia tutt’ora, mentre le bandiere del garantismo sono state sempre innalzate da elitarie minoranze di suoi aderenti. Credo che lo stesso Letta abbia difficoltà a farsi finalmente portavoce di un garantismo autentico che poi paradossalmente non costituisce altro che l’altro volto del costituzionalismo penale”. Altro che garantismo, questa è soltanto nostalgia per l’immunità di Stefano Feltri Il Domani, 7 giugno 2021 Il caso Uggetti e i referendum sulla Giustizia. Il fatto che i magistrati siano poco difendibili come categoria ha aperto una finestra per quella falange organizzata, dalla fedina penale non sempre immacolata, che dai tempi di Mani Pulite pensa che il problema dell’Italia sia il sistema giudiziario. Quello che abbiamo visto succedere nella magistratura in questi anni, dal caso Palamara al caso Amara, indica che uno dei poteri fondamentali dello stato ha scambiato l’autonomia per l’onnipotenza: perfino i più integerrimi difensori delle regole, come Piercamillo Davigo, si sono dimostrati pronti a darne una interpretazione elastica e creativa quando lo ritenevano necessario. Una riforma del potere giudiziario è quindi urgente, anche per perimetrare i suoi rapporti con il potere. Il fatto che i magistrati siano poco difendibili come categoria ha aperto una finestra per quella falange organizzata, dalla fedina penale non sempre immacolata, che dai tempi di Mani Pulite pensa che il problema dell’Italia sia il sistema giudiziario. Tesi anche meritevole di discussione, ma che spesso si declina in una difesa degli imputati e dei condannati che sono meritevoli di stima e talora perfino di applausi soltanto in quanto tali. Mentre il governo, con il ministro della Giustizia Marta Cartabia, discute con i partiti di come riformare la magistratura per risolvere alcuni dei problemi emersi nell’autogoverno, Matteo Salvini e i Radicali lanciano sei quesiti referendari che, come ha scritto ieri Giovanni Tizian su questo giornale, non sono altro che la riproposizione del programma storico di Silvio Berlusconi. Separazione delle carriere tra pm e giudici, col retropensiero di rendere i pm più deboli e controllabili, abolizione della legge Severino che tanti problemi ha creato ai pubblici amministratori accusati di corruzione, responsabilità civile dei magistrati (per intimidirli con le richieste di risarcimento danni, come accade con i giornalisti), limite al carcere preventivo in caso di rischio di reiterazione del reato. Berlusconi aveva un interesse specifico nel prendersela con i pm, da imputato prima e condannato poi, alla guida di un partito, Forza Italia, fondato da un condannato per mafia (Marcello Dell’Utri) e con una pletora di pregiudicati nelle liste elettorali o nelle posizioni chiave. All’epoca molti si indignavano, protestavano, votavano chi si indignava e leggevano giornali e libri indignati. Tutta quell’indignazione - e l’indifferenza del centrosinistra - ha prodotto il Vaffanculo dei Cinque stelle. Ora che il Movimento è al crepuscolo, si percepisce un generale sollievo: finalmente politici di ogni colore possono ammettere di aver sempre pensato le stesse cose di Berlusconi senza doversene più vergognare. Il garantismo non c’entra nulla. Chi volesse fare una battaglia di principio per il rispetto dei diritti di chi è innocente fino a prova contraria dovrebbe occuparsi di Luigi Nerini, il gestore della funivia di Stresa, che giornali e tv (specie quelli “garantisti”) hanno descritto non solo come un colpevole ma perfino come un mostro. Il garantismo vale per tutti, soprattutto per quelli che non ci piacciono, inclusi i presunti stupratori (vedi il figlio di Beppe Grillo), i presunti assassini, i presunti sterminatori di famiglie in gita. E invece no, metà della stampa italiana e perfino il segretario del Pd Enrico Letta hanno scelto come simbolo di questa nuova stagione garantista Simone Uggetti, ex sindaco Pd di Lodi, arrestato nel 2016, condannato in primo grado, e poi assolto in appello. In estrema sintesi la storia di Uggetti è questa: una dipendente del comune denuncia che Uggetti sta manipolando una gara per l’assegnazione di piscine comunali, Uggetti viene indagato, poi arrestato perché inquina le indagini usando il suo ruolo politico per avvicinare i vertici locali della Guardia di Finanza che lo indagano. Una volta fermato ammette di aver fatto quello di cui lo ha accusato la funzionaria. In primo grado viene condannato, in secondo assolto ma non sappiamo neanche perché, visto che le motivazioni della sentenza non sono state depositate. Funziona così, un giudice può emendare la decisione di un altro giudice, quella di Uggetti è una storia in cui le tutele hanno funzionato: perfino uno che ha ammesso il comportamento contestato è stato prosciolto. Scegliere Uggetti come testimonial contro la “gogna” e contro gli eccessi della giustizia tradisce il vero scopo della campagna e dello spirito del tempo che sta dietro ai referendum di Lega e Radicali: la grande nostalgia non è per Montesquieu, ma per quella lunga stagione della storia d’Italia nella quale i giudici finivano sui giornali soltanto quando venivano ammazzati, dal terrorismo o dalla mafia, e chi era al potere non doveva preoccuparsi delle accuse di corruzione, anche perché - quando scoperto - poteva sempre appellarsi a un nobile ideale che rendeva la corruzione non solo necessaria ma anche patriottica. In quest’epoca con meno ideologie e molti profili social, non si fa più neppure lo sforzo di provare a giustificare la richiesta di immunità. Riforma del Csm, i giureconsulti del Centrodestra preparano la resa dei conti con le toghe La Notizia, 7 giugno 2021 “Il magistrato sceglie di candidarsi in politica? Eletto o non eletto, non può poi tranquillamente tornare a fare il PM o il Giudice. Va precisato ben chiaro nella legge, e questa riforma ne è l’occasione. Le ‘porte girevoli’ fanno male alla politica ed alla giustizia”. È quanto ha detto, su Twitter, Enrico Costa deputato e responsabile giustizia di Azione, in relazione al pacchetto di emendamenti al disegno di legge sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. “Mi auguro che si apra una fase sulle riforme che metta fine alla barbarie” del giustizialismo: ad affermarlo è, invece, la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, che in un’intervista La Stampa in cui si è detta “sgomenta” per le vicende del Csm e ha esortato le forze politiche al “senso di responsabilità”. “L’Italia oggi più che mai ha bisogno di riforme che possano ammodernare il Sistema Paese, renderlo competitivo e in grado di affrontare le sfide di una società e di un’economia globale sempre più evoluta”, ha sottolineato Casellati. Sulla giustizia ad avviso del presidente del Senato “da troppo tempo nel nostro Paese si assiste ad un vero e proprio cortocircuito mediatico-giudiziario”. “I processi - ha aggiunto la Casellati - prima che nei tribunali vengono celebrati sulle pagine dei giornali, in televisione, nelle piazze e ultimamente anche a colpi di post sui social. Il tema della giustizia non può essere ridotto a una guerra tra opposte “tifoserie”. Mi auguro che una volta per tutte possa aprirsi una fase di riforme che metta fine a questa barbarie”. “Le vicende che da tempo interessano il Csm e più in generale la magistratura mi lasciano sgomenta”, ha aggiunto la presidente, “a mia esperienza al Csm è stata positiva, perché l’ho vissuta con una forte volontà di innovazione e di riforma. Tant’è che proprio al Csm, nel luglio 2016, in una seduta plenaria, ho proposto il sorteggio dei magistrati da candidare al Csm. Questa, a mio parere, è l’unica riforma compatibile con la Costituzione che può arginare la deriva correntizia”. Non basterà mai una legge: il diritto all’oblio è tutelato solo dalla civiltà (dei giornalisti) di Errico Novi Il Dubbio, 7 giugno 2021 “No alle rievocazioni inopportune, senza ridurre la libertà di stampa”, dice il presidente dell’Ordine dei giornalisti, Verna. Ma il potere dei media è assoluto. Notizia di 10 giorni fa: lo scorso 28 maggio il Tribunale di Napoli ha deciso che nel caso della piccola Fortuna Loffredo e di suo padre Pietro, il diritto all’oblio non vale. Parliamo della bambina uccisa nel 2014, quando aveva 6 anni, scaraventata giù dall’ottavo piano dopo essersi opposta all’ennesimo abuso sessuale, nella più disumana delle periferie degradate di Napoli, il “Parco Verde”. Su di lei è in arrivo un film, il papà di Fortuna ha cercato inutilmente di bloccarne l’uscita. Il giudice ha respinto la richiesta: il diritto all’oblio invocato dal padre di quella vita innocente e martoriata non pretenderà certo di oscurare lo spettacolo. Perché appunto le storie anche tragiche, se si incrociano con l’attività giudiziaria, sono ormai lo spettacolo più a buon mercato. Il diritto all’oblio deve piegarsi, inchinarsi, retrocedere di un passo e farsi da parte. Inevitabile. Dal