Carceri, la svolta arriverà grazie alla riforma Cartabia? di Francesco Corbisiero Il Foglio, 5 giugno 2021 L’ennesimo suicidio riaccende i riflettori sulla questione delle condizioni di vita dentro gli istituti di pena italiani. Dove la maggior parte dei detenuti si trovano per aver commesso reati lievi. Le novità sostanziali introdotte dalla riforma della giustizia. Ogni tanto il silenzio sulle condizioni di vita all’interno delle carceri italiane viene interrotto dal tonfo di un corpo che cade in terra per non rialzarsi più. L’ultimo caso risale a una settimana fa, quando un 25enne è stato ritrovato senza vita nel carcere di Poggioreale, a Napoli. Si trovava nel padiglione Salerno per lesioni, ma aveva fatto tappa a Firenze e Roma in reparti dedicati alla reclusione delle persone tossicodipendenti. Al momento, si tratta del terzo detenuto suicida in Campania dall’inizio del 2021, ma il problema assume contorni ancora più gravi se si osservano le statistiche nell’arco di dodici mesi elaborate da Antigone, associazione che si occupa dei diritti e delle garanzie nel sistema penale: nel 2020, su scala nazionale, trentaquattro, tra detenuti e personale di polizia, hanno lasciato i luoghi di detenzione nel peggiore dei modi. Decisioni così drammatiche non sono frutto di una libera scelta. Maturano soprattutto a causa degli effetti delle condizioni croniche di sovraffollamento vissute dagli istituti di pena: spazi angusti per un numero eccessivo di abitanti. “Tenga presente che la struttura penitenziaria italiana ha una capienza massima di circa 40mila posti - spiega al Foglio Mauro Palma, garante nazionale dei diritti dei detenuti - mentre la popolazione attuale ammonta a circa 52mila persone. Un’altra questione, meno evidente, riguarda i reati per cui si finisce in carcere: nella maggior parte dei casi questa gente si trova a scontare pene inferiori a un anno”. Non basta: carenza di medici, psicologi, educatori e agenti rendono complicati i controlli di sicurezza, oltre a mettere a rischio il percorso stesso di riabilitazione e rientro in società. In un contesto simile diventa impossibile reinserire. “In fondo, tutti nutrono un’unica grande paura: quella di tornare in libertà e ritrovarsi al punto di partenza, nelle stesse condizioni che li hanno portati a delinquere”. L’amministrazione della giustizia, finora, non sembra averli aiutati granché. Novità sostanziali arrivano dal testo della riforma della giustizia proposta dal ministro Marta Cartabia, ora al vaglio delle commissioni parlamentari di Camera e Senato. Il riassetto complessivo del sistema non trascura l’ordinamento penitenziario e viaggia su un doppio binario: costruire più strutture e diminuire il numero di reati per cui si ricorre al carcere. Così, se da un lato è previsto uno stanziamento di fondi pari a circa 425 milioni, dall’altro viene ampliata la possibilità di utilizzo di misure alternative, a sanzioni e pene pecuniarie e alla non punibilità per illeciti più lievi. Più il ripristino della prescrizione. “La direzione è quella giusta” acconsente Riccardo Polidoro, componente dell’Osservatorio carcere dell’Unione camere penali “perché si ritorna al rispetto dei principi costituzionali e delle direttive europee. E al carcere come extrema ratio, contrariamente al parere del precedente guardasigilli”. Sorge un unico dubbio: una riforma così attenta alle garanzie del reo non rischia di affondare le radici nel terreno deteriorato di un’opinione pubblica con la bava alla bocca? “Servirà il contributo dell’informazione, oggi, in troppi casi interessata solo a sbattere il mostro in prima pagina”. E continua ricordando che “gli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni in Italia sono circa mille all’anno” per le quali “si spendono in media circa trenta milioni di euro all’anno in risarcimenti”. Il riferimento è anche alla sentenza con cui, nel 2013, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia a pagare cento milioni di euro a sette ex detenuti per “trattamenti inumani e degradanti” subiti nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza. Pure la politica sembra favorevole ai cambiamenti in fase d'introduzione. Con riserva, se si parla con Riccardo Magi, deputato di Più Europa: “Trovo incompleto un dibattito sulla riforma della giustizia che non si soffermi sulle ragioni che portano una persona in carcere”. Ossia? “Il testo unico sugli stupefacenti: un terzo dei detenuti si trova dietro le sbarre in violazione di quelle norme. Andrebbe riformato” osserva. I dati contenuti nell’ultimo report di Antigone confermano quanto afferma l’ex segretario dei Radicali italiani: ammontano a circa 19mila persone. Nonostante ciò, appare complicato che un governo tecnico e una maggioranza di larghe intese mettano mano a un tema così controverso. “Certo, ma questo non impedisce al Parlamento di cominciare a discuterne”. Proposta di legge del M5S per il nuovo “ergastolo a vita” di Davide Manlio Ruffolo La Notizia, 5 giugno 2021 Dopo la bocciatura dell’ergastolo ostativo da parte della Corte Costituzionale, i giudici hanno dato un anno di tempo al Parlamento per risolvere i nodi che ne hanno decretato l’illegittimità. Peccato che ad oggi solo il M5S ha risposto affermativamente all’appello della Consulta, presentando una proposta di legge (primo firmatario Vittorio Ferraresi) alla Camera, a fronte dell’inerzia di tutti gli altri partiti che sembrano interessarsi della questione soltanto a parole. Con un testo diviso in appena quattro pagine e incentrato su due soli articoli, i 5S gettano le basi per un nuovo ergastolo che fissa paletti stringenti per la concessione dei benefici. Come si legge nel primo articolo “i benefici possono essere concessi ai detenuti e agli internati anche in assenza di collaborazione purché il condannato dimostri l’integrale adempimento delle obbligazioni civili (i risarcimenti, ndr) derivanti dal reato o la sua assoluta impossibilità” nel farlo “e fornisca elementi concreti, ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo, che consentono di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”. Ma c’è di più perché prima di disporre gli eventuali benefici viene espressamente richiesto un parere, obbligatorio, dalla Direzione distrettuale antimafia e dal procuratore nazionale antimafia che potrà meglio definire il singolo caso. Nel secondo articolo, invece, si prevede una “delega al Governo in materia di accentramento” per le valutazioni dell’accesso ai benefici da istituire presso il Tribunale di sorveglianza di Roma in “una sezione dedicata” e con “un contestuale adeguamento della pianta organica”. Decisioni che, si legge nel testo, i giudici dovranno “sempre prendere collegialmente”. “Ci auguriamo che all’indignazione e alla preoccupazione che in molti hanno manifestato per la scarcerazione di Brusca faccia seguito un impegno concreto per la rapida approvazione della nostra proposta di legge sull’Ergastolo ostativo” affermato, in una nota, le deputate e dai deputati del Movimento 5 Stelle in commissione Giustizia. “Il disegno di legge che abbiamo presentato - aggiungono i parlamentari M5S riferendosi alla proposta Ferraresi - è stato pensato per rispondere alle istanze della Corte Costituzionale, con l’obiettivo di intervenire sulla normativa vigente senza indebolirla e, anzi, potenziandone l’efficacia. L’auspicio è che tutte le forze politiche vogliano cogliere l’opportunità di dare un contributo positivo al dibattito e alla lotta contro la criminalità organizzata”. “Senza ergastolo ostativo si realizza il papello di Riina” di Carmine Gazzanni La Notizia, 5 giugno 2021 Parla il deputato M5S, D’Ippolito: “Certa politica non capisce nulla di lotta alla mafia”. Un post su Facebook in cui il messaggio è più che chiaro: “Nessun passo indietro sulla lotta alla mafia”. Così il deputato del Movimento cinque stelle, l’avvocato Pino D’Ippolito, ha risposto alle dichiarazioni lanciate, tra gli altri, da Matteo Salvini sulla necessità di rivedere la legge sul pentitismo dopo il caso Brusca. “Noi siamo il Movimento 5 stelle. Abbiamo una storia molto chiara. Siamo sempre stati vicini ai movimenti legalitari, penso alle Agende Rosse di Salvatore Borsellino, attivi per la verità e la giustizia sulla cosiddetta Trattativa, cioè quel patto infernale, tra Cosa nostra e pezzi deviati dello Stato, finalizzato a favorire l’azione della mafia”, spiega intervistato da La Notizia. Dunque, per l’appunto, nessun passo indietro? Non possiamo snaturarci né cedere ai tentativi di annacquare la legislazione antimafia, voluta molto da Giovanni Falcone e poi ripresa nell’insegnamento universitario di un penalista di primissimo ordine: Federico Stella. Le organizzazioni criminali si smantellano con il contributo determinante dei pentiti. E si sconfiggono con l’ergastolo ostativo, che è un’arma potentissima. Con il mutismo politico di oggi, si rischia di mandare tutto all’aria, se non si interviene con coscienza, coraggio e competenza sul tema della lotta alle mafie, ormai finito abbastanza nel dimenticatoio, nonostante l’impegno e l’esposizione di magistrati come Nicola Gratteri, Giovanni Bombardieri, Pierpaolo Bruni. Il punto è chiaro: mafiosi, ’ndranghetisti e camorristi non possono essere trattati come criminali comuni. A crimini speciali devono corrispondere misure speciali. Nella confusione generale, temo che possa passare un altro pezzo del “papello”, cioè l’abolizione dell’ergastolo ostativo. Non crede sia paradossale? C’è chi dice stop all’ergastolo ostativo e poi però chiede anche di rivedere la legge sul pentitismo. Il risultato sarebbe potenzialmente mafiosi a piede libero… È il doppiopesismo di certa politica, che non capisce un tubo di lotta alle mafie o che fa finta di non intendere il punto. Non possiamo permettere che il lavoro e il sacrificio di uomini come Falcone e Borsellino venga cancellato con un colpo di spugna. Sarebbe la resa, la sconfitta definitiva dello Stato Io vengo da una regione, la Calabria, in cui esiste un forte controllo del territorio da parte della ’ndrangheta. Ne conosco bene la capacità di creare rapporti di sangue, di infiltrarsi e di dominare il mercato, l’economia e la vita pubblica. So bene quanto la ’ndrangheta riesca a condizionare le elezioni, l’informazione e perfino i poteri pubblici, come è emerso anche di recente. Un ritorno dei criminali sui territori sarebbe terribile. Salvini chiede di rivedere la legge sui pentiti. Che cosa gli risponde? Al netto della retorica, peraltro senza contraddittorio, che usa nel ricordare i mafiosi arrestati dalle forze dell’ordine quando era ministro, a Salvini non importa del problema dell’antistato. Diversamente non avrebbe simili posizioni. Ricordo al leader della Lega che il minimo edittale del 416-bis, che dispone in materia di associazioni di tipo mafioso formate da tre o più persone, è perfino ridicolo. Inoltre i delitti aggravati dal metodo mafioso accedono agli sconti di pena. Salvini vuole ammettere o no che è in atto un tentativo di disarticolare la legislazione antimafia in via definitiva? E nel merito vuole continuare a fare l’istrione? Capisce o no che lo Stato deve indurre i mafiosi a collaborare e deve usare il pugno durissimo verso quelli che non vogliono pentirsi? Crede che dalla destra sia l’ennesima mossa propagandistica o crede ci sia anche altro? Che ci sia propaganda è scontato. Ma un pezzo della destra ha anche inchieste in corso sui rapporti tra politica e mafia, come di recente ha rammentato Report, in un servizio su Dell’Utri. Una parte della destra sta cercando di riorganizzarsi, di pensare al dopo Berlusconi, di ricollocarsi nel quadro politico nazionale, decisamente mutato con l’avvento di Draghi. Forza Italia e Lega hanno la necessità di creare un nuovo soggetto politico, marginalizzando Fratelli d’Italia. La destra ha quindi grossi problemi, in questo momento. Soprattutto rispetto alla nascita di Forza Italia. Allora cerca di distrarre e confondere. Draghi traballa sulla giustizia. Come tutti i suoi predecessori di Paolo Delgado Il Dubbio, 5 giugno 2021 Berlusconi, Prodi, Conte. Sono tanti i governi caduti sulla giustizia. E tra referendum e riforme rischia anche l’ex Bce. Perché è caduto il secondo governo di Giuseppe Conte? La risposta, nella stragrande maggioranza dei casi sarebbe che quel governo è caduto perché Renzi ha deciso di togliere la fiducia. Non è del tutto falso ma neppure del tutto vero. Senza i voti di Iv Conte avrebbe potuto proseguire anche sino alla fine della legislatura con un governo di minoranza ed era deciso a farlo. Solo che avrebbe dovuto sacrificare il ministro 5S della Giustizia Bonafede e i 5S misero il veto: meglio le dimissioni del premier che il guardasigilli sfiduciato. Perché fallì il solo tentativo serio di riformare la Costituzione, cioè la Bicamerale presieduta da D'Alema negli anni 90? “Perché Berlusconi si sfilò all'ultimo momento”, recita la ricostruzione addomesticata che ha finito per sostituire quella reale. In realtà, come ha più volte raccontato l'allora relatore Cesare Salvi, quella riforma naufragò perché il partito di D'Alema non se la sentì di sfidare il potere togato e chiese che su tutta la Carta si intervenisse tranne che sulla giustizia. Pretesa ovviamente inaccettabile. Non è tutto qui. Un’inchiesta fiaccò il primo governo Berlusconi rendendo possibile la sua caduta dopo pochi mesi a palazzo Chigi nel 1994. Una raffica di inchieste misero in ginocchio il Cavaliere, ne demolirono l'immagine in Europa e lo costrinsero alle dimissioni nel 2011. Fu un'inchiesta a fornire il casus belli per la caduta del governo Prodi nel 2008. Insomma, in Italia i governi cadono e le riforme falliscono sbattendo sempre sullo stesso scoglio: la Giustizia. Non è troppo strano che sia così. Nel bene e nel male la seconda Repubblica è fondata su un'inchiesta, quella che tra il 1992 e il 1993 distrusse i partiti della precedente Repubblica, Mani Pulite. Che il rapporto tra giustizia e politica abbia finito per essere il vicolo cieco dal quale la Repubblica tenuta a battesimo da Mani Pulite non è mai riuscita a venire fuori era nell'ordine delle cose. La sola via sarebbe stata non mettere al primo posto in agenda la convenienza a breve, ragionare davvero con lungimiranza avendo il coraggio di sfidare l'impopolarità e la forza per non cedere alla tentazione di considerare interesse supremo il danneggiare l'avversario. Quel coraggio e quella forza il Pds-Ds-Pd non la ha mai avuta ed è molto difficile che la abbia anche oggi. La ministra Cartabia lo ha detto ieri chiaramente ma non è una politica ed è proprio ai politici che quel coraggio manca. Stavolta però è possibile che si stia preparando la mano finale. La riforma della giustizia è un obbligo, non più un optional. Che la maggioranza accetti il ricatto dei duri a cinque stelle, che considerano quella bandiera non sacrificabile neppure in parte, è impossibile e comunque non sarebbe ammissibile per la ministra. Di Maio, che di tutti i 5S è l'unica testa davvero politica, ha fiutato l'aria e ha fatto la mossa più dirompente nell'intera storia del Movimento. Ma Conte, a cui sulla carta spetterebbe il compito di guidare il disastrato vascello fuori dalle secche del populismo giustizialista, ha paura di scontentare la base di quello che dovrebbe diventare il suo movimento, teme di consegnarsi nelle mani infide di Di Maio ed è sottoposto al controllo stringente del Fatto, che nel vuoto di potere che si prolunga da mesi, acquista sempre più peso sulla base pentastellata allo sbando. Il Pd, nonostante le suggestioni di Bettini, non osa rompere l'alleanza di fatto con il potere togato sulla quale ha scommesso, molte volte più per paura e convenienza che per convinzione, nell'arco di tutti gli ultimi decenni. Ma i referendum da un lato e l'obbligo della riforma dall'altro costringeranno