Non si può parlare di giustizia e carceri senza parlare di droghe di Riccardo Magi Il Riformista, 6 giugno 2021 Non sono scandalizzato per la conversione garantista di Salvini, la convenienza e l’opportunismo sono elementi ricorrenti in politica con il loro portato di strumentalità e incoerenze, cambi di rotta e di opinioni. Il fatto politico è l’iniziativa referendaria e quella va valutata. Sorvoliamo sulla definizione del referendum come “stimolo” al Parlamento e sulle analisi dei posizionamenti interni ai partiti e alle coalizioni. Salvini così vuole mangiarsi FI e mantenere nel centrodestra la propria egemonia insediata dalla Meloni? Bettini vuole mettere uno o due dita negli occhi a Letta? In altra sede potremmo divertirci a commentare la spregiudicatezza smemorata e incongruente di Salvini e quella tattico-pedagogica di Bettini. Benissimo se Salvini ha deciso di raccogliere le firme per modificare la legge Severino dopo aver approvato insieme al M5S la “spazza-corrotti” che equipara ai mafiosi i condannati per reati contro la pubblica amministrazione, benissimo se ha cambiato idea sulla riforma della prescrizione di Bonafede. Il punto davvero non è questo. Il gioco lo conosciamo e ognuno può farsi la sua idea e il suo giudizio in base al quale decidere se firmare ai banchetti o se addirittura unirsi alla schiera dei vecchi e nuovi referendari. Personalmente firmerò e se utile aiuterò anche ad autenticare le firme per quanto credo che a questo giro, con le migliaia di amministratori locali della Lega, non sia un aiuto così prezioso come in altre iniziative referendarie silenziate e affossate proprio dagli ostacoli procedurali e burocratici alla raccolta delle sottoscrizioni. Ricordo, per inciso, che a breve inizierà anche un’altra raccolta di firme promossa dall’Associazione Coscioni e da Radicali Italiani su un referendum volto ad abrogare la norma che impedisce l’eutanasia legale in Italia, su cui gli italiani hanno lo stesso diritto di essere informati e di esprimersi. Il punto dicevo, non è questo. Il punto è nella domanda: siamo certi che questi 6 referendum colgano nel segno? Una parte dei quesiti sono di carattere ordinamentale e procedurale. Fermi tutti! Non ne sto sminuendo il valore. Le procedure sono anche la sostanza degli equilibri tra i poteri e le distorsioni del nostro sistema giudiziario e la sua crisi di credibilità e di efficienza nascono anche dalle procedure. Personalmente ho sottoscritto emendamenti e proposte con interventi analoghi a quelli individuati dai promotori dei referendum. Il quesito sulla legge Severino poi tocca, seppure in modo molto tranchant, un altro nodo che ha catalizzato e amplificato il giustizialismo negli ultimi venti anni contribuendo a inquinare la vita democratica. Ma si può aprire un ampio dibattito sulla riforma della Giustizia come sta avvenendo in queste settimane - sulla scorta delle ipotesi formulate dal Governo o sulla scorta delle proposte referendarie - rimuovendo completamente dalla discussione il principale motivo per cui in Italia si finisce in carcere, cioè la violazione della legge sulle droghe? Nel nostro Paese più di un terzo dei detenuti sono in prigione per violazione del testo unico sugli stupefacenti, in altre parole senza la loro presenza e senza il 30% circa di nuovi ingressi in carcere ogni anno per lo stesso motivo non vi sarebbe sovraffollamento carcerario. Si può parlare di riforma della giustizia senza interrogarsi sulle scelte di politica criminale che determinano la parte più consistente del lavoro dei tribunali e delle forze di polizia? Lavoro in buona parte inutile se da trent’anni, pur avendo una delle normative più repressive in materia di stupefacenti, non si è ottenuta una diminuzione della circolazione delle sostanze, anzi. La ministra Cartabia, fin dalla presentazione delle sue linee programmatiche, ha espresso la necessità che i fatti di lieve entità non abbiano come esito il carcere, ma va specificato che ciò deve valere anche per le violazioni di lieve entità della legge sugli stupefacenti che oggi comportano in 7 casi su 10 l’ingresso in carcere. Su questo punto specifico una mia proposta di legge, che garantirebbe un intervento minimo ma necessario e urgente di depenalizzazione, è all’esame in commissione Giustizia alla Camera, esame bloccato dal relatore leghista neogarantista che, anziché fare il relatore, rallenta i lavori e dietro la sua inerzia si nascondono tutte le altre forze politiche di questa infinita maggioranza. Un dibattito sulla Giustizia che non affronti questi nodi è un dibattito monco e accettarlo significa operare una pericolosa rimozione della realtà, questa sì strumentale e non degna di una classe dirigente che, come sentiamo ripetere ogni giorno, ha la pretesa di confrontarsi con l’esigenza di riforme strutturali. Lo stesso si può dire delle vigenti norme sull’immigrazione che, caratterizzate da un intento repressivo, hanno impedito negli ultimi anni la possibilità permanente di regolarizzare cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale anche in presenza di un datore di lavoro pronto ad assumerli. Questa, la Bossi-Fini, è l’altra norma criminogena che è urgente abrogare e superare, perché ha creato centinaia di migliaia di irregolari senza possibilità di inclusione spingendoli verso la marginalità e la criminalità (anche qui, circa il 30% dei detenuti) anche quando interi settori produttivi chiedevano di poter assumere lavoratori stranieri ma le norme lo impedivano. E le difficoltà nella finalizzazione della regolarizzazione straordinaria disposta l’estate scorsa dimostrano esattamente che servirebbe un meccanismo permanente di regolarizzazione su base individuale. Anche su questo in Parlamento è ferma in commissione la proposta di legge Ero straniero. Dunque la domanda, cari democratici e liberali, garantisti e riformisti, progressisti e popolari, Pd, Italia Viva, Forza Italia, Movimento 5 Stelle, Leu e non è - e non può essere - perché non sposare i referendum di Salvini e del Partito Radicale. La domanda è: perché non promuovere subito dei referendum che intervengano sulla legge sugli stupefacenti e sulla Bossi-Fini. Può “una sinistra innovativa democratica e libertaria” per usare le parole di Bettini, riprese ieri dal direttore Sansonetti, e possono le forze liberal democratiche autenticamente garantiste e riformatrici continuare a non affrontare con l’analisi e l’azione politica questi enormi temi sociali rimossi, che sono l’oggetto principale dell’azione penale e giudiziaria? Malati psichiatrici in carcere, così si può uscire dal tunnel di Daniele Priori Il Riformista, 6 giugno 2021 Il Partito Radicale lancia un appello. La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, risalente a ormai sei anni fa, è stato il primo passo. Le risposte alternative che lo Stato, attraverso il Sistema Sanitario Nazionale, oggi offre - le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) - restano però gravemente deficitarie e insufficienti tanto, a giudizio di alcuni esperti del settore, da poter diventare esse stesse in prospettiva un grave problema. Per questo serve una terza via. La politica, sostenuta da chi vive ogni giorno la dimensione della malattia mentale ha in tal senso cominciato a individuare i complessi ma possibili e necessari tentativi di cura e integrazione sociale dei malati - anche se detenuti - con una proposta di legge in discussione alla Camera, incentrata sulla introduzione sperimentale del cosiddetto budget di salute per la realizzazione di progetti terapeutici riabilitativi individualizzati, prima firmataria l’onorevole Celeste D’Arrando. A risvegliare un dibattito tanto sotterraneo quanto mai sopito è stato nelle ultime settimane il Partito Radicale riaccendendo i riflettori su una piaga in realtà atavica: la detenzione in carcere di persone affette da patologie psichiatriche. “Il problema della salute mentale in carcere coinvolge migliaia di cittadini e esige una vostra urgente e concreta risposta”, si legge nell’appello radicale ai ministri Cartabia e Speranza. Nei 109 istituti di pena italiani il 78% dei ristretti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui per il 41% da una patologia psichiatrica e oltre il 50% dei detenuti assumono psicofarmaci. I dati ci dicono che i detenuti con dipendenze da sostanze psicoattive rappresentano il 23,6%, con disturbi nevrotici il 18%, il 6% con disturbi legati all’abuso di alcol e il 2,7% con disturbi affettivi. Nell’appello del Partito Radicale viene citata, tra l’altro, una dichiarazione significativa del dottor Francesco Ceraudo, per 25 anni Presidente dell’Associazione nazionale dei medici dell’amministrazione penitenziaria: “Nelle carceri italiane - ebbe a dire il medico - si entra puliti e si esce dipendenti. La dipendenza da psicofarmaci fa comodo a tutti. Per il direttore del carcere e la polizia penitenziaria è utile che il detenuto se ne stia tutto il giorno accucciato sul materasso, non si metta a urlare, sia passivo, senza vitalità”. Ed è esattamente questa la strada che conduce nell’attuale buco nero dal quale a giudizio di numerosi esperti si deve in ogni modo provare ad uscire. L’inclusione sociale pare sia al tempo stesso l’obiettivo e la via d’uscita da percorrere. Ce lo spiega lo psicoterapeuta Bruno Pinkus, fondatore assieme alla collega Angela D’Agostino, trentuno anni fa, della Gnosis, cooperativa sociale che, in una splendida tenuta affacciata su Roma, quotidianamente anima due comunità terapeutiche. Al loro interno anche casi di persone, per lo più giovani, riuscite a convertire la propria condanna in una pena alternativa: “Il peggio che può capitare a una persona affetta da queste patologie - ci spiega Pinkus - è l’essere identificati come furfanti. Così si va solo ad amplificare il divario sociale che già li riguarda perché di fatto si mischia la loro condizione con quella di persone e situazioni che ne peggiorano ulteriormente la qualità della vita”. “Eppure ad avere accesso alle comunità terapeutiche non è più del 5% della popolazione carceraria affetta da patologie mentali”, ci spiega il professor Angelo Righetti, psichiatra, consulente dell’Oms per le disabilità mentali e, tra l’altro, amico d’infanzia e concittadino del rocker Vasco Rossi, a sua volta sostenitore delle idee dello psichiatra. Il nodo centrale di questa vicenda, denuncia Righetti, è che “il Sistema Sanitario Nazionale non ha preso mai troppo sul serio la cura delle malattie mentali nelle carceri. I Dsm (Dipartimenti di salute mentale) sono al di fuori dei penitenziari e tendono a non entrare in contatto con le carceri che pure sono istituzioni del territorio. C’è un problema di leggi e indirizzi esistenti che vengono disattesi” spiega ancora Righetti. “Si dovrebbero cambiare la gran parte dei comportamenti detentivi del carcere e in ogni caso si dovrebbe prevedere la possibilità che le cure vengano gestite in ambiti psico-educazionali (come le comunità appunto ndr)”. “È davvero complicato - aggiunge il professore di Zocca - perché i servizi in carcere non sono particolarmente presenti e questo impartisce un danno suppletivo alle persone con disabilità mentale: una sorta di doppia pena che si avvicina alla tortura”. È esattamente per uscire da questo cul de sac che ha senso, secondo Righetti, puntare sui cosiddetti budget di salute: “Con la possibilità per i detenuti di accedere a percorsi personalizzati, fino ad arrivare a una reale permeabilità tra carcere e comunità civile. Una contaminazione positiva che potrebbe rappresentare l’onda lunga della grande utopia trasformata in realtà che fu rappresentata dalla legge Basaglia con la quale nel 1978 furono chiusi i manicomi”. Il cane non è solo amico dell’uomo ma può riabilitarlo di Roberto Pellegrino Il Giornale, 6 giugno 2021 Nei penitenziari americani entrano gli animali abbandonati, che permettono ai detenuti di diventare addestratori. Una via per il riscatto. Quanto vera è la frase che ricorda a noi umani, capaci di compiere cose disumane, che a un cane non importa nulla il carattere, l’onestà o il conto in banca del suo padrone, perché a lui darà sempre un amore incondizionato, anche se ne riceverà indietro la metà. “Non basta avere un quattrozampe per capire quanto sia un essere senziente, capace di provare le tue stesse emozioni”, spiega al Giornale da Los Angeles Zach Skow, 45 anni, istruttore e volontario nei canili della contea californiana di Kern. Anni fa fu salvato dall’alcolismo proprio dal suo cane. Comprese quanto fosse potente il valore terapeutico esercitato su mente e corpo da questi pelosi scodinzolanti. Iniziò, così, a raccoglierli dalla strada e divenne istruttore cinofilo. Nel 2016 ha ideato “Pawsitive Change”, un programma che porta i cani nelle prigioni americane e permette ai detenuti di diventarne addestratori per riscattarsi e intraprendere il cammino della riabilitazione. Attualmente Zach lavora alla North Kern State Prison (200 chilometri a Nord di Los Angeles), un popoloso penitenziario che ospita cinquemila detenuti. Chi accetta il programma, frequenta lezioni per addestrare cani a salvare vite umane, durante terremoti o altri fenomeni catastrofici naturali. Sono tutti quattrozampe abbandonati, vittime di violenza e salvati dai canili che, come i loro padroni galeotti, hanno diritto a una seconda possibilità per lasciarsi alle spalle la gabbia. “Sono due solitudini che s’incontrano e si uniscono, molto spesso, per la vita”, racconta Zach. “Sono due esseri che hanno bisogno di una seconda opportunità, dopo un percorso assieme che darà loro una nuova vita”. Partendo dal concetto che il carcere debba riabilitare un uomo che ha sbagliato e prepararlo a rientrare nella società, Zach ha pensato che l’educazione di un cane abbandonato sia il miglior metodo. “Non credo esista differenza tra ciò che prova un uomo o un cane dietro le sbarre. Sono stati entrambi privati della libertà, condannati a una pena, anche se per il cane è ingiusta. Entrambi possono rinascere e tornare a vivere. Se osservi la paura che prova un detenuto a uscire dalla sua cella, ti accorgi che è la medesima di un cane che abbandona la sua gabbia”. E, se per i quattrozampe, il canile è una pena ingiusta, perché non colpevoli della loro sorte, il programma di Zach trasforma i randagi in animali utili alla società. Dal 2016 ha già formato centinaia di addestratori, tutti ex detenuti, e altrettanti cani, salvati dall’eutanasia e che ora aiutano non vedenti, malati, bambini e anziani. Soltanto in California sono sette gli istituti penali più un centro di correzione giovanile femminile dove funziona il metodo “Pawsitive Change”: il nome gioca sulla sonorità simile in inglese di “paw”, pegno, e “sitive”, che suona “positive”, positivo. “I numeri sono promettenti”, spiega Zach, “la presenza dei cani nelle carceri ha ridotto drasticamente liti e aggressioni tra detenuti”. Il programma, inoltre, vale come sconto di pena e, molti ex rapinatori e spacciatori hanno visto aprirsi con largo anticipo le porte del penitenziario. “Alla Los Angeles City Prison Facility, quarantadue detenuti sono stati rilasciati sulla parola, nessuno di loro è ritornato dietro le sbarre. Sono uomini liberi e istruttori felici che lavorano con i medici della pet-therapy, con i soccorritori e anche per la polizia”. E, se