Garante privacy un argine (almeno) online - Anche per un motivo banalissimo: il diritto all’oblio non esiste. Non è definito, in termini tassativi, nel nostro ordinamento. Comincia ad essere affermato in alcune sentenze, che però non formano ancora una giurisprudenza robusta. A presidiarne almeno uno dei versanti più delicati, relativo al web, è però la tutela della privacy, e quindi il Garante per la protezione dei dati personali. L’attività dell’authority è intensa e efficace, ma ha appunto il limite di incidere essenzialmente sull’informazione on line. Regola la complicata materia della facilità con cui si rintracciano gli articoli relativi ai casi giudiziari. Lo fa da anni, in un incrocio di pronunce con la Corte costituzionale, e sempre con lo sguardo rivolto a un principio: qualora una vicenda giudiziaria si concluda in modo favorevole alla persona precedentemente accusata di un reato, si può ottenere la deindicizzazione degli articoli risalenti all’indagine, ma non la loro cancellazione. La testata on line che aveva raccontato la storia, e ancora conserva i vecchi articoli, deve fare in modo da renderli irrintracciabili attraverso i motori di ricerca. Ma naturalmente chi fosse in possesso della “url”, l’indirizzo internet preciso di quell’articolo, dovrà poterlo leggere ancora. Né potrà essere preclusa la ricerca operata dal lettore direttamente con il motore interno al sito della testata. Il garante lo ha ribadito in un provvedimento reso pubblico lo scorso 27 aprile, con il quale ha respinto la richiesta di “cancellazione” presentata da un ex imputato di appropriazione indebita. L’accusa era risalente al 1998, il reato è stato nel frattempo dichiarato estinto dalla Cassazione e l’ex imputato, come riferisce il Garante, “riteneva che l’articolo gli recasse pregiudizio e non fosse più attuale”. Niente da fare, reclamo respinto visto che l’articolo era stato già “deindicizzato” dall’editore. Al quale l’authority ha solo inflitto una sanzione di 20.000 euro “per non aver fornito risposta all’interessato, come previsto dal Regolamento”. L’emblematica decisione del Garante ha radici precise nella giurisprudenza sia costituzionale che di legittimità: il caso definito a fine aprile riecheggia direttamente l’ordinanza del 19 maggio 2020, numero 9147, della Cassazione (prima sezione civile). Ma come si vede, la questione dell’on line, del diritto all’oblio in rete, è solo una parte del problema. La reiterazione dei fatti, spesso operata dai media con sadica voracità, può avvenire in tante altre forme: con il cinema, appunto, negli show televisivi, in quella carta stampata che quasi mai dà uguale risalto a indagini e assoluzioni. Ma certo, la centralità dell’informazione on line non solo è già visibile ma è destinata a crescere. Proposte normative e appelli istituzionali - E non a caso, proprio nelle scorse settimane, anzi quasi con perfetta coincidenza temporale rispetto al provvedimento del Garante privacy, i parlamentari più impegnati del fronte garantista hanno depositato, sul diritto all’oblio, emendamenti alla riforma del processo penale. È il caso del responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, che punta a introdurre l’obbligo di cancellazione. Certo è innegabile che in gioco vi siano anche la “utilità sociale” e il “valore di documento storico” degli articoli d’archivio, come hanno affermato il Garante nella propria recente decisione e la stessa Suprema corte. Eppure è difficile non mettere sul piatto della bilancia anche la richiesta di contrastare, proprio grazie al diritto all’oblio, le propaggini più feroci del cosiddetto processo mediatico. L’attuale sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto ne ha parlato a propria volta a inizio maggio in occasione della sua prima visita, nella nuova veste istituzionale, al plenum del Consiglio nazionale forense. Ha messo appunto in relazione il “diritto all’oblio” con “il processo mediatico che cancella il diritto costituzionale alla presunzione d’innocenza”. Verna: bilanciamento tra trovare caso per caso - E come si fa a trovare il punto di equilibrio? “Non si può che individuare di volta in volta il bilanciamento fra l’interesse pubblico e l’oblio di vicende lontane nel tempo invocato dalla persona”, ricorda al Dubbio il presidente dell’Ordine dei giornalisti Carlo Verna, “ma è impensabile che una legge possa indicare il punto esatto e unico di questo bilanciamento: deve necessariamente essere trovato di volta in volta dal giornalista, secondo i principi della nostra deontologia, vale a dire la continenza e appunto la rilevanza sociale”. È il metro da considerare anche per il giudice sempre più spesso chiamato a pronunciarsi da chi lamenta l’esposizione per fatti lontani. “Ma non può essere trattato come altri il caso di chi magari si candida a sindaco in una grande città e si lamenta perché i giornali tirano fuori processi in cui è stato coinvolto anche molto tempo prima”, nota Verna, “come si fa a disconoscere l’interesse pubblico, in casi del genere?”. I complessi incroci fra giurisprudenza costituzionale, di legittimità e delle corti internazionali in materia di diritto all’oblio e privacy sono raccolti in un dossier prodotto a fine dicembre 2020 dal Servizio Studi della Consulta (“L’oscuramento dei dati personali nei provvedimenti della Corte costituzionale”, a cura di Paola Patatini e Fulvio Troncone). Di sicuro, spiega ancora Verna, “io sono contrario a un sacrificio della libertà di stampa: il Testo unico della nostra deontologia contiene indicazioni chiare, e direi sufficienti”. Quel ruolo che dovrebbe inorgoglire i giornalisti - Può darsi che il presidente dei giornalisti abbia ragione. Può darsi che proposte come quelle di Costa e di Forza Italia sulla cancellazione integrale dei vecchi articoli on line possa infrangersi su una sanzione di incostituzionalità. Ma è innegabile che l’abuso un po’ sadico di vicende lontane, in quel modo “inopportuno” di cui parla lo stesso Verna, sia fra le patologie sociali più gravi della nostra giustizia. E allora, sembra chiaro anche che per curarla serve una grande opera di riscatto culturale, una riscoperta consapevole dell’equilibrio, della presunzione d’innocenza, del fine rieducativo della pena che mal si coniuga con il ludibrio perenne. Ed è anche chiaro come la tutela della persona umana dal saccheggio mediatico sia responsabilità dei giornalisti prima ancora che dei giudici. Continenza, rispetto del principio all’interesse pubblico, senza distorcerlo: ecco. Il rigore, la civiltà, l’integrità delle istituzioni rappresentative, della democrazia e prima di tutto della dignità, passano per le mani dei giornalisti. Riuscissimo ad esserne davvero consapevoli, dovremmo anche sentircene orgogliosi. Non perdono Brusca e Riina, ma la legge sui pentiti va difesa di Alessandro Di Battista Il Fatto Quotidiano, 7 giugno 2021 Nell’estate di 29 anni fa, Riina era raggiante. “Giovanni, si sono fatti sotto. Insistiamo. Gli ho fatto un papello di richieste grande così”. Sono parole di Riina e quel Giovanni è Giovanni Brusca, boss di San Giuseppe Jato, assassino di Falcone e mandante dell’omicidio del piccolo Di Matteo, figlio di Santino Di Matteo, uomo d’onore del clan di Altofonte il quale, arrestato dopo la strage di Capaci, aveva deciso di pentirsi. Brusca è stato appena scarcerato. Uno dei killer più crudeli della mafia, autore di decine di omicidi nonché collaboratore di Riina nella fase stragista, è uscito dal carcere. “Se lo incontro non so che succede”, ha detto Santino Di Matteo. Come dargli torto. Il punto è che la legittima indignazione non deve mai ottenebrare il ragionamento. Soprattutto nei tempi oscuri che stiamo vivendo, tempi di restaurazione anche per quel che concerne la lotta alla mafia. Qui nessuno chiede il perdono per Brusca. Perdonare sarà anche divino, ma siamo uomini e nessuno può costringerci a farlo. Io non perdono Brusca, non perdono Riina, non perdono Provenzano, non perdono chi ha trattato con la mafia dopo Capaci accelerando l’assassinio di Borsellino. Non perdono ma difendo la legge sui pentiti. Ogni pentito, chi più chi meno, si è macchiato di tremendi delitti prima di pentirsi. Per caso erano uomini onesti i Salvatore Grigoli, assassino di Don Puglisi, i Gaspare Spatuzza, killer di Brancaccio, i Francesco Di Carlo, testimone chiave al processo Dell’Utri? Era un santo Buscetta, il boss che testimoniando al maxi-processo permise la condanna di centinaia di mafiosi? Fa scalpore che colui che pigiò il telecomando a Capaci sia stato scarcerato grazie ad una legge voluta dal giudice che fece saltare in aria. Ma è la legge, ed è una legge da difendere. Brusca non è il primo pentito che esce di prigione dopo aver “parlato”. Qualcuno, oggi, vorrebbe fosse l’ultimo. O meglio vorrebbe che fosse l’ultimo boss ad uscire dopo aver vuotato il sacco (o parte di ecco). Esistono i