Letta a prendere una posizione se non chiara e drastica almeno non del tutto acquattata. Andando oltre la dichiarazione con cui ieri Letta ha chiuso ogni spiraglio di confronto: “Il referendum non è la strada che il Pd vuole prendere, il Pd vuole fare la riforma, perché ci fidiamo di Cartabia e Draghi. Noi siamo molto d’accordo sulle loro proposte. Io a Salvini preferisco Cartabia e Draghi”. Sulla riforma della giustizia emergeranno tutte le lacerazioni latenti non solo nella maggioranza ma anche nella sua “ala sinistra” e persino nelle singole componenti di quell'ala, inclusi stavolta i 5S. Sulla giustizia e solo sulla giustizia rischia Draghi e la giustizia e solo la giustizia può essere l'ostacolo fatale nei rapporti tra Pd e 5S. Ma la posta in gioco è altissima, perché senza uscire dal vicolo cieco del rapporto patologico tra politica e giustizia non ci sarà uscita possibile dalla palude degli ultimi decenni. Cartabia spinge la riforma: tra popolo e magistratura fiducia da ricostruire di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 5 giugno 2021 Le proposte del ministero su Csm, nomine e toghe in politica. L’avvertimento di Marta Cartabia suona come un allarme: “Qualcosa si è guastato nel rapporto tra magistratura e popolo, nel cui nome la magistratura esercita la sua attività; occorre urgentemente ricostruirlo”. La ministra della Giustizia ricorda il richiamo del capo dello Stato pronunciato a Palermo nell’anniversario della strage di Capaci (“Le contese, divisioni e polemiche all’interno della magistratura ne minano il prestigio e l’autorevolezza”) e illustra la propria missione: “Le riforme chieste dal ministero sono finalizzate a questo scopo, fiducia e credibilità nei magistrati sono obiettivi che non possiamo mancare”. Davanti ai capigruppo dell’ampia e variegata maggioranza, la Guardasigilli spiega che una giustizia più veloce e efficiente serve non solo a incassare i miliardi del Recovery fund europeo, ma anche a rilegittimare l’ordine giudiziario davanti ai cittadini. Cita parole di Giovanni Falcone - “Autonomia e indipendenza della magistratura, se non coniugate a efficienza del servizio, sono privilegi di casta non compresi dalla società” - e illustrando le proposte della commissione ministeriale sulla riforma del Csm e della valutazione professionale delle toghe ammonisce: “Sicuramente i fatti di cronaca dei mesi più recenti hanno reso improcrastinabili e più urgenti gli interventi”. Fatti di cronaca significa lo scandalo Palamara che ha investito l’organo di autogoverno dei giudici e in particolar modo le nomine decise in base ad accordi trasversali tra correnti e gruppi di potere che coinvolgono anche la politica. Per provare a dare risposte concrete la commissione ministeriale presieduta dal costituzionalista Massimo Luciani ha elaborato un progetto che tocca tutte le principali questioni sul tappeto. Nel tentativo di garantire maggiore trasparenza nella scelta di procuratori e procuratori aggiunti (il cuore del “caso Palamara”), la commissione propone alcune modifiche ai “requisiti per il conferimento di funzioni direttive e semi-direttive”, andando a incidere sia sulle “valutazioni di professionalità” che nella previsione di “puntuali parametri e indicatori attitudinali, suddivisi in generali e specifici, in relazione al posto da ricoprire”. L’obiettivo è evitare una “eccessiva discrezionalità” nelle decisioni del Csm, sia pure senza tornare ad automatismi come la “anzianità senza demerito” che limiterebbero il ruolo del Consiglio. Tuttavia una delle previsioni è proprio che, a parità di valutazioni, prevalga il candidato più anziano. Per il resto sono consigliate alcune pratiche - come il conferimento degli incarichi in ordine cronologico, per evitare le cosiddette “nomine a pacchetto” spartite tra le correnti, o l’obbligo di svolgere audizioni per tutti i candidati, già adottate dal Consiglio con circolari interne, ma dandogli la forza di leggi più difficili da disattendere. Il passaggio dalle funzioni di pm a quelle di giudice, o viceversa, con tutte le restrizioni attuali, non sarebbe possibile più di due volte in carriera (adesso c’è il tetto di quattro). Alcune indicazioni riguardano la composizione e l’elezione del Csm: la commissione suggerisce di tornare a 30 componenti (20 togati e 10 laici), e per le candidature dei magistrati è prevista la raccolta di sole 10 firme, in modo da favorire la presenza di più aspiranti, slegati dalle correnti, in aggiunta a ulteriori accorgimenti sul sistema elettorale. Per altre modifiche considerate importanti (come l’indicazione del vicepresidente da parte del capo dello Stato che presiede il Csm, o il rinnovo parziale ogni due anni) servirebbero invece riforme costituzionali. Sulle toghe che vogliono scendere in politica aumentano le restrizioni: chi decidesse di presentarsi alle elezioni dovrà chiedere l’aspettativa almeno quattro mesi prima, e comunque non potrebbe farlo nel territorio in cui ha lavorato negli ultimi due anni (la candidatura di Catello Maresca a sindaco di Napoli, avanzata dal centrodestra, con queste regole non sarebbe stata possibile); il rientro in ruolo è previsto in regioni diverse e non limitrofe, e solo in organi collegiali. Queste e altre regole, ricorda Cartabia lasciando ai partiti il tempo di analizzare e dibattere le proposte della commissione ministeriale, dovrebbero aiutare la magistratura “ad operare sempre, nei fatti e nella percezione dell’opinione pubblica, su solide basi di indipendenza; un’esigenza che s’è fatta più urgente negli ultimi anni, per tante ragioni”. L’appello di Cartabia: salviamo la magistratura da se stessa di Valentina Stella Il Dubbio, 5 giugno 2021 Il discorso della ministra della Giustizia durante la riunione con i capigruppo di maggioranza della commissione Giustizia di Montecitorio sulla riforma del Csm. Una riforma fondata sui “capisaldi della Costituzione” - indipendenza, esercizio imparziale, efficienza - perché “fiducia e credibilità nei magistrati sono obiettivi che non possiamo mancare”. È l’urgenza manifestata oggi dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia nel discorso che ha aperto la riunione convocata con i capigruppo di maggioranza della commissione Giustizia di Montecitorio. Sul tavolo di via Arenula il lavoro della commissione ministeriale presieduta dal costituzionalista Massimo Luciani per studiare e approfondire percorsi e soluzioni sulla riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. “Il dibattito pubblico e accademico da tempo è maturo - ha aggiunto la guardasigilli - e sicuramente i fatti di cronaca, che hanno riguardato la magistratura nei mesi più recenti, hanno reso improcrastinabili e più urgenti gli interventi in questo ambito”. La ministra, in un discorso più lungo e accorato rispetto a quello tenuto quando furono invece presentati gli esiti della commissione Lattanzi sulla riforma del processo penale, sembra aver voluto anche lanciare un messaggio ai partiti nei giorni delle polemiche nate a seguito della presentazione del pacchetto referendario sulla giustizia promosso dal Partito radicale e dalla Lega: in un momento in cui “occorre urgentemente” ricostruire il “rapporto tra magistratura e popolo, nel cui nome la magistratura esercita”, anche per un “doveroso riconoscimento al lavoro della stragrande maggioranza dei magistrati che si adopera, con professionalità e riserbo, per svolgere una delle funzioni tra le più delicate e complesse e importanti”, le forze di maggioranza non perdano tempo - è anche il senso dell’appello - nel tentativo di rincorrere e superare Matteo Salvini in tema di riforme sulla giustizia. Insomma, la riforma va fatta subito perché è in gioco il buon nome della magistratura sana di questo Paese. E anche perché se il ddl sulle toghe arrivasse tardi, si rischierebbe di eleggere, da qui a un anno, i nuovi componenti del Csm con le regole vecchie. Nel suo discorso Cartabia ha ricordato anche le parole che il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha pronunciato il 23 maggio scorso, a Palermo, in occasione dell’anniversario della strage di Capaci, e ha ribadito come “le riforme che il ministero ha chiesto siano finalizzate allo scopo così accoratamente espresso dal presidente della Repubblica”. Dunque Cartabia ha posto in rilievo “l’unico obiettivo che ci preoccupa di più: l’esigenza che la magistratura operi sempre, nei fatti e nella percezione dell’opinione pubblica, su solide basi di indipendenza. Esigenza sempre più urgente negli ultimi anni per tante ragioni”. La sfiducia dei cittadini, secondo Cartabia, “passa anche per gli insostenibili tempi lunghi della risposta della giustizia”. Quanto all’autonomia e all’indipendenza delle toghe, la ministra - citando la frase di Giovanni Falcone per cui “autonomia e indipendenza della magistratura, che non siano coniugate a efficienza del servizio, sono privilegi di casta e non sono compresi dalla società” - ha evidenziato che “il magistrato deve essere autonomo, indipendente ed efficiente. Il giudice è chiamato a rendere un servizio, a rispondere a problemi sempre brucianti per i cittadini e questo non si può perdere di vista, nel tentativo di migliorare il rapporto di fiducia con i cittadini”. Dopo il confronto con le forze di maggioranza e gli emendamenti presentati in commissione Giustizia della Camera al ddl Bonafede, spetterà ora alla guardasigilli il lavoro di sintesi che porterà alla presentazione dei suoi emendamenti al testo incardinato dal precedente governo, a cui seguiranno gli eventuali sub-emendamenti delle forze politiche. Intanto il Partito democratico è soddisfatto di quanto emerso nella riunione di oggi: “Nell’attesa di leggere i dettagli - ha dichiarato il capogruppo della commissione Giustizia alla Camera, Alfredo Bazoli - fin d’ora si può dire che il lavoro della commissione Luciani sulla riforma del Csm appare estremamente articolato, costruttivo e utile, e può aiutare a rafforzare l’impianto già robusto del disegno di legge all’esame della Camera. In particolare, molto significativi il rafforzamento delle valutazioni di professionalità dei magistrati, la responsabilizzazione dei dirigenti degli uffici sul controllo di performance e attività, il freno al carrierismo con stringenti vincoli al passaggio a nuovi incarichi direttivi, la separazione delle funzioni di fatto”. Il responsabile Giustizia di Azione, Enrico Costa, si compiace invece del fatto che “l’unica proposta sul voto singolo trasferibile per il Csm depositata in Parlamento è quella da noi presentata. Avevamo visto giusto, se la commissione ministeriale la ritiene la più appropriata come sistema elettorale per il Csm”, visto che spezzerebbe il meccanismo delle correnti. Infine, per Eugenio Saitta, capogruppo M5S in commissione, l’incontro con gli esperti nominati dalla ministra è stato “positivo ma interlocutorio”, in attesa del testo definitivo. “Per il momento osserviamo con soddisfazione come sia stato conservato in larga parte l’impianto della riforma messa a punto dall’ex ministro Alfonso Bonafede”. Csm, per Cartabia la riforma è “la più urgente” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 5 giugno 2021 Giustizia. La ministra incontra la maggioranza: “Qualcosa si è rotto nel rapporto tra magistratura e popolo e occorre urgentemente ricostruirlo”. La commissione Luciani presenta le sue proposte: spiragli per il ritorno in magistratura di chi si candida (non piace e Forza Italia e M5S), separazione netta delle funzioni tra giudici e pm. Per Letta i referendum di Salvini e radicali sono “lo strumento sbagliato”. “I fatti di cronaca che hanno riguardato la magistratura nei mesi recenti hanno reso improcrastinabili e più urgenti gli interventi. Qualcosa si è guastato nel rapporto tra magistratura e popolo e occorre urgentemente ricostruirlo”. Così introdotta dalla ministra Marta Cartabia, un’altra riforma della giustizia si apre davanti alla maggioranza. Riguarda questa volta l’ordinamento giudiziario e il Consiglio superiore della magistratura. Cioè il vero tema sollevato dallo scandalo Palamara e dal corto circuito Storari-Davigo con i verbali di Amara. Anche questa riforma è indicata nel Pnrr ma non avrà effetti sulla durata dei processi come quelle dei riti civile e penale. Qui un’intesa è più semplice - o meno difficile. Tanto che ieri la presentazione ai rappresentanti della maggioranza delle proposte dei saggi incaricati dalla ministra Cartabia è scivolata via senza intoppi. Se tutti i partecipanti hanno tenuto a dire che l’incontro è stato “interlocutorio” è solo perché il comitato guidato dal costituzionalista Massimo Luciani non ha ancora condiviso un testo. Si rivedranno. Restano alcuni nodi da sciogliere e allora partiamo da questi. Il primo riguarda il ritorno in magistratura di giudici e pm che hanno svolto un mandato elettivo o di governo. Il testo base all’esame della camera dei deputati, quello firmato dall’ex ministro Bonafede, sbarra la porta: basta un anno in parlamento per “condannare” i magistrati a un “ruolo autonomo” (non meglio precisato) in qualche ministero. Addio toga. Luciani ha spiegato che questa soluzione presenta rischi costituzionali. La sua commissione immagina una porta socchiusa: ritorno possibile ma solo in incarichi collegiali. Restano fermi gli altri limiti già previsti anche per chi si candida ma non viene eletto: per tre anni non potrà fare il gip o il pm e non potrà accedere a incarichi direttivi o semi direttivi. In più i saggi di Cartabia raddoppiano, rispetto al testo base, il periodo di aspettativa che deve precedere la candidatura: non due ma quattro mesi. E resta il divieto di candidarsi nelle sedi dove si è esercitato il mandato negli ultimi due anni, non solo per il parlamento ma anche per la guida di una regione o di un grande comune (niente più casi Maresca a Napoli). La soluzione è comunque rigorosa ma ai 5 Stelle non va bene, forse perché Luciani l’ha così presentata nel (video) incontro di ieri: “Non abbiamo indebolito il rigore del disegno di legge Bonafede, ne abbiamo rovesciato l’impostazione”. Scontenti sul punto anche i rappresentanti di Forza Italia. Non è piaciuto invece al Pd che tra le proposte della commissione Luciani non ci sia quella di limitare le esternazioni dei magistrati inquirenti, vietando le conferenze stampa in cui gli indagati vengono presentati come colpevoli e sostituendole con scarni comunicati stampa. È già previsto” hanno spiegato i saggi, ma i dem non concordano e hanno (non da soli) già presentato un emendamento al testo base. Il Pd invece apprezza che la commissione abbia ripreso due proposte di Luciano Violante (giovedì la ministra ha presentato il suo ultimo libro): l’Alta corte per i giudizi disciplinari sulle toghe (oggi affidati al Csm) - rinviata però a un futuro disegno di legge costituzionale - e la nomina del vice presidente del Csm da parte del presidente dello stesso organo, cioè il presidente della Repubblica (che dovrebbe così scegliere, probabilmente con qualche imbarazzo, tra consiglieri laici votati da differenti forze politiche). Il caso del vicepresidente del Csm condiziona anche una delle scelte più attese, quella sul nuovo sistema elettorale della componente togata del Consiglio. Luciani conferma la sua vecchia opzione per il sistema di voto singolo trasferibile, che in pratica travolge le liste e quindi può penalizzare le correnti. Il recupero delle proposte della commissione Balboni (1996) sarebbe pieno, quindi anche con il voto di metà mandato per rinnovare il 50% del Consiglio, se non fosse che il vicepresidente in carica per tutti i quattro anni complica la soluzione. La commissione suggerisce anche di introdurre “puntuali parametri e indicatori attitudinali” per le valutazioni di professionalità delle toghe e il conferimento degli incarichi direttivi e semi