si considera che il tasso di recidiva negli Stati Uniti è del 43%, “Pawsitive Change” è un miracolo. Il programma rilascia, dopo quattordici settimane di lezioni, un diploma di addestratore. Anche i cani, terminato l’addestramento, hanno il loro “Canine Good Citizen”, che riconosce il loro buon comportamento e l’obbedienza. “Alcuni nostri ex studenti si sono poi laureati alla facoltà di veterinaria, grazie a borse di studio e aiuti statali. Ora lavorano per le cliniche private e gli ospedali dell’esercito. Non è semplice non avere pregiudizi verso i detenuti, sono pur sempre stati criminali. Posso, però, garantire quanto sia grande il loro coinvolgimento durante le lezioni così come il loro rispetto per insegnati-istruttori e cani. Nessuno si distrae o scimmiotta il compagno di classe. Non ci sono risse, tutti prendono appunti, fanno domande e condividono le conoscenze”. Per essere ammessi al corso, i detenuti devono scrivere una lettera di motivazione. È escluso soltanto chi ha una condanna per stupro o violenze sugli animali. “Il rapporto tra il nuovo padrone e istruttore con il suo cane diventa simbiotico in pochissimo tempo. Li trattano come fossero i loro figli: si preoccupano se non mangiano o che cosa mangiano, esaminano le loro feci, chiedono e cercano informazioni sulle loro razze, sulle malattie canine”, spiega Zach. Una parte fondamentale del programma è che gli studenti non siano mai appellati “detenuti” durante le lezioni, ma soltanto “addestratori” o “soccorritori”. “Questo perché lo studente deve essere scollegato dalla galera. Deve sentirsi uno studente all’inizio di un nuovo progetto di vita. Non deve essere turbato dai ricordi sollecitati da forze negative, come il sentirsi chiamato con una serie di numeri. Gli animali non riescono ad apprendere da chi si mostra emotivamente sbilanciato, soprattutto un cane maltrattato tende a non fidarsi di chi mostra sentimenti contraddittori. Il nostro allievo deve liberare la mente dai suoi errori passati, e iniziare un nuovo capitolo. Soltanto così può dedicarsi al rapporto d’amicizia e di addestratore del cane con cui trascorrerà molto tempo assieme, imparando a prendersi cura di lui. Noi chiediamo questo sforzo a chi entra nel programma, anche se ci troviamo dentro il penitenziario: non bisogna avere ostacoli mentali. Molti allievi ripetono il corso fino a diventare uomini liberi”. Insomma, i detenuti sono restituiti alla vita dall’amore per un cane che, come loro, ha conosciuto il dolore di vivere in una gabbia. Giustizia, stretta sulle toghe in politica. Cartabia e il freno alle porte girevoli di Conchita Sannino La Repubblica, 6 giugno 2021 Le proposte della commissione Luciani. La ministra: “Qualcosa si è guastato nel rapporto tra magistratura e popolo”. La stretta si intravede. Stop alle candidature di magistrati nello stesso territorio in cui è stata esercitata la funzione, divieto di tornare in quella circoscrizione per cinque anni, se eletti; o per tre, se la corsa non è andata bene. Basta, insomma, all’incondizionato e reversibile “transito” tra magistratura e politica cui le toghe, finora, non avevano saputo porre argine. È la linea della fermezza, non distante dal rigore del ddl Bonafede, che trapela ieri dal lavoro che la commissione Luciani, voluta dalla ministra Marta Cartabia, ha esposto ai capigruppo di maggioranza. Riforma del Csm, entrano nel vivo i lavori in commissione Giustizia alla Camera, è “interlocutorio” ma denso il confronto aperto ieri pomeriggio dalla ministra. Che dà appuntamento ai parlamentari tra due settimane: il tempo di studiare le oltre 100 pagine tra relazione e proposte del gruppo di studio presieduto dal costituzionalista Massimo Luciani. Sarà poi Cartabia a fare sintesi e a proporre i suoi emendamenti. Ma si parte dall’eloquente premessa della ministra. “Qualcosa si è guastato nel rapporto tra magistratura e popolo, nel cui nome la magistratura esercita e svolge la sua funzione - sottolinea la ministra - Occorre urgentemente ricostruirlo”. Vari i nodi che si affrontano, nel disegno di riassetto a Palazzo dei Marescialli: dai dubbi sul “rinnovo modulare” cioè le elezioni parziali per un ricambio mid-term (che esigerebbe una modifica costituzionale), al numero dei componenti che si allarga (e passa a 30: 20 togati più 10 laici); dal sistema del “voto singolo trasferibile” alle modifiche dei requisiti per il conferimento di “funzioni direttive e semidirettive”. Un quadro d’insieme che registra subito la disponibilità di M5S, Pd e Iv, e il freddo attendismo di Lega e Fi. Ma tra le proposte spiccano quei paletti alle aspirazioni politiche dei giudici, coltivate negli anni con sempre maggiore disinvoltura. Eccoli. Divieto per i magistrati di “candidarsi nella circoscrizione del territorio” dove si sono svolte le funzioni “negli ultimi 2 anni”. Candidatura possibile “solo dopo un’aspettativa di almeno 4 mesi”. Per inciso: norme, che se fossero state attive, ieri avrebbero impedito l’ascesa dell’attuale governatore Michele Emiliano (Pd) e oggi arresterebbero di colpo la campagna elettorale in corso di Catello Maresca, candidato sindaco a Napoli (col centrodestra) e fino a poche ore fa sostituto pg in città. Criteri stringenti si prospettano soprattutto per il post-voto: i magistrati eletti, al rientro, tornerebbero al lavoro “per 5 anni in una regione diversa e non limitrofa” a quella della sede di provenienza; e sempre per un lustro potrebbero “svolgere solo funzioni collegiali”, senza assumere incarichi direttivi o semidirettivi. Quanto ai magistrati candidati ma non eletti, invece, “per 3 anni” dovrebbero rinunciare a lavorare nel distretto e nella circoscrizione in cui esercitavano al momento del debutto in politica; e per lo stesso periodo non eserciterebbero funzioni né di pm, né di gip, né di gup. Tema assai delicato, sottolineano Cartabia e Luciani, con gli altri professori della commissione, Francesca Biondi e Renato Balduzzi. Ma un altro passo avanti c’è, la ministra non elude il tema delle attese: “Il dibattito pubblico e accademico da tempo è maturo. E certo i fatti che hanno riguardato la magistratura nei mesi più recenti, hanno reso improcrastinabili e più urgenti gli interventi”. Luciani rivendica la determinazione a cambiare rotta: “Non si è indebolito il ddl Bonafede, ma abbiamo impostato una disciplina molto più rigorosa per l’accesso alla politica. Per chi ha ricoperto incarichi elettivi, il rientro può avvenire con limitazioni estremamente ferme. Solo incarichi collegiali”. Doveroso però, aggiunge, “è riconoscere la possibilità di un ritorno in magistratura, per rispetto della Costituzione”. Sarebbero comunque i primi lucchetti alle “porte girevoli”. Giustizia, scontro sul referendum. Letta: Salvini non vuole le riforme di Francesco Grignetti La Stampa, 6 giugno 2021 Il segretario Pd: “Un nuovo voto serve a non affrontare il tema”. I partiti di governo si spaccano. Se Matteo Salvini voleva attirare l’attenzione su di sé con i 6 referendum sulla giustizia, che sono laterali rispetto alle riforme del governo, beh, ci è riuscito eccome. L’ipotesi che si arrivi alla separazione delle carriere tra magistratura giudicante e inquirente è dietro l’angolo. E infatti la magistratura associata, contrarissima, è entrata in fibrillazione. Così come il M5 S. E buona parte del Pd, dove pure il dibattito si è aperto a seguito degli interventi a favore di Goffredo Bettini e dell’ex capogruppo al Senato, Andrea Marcucci. Di nuovo, ieri, è arrivato il niet di Enrico Letta: “Vedo - dice a Rainews24 - che Salvini ha un’altra agenda su questo punto. La mia impressione è che lo fa perché non vuole affrontare questo tema oggi. Non vuole fare la riforma con noi. Con il referendum butta la palla in calcio d’angolo”. La metafora calcistica attira le ironie di Maurizio Turco, segretario radicale: “Togliete il subbuteo dalle mani di Letta”. Ma Bettini stesso ha voluto precisare il suo pensiero, senza minimamente recedere, e anzi mollando una stoccata micidiale al segretario: “Comprendo - scrive in una lettera al quotidiano Domani - le opinioni diverse. Le rispetto. E vi rifletto. Ma, se l’identità non è una ricerca astratta e autoconsolatoria, deve essere una visione del mondo che attraversa la storia, i sentimenti, la cultura della Nazione. E che cos’è una visione del mondo, se non include i principi di massimo rispetto e di garanzia per tutti gli esseri umani?”. Di fatto, l’iniziativa referendaria di Lega e Radicali sta smuovendo le acque dentro tutti i partiti. I renziani di Italia Viva sono tentati di appoggiare la raccolta firme. Roberto Giachetti si è già espresso a favore. Anche Gennaro Migliore ha fatto capire di stare con loro, specie per la separazione delle carriere. “Se mi si chiede il mio orientamento personale, è questo”. Nel giro di una settimana o due, Italia Viva deciderà. Uguale travaglio si avverte in Forza Italia. “Figurarci se non appoggiamo quelle che sono le nostre idee da sempre”, dice un big del partito. Potrebbe esserci un problema politico: qualcuno storce il naso all’immagine di un partito che va a rimorchio di Salvini. Ma altri rovesciano il ragionamento. In vista di un coordinamento o federazione che sia, appoggiare i referendum sulla giustizia significa confluire nel momento migliore, con Salvini che mostra una propensione moderata e non estremista. Un’occasione unica per sottolineare che in fondo sono i principi liberali ed europeisti ad aver trionfato, non il contrario. Qualcuno si è già buttato. Storici esponenti radicali come Emma Bonino. Oppure, su un versante molto distante da lei, Giorgia Meloni. L’ex senatore Ciro Falanga, che ora parla a nome dell’Udc, e ha alle spalle un lungo girovagare tra Berlusconi, Fitto, Verdini, sostiene che i centristi non dovrebbero avere dubbi. Così come i socialisti di Stefano Caldoro e gli altri socialisti di Enzo Maraio. Dentro il governo s’interrogano: l’iniziativa di Salvini sarà di aiuto odi ostacolo alle riforme di Marta Cartabia? C’è chi pensa che il leghista forse volesse sabotare il percorso, ma otterrà l’effetto contrario: pur di togliergli argomenti, la maggioranza voterà a tempo di record una serie di riforme, grandi e piccole, per dimostrare che i suoi quesiti sono superati. Il grido di allarme di Bettini mentre Letta si trastulla con la bufala dell’impunitismo di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 6 giugno 2021 Un uomo della esperienza e della qualità politica di Goffredo Bettini non può certamente pensare che il suo invito al Partito Democratico di “non lasciare alla destra populista” l’iniziativa referendaria targata Matteo Salvini, possa seriamente ricevere ascolto. Quella iniziativa è stata concepita ab origine come un appalto blindato alla Lega di Salvini, unico partito - per come saldamente e tradizionalmente strutturato sul territorio - obiettivamente in grado di raccogliere ben più delle 500mila firme necessarie nel volgere di poche giornate di mobilitazione estiva. Dalla scelta dei quesiti, alla loro elaborazione tecnica, alla organizzazione della imminente campagna di raccolta delle firme, la natura esclusiva dell’accordo Partito Radicale-Lega è sotto gli occhi di tutti. Salvini ha pubblicamente promesso un milione di firme, come evidente prova di forza -anche ed anzi soprattutto a destra- del suo movimento politico. Dunque è semplicemente impensabile che il Partito Democratico prenda in considerazione l’idea di una qualsivoglia comprimarietà, comunque declinata, e Bettini lo sa benissimo. Tutto ciò, tuttavia, non toglie nulla alla importanza ed al coraggio di quelle parole; le quali giungono, non credo casualmente, dopo la desolante dichiarazione del segretario del PD Enrico Letta. Questi, non sapendo come orientare il proprio partito sulla strada dell’abbandono della stagione populista e giustizialista a guida grillina intrapreso dalla Ministra Cartabia, spara a casaccio la raccapricciante alternativa tra giustizialismo ed “impunitismo”. Immaginavamo ormai definitivamente tramontata e consegnata ad un già lontano passato questa vieta abitudine politicista di eludere le scelte mediante il ricorso ad espedienti retorici frustri e vuoti. Qui poi siamo largamente al di sotto del già mediocre standard, chessò, di un “né con lo Stato né con le BR”, che i miei coetanei ricorderanno. Lì almeno i due corni del dilemma erano ben chiari, mentre - spiace per l’on Letta - impunitismo non significa un bel nulla. Nelle intenzioni del leader del PD, l’impunitismo parrebbe essere una sorta - per restare nel mondo delle parafrasi- di malattia infantile, ma forse, meglio, paracula, del garantismo. L’invocare il garantismo per assicurarsi l’impunità. Ora, premesso che non si comprende a chi esattamente l’on. Letta stia facendo riferimento (individui, partiti politici, consorterie, Berlusconi?) converrete con me che qualunque idea, anche la più nobile, può essere invocata strumentalmente, per fini che non appartengono alla idea invocata. Posso fare campagne ambientaliste per fare denaro con le mie imprese di energia alternativa, ma cosa ha a che fare questo con l’ambientalismo? L’alternativa secca, pur necessariamente depurata da eccessi di semplificazione, è tra chi, in tema di giustizia penale, pone al centro delle priorità la libertà ed i diritti della persona, e chi invece la potestà punitiva dello Stato. O altrimenti, se non sono stato chiaro, tra chi concepisce il diritto penale come statuto del reo, e chi come armamentario punitivo dello Stato. Sono due mondi diversi ed opposti, che si riflettono a loro volta sulla idea del processo penale: luogo di esclusiva valutazione della responsabilità personale per i primi, luogo di soluzione o comunque regolazione dei conflitti sociali (terrorismo, mafia, corruzione) per gli altri. Goffredo Bettini, non a caso figlio di un avvocato penalista, come sempre orgogliosamente rivendica, sa bene che la gran parte dei suoi compagni di strada e di militanza politica sentono il proprio cuore battere sul terreno dei secondi. E mentre il suo segretario si trastulla con questa insensata bufala dell’ “impunitismo”, lancia il suo grido di allarme. Si respira - tra mille incertezze e contraddizioni, intendiamoci - un’aria nuova nel Paese, davvero vogliamo rimanere impelagati - dice in sostanza Bettini - nelle sabbie mobili della idiosincrasia verso il garantismo di matrice liberale, e di quel rapporto ancillare con la Magistratura italiana che rende quasi impronunciabile la parola “separazione delle carriere”, cioè il sistema ordinamentale della magistratura più diffuso nel mondo democratico occidentale? Possiamo essere così ottusamente testardi nella difesa di questo nostro tradizionale posizionamento, da lasciare la nobile bandiera del garantismo liberale a quel furbacchione di Matteo Salvini, che ha appena finito di citofonare in favore di telecamera a casa di presunti spacciatori nordafricani ed ora, con grande fiuto politico, mette senza riserve la faccia ed il simbolo della Lega al fianco della storia referendaria radicale? Tutti i garantisti e gli autentici liberali di questo Paese devono dare il benvenuto a chiunque imbracci la bandiera delle libertà e del Diritto, a cominciare da Matteo Salvini, e senza interrogarsi sulle ragioni di quell’approdo. Ma gli amici del Partito Democratico farebbero bene a riflettere