collaboratori di giustizia ed esistono coloro che, forse senza neppure accorgersene, “collaborano” con le cosche rilanciando le loro richieste. Fu Brusca in persona a raccontare agli inquirenti quell’incontro con Riina dopo la strage di Capaci. “Giovanni si sono fatti sotto” disse il capo dei capi. Traduzione? “Lo Stato ci ha cercato, le stragi funzionano. Possiamo alzare il tiro”. Se nel nostro ordinamento non ci fosse la legge sui pentiti voluta da Falcone, Brusca avrebbe mai raccontato quell’episodio? Sono immorali le scarcerazioni dei boss pentiti? Può darsi. Ma la morale lasciamola ai moralisti, chi combatte la mafia ha il dovere di essere pragmatico. Quanti omicidi sono stati evitati grazie ai pentiti? Quanti assassini sono finiti in cella grazie alle loro confessioni? Si ritiene che Brusca non abbia detto tutto. Probabile. Così come non disse tutto Buscetta. “Non mi chiedete chi sono i politici compromessi con la mafia perché se rispondessi, potrei destabilizzare lo Stato” disse Buscetta a Falcone. E sempre Buscetta, nel 1999, a La Repubblica disse: “I collaboratori hanno perduto tempo. Tutti, e soprattutto negli ultimi due anni, non hanno fatto altro che parlare male di loro”. Ciò che avviene oggi. Attaccare Brusca è facile. Accorgersi che alcuni lo stanno facendo per colpire il pentitismo, ovvero una delle armi principali in mano agli inquirenti, è più difficile. La riforma della legge sui pentiti era una delle richieste che Cosa nostra avanzò durante la trattativa. Chi oggi attacca i pentiti si posiziona, consapevolmente o meno, dalla parte dei boss. Di quei boss che non si pentono (vedi i fratelli Graviano) perché attendono che il solo dissociarsi dalla mafia, atto che non prevede alcuna confessione, potrà garantirgli sconti di pena. In tal senso l’attacco all’ergastolo ostativo - ovvero niente sconti per chi non si pente - rischia di esaudire una delle richieste contenute nel papello. La verità è che ci sono pentiti e pentiti. Dei collaboratori di giustizia che parlano di altri criminali importa poco o nulla. Al contrario i pentiti che osano menzionare politici o pezzi delle istituzioni vanno delegittimati affinché nessun altro si azzardi a fare altrettanto. Fu Enzo Brusca ad uccidere materialmente il piccolo Di Matteo su ordine di suo fratello Giovanni. A raccontare i particolari macabri dell’assassinio fu Vincenzo Chiodo, il quale, insieme a Brusca junior strangolò il bambino prima di scioglierlo nell’acido. Enzo Brusca è stato scarcerato nel 2003 ma la cosa fece meno scalpore. Anche lui ha ottenuto uno sconto di pena per essersi pentito. Anche lui ha fornito agli inquirenti utili informazioni, ma a differenza del fratello, non ha parlato del papello, della Trattativa Stato-mafia e di un lussuoso orologio che sarebbe stato visto al polso di Berlusconi da Giuseppe Graviano. Nell’Italia della restaurazione c’è chi combatte affinché i pentiti si pentano non di aver sparato, ma di aver parlato troppo. Alienazione parentale, la denuncia dei Centri antiviolenza: “Diritti negati a donne e minori” Il Dubbio, 7 giugno 2021 Lettera aperta a Mattarella e Cartabia dopo il decreto del Tribunale per i minorenni di Roma che che prevede l’allontanamento del figlio di Laura Massaro, la decadenza dalla responsabilità genitoriale per la mamma e la sospensione di ogni rapporto tra il bambino e sua madre. “Il decreto del Tribunale per i minorenni di Roma che prevede l’allontanamento forzoso del figlio undicenne di Laura Massaro, la decadenza dalla responsabilità genitoriale per la madre e l’interruzione di ogni rapporto fra madre e figlio, è l’esito di una vicenda divenuta emblematica. Da anni il caso di Laura Massaro e di altre madri, i cui figli sono stati da loro separati, talvolta anche con l’uso della forza pubblica, scuotono l’opinione pubblica e sono all’attenzione di parlamentari, associazioni e Centri antiviolenza”. A dirlo è la senatrice del Pd Valeria Valente, presidente della commissione Femminicidio e violenza di genere, dopo la decisione del 4 giugno del Tribunale per i minorenni di Roma. Laura Massaro, che da anni combatte perché il figlio non le sia sottratto, “è giudicata una madre ostativa, in quanto si sarebbe tenacemente opposta alla ripresa di una relazione tra il figlio e suo padre”, spiega Valente. “Secondo i giudici minorili - aggiunge - questo giustifica l’allontanamento del bambino, il suo collocamento in una casa famiglia e l’interruzione di qualunque rapporto con sua madre, l’unico genitore con il quale è cresciuto e con il quale ha una stabile relazione affettiva. Non è superfluo chiedersi se è peggio la medicina o la malattia, e come sia possibile non verificare preventivamente i potenziali effetti traumatici del prelevamento forzoso del bambino da parte di persone sconosciute, in parte poliziotti in borghese, del suo sdradicamento dall’ambiente domestico in cui è cresciuto, dai suoi punti di riferimento abituali. Il suo collocamento in un luogo ignoto e segreto, in una condizione di totale isolamento dai suoi affetti e dalle persone che conosce, coincide davvero con il suo interesse superiore? E siamo davvero sicuri che questa sia la strada per affermare il principio della bigenitorialità?” Sul caso di Laura Massaro è intervenuta anche l’Associazione D.i.Re - Donne in rete contro la violenza, con una lettera aperta indirizzata al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e alle ministre della Giustizia Marta Cartabia e delle Pari opportunità Elena Bonetti, nonché a David Ermini, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, affinché “sia posto termine alla pratica di mettere in Comunità i minori per rieducarli alla relazione con il padre rifiutato”. La lettera ricorda le diverse Ordinanze della Cassazione contro il costrutto della “alienazione parentale” utilizzato nei tribunali civili e minorili, e chiede “una formazione adeguata - così come previsto dalla Convenzione di Istanbul - di tutti/e coloro che operano nel sistema giustizia, formazione che deve coinvolgere i centri antiviolenza ed essere incentrata sulla prevenzione della vittimizzazione secondaria e sul superamento degli stereotipi di genere che ancora condizionano l’operato dei tribunali penali, civili e minorili che affrontano casi di violenza maschile contro le donne e violenza assistita”. “I centri antiviolenza della rete D.i.Re seguono moltissime donne che affrontano processi di separazione e affidamento in cui la violenza subita e la violenza assistita non vengono riconosciute, in cui le CTU giudicano le donne attraverso le lenti della PAS pur senza nominarla”, afferma Antonella Veltri, presidente di D.i.Re, sottolineando che “Le istituzioni non possono continuare a restare mute di fronte alle sofferenze inaudite inflitte a bambini e bambine e alle loro madri”. “L’ultimo in ordine di tempo seguito da un centro antiviolenza della nostra rete - si legge nella lettera - riguarda il forzato allontanamento di due bambini accuditi dalla madre perché si sono rifiutati di incontrare il padre. La madre ha chiesto alle istituzioni di proteggere i figli ma il tribunale non ha guardato ai fatti messi in atto dal padre bensì ha richiamato la CTU, già incaricata in precedenza per una prima valutazione sul nucleo familiare, perché rinnovasse il suo lavoro alla luce delle questioni poste. È così che è stata posta attenzione solo alle ritrosie dei minori a riprendere una relazione con il padre e non alle ragioni del rifiuto. Oggi i bambini sono lontani dalla loro casa, dalle loro relazioni amicali e dalla madre”. Bologna. “Carceri più umane”. L’appello per i detenuti da Vasco a Bergonzoni di Giuseppe Baldessarro La Repubblica, 7 giugno 2021 Una “Maratona” organizzata dalla Camera penale con artisti, politici, docenti. Il rocker: “Tenete duro, anche io ho conosciuto la vostra condizione”. “Tenete duro, capisco la condizione di stare in carcere. Condizione che tra l’altro ho conosciuto”. L’incoraggiamento di Vasco Rossi ai detenuti della Dozza è arrivato ieri mattina durante la “Maratona oratoria” organizzata dalla Camera penale di Bologna per chiedere un nuovo approccio al tema della rieducazione carceraria di chi “pur avendo sbagliato ha diritto a condizioni di vita dignitose”. Vasco è stato tra i primi artisti, assieme ad Alessandro Bergonzoni, Gaetano Curreri, Franco Eco e Luca Bruno, a dare la propria adesione alla giornata che ha voluto rimettere al centro del dibattito il tema della giusta pena in relazione alla vita in carcere. “Capisco la rabbia e la tristezza che provate - ha detto il rocker in un video. Fate come me, cercate di dare un senso a quell’esperienza anche se quell’esperienza un senso non ce l’ha”. Il cantante ha ricordato: “La pandemia è stata durissima fuori dal carcere, figurarsi all’interno”. Vasco ha poi invitato quanti stanno dietro le sbarre a “non mollare”. Bergonzoni ha invece dedicato ai