direttivi. Così è già previsto dalla Bonafede, ma non piace però al Csm che in un parere ha rappresentato il rischio di vedersi ridotto a organo burocratico, senza margini di scelta. Una conferma rispetto al testo base è anche quella di consentire solo sue passaggi in carriera tra pm e giudice o viceversa (oggi se ne possono fare quattro), “una separazione di fatto delle funzioni che rende inutile, ove mai fosse ammissibile, il quesito presentato da radicali e Lega come “separazione delle carriere” dice il relatore in commissione della riforma, il Pd Alfredo Bazoli. Contro i referendum sulla giustizia, che invece piacciono a diversi esponenti Pd (Bettini e Marcucci ad esempio) ha parlato ieri il segretario del Pd Letta: “Sono uno strumento sbagliato”. Mentre il radicale di +Europa Riccardo Magi fa notare che il Pd, “invece di dividersi su questi referendum che riguardano aspetti procedurali che non incidono sulle grandi scelte di politica criminale - quelle che decidono chi va in carcere in questo paese - dovrebbe pensare a referendum abrogativi sulle droghe o la Bossi-Fini”. Riforma del Csm. L’attuale modello di autogoverno è nemico dell’indipendenza dei magistrati di Paolo Borgna e Jacopo Rosatelli Il Domani, 5 giugno 2021 Le vicende Palamara e Amara hanno disvelato una verità che era difficile affermare: l’attuale funzionamento del sistema dell’autogoverno non è più un presidio di difesa dell’indipendenza dei magistrati, ma si è trasformato in un nemico dell’indipendenza stessa. Se una delle migliori magistrature, governando se stessa, produce quel che si è visto con il “caso Palamara” e, oggi, con il “caso Amara” c’è evidentemente qualcosa che non va nel sistema dell’autogoverno in sé e per sé. Bisogna cominciare - anzi: ri-cominciare - da due punti: far funzionare meglio il processo penale e rendere meno opaca la vita interna della magistratura, rafforzando la sua indipendenza ma evitando che essa assuma le forme dell’arrogante separatezza. Di fronte al “caso Palamara”, prima, e al “caso Amara”, ora, si registrano le preoccupate reazioni di molte persone intelligenti e in buona fede che mettono in guardia contro “gli attacchi indiscriminati alla magistratura”, paventando un ridimensionamento dell’autogoverno dei giudici. Viene in mente un articolo di Gian Paolo Pansa, che, inviato nel 1963 a Longarone dopo il crollo della diga del Vajont, iniziava la sua cronaca con un incipit divenuto celebre: “Vi scrivo da un paese che non esiste più”. I laudatores temporis acti dell’autogoverno come baluardo dell’indipendenza dei giudici scrivono di un paese celestiale ma non si sono accorti che quel paese non c’è più: è stato spazzato via dal crollo di una diga. Lo diciamo, beninteso, senza alcun compiacimento, perché la situazione è grave e i valori in gioco sono di primaria importanza per la tenuta complessiva del nostro sistema costituzionale. Il funzionamento del sistema - La magistratura deve guardare in faccia la realtà e non arroccarsi, proprio perché occorre difendere il valore dell'autonomia. Le vicende di questi ultimi due anni hanno disvelato una verità che molti già avevano compreso, ma che era difficile affermare: l’attuale funzionamento del sistema dell’autogoverno (non l’autogoverno dei sogni, ma “l’autogoverno reale”) non è più un presidio di difesa dell’indipendenza dei magistrati, ma si è trasformato in un nemico dell’indipendenza stessa. Difendere questo modello di autogoverno significa lavorare contro l’indipendenza, perché significa lasciare ai suoi avversari non solo l'iniziativa per le necessarie riforme, ma soprattutto “la narrazione” che poi penetra nell'opinione pubblica. Le correnti hanno condotto alla degenerazione dell’autogoverno non perché troppo “politicizzate”, come dice la vulgata. Al contrario: perché hanno smarrito, nei decenni, il loro contenuto ideale (cioè di idee diverse e in confronto fra loro) e sono rimaste vuote crisalidi, mere strutture di istanze clientelari. Ora - va riconosciuto - alcune di esse stanno provando a fare i conti con gli errori commessi, avviando un percorso di cambiamento: bene, perché c'è bisogno di corpi intermedi, sani, che sappiano articolare il dibattito fra legittime visioni diverse di politica della giurisdizione. Uomini come Calamandrei, Mortati, Leone non scrissero gli articoli 101-110 della Costituzione per creare un sistema in cui le nomine dei dirigenti potessero essere trattate con frasi tipo “che c***o li piazziamo a fare i nostri?”. O in cui i custodi della deontologia dei magistrati si affannassero a cercare biglietti dello stadio per i propri figliuoli. Una delle migliori magistrature del mondo - Diciamo, tutti, da sempre: la magistratura italiana è una delle migliori del mondo come preparazione tecnica e capacità di indagine. Ma questa constatazione è diventata un’aggravante: perché se una delle migliori magistrature, governando se stessa, produce quel che si è visto con il “caso Palamara” e, oggi, con il “caso Amara” c’è evidentemente qualcosa che non va nel sistema dell’autogoverno in sé e per sé. E se la reazione a questi scandali è stata così balbettante (tanto che il presidente della Repubblica ha parlato di una “magistratura china su se stessa”) ciò significa che da questa crisi culturale la magistratura non può uscire da sola perché oggi non ne ha la forza morale. Ricostruire la trama di una nuova fiducia dei cittadini verso la giustizia è un’impresa per cui servono tempo e pazienza. Bisogna cominciare - anzi: ri-cominciare - da due punti: far funzionare meglio il processo penale e rendere meno opaca la vita interna della magistratura, rafforzando la sua indipendenza ma evitando che essa assuma le forme dell’arrogante separatezza. Due piani di intervento diversi ma collegati, perché la fiducia dei cittadini si nutre sia tramite il buon funzionamento ordinario dei palazzi di giustizia, sia attraverso la riconquista dell'autorevolezza del Consiglio superiore. Le riforme - È possibile, in questa direzione, raggiungere risultati importanti in tempi brevi? Tutti auspichiamo che la capacità e autorevolezza della Guardasigilli Marta Cartabia consenta di ottenere sia pur piccoli risultati che (anche agli occhi dell’Europa) segnino un’inversione di tendenza, soprattutto sulla durata dei processi. Ma è abbastanza chiaro che il breve tempo residuo di questa legislatura e la diversità di orientamento di alcune delle forze politiche che sostengono il governo costituiscono una gabbia stretta che impedisce la lunga marcia riformatrice di cui abbiamo bisogno. Questa marcia deve essere sostenuta da una riflessione culturale svincolata dalle contingenze della politica e dagli interessi personali, come invece spesso è accaduto nei decenni scorsi e rischia di accadere ancora oggi. Questa elaborazione deve vedere protagonisti i magistrati, ma certamente non può riguardare solo loro: giudici e pm sono chiamati ad aprirsi a un confronto vero con “il punto di vista esterno” senza mettersi sulla difensiva e ritenere che ogni proposta di cambiamento sia per definizione un attacco alla loro indipendenza e autonomia. Il nostro libro-dialogo, appena uscito in libreria, Una fragile indipendenza. Conversazione intorno alla magistratura (Edizioni SEB27) vuole contribuire a questo confronto. La magistratura italiana di oggi è ricca di donne e uomini straordinariamente preparati, che hanno superato, per il loro ingresso nella professione, prove molto selettive; che continuano a studiare e ad aggiornarsi; che dedicano al lavoro un impegno intenso e appassionato, spesso lavorando anche la sera e nei giorni di ferie. E che hanno subito il malaffare e le pratiche clientelari, che hanno indelebilmente sfregiato il principio dell’autogoverno, come un’offesa alla loro dedizione, alla loro onestà, al proprio limpido agire quotidiano. Ma la loro intelligenza, il loro entusiasmo e la loro forza, per creare un movimento capace di modificare lo stato di cose presente, hanno bisogno di incontrare e di fare forza comune con la sensibilità e le intelligenze esterne alla corporazione. A ciò si può arrivare aprendo una nuova stagione di dialogo tra avvocati, magistrati ed università, che sappia fondere l’esperienza sul campo delle prime due categorie con la sapiente e più distaccata riflessione dell’accademia. È un’opera lunga. Ma non ha alternative. “Referendum? Preferiamo le riforme: sono concrete e vedranno la luce prima” di Simona Musco Il Dubbio, 5 giugno 2021 Parla Anna Rossomando, vicepresidente dem del Senato, che al Dubbio spiega gli emendamenti alla riforma del Csm depositati ieri e raccoglie la proposta di Goffredo Bettini laddove afferma di non lasciare i temi del garantismo in mano al Carroccio. Le riforme in Parlamento, che sono “coraggiose e concrete”, arriveranno ben prima che si possa votare il referendum voluto da Radicali e Lega, mentre i quesiti referendari sono “piuttosto confusi su alcuni punti”. È questa l’idea di Anna Rossomando, vicepresidente dem del Senato, che al Dubbio spiega gli emendamenti alla riforma del Csm depositati ieri e raccoglie la proposta di Goffredo Bettini laddove afferma di non lasciare i temi del garantismo in mano al Carroccio. “Sono d’accordo: occorre aprire una discussione franca e sincera su cosa è stato il dibattito sulla giustizia - spiega - ma questi referendum non aiutano questa discussione”. Qual è l’idea del Pd per cambiare volto al Csm? Partiamo dal fatto che la riforma della legge elettorale è una parte e non la più significativa, vogliamo rafforzare i principi costituzionali dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. Se vogliamo contrastare gli effetti negativi e deplorevoli del correntismo e di una lotta del potere per il potere bisogna fare alcune modifiche. Innanzitutto bisogna dire stop alle nomine a pacchetto per i dirigenti degli uffici: devono avvenire in un rigoroso ordine cronologico e magari vanno decise anche due mesi prima della scadenza. Poi proponiamo che tra i criteri di valutazione della professionalità dei magistrati, sia pm sia giudicanti, si introduca anche il parametro delle smentite processuali delle ipotesi accusatorie. Naturalmente parliamo di dati macroscopici: bisogna salvaguardare, come elemento di democrazia liberale e di garantismo, il fatto che possano essere fatte delle inchieste anche considerate ‘ difficili’. Tale emendamento va collegato al fatto che nella riforma del processo penale proponiamo, tra i criteri in base ai quali il pm deve chiedere l’archiviazione, di non chiedere il rinvio a giudizio se non c’è una ragionevole certezza di ottenere una condanna. Che ruolo giocheranno gli avvocati nei Consigli giudiziari? I nostri emendamenti chiedono che avvocati e professori presenti nei Consigli giudiziari abbiano diritto di intervento e di voto sulle deliberazioni che riguardano le valutazioni di professionalità dei magistrati. E che ci sia anche la presenza del presidente del Consiglio dell’Ordine, che è garanzia di autorevolezza e indipendenza, oltre ad avere una veste istituzionale. Inoltre proponiamo che i componenti dell’ufficio studi e i segretari del Csm, che oggi sono nominati solo tra i magistrati, vengano scelti per concorso, aperto anche ai non magistrati. L’aspetto importante è quello di ovviare a un sistema che rischia di essere troppo chiuso. L’elezione dei componenti del plenum come dovrebbe avvenire? A Costituzione invariata possiamo prevedere che il plenum non venga eletto tutto insieme, ma modularmente: l’articolo 104 della Costituzione non parla dell’intero organismo, ma dei componenti. Il vantaggio sarebbe quello di impedire che ci si irrigidisca su accordi precostituiti. Ovviamente non c’è nessuna soluzione che, presa da sola, risolva. Credo sia necessario ritrovare una spinta ideale ed etica. Un conto sono il correntismo e i suoi effetti degenerativi, un altro il pluralismo delle idee. Ho l’impressione che in quest’ultimo periodo sia mancato quel dibattito vivace che è sempre stato foriero di passi in avanti. Importante, per noi, è anche favorire la parità di genere: proponiamo che, nel caso ci siano due preferenze, siano necessariamente di sesso diverso. Qual è la proposta per quanto riguarda la legge elettorale? L’importante è trovare un equilibrio tra la rappresentanza territoriale e il pluralismo delle idee. Pensiamo a 13 collegi uninominali per i giudicanti e cinque per i requirenti, poi un unico collegio per i magistrati delle funzioni di legittimità, senza alterare l’equilibrio numerico tra funzioni. E si esclude il sorteggio: sarebbe come alzare le mani e arrendersi. Tra i problemi sollevati negli ultimi tempi c’è anche quello della spettacolarizzazione delle inchieste. Che soluzioni proponete? Lo stop alle conferenze stampa e il passaggio a una comunicazione sobria da parte dei dirigenti degli uffici, come peraltro avviene già in diverse procure. Riteniamo giusto che l’opinione pubblica venga informata, ma deve essere fatto evitando la spettacolarizzazione. È prevista quale modifica per i procedimenti disciplinari? C’è un’idea a cui teniamo molto, ma va attuata attraverso una legge costituzionale. Depositeremo la prossima settimana una proposta per l’istituzione di un’Alta Corte, competente in grado d’appello, per i giudizi sul disciplinare per tutte le magistrature, ordinaria, amministrativa e contabile. Credo che sia coerente con quello che già è contenuto nella riforma. Il modello di riferimento è quello della Corte costituzionale e auspichiamo che ci sia la convergenza di tutte le forze politiche presenti in Parlamento. I Radicali, assieme alla Lega, hanno presentato un quesito referendario sulla separazione delle carriere. È un progetto che il Pd intende abbracciare? Si tratterebbe, intanto, di una legge costituzionale. Il referendum in realtà non prevede la separazione delle carriere, ma abolisce tutta la normativa sulla separazione delle funzioni. Non è un tabù parlarne, ma moltiplicare i Csm non è la risposta più adeguata all’eccessivo protagonismo delle procure. Il tema va affrontato, ma bisogna valutare quale sia lo strumento più adeguato. Il problema che molti pongono è l’appiattimento dei giudici sulle tesi dei pm... Questo tema c’è, alcune norme sono già nella riforma del processo penale. È lo stesso punto che affrontiamo con lo scoraggiamento del processo mediatico, perché noi pensiamo che i processi debbano svolgersi nei tribunali, con tutte le garanzie. E nelle riforme che stiamo facendo le garanzie ci sono, come ad esempio con il controllo del giudice sulle iscrizioni sul registro delle notizie di reato. Sicuramente il referendum non sposta di molto la questione, da questo punto di vista. Bettini ha esortato la sinistra a riflettere sull’opportunità di non lasciare la battaglia garantista alla Lega. Raccogliete questo invito? Le riforme verranno approvate prima dell’estate. Il referendum, invece, ha tempi più lunghi: i quesiti devono essere valutati dalla Cassazione, poi dalla Corte costituzionale, infine si indice il referendum. Le riforme sono molto più nette e chiare di questi quesiti: alcuni sono confusi, altri riguardano cose già previste dai nostri emendamenti, come quello del ruolo degli avvocati nei Consigli giudiziari. Inoltre mi sembra una sfiducia al ruolo del Parlamento e anche una delegittimazione del ruolo delle Commissioni volute da Cartabia. Bettini ha detto una cosa, però, su cui sono d’accordo: occorre aprire una discussione franca e sincera su cosa è stato il dibattito sulla giustizia di questi ultimi 20 anni ed è giusto che la sinistra faccia questa discussione. Il presupposto è superare le contrapposizioni e il conflitto per il conflitto sulla giustizia. E adesso siamo nelle condizioni per farlo, con uno strumento in più: le risorse economiche, che non è cosa da poco. E anche un clima diverso in Parlamento. Mi risulta inspiegabile come la