sulla sortita di Goffredo Bettini, che si colloca ben al di là della contingenza referendaria. Non sarebbe una buona idea quella di fingere di non averlo compreso. Casellati: “Mettiamo fine alla barbarie giustizialista” di Errico Novi Il Dubbio, 6 giugno 2021 “Il tema della giustizia non può essere ridotto a una guerra tra opposte tifoserie”, sottolinea la presidente del Senato, e sulle riforme “esorta le forze politiche al “senso di responsabilità”. “Mi auguro che si apra una fase sulle riforme che metta fine alla barbarie”. È l’auspicio espresso dalla Presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, che in un’intervista a La Stampa, esorta le forze politiche al “senso di responsabilità”. “L’Italia oggi più che mai ha bisogno di riforme che possano ammodernare il Sistema Paese, renderlo competitivo e in grado di affrontare le sfide di una società e di un’economia globale sempre più evoluta. Nella pubblica amministrazione come nella giustizia, nel fisco come negli appalti pubblici le parole d’ordine devono essere: semplificare e sburocratizzare. Non raggiungere questo obiettivo significherebbe perdere il treno del recovery e buttare alle ortiche tutti i soldi dell’Unione Europea”, sottolinea Casellati. Sul tema della giustizia, “mi è piaciuto molto il coraggio del ministro degli Esteri Di Maio che ha definitivamente spostato l’unica linea possibile secondo la nostra Costituzione, che è quella del garantismo”, afferma la Presidente del Senato. “Da troppo tempo nel nostro Paese si assiste ad un vero e proprio cortocircuito mediatico-giudiziario. I processi prima che nei tribunali vengono celebrati sulle pagine dei giornali, in televisione, nelle piazze e ultimamente anche a colpi di post sui social. Il tema della giustizia non può essere ridotto a una guerra tra opposte “tifoserie”. Mi auguro che una volta per tutte possa aprirsi una fase di riforme che metta fine a questa barbarie”. “I giornalisti devono rendersi conto che la gogna mediatica ha da sempre prodotto odio e violenza. È successo anche a me con le minacce di morte dopo l’articolo di un importante quotidiano che rispetto per la sua storia, ma che in questo caso non ha letto bene norme e dati sui voli di Stato – spiega – Semplicemente perché io non ho violato nessuna legge. Quanto alle valutazioni di opportunità, non sono io a decidere della mia sicurezza personale e sanitaria, tant’è che, fino a quando mi è stato consentito prima del Covid, da marzo 2018 a maggio 2020, ho viaggiato, anche per le missioni istituzionali all’estero, in treno o in voli di linea. Tutto qua, con due precisazioni. È falso che abbia effettuato 124 voli di Stato in meno di un anno. E sono false le notizie sui costi, peraltro equivalenti a quelli per l’acquisto dei biglietti di treno ed aereo per me e per la mia scorta. È tutto documentato”. “Le vicende che da tempo interessano il Csm e più in generale la magistratura mi lasciano sgomenta”, evidenzia Casellati. “La mia esperienza al Csm è stata positiva, perché l’ho vissuta con una forte volontà di innovazione e di riforma. Tant’è che proprio al Csm, nel luglio 2016, in una seduta plenaria, ho proposto il sorteggio dei magistrati da candidare al Csm. Questa, a mio parere, è l’unica riforma compatibile con la Costituzione che può arginare la deriva correntizia”. Smettetela di usare l’antimafia per colpire le imprese del Sud di Amedeo Laboccetta Il Riformista, 6 giugno 2021 Nel Sud vi sono tantissimi imprenditori capaci, brillanti, coraggiosi, di caratura nazionale ed europea. Personalità che, nonostante le miopie e l’ostruzionismo di certa politica, riescono a offrire eccezionali opportunità lavorative a una galassia sterminata di persone. E questo avviene, nonostante le diseconomie esterne di cui parlava un prefetto di Napoli alcuni anni fa, che spesso aggrediscono imprenditori di successo per costringerli a mollare. Chi, invece, resiste ed è competitivo e decide di lavorare nel comparto pubblico, offrendo un servizio di alta qualità, si può trovare a vivere una situazione paradossale e a scontrarsi con un altro tipo di diseconomia: quella della politica politicante. E veniamo al caso. In Campania, dal 2013, un giovane imprenditore, che con l’intero suo gruppo dà lavoro a oltre mille famiglie, è entrato da tempo nel mirino di certa politica di provincia. Un mondo che ha messo in campo la tattica che definirei dello “stancheggio”, dello sfinimento. Messaggi, segnali inquietanti. Roba di basso profilo. Sto parlando di un grande imprenditore, Francesco Viale, e della sua Clp. Su questo imprenditore e su questa società si sono coalizzati mondi e forze per tentare di fargli alzare bandiera bianca. La Clp effettua il trasporto pubblico per la Regione Campania da oltre otto anni, a prezzi ultraconvenienti per l’utenza e con altissima professionalità. L’azienda è sana, efficiente e trasparente. Ma fa gola a molti, soprattutto a Salerno e dintorni. In tutti questi anni la Clp non ha mai avuto una contestazione. Gli oltre 400 dipendenti sono regolarmente inquadrati. L’azienda serve 130 Comuni e si muove con la massima puntualità. Tutto il contrario di ciò che avviene nella città di Napoli, dove i trasporti sono un vero disastro. Durante l’esperienza dura del Covid, quando le condizioni erano effettivamente drammatiche, la Clp, attraverso una decisione di Francesco Viale, si è resa protagonista di un concreto gesto di solidarietà: un servizio navetta da e verso luoghi di cura, del tutto gratuito, che ha riscosso successo e gratitudine notevoli tra gli operatori medici e non che hanno potuto facilmente raggiungere, anche in orari non proprio ordinari, il proprio posto di lavoro o rientrare a casa. Un modo esemplare per contribuire alla risoluzione di alcune difficoltà che altrimenti si sarebbero aggiunte a quelle già determinate dal Covid. Ma torniamo al disegno opaco che qualcuno ha pensato di attuare ai danni di Clp. Da otto anni su quest’ultima pende un’interdittiva antimafia senza ragione e senza senso, legata al coinvolgimento di un lontano parente dell’amministratore unico in un procedimento penale. Ecco la prima mina che qualcuno ha piazzato sul percorso di Clp. In effetti sono solo petardi che disturbano e fanno rumore, anche se possono impensierire soltanto quelli che hanno scheletri negli armadi. Non certo la Clp. Chi scrive ha avuto modo di leggere tutti gli atti, i documenti, anche certi messaggi e alcuni dossier anonimi che da qualche tempo circolano nel settore e che tendono a indebolire l’immagine della società. È un vecchio giochino, si tratta di operazioni di piccolo cabotaggio che non hanno certo intimidito un imprenditore che opera alla luce del sole. L’azienda ha puntualmente reagito a tanto squallore rivolgendosi ad horas a chi di competenza e a coloro che istituzionalmente devono intervenire. E la verità verrà fuori, è questione di tempo. Il galantomismo, alla distanza, vince sempre. Purtroppo, nel Sud in particolare, molti si sentono autorizzati a gettar fango, soprattutto nei confronti di chi ha successo nella vita, nell’impresa e in politica. Un’azienda al Sud che raggiunge straordinari risultati, che fa numeri importanti, fa gola a molti. L’azienda sta in una teca. I mediocri e i furbetti pensano di poterla sporcare, lanciando accuse false con argomentazioni pretestuose: un ridicolo tentativo di criminalizzazione e di demonizzazione. Ma se la teca, come in questo caso, non ha incrostazioni, alla distanza il fango scende e l’immagine, come è giusto che sia, resta pulita. Se ne facciano una ragione, anche quelli che da qualche palazzone hanno pensato di fare il colpaccio. Il giochino lo abbiamo individuato, anche i burattinai, e adesso la verità, tutta la verità, presto verrà a galla. La Giustizia assume per smaltire gli arretrati. Così accelerano i processi di Liana Milella La Repubblica, 6 giugno 2021 Nasce il nuovo “ufficio” con 16.500 assistenti per irrobustire lo staff dei magistrati e formare le toghe del futuro. È “la scommessa” che diventa realtà. Il magistrato non sarà più solo con i suoi processi. Manager di se stesso. E purtroppo dei suoi inevitabili ritardi. Niente a che vedere con i colleghi inglesi, americani, tedeschi e francesi. Più celeri, certo. Proprio perché possono contare sui loro assistenti che preparano il lavoro, mentre lui lo pianifica e lo conclude. Adesso, con quello che è stato battezzato “l’ufficio del processo”, il nostro giudice, civile o penale che sia, cambierà vita. E cambierà l’efficienza della giustizia italiana. È la grande scommessa del Recovery plan. Che in Consiglio dei ministri, venerdì sera, ha fatto una tappa decisiva. Un miliardo e 657 milioni per 16.500 assunzioni per tre anni. L’ufficio del processo esce dal libro dei sogni dei magistrati che l’hanno studiato, proposto, sperimentato, e diventa realtà. Novità tanto importante che la Guardasigilli Marta Cartabia sta già programmando un tour negli uffici giudiziari per presentare la “scommessa”. E il suo predecessore Alfonso Bonafede la ringrazia per aver proseguito, “nella continuità”, il suo lavoro. Perché a quelle 16.500 assunzioni se ne aggiungono altre 5.410, per 602 milioni, per 5.410 unità tecniche e amministrative. Per capire bisogna parlare con chi ha perseguito il “sogno”, dare a ogni giudice il suo assistente. Che studia i fascicoli, raccoglie e prepara la giurisprudenza, scrive le bozze dei provvedimenti, mentre la toga fa i conti con l’arretrato. Il lavoro si accelera. Non solo, accanto al giudice si forma il futuro giudice che apprende i segreti del suo lavoro. Come dice Barbara Fabbrini, oggi capo dell’Organizzazione giudiziaria in via Arenula, ma per anni giudice civile a Firenze, “sta per compiersi un cambiamento culturale epocale. Già nel 2013 l’Ocse scriveva che le migliori performance nel settore della giustizia si verificavano nei Paesi in cui esisteva la figura dell’assistente del giudice”. Noi, dopo una sperimentazione a Milano e a Firenze, ci arriviamo adesso. E, dice Fabbrini, “la scommessa più grande sarà il recupero di fiducia tra lo Stato e i cittadini”. Vedranno che la giustizia volterà pagina. I soldi sono tutto? No, contano l’idea e l’organizzazione. Per capire cos’è davvero l’ufficio del processo Repubblica ha parlato con chi - i giudici, ma anche i loro assistenti - non solo ha ideato, ma ha sperimentato il nuovo modello. Come Roberto Braccialini, oggi presidente della sezione fallimentare del tribunale di Genova, che vent’anni fa ha inventato la formula dell’ufficio del processo: “Mi definisco la più pagata dattilografa del Paese, perché da giudice civile un quarto del mio tempo va via solo per mettere a posto i fascicoli perché mancano lo staff e le risorse. Il nuovo corso è positivo perché sono stati trovati i soldi. Finora la giustizia è stata composta da 10mila teste, ma senza braccia”. La sua speranza? “Mi auguro che i 16mila assistenti non durino solo fino al 2026, ma per sempre”. Da Genova a Firenze dove un altro inventore dell’ufficio del processo è Luca Minniti, toga specializzata nell’immigrazione: “Ogni giudice avrà il suo assistente, come avviene alla Corte di Strasburgo oppure alla Consulta. E sia chiaro che questa figura non sarà quella di chi apre archivi ammuffiti per via dell’arretrato, questi giovani non saranno gli spazzini della giustizia, ma daranno un apporto di qualità, di studio, di ricerca, scriveranno bozze di provvedimenti, svolgeranno un lavoro preparatorio che consentirà al giudice di affrontare anche i processi arretrati”. Chi, come Chiara Sgroi, 25 anni, laurea in Legge ad aprile 2020 in pieno Covid, ha lavorato con Minniti, dice: “Non ci sono dubbi, con l’aiuto di un’assistente il giudice lavora più in fretta. Io ho scritto bozze di provvedimenti, ho cercato la giurisprudenza necessaria, il mio lavoro ha certamente accelerato la giustizia”. Elisa Tesco, 32 anni, di Prato, studi e tirocinio a Firenze, oggi già giudice civile a Pordenone, non esita a dire che “l’esperienza dell’assistente del giudice mi ha dato una marcia in più”. E riassume così la formula vincente dell’ufficio del processo: “Il magistrato non è più solo nella scrittura delle sentenze e quindi ne vengono definite di più, il vantaggio in termini di tempo è enorme”. Proprio ciò che serve alla nostra giustizia. Nuoro. Raccolta di firme per sollecitare la nomina del Garante regionale dei detenuti La Nuova Sardegna, 6 giugno 2021 “Il carcere è parte del territorio su cui insiste; non è un corpo estraneo da rimuovere dalla vista e dalla coscienza”. Un punto fermo di Antigone (associazione “per i diritti e le garanzie nel sistema penale), che ora Progetto per Nuoro fa proprio e cita mentre sottolinea che “sarebbe auspicabile affrontare in consiglio comunale” il tema Casa circondariale di Badu ‘e Carros, “dando alla comunità del Nuorese un bel segnale di presa in carico di una realtà complessa e restituendo visibilità ad un pezzo della città”. Intanto, il movimento politico che fa capo alla consigliera comunale di minoranza Lisetta Bidoni (nella foto) ha sostenuto la raccolta firme promossa dall’Associazione radicale “Diritti alla follia” per sollecitare la Regione a nominare il Garante regionale dei detenuti. La mozione sottoscritta da oltre duecento cittadini in tutta la Sardegna sarà depositata oggi e verrà illustrata lunedì prossimo a Cagliari, in viale Buoncammino (fronte ingresso ex carcere). Nuoro: “Non dimentichiamoci dei detenuti di Badu ‘e Carros” cronachenuoresi.it, 6 giugno 2021 In Sardegna manca il Garante Regionale per i detenuti: un adempimento purtroppo disatteso sino ad oggi. Progetto per Nuoro ha sostenuto la raccolta firme promossa dall’Associazione radicale “Diritti alla follia” per sollecitare la Regione Sardegna a effettuare questa nomina come previsto dalla Legge regionale n° 7 del 2011. L’obiettivo di raccogliere, nell’arco di trenta giorni, cento firme a sostegno della petizione da discutere in Aula è stato abbondantemente superato. La mozione sottoscritta da oltre duecento cittadine e cittadini sarà depositata il 5 giugno e illustrata nel corso di una conferenza stampa che si terrà lunedì 7 giugno, alle ore 11:30, a Cagliari in viale Buoncammino (fronte ingresso ex carcere). La Commissione Diritti civili di Progetto per Nuoro ha colto l’occasione della petizione per incontrare diverse figure, istituzionali e non, per conoscere la Casa Circondariale Badu ‘e Carros e condividere con il territorio una realtà di cui poco o niente si parla. La struttura, nota anche come la “fortezza grigia”, dagli anni 70 campeggia alla periferia sud della città. A lungo simbolo di malessere, teatro di efferati episodi, ma anche di importanti battaglie civili, è oggi inglobata e parte del paesaggio urbano del quartiere Badu ‘e Carros, che negli ultimi anni ha conosciuto un processo di urbanizzazione molto spinto. La Casa Circondariale, istituto di massima sicurezza con il regime di detenzione speciale cui venivano e vengono destinati detenuti particolarmente pericolosi per mafia o terrorismo, accoglie (rilevazione del 30/04/2021) circa 280 detenuti (di cui 13 stranieri), la maggior parte dei quali in regime di media e comune detenzione e un centinaio in regime di alta sicurezza. “Poco niente trapela sulle condizioni di vita dei detenuti, sullo stato delle strutture e dei servizi, sulle