detenuti una lunga lettera nella quale ha “chiesto scusa” per le condizioni in cui vivono: “È giusto che chi ha commesso errori paghi, non è però da paese civile che debba pagare due o tre volte”. Secondo l’attore “si deve continuare a lavorare affinché nelle carceri entri il lavoro, il cinema, la scrittura, la bellezza, perché è attraverso queste esperienze che si può costruire un futuro all’esterno”. Ed ha aggiunto: “Quelli che dicono che bisogna buttare la chiave non hanno mai trascorso un giorno in carcere, io credo invece che la parola da usare sia sempre perdono. Sappiate che non siete soli”. All’iniziativa hanno preso parte anche personaggi del mondo dello sport, politici di tutti gli schieramenti, sindacalisti della polizia penitenziaria, docenti universitari e soprattutto operatori che a vario titolo si occupano di detenzione e reinserimento sociale. Il cardinale Matteo Zuppi ha sottolineato come sia “sempre necessario sostenere chi nella sua vita attraversa un momento di difficoltà”. Busto Arsizio. Detenuti al lavoro per uscire dal “giro” da coop La Valle di Ezechiele Milano Sette, 7 giugno 2021 I progetti de “La Valle di Ezechiele” a favore degli ospiti di Busto Arsizio. Si passa facilmente davanti alla Casa circondariale di Busto Arsizio. Non sempre ci si guarda dentro, se non per qualche giudizio o qualche scongiuro. La Quaresima 2021 ha visto invece affacciarsi tanta gente, la cui sensibilità è stata mossa anzitutto dai propri pastori, che hanno acceso il microfono a don David Maria Riboldi, cappellano della Casa circondariale, per aprire una finestra sul mondo carcere e chiedere una mano a sostenere i progetti di rinascita da lui promossi, avviando la cooperativa sociale “La Valle di Ezechiele”. La raccolta fondi per borse lavoro a sostegno dell’occupazione di persone in esecuzione penale esterna aveva nome “Fuori dal giro” con lo scopo di non far riaccedere a certi giri, le persone al lavoro in cooperativa. Al momento sono 4 le persone che lavorano in esecuzione penale esterna al penitenziario: la magistratura ha loro concesso il domicilio a casa, grazie all’offerta di lavoro della cooperativa, che si occupa di sbavatura della gomma in conto terzi, in un capannone in affitto a Fagnano Olona. La disponibilità all’accoglienza di don David nelle celebrazioni delle parrocchie, tra quaresimali dei venerdì e sante Messe domenicali, ha permesso di raggiungere circa 2.500 persone in 13 predicazioni. A lui si è aggiunta la spontanea partecipazione di mons. Raimondi, cui le persone, recluse a Busto, dedicarono un pastorale da loro creato nella falegnameria interna: la sua predicazione ha reso vicina la lontana Treviglio, che ha preso parte alla raccolta. Tante persone hanno sentito il bisogno di fare qualcosa di concreto. La raccolta fondi, promossa dai parroci nelle comunità cristiane, promossa online sul sito “Buona Causa” e giunta attraverso donazioni personali (anche di singoli sacerdoti che hanno vissuto la propria Quaresima così) ha totalizzato la cifra di 25.889,62 euro. A tanta Provvidenza si è aggiunta la Fondazione Giannina, presieduta da mons. Severino Pagani, prevosto di Busto, che ha elargito 5 mila euro a sostegno dei nostri progetti. Grazie a quanto raccolto, il Consiglio d’amministrazione della Cooperativa ha inviato il 24 maggio scorso, all’area educativa della Casa circondariale di Busto, la disponibilità all’assunzione di altre due persone, che potranno vivere così un nuovo ingresso nella società, grazie alla proposta di inserimento lavorativo de “La Valle di Ezechiele”. Ringraziamo tutti coloro che hanno preso parte a questa raccolta, ai parroci dal cuore grande, che hanno aperto le porte delle proprie chiese a questo progetto, ai tanti che hanno messo mano al portafoglio, perché il cuore sentiva che “era giusto così”, alla Fondazione Giannina che mostra sensibilità per nuovi progetti sul territorio. A breve sarà messo online il sito della cooperativa, da cui sarà possibile vedere i due nuovi progetti di lavoro, cui stiamo alacremente lavorando e in cui saranno impiegate le nuove persone che siamo in procinto di assumere. Da ultimo, La Prealpina del 25 maggio ha ricordato come solo nel 2013 l’istituto penitenziario di Busto Arsizio causò una condanna della Corte europea per i diritti dell’uomo all’Italia, a causa del sovraffollamento e degli spazi considerati angusti al punto da essere definiti un “trattamento contrario ai sensi dell’umanità”, ossia “disumano”. La nostra cooperativa, scarcerando persone, va a deflagrare l’alto numero delle persone recluse (oggi si sfiorano i 400 detenuti, rispetto ai 240 posti di capienza ufficiale, come dal sito del Ministero). La nostra cooperativa, inserendo le persone nel mondo del lavoro e offrendo un nuovo tessuto relazionale, produce sicurezza, motivando le persone a non più accedere al mondo della delinquenza. Ancora grazie a quanti credono nell’opera che il Signore ci dà da compiere. Monza. Detenuto pestato in carcere: cinque agenti alla sbarra di Stefania Totaro Il Giorno, 7 giugno 2021 Associazione Antigone e presunta vittima parti civili all’udienza preliminare. Stava facendo lo sciopero della fame da una settimana per il trasferimento. Anche l’associazione che ha portato alla luce la vicenda, oltre che la presunta vittima, parti civili nei confronti dei cinque agenti di polizia penitenziaria accusati di avere picchiato nell’agosto del 2019 un detenuto all’interno del carcere di Monza. Il 2 luglio è fissata l’udienza preliminare al Tribunale di Monza davanti al giudice Gianluca Tenchio. Le accuse sono a vario titolo lesioni aggravate, falso, calunnia, violenza privata, abuso d’ufficio e omessa denuncia. Il detenuto è un italiano che stava protestando perché voleva essere trasferito da Monza in un’altra casa circondariale. A presentare un esposto alla Procura di Monza è stata l’associazione Antigone, che si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario, dopo avere avuto notizia del presunto pestaggio da un famigliare del detenuto. Secondo l’accusa il detenuto, che da una settimana stava facendo lo sciopero della fame, stava per essere riportato in cella in barella dall’infermeria del carcere monzese, quando è stato colpito a pugni e schiaffi da un agente, mentre altri lo tenevano fermo. Per poi farlo cadere dalla barella una volta arrivati in cella. Il detenuto sarebbe stato lasciato lì dolorante, con gli occhi lividi, il volto tumefatto e un dente rotto. E in seguito mandato in cella di isolamento, dopo essere stato costretto a dichiarare che era stato lui ad essere stato aggressivo con gli agenti di polizia penitenziaria. C’è un video dell’accaduto estratto da alcune telecamere nei corridoi del carcere di Monza, che mostra l’agente che schiaffeggia il detenuto ma, secondo la difesa degli imputati, le telecamere non hanno ripreso, per un cono d’ombra nella registrazione, il momento precedente in cui il detenuto avrebbe sferrato un calcio al volto di un agente. Massa Carrara. Lavori socialmente utili al posto del carcere La Nazione, 7 giugno 2021 Accordo con l’Ufficio di esecuzione penale esterna e il Tribunale. Messa alla prova e lavori di pubblica utilità, il Comune di Massa stipulerà due accordo con il Tribunale e l’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) per accogliere fino a 8 persone sottoposte a queste misure che da un lato sostituiscono la pena detentiva o pecuniaria, dall’altra consentono di sospendere il procedimento penale sempre in accordo con il giudice e il pubblico ministero. In entrambi i casi, si tratta di mettersi a disposizione della collettività. Prestazioni non retribuite che devono dare un servizio a tutta la comunità e dall’altro attivare magari un percorso di riabilitazione e riavvicinamento alla società civile per chi si sia trovato a commettere un reato, non di grave entità. Il Comune di Massa aderirà quindi ai due strumenti, stipulando idonee convenzioni con enti o associazioni che, unitamente all’Uepe, possano dare concretezza allo svolgimento della nuova misura della prestazione di lavoro di pubblica utilità. Il Comune di Massa sarà disponibile ad accogliere, in contemporanea, fino a 5 persone ammesse ai lavori di pubblica utilità e 3 per la messa alla prova. I settori in cui potranno essere utilizzate queste persone sono la tutela del patrimonio ambientale e culturale, la manutenzione delle aree di verde pubblico, eventuale tutela e manutenzione del patrimonio comunale o altre attività per il settore lavori pubblici. Catania. “Polifemmes”, la mostra d’arte dei minori del carcere di Bicocca Quotidiano di Sicilia, 7 giugno 2021 Il prossimo 12 giugno al via la mostra delle opere realizzate da ragazze e ragazzo dell’istituto penale per minorenni di Catania Bicocca insieme all’istituto penale Pontremoli in Toscana. In occasione dell’evento “Non chiamatelo amore”, promosso e organizzato