Lega preferisca altre strade. Ovviamente il referendum è uno straordinario strumento di democrazia. Non c’è dubbio e lo sarà sempre. Però, visto che parliamo di garantismo, siamo sicuri che sia lo strumento che sta più nella cultura delle garanzie per parlare di riforme della giustizia? Questo lo chiedo ai garantisti, quelli veri. Il referendum prevede anche di limitare il carcere preventivo ai soli reati gravi... Non so se Salvini ha letto bene la proposta: già nella scorsa legislatura avevamo approvato una modifica della custodia cautelare in senso più garantista, la Lega votò contro. Quindi la Lega è sempre quella che dice “bisogna marcire in galera” e che si è sempre smarcata sulla riforma dell’ordinamento penitenziario? Penso che prevalga l’idea propagandistica, la strumentalità. Ma siamo chiamati alla responsabilità in questo momento. C’è una maggioranza composta da forze che la pensano diversamente, ma non si sta discutendo di interventi al ribasso. Io ho massima fiducia nei colleghi della Lega, non capisco perché non ce l’abbia il loro segretario. Il ruolo difficile del pm, tra riflessi mediatici e critiche di Stefano Musolino* Il Domani, 5 giugno 2021 Nei confronti dei pm si passa dalla sua esaltazione alla sua strenua critica. La delicatezza e centralità del ruolo impone, perciò, periodiche verifiche in ordine al modo concreto e diffuso di interpretare la funzione. Il modello legale pretende un pm consapevole del suo ruolo centrale della formazione della prova e, per questo, capace di cogliere la necessità di un’indagine non schiacciata sulla sola prospettiva accusatoria, in funzione del miglior risultato investigativo. Ma accanto a questa necessità, vi è quella di garantire l’uniformità dell’azione penale, riflesso della sua obbligatorietà e del principio secondo cui tutti i cittadini sono uguali innanzi alla legge. Tra gli attori della giurisdizione il pubblico ministero è quello più noto alle cronache ed esposto alle critiche. Seguendo un percorso ciclico, strettamente dipendente dalle variabili onde emotive che attraversano la società, si passa dalla sua esaltazione alla sua strenua critica. Si tratta del riflesso (del costo) mediatico del ruolo determinante del pubblico ministero nella formazione della prova, in vista della sua verifica giudiziaria; sicché le sue capacità di comprendere la vicenda o il fenomeno criminale investigato vanno coniugate con quelle predittive delle successive fasi processuali, laddove altre spiegazioni del fatto potranno essere proposte, al fine di mettere in crisi la dimostrazione accusatoria. Le verifiche periodiche - La delicatezza e centralità del ruolo del pubblico ministero impone, perciò, periodiche verifiche in ordine al modo concreto e diffuso di interpretare la funzione, insieme alla comprensione dell’organizzazione interna dei relativi Uffici. Farne oggetto di confronto significa analizzare la collocazione istituzionale del pubblico ministero, valutare il grado di indipendenza e di autonomia operativa dei magistrati che lo compongono e che lo dirigono, ma anche verificare la concreta declinazione delle regole che disciplinano il suo potere di iniziativa e di indagine, insieme ad il suo rapporto con i giudici. Una pluralità di studi giuridici evidenzia come, nelle moderne democrazie occidentali, il ruolo del pubblico ministero cresca ovunque; nel nostro Paese questa percezione è stata enfatizzata da una incipiente debolezza delle istituzioni politiche che ha, talvolta, portato il pubblico ministero ad assumere ovvero ad essere percepito come portatore di un ruolo salvifico, a carattere etico, in funzione della tutela della sicurezza pubblica, assecondando una narrazione mediatica che utilizza le paure sociali come motore per indirizzare scelte politiche, commerciali, economiche. La trasformazione - Interrogarsi su quanto i modelli normativi vigenti siano conformi alle concrete declinazioni pratiche del ruolo, comprendere se sia in atto una trasformazione silente della funzione è uno degli obiettivi dell’incontro telematico organizzato da Magistratura Democratica, al fine di assumere nuove consapevolezze, sulla base delle quali avviare una critica ed auto-critica interna alla magistratura e, soprattutto, proporre stili e modi operativi più coerenti con il modello legale. Quest’ultimo, infatti, pretende un pubblico ministero consapevole del suo ruolo centrale della formazione della prova e, per questo, capace di cogliere la necessità di un’indagine non schiacciata sulla sola prospettiva accusatoria (quella proposta dal denunciante o dalla polizia giudiziaria), in funzione non solo della tutela dei diritti dell’indagato, ma anche del miglior risultato investigativo, capace di confrontarsi in anticipo con le possibili spiegazioni alternative del fatto. Ben si comprende, allora, come l’indipendenza e l’autonomia del pubblico ministero siano pre-requisiti essenziali ad uno svolgimento della funzione tesa alla ricerca della verità processuale, libera da interferenze e pressioni. Ma accanto a questa necessità, vi è quella di garantire l’uniformità dell’azione penale, riflesso della sua obbligatorietà e del principio secondo cui tutti i cittadini sono uguali innanzi alla legge. Da una parte, dunque, la natura orizzontale dei rapporti dentro la magistratura, in conformità alla regola dell’art. 107 Costituzione e dell’autonomia ed indipendenza del pubblico ministero; dall’altra, la cd. gerarchizzazione degli Uffici, in funzione di garanzia dell’uniformità dell’azione penale. Un complesso e delicato equilibrio, oggettivamente, scompensato dal cd. riforma Castelli del 2005 che privilegiando le esigenze di uniformità dell’azione penale ha esaltato il ruolo del Procuratore, quale “capo” dell’Ufficio requirente. Il Csm - La normativa secondaria introdotta dal Csm per restituire equilibrio al sistema (da ultimo con una nuova, recentissima circolare) non è, sin qui, riuscita ad invertire la tendenza culturale, prima ancora che ordinamentale, ad enfatizzare il ruolo del capo dell’ufficio, con contestuale de-responsabilizzazione dei sostituti procuratori. Riflesso sociale di questa dinamica è l’irrituale identificazione dell’Ufficio nella persona del suo capo, con conseguente sua sovraesposizione non solo mediatica, ma anche nei rapporti istituzionali e para-istituzionali. Si è, così, generato un vulnus concreto e percepibile alla struttura orizzontale della magistratura cui è necessario porre rimedio, senza rinunciare alla necessità di garantire l’uniformità dell’azione penale, avendo particolare attenzione alle concrete modalità con cui si sviluppano i rapporti tra dirigenti e sostituti nella concretezza operativa degli uffici. Anche questo, dunque, un tema complesso e decisivo per comprendere la figura del pubblico ministero, in cui al presupposto normativo, segue quello della sua concreta declinazione pratica, rimessa alla sensibilità culturale dei protagonisti ed alla conseguente interpretazione del ruolo, all’interno dell’organizzazione dell’ufficio inquirente. Ben si comprende, allora, la necessità di un confronto volto a comprendere quali siano gli equilibri e le tensioni che oggi percorrono gli uffici del pubblico ministero e quali siano le prassi virtuose da prendere a modello ovvero le tendenze culturali che sembrano cedere alla tentazione di un’interpretazione del ruolo burocratico ed asfittico. *Sostituto procuratore della Repubblica - DDA di Reggio Calabria e componente Esecutivo di Magistratura democratica Separare le carriere crea un pm superpoliziotto e un giudice debole di Claudio Castelli Il Domani, 5 giugno 2021 I pochi dati esistenti dimostrano che è falso che il giudice sia appiattito sul pm: circa la metà dei processi in dibattimento con rito ordinario e addirittura i due terzi per le opposizioni a decreto penale di condanna finisce con una pronuncia di assoluzione o di non luogo a procedere. Separando le carriere esalteremmo una deriva con pm che mostrano una crescente insofferenza al controllo del giudice: avremmo un giudice più debole a fronte di un pm che personificherà la volontà punitiva di una società sempre più incattivita. Questo scenario sarebbe garantista? A me sembra esattamente il contrario. Interventi sono necessari ma devono andare in una direzione radicalmente opposta, quella di unire e non di separare. Continuiamo ad inseguire parole magiche d’un tratto capaci di risolvere i problemi che da decenni affliggono il nostro sistema. Uno di questi è la riforma della giustizia, su cui in astratto nessuno può dirsi contrario, ma che quando viene declinata in concreto dimostra troppe volte o la sua modestia o la sua valenza fondamentalmente ideologica e propagandistica. Si dimentica che negli ultimi quindici anni abbiamo avuto una complessiva riforma ordinamentale con i decreti legislativi del Ministro Castelli del 2005 e del 2006 (solo parzialmente modificati dal Ministro Mastella), la riforma della giustizia appunto. Riforma che però non è stata evidentemente risolutiva se oggi ci troviamo di nuovo a dover riaffrontare il problema. Ed anzi a dover rimediare ad alcuni drammatici effetti che proprio quella riforma ha innescato quali i rapporti di potere personalistici all’interno del Csm e il carrierismo nella magistratura. La realtà è che quando si parla di riforma della giustizia in generale ci si riferisce ad intervenire su due settori quali l’ordinamento giudiziario e le regole processuali, che sono importanti, ma che non sono determinanti, dovendosi invece affrontare anche le modalità organizzative, le priorità nell’investire risorse, le pratiche e la governance degli uffici giudiziari. Il problema è che è molto più facile lanciare parole magiche con la pretesa che di per sé risolvano i problemi, rispetto ad affrontarli in concreto con pazienza, umiltà e conoscenza della realtà degli uffici giudiziari e dell’avvocatura. Servono (anche) riforme normative, ma soprattutto investimenti mirati, interventi organizzativi, formazione e accompagnamento allo change management. Nulla è di per sé risolutivo, bisogna operare su più canali con una visione complessiva ed una strategia condivisa. Separazione delle carriere - La separazione delle carriere è uno dei mantra che viene spesso presentato come risolutivo di alcuni dei mali della giustizia, ma che in realtà rischia di essere un poderoso boomerang con effetti del tutto opposti a quelli che almeno alcuni dei proponenti si propongono. Ci viene raccontato, spesso in buonissima fede, che con la separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti il giudice verrebbe liberato da ogni legame con il pm e ciò lo renderebbe più libero e indipendente di decidere. Ciò come se oggi i giudici fossero condizionati dall’operato dei pm. I pochi dati esistenti dimostrano come la vulgata di un giudice appiattito sulle richieste del pm sia del tutto falsa: circa la metà dei processi in dibattimento con rito ordinario (il 50,5 per cento) e addirittura i due terzi per le opposizioni a decreto penale di condanna (67,1 per cento) finisce con una pronuncia di assoluzione o di non luogo a procedere. (Fonte Relazione per l‘inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2021 del Presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio). E i pochissimi dati relativi all’accoglimento o rigetto delle richieste di misure cautelari da parte dei Gip parlavano di circa un quarto delle richieste non accolte (fonte Bilancio Sociale del Tribunale di Milano 2013). Il rischio del pm superpoliziotto - La realtà è diversa: separando le carriere esalteremmo una deriva di cui abbiamo già qualche sintomo con pm che mostrano una crescente insofferenza al controllo del giudice ed un’enfatizzazione del momento delle indagini preliminari e delle ipotesi accusatorie. Avremmo un giudice più debole a fronte di un pm che personificherà la volontà punitiva di una società sempre più incattivita. Non dobbiamo illuderci: il rischio è di produrre un pm superpoliziotto, molto più forte del giudice, soggetto ai richiami dell’allarme sociale e alle pressioni dell’opinione pubblica, attento più al risultato da perseguire che alle garanzie. Se a questo uniamo il perverso connubio che si può facilmente creare tra prospettazioni accusatorie, mass media e social arriveremmo ad un pm potentissimo e sostanzialmente incontrollabile. Nessuno oggi ha il coraggio di augurarsi un pm sottoposto all’esecutivo, ma se si imbocca questa strada è facile preconizzare che nel giro di pochi anni questo passaggio sarebbe auspicato da molti, in modo da non avere un organo sostanzialmente incontrollabile. No alla gerarchizzazione - Non è neppure pensabile di risolvere il tutto con una forte gerarchizzazione verticale in capo al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione per poi scendere ai Procuratori Generali presso le Corti di Appello, per arrivare ai Procuratori della Repubblica e ai singoli sostituti. Sarebbe una sorta di militarizzazione che, come ci insegna l’esperienza di questi anni, che già hanno visto una forte gerarchizzazione degli uffici (comunque autonomi), si rivelerebbe fallimentare. Un’autonomia del singolo pm nella gestione della fase delle indagini, ed ancora più dell’udienza, è inevitabile. Il ruolo del procuratore, necessario per assicurare una uniformità di indirizzo dell’Ufficio, può essere efficace e porta risultati solo quando si basa su scelte trasparenti e condivise e non con mere imposizioni. Questo scenario sarebbe garantista? A me sembra esattamente il contrario. Interventi sono necessari ma devono andare in una direzione radicalmente opposta, quella di unire e non di separare. Formazione e coordinamento - A partire dalla formazione che deve essere comune e unitaria per tutti coloro che aspirano a professioni giuridiche (tramite nuove Scuole di specializzazione comuni a numero chiuso obbligatorie come era previsto in origine o attraverso un V anno di università a numero chiuso destinato unicamente a chi voglia accedere a professioni giuridiche) per creare un’osmosi ed una cultura comune. E poi un forte coordinamento tra procure e tribunali, con l’interlocuzione dell’avvocatura, per far sì che i progetti organizzativi di Procure e Tribunali (le tabelle), non si muovano su piani distinti, ma siano un unico progetto coordinato e sinergico che sia compatibile con le risorse esistenti, con le esigenze dei territori, capace di fare i conti con continuità e trasparenza con risultati ed esiti. Mio padre, Brusca e la lotta alle mafie ridicolizzata dalla propaganda politica di Giovanni Tizian Il Domani, 5 giugno 2021 “Marcire in galera”, espressione logora del populismo giudiziario e abusata nei giorni scorsi sui social network, trasformati in una permanente piazza campo de’ Fiori ai tempi della Roma papalina, dove si eseguivano gran parte delle pene capitali. Deve marcire in galera Giovanni Brusca, il killer spietato di bambini, giudici, poliziotti, gente comune. Il boia che ha premuto il pulsante del telecomando usato per detonare il tritolo piazzato sotto l’autostrada all’altezza dello svincolo di Capaci. La strage che ha ucciso Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, gli agenti della scorta, Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo. Dopo 25 anni di carcere, invece, è uscito dal carcere, fine pena. “Solo dopo 25 anni con centinaia di omicidi confessati”, si sono indignati politici di carriera e commentatori, soprattutto di area centrodestra, dunque liberal-conservatori. Ma anche una ampia fetta del Movimento 5 stelle ha scritto commenti che trasudavano vendetta, rabbia. Discorso a parte meritano i familiari delle vittime, il cui dolore va rispettato sempre e comunque, anche quando la sofferenza che si portano dentro per la perdita di un figlio, di una madre o di un padre non lascia margini a letture complesse dei fatti e