relazioni. Di certo sappiamo che il numero di agenti non è assolutamente adeguato a gestire in sicurezza la popolazione carceraria. Le organizzazioni sindacale denunciano un organico ridotto, condizioni e turni di lavoro massacranti, aggravatesi ulteriormente con l’apertura, nella ex sezione femminile ristrutturata, di una zona speciale. L’emergenza Covid ha contribuito a inasprire una situazione già al collasso che potrebbe essere superata con l’assunzione di 15 nuovi sottufficiali, già previsti nella pianta organica” dicono gli esponenti del movimento non tralasciando il fatto che: “son presenti e molte attive delle figure che fungono da anello di congiunzione tra la realtà carceraria e la città e che per i detenuti costituiscono una finestra sul mondo esterno. A partire dalla Garante dei detenuti nominata dal sindaco Soddu, l’avvocata Giovanna Serra, che svolge un ruolo di garanzia, di osservazione, e di dialogo tra il carcere e i detenuti, vigila sulle condizioni detentive perché i luoghi di detenzione non siano privativi di tanti altri diritti soggettivi e perché non vengano mai meno la dignità della persona e il rispetto del dettato costituzionale”. Progetto per Nuoro ricorda anche il ruolo dei docenti che si occupano dei corsi scolastici per i detenuti e dei volontari che organizzano le attività ludiche e costituiscono una ventata di notizie dal mondo di fuori e imprescindibili scambi umani. Sono circa dieci, oltre alle sei dell’associazione “Sesta Opera”, presente all’interno del carcere dai primi anni ‘80, che “in stretta collaborazione con la direzione carceraria presta assistenza e dà riposte ai bisogni pratici dei detenuti” dice una delle volontarie. All’esterno c’è il lavoro importante svolto dalla cooperativa sociale “Ut Unum Sint”, che fa capo a don Piero Borrotzu, mirato a favorire e promuovere inserimenti socio lavorativi presso Aziende agro pastorali, laboratori artigianali, accompagnando i beneficiari con azioni educative e di prevenzione. Vi sono inoltre tanti altri aspetti più o meno critici e controversi della Casa Circondariale, che sarebbe auspicabile affrontare in Consiglio Comunale, dando alla comunità del nuorese un bel segnale di presa in carico di una realtà complessa e restituendo visibilità ad un pezzo della città. Come ricorda Antigone, l’associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale: “Il carcere è parte del territorio su cui insiste; non è un corpo estraneo da rimuovere dalla vista e dalla coscienza. Occorre anzi che le amministrazioni locali tengano in considerazione la sua presenza nel territorio, avendo cura di adottare politiche e misure che possano aumentare le possibilità di comunicazione tra il fuori e il dentro”. Rossano (Cs). “Carcere duro, non previsto dalla sentenza”. Battisti inizia lo sciopero della fame Corriere della Calabria, 6 giugno 2021 L’ex terrorista rinchiuso nel penitenziario di Rossano denuncia le sue condizioni di detenzione: “Non posso incontrare neppure il cappellano”. Cesare Battisti, l’ex terrorista che si trova in carcere nel penitenziario di Corigliano-Rossano ha nuovamente iniziato la sciopero della fame. La protesta è stata inscenata dal 2 giugno scorso e comunicata dallo stesso Battisti in una lettera aperta in cui denuncia di essere l’”unico detenuto qui non legato al “terrorismo islamico”, ciò ha significato un isolamento totale di oltre 27 mesi, dei quali gli ultimi 8 senza mai esporsi alla luce solare diretta”. Il riferimento è alla circostanza che l’ex terrorista si ritrova ristretto nella sezione speciale del penitenziario dove si trovano detenuti che si sono macchiati di reati terroristici, in massima parte integralisti islamici. Tanto che Battista segnala che “in questo reparto nulla è predisposto per i detenuti che non condividono i costumi e la tradizione musulmana”. Ma non è l’unico limite denunciato dall’ex brigatista dell’area in cui si trova rinchiuso. “Questo è l’unico reparto a Rossano - scrive - sprovvisto perfino delle mattonelle e di servizi igienici decenti; dove nessun operatore sociale mette piede. Il famigerato portone “antro ISIS” è tabù perfino per il Cappellano, il quale ha finora regolarmente ignorato le mie richieste di colloquio”. Secondo quanto segnalato da Battisti, si troverebbe così ristretto in regime di fatto di carcere duro, nonostante, ricorda, la sentenza Corte d’Assise d’Appello di Milano, confermata poi in Cassazione, nel novembre 2019 avesse disposto il regime ordinario. Per queste ragioni l’ex terrorista aveva presentato istanza di trasferimento anche per avvicinarsi alla sua famiglia. Richiesta però poi respinta dall’amministrazione penitenziaria. Da qui l’amarezza e l’appello di Battisti. “Avevo riposto la speranza in quest’ultima istanza di trasferimento - si legge nella lettera dell’ex terrorista - immaginando che, dopo oltre due anni in condizioni estreme, le autorità non infierissero oltre, considerata anche l’età è il precario stato di salute. Ma anche e soprattutto per aver mostrato grande disponibilità alla riconciliazione con quei settori della società che più hanno sofferto le conseguenze della lotta armata degli anni 70, con particolare riferimento alle famiglie di tutte le vittime”. “Ho trascorso 40 anni in esilio conducendo una vita di cittadino contribuente - conclude Battisti - perfettamente integrato alla società civile prezzo l’incessante attività professionale, il pacifico coinvolgimento nell’iniziativa culturale e nel volontariato, ovunque mi fosse stato offerto rifugio. Ricevendo anche encomi di portata internazionale”. Pavia. I cani entrano in carcere Ristretti Orizzonti, 6 giugno 2021 Aiutare i detenuti nel percorso riabilitativo attraverso la costruzione di un rapporto affettivo con i cani. Aiutare i detenuti nel loro percorso di recupero e imparare un nuovo mestiere per il futuro. Questi gli obiettivi dell’innovativo progetto “Qua la zampa”, fortemente voluto dal Direttore della Casa Circondariale di Pavia Stefania D’Agostino, dal direttore generale di ATS Pavia Mara Azzi e dall’ex garante provinciale dei detenuti Vanna Jahier, in collaborazione con la Scuola Cinofila “Il Biancospino” di Casteggio. Presentato questa mattina presso la Casa Circondariale Torre del Gallo di Pavia, il progetto ha permesso la costruzione, nell’area dell’intercinta esterna dell’Istituto, di uno spazio di accoglienza stabile di due cani provenienti dal canile di Voghera e l’attivazione di un percorso di educazione cinofila per i detenuti, finalizzata all’ottenimento di un patentino di educatore. Gli istruttori della scuola cinofila sono responsabili del percorso educativo che prevede un impegno quotidiano da parte dei detenuti nella cura ed educazione dei cani, mentre le cure veterinarie sono garantite dall’Area Veterinaria di ATS Pavia guidata dalla Dott.ssa Gabriella Gagnone. Attualmente sono tre i detenuti che si occupano quotidianamente dei cani, e che frequentano regolarmente il corso di educatore cinofilo, usufruendo di un percorso in borsa lavoro. Le competenze che acquisiranno durante il corso offriranno loro un’opportunità di impiego dopo la scarcerazione. Il progetto è finanziato da Fondazione Banca del Monte di Pavia e Fondazione UBI di Milano e promosso dall’Associazione di volontariato Amici della Mongolfiera di Pavia, che da anni collabora con la Casa Circondariale Torre del Gallo, attivando laboratori interculturali e servizi di assistenza per detenuti stranieri. Torino. “Zona Luce”, al via nel carcere minorile il progetto Figc-Scholas figc.it, 6 giugno 2021 L’attività è stata presentata presso l’istituto penitenziario Piemontese alla presenza dello staff regionale SGS. Si è svolto il 4 giugno l’incontro di presentazione del progetto Zona Luce, l’iniziativa promossa dal Settore Giovanile e Scolastico della Figc e dalla Fondazione Scholas Occurrentes, presso il carcere minorile Ferrante Aporti di Torino. L’iniziativa, che si colloca all’interno della macro area Rete Social Football della Federazione, si rivolge agli operatori di polizia penitenziaria e ai detenuti, con lo scopo di tutelare e rafforzare il valore educativo, morale e culturale del calcio attraverso un percorso per la formazione di istruttori sportivi, finalizzato a trasferire ai destinatari le necessarie competenze per poter proseguire un’attività nel mondo del calcio a fine pena. Ad aprire l’incontro, al quale hanno partecipato i dodici ragazzi del carcere individuati dalla direzione per partecipare al progetto, due agenti di polizia penitenziaria, gli educatori dell’Associazione Essere Umani nelle figure di Luca Ferrero, Riccardo Viano e Stefano Tresso, il Coordinatore Regionale SGS del Piemonte e Valle d’Aosta Luciano Loparco e tutto lo Staff tecnico della Figc che svolgerà le attività pratiche con i ragazzi nei 10 incontri, la Dottoressa Picco, Direttore di Unità Operativa, che ha sottolineato l’importanza e gli ideali che l’hanno stimolata ad avviare questo progetto anche nella struttura torinese. Successivamente è intervenuto l’educatore Stefano Tresso per la presentazione dell’Ente partner piemontese coinvolto citando la Figc e la Fondazione Scholas quali promotori dell’iniziativa. Luciano Loparco ha illustrato l’attività, esprimendo al meglio gli obbiettivi che si intendono perseguire e le opportunità future che questa iniziativa formativa può favorire. Ha chiuso l’incontro Fabio Sacco, referente regionale delle attività sociali SGS, che ha interagito direttamente con i ragazzi descrivendo l’attività che verrà svolta sul campo e sottolineando l’importanza dell’insegnamento dei valori umani, prima ancora della gestualità tecnica calcistica. Contestualmente all’attività sportiva, è previsto un monitoraggio in termini di impatto dell’intero progetto, sia all’interno delle strutture carcerarie che eventualmente presso le società sportive del territorio in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Bergamo. Le parole dei detenuti del carcere in mostra alla Gamec bergamonews.it, 6 giugno 2021 Dal 2006 la Gamec - Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo ha intrecciato una preziosa e solida relazione con la Casa Circondariale di Bergamo in nome di un’educazione al patrimonio in grado di abbattere confini che ha visto, di anno in anno, la collaborazione di associazioni e di privati cittadini. Quest’anno l’Associazione Homo, che si propone il sostentamento di attività di promozione umana, ha supportato il progetto Individually Together, ispirato all’omonimo disegno dell’artista rumeno Dan Perjovschi esposto lo scorso autunno nella mostra “Ti Bergamo. Una comunità”, a cura di Valentina Gervasoni e Lorenzo Giusti. Attorno all’esposizione, che raccontava visivamente la storia di una città che si è riscoperta comunità, si è articolato il progetto di quest’anno: l’educatrice museale Marta Begna ha lavorato, in presenza, con i detenuti della sezione penale del carcere di Bergamo, arrivando a costruire case di carta ispirate all’opera di Perjovschi realizzate con pagine di giornale sbiancate - riferite al film “I am not legend” di Andrea Mastrovito - al cui interno si scorgono fotografie di luoghi d’affezione. Le immagini sono state procurate mediante Google Street View da studentesse e studenti della classe IV F dell’ITCTS Vittorio Emanuele II di Bergamo, a loro volta seguiti dall’educatrice museale Sabrina Tomasoni in un percorso di formazione che prevedeva la presentazione della mostra ad altri istituti scolastici. Le restrizioni legate all’emergenza sanitaria non hanno però consentito lo sviluppo di questa parte di progetto in presenza, e così le visite pensate per essere condotte nelle sale della mostra hanno preso forma in un video realizzato in modalità di didattica a distanza, già disponibile sul sito della Gamec e fruibile in museo tramite QR code. Terzo anello di questa progettualità è stato il coinvolgimento di Maria Grazia Panigada, Direttrice della stagione di prosa del Teatro Donizetti, qui in veste di esperta di “Patrimonio di Storie”, un gruppo di lavoro che ha messo a punto un metodo di educazione al patrimonio attraverso la narrazione. Panigada ha aiutato studentesse, studenti e detenuti a comporre narrazioni legate alle opere esposte, in un’operazione corale che ha dato vita a una comunità in cui i partecipanti al percorso, così distanti ma al contempo così vicini, si sono confrontati attraverso l’arte e la parola. L’esposizione allestita dal 7 al 20 giugno presso il Bookshop della GAMEC presenterà le dieci Case di Carta realizzate dai detenuti, accompagnate da un piccolo catalogo, gratuito, che racconta il senso degli elaborati e illustra alcune delle opere di “Ti Bergamo. Una comunità”, attraverso le narrazioni di detenuti e studenti. La restituzione del progetto alla città si completa di presenze e appuntamenti importanti: per tutto il periodo dell’esposizione, due detenuti in permesso ex art. 21 racconteranno ai visitatori lo sviluppo di Individually Together; il video di presentazione di Ti Bergamo. Una comunità, a cura della IV F, consentirà di ricordare o di attivare un nuovo punto di vista sulla mostra che ha ispirato il progetto. Inoltre, martedì 8 giugno sei detenuti visiteranno la mostra Regina. Della scultura, quale riconoscimento del valore dell’esperienza culturale per il cammino di reinserimento dei detenuti nella comunità, già sperimentata nel 2019 con la visita alla mostra Libera. Tra Warhol, Vedova e Christo. L’esposizione, inoltre, includerà dal 14 giugno il video del giornalista e videomaker Davide Cavalleri, che ha documentato il valore dell’educazione al patrimonio in un luogo di detenzione. Anche questo video sarà disponibile sul sito della GAMeC e fruibile in museo tramite QR code. La mostra sarà accessibile nei seguenti giorni e orari: lunedì, mercoledì, giovedì e venerdì: dalle 15:00 alle 20:00 sabato e domenica: dalle 10:00 alle 18:00. La prima azione legale ambientale per scuotere il governo sul clima di Ferdinando Cotugno Il Domani, 6 giugno 2021 Una grande iniziativa giudiziaria modellata su quelle di Olanda e Germania vuole imporre tagli alle emissioni molto più radicali di quelli previsti dal Pnrr. Il piano green del governo Draghi è il più timido d’Europa. La credibilità ecologica del governo Draghi è già in crisi. Una serie di report indica che il Pnrr è molto fiacco sul fronte ambientale. Da ieri, Giornata mondiale per l’ambiente, l’Italia ha il suo primo contenzioso climatico. Non è un’iniziativa simbolica, una di quelle cose lanciate per fare sensibilizzazione o semplice rappresentanza, ma una concreta via giuridica e politica per stanare le istituzioni, come dimostrano i casi francese, tedesco, olandese. Un gruppo di 203 soggetti tra associazioni e cittadini, coordinati dalla Onlus A Sud, ha citato in giudizio lo stato italiano per la sua lentezza nell’intervenire sull’emergenza climatica. Ci sono i Fridays for future, c’è la Società meteorologica italiana guidata da un personaggio noto e moderato come Luca Mercalli, ci sono anche 17 minorenni. La causa è stata presentata al tribunale civile di Roma, lo stato dovrà costituirsi in giudizio con l’avvocatura generale, la prima udienza è fissata per il 4 novembre. Questi i dettagli legali, poi c’è la sostanza politica. L’iniziativa si chiama Giudizio Universale, è frutto del lavoro di tre anni ma arriva proprio