dall’assessora alla Cultura e alle Pari Opportunità del Comune di San Gregorio, Giusy Lo Bianco, verrà esposta al pubblico la mostra d’arte “Polifemmes”, a cura di Ivana Parisi dell’associazione La Poltrona Rossa. Le opere sono state realizzate dalle ragazze e i ragazzi ristretti degli Istituti Penali per Minorenni di Pontremoli (Toscana) e Bicocca di Catania durante i laboratori artistici svolti dagli operatori culturali dell’associazione. La mostra raccoglie le più belle opere galeotte realizzate e inserite nella Collezione Galea di proprietà della stessa associazione. Ma chi sono le Polifemmes? “Sono le figlie dei ciclopi, mostri, titani divini con un occhio solo che vivono sotto terra - spiega Ivana Parisi. Conoscono l’arte e l’artigianato e fabbricano i fulmini al dio Zeus. Le Polifemmes sono invisibili perché vivono nelle grotte e dentro i vulcani, senza poterne uscire. La loro è una vita crudele, senza regole e ne sono oppresse. Le Polifemmes non possono emergere, perché la società non le vuole. Queste giovani titane nascoste fanno paura a Zeus e il loro silenzio sotto terra è un grido soffocato. Il grido di chi denuncia il fallimento della società”. Dal 2013 La Poltrona Rossa promuove e sviluppa progetti artistici e teatrali nei due Istituti Penali per Minorenni della Toscana e della Sicilia. I progetti sono sostenuti con i Fondi Otto Per Mille della Tavola Valdese e dal Ministero della Giustizia, Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità. “A Catania, presso l’Istituto penale per Minorenni di Bicocca -, continua Parisi - grazie alla disponibilità manifestata da parte della dirigente Letizia Bellelli e di tutto il personale interno che lavora nella struttura detentiva, continuiamo a lavorare su progetti artistici e teatrali. Questo per noi operatori culturali è un segno importante che ci conferma l’importanza del ruolo che hanno la cultura e l’arte nell’ambito di un percorso rieducativo per i e le minori che in passato hanno intrapreso una strada tortuosa e senza sbocco”. Milano. La nuova palestra nel carcere di Opera Milano Sette, 7 giugno 2021 Riparte lo sport, anche in carcere. Sarà inaugurata domani alle 14.30, la nuova palestra allestita nell’istituto penitenziario di Opera. Il restyling della Sala attrezzi è stato realizzato, con la disponibilità dell’area tecnica della Casa di reclusione e dei responsabili della palestra, durante i mesi della pandemia. I lavori sono stati svolti da alcuni ospiti della casa di reclusione, grazie alla joint venture tra l’associazione InOpera, il gruppo Scout “Talenti all’Opera” e numerosi donatori, tra cui l’Università Bocconi, Leone 1947, la Ditta Liuni, Daw Italia, Progetto Legno, Grifal, F.lli Brumana, la società sportiva di Inveruno Soi. Ora la palestra dispone di nuovi vogatori, nuove panche, butterflies, scottbench, bike da spinning e da technogym e tanti altri macchinari d’avanguardia per i cultori del fitness. “Un dono di tale entità non arriva tutti i giorni - ha commentato la presidente dell’associazione InOpera, Giovanna Musco - e solo il lavoro di squadra ha fatto sì che tutto ciò fosse possibile. In un periodo così complesso non era certo scontato che questa operazione si potesse realizzare”. L’iniziativa è nata su segnalazione di alcune persone detenute che erano a conoscenza che l’Università Bocconi stava rinnovando la palestra degli studenti ed era disposta a donare all’istituto di Opera gli attrezzi, tutti in ottimo stato. Poi, complice il lockdown, il progetto si era arenato. A partire da gennaio 2021, l’associazione InOpera, insieme agli Scout, coordinati dal loro capo Matteo Borsari, si è attivata riuscendo non solo a risistemare i vecchi attrezzi, ma anche a verniciare e pavimentare la palestra. Grazie all’apporto della Ditta Liuni è stato possibile pavimentare la “palestra zona cardio”, Daw Italia ha fornito la vernice azzurra per riverniciare le pareti della palestra, Grifal ha rinnovato tutte le imbottiture per le attrezzature esistenti, F.lli Brumana ha completato le bacheche in legno realizzate dagli ospiti della casa di reclusione con la fornitura di pannelli in plexiglass. Per completare quest’opera di restyling, è stato possibile acquistare nuovi specchi e, grazie al supporto logistico della ditta Progetto Legno, inserire una struttura in legno nella quale riporre il cambio e altri oggetti, oltre a delle nuove reti da calcetto. Il mitico brand Leone 1947 ha regalato 5 nuovi, bellissimi sacchi da boxe, insieme a numerosi guanti, paradenti, fasce, scarpette, e corde e infine la società Sportiva oratoriana inverunese (Soi) ha donato ulteriori attrezzature sportive. “L’operazione restyling della palestra è stata l’occasione per apprezzare la generosità e la sensibilità di tante persone verso il mondo della reclusione”, hanno concluso Musco e Borsari. Porto Azzurro (Li). Cena solidale al carcere, l’iniziativa della scuola “Foresi” e della Direzione tenews.it, 7 giugno 2021 “Galeotta fu la cena”. Si chiama così l’iniziativa di martedì 8 giugno alle ore 19 al carcere di Porto Azzurro, organizzata dalla Casa di Reclusione e dall’Isis Foresi di Portoferraio. Una cena all’insegna della solidarietà, il cui ricavato andrà a beneficio dei restauri della chiesa di San Giacomo, situata all’interno del carcere, e del progetto di inclusione post-diploma delle persone con disabilità. È questa una delle iniziative fra carcere e scuola, un rapporto che va avanti dalla seconda metà degli anni Novanta, quando fu istituita la sezione carceraria del liceo scientifico, ancora in attività. Negli ultimi anni, inoltre, si sono svolti progetti di formazione per i reclusi, sia nel campo alberghiero che per lo sviluppo delle competenze linguistiche e digitali. E poi le visite delle classi dei plessi di Portoferraio, nell’ambito di specifici progetti di cittadinanza. E la cena è collocata proprio in rapporto ai percorsi di educazione civica. “In particolare - sottolinea la docente di diritto Raffealla Misso - alle tematiche della rieducazione dei condannati, del lavoro e del reinserimento sociale”. Proprio su questa linea, il direttore Francesco D’Anselmo e il preside Enzo Giorgio Fazio ringraziano l’imprenditore Tiziano Nocentini per la decisione di assumere, come stagionali, due reclusi ammessi al lavoro esterno (art. 21 dell’Ordinamento penitenziario). Un ringraziamento anche per la generosità mostrata in occasione della cena, mettendo a disposizione gli ingredienti per la cucina. La cena sarà preparata da una dozzina di studenti dell’alberghiero, sia dei corsi di cucina che di sala, coadiuvati da alcuni detenuti e guidati dai docenti Gennaro Bellomo (chef) e Sarah Cappellini (maitre). Questo il menu creato per l’occasione: - Barba di San Giacomo (agretti con burratina e cipolla rossa di Patresi in agrodolce) - Orecchiette alla prigioniera (orecchiette con le cime di rape e tarallo sbriciolato) - Pesce spada e libertà (scrigno di pesce spada con zucchine e guazzetto di battigia) - Dolci evasioni (tortino caprese con gelato alla vaniglia). La serata di solidarietà osserverà tutte le norme di sicurezza sanitaria e i partecipanti verranno sottoposti a tampone rapido, che è stato offerto dall’Associazione Albergatori dell’Elba che conferma la propria disponibilità per i progetti della scuola e del carcere. Perché dovremmo regalare i vaccini ai Paesi poveri di Federico Fubini Corriere della Sera, 7 giugno 2021 Diventerebbe meno probabile l’insorgere di varianti che potrebbero perforare anche lo scudo di protezione vaccinale di cui godiamo oggi noi ricchi del mondo. Ora che l’uscita dalla pandemia forse è vicina, almeno per noi, in Europa siamo di fronte a un dilemma che non sparirebbe neanche se ci liberassimo di qualunque considerazione etica. L’interrogativo resterebbe anche se i nostri governi decidessero di perseguire solo il nostro interesse nel modo più illuminato e efficiente possibile. In realtà la stessa domanda riguarda tutti i Paesi ricchi, Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e Giappone inclusi: ha senso tenere per noi tutte queste dosi di vaccino contro il Covid? Il problema lo pone un recente studio di Gita Gopinath, la capa-economista (indiano-americana) del Fondo monetario internazionale, intervenuta ieri al Festival dell’Economia di Trento. Con il collega Ruchir Agarwal, Gopinath fa i conti e mostra che l’Unione europea ha ordinato per quest’anno e il futuro prossimo 755 milioni di trattamenti vaccinali completi. Rispetto all’obiettivo di coprire il 75% della popolazione, abbiamo un surplus di dosi sufficiente per proteggere altri 420 milioni di persone. Gli Stati Uniti hanno un eccesso per almeno 358 milioni di persone e complessivamente il surplus dei Paesi ricchi vale oltre un miliardo di trattamenti vaccinali. “In alcuni Paesi si è già arrivati a coprire la metà della popolazione o più - ha ricordato Gopinath ieri a