dei fenomeni. Ogni persona reagisce in maniera differente, elabora diversamente. I percorsi di impegno e di denuncia possono prendere molte strade. Ogni familiare porta il peso della perdita seguendo un processo intimo, personale, che può sfociare in battaglie collettive. Comprendere e analizzare quando si è colmi di rabbia è uno sforzo sovrumano che non tutti riescono a fare. Chi però ha la responsabilità di parlare a tutti questo sforzo dovrebbe farlo. I rappresentanti delle istituzioni, del parlamento per esempio. O quei commentatori che sui giornali e nelle televisioni aizzano alla vendetta e lasciano ai margini del dibattito la profondità del ragionamento. A loro vorrei parlare. A quei commentatori e parlamentari che hanno usato una storia di sangue e violenza, di dolore e isolamento dei sopravvissuti, per manipolare la realtà delle cose, dei fatti e della lotta alla mafia. Quando ho iniziato a fare il giornalista mi ero ripromesso di lasciare la mia storia fuori dal lavoro, nonostante in questi anni abbia lottato assieme alla mia famiglia per ottenere verità e giustizia (non vendetta). Il sangue e la verità - Avevo 7 anni, e la sera del 23 ottobre 1989 mio padre, Giuseppe, è stato freddato durante il tragitto per tornare a casa. Ucciso a Locri, provincia di Reggio Calabria, a colpi di lupara, lui funzionario di banca, “integerrimo”, scriveranno i poliziotti nei pochi atti utili a quell’inchiesta che la procura di Locri ha archiviato in un lampo. La sentenza è che non c’erano colpevoli, ignoti per tutta la vita, “suo cognato non aveva macchie e per questo è più difficile trovare i colpevoli”, aveva detto a mia nonna uno degli investigatori applicato al caso. Non ho molti ricordi di mio padre, e questa è la ferita più difficile da rimarginare. L’omicidio è come se avesse scippato il tempo passato assieme. Sembra assurdo ma è stato così per me. Così nel regno della ‘ndrangheta, all’epoca spadroneggiava con i sequestri di persona, la giustizia non ci aveva degnato di uno sguardo e di una indagine decente, nonostante l’esecuzione di mio padre avesse tutte le caratteristiche dell’azione organizzata dai clan della zona. Il dolore ti resta per sempre incollato alla carne, anche se sei un bambino. Ma diventa anche una corazza, che ti protegge lungo il cammino futuro. Nello stesso periodo sono stati giustiziati dalla ‘ndrangheta altre decine di persone che nulla c’entravano con le cosche. Ne conoscevo molte e ancora oggi conosco i loro figli. Tutte senza giustizia. Omicidi senza colpevoli. Cosa c’entra Brusca, il populismo giudiziario, il marcire in galere e i pentiti con la storia che ha segnato la mia vita, vi chiederete voi. C’entra per due motivi. Il primo: gli anni della strage silenziosa in Calabria erano gli stessi in cui il maxiprocesso di Palermo, istruito da Giovanni Falcone, contro la mafia di Totò Riina e Giovanni Brusca, stava dando il colpo finale all’organizzazione che poi si vendicherà con lo stesso Falcone e con Paolo Borsellino, uccidendoli negli attentati di Capaci e via D’Amelio nel 1992. Secondo: se le leggi ispirate da Falcone, da quella sui pentiti all’organizzazione delle procure antimafia (le direzioni distrettuali antimafia) fossero esistite ai tempi dell’omicidio di mio padre forse avremmo ottenuto giustizia in molti. Giustizia, non vendetta - Anche nella storia dell’omicidio di mio padre ritroviamo i pentiti. L’ultimo ha parlato nel 2013, è ritenuto un importante figura della ‘ndrangheta, descritta da esperti e investigatori come l’organizzazione più impenetrabile e meno colpita dal pentitismo. Per la prima volta fa nomi e cognomi di esecutori e mandanti. I primi erano già in carcere per altri reati, si trovavano al 41 bis, il carcere duro, perché ritenuti a capo delle cosche della Locride. Tra i killer indicati dal pentito anche uno dei più noti narcotrafficanti internazionali. Il mandante, invece, è libero, stando alla versione del collaboratore. Anche in questo caso la stessa procura che decise di archiviare 30 anni fa ha optato per la strada più facile, convinta che gli elementi forniti dal collaboratore di giustizia non fossero sufficienti. Seconda archiviazione, dunque. Che cosa avrei dovuto fare? Invocare la pena di morte? Urlare che devono marcire in galera? Credo che sia la verità il fine del percorso e non il desiderio di vendetta. La giustizia è il mezzo per ottenerla, con il codice e la Costituzione, la prima tra le misure antimafia, a indicare la via da seguire. Agire all’interno della cornice dello stato di diritto perché in democrazia deve guidarci la razionalità, che ci pone su un piano di superiorità rispetto a chi uccide per mestiere, usa la protervia come mezzo per raggiungere il potere e la corruzione come strumento per imporsi nei mondi istituzionali. Combattere le mafie non può trasformarci in cacciatori senza regole, dobbiamo applicare le regole, persino, prima o poi, lasciarci alle spalle la perenne emergenzialità di certe misure. Le mafie si combattono prima di tutto sui territori con la prevenzione, assicurando servizi, lavoro, reddito, liberando dal ricatto povera gente e imprenditori strozzati dai debiti. La lotta alle mafie è una questione molto seria, che gli slogan di alcuni leader reazionari e alcuni titoloni dei giorni scorsi hanno ridicolizzato. Sui social circolavano volantini, con le facce dei leader della destra, con scritto a caratteri cubitali “dalla parte delle vittime sempre” oppure “scarcerato Brusca dopo 25 anni, non è questa la giustizia che gli italiani meritano”. Stare dalla parte delle vittime presuppone però l’umiltà di stare un passo indietro, il sospetto piuttosto è che sia tornata la grande voglia di distruggere l’impianto del codice antimafia che si è formato a partire dal 1992 a oggi. Il governo Berlusconi si distinse per la guerra contro la legge sui pentiti, proprio quando il fedele collaboratore del leader di Forza Italia, Marcello Dell’Utri, emergeva sempre di più come un concorrente esterno della mafia siciliana. Che rispetto c’è per le vittime dei poteri mafiosi se per tutta la carriera politica si è provato a bonificare il campo dagli strumenti necessari a combatterli? Che rispetto ci può essere per le vittime se chi rappresenta le istituzioni all’interno del parlamento passa il suo tempo a inveire sui social contro un macellaio qual è Brusca e si rintana nel silenzio quando nella rete dei padrini finiscono colletti bianchi, uomini di partito, imprenditori amici? La vendetta lasciamola ai mafiosi. La giustizia ai cittadini, che devono però accettare che possano esistere feroci criminali che aiutano i magistrati a ottenerla. Negli Usa rischia l’ergastolo ostativo: bloccata l’estradizione dall’Italia di Walter De Agostino Il Riformista, 5 giugno 2021 Il 28 maggio 2021 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha comunicato al governo italiano il ricorso presentato nell’interesse di una detenuta a Rebibbia per il rischio di violazione dell’articolo 3 della Convenzione in caso di esecuzione del decreto di estradizione verso gli Stati Uniti. Come è noto, tale articolo statuisce che “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Nel corso degli anni la Corte di Strasburgo ha posto numerosi paletti nel percorso di definizione dei limiti che l’art. 3 della Convenzione pone al potere degli Stati di infliggere pene di durata indefinita, e in particolare ha valutato l’aspetto della compatibilità con la Convenzione di un sistema che non preveda nella fase esecutiva una revisione della pena dell’ergastolo. Tale problematica insorge frequentemente in relazione alle domande di estradizione presentate dagli Stati Uniti. Il caso in esame ne è un ulteriore esempio in quanto l’estradanda, Beverly Ann McCallum, cittadina statunitense e destinataria di un mandato di arresto internazionale emesso a fini processuali per i reati di omicidio aggravato in concorso e distruzione di cadavere, in caso di affermazione di responsabilità sarebbe automaticamente condannata all’ergastolo “ostativo”, senza la possibilità, dunque, di chiedere misure alternative o la liberazione condizionale. La questione del cosiddetto “Imprisonment for life without eligibility for parole” è stata ed è tuttora oggetto di numerosi casi posti all’attenzione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. L’impossibilità di commutare o ridurre la pena in fase esecutiva, dopo un periodo minimo di tempo predeterminato per legge, costituisce un trattamento inumano e degradante perché viola il “diritto alla speranza” più volte affermato dalla Corte di Strasburgo. La consegna di un detenuto verso un Paese che infrange in tal modo un diritto fondamentale per la Convenzione comporterebbe l’automatica responsabilità dell’Italia. Tale circostanza, portata all’attenzione delle autorità giudiziarie italiane prima e al Ministero della Giustizia poi, è stata ritenuta insussistente e, pertanto, l’estradizione è stata concessa, nonostante le inequivocabili informazioni supplementari fornite dagli Stati Uniti con cui si attestava l’inesistenza di un meccanismo di rimodulazione della pena in fase esecutiva eccettuata la richiesta al Governatore del Michigan di grazia o di commutazione della pena. Data la mera discrezionalità di quest’ultima ipotesi, è evidente come tale pena sia incompressibile de iure et de facto e dunque incompatibile con l’art. 3 Cedu. Per tali motivi, il decreto di estradizione non poteva essere emesso. Il 22 aprile 2021 i difensori hanno quindi presentato alla Corte Europea la richiesta di applicazione di una misura provvisoria urgente al fine di far sospendere la consegna dell’estradanda, prevista per il giorno successivo. Tale istanza è stata accolta nella medesima giornata con l’indicazione al Governo di non procedere all’estradizione fino al 7 maggio 2021 nonché di fornire le prove e/o le assicurazioni ricevute che confermano che la ricorrente, se estradata e condannata all’ergastolo, avrebbe accesso a un meccanismo di revisione della condanna, durante l’esecuzione della sua pena, al fine di stabilire se la detenuta è cambiata e progredita a tal punto che la prosecuzione della detenzione non può più essere giustificata da motivi penali legittimi. Le risposte fornite dall’autorità giudiziaria statunitense, recepite nella nota del governo italiano, sono risultate assolutamente generiche e insufficienti, dimostrando ancora una volta che l’unica possibilità era quella di avviare, dopo almeno dieci anni di pena espiata, un meccanismo di riesame della stessa innanzi al Parole Board. Tale procedura è però limitata all’emissione di un mero parere positivo o negativo, spettando la decisione finale sempre e solo al Governatore, il quale esercita il suo potere in modo discrezionale senza alcun criterio predeterminato. Per tali motivi la Corte Edu ha disposto un’ulteriore sospensione dell’estradizione sino al 28 maggio 2021 chiedendo al governo italiano di accertare se le autorità giudiziarie nazionali avevano considerato o meno, e in base a quali elementi, se in casi di questo tipo il potere di clemenza del Governatore del Michigan, successivamente alla raccomandazione del Parole Board, è soggetto a garanzie che sarà esercitato in modo coerente e ampio. A tale quesito il governo non ha risposto in modo esauriente e per tali motivi, dunque, il 25 maggio 2021 la Corte di Strasburgo ha deciso di prolungare la sospensione dell’estradizione per tutta la durata del procedimento. Tre giorni fa, il governo italiano ha richiesto alla Corte Edu la revoca della sospensione della consegna di Beverly Ann McCallum allo Stato del Michigan. Evidentemente, interessa di più rispettare trattati e accordi di estradizione con gli Stati Uniti, anche a costo di una pena senza speranza, piuttosto che onorare la Convenzione europea per i diritti umani e il diritto alla speranza. Il provvedimento non indicato come sentenza va semplicemente corretto se ne ha la natura di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2021 Si tratta di errore materiale non invalidante al pari della mancata intestazione di aver deciso “In nome del Popolo italiano”. La Corte di cassazione chiarisce che il provvedimento del giudice che definisce il giudizio - in base al contenuto e alla finalità emergenti - è nella sostanza una sentenza anche se non è formalmente indicata come tale. In sintesi, si tratta solo di errore materiale emendabile con la mera correzione. Stessa sorte per il provvedimento giurisdizionale che non riporti il nome del difensore della parte o l'intestazione “In nome del Popolo italiano”. Non viene meno la natura intrinseca di sentenza per tali mancanze prive entrambe di effetti invalidanti. Con la sentenza n. 22124/2021 la Cassazione penale ha respinto il ricorso della donna straniera attinta da un mandato d'arresto europeo, che contestava il vizio della decisione del giudice affermando che si trattasse di un'ordinanza e non di una sentenza come previsto dalla legge. Inoltre faceva rilevare la ricorrente che il provvedimento era privo - oltre dell'intestazione “in nome del popolo italiano” - anche dell'indicazione del nome del proprio difensore e della data di deposito in cancelleria. La Cassazione respinge tutti e tre i profili del motivo di ricorso che contestavano la validità del provvedimento adottato dal giudice. In particolare su assenza del nome e dell'intestazione afferma che trattasi di meri errori materiali. Mentre sulla mancata indicazione della data di deposito in cancelleria la Cassazione fa rilevare che essa non è necessaria, o meglio è superata, dall'avvenuto deposito in udienza. E tale circostanza esplicitata nel testo della “sentenza” rendeva superflua l'indicazione del deposito in cancelleria. Infatti, la decisione che riporta in calce l'annotazione “letta e depositata in udienza” non richiede alcuna altra incombenza da parte del giudice. La mancata abilitazione amministrativa non determina di per sé l'imputazione per il danno di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 5 giugno 2021 La colpa per l'evento dannoso dei vertici che non adempiono alla denuncia di inizio attività va comunque accertata nel merito. Lo svolgimento di un'attività di impresa senza aver conseguito la specifica abilitazione amministrativa per esercitarla comporta sicuramente un inadempimento che non basta di per sé ad affermare la responsabilità penale dei vertici in occasione della causazione di un danno a terzi. La Cassazione con la sentenza n. 21554/2021 ha accolto il ricorso del presidente e del responsabile tecnico dell'impresa che aveva provveduto al distacco della fornitura di metano finalizzato al riallaccio. In primis chiarisce la Corte che nel caso di reato colposo di danno ex articolo 449 del Codice penale non scatta immediatamente imputazione e condanna di chi riveste all'interno della persona giuridica una posizione di garanzia. Ma va accertato che tali vertici abbiano agito in spregio alle regole tecniche necessarie a evitare eventi dannosi, compresa la mancata informazione e formazione dei lavoratori. Nel caso specifico risultava non apposto da un dipendente il dispositivo di sicurezza durante il distacco determinando l'esplosione e il crollo del palazzo per l'inavvertita accensione di uno dei dispositivi di erogazione del gas all'interno delle abitazioni. L'eventuale commissione colposa di un comportamento illecito da parte dei vertici o una loro omissione nelle attività di sicurezza sono i soli presupposti che possono sostenere il nesso tra la condotta commissiva od omissiva e la causazione dell'evento dannoso. Ma soprattutto la Cassazione annulla la sentenza di merito perché - senza verificare il possesso da parte dell'impresa e dei lavoratori dei requisiti tecnici per svolgere la specifica attività - ha dato pieno rilievo alla mancata presentazione della denuncia di inizio attività