mentre la credibilità ecologica del governo di Mario Draghi è già entrata in crisi, dopo l’ondata di critiche a un Pnrr fiacco dal punto di vista ambientale, l’antologia di report che da ogni fronte ne sottolineano vuoti e mancanze (“il peggior piano europeo sul clima”, secondo il Green recovery tracker) e perfino i rimbrotti pubblici a mezzo intervista di John Kerry al ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, e alle sue mappe di gasdotti. Lo stato sa e non agisce - Il presupposto giuridico del ragionamento dietro Giudizio Universale è questo: le istituzioni italiane continuano a tirarsi indietro rispetto all’azione climatica, pur essendo a conoscenza della drammaticità dell’emergenza. Nel dossier ci sono i numeri del centro studi Cimate Analytics, ma anche quasi due decenni di dichiarazioni e atti di indirizzo del parlamento, ci sono i rapporti di enti pubblici come Ispra sulla specifica vulnerabilità dell’Italia. Quello tra economia, clima e diritti è un collegamento che secondo l’avvocato del team legale Luca Saltalamacchia “viene accettato e rimarcato dallo stato italiano”, che però da un lato annuncia in ogni sede possibile scenari di crisi e dall’altro si comporta, di governo in governo, come se quella crisi non esistesse. Dentro l’invocazione verso la responsabilità dello stato c’è una denuncia nei confronti della politica. Al di là dei presupposti legali, è il contesto europeo la vera forza di Giudizio Universale. Il 29 aprile la Corte costituzionale tedesca ha dato ragione a un gruppo di cittadini e attivisti: la legge sul clima del governo violava i diritti delle generazioni future. È stato un terremoto, Angela Merkel ha messo di corsa in cantiere una nuova legge, più incisiva. Prima c’erano state le storiche vittorie in Francia e soprattutto Paesi Bassi, primo paese arrivato a sentenza in una causa del genere, anche qui a favore degli ambientalisti. La fondazione Urgenda, che aveva promosso la causa olandese, ha fatto da tutor all’iniziativa italiana. Nel contesto c’è anche un’altra vittoria epocale, quella degli ambientalisti contro il piano di Shell, corretto al rialzo dalla una corte dell’Aia. I tribunali stanno diventando uno spazio di azione climatica e da ieri tocca a quelli italiani, con lo stato che si troverà nella scomoda posizione di dover difendere le ragioni della lentezza o di provare a spacciarla per rapidità. Soluzione radicale - La causa non prevede un risarcimento dallo stato, ma chiede al giudice di dichiararlo inadempiente e di imporgli una riduzione delle emissioni molto più radicale di quella in atto. L’obiettivo di Giudizio Universale è un taglio del 92 per cento rispetto ai livelli del 1990, da raggiungere entro il 2030, cioè tra nove anni e mezzo. Se il contenuto della richiesta è quasi uno sparo alla luna, la strategia delle cause legali ha dimostrato negli ultimi anni di essere una via concreta per smuovere il sistema. Il problema, però, è che qui parliamo dei tribunali italiani: Giudizio Universale affida una richiesta in cui il fattore tempo è tutto alla giustizia più lenta d’Europa. “Ci aspettiamo che il giudizio in primo grado termini dopo due o tre anni, altri due se viene fatto appello, il ricorso per Cassazione può prendersi fino a quattro anni”, conferma Saltalamacchia. È una visione più pessimista anche dei sette anni e tre mesi per una causa civile in Italia, secondo i dati del Consiglio d’Europa, un altro mondo rispetto ai due anni e quattro mesi tedeschi e i tre anni francesi. Si arriverebbe a una sentenza definitiva non prima del 2028, a due anni dalla soglia del 2030 e, ironicamente, dopo la fine del conteggio del climate clock che da due giorni è davanti al ministero della Transizione ecologica, sei anni e sette mesi per contenere l’aumento della temperatura entro i termini dell’Accordo di Parigi. Insomma, in un paese come l’Italia la via giuridica al clima ha più senso come strumento di pressione politica che per i suoi esiti legali in senso stretto, i quali rischiano di arrivare quando ogni finestra di intervento sarà chiusa. Tra i firmatari mancano le tre associazioni più importanti, Legambiente, Wwf e Greenpeace, che lasciano filtrare vicinanza, sostegno e supporto ma hanno scelto strade diverse. È interessante la lettura di Greenpeace, per bocca del direttore Giuseppe Onufrio: “In Italia la politica dipende da alcune grandi aziende, è qui che la trasformazione trova resistenze e lo vediamo nel Recovery plan, al quale mancano solo nomi e cognomi per essere cucito su misura per loro”. Greenpeace è reduce dalla grande vittoria contro Shell in Olanda, “una causa che stiamo studiando da vicino anche in un’ottica italiana”. Non lo si può ancora dire, ma presto potrebbe toccare ad Eni un processo sulla scia di quello olandese. “In ogni caso siamo complementari a Giudizio Universale, sono due strade diverse per gli stessi obiettivi”. “Cortei e proteste non bastano più: per salvare il clima facciamo causa allo Stato” di Sara Dellabella L’Espresso, 6 giugno 2021 Per la giornata mondiale dell’ambiente gli attivisti portano il Paese in tribunale per inadempienza. Perché l’Italia è al sesto posto nel mondo per disastri ambientali. E non c’è più tempo da perdere. Sono 203. E sono pronti a chiamare alla sbarra lo Stato Italiano per la prima grande causa collettiva sui cambiamenti climatici. I proponenti l’hanno chiamata “La causa del secolo” perché la scienza non ha dubbi: nel corso di questo secolo si giocano i destini del pianeta. L’iniziativa è promossa dalla campagna Giudizio Universale, coordinata dall’associazione A Sud, che raccoglie le adesioni di movimenti, enti e comitati come Fridays for Future, la Società Meteorologica Italiana, Medici per l’Ambiente, Terra!Onlus, Forum Italiano Movimento per l’Acqua e tanti altri. Nella giornata che tutto il mondo dedica all’ambiente, il 5 giugno, i promotori si sono dati appuntamento a Montecitorio per presentare la causa avviata contro lo Stato e raccontare con un’iniziativa pubblica i contenuti degli atti depositati al tribunale civile di Roma. A spiegare l’iniziativa, in anteprima a L’Espresso, è Marica Di Pierri, attivista, portavoce di A Sud e curatrice del saggio “La causa del secolo” (edizioni Round Robin) che uscirà nello stesso giorno. “Chiederemo al giudice di dichiarare che lo Stato italiano è responsabile di inadempienza nel contrasto all’emergenza climatica. Chiederemo che sia condannato a ridurre le emissioni moltiplicando gli sforzi attualmente in campo”. La necessità di un’accelerazione riguarda tutti gli Stati, per questo quella delle azioni legali climatiche è una pratica che si sta ripetendo di Paese in Paese, sempre con lo stesso obiettivo: chiedere ai governi di cambiare marcia sui temi ambientali, perché non c’è più tempo da perdere. Dal Pakistan all’Irlanda, dai Paesi Bassi alla Colombia, dal Canada alla Francia, Corti supreme e tribunali di tutto il mondo stanno convergendo rapidamente verso il riconoscimento di una giurisprudenza realmente universale, riportando gli Stati al dovere di “fare di più” per affrontare questa emergenza con lungimiranza e diligenza. Quello che gli attivisti chiedono sono azioni e non risarcimenti monetari. Le responsabilità sono tutte nei numeri, spiegano: se l’Italia continuasse al ritmo attuale, raggiungerebbe con cinque anni di anticipo il livello di emissioni (carbon budget) che si è impegnata a raggiungere nel 2030. Eppure per la prima volta in Italia è stato istituito un ministero della Transizione ecologica. Una svolta green impressa dal governo Draghi che non convince fino in fondo però. “Siamo molto preoccupati che si tratti solo di un cambio di etichetta”, spiega Di Pierri, “e invece siamo convinti che dovrebbe essere un’occasione anche per i fondi che sono stanziati nel Next Generation Eu. Per far partire una transizione serrata verso la decarbonizzazione definitiva del nostro Paese. Vediamo ancora provvedimenti che riguardano autorizzazioni estrattive che non sembrano andare nella direzione di fermare lo sfruttamento delle fonti energetiche fossili e di favorire un passaggio rapido e radicale a fonti energetiche di tipo rinnovabile. E poi ci sono quei 35,7 miliardi (calcolati da Legambiente nel 2020, n.d.r.) che spendiamo in “Sussidi Ambientalmente Dannosi”“, incentivi che sostengono, direttamente o indirettamente lo sfruttamento di fonti energetiche fossili: petrolio, gas e carbone”. Siamo un Paese fragile dove il cambiamento climatico mostra ogni giorno i suoi effetti. Non è catastrofismo: è la cronaca che parla. Il territorio italiano è particolarmente esposto e l’aumento dei fenomeni climatici estremi presenta sempre più il conto in termini ambientali e di vite umane. Non c’è solo l’acqua alta di Venezia: inondazioni, trombe d’aria, frane hanno interessato negli ultimi dieci anni 507 comuni, con un bilancio di 251 morti. Nel 2018 ben 148 eventi hanno causato oltre 4500 sfollati e 32 vittime. Nel 2019 le vittime sono state 42, trascinate via da fiumi d’acqua o fango. A immaginarle sembrerebbero scene da terzo mondo e invece avvengono in uno degli stati più ricchi, appartenenti al G7: l’Italia. Secondo il Climate Risk Index 2020, il nostro paese si classifica al 28° posto per numero di morti causati dalle conseguenze di eventi climatici estremi (addirittura al sesto posto se calcoliamo gli ultimi 20 anni), mentre per le perdite economiche è all’ottavo posto per perdite in milioni di dollari. Lo stesso premier Mario Draghi, nel suo discorso programmatico, si è fatto carico di un pezzo del problema dichiarando che “l’innalzamento del livello dei mari potrebbe rendere ampie zone di alcune città litoranee non più abitabili”. La deforestazione, la scarsità delle risorse idriche che vedono sempre più alcuni comuni costretti al contingentamento, l’innalzamento delle temperature e l’aumento dei fenomeni atmosferici estremi, nonché la crisi sanitaria che è legata alle tematiche ambientali, hanno portato gli attivisti a chiamare in causa lo Stato. E a lanciare un appello che ha raccolto 12mila firme e che è possibile firmare sul sito www.giudiziouniversale.eu. Lo scopo è sostenere la causa e spingere lo Stato Italiano ad agire per garantire il diritto umano al clima, una richiesta che trova il suo fondamento giuridico nella Convenzione Quadro delle Nazioni Unite che definisce “i cambiamenti climatici motivo di preoccupazione comune per il genere umano”. La premessa è che senza stabilità climatica l’intero sistema dei diritti, dall’abitare all’acqua, è in pericolo. E per garantire la dignità umana non basta cambiare nome a un ministero, soprattutto ora che non c’è più tempo da perdere. Abbandoni in crescita, disagio e l’ossessione delle verifiche: come sta la scuola dopo due anni di chiusura di Francesca Sironi L’Espresso, 6 giugno 2021 L’emergenza Covid ha stravolto un sistema gravato già da molti problemi. Ma per ripartire davvero bisognerebbe cambiare in profondità. “Invece molti istituti si preoccupano solo di recuperare i compiti in classe”. “Poi le giornate sono tutte ripetitive: dormi, studia, lava, lavati, mangia, dormi... Le facce sempre uguali...”. Le quarantene sono il passato, ma per alcuni giovani le ombre di quella insofferenza avranno conseguenze lunghe sul futuro. Sta già accadendo. Le voci degli studenti raccolte dall’istituto comprensivo Negrar di Valpolicella, in provincia di Verona, sono infatti quelle di decine di migliaia di studenti in tutto il Paese, per i quali la scuola è stata in questi mesi una zattera di salvataggio. Ma anche una zattera la cui direzione resta tutta da capire. Sono uscite le prime ricerche: un sondaggio Ipsos per Save the Children che parla di un adolescente su tre fra i 14 e i 18 anni che ha visto almeno un proprio compagno smettere di frequentare la scuola dall’inizio della pandemia. Ci sono le segnalazioni in aumento alle procure minorili, a Napoli come in Lombardia, di alunni scomparsi dai registri, nel silenzio della famiglia, nella solitudine degli istituti di fronte alla continuazione dell’obbligo scolastico. C’è la preoccupazione di insegnanti e formatori davanti all’intermittenza delle presenze a distanza, con il loro corredo di incomprensioni da connessione, telecamera, wifi. Il rischio è quello di lasciare alla deriva migliaia di giovani. Giovanni Del Bene ne è sicuro, ed è preoccupato: “Dopo tanti anni di miglioramento delle statistiche sulla dispersione scolastica, mi aspetto un aumento del dieci per cento di abbandoni nel prossimo anno”. Uno studente su dieci ha già compromesso la propria fiducia nell’istruzione, rinunciando a iscriversi a un nuovo anno di studio. Psicologo, già preside dell’Istituto comprensivo Cadorna di Milano, Giovanni Del Bene è collaboratore dell’ufficio Scuole aperte del Comune di Milano; insieme ad Angelo Lucio Rossi e Rossella Viaconzi ha appena scritto “La comunità educante” per la Fabbrica dei Segni editore. Nel libro, come nella chiacchierata con L’Espresso, Del Bene ripercorre i cardini che rendono le “scuole aperte”, a Milano ce ne sono 45, in rete con altri istituti dal Lazio alla Calabria, un modello potenzialmente cruciale per regalare futuro ai bambini e agli adolescenti, fuori dalle secche di questa pandemia. Le “scuole aperte” sono istituti che attraverso patti territoriali con associazioni dei familiari, realtà di volontariato, organizzazioni sportive e musicali, imprese e uffici, fanno sì che l’edificio-scuola non chiuda mai, mattina, pomeriggio estate, e fine settimana, e con l’edificio anche il suo ruolo educativo e soprattutto sociale. Bambini e ragazzi si trovano così al centro di una rete che possono navigare seguendo i propri interessi. “Per questo parliamo di comunità educante. È fondamentale che i ragazzi siano motivati a mettersi in gioco, a trovare e valorizzare le loro qualità creative, di movimento, di fantasia, non solo a rispondere a prove di carattere teorico”. La scuola è infatti il primo luogo di socializzazione “obbligata” fuori dall’ambiente familiare, e quindi la prima porta dove decidere chi essere, e chi diventare. “Per andare in classe i ragazzi possono scegliere la propria immagine. Banalmente: si mettono in ghingheri, o meglio, indossano quello che gli piace per destare l’interesse del territorio. Adesso arrivano da un anno in cui sono rimasti per settimane a casa in ciabatte e pigiama. In questo modo un giovane si trova a contatto con la propria persona, senza più l’ancora dell’immagine. E non a tutti piace la propria persona. Senza confronto, depressione, autolesionismo e disturbi alimentari sono enormemente aumentati”. Per cacciare questi fantasmi serve appunto il confronto. La possibilità di una relazione meno rigida con gli altri, con la cultura, con il divertimento. Una nuova modalità di scambio fra alunni e adulti. Vivere insieme - Rossella Viaconzi è vicepreside dell’istituto Alda Merini di Milano. La pandemia “ci ha estenuati. Ha stancato tutti: studenti, genitori, professori e dirigenti”, racconta: “Ci ha messo alla prova. Ma chi lavorava in rete con il territorio ha potuto in qualche modo contare su una forza in più”. Sia nel bisogno, che nel rilancio della socialità. “L’anno scorso abbiamo iniziato la distribuzione dei pasti a trenta famiglie di nostri alunni, grazie a una catena di supermercati biologici e alle “brigate