Trento. Ma ci sono Paesi poveri nei quali non si riesce a vaccinare neanche il personale sanitario”. Ora, è vero che di recente l’Italia e altri Paesi europei hanno donato milioni di dosi; prima ancora avevano versato fondi a Covax, l’iniziativa per proteggere dalla pandemia le aree più povere del pianeta. E il surplus di prenotazioni non è semplicemente il risultato di un accaparramento irrazionale da parte di governi dominati dal panico. Dietro c’è un motivo reale: nessuno oggi sa per quanto resteranno efficaci le somministrazioni che si stanno facendo in questi mesi; in autunno o nel prossimo inverno potrebbe esserci bisogno di rinnovarle e noi europei non vogliamo più trovarci nelle condizioni dell’inverno scorso, quando mancavano le dosi. Dunque esitiamo a regalare le nostre scorte in eccesso. Ma davvero è nel nostro interesse, oltre che moralmente accettabile? Gopinath stima che con il nostro surplus si potrebbe coprire quasi metà della popolazione di Paesi a reddito medio-basso dove vivono 3,3 miliardi di persone. Quasi metà dell’umanità, per la quale la pandemia è ancora pericolosissima. Diventerebbe meno probabile l’insorgere di varianti che, un giorno, potrebbero perforare anche lo scudo di protezione vaccinale di cui godiamo oggi noi ricchi del mondo. Curarsi dell’interesse degli altri proteggerebbe anche il nostro. Se solo una democrazia avanzata che vive a colpi di sondaggi fosse in grado di capirlo. Save The Children: il 32% dei ragazzi italiani non sa utilizzare un browser per la didattica La Stampa, 7 giugno 2021 L’organizzazione ha pubblicato uno studio sulla povertà educativa dei giovani, realizzato con Cremit: 1 su 7 non ha un pc a casa e quasi la metà non sa riconoscere una notizia falsa. Vengono chiamati “nativi digitali” e quest’anno a causa del Covid hanno lavorato soprattutto in Dad, ma ben il 29,3% di questi ragazzi non è in grado di scaricare un file da una piattaforma della scuola; il 32,8% non sa utilizzare un browser per l’attività didattica; l’11% non è capace di condividere uno schermo durante una chiamata con Zoom. Emerge dalla prima indagine pilota sulla povertà educativa digitale realizzata da Save The Children che ricorda, dati Istat, come il livello della povertà assoluta tra i minorenni nel 2020 abbia raggiunto il top dal 2005: in Italia sono un milione e 346 mila (13,6%), +209mila sul 2019. Lo studio di Save the Children, in collaborazione con il Cremit, è il risultato di un questionario somministrato ad un campione di 772 bambini di 13 anni, che frequentano l’ultima classe della scuola secondaria inferiore, in 11 città e province: Ancona, Chieti, Mestre, Milano, Napoli, Udine, Palermo, Roma, Torino, Velletri, Sassari. I risultati indicano che un quinto dei ragazzi (il 22% contro il 17% delle ragazze) non è in grado di rispondere correttamente a più della metà delle domande proposte per valutare le competenze sugli strumenti digitali, né tantomeno eseguire semplici operazioni, del resto quasi 1 ragazzo su 3 non ha un tablet a casa e 1 su 7 neanche un pc e l’82% dichiara di non aver mai utilizzato prima della pandemia il tablet a scuola. Più della metà (54%) del campione vive in abitazioni dove ciascun membro della famiglia ha a disposizione meno di un dispositivo. Circa il 10% degli studenti che hanno partecipato all’indagine pilota non è in grado di riconoscere una password di sicurezza media o elevata. Quasi un terzo (31,1%) pensa che l’età minima per avere un profilo sui social, ad esempio Tik Tok o Instagram, sia inferiore ai 13 anni. Circa il 7% pensa che l’età per poter accedere ai social sia 10 anni o meno. Inoltre, il 30,3% non conosce i passaggi necessari a rendere un profilo Instagram accessibile soltanto ai propri amici e non pubblico. Il 56,8% invece non è a conoscenza delle regole relative alla cessione ai social della propria immagine, mentre il 46,1% non è in grado di riconoscere una fake news riguardante l’attualità. Ed è sempre Save The Children, che in 10 mesi ha raggiunto 160.000 bambini, bambini e adolescenti le loro famiglie e docenti in 89 quartieri deprivati di 36 città e aree metropolitane con il proprio intervento di contrasto agli effetti del Covid-19, a rilanciare la campagna “Riscriviamo il futuro”, per combattere la povertà educativa e digitale. La organizzazione invita a firmare il manifesto scritto in collaborazione con i ragazzi del Movimento Giovani Sottosopra, che chiedono “di uscire dall’invisibilità e di essere al centro delle politiche di rilancio del Paese, con maggiore attenzione alla scuola e alle opportunità educative”. Simbolo della campagna sono gli occhiali rossi che Save The Children “chiede a tutti di indossare per veder finalmente meglio i bisogni, le esigenze e i desideri dei ragazzi”. La campagna riparte con una prima settimana dedicata alla sensibilizzazione sui canali Rai, grazie al sostegno di Rai per il Sociale, e andrà avanti con iniziative e partnership che hanno come obiettivo quello di rendere i bambini protagonisti dei mesi che verranno. Testimonial è Cesare Bocci che in un video spot della campagna ha intervistato e ascoltato i piccoli e accolto la richiesta di essere guardati e ascoltati. Donne e straniere, la crisi del lavoro ha colpito i più precari di Vladimiro Polchi La Repubblica, 7 giugno 2021 Oltre un terzo dei posti persi in Italia durante il Covid è di cittadini immigrati, in gran parte di genere femminile. Lo studio della fondazione Leone Moressa. Donna, d’origine straniera, precaria, impiegata tra commercio, alberghi e ristoranti. Eccolo l’identikit del lavoratore, o meglio della lavoratrice, più penalizzato dal Covid. Sì, perché la pandemia ha colpito duro il mercato del lavoro, si sa. Ma non l’ha fatto indiscriminatamente. Al contrario, ha fatto ogni distinzione di sorta, guardando bene alla cittadinanza e al genere dei lavoratori. Basta leggere i numeri per capirlo: sul totale dei posti persi in Italia tra il 2019 e il 2020, oltre un terzo è da attribuirsi alla componente straniera e ben un quarto alle sole donne migranti. Non solo. Tra i posti di lavoro femminili andati in fumo, le lavoratrici straniere incidono per ben il 44%. A fotografare la crisi che colpisce il mercato del lavoro italiano è uno studio della fondazione Leone Moressa. I risultati: “A livello europeo - scrivono i ricercatori - tendenzialmente in tutti i Paesi il tasso di occupazione è diminuito di più tra gli stranieri che tra gli autoctoni: nella media Ue27, dal 2019 al 2020, il tasso di occupazione è infatti calato di 2,7 punti tra gli stranieri e di 0,6 punti tra gli autoctoni”. Le crisi più significative tra i lavoratori immigrati si sono registrate in Slovacchia, Croazia, Spagna, e da noi, in Italia. “In Italia dal 2019 al 2020 il tasso di occupazione è diminuito di 3,7 punti tra gli stranieri e di 0,6 punti tra gli autoctoni”. Insomma, l’impatto della crisi Covid sui lavoratori immigrati è più che evidente. Per la prima volta, infatti, il tasso di occupazione degli stranieri (57,3%) scende al di sotto di quello degli italiani (58,2%). Non era mai successo. “Molto probabilmente - si legge nello studio - pesa il blocco dei licenziamenti, che ha protetto i posti di lavoro a tempo indeterminato, ma non quelli a scadenza maggiormente diffusi tra gli stranieri”. Non è tutto. Se è ormai risaputo che la perdita più consistente di posti di lavoro ha colpito le donne, non è stato forse sottolineato abbastanza che si tratta in buona parte di donne immigrate. “Sono le straniere ad aver pagato il dazio maggiore - conferma infatti la ricerca Moressa, basandosi su dati Istat - il numero di occupati è diminuito del 10% tra le straniere, del 1,6% tra le italiane, del 3,5% tra gli uomini stranieri e del 1,3% tra gli italiani. Possiamo quindi sintetizzare dicendo che sia il fattore “cittadinanza”, che il fattore “genere” contribuiscono ad aumentare il rischio di perdita del lavoro, evidentemente perché in quelle categorie si concentra più il precariato. Sul totale dei posti sfumati tra il 2019 e il 2020, oltre un terzo è da attribuirsi alla componente straniera e ben il 24% alle sole donne migranti. Dunque sono soprattutto le lavoratrici straniere a determinare il crollo dell’occupazione femminile complessiva, con una perdita di quasi 5 punti di tasso di occupazione. Tra i posti di lavoro femminili persi, la componente straniera incide per il 44%”. Guardando ai settori più in crisi, emerge come nell’ultimo anno i più colpiti siano stati naturalmente quelli legati al turismo (commercio, alberghi e ristoranti). E così “gli stranieri impiegati nel settore “commercio e ristorazione” sono calati di ben il 15% (contro “solo” il 4,7% degli italiani)”. In tutti i settori, i lavoratori stranieri soffrono la crisi più degli italiani, con la sola eccezione dell’agricoltura: qui infatti sono aumentati, seppur di poco (+1,4%). “Viste queste dinamiche, il