che determina l'accertamento dell'abilitazione dell'impresa a svolgerla. La Cassazione fa rilevare che l'impresa ottenne l'autorizzazione amministrativa pochi giorni dopo il verificarsi dell'evento il che deporrebbe per il possesso degli specifici requisiti tecnici necessari all'iscrizione nell'apposita sezione del registro delle imprese. Rilievo che avrebbe dovuto essere oggetto del giudizio di merito che lo ha invece ignorato, affermando de plano la responsabilità degli imputati per non aver adempiuto ai propri obblighi amministrativi. Conclude la Cassazione ribadendo che l'inadempimento amministrativo - per quanto fuori discussione - non basta a fondare la condanna per il delitto colposo di danno. Inoltre, l'eventuale adempimento correttamente realizzato, non sarebbe bastato di per sé a escludere sia l'evento dannoso sia la colpa dei responsabili di impresa. Napoli. Il dramma di Giuseppe Marziale, incarcerato dopo 21 anni di processo di Viviana Lanza Il Riformista, 5 giugno 2021 Spesso si sente dire che non è giustizia quella che arriva a troppi anni dai fatti. I tempi lunghi delle indagini, quelli biblici dei processi e le lungaggini con cui le sentenze definitive vengono eseguite sono tra i problemi irrisolti del sistema giudiziario del nostro Paese e lo dimostrano le statistiche sui casi di ingiusta detenzione, errori giudiziari e risarcimenti per irragionevole durata del processo. Casi che crescono di anno in anno. Che giustizia è quella che dà una risposta dopo tanti anni? Nel caso di Giuseppe Marziale si parla di una sentenza arrivata ventidue anni dopo. L’uomo, infatti, è in carcere da sette mesi e sta scontando una condanna a undici anni che gli è stata inflitta per un reato commesso nel 1999. Dopo il clamore seguito al suo arresto, nel novembre scorso, nulla è accaduto. Da allora è rinchiuso nel carcere di Secondigliano. E ora il suo difensore, l’avvocato Sergio Pisani, ha deciso di rivolgersi al ministero della Giustizia, inviando un’istanza al ministro Marta Cartabia: “La vicenda di Marziale è sicuramente emblematica - scrive il legale - e spero che la riforma della Commissione ministeriale possa incidere favorevolmente sulla vita di questo cittadino e dei suoi familiari, tutti ingiustamente afflitti da una condanna che, per il ritardo con cui è arrivata, ormai si presta a un ruolo meramente punitivo e di facciata, inconciliabile con la reale funzione della pena e indegno di un paese democratico”. Il riferimento è alla proposta di riforma del sistema penale attualmente in discussione e in base alla quale si potrebbero prevedere rimedi compensatori, come uno sconto di pena, nei casi di mancato rispetto dei termini di ragionevole durata del processo. Di qui l’appello al ministro, affinché “si possa porre rimedio quanto prima a questa assurda detenzione - scrive l’avvocato Pisani - dal momento che gli attuali strumenti giuridici non prevedono un immediato rimedio a tale ingiusta e anomala vicenda detentiva”. La storia di Marziale potrebbe sovrapporsi alla storia di tanti imputati sospesi, persone finite al centro di processi che si sono trascinati per anni e anni e che si sono conclusi con tempi lunghissimi, di certo non più coerenti con la vita di queste persone. Quarantotto anni, napoletano, nato nei vicoli di Sant’Anna di Palazzo, Marziale era poco più che ventenne quando, sul finire degli anni Novanta, ai Quartieri Spagnoli alcuni suoi parenti provarono a costituire un’organizzazione malavitosa dedita alla vendita di stupefacenti. Marziale fu coinvolto in un’attività del gruppo e questo gli costò l’accusa di associazione a delinquere di stampo camorristico. Le contestazioni erano circoscritte a una manciata di mesi, da settembre 1999 a luglio 2000. Anche le indagini degli inquirenti accertarono il limitato periodo di contatto tra Marziale e alcuni personaggi criminali tanto che, quando quattro anni più tardi l’inchiesta si concluse e scattarono le misure cautelari, l’uomo era già lontano da quel mondo e aveva un lavoro stabile in un cantiere navale, sicché i giudici del Riesame lo rimisero immediatamente in libertà ritenendo che per lui non vi fossero motivi per sostenere una misura cautelare. Per oltre vent’anni, quindi, Marziale ha vissuto da imputato libero. Si è sposato, ha cresciuto tre figli che oggi studiano e lavorano onestamente. Anche lui ha impostato la sua vita su basi diverse da quelle di quei personaggi incrociati in gioventù: in questi venti anni non ha mai commesso reati e ha sempre lavorato come operaio con un contratto a tempo indeterminato. Fino a novembre scorso, quando la sentenza per i reati del 1999, divenuta nel frattempo definitiva, lo ha spedito in una cella del carcere di Secondigliano, rinchiuso in una cella del reparto di massima sicurezza, e senza più il suo lavoro. Eppure, sottolinea l’avvocato Pisani, “la rieducazione di Marziale era avvenuta ancora prima della sentenza di primo grado. Non si può scontare una pena dopo tanti anni dalla commissione dei fatti reato”. Torino. Centinaia in piazza per il migrante suicida: “Nei Cpr una voragine di disumanità” di Simona Lorenzetti Corriere della Sera, 5 giugno 2021 La manifestazione organizzata dalle principali associazioni di giuristi della città: “Gli immigranti vivono in gabbie”. Alcune centinaia di persone si sono date appuntamento nel pomeriggio di oggi, 4 giugno, in piazza Castello, sotto le finestre della Prefettura, per una manifestazione organizzata dalle principali associazioni di giuristi torinesi. Un momento di confronto, di protesta e di riflessione che vuole accendere i riflettori sulle condizioni disumane in cui vivono coloro che sono rinchiusi nel Cpr di Torino. Il caso che ha scatenato il moto di rivendicazioni dei giuristi, che si sono presentati in piazza indossando la toga, è il suicidio Moussa Balde, il giovane originario della Guinea che si è impiccato lo scorso 23 maggio. “Chi ha deciso di chiuderlo nella gabbia, ha stretto con lui il nodo del lenzuolo con cui si è impiccato”, ha detto l’avvocato Gianluca Vitale che ora assiste i familiari della vittima. “Non possiamo più accettare questo sistema che rappresenta solo una violazione sistematica dei diritti delle persone - ha insistito il legale. Moussa non riusciva a capire perché fosse lì dentro. “Perché sono qui?”, chiedeva con insistenza. Era lì perché a un certo punto ha smesso di essere un essere umano ed è diventato un clandestino”. Alla manifestazione è intervenuto anche l’avvocato Lorenzo Trucco, presidente dell’Asgi (Associazione degli studi giuridici sull’immigrazione): “Non siamo qui solo per ricordare una tragedia umana. La vicenda di Moussa è simbolica, racconta un sistema basato sui Cpr. Luoghi in cui le persone perdono ogni diritto. Luoghi in cui le persone perdono la libertà senza aver commesso alcun reato. Luoghi che rappresentano una voragine di disumanità”. Al Cpr - così gli avvocati lo descrivono - gli immigrati vivono in gabbie, i pasti vengono consumati in piedi, i servizi igienici non hanno le porte, persino gli interruttori della luce sono governati dall’esterno. “Sembrano dei campi di concentramento”, sono le parole usate da Davide Mosso della Camera Penale. I dati sono drammatici. “Dal 2019 ad oggi sono sei le persone morte nei centri di permanenza d’Italia”, ha spiegato la presidente dei Giuristi democratici Michela Quagliano. Gli avvocati chiedono che vengano ripristinati i colloqui con i familiari, anche attraverso le video conferenze, di garantire le visite dell’Asl, sia mediche che psichiatriche, ma soprattutto di chiudere gli “ospedaletti”, cioè le stanze di isolamento - simili a pollai dicono i legali - che non sono previste dalla normativa. In occasione della protesta è stato presentato un libro nero in cui sono racchiuse le tragiche storie di migranti rinchiusi nei Cpr e che solo per caso non hanno fatto la fine di Moussa. Torino. Musa Balde si è impiccato nell’anticamera di un cimitero di Rita Rapisardi Il Domani, 5 giugno 2021 Nel Cpr di Torino in cui l’immigrato 23enne si è ucciso si vive in condizioni disumane: igiene inadeguata, servizi medici assenti e pressoché totale abbandono da parte dello stato. È un luogo di morte dove i reclusi abbandonano ogni speranza di integrazione. “Chiudere tutti i Cpr”, “Cpr = lager”, “Polizia, medici, Gepsa complici: il Cpr uccide”. Sono gli slogan sui teli dei solidali, accorsi in trecento, davanti al centro per il rimpatrio di Torino dopo la morte di Musa Balde. In corso Brunelleschi, in mezzo agli alti palazzi anni Settanta da un lato e una strada ad alto scorrimento dall’altro, si levano le voci di chi protesta: “Contro ogni prigione, contro ogni frontiera! Tutti liberi, tutte libere!”. Fanno da cornice a uno spazio che come un cratere risucchia le storie di molti. Non è la prima volta che si muore lì dentro, c’è stato Faisal Hossain, morto a luglio 2019 di infarto, anche lui mentre era in isolamento in una delle cellette dell’Ospedaletto, senza modo di poter chiedere aiuto. “Lo straniero deve essere trattenuto con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza e il pieno rispetto della sua dignità”, si legge sul sito del ministero alla voce Cpr. Ma a consultare le relazioni del garante e i report delle associazioni umanitarie, a funzionare a Torino c’è davvero poco. Igiene, salute, cibo, spazi, non si salva niente di questa prigione considerata terra di nessuno e abitata da molti nessuno. “La responsabilità è sempre dello stato, al Cpr hanno sbagliato tutti”, dichiara Gianluca Vitale, avvocato di Musa. Mentre il gruppo No Cpr Torino, che non crede nella versione del suicidio, ha scritto: “Un detenuto ci ha raccontato che dopo il trasferimento in isolamento, avvenuto senza una chiara motivazione, ha sentito urlare Musa e chiedere l’intervento di un dottore senza mai ricevere una risposta”. A gestire la struttura torinese c’è la francese Gepsa, una multinazionale riconducibile al gruppo Engie che si occupa di energia rinnovabile, ingegneria e infrastrutture. In patria è un colosso nell’ambito della detenzione da oltre trent’anni: gestisce in totale 58 siti, tra carceri, centri di detenzione amministrativa, richiedenti asilo e d’accoglienza. Entrata in territorio italiano proprio per il suo curriculum in patria e perché riesce a mantenere bassi i costi, è chiamata a gestire logistica e sicurezza. Insieme a Gepsa, viaggia Acuarinto, associazione culturale di Agrigento, che si occupa di dare assistenza ai migranti da oltre 25 anni. In Italia Gepsa si stanzia nel 2012 nel centro per richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto, seguono i successi di due Cpr, quello di Ponte Galeria a Roma e Torino, poi il Centro di primo soccorso e accoglienza a Milano. Dei bandi che hanno permesso la scalata si sa poco, sfruttano il criterio dell’asta al ribasso, dove le uniche a mantenere costi sempre più bassi sono le multinazionali. Il raggruppamento sa-Acuarinto, unico in corsa, si aggiudica Torino con l’offerta di 37,86 euro (più Iva) a migrante, ottenendo una convenzione triennale. Un risparmio rispetto alla precedente gestione della Croce rossa italiana di circa il 30 per cento, per un valore di circa 850mila euro all’anno di costi. La base d’asta era di 40 euro (compreso di vitto, alloggio e servizi di assistenza). Per il Cpr romano invece, quello che molti hanno chiamano la “Guantánamo italiana”, Gepsa è riuscita a scendere fino a 28 euro. Profitti certi difesi a ogni coso e a colpi di sentenze del Tar: nel 2014 Gepsa ha perso il Cara di Castelnuovo di Porto, contro la cooperativa Eriches 29 Giugno (una delle tante facenti capo a Salvatore Buzzi e poi finita sotto sequestro per Mafia Capitale), la quale garantiva 200mila euro in meno al mese nella gestione. Mentre in Friuli la società francese si era scontrata con la Connecting People per il Cpr di Gradisca d’Isonzo, vittoriosa in un primo momento e poi costretta a ritirarsi dopo che l’intervento del Tar aveva stabilito l’illegittimità del primo posto in graduatoria. Il business della detenzione amministrativa da qualche anno è alimentato da uno stato che delega sempre più ai privati laddove è mancante. La privatizzazione dei centri avviene su vari livelli: singoli servizi o blocchi di servizi, che vanno dalla mensa, alla pulizia, fino a lavanderia e sicurezza. Una prassi che nei paesi regolati dalla common law, come Stati Uniti, Regno Unito e Australia, è realtà da decenni. Con i decreti sicurezza di Salvini del 2018 la situazione dei servizi è peggiorata ancora, e ha permesso una forte semplificazione dei bandi. Oggi si può infatti ricorrere a procedure negoziate tra prefetture e aziende, senza previa pubblicazione del bando di gara, ma con la supervisione dell’Anac. I tagli da allora sono stati del 50-70 per cento, e a scomparire dal mercato sono state le piccole cooperative e associazioni, lasciando terreno solo ai grandi come Gepsa. Dentro al Cpr - “Lo sciopero della fame di alcuni dopo la morte di Musa sta continuando, ma non sappiamo quanti lo stanno tenendo. È quasi impossibile ormai avere contatti con l’interno, per via del sequestro dei telefonini”, racconta un membro di Spazio Il-legale, uno dei tanti gruppi torinesi che vorrebbe la chiusura di corso Brunelleschi: organizza raccolte indumenti, cibo e dispone di uno sportello legale supportato dagli avvocati dell’Asgi, Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. “Non ci arrivano più foto e video come prima, e per aiutare i ragazzi a chiamare casa abbiamo organizzato una raccolta anche per quelle. Serve una scheda telefonica per usare il telefono fisso, venduta dallo stesso ente gestore”. Il 60 per cento degli ospiti del centro è tunisina. Seguono ghanesi, nigeriani, gambiani, marocchini ed egiziani. Le voci da dentro negli anni lamentano sempre le stesse pessime condizioni: cibo avariato, scarsa igiene, maltrattamenti: “Poco tempo fa è iniziato un lungo sciopero della fame. Siamo riusciti ad ascoltare una conversazione tra un rappresentante dei detenuti e il direttore del centro che assaggiando il cibo ha confermato: “È immangiabile”. Ha poi promesso per cena 90 pizze, che non sono mai arrivate”, racconta la ragazza. Pasta al tonno e un secondo bollito, fette di tacchino al posto del maiale, è il pasto tipo. Tutto freddo e scotto, perché all’interno del centro non c’è modo di scaldare nulla. E d’inverno si aggiunge il gelo dei riscaldamenti che non funzionano quasi mai. E Gespa nel suo kit di ingresso non fornisce indumenti caldi: “Questo inverno abbiamo raccolto vestiti pesanti. Ci hanno chiesto presunte pratiche di sanificazione, ma poi li hanno gettati a terra e fatti controllare dal cane antidroga che passava sopra con le zampe”. “Il mio compagno è stato dentro da novembre a febbraio, è un campo di concentramento, hanno dormito per terra per giorni. Le persone si ammassavano per non essere deportate, ma la violenza è tanta e alla fine ci riescono”, racconta Maria. Servizi medici appaltati - In via del tutto eccezionale all’interno dei Cpr anche l’assistenza medica è appaltata a privati, l’Asl nazionale sancisce soltanto la compatibilità: “La tutela della salute deve essere a carico del Sistema sanitario nazionale, non possiamo confrontarci con privati su questo punto, il medico non può essere un dipendente dell’ente gestore”, dichiara Mauro Palma, presidente del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, che dice che il 7 giugno avrà un incontro con il capo del Dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione che dialoga con le prefetture. La stessa idoneità per l’ingresso, che nel caso di Musa si è tradotta in una mancata visita psichiatrica, è in mano ai medici interni del Cpr. Gli accordi con le Asl locali, previsti nel Regolamento unico del 2014, quando ancora i Cpr si chiamavano Cie, sono a oggi disattesi. L’Ospedaletto, composto di 12 