partigiane”. Quest’anno l’esigenza è stata quella di non far perdere agli adolescenti il contatto con i compagni. All’Alda Merini, con le sue sedi sparpagliate in vari canti della periferia Nord Ovest della città, gli alunni hanno potuto continuare ad andare a scuola attraverso il calcio come laboratorio, ad esempio, oppure per le attività legate alla webradio, o ancora passare il pomeriggio con le mani nella ceramica, oppure a dipingere gli esterni nel laboratorio di pittura murale insieme allo street artist Pao. “È stato possibile per la collaborazione con Fondazione Exodus di Don Mazzi”, racconta Viaconzi: “Grazie alla quale abbiamo realizzato anche un’altra avventura, che mi ha colpita profondamente. Insieme a una classe di tempo prolungato che ho, dove su 18 studenti 17 sono stranieri, giovanissimi che hanno sofferto molto l’isolamento dei lockdown, e che rischiavamo di perdere, siamo stati per una settimana in barca a vela all’isola d’Elba, all’interno del progetto “Per educare ci vuole un villaggio”. È stata un’esperienza fortissima per tutti. Ho capito con un’intensità che non avevo conosciuto in tutti questi anni di esperienza come davvero la dispersione scolastica possa essere vinta solo se c’è condivisione di vita”, racconta. “Abbiamo avuto quattro giorni di mare mosso, forza 4 nello stretto di Piombino. Tutti con il mal di mare. Eppure tutti trasformati dall’esperienza comune. Dopo esser stati nella stessa classe per tre anni, li ho visti tutti sotto altri punti di vista. Nei momenti di convivialità, nei confini della convivenza, sono emersi aspetti dalla loro personalità che non conoscevo, risorse che non avevano mai mostrato. Appartenevano a nove etnie, con cinque fedi diverse, ognuno con le sue abitudini e i suoi progetti, e un effluvio di domande continuo. Sulla vita, le scelte, il domani”. “Personalmente credo che la scuola sia un bivio”, riflette Viaconzi. “Purtroppo irrigidirsi può portare a non comprendere più i ragazzi. Soffrono tantissimo il fatto di essere tornati in presenza e di essere valutati soltanto, come se nulla fosse stato, sottoposti a verifiche continue, quando in realtà andrebbe fatto un altro tipo di valutazione”. Che parta da loro, per tornare a loro. Tornare per i voti? - È andata diversamente. Se la prima volta è una sorpresa, la seconda è un macigno. Emersi dal doppio anno pandemico, doppia stagione di lezioni via zoom, mattinate davanti ad adulti che parlano dentro a uno schermo, migliaia di studenti italiani hanno terminato l’anno scolastico con un ritorno in presenza che sembrava segnato troppo spesso da una sola richiesta: verifiche, verifiche, verifiche. Priorità ai voti. “Lo temevo, e così è stato. Alcune scuole hanno capito l’importanza del rientro in presenza degli alunni. Altre hanno imbastito invece settimane di compiti in classe e interrogazioni a raffica. Non è questione di dibattere sull’opportunità o meno di bocciare in un anno così, ma di ricordarsi qual è il ruolo dell’istruzione. Se è una raccolta punti in vista del binomio promozione/bocciature, oppure se è un impegno per ascoltare e far crescere le competenze. Le competenze, più che le conoscenze”. Matteo Lancini è uno psicologo, psicoterapeuta, presidente della fondazione Minotauro e membro del gruppo di lavoro sulla dispersione scolastica della Regione Lombardia. E ha un’idea chiara: “In questi giorni di scrutini finali, verso la chiusura dell’anno l’8 giugno, tutti gli insegnanti dovrebbero ricordarsi cos’è una scuola inclusiva. E non gettarsi a recuperare un’autorevolezza perduta aggrappandosi a voti e bocciature, che mortificano i ragazzi e vanno ad aumentare le incertezze di quei due milioni e 400mila giovani che in Italia non risultano integrati né in un percorso formativo né lavorativo”. Anche perché quell’autorevolezza di cui alcuni professori hanno nostalgia, dice Lancini, non è stata persa per un aumento indiscriminato di irriverenza casuale, quanto per i paradossi con cui gli adulti impongono ai ragazzi regole che nemmeno loro rispettano. “L’esempio principe per me è il cellulare. Gli unici che dovrebbero spegnerlo, nella nostra società, sono gli adolescenti. Per gli adulti è normale usarlo per ore, se lo fanno i ragazzi diventa dipendenza. Forse allora dovremmo partire da educare gli adulti, prima di parlare di internet come del male assoluto, e poi da un giorno all’altro obbligare i giovani ad accendere la telecamera nell’intimità della loro stanza per la videolezione”. Insomma, “gli adulti perdono autorevolezza quando ripetono interventi stereotipati anziché insegnare a muoversi nella realtà contemporanea”. Territori e complessità - Da una parte quindi ci sono i fondamenti dell’esercizio di cittadinanza - socialità, capacità di esprimersi e capire, conoscere la storia - dall’altra la necessità di innovare gli insegnamenti per ascoltare di più le predisposizioni dei singoli ragazzi, i loro desideri. Se per questo obiettivo c’è ancora molta strada da fare, per il primo, anche. Secondo gli ultimi risultati Invalsi - che risalgono alle prove del 2019, l’anno scorso i test sono saltati, mentre a luglio usciranno gli esiti delle rilevazioni di quest’anno - in una regione come il Piemonte il 31 per cento degli studenti non raggiunge, in terza media, il livello base di italiano. Per matematica è il 35 per cento. Guardando al domani, le prospettive si allargano e distanziano ancora di più: fra i ragazzi dei licei l’11 per cento arriva al diploma con un italiano zoppicante secondo le griglie Invalsi, fra gli studenti dei professionali è il 54 per cento. Uno su due. A notare questi dati approfondendo i numeri della dispersione scolastica di Torino e dintorno è Luisa Donato, ricercatrice di Ires Piemonte, che ricorda come il problema dell’abbandono non sia drammatico solo nel Sud Italia, ma anche al Nord, soprattutto nella differenza fra centri e periferie. Un esempio? “Gli Elet (Early leavers from education and training), nel 2020 il Piemonte saliranno al 12% rispetto al 10,8 del 2019, dopo esser diminuiti costantemente negli ultimi 15 anni”, riflette Donato: “Considerando che l’obiettivo stabilito dalla strategia Europa 2020 è di uno su dieci, il Piemonte, già prima della pandemia, era in una situazione che definiamo di “oscillazione”. Significa che resta una parte di giovani fra i 18 e i 24 anni, con al massimo il titolo di licenza media e non più in formazione o in percorsi di istruzione, che andrebbe intercettata con interventi il più possibile precoci. La Regione Piemonte sta provando a intervenire con un servizio di orientamento regionale. In questi due anni di scuola non in presenza, o alternata tra presenza e distanza, il numero di ragazzi e ragazze che si sono rivolti al servizio, per un supporto nella scelta dell’indirizzo di studi nel primo biennio delle superiori, è stato elevato. Questa è un’antenna sul territorio che fa capire il disagio dei giovani adolescenti nel vivere una situazione straordinaria che ha generato dubbi e insicurezze limitando di fatto anche il confronto tra pari, indispensabile nell’età in cui cambiano i gruppi di riferimento”. Non solo. I dati mostrano un altro elemento: nelle province di Asti e di Alessandria la media degli abbandoni è più alta, arriva al 16 per cento, e in aumento rispetto a prima. “In genere la dispersione è sempre stata più elevata in quei contesti territoriali in cui i giovani avevano maggiori opportunità di entrare nel mercato del lavoro”, riflette Donato. “Tuttavia, il sistema si fa sempre più complesso. Il lavoro diminuisce, in particolare per i più giovani, e cresce l’eterogeneità della popolazione. La presenza di persone con maggiori fragilità o difficoltà incide sui livelli di dispersione - persone con status socioeconomico basso e di origine straniera. Se anche nelle altre regioni italiane fossero disponibili dati disaggregati a livello territoriale inferiore alla regione, emergerebbe che non tutti i territori vanno alla stessa velocità né nella stessa direzione”. Il terzo salto - Orientamento, territorio, conoscenza. Pierpaolo Triani è professore ordinario di Pedagogia all’università Cattolica di Milano. Un mese fa ha commentato i risultati di una ricerca della consulta studentesca di Piacenza sull’impatto dell’orientamento nel prevenire (o causare) derive di abbandono scolastico. Fra gli studenti intervistati per il progetto “due su dieci hanno dichiarato di non essere particolarmente contenti del proprio percorso di studi, e quattro su dieci che l’orientamento in terza media non è stato utile”. “Per quanto concentrate soprattutto fra licei - quando la dispersione, sappiamo, è un problema che si aggrava soprattutto a cavallo del primo biennio negli istituti tecnici e professionali - sono risposte che evidenziano come l’azione di orientamento in terza media sia importantissimo per contrastare la dispersione. Dovrebbe essere però un coinvolgimento pratico, un modo per sperimentare sul campo attitudini e interessi, non solo valutando gli aspetti cognitivi, dando informazioni astratte, ma permettendo ai ragazzi di sperimentarsi, rispetto al loro futuro. L’esperienza concreta potrebbe aiutarli a capire meglio interessi e attitudini”. Il passaggio fra la terza media e le superiori è quindi un ponte cruciale e delicato. “Ma è anche il momento in cui le direzioni si polverizzano, perché dopo il passaggio da elementari a medie che avviene nello stesso contesto urbano, o addirittura nello stesso istituto comprensivo, ci si trova a partire per una classe che si trova anche a 40 chilometri di distanza”, spiega Triani. Il problema non dovrebbero essere però i chilometri: “non è semplice organizzare un lavoro di rete che permetta di seguire le situazioni più difficili, o fragili, ma è necessario. Creando subito un legame fra scuola di partenza e d’accoglienza si può intervenire prima, e meglio, personalizzando l’azione didattica. Non basta sapersi approcciare, come molti insegnanti alle professionali già fanno, bisogna agire subito per fermare la deriva”. Anche Triani condivide il timore di Del Bene: “Nei prossimi anni avremo i segnali statistici di quanto stiamo vivendo in questi mesi”. Bisogna iniziare a prevenire. Irrobustendo le risorse migliori dei ragazzi, e dei territori dove vivono. Per una nuova presenza. I diritti (negati) di Saman e le battaglie di serie B di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 6 giugno 2021 La storia della ragazza pachistana di Novellara, punita crudelmente dalla famiglia per avere rifiutato le nozze combinate, ha faticato a emergere nel dibattito pubblico. Il destino toccato a Saman Abbas squarcia un velo. Chiama in causa politici e giornalisti, femministe e società civile: in fondo, tutti noi. Perché denuncia una sottocultura gretta e spietata - si direbbe ormai radicata nelle pieghe più nascoste del nostro Paese - ma anche la persistente difficoltà che abbiamo ad affrontarla e persino a raccontarla, in quanto il suo tessuto connettivo è la comunità islamica, con l’annesso fardello di uno scontro ideologico dal quale fatichiamo a liberarci. La diciottenne pakistana di Novellara, punita ferocemente dalla famiglia per avere rifiutato un matrimonio combinato con un cugino in una madrepatria per lei lontana, parla ovviamente a ciascuno: come figlia, sorella, donna, cittadina italiana che non abbiamo saputo proteggere. Eppure, la sua storia ha faticato a emergere nel dibattito pubblico di un Paese altrimenti sempre pronto, e giustamente, a insorgere e scendere in piazza contro femminicidi e violenza sulle donne. Al punto che, per paradosso, a farci i conti sono stati dapprincipio soprattutto gli islamici: islamici italiani, beninteso, integrati da tempo, e dunque feriti più di noi da questo riflesso crudele e ancestrale proiettato sulla loro religione. Il 3 giugno l’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche d’Italia, ha emesso una fatwa contro “i matrimoni forzati nell’Islam”, denunciandone l’illiceità: “Una pratica tribale che non può trovare alcuna giustificazione religiosa”. La fatwa è un “parere” dottrinale: avvezzi a quelle usate dai fondamentalisti quali sentenze di morte contro qualche “miscredente” (Salman Rushdie, per citare il più noto), abbiamo quasi ignorato sui media un atto importante, il primo, sulla tragedia di Saman, diremmo una sentenza di vita, in questo caso emessa da 110 imam legati all’Unione. Il secondo atto, tutto politico, è venuto ancora dall’Islam italiano: come il bambino che grida “il re è nudo”, una giovane e coraggiosa consigliera comunale del Pd di Reggio Emilia, Marwa Mahmoud, ha tirato in ballo il proprio partito e la sua lentezza nel prendere posizione su una clamorosa violazione dei diritti umani quale è quella patita da Saman. Esistono battaglie “di serie B” quando la vittima della violenza è una donna di origine straniera e, più precisamente, di religione musulmana? Una parte di spiegazione, forse, sta proprio qui, in un riflesso quasi pavloviano della nostra sinistra politica e culturale: il terrore, a indignarsi con troppa nettezza, di essere tacciata di razzismo, confusa con gli xenofobi di professione secondo i quali l’Islam è cattivo e violento per definizione. Naturalmente questa spiegazione, aggravata dal sospetto di pescare per interessi elettorali nella constituency degli stranieri ancora a corto di diritti, fa insorgere opinionisti e politici di sinistra. Ma è innegabilmente più facile mostrare solidarietà un po’ paternalista verso i migranti sbarcati dalle carrette del mare a Lampedusa piuttosto che andare a ficcare il naso in questioni così complesse e difficili da dirimere come la vita di famiglie spesso ancora ai margini del processo di integrazione. E allora sta qui, forse, la motivazione più seria e profonda: nella separatezza di talune comunità, dove il calvario di Saman ricorda tanto da vicino quelli di Hina Saleem o di Sana Cheema, ammazzate dalle famiglie pakistane in circostanze assai simili e con identici moventi: la voglia di libertà di ragazze che si sentivano ormai occidentali ma erano percepite in modo assai diverso dal contesto familiare. In questo mondo a parte, e nella nostra fatica a intrometterci in esso, si consuma una contraddizione che può diventare fatale. Izzedin Elzir, che ha guidato l’Ucoii fino a pochi anni fa, raccontava dei problemi, anche per gli imam, a penetrare famiglie bengalesi della borgata romana di Torpignattara nella quali si dava per scontato il diritto di ritirare le figlie dalla scuola alla prima adolescenza. I dati del Miur hanno scolpito più volte questa tendenza, radicata nelle comunità più arretrate, che si traduce nella scuola negata alle ragazze islamiche. Questa storia è dunque l’occasione per guardarci in faccia. Senza assurde pretese di superiorità, non giustificabili in un Paese che per tre secoli ha bruciato le “streghe” col Malleus Maleficarum scritto da due domenicani e, fino ai primi anni Ottanta dello scorso secolo, ha mantenuto nel suo apparato giuridico il delitto d’onore e il matrimonio riparatore. Ma, piuttosto, con la forza della nostra Costituzione, il cui articolo 3 non contempla divisioni per fazioni o interessi partitici nella tutela dell’uguaglianza. Ciò che dovrebbe bastare, alla sinistra italiana, per superare ubbie e imbarazzi residui. E che dovrebbe convincere ciascuno di noi del nostro