settore oggi con la maggiore incidenza straniera è proprio l’agricoltura (18,4%), seguita dall’edilizia (17,1%)”. E ancora: guardando alla tipologia di contratto, emerge come gli stranieri rappresentino oggi il 15,6% tra i dipendenti a tempo determinato, il 10,9% tra quelli a tempo indeterminato e il 5,6% tra gli autonomi. In tutte e tre le categorie, anche in tal caso, la crisi ha colpito più i migranti che gli italiani. Tra i dipendenti a tempo determinato, si è registrato un calo del 12,4% tra gli italiani e del 14,6% tra gli stranieri. Tra i dipendenti a tempo indeterminato, invece, gli italiani sono addirittura aumentati (dell’1,1%), mentre i migranti sono diminuiti (del 3,4%). Ancora più netta la differenza tra gli autonomi: 2,5% in meno per gli italiani, 9,2% per gli stranieri. Insomma, concludono i ricercatori, “la crisi Covid ha colpito tutti duramente, ma ha penalizzato di più i lavoratori precari, e dunque gli stranieri, o meglio le lavoratrici straniere”. Manconi: “Troppi silenzi su donne e Islam. Ma dietro non c’è un calcolo politico” di Andrea Bonzi Il Giorno, 7 giugno 2021 Luigi Manconi, sociologo, ex senatore: “Ricolfi sbaglia, la sinistra non cerca voti. La battaglia del QN è giusta”. “Il relativismo culturale è un gravissimo errore e una catastrofe ideologica. Che, però, non appartiene solo alla sinistra: dare una lettura politicistica allo scarso clamore sollevato dal caso di Saman Abbas è una soluzione di comodo”. Luigi Manconi, già docente di sociologia dei fenomeni politici e già presidente della Commissione per la Tutela dei diritti umani del Senato, risponde così a quanti hanno sottolineato il silenzio imbarazzato della politica sul caso della ragazza pachistana di Novellara, rapita e probabilmente uccisa dalla famiglia per essersi sottratta a un matrimonio forzato. Ma prima premette: “L’attenzione che Quotidiano Nazionale riserva e ha riservato a questo gravissimo episodio è giustissima e meritoria”. Manconi, è d’accordo con chi - è la tesi, ad esempio del sociologo Luca Ricolfi - sostiene che la sinistra taccia sul caso Saman poiché punta ai voti dei cittadini di fede islamica? “Mi sembra una lettura poco meditata e che, addirittura, può risultare troppo comoda. Ricordo che in Italia, su quasi 6 milioni di stranieri regolari, solo una parte ha la cittadinanza italiana e il diritto di voto. Poi, gli orientamenti politici dei musulmani, per come sono stati rilevati finora, sono sostanzialmente sovrapponibili a quelli dei cittadini italiani. E ricerche condotte in altri Paesi europei segnalano un orientamento di voto dell’elettorato di fede islamica di tipo conservatore. Al di là di questo, attribuire la responsabilità solo alla sinistra sminuisce l’enormità del fatto e rischia di essere assolutorio”. Anche lei, però, ammette che una sottovalutazione della scomparsa di Saman c’è stata... “Certamente sì, ma non è che da parte della destra ci sia stata un’attenzione maggiore, la distrazione è generalizzata” Houellebecq nel libro fantapolitico “Sottomissione” ipotizzava una società francese prona all’Islam, non c’è il rischio che il relativismo culturale degeneri e ci chiuda gli occhi di fronte a drammi come quello di Saman? “Guardi che il relativismo culturale non è un atteggiamento di rispetto, una mascalzonata sottilmente razzista perché parte dal presupposto che determinati individui, gruppi o etnie non siano meritevoli della tutela dei diritti umani fondamentali. Non possiamo tollerare, in nome di un sistema di valori diverso e di diverse tradizioni culturali, che le adolescenti musulmane siano sottratte al percorso di formazione scolastica in Italia, né che settori di alcune comunità siano indulgenti verso le mutilazioni genitali”. Insomma, diventa un modo per minimizzare... “È un tema che riguarda la società intera: italiani e stranieri sono ancora molto separati, l’orientamento prevalente è tenere le distanze. Noi italiani ci accontentiamo che gli immigrati non costituiscano una minaccia per la nostra sicurezza: su tutto il resto tendiamo a non interferire. È un gravissimo danno che viene fatto proprio alle componenti più giovani e più libere degli stranieri. C’è una vera e propria lotta di classe in corso”. In che senso? “In Italia ci sono un milione di giovani di seconda generazione. Di questi, 800mila frequentano il nostro sistema scolastico e sviluppano un percorso di integrazione nella consapevolezza della parità tra i sessi e dei diritti universali della persona. Lottano per questo anche all’interno delle proprie famiglie e si emancipano da tradizioni arcaiche e rivendicano pari opportunità. In passato, anche se si tratta di fatti di eccezionale gravità, non generalizzabili, altre ragazze musulmane sono state vittime dei parenti per essersi ribellate”. Se c’è una cosa che colpisce nel caso di Saman, è che, da ciò che sta emergendo, tutta la famiglia sembra coinvolta... “Tutta la famiglia, ma non il fratello più piccolo di 16 anni, che pur essendo maschio sembra essersi sottratto a quei valori patriarcali e maschilisti. È esattamente quella la generazione a cui mi riferisco”. Migranti. Il folle sogno di un’Europa che respinge invece di accogliere di Giorgia Serughetti Il Domani, 7 giugno 2021 Il parlamento danese ha votato una norma per il trasferimento forzato dei richiedenti asilo in paesi terzi, decisione che l’Unhcr definisce “contraria alla lettera e allo spirito della Convenzione di Ginevra”. Il problema non sembra però poter essere circoscritto alla particolare durezza delle politiche migratorie di un paese di cinque milioni e mezzo di abitanti: l’Europa intera si sta rinserrando nella sua fortezza. Sembriamo aver dimenticato che chiedere asilo è riconosciuto come un diritto umano. O forse siamo semplicemente indifferenti all’essere umano in quanto tale, che non possa vantare diritti come cittadino. Rinserrata nella sua fortezza, preda del sogno folle di “zero migrazioni”: così appare l’Europa che si risolleva dalla pandemia. L’ultimo atto è andato in scena pochi giorni fa, quando il parlamento danese ha emendato la sua legge sugli stranieri, decretando il trasferimento forzato dei richiedenti asilo in paesi terzi (forse il Ruanda, la Tunisia o l’Etiopia) per l’esame delle domande di protezione, senza garanzia di ammissione nel paese neanche in caso di esito positivo della procedura. Ad aprile, Copenaghen aveva già creato sconcerto con l’annuncio del governo socialdemocratico di voler rimandare a casa i rifugiati siriani. La decisione di esternalizzare gli obblighi relativi all’asilo e alla protezione internazionale segnala un approccio che Filippo Grandi, Alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati, non esita a definire contrario “alla lettera e allo spirito della Convenzione sui rifugiati del 1951”, di cui la Danimarca fu prima firmataria nel 1952. Il problema non sembra però poter essere circoscritto alla particolare durezza delle politiche migratorie di un paese di cinque milioni e mezzo di abitanti. Sono di poche settimane fa le immagini dei respingimenti di massa di migranti e richiedenti asilo dall’enclave spagnola di Ceuta verso il Marocco, senza un’analisi caso per caso, senza accertamento della volontà di fare domanda d’asilo o di particolari vulnerabilità. Non solo, ma i summit europei hanno apertamente eluso il tema, sollevato dall’Italia, della ricollocazione dei nuovi arrivati, mentre l’Ue insiste nella politica di esternalizzazione delle frontiere stringendo accordi con paesi terzi che non garantiscono il rispetto dei diritti umani. Blocco navale - I governi di Francia e Germania sembrano temere più la vittoria elettorale dei “populisti” che la catastrofe umanitaria alle nostre porte. In Italia, esaurite le polemiche sulla gestione della pandemia, Giorgia Meloni torna a parlare di “blocco navale” contro i migranti. E l’opinione pubblica europea? Tiepida davanti al dramma delle morti alle frontiere, resta inerte anche di fronte alla criminalizzazione delle Ong che prestano soccorso. Sembriamo aver dimenticato che, fin dalla Dichiarazione Onu del 1948, quello di chiedere asilo è riconosciuto come un diritto umano. O forse siamo semplicemente indifferenti all’essere umano in quanto tale, che non possa vantare diritti d’appartenenza in quanto cittadino. Hannah Arendt parlò di “fine dei diritti umani” quando masse di persone, tra le due guerre mondiali, si trovarono espulse dai propri paesi, e scoprirono che la “nudità astratta dell’essere uomini e nient’altro che uomini” non valeva nulla senza un titolo di appartenenza a uno stato-nazione. Il diritto internazionale sull’asilo del Dopoguerra, a partire dalla Convenzione di Ginevra del 1951, è stato inteso a rimediare proprio a questo fallimento. Se oggi, però, gli stati tornano a sancire l’impossibilità di un diritto al primo ingresso per l’esame della domanda di protezione, possiamo davvero