cellette di tre metri quadri, dove è stato ritrovato il cadavere di Musa, è isolato e utilizzato anche per scopi che non hanno a che fare con la cura: ospiti o detenuti, a seconda di chi parla, si isolano per mantenere la disciplina. Sono locali che, come ha scritto il Garante, “non sono adeguati da un punto di vista dell’apporto di luce naturale e di aria, della salubrità igienica, della presenza di pulsanti di chiamata, di arredo almeno sufficiente a consentire il riposo e la consumazione di pasti”. Un luogo illegittimo ancora più oscuro se si pensa che manca un registro dei transiti che documenti le circostanze di permanenza lì dentro. A questo si aggiungono operazioni chirurgiche, che invece di essere eseguite in una sala operatoria di ospedale avvengono tra queste mura: “È capitato che un uomo avesse del piombo dentro una gamba dopo la detenzione in Libia, è stato operato nell’Ospedaletto, invece che in una sala operatoria”, racconta la solidale, “proprio come avviene nelle zone di guerra”. “Sono rimasto dentro solo una settimana, ma sempre in isolamento, non ho potuto parlare con nessuno, nemmeno con mio cugino che era con me quando la polizia mi ha fermato senza documenti. Ho preso insulti razzisti”, a parlare è Wassim, 30 anni, tunisino. “Mio fratello da tredici anni vive a Roma, ma a loro questo non interessa, mi hanno cacciato via, messo le manette, mi sono sentito un criminale, ma non lo sono. Ho risparmiato per due anni per pagare il viaggio per Lampedusa”. Ai numerosi problemi psichiatrici si sommano centinaia di tentativi di suicido e atti di autolesionismo. I detenuti si provocano fratture a gambe, caviglie e piedi, chiudendosi l’arto nella porta; ingeriscono pile, chiodi o bulloni, si ustionano versandosi liquidi bollenti addosso. Per questi episodi non esistono protocolli o interventi di prevenzione del rischio. Anche la tossicodipendenza è alta: senza le Asl locali queste persone sono abbandonate. “Gli psicofarmaci si usano a litri”, ha testimoniato in tribunale da Fulvio Pitanti, medico responsabile del Cpr di Torino, durante uno dei tanti processi relativi alle rivolte scoppiate nella struttura. Ma anche Valium e antidepressivi sono somministrati con facilità, spesso anche nel cibo, per tranquillizzare gli animi. Nei mesi di pandemia il mancato collegamento con il Ssn ha causato difficoltà nel controllo del virus. C’erano soli tre medici con turni di cinque ore l’uno, per tutti i detenuti (che possono essere oltre 170) e per tutti i bisogni, senza reperibilità nelle 24 ore. Per le gravi mancanze è dovuto intervenire l’Ordine dei medici di Torino che a marzo ha stilato un accordo con Gepsa per potenziare l’assistenza e coinvolgendo i medici volontari con un passato nell’umanitario, scelta che ha causato numerose critiche. Giurisdizione - Dal 1999, anno in cui il Cie ha aperto, l’unica cosa a essere migliorata sono gli alloggi, prima dei container gelidi di inverno e forni d’estate. Resta uno spazio oppressivo in cui i detenuti sono divisi in zone che non comunicano tra loro, la giornata trascorre senza attività, talvolta senza neanche uscire all’aperto. Una fisionomia, ha scritto Medu, medici per i diritti umani, che “può essere riconducibile al paradigma dei centri di internamento. Centri che sembrano servire soprattutto affinché la società civile percepisca che lo stato c’è”. Dal 2016 al 2020 sono state quasi cinquemila le persone trattenute tra le mura del Cpr di Torino, metà di loro è tornata in libertà. “Il giudizio sul trattenimento amministrativo è fallimentare sotto ogni punto di vista: sono luoghi eccezionali in chiave giuridica, non c’è tutela della libertà personale, ma qui in via esclusiva è la polizia a cancellare la libertà persone”, racconta Maurizio Veglio, avvocato Asgi, che ha scritto il libro La malapena. L’associazione giuristi ad aprile si è vista accogliere un ricorso al Tar dopo l’ennesimo rifiuto del prefetto di Torino di poter entrare nel centro. “La qualità della vita all’interno è indecente. Dai dati che abbiamo, il 50 per cento dei detenuti non è rimpatriato, ma rimesso in libertà dopo un’esperienza inutile e dolorosa, questo anche perché mancano accordi con i paesi di origine”. Una volta fuori, ai migranti rilasciano un foglio di espulsione: sette giorni di tempo per raggiungere il paese di origine a proprie spese, dopo che lo stato per mesi non ci è riuscito. Un fermo ulteriore e si rischia una condanna penale e di rientrare, un circolo senza fine. Perché i posti sono pochi e trattenere tutti è impossibile. Molti di quelli che passano per un Cpr hanno sperimentato sulla propria pelle più trattenimenti, magari in altre forme, e il 50 per cento anche la detenzione nelle carceri. Un meccanismo che non si è fermano nemmeno con la pandemia: “Durante i primi mesi i rimpatri erano impossibili, abbiamo chiesto che le detenzioni non fossero prorogate. Ma il sistema è ingovernato, autoreferenziale e vige la discrezionalità”, ricorda Veglio. Una delle prime circolari del marzo 2020 della ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese, aveva previsto la sospensione delle attività questure migrazione, le uniche che dovevano proseguire erano le espulsioni, cosa che è avvenuta attivamente nel Cpr torinese: numerosi voli charter per la Tunisia, l’unica a non aver chiuso le frontiere, hanno riportato indietro i migranti arrivati dalle navi quarantena in Sicilia. Con riguardo alle persone trattenute, in particolare quelle di nazionalità tunisina si riscontra un forte disorientamento, dovuto alle procedure molto rapide cui vengono sottoposte dal momento dello sbarco in Sicilia, arrivando, senza sapere dove esattamente si trovino”, si legge nel rapporto del Garante comunale di Torino pubblicato a maggio. In Spagna invece è stato un libera tutti, mentre in Inghilterra 700 persone sono state rilasciate grazie all’intervento di una ong. I dati di spesa, a differenza delle carceri, non sono pubblici e i tentativi di quantificarli limitati. “Non si arriva a capire lo spreco di denaro. Uno straniero trattenuto “costa” allo stato circa mille euro al mese, a cui si sommano le spese per l’esecuzione del rimpatrio. Nel 2014 la Commissione diritti umani del Senato ha stimato in 55 milioni annui la spesa per il funzionamento dei centri e per le operazioni di rimpatrio, escluso il costo del personale delle forze dell’ordine”, conclude Veglio. Mentre secondo la Corte dei conti il budget totale per i Cpr nel 2010 è stato di circa 200 milioni di euro. A Torino invece la spesa per la ristrutturazione del centro nel 2007, costata circa 14 milioni di euro, ha fatto lievitare il costo di un posto letto a 80mila euro. Trattenuti a oltranza - A far riflettere è anche un altro dato emerso dalle ricerche dell’Osservatorio sulla giurisprudenza del giudice di pace in materia di immigrazione (Lexilium): il tasso di convalida dei decreti di trattenimento è del 98 per cento e quello di proroga del 97 per cento, mentre le udienze nella maggior parte dei casi non superano i cinque minuti. “Mi ritrovo a fare udienze nei luoghi della pubblica amministrazione e non in aula, come se i processi si facessero in casa di una delle due parti”, spiega Marco Melano, nell’elenco dei difensori di ufficio del Cpr e avvocato Asgi. “Seguire questi casi è deprimente perché i risultati sono sempre gli stessi. La comunicazione è difficile, possiamo entrare per poco tempo e più di una volta mi è capitato di dover fare le udienze via video. Neanche il diritto alla difesa è garantito a pieno”. “Non da oggi, ma i diritti sono lesi su base quotidiana: trattamenti inumani e degradanti in mano a compagnie private, che vogliono solo ritorni economici. Quella è una logica fuori dallo stato democratico, questi centri devono chiudere”, denuncia Alda Re di LasciateCIEntrare, che ricorda anche la violenza dei rimpatri, spesso ottenuti con la forza o calmando i migranti con iniezioni che li sedano: “Hai presente i film americani, dove sono tutti in fila incatenati uno all’altro? Arrivano così all’aeroporto. In questi centri, le persone continuano a morire, anche formalmente: persone che lo stato ha reso “clandestine”, perché qualcuno è accettabile, qualcun altro no”. Musa è il sesto morto dal luglio del 2019, per il rientro diverse associazioni hanno lanciato una raccolta fondi per riportare la salma di Musa in patria: “Nessun governo - dicono - lo farà mai al posto nostro”. Così era stato anche per Faisal. Pensare a percorsi di regolarizzazione con queste premesse è impossibile: in trent’anni, i Cpr hanno avuto l’appoggio di ogni governo, a prescindere dal colore. All’interno dei centri non esistono corsi per l’inserimento lavorativo, di lingua, sono dei non luoghi con zero attività, l’unica cosa che si può fare è aspettare e sperare. Come ha fatto Musa arrivato nel 2017 in Italia dal mare: in pochi mesi aveva imparato l’italiano e preso la terza elementare a Imperia. Ma dopo quattro anni per lo stato era solo un irregolare da spedire nel luogo dei nessuno, dove è morto. Benevento. Report sulle criticità e buone prassi nelle carceri sannite: martedì il bilancio ottopagine.it, 5 giugno 2021 Organizzato dal garante persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Ciambriello. Nella giornata di martedì 8 giugno alle 11 presso la Sala del Consiglio Comunale di Benevento o si terrà la presentazione del Report 2020 su scala provinciale delle criticità e delle buone prassi dei luoghi di privazione della libertà personale (carceri, misure alternative, rems, tso) realizzato dal garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello, in collaborazione con l’Osservatorio Regionale sulla vita detentiva. Dopo i saluti del sindaco Clemente Mastella, relazionerà il Garante Campano Samuele Ciambriello, seguiranno gli interventi del Procuratore della Repubblica di Benevento Aldo Policastro, della Presidente del Tribunale di Benevento Marilisa Rinaldi, la procuratrice del Tribunale per i minori Maria De Luzenberg, il Direttore dell’Istituto Penitenziario di Benevento Gianfranco Marcello, la Presidente dell’ordine degli Avvocati di Benevento Stefania Pavone, il Presidente della Camera penale di Benevento Domenico Russo e il Vescovo di Benevento Monsignor Felice Accrocca. All’incontro sono stati invitati a partecipare i Direttori, Comandanti e coordinatori dell’Area Educativa dell’Istituto di Benevento e di Ariano Irpino, e dell’Istituto Penale per i Minori di Airola, l’Ufficio locale di esecuzione penale esterna, il responsabile della REMS di San Nicola Baronia, il Direttore dell’SPDC di Benevento, i consiglieri regionali della provincia, e le associazioni che a vario titolo operano presso gli istituti. Il Garante Campano Ciambriello così motiva l’iniziativa: “il carcere è un luogo di comunità nel quale il benessere di ciascuno alimenta quello di tutti. Se c’è infatti una lezione che abbiamo imparato dalla pandemia è che la storia di ciascuno non può prescindere dalla storia di tutti. Il senso di questo incontro è di mettere al centro dell’attenzione il mondo delle carceri ai vari livelli, un mondo molto spesso dimenticato, a volte rimosso, forse considerato marginale ma che a ben pensarci rappresenta lo specchio dei vizi e delle virtù della nostra società”. Cosenza. Cesare Battisti ha iniziato lo sciopero della fame di Massimo Clausi Quotidiano del Sud, 5 giugno 2021 L'ex terrorista contesta la detenzione nel carcere di Rossano Calabro. Ha iniziato lo scorso 2 giugno lo sciopero della fame Cesare Battisti, l’ex terrorista che si trova recluso nel carcere di Corigliano-Rossano. Un carcere particolare che ha una sezione speciale per detenuti che si sono macchiati di reati terroristici, in massima parte integralisti islamici. Anzi, Battisti nella sua lettera aperta scrive di essere “unico detenuto qui non legato al “terrorismo islamico”, ciò ha significato un isolamento totale di oltre 27 mesi, dei quali gli ultimi 8 senza mai esporsi alla luce solare diretta”. Ancora “in questo reparto nulla è predisposto per i detenuti che non condividono i costumi e la tradizione musulmana”. Battisti descrive questo pezzo del penitenziario come una strada senza uscita. “Questo è l’unico reparto a Rossano - scrive - sprovvisto perfino delle mattonelle e di servizi igienici decenti; dove nessun operatore sociale mette piede. Il famigerato portone “antro ISIS” è tabù perfino per il Cappellano, il quale ha finora regolarmente ignorato le mie richieste di colloquio”. Eppure il terrorista ricorda che la sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Milano, confermata in Cassazione, nel novembre 2019, stabiliva che battisti dovesse scontare la pena in un carcere con regime ordinario. Nulla di più lontano dal penitenziario di Rossano che ovviamente non è stato concepito per svolgere questa funzione. Da qui la richiesta di trasferimento, inoltrata da Battisti, anche per essere più vicino alla sua famiglia che però è stata respinta dall’amministrazione penitenziaria. “Avevo riposto la speranza in quest’ultima istanza di trasferimento - scrive Battisti - immaginando che, dopo oltre due anni in condizioni estreme, le autorità non infierissero oltre, considerata anche l’età è il precario stato di salute. Ma anche e soprattutto per aver mostrato grande disponibilità alla riconciliazione con quei settori della società che più hanno sofferto le conseguenze della lotta armata degli anni 70, con particolare riferimento alle famiglie di tutte le vittime. Ho trascorso 40 anni in esilio conducendo una vita di cittadino contribuente, perfettamente integrato alla società civile prezzo l’incessante attività professionale, il pacifico coinvolgimento nell’iniziativa culturale e nel volontariato, ovunque mi fosse stato offerto rifugio. Ricevendo anche encomi di portata internazionale”. Ora questa condizione che Battisti definisce ingiusta e che getterebbe ombre anche sulle recenti estradizioni di altri terroristi dalla Francia. “La questione rifugiati in Francia recente è una farsa. L’Italia ha mentito garantendo trattamento umano e clemenza. Quale migliore prova vedere le condizioni della prigionia di Battisti. Cosa dovrebbero aspettarsi veramente i rifugiati che dalla Francia arrivano in Italia, è l’opposto”. Trani. “aMano libera”: vendute 60 mila confezioni di taralli realizzati dai ragazzi detenuti ilikepuglia.it, 5 giugno 2021 I prodotti, realizzati con la collaborazione del tarallificio Tesori d’Apulia di Trani, sono disponibili nei punti vendita del Gruppo Megamark. Nei primi sei mesi di attività dell’iniziativa ‘aMano libera’, che vede coinvolti dieci ragazzi detenuti ed ex detenuti di alcune carceri italiane ed ora inseriti nella Comunità “San Vittore” e nel progetto ‘Senza sbarre’ della Diocesi di Andria, sono state prodotte e vendute 60 mila confezioni dei tradizionali taralli pugliesi fatti a mano. Il progetto, realizzato dall’associazione ‘Amici di San Vittore Onlus’ di Andria e vincitore del bando ‘Orizzonti Solidali’ 2018/2019 della Fondazione Megamark, offre programmi alternativi alla detenzione e sostegno a giovani che hanno fatto un’esperienza carceraria. L’attività si svolge nella Grande Masseria San Vittore di Andria, circondata da circa 10 ettari di terreni e trasformata in un laboratorio tecnico agricolo messo a disposizione dell’associazione per realizzare iniziative finalizzate ad avvicinare questi ragazzi al mondo del lavoro. Con la collaborazione di tutor del tarallificio Tesori d’Apulia di Trani, i ragazzi coinvolti nel progetto hanno potuto apprendere l’arte della preparazione artigianale dei taralli e avviarne la produzione e il confezionamento; dopo aver certificato la qualità del prodotto, Tesori d’Apulia si è occupato anche della commercializzazione del prodotto che avviene nei supermercati Dok, A&O, Famila e Sole365 del Gruppo Megamark. Il progetto ‘aMano libera’, che prosegue spedito grazie alla motivazione e all’entusiasmo dei ragazzi coinvolti, prevede nei prossimi mesi l’ampliamento della gamma delle referenze dei taralli, oggi disponibili al finocchio, pomodoro secco e vino Nero di Troia. “Siamo felici che questa iniziativa stia riscuotendo successo - dichiara Francesco Pomarico, direttore operativo del Gruppo Megamark -. Un ringraziamento speciale va sicuramente ai clienti dei nostri supermercati, che decidono di scegliere un prodotto tipico della Puglia e che conserva tutto il sapore della solidarietà”. “Auspichiamo che questo progetto, così come il percorso che i nostri ragazzi hanno intrapreso con grande determinazione e voglia di fare - commentano Don Riccardo Agresti e Don Vincenzo Giannelli, responsabili del progetto ‘Senza Sbarre’ - possa proseguire e offrire loro gli strumenti per impegnarsi in altre attività come questa nel segno della legalità e del riscatto sociale”. “Siamo orgogliosi di aver abbracciato questa importante iniziativa - spiega Domenico Tarantini, amministratore del tarallificio Tesori d’Apulia - perché crediamo che trasferire il nostro know-how a dei ragazzi fragili provenienti da contesti difficili rappresenti il primo passo per renderli autonomi e garantire loro un futuro migliore”. Riponete ogni certezza: Falcone coltivava il “dubbio metodico” di Giovanni Fiandaca Il Riformista, 5 giugno 2021 Pubblichiamo un estratto dell'intervento a firma del giurista e accademico Giovanni Fiandaca che propone una rilettura degli scritti di Giovanni Falcone all'interno del volume “L'istruzione probatoria nel diritto amministrativo” a cura di Gaetano Armao, edizione Treccani. Giovanni Falcone, oltre che un magistrato eccezionale, è stato anche un notevole scrittore di saggi e articoli giuridici. E, se fosse lecito trasporre nel campo del diritto una distinzione tratta dal mondo della letteratura, direi che Falcone è stato uno scrittore di cose, e non di parole: nel senso che i suoi scritti traggono sempre spunto e alimento dall'esperienza giudiziaria concreta, e perciò non danno mai quell’impressione di astrattezza o di artificio che suscitiamo talvolta noi giuristi accademici. Il grosso pubblico conosce meglio, verosimilmente, il libro- intervista “Cose di Cosa nostra”, scritto in collaborazione con la giornalista francese Marcelle Padovani e apparso nel 1991. È questo un libro a carattere prevalentemente divulgativo, nel quale Falcone spiega in modo semplice ed efficace la sua concezione della mafia e il metodo, anche di tipo psicologico, utilizzato per entrare in rapporto di comunicazione con alcuni mafiosi che avrebbero poi scelto la strada della collaborazione giudiziaria. È forse meno noto l’altro libro di Giovanni Falcone, cioè quello che raccoglie i suoi contributi a carattere più tecnico e che ha per titolo “Interventi e proposte” (1982- 1992), pubblicato dalla casa editrice Sansoni nel 1994. Ma, prima di richiamare i filoni tematici affrontati nell’opera complessiva di Falcone, voglio fare un accenno a un punto del libro- intervista “Cose di Cosa nostra”, un punto a mio avviso “emblematico” perché illumina alcuni tratti fondamentali della personalità di Falcone e, nello stesso tempo, sintetizza efficacemente la sua filosofia di magistrato: “Mi rimane comunque una buona dose di scetticismo, non però alla maniera di Leonardo Sciascia, che sentiva il bisogno di Stato, ma nello Stato non aveva fiducia. Il mio scetticismo, piuttosto che una diffidenza sospettosa, è quel dubbio metodico che finisce col rinsaldare le convinzioni”. Soffermiamoci sull’espressione “dubbio metodico” utilizzata da Falcone: due parole che testimoniano uno stile intellettuale ispirato a una sorta di razionalità neoilluministica; una fiducia nell’uso della ragione come antidoto contro il fanatismo intellettuale e l’accecamento ideologico; ma, nello stesso tempo, un esercizio di una ragione critica che, lungi dal diventare alibi “gattopardesco” di fatalistica rassegnazione, funge da strumento positivo per modificare effettivamente la realtà. La principale peculiarità del pensiero pragmaticamente orientato di Giovanni Falcone consiste, a ben vedere, nel nesso strettissimo - un vero e proprio legame indissolubile - tra elaborazione tecnico- giuridica o riflessione politico- criminale e approccio criminologico al fenomeno mafioso: nel senso che una determinata concezione della mafia (e in particolare di Cosa nostra) come realtà criminale costituisce sempre il prius da cui egli prende le mosse per sviluppare analisi di diritto positivo o per progettare nuove strategie di intervento. Quale concezione della mafia trapela dagli scritti falconiani? Direi la stessa concezione che ha guidato la sua attività di magistrato, e che si connota per la sottolineatura del carattere polivalente e complesso del fenomeno mafioso: cioè Falcone, pur avendo fornito un contributo eccezionale alla ricostruzione della mafia di Cosa nostra come associazione criminale dotata di un peculiare modello organizzativo, è stato nello stesso tempo ben consapevole dell’impossibilità di ridurre la mafia a puro fenomeno criminale. Da questo punto di vista, la visione di Falcone è in larghissima misura coincidente con la concezione della mafia oggi dominante tra gli studiosi di scienze sociali: almeno per la parte in cui la specificità della criminalità mafiosa viene individuata, da un lato, in un collegamento sistemico con la società civile nelle sue diverse articolazioni e con il mondo della politica; e, dall’altro, nell’adozione di un codice culturale e di un apparato simbolico dai contenuti peculiari che rimanda alla tradizione culturale siciliana. Ma, pur essendo convinto dell’essenzialità del nesso mafia- politica, Falcone si è sempre preoccupato nei suoi scritti di chiarire politiche su contrapposti versanti. Nel contesto di un’intervista rilasciata alla storica Giovanna Fiume, Falcone ha dichiarato: “Ho detto spesso che non esiste il terzo livello, come un organismo lato sensu politico che diriga e controlli le attività della mafia. Sopra i vertici di Cosa Nostra non esiste nulla; esistono rapporti di coordinamento, di collegamento, esistono convergenze di interessi, talora anche inespresse, esistono poi ovviamente singoli concreti casi d’influenza su questo o quell’uomo politico. Ma non vi è affatto una connessione organica tra partiti o fette di partiti e le organizzazioni mafiose. Il fenomeno è molto più articolato e complesso e come tale molto più sfuggente alla repressione penale”. Invero, c’è chi ha richiamato questa chiave di lettura del rapporto mafia-politica per sostenere polemicamente che un magistrato serio e prudente, come Giovanni Falcone, non avrebbe mai concepito un processo Andreotti o un processo Mannino. Si tratta di un richiamo inopportuno. E infatti scorretto utilizzare più o meno strumentalmente, a sostegno delle critiche ai magistrati della stagione giudiziaria di Gian Carlo Caselli, il riferimento a un Falcone che purtroppo non è più in grado di parlare. Al di là degli usi strumentali, una cosa è però certa: l’esito assolutorio, sia pure in forma sostanzialmente dubitativa, di alcuni recenti processi contro importanti uomini politici può trovare ampia spiegazione proprio in quel carattere “sfuggente” del rapporto mafia- politica, di cui Falcone era lucida- mente consapevole. Ma il profilo giuridicamente più rilevante della concezione falconiana si riferisce al modello organizzativo di Cosa nostra. È noto che il problema della struttura organizzativa della mafia è stato più volte affrontato non solo in sede giudiziaria, ma anche nella letteratura sociologica, a cominciare da quella ottocentesca. Le risposte in proposito fornite non sono state omogenee, anche se è tradizionalmente prevalsa la tesi che la mafia siciliana fosse costituita da un insieme di sodalizi indipendenti. In effetti, una risposta a questo problema non può essere data in astratto e una volta per tutte. Piuttosto, la soluzione può variare in rapporto al momento storico considerato e al tipo di organizzazione mafiosa che viene in questione. Orbene, la nota tesi di Falcone, di Paolo Borsellino e degli altri magistrati del pool dell’Ufficio istruzione di Palermo, che attribuisce alla mafia una struttura unitaria e verticistica si riferisce non alla mafia come categoria generale, bensì a una specifica concretizzazione storica di mafia in un frangente storico ben determinato: cioè al modo di operare di Cosa nostra a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta del ventesimo secolo. Questa straordinaria intuizione investigativa, definita da qualcuno con un pizzico di enfasi “vera e propria rottura epistemologica”, manterrebbe ovviamente tutta la sua validità anche se si dovesse scoprire che in momenti storici successivi la struttura organizzativa di Cosa nostra è articolata in forma meno compatta e unitaria. Proprio la tesi della natura unitaria e verticistica costituisce la premessa criminologica del pensiero giuridico e processuale sviluppato nei numerosi scritti e ciò che li lega insieme come un filo rosso; e, com’è noto, funge, nello stesso tempo, da struttura portante di quel capolavoro giudiziario che è il maxiprocesso della metà degli anni Ottanta. Ora, il contributo di idee condensato nei circa quaranta lavori scritti che costituiscono l’eredità saggistica di Giovanni Falcone, ruota appunto attorno a una questione fondamentale: come attrezzare la macchina giudiziaria, e come affinare la professionalità dei magistrati, per fare in modo che un’organizzazione criminale di ampie proporzioni come Cosa nostra possa essere efficacemente contrastata mediante lo strumento della giustizia penale. (...) Insomma: fino a che punto è possibile e lecito, senza tradire i principi della giurisdizione, trasformare la macchina giudiziaria in una sorta di “macchina da guerra” idonea a contrastare la potenza militare di una grande struttura criminale unitaria e compatta come quella di Cosa nostra? “The Mauritanian” ci mostra l'orrore di cui siamo stati capaci a Guantánamo di Niccolò Brighella vdnews.tv, 5 giugno 2021 The Mauritanian non è un semplice legal drama uscito su Amazon Prime Video e ispirato al libro di memorie più venduto negli USA nel 2015. Il film del regista premio Oscar Kevin Macdonald, con Jodie Foster, passato in anteprima europea al Festival di Berlino, è una testimonianza dell’orrore. Un orrore che il mondo occidentale, patria della democrazia e del diritto, è riuscito a infliggere ai suoi prigionieri e a se stesso nell’epoca buia che seguì l’11 settembre e il Patriot Act di George W. Bush. Un orrore che, ormai ufficialmente dismesso, non è ancora il passato. A Guantanamo, infatti, sono rimasti 40 detenuti senza diritti come il protagonista di The Mauritanian, dimenticati in un angolo buio della nostra coscienza collettiva. The Mauritanian ha il coraggio di mostrare questo orrore - Il film è basato su Guantánamo Diary, il libro di memorie più venduto nel 2015, scritto proprio dal protagonista durante la prigionia. Mohamedou Ould Slahi è un pacifico cittadino mauritano che viene catturato, senza troppe prove, dagli USA. Il governo americano ritiene Slahi il reclutatore dei dirottatori che hanno abbattuto le torri gemelle del World Trade Center. Finito a Guantanamo, Slahi (interpretato da Tahar Rahim de Il profeta di Audiard) resta in un limbo di atrocità per anni, senza accuse formali né processo, finché un avvocato difensore, Nancy Hollander (Jodie Foster, che ha vinto il Golden Globe per questo ruolo) sfida l’odio dell’opinione pubblica e prende in mano il caso del mauritano. La sfida tra Hollander e il procuratore interpretato da Benedict Cumberbatch finisce per portare a galla le contraddizioni del carcere di Guantanamo e tutto l’orrore che si nasconde al suo interno. Umiliazioni e violenze sessuali, musica ad altissimo volume, incappucciamenti, soffocamento con acqua (waterboarding) e cani feroci. Queste le torture inflitte ai detenuti, ideate e sviluppate da Mitchell e Jessen, psicologi dell'aeronautica militare, per la CIA. Tecniche sulle quali i due consulenti costruirono una fortuna: la loro società privata ricevette, dai servizi americani, 70 milioni di euro per “interrogare” i prigionieri, negli anni seguenti. The Mauritanian ci mostra queste torture nel momento giusto, senza sconti e senza la retorica che ha cercato per anni, inutilmente, di smascherare la lucida di atrocità dietro i reticolati di Guantanamo. La storia di Guantanamo - Le due parti della base militare di Guantanamo Bay si osservano reciprocamente da un lato all’altro dello stretto di mare che le separa. Con oltre 9mila marines e ormai solo 40 detenuti, “gitmo” (come i militari sono abituati chiamare la base) è l’unica installazione militare statunitense in un paese comunista. Un’esistenza sotto assedio, quella dei soldati di Guantánamo, a loro volta carcerieri, negli anni, di quasi 800 “prigionieri di guerra”. Con questa denominazione, infatti, il governo americano ha cercato di aggirare il diritto internazionale e sottoporre i sospetti terroristi a detenzioni illegali e alle più disparate torture. Dal 2002 al 2003 i detenuti sono passati da 158 a circa 650. Nel 2006 scesero a 500. Dal 2009 in poi ci fu una costante riduzione, fino ai 40 di oggi. Solo per alcuni di loro è stato formalizzato un capo d'imputazione con conseguente rinvio a giudizio. Il campo di prigionia di Guantanamo è diventato, così, una macchina perversa, alimentata dall’isteria di massa, che ha divorato nei suoi ingranaggi anche alcuni innocenti. Ruhal Ahmed, Asif Iqbal e Shafiq Rasul, tre cittadini inglesi, furono catturati in Afghanistan nel 2002 e finirono nell’abisso di Guantanamo per tre anni prima di essere scagionati e rilasciati nel 2004. La loro storia è divenuta un film documentario, The Road to Guantanamo, diretto da Michael Winterbottom e Mat Whitecross nel 2006. Cosa dice di noi Guantanamo - Il 22 gennaio 2009, a due giorni dal suo insediamento alla Casa Bianca, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama firmava il decreto 13492, executive order che concludeva l’esperienza di Guantanamo e stabiliva la chiusura del carcere. Una scelta non solo politica: anche Donald Trump, nonostante gli annunci, durante la sua presidenza ne ha progressivamente dismesso le attività. L’impressione è che dietro quell’abisso di illegalità che è stata (ed è ancora, per 40 persone) Guantánamo non ci fosse tanto la battaglia contro il terrorismo quanto quella contro il terrore. Gitmo è stata la risposta dell’iperpotenza mondiale alla dimostrazione evidente della sua stessa vulnerabilità. Una risposta muscolare, di quelle che l’umanità dà quando si sente in pericolo, rifugiandosi, spesso troppo facilmente, all’ombra della forza e della violenza. Una paura che, però, oggi è ormai fredda e sopita, sotto le ceneri delle nuove paure del millennio. “Le persone ancora detenute a Guantánamo sono inesorabilmente intrappolate a causa di multiple condotte illegali dei governi Usa: trasferimenti segreti, interrogatori in regime di isolamento, alimentazione forzata durante gli scioperi della fame, torture, sparizioni forzate e il totale diniego del diritto a un giusto processo”, ha commentato Daphne Eviatar, direttrice del programma Sicurezza e diritti umani di Amnesty International Usa. Serviranno anni per dismettere Guantánamo, ma la sua eredità ci accompagnerà a lungo. La base di “Gitmo” ha inaugurato una nuova epoca dove i campi di prigionia sono numerosissimi e ben visibili, nel mondo. In alcuni casi, come per gli Uiguri dello Xinjiang, le autorità parlano di “rieducazione”, in altri, come per i migranti nei campi in Libia, di contrasto all’immigrazione clandestina col supporto economico e il beneplacito dell’Occidente europeo. In tutti questi casi il fine della “sicurezza” giustifica