dovere a intrometterci in queste vite degli altri: a scuola, al lavoro, sul pianerottolo, sul bus, ovunque si levi accanto a noi una Saman che rivendica solo il suo diritto all’Italia. “Guardano con odio la mia pelle nera”. La denuncia di Seid ora scuote l’Italia di Stella Cervasio La Repubblica, 6 giugno 2021 La lettera del giovane sportivo, suicida a vent’anni, letta al suo funerale. Voleva diventare un campione per aiutare l’Etiopia, dove era nato. “Cuore fragile” non c’è più. Il ragazzo con i ricci crespi che modellava il pallone come un fantasista di talento - qualcuno lo chiamava “il piccolo Maradona”, ha scelto di andarsene. È rimasto il suo nome su un collage di manifesti listati a lutto davanti alla chiesa di San Giovanni Battista, Nocera Inferiore. Un pugno in faccia, quella sua lettera contro il razzismo, consegnata da un’amica, Alessandra, alla madre perché la leggesse in chiesa, al funerale del ragazzo di origini etiopi adottato da Lena Imperatore e Walter Visin. “Ovunque io vada, ovunque io sia, - scriveva Seid -, ovunque mi trovi sento sulle mie spalle, come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone”. I genitori, che lo adoravano, respingono l’idea che si sentisse discriminato. Seid era bello, intelligente, odiava le ingiustizie e amava il calcio e la vita. Ma ha deciso di farla finita a vent’anni. E quella lettera l’ha scritta, con incredibile lucidità. Raccontando, dicono le “Mamme per la pelle”, l’associazione di genitori di ragazzi di un altro colore, emozioni non molto lontane da quelle dei loro figli. “Fino a Seid non avevano voce, i nostri ragazzi - dice Gabriella Nobile -, ora sì. Le sue sono parole di disperazione, anche se appartengono a un momento diverso”. I discorsi contro gli sbarchi e l’intolleranza che quando non aggredisce, aleggia, hanno colpito comunque. Insieme alle ferite del passato, forse, e alle sofferenze di quest’ultimo anno di pandemia. Al funerale tanti ragazzi come lui. La donna sull’altare, accanto alla bara con le maglie delle giovanili in cui Seid ha militato - Inter, Milan, poi Benevento -, legge con voce rotta dall’emozione le parole scritte tre anni fa e condivise da un’amica nel giorno della morte del ragazzo. Papà Walter non punta il dito contro chi potrebbe aver ispirato a suo figlio quelle parole, anzi, esclude che siano all’origine del suo gesto. Il messaggio di Seid che ora scuote l’Italia - dalla politica allo sport - come un pugno nello stomaco era espressione, secondo lui, di uno stato d’animo legato a un momento che colpì l’intero Paese. E c’è da credergli: Visin è stato dirigente sindacale Uil, le sue lotte contro gli incidenti sul lavoro sono note nel Salernitano. La stessa passione animava Seid, che a neanche 21 anni si sentiva maturo abbastanza per dubitare della felicità promessa dalla carriera che i mister gli facevano intravedere. Aveva detto no a squadre importanti probabilmente perché il sistema, i soldi, il cinismo che spesso si respira in quel settore, non gli piacevano. Lo deduce il padre di un suo amico, Giovanni Marra, che ogni tanto lo portava a fare provini da attore. Da quando non giocava più a calcio, Seid aveva lavorato in un pub, era stato recentemente in Finlandia dalla fidanzata, vincitrice di una borsa di studio. Ma il suo sogno restava lo stesso: i soldi avrebbe voluto farli, ma solo per regalare un nuovo destino ai bambini che avevano sofferto come lui, prima di trovare due genitori meravigliosi. “Voglio tornare in Etiopia e migliorare la vita della mia gente”, diceva. Ma non è facile, per ragazzi come lui, che devono lottare con drammi mai del tutto dimenticati. Seid era stato adottato a 7 anni e uno dei suoi allenatori racconta che le ferite dei conflitti nel suo Paese per lui erano state profonde: il padre, che lo aveva avuto a soli 16 anni, era morto in guerra e il ragazzo aveva perso tragicamente anche la madre, lei pure poco più che una ragazzina. Cicatrici mai rimarginate cui si era aggiunto, a volte, il peso della mancata integrazione: “Qualche mese fa - scriveva nel 2019 - ero riuscito a trovare un lavoro che ho dovuto lasciare perché troppe persone, prevalentemente anziane, si rifiutavano di farsi servire da me e, come se non bastasse, mi attribuivano la responsabilità del fatto che molti giovani italiani (bianchi) non trovassero lavoro”. Seid aeva fatto ricorso all’aiuto di una psicoterapeuta, che su Facebook ha postato un video in cui il ragazzo balla come Michael Jackson per le strade di Roma, sotto lo sguardo dei passanti. E ha aggiunto il messaggio d’addio di Cesare Pavese: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. “Il razzismo non c’entra - dice anche Antonio Francese, l’allenatore dell’Atletico Vitalica, la squadra di calcio a 5 dell’Agro Nocerino Sarese che aveva tesserato Seid prima del Covid -. Non rimpiangeva quel mondo perché aveva capito di essere refrattario alla logica del calcio miliardario. Coltivava anche il teatro e il ballo, ma non trascurava lo studio”. Era tornato dalla Lombardia proprio per prendere il diploma di liceo scientifico. Nello Gaito, presidente della squadra: “Aveva sempre una parola di conforto per gli amici, soprattutto chi restava in panchina. Aderiva a tutti i progetti che portavano i cittadini al centro”. Quegli sguardi che feriscono. Il giovane calciatore suicida di Maria Novella De Luca La Repubblica, 6 giugno 2021 L’Italia è il Paese delle favole al contrario. Dove l’integrazione è una bella storia che dura quanto quei mappamondi di cartoncino appesi nei corridoi delle scuole elementari, in cui bambini di tutte le razze si tengono armoniosamente per mano. La bella storia che le mamme dei bimbi adottati raccontano ai loro figli africani, indiani, cambogiani: “Questo è il tuo Paese, tu sei italiano, la pelle non conta, siamo tutti uguali”. È la bella storia, ancora, che le madri immigrate raccontano ai lori figli di seconda generazione: “Sei nato qui, avrai diritti, sicurezza, cittadinanza”. Poi, alle soglie dell’adolescenza, invece, quella bella favola va in pezzi, il finale si rivela una beffa amara, perché il ragazzino nato o ri-nato in Italia, scopre che la sua pelle nera non è più “esotica”, i suoi ricci afro non più una lanugine da accarezzare con curiosità e condiscendenza “bianca”, ma vuol dire, anche, razzismo, discriminazione, scherno, aggressione fisica, mancanza di diritti. La pelle diventerà quel diaframma che in un Paese sempre più torvamente ripiegato su stesso, grazie alla mitologia salviniana dei porti chiusi e della caccia agli immigrati, gli si imprime addosso come un tatuaggio di diversità. E nei più fragili è allora che qualcosa s’incrina, come in Seid Visin, che ce l’aveva messa tutta per trovare un posto in questa Italia in cui era stato trapiantato, (perché l’adozione è un espianto e poi un trapianto) il calcio, la musica, gli amici, poi, invece, a 20 anni ha mollato, addio, vi lascio, muoio, ciao mondo. Il disvelamento amaro di scoprirsi stranieri e indesiderati, anzi detestati, quando invece si è stati bambini amati e integrati, Seid lo aveva descritto in una drammatica lettera di due anni fa, raccontando lo choc di ritrovarsi oggetto di razzismo, lui, non un immigrato, “ma adottato quando ero piccolo”. “Prima di questo grande flusso migratorio ricordo che tutti mi amavano. Ovunque andassi, ovunque mi trovassi, tutti si rivolgevano a me con grande gioia, rispetto e curiosità”. Eccola la beffa, la favola che si capovolge in inganno. È quello che accade anche ai figli di seconda generazione in un Paese che rifiuta lo Ius soli, ragazzi che non hanno alle spalle lo sradicamento dell’adozione, ma di certo la difficoltà di vivere a cavallo di più culture. A diciotto anni, mentre i loro coetanei si avviano sicuri nell’età adulta, loro si scoprono cittadini di serie B: niente voto, niente accesso ai concorsi, niente eguaglianza. La lettera di Seid, giovane promessa del calcio, è del 2019. Dentro un incolmabile lutto, davanti al corpo del loro ragazzo che veniva dall’Etiopia, i genitori dicono che non è stato il razzismo ad aver spinto Seid a salutare la vita. Bisogna ascoltarli, in silenzio, forse le ferite erano (anche) altre, nessuno sa, nessuno può dire. Il suicidio è un mistero doloroso. Però quella lettera di Seid è comunque un urlo di rabbia e sbatte davanti ai nostri occhi una verità tremenda: non appena un bambino o una bambina con la pelle scura entra nell’età adulta, viene visto come un pericolo, diventa un nemico. Gli sguardi della gente si trasformano in lame di disprezzo, così almeno li sentiva Seid. Bastano una felpa e un paio di jeans stracciati come vuole la moda perché l’adolescente “non bianco”, adottato o straniero di seconda generazione, venga fermato per primo in un gruppo di compagni, perquisito senza motivo, guardato con sospetto in un supermarket. Chi ha la pelle nera sa che il poliziotto prima ancora dei documenti chiederà: “Hai il permesso di soggiorno?”. Come non fosse ancora ipotizzabile che ci siano italiani con una pelle scura o gli occhi a mandorla. E quel milione e trecentomila ragazzi di origine straniera nati qui? Invece basta una minigonna perché a una ragazza “non nera”, che passeggia con coetanee vestite esattamente nello stesso modo, vengano fatte a lei e soltanto a lei proposte offensive e volgarmente sessiste. Seid raccontava l’angoscia di aver creduto di essere italiano e di aver visto, negli occhi degli altri, invece, “un immigrato” con la pelle black, da espellere, da perseguitare. Quanto ci devono far pensare le parole di Seid, verso i nostri figli adottati, verso i nostri figli seconda generazione. Verso tutti quei ragazzi che sbarcano a Lampedusa con la speranza nel cuore e noi non siamo capaci di accogliere. “Tra Libia e Italia non si parla di diritti umani” di Pierfrancesco Majorino* L’Espresso, 6 giugno 2021 Al di là delle frasi di circostanza, dopo l’ultimo vertice non si registra alcuna discontinuità sul destino delle donne e degli uomini (e delle bambine e dei bambini) che cercano di sfidare la via del mare per raggiungere le coste europee. Sarà che quando si tratta di immigrazione sono abituato a non farmi facili illusioni, ma non ho ravvisato alcuna significativa e lodevole novità emergere dal vertice tra il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, e il Capo del governo di unità nazionale libico, Abdulhamid Al Dabaiba. Il vertice ha concluso la serie di incontri del confronto Italia-Libia, quella che si è rivelata certamente un’occasione importante per stabilizzare le relazioni tra i due Paesi (il che è un bene) e per affrontare tematiche cruciali riguardanti i rapporti economico-commerciali. Tuttavia non mi pare di poter affermare che, al di là delle frasi di circostanza, questa tappa abbia registrato una sostanziale discontinuità in relazione alla questione costituita dal destino delle donne e degli uomini (e delle bambine e dei bambini) che cercano di sfidare la via del mare per raggiungere le coste europee. A dirla tutta ancora una volta (poiché il governo Draghi non è ovviamente il primo degli Esecutivi impegnato ad affrontare una materia simile e a Draghi non si possono attribuire le responsabilità del passato) si ha l’impressione di una scarsissima attenzione riposta verso il tema dei diritti umani. Del resto, a tutti i livelli, salvo qualche lodevole eccezione, oramai la preoccupazione è quella di procedere con l’esternalizzazione delle frontiere europee e la difesa dei confini di una fortezza assediata dall’invasione migratoria (il nazionalismo, sul piano culturale, anche a prescindere dai risultati elettorali conseguiti su questo terreno sta stravincendo). Vorrei assistere, sinceramente, ad uno spettacolo diverso. Mi piace pensare che un giorno si possa concludere un confronto di simile livello con ben altre parole. E con un governo italiano capace di sfidare le altre nazioni europee (ancora una volta colpevoli di un immobilismo cinico e incontrovertibile) attraverso alcuni obiettivi: una missione continentale di soccorso, un sistema rivisto di accessi legali all’Europa (l’unica vera arma contro la dimensione della clandestinità), un piano impegnativo per la realizzazione di corridoi umanitari, un’azione tempestiva per svuotare i campi di concentramento libici (vorrei informarvi: sono ancora lì) e per creare nuovi centri temporanei impostati a partire dalle esigenze di garantire il rispetto della dignità della persona. In Libia come, pure, sulla rotta balcanica. Il governo Draghi in Italia e in Europa sta facendo molto per garantire coesione e solidarietà. Sia sul terreno economico e sociale che su quello della salute. Una tale attenzione alla “persona” vorrei vederla pure quando la materia in ballo è quella, piuttosto ostica sul terreno del consenso, migratoria. *Europarlamentare Pd Cuba. Arrestato il rapper dissidente Osorbo: è tra gli artisti del brano record contro il governo adnkronos.com, 6 giugno 2021 È stato arrestato a Cuba il raper dissidente Maykel Castillo, conosciuto come Osorbo. È uno degli artisti che hanno interpretato il brano “Patria y vida”, canzone critica nei confronti del governo locale che è diventato virale raggiungendo le 5 milioni di visualizzazioni su YouTube. Adesso il cantante si trova in detenzione provvisoria con le accuse, tra le altre, di “aggressione e disordine pubblico”. Il portale statale Cubadebate riferisce che le autorità cubane hanno arrestato Osorbo il 18 maggio, e il 31 maggio lo hanno trasferito nel carcere provinciale di Pinar del Ro. Secondo quanto riferito dal ministero, Castillo si trova attualmente in “prigione provvisoria per presunta commissione di vari reati”. Secondo un comunicato del ministero, il provvedimento di arresto è stato emesso con l’accusa di “aggressione, disordine pubblico ed evasione di prigionieri o detenuti, in cui è incorso il 4 aprile 2021”. La conferma è giunta dopo che diversi attivisti e organizzazioni hanno chiesto nei giorni scorsi la liberazione del rapper dissidente. Il ministero sostiene che durante il procedimento “sono state rispettate le garanzie stabilite dalla Costituzione cubana e dal Codice di procedura penale”, e durante questo periodo il detenuto “ha mantenuto una comunicazione telefonica con la sua famiglia, gli amici e il suo avvocato, in particolare con la moglie”. Iraq. Le femministe di Baghdad in rivolta contro patriarcato e fatalismo di Chiara Cruciati Il Manifesto, 6 giugno 2021 L’ultima rivoluzione. Violenze domestiche, discriminazioni e diritti negati. I movimenti delle donne irachene premono per una legge già scritta ma mai approvata per ragioni politiche. “Siamo nel 2021 e leggi tribali non scritte prevalgono ancora su quelle dello Stato” denuncia Batool, aspirante giornalista. A Baghdad, a poca distanza una dall’altra, ci sono due statue: sulla sponda del Tigri c’è Sherazade in piedi che per sopravvivere narra la sua favola lunga mille e una notte al re femminicida, comodamente sdraiato davanti a lei; nel quartiere di Karrada c’è Kahramana, raffigurazione della giovane schiava Marjana che brucia con l’olio bollente i quaranta ladroni nascosti nelle giare. Le femministe della capitale preferiscono la seconda: “È l’intelligenza femminile contro la corruzione. La statua di Sherazade no, è lo specchio del patriarcato”, scherzano. Nella capitale irachena spira aria nuova, soffiata da una lunga tradizione di movimenti femministi che oggi ha trovato una sponda nelle giovani donne che affollano le sue strade. Studiano, lavorano, protestano: in piazza Tahrir erano tantissime e di tutti i tipi, studentesse, venditrici ambulanti, casalinghe, lavoratrici. Per molte quella mobilitazione lunga quasi un anno ha cambiato la prospettiva: “Mi sto liberando un po’ alla volta - racconta Z., 22 anni - In piazza ho sentito che l’utopia che sognavo non era irraggiungibile. C’erano persone che erano interessate a sentire la mia voce. Dopo Tahrir ho cambiato lavoro: mi sono licenziata, vivo sola, ho tolto il velo. Mio padre non sa più dove sono”. “Noi donne veniamo represse - ci spiega Batool, aspirante giornalista - e Baghdad è il meglio del peggio: qui la situazione è molto migliore che altrove. Ma non abbiamo tutele. Le uniche che possono permettersi una vita libera sono le ragazze ricche. Perché possono andarsene”. Stipendi inferiori, tasso di disoccupazione maggiore e zero rifugi sicuri in caso di violenza. Un tasto su cui battono da tempo i movimenti delle donne irachene, che premono per una legge già scritta ma lasciata a decantare per ragioni politiche: “Se una donna fugge dalle violenze domestiche - prosegue Batool - non ha rifugio. Siamo nel 2021 e leggi tribali non scritte prevalgono ancora su quelle dello Stato. E comunque una legge non c’è: è stata redatta ma mai approvata”. La legislazione-fantasma prevede il carcere per abusi su donne e bambini, inserendo una nuova fattispecie di reato nel codice penale, ma il parlamento non la approva, congelato dal veto di alcuni partiti che definiscono la normativa contro la violenza sulle donne un pericolo per la società e per la religione, nonostante l’aumento dei femminicidi durante la pandemia: “In questi mesi alle violenze che sono state denunciate non sono seguiti né arresti né processi né tantomeno protezione per le vittime. Si “risolve” con le leggi tribali, transazioni in denaro indifferenti a cosa vorrebbe la donna”, spiega Sahar Salam di “Al Thawra al-Untha” (La rivoluzione è donna), organizzazione nata dopo la rivolta dell’ottobre 2019 per generare consapevolezza tra le donne rispetto ai propri diritti e agli strumenti di lotta. “Stiamo identificando 120 attiviste in cinque governatorati diversi insieme a Un Ponte Per. Faremo formazione, diversa a seconda della regione perché le esigenze sono differenti, e individueremo le necessità delle donne. Sulla base di queste, decideremo insieme le attività da svolgere”. Esigenze diverse in luoghi diversi perché l’Iraq non è tutto uguale: “Io ho vissuto nel sud e poi nella capitale - continua Sahar - ed è a sud che ho visto la vera condizione della donna irachena. A Baghdad le donne escono da sole, studiano, vestono come desiderano. Nel sud no, a decidere per loro è la famiglia e anche le attività più semplici sono una chimera: uscire, vestirsi, studiare, si fa accompagnate da un uomo o con il suo permesso. Ci sono casi di matrimoni forzati di minorenni e di adolescenti costrette a lasciare la scuola in attesa del marito giusto”. In questo contesto, dice, “parlare di partecipazione politica è fantascienza”. L’obiettivo è fornire modelli di riferimento diversi, che dicano che scegliere liberamente è normale. A sud si combatte contro un sistema radicalmente patriarcale (“Una mentalità così vecchia che le donne stesse hanno finito per considerarla “giusta”)”, a Baghdad le giovani generazioni aprono nuove strade ispirate dal mondo fuori e dalla consapevolezza che “alla base ci sia diseguaglianza di genere”: “Dopo la rivoluzione, l’Iraq è cambiato in modo irreversibile - conclude Sahar - Prima a guidarci era il fatalismo, la rassegnazione. Ora sappiamo che se gridiamo il governo è costretto ad ascoltare anche le donne”. Etiopia. Nel Tigray alla guerra si aggiunge la carestia: “Crimine di fame” di Fabrizio Floris Il Manifesto, 6 giugno 2021 Secondo i dati Onu il 90% della popolazione necessita di aiuti alimentari. E i giornalisti restano nel mirino del governo etiope. In Etiopia elezioni posticipate dal 5 giugno al 21 per permettere a tutti i cittadini di potersi registrare (anche se fissare il voto dopo l’inizio delle piogge potrebbe indicare la volontà di non far partecipare molte persone) con l’esclusione della regione settentrionale del Tigray (il che potrebbe rendere incostituzionale l’intero processo). Si doveva votare inizialmente ad agosto 2020, poi tutto è saltato per la diffusione del Covid. Dal 4 novembre in seguito all’attacco della regione ribelle del Tigray il Paese sembra avvitato su tre questioni che nonostante i proclami non procedono verso una soluzione: la guerra contro il Tplf (con annessa questione delle truppe eritree), gli scontri sul confine nella regione del Benishangul con il Sudan, i problemi umanitari (gli ultimi dati Onu rilevano che nel Tigray il 90% della popolazione necessità di aiuti alimentari) e poi il mancato accordo con Egitto e Sudan sulla Grande Diga del Rinascimento Etiope. Le elezioni vengono “vendute” come la soluzione di tutti i problemi, ma è qualcosa che sta tra l’illusione, l’inganno e la propaganda. Emergono anche astiosità nei confronti dei media: giornalisti arrestati, permessi revocati (vedi corrispondente del New York Times Simon Marks). Secondo gli attivisti dei diritti umani è una campagna deliberata messa in atto dal premier Abiy Ahmed per sedare la copertura critica del conflitto. “Situazione deludente - secondo Muthoki Mumo, rappresentante per l’Africa subsahariana del Comitato per la protezione dei giornalisti -. Da novembre almeno 10 giornalisti sono stati arrestati in relazione alla loro copertura del conflitto nel Tigray”. Nel Tigray alla guerra si è aggiunta la fame: secondo il sottosegretario generale per gli Affari umanitari Mark Lowcock “il 20% dei 6 milioni di tigrini dopo sette mesi di conflitto affronta una seria penuria di cibo”. L’80% dei raccolti sarebbe stato distrutto e questo secondo alcuni non è solo un effetto indiretto della guerra, ma una scelta deliberata: un “crimine di fame”. Secondo Onu, Usa e Regno unito siamo di fronte a un’imminente carestia su vasta scala nel Tigray. Le Nazioni unite avvertono il rischio del ripetersi della devastante carestia del 1984 in Etiopia e chiedono un immediato cessate il fuoco nel Tigray. Secondo il governo etiope sono stati consegnati aiuti alimentari a 4,5 milioni di persone, ma vi sarebbe una carenza significativa sulla parte non alimentare degli aiuti. Sulla questione è intervenuto il presidente degli Stati uniti Joe Biden che oltre a ribadire la richiesta del ritiro delle forze eritree e amhara dalla regione etiope del Tigray ha affermato che “deve essere garantito l’accesso umanitario immediato”. Biden ha anche sostenuto che nel Tigray si stanno verificando violazioni dei diritti umani su larga scala, tra cui “violenza sessuale diffusa”. Secondo Europe External Programme with Africa and Europe External Policy Advisors (EEPA) oltre agli abusi sessuali “nel corpo delle donne verrebbero immesse pietre, sabbia e metalli per renderle sterili”. Il ritiro dei militari eritrei (la cui presenza è stata per mesi negata) è stato annunciato più volte, ma dal 2 giugno secondo la rete Arbi Harnet due divisioni avrebbero iniziato a lasciare effettivamente il Tigray. Alle parole di Biden ha fatto seguito una manifestazione anti-Usa nelle strade di Addis Abeba a cui hanno partecipato più di 10 mila persone. Con cartelli critici nei confronti degli Stati uniti e altri di esplicito sostegno al presidente russo Vladimir Putin e al leader cinese Xi Jinping. Ma per il portavoce del ministero degli Esteri Dina Mufti l’Etiopia non è disposta a tornare all’era della Guerra Fredda, con i paesi allineati in due blocchi polarizzati: “Aspiriamo a stringere relazioni con i Paesi di ogni angolo del globo purché soddisfino l’interesse nazionale dell’Etiopia”. Le geometrie variabili della diplomazia rischiano di avere tanti partner e nessun amico. Se l’Afghanistan fa paura a Pechino di Maurizio Molinari La Repubblica, 6 giugno 2021 Dopo la decisione del presidente americano Joe Biden di porre fine alla ventennale missione militare in Afghanistan entro il prossimo 11 settembre, i taleban sono convinti di poterlo riconquistare in fretta e questa volta è la Cina a temere di più l’instabilità cronica della nazione che ingoia gli imperi. Stati Uniti e Nato lasciano l’Afghanistan, i taleban sono convinti di poterlo riconquistare in fretta e questa volta è la Cina a temere di più l’instabilità cronica della nazione che ingoia gli imperi. È la decisione del presidente americano Joe Biden di porre fine alla ventennale missione militare in Afghanistan entro il prossimo 11 settembre - anniversario degli attacchi di Al Qaeda contro Washington e New York nel 2001 - a riproporre lo scenario di Kabul genesi e teatro di nuovi temibili conflitti. Il passo di Biden ha innescato un ritiro accelerato delle rimanenti truppe Usa e Nato, italiani inclusi, e quando l’ultimo reparto avrà lasciato l’Afghanistan - forse già il 4 luglio - la sorte del governo guidato da Ashraf Ghani dipenderà solo e unicamente da un esercito di 300 mila effettivi addestrato e armato dalla Nato. Sulla carta è una forza militare che non ha rivali locali in grado di sfidarlo e, inoltre, può contare sul sostegno di una popolazione - per tre quarti sotto i 30 anni - in gran parte nata e cresciuta dopo la caduta del regime medievale dei talebani del Mullah Omar nell’ottobre del 2001. Ma la verità sul terreno, come ammette l’inviato Usa Ross Wilson, è che “i gruppi jihadisti rimangono una potente forza in Afghanistan” come conferma il fatto che i taleban, sostenuti da ciò che resta di Al Qaeda, assediano la città di Kandahar e controllano vaste aree di territorio. Per non parlare del sanguinario Stato Islamico (Isis), con la roccaforte a Nangarhar, autore del recente feroce assalto a una scuola femminile nonché intenzionato a conquistare Kabul per far risorgere in tempo record “l’Emirato della Jihad” crollato nel 2017 a Raqqa e Mosul. La previsione de “l’Afghanistan Study Group” del Congresso Usa è che i taleban - autori di continui attacchi contro civili e militari afghani - possano rientrare a Kabul in un periodo compreso “fra 18 mesi e 36 mesi”, polverizzando uno Stato musulmano moderno il cui maggior risultato è stato garantire l’istruzione pubblica alle donne. Come riassume Kenneth McKenzie, capo del CentCom del Pentagono, “l’esercito afghano senza il sostegno Usa è destinato al sicuro collasso”. Ciò significa che i mujaheddin jihadisti dopo aver obbligato l’Urss ad abbandonare l’Afghanistan nel 1989 oggi possono parlare di una nuova “vittoria” davanti alla conclusione della più lunga guerra della Nato, pur non avendo mai potuto sfidarla militarmente sul terreno. Ai loro occhi si tratta della riaffermazione della validità del pensiero di Osama bin Laden sulla superiorità jihadista nei confronti dell’Occidente “perché voi avete gli orologi - come disse in un’intervista - e noi il tempo”. Bin Laden è stato eliminato dalle truppe speciali Usa ad Abbottabad, Pakistan, nel 2011 e del suo network di morte resta assai poco ma quanto sta maturando a Kabul consente ad Al Qaeda di sognare il riscatto. Anche perché sul lato pakistano del confine i miliziani del “Tehreek-e-Taliban” restano pericolosi. Per questo l’ex Segretario di Stato Hillary Clinton teme “enormi conseguenze” dal ritiro Usa ovvero “la ripresa delle attività dei terroristi islamici” e “una nuova guerra civile con milioni di profughi afghani in fuga”. Anche Condoleezza Rice, consigliere nazionale di George W. Bush quando decise l’intervento, vede il rischio del “ritorno del terrorismo” perché i taleban oltre a rivendicare come “una vittoria” il ritiro della Nato si affretteranno a ricostruire il network che partorì il piano per l’attacco all’America. Ciò significa che i gruppi jihadisti, le cui roccaforti sono oggi nel Sahel, in Somalia e Yemen, potrebbero presto tornare a insediarsi sulle montagne afghane. È uno scenario da brividi che la Casa Bianca prova a esorcizzare esprimendo fiducia nella capacità del nuovo Stato afghano di “stare in piedi da solo” ma i taleban già pregustano la vittoria sul “più arrogante degli imperi” come lo definisce il loro vice comandante, Sirajuddin Haqqani. E al loro fianco hanno il tacito avallo dei militari di Islamabad, che non hanno mai cessato di foraggiarli. Pechino guarda tutto ciò con un misto di interesse e preoccupazione: da un lato è infatti l’alleato chiave di Islamabad in Asia - contro il rivale di New Delhi - ma al tempo stesso teme che l’Afghanistan jihadista possa sfuggire ancora una volta di mano e destabilizzare il confinante Xinjiang, la provincia cinese a maggioranza musulmana dove vogliono insediarsi le cellule separatiste del “Movimento islamico del Turkestan Orientale”. La Cina ha già iniziato a operare in Afghanistan, con il ministro degli Esteri Wang Yi, triangolando con il Pakistan per trasformare Kabul in un tassello della nuova Via della Seta - la “Belt and Road Initiative” - destinata a unire il mercato di Pechino con l’Europa Occidentale attraverso l’Asia centrale. È difficile prevedere se Pechino riuscirà a imporre la propria influenza economica o dovrà difendersi dalle infiltrazioni jihadiste attraverso il corridoio di Wakhan - creato nel 1893 per segnare il confine fra impero russo e impero britannico - ma il bivio fra questi scenari lascia intendere la pericolosità della partita che sta per aprirsi. Come se non bastasse c’è anche l’ombra di Recep Tayyip Erdogan che si staglia sul ritiro della Nato. Ankara ha siglato con l’Alleanza un accordo che la trasforma nel gestore dell’aeroporto internazionale di Kabul, considera l’Afghanistan un tassello dell’Asia Centrale a cui è legata da radici antiche e punta a farlo entrare nel “Consiglio turkico” creato nel 2009 su iniziativa del presidente kazako Nursultan Nazarbajev per riunire tutte le nazioni asiatiche con legami culturali ed economici con la Turchia ovvero Uzbekistan, Azerbaijan, Kyrgyzstan e lo stesso Kazakistan. La recente campagna militare azera vinta in Nagorno Karabakh contro l’Armenia grazie agli armamenti turchi ha dimostrato con quanta determinazione Erdogan vuole consolidare l’influenza neo-ottomana in Asia Centrale. E proprio i legami con le tribù uzbeke e tagike - presenti nel settentrione afghano - lo trasformano nel più importante partner della possibile riedizione de “l’Alleanza del Nord” che si opponeva ai taleban anche nel 2001 e sostenne l’intervento Usa deciso dal presidente Bush. Ciò significa che se i talebani, di etnia pashtun, andranno verso il Pakistan (e Pechino), tagiki e uzbeki potrebbero invece guardare ad Ankara, impegnata nell’ambizioso tentativo di trasformare l’Asia Centrale in una sua regione cuscinetto fra Cina e Russia. Con la maggioranza etnica Hazara stretta nel mezzo. Come se non bastasse, il ritiro Usa e Nato da Kabul spinge l’India di Modi a tornare ad accendere i fari sull’Afghanistan per ostacolare in ogni modo Islamabad, senza dimenticare l’Iran degli ayatollah intenzionato a riprendere il controllo delle porose regioni ai propri instabili confini orientali. Ce ne è abbastanza per dedurre che Kabul sta per tornare, ancora una volta nella storia, a scuotere il mondo.