consegnare al passato l’amara diagnosi che Arendt fece allora? Afghanistan. Salviamo chi ci aiuta a Kabul di Paolo Mieli Corriere della Sera, 7 giugno 2021 Settantamila persone hanno chiesto il visto per gli Stati Uniti. Cinquanta interpreti che hanno lavorato per noi (e le loro famiglie) chiedono di essere accolti in Italia. Colpisce la scarsa attenzione con cui i media occidentali seguono l’evacuazione militare dell’Afghanistan che dovrebbe essere portata a conclusione entro il prossimo 11 settembre. I soldati che adesso lasciano Kabul fanno parte di quel contingente che fu mandato lì vent’anni fa, a ridosso dell’attentato alle Torri Gemelle. Godevano dell’approvazione delle Nazioni Unite; la loro missione era quella di debellare Al Qaeda, sconfiggere i talebani e assicurare al Paese la libertà politica assieme alle facoltà d’esercizio dei diritti fondamentali. Le cose purtroppo non sono andate come era negli auspici dell’Onu: nessuno di quegli obiettivi è stato raggiunto, la guerra l’abbiamo perduta e adesso dobbiamo prepararci ad assistere a scene consuete in questo genere di frangenti. Tutti coloro che in qualsiasi modo hanno aiutato il regime dei “liberatori” avranno paura di subire ritorsioni e si accalcheranno ai cancelli delle nostre ambasciate per implorarci di non essere abbandonati nelle grinfie dei vincitori. Come accadde nel 1783 nelle colonie americane (quella volta furono l’amministrazione e i soldati britannici a doversene andare), nel 1962 allorché i francesi dovettero lasciare l’Algeria, nel 1975 quando gli Stati Uniti furono costretti ad abbandonare il Vietnam, lugubre sarà l’umore di quelli che abbandoneranno il campo. Ma ancor più cupo sarà il destino di quelli che avevano sperato nei “liberatori”, uscirono allo scoperto per dar loro una mano e adesso dovranno subire il trattamento che in casi del genere viene riservato ai “collaborazionisti”. Fiorirà - come accadde a Saigon nella seconda metà degli anni Settanta - una letteratura sugli illeciti amministrativi compiuti negli ultimi due decenni da alcuni cittadini afghani in combutta con gli occupanti. Corruzione - peraltro già denunciata e documentata dai media occidentali - che però adesso fungerà da pretesto per punire chiunque non vorrà sottomettersi al regime dei nuovi talebani. A cominciare dalle donne. Già si legge di alcune di loro che sono state percosse a Herat sulla pubblica piazza. Di altre lapidate. Dell’auto di una dottoressa saltata in aria a Jalalabad. Di due ragazze che lavoravano per una tv locale assassinate a colpi di pistola. E di un’infinità di altri casi del genere. Le donne sono e ancor più saranno le prime a dover pagare un prezzo altissimo per aver scelto non già di togliersi il velo - in molte lo hanno tenuto - ma per la colpa di aver vissuto come persone libere. E di aver cresciuto una generazione abituata a vivere con le libertà che si addicono ai Paesi non dispotici. In un’intervista, su queste pagine, ad Andrea Nicastro, Mohammed Naim - portavoce dei talebani al tavolo dei negoziati di Doha - ha assicurato che non ci saranno problemi del genere dal momento che “l’Islam garantisce alle donne il diritto di studio e lavoro”. Ma poi ha aggiunto che “naturalmente” questi diritti dovranno essere esercitati “alla luce delle tradizioni afghane”. Speriamo di sbagliare, ma a noi sembra che questa coda contenga una minaccia. Pochi, abbiamo detto, sono coloro che prestano attenzione a come si sta concludendo la missione “Resolute Support” in Afghanistan. Tra questi Bernard-Henri Lévy che ha parlato di una “partenza priva di gloria”, ha definito “inaudito” il modo con cui gli afghani vengono abbandonati al loro destino a conclusione per di più di quella che a lui appare come una “disfatta autoinflitta”. Più o meno quel che - con eguale noncuranza - gli Stati Uniti hanno fatto pochissimo tempo fa con i curdi in Siria e in Iraq. Il filosofo Michael Walzer ha proposto che gli Stati Uniti portino con sé tutti “gli uomini, le donne che, con le loro famiglie, sono a rischio di persecuzione, prigionia o morte”. Soprattutto perché a causa di quella che ha definito “la nostra invasione”. Persone che corrono dei pericoli “direttamente” perché “hanno collaborato con noi”, oppure “indirettamente” perché “hanno manifestato per la democrazia, organizzato sindacati o aperto scuole per ragazzi”. Una collaborazione che è avvenuta alla luce del sole proprio perché “sotto la nostra copertura”. In tutto si tratta di settantamila persone che hanno già chiesto il visto per gli Stati Uniti. Quello di portarli via con noi, ha detto Walzer, è “un obbligo morale assoluto”. Sulla scia delle parole di Walzer, aggiungiamo che ci sono una cinquantina di interpreti che hanno prestato servizio per il contingente italiano e che ora - assieme ai loro familiari (in tutto circa quattrocento persone) - ci chiedono di essere accolti in Italia per non aver a subire conseguenze per l’aiuto che ci hanno dato. Sarebbe un bene che il ministro della Difesa Lorenzo Guerini - il quale ha mostrato di essere a conoscenza di questo specifico problema - prendesse pubblicamente l’impegno a non abbandonare quelle persone a una sorte già segnata. Non vorremmo dover contare, in aggiunta agli oltre cinquanta caduti che lasciamo in quella terra, anche dei morti tra coloro che hanno lavorato per noi. Una guerra che non si dà carico di un problema del genere è destinata a essere ricordata come un’esperienza poco onorevole. Averla persa sarà poca cosa in confronto all’onta di aver lasciato a pagare l’intero prezzo della sconfitta coloro che sono stati per due decenni al nostro fianco. Burkina Faso, 160 uccisi dai jihadisti. Così cresce la minaccia nel Sahel di Guido Olimpio Corriere della Sera, 7 giugno 2021 Senza l’ombrello aereo della Francia e l’appoggio delle unità scelte occidentali (Italia inclusa) all’esercito del Mali aumenta l’instabilità nella regione. La fascia geografica che dalla Nigeria si spinge verso Est, fino dall’altra parte del continente è come una lunga trincea. Qui combattono, muoiono soldati e molti civili, in migliaia sono costretti a lasciare tutto incalzati da estremisti islamici, tensioni etniche, banditismo su larga scala. L’ultimo massacro in Burkina Faso: oltre 160 persone trucidate, un bilancio provvisorio. I sospetti ricadono sulle formazioni jihadiste. L’assalto è avvenuto nella notte tra venerdì e sabato quando un gruppo armato ha fatto irruzione nel villaggio di Solhan. I guerriglieri hanno preso di mira in particolare i membri di una milizia, i Volontari per la difesa e la patria, creata per proteggere la popolazione ed aiutare i soldati. Ma nell’attacco - come spesso accade - è stata coinvolta la popolazione, con abitazioni date alle fiamme ed esecuzioni sommarie. Gran parte delle vittime sono state sepolte in fosse comuni, non c’è stato tempo di fare meglio. Del resto l’incursione è parte di un trend, con numerose località devastate dai raid degli insorti. Siamo nella zona delle tre frontiere, vicino a Mali e Niger, area dove agiscono il cartello qaedista JNIM e gli affiliati allo Stato islamico. Uno dei quadranti più a rischio nel Sahel, anche se non l’unico. Il Burkina ha quasi un milione di sfollati interni e, secondo studi internazionali, la sua crisi è una delle più neglette. Come in altre parti della regione la marcia della Jihad si intreccia con spinte più locali. Alcuni esperti sottolineano come i Volontari provengano in prevalenza dall’etnia Mossi mentre i loro avversari appartengono a comunità rivali. È tuttavia chiaro che i guerriglieri vogliono colpire questa forza per seminare terrore e dimostrare l’inutilità del programma di sicurezza varato dal governo. C’è poi una dimensione internazionale. Pochi giorni fa Parigi ha annunciato la sospensione della cooperazione con l’esercito del Mali, una risposta al golpe attuato dai militari. L’alt può avere ripercussioni profonde. Senza l’ombrello aereo della Francia e l’appoggio delle unità scelte occidentali (sono presenti piccoli contingenti di numerosi stati UE, Italia inclusa) è estremamente complesso per le truppe maliane tenere testa ad avversari mobili, resi ancora più temerari da numerosi successi. La sintesi è tragica: c’è un’impasse politica generale e l’opzione bellica - con reparti estremamente ridotti nei numeri - non porta da nessuna parte. L’arco di crisi è ampio. Numerosi villaggi nigeriani, nella parte nord occidentale di Kebbi, hanno subito le scorrerie di nuclei di predoni: 66 i morti. Le autorità ritengono che gli assassini, arrivati a bordo di moto, mezzo ormai molto comune in questo tipo di operazioni, siano dei “ladri di bestiame”. Definizione che fotografa una parte della minaccia. Il banditismo è cronico, sanguinario, esteso, ma esiste sempre il timore di infiltrazioni jihadiste. E comunque l’etichetta è relativa, ciò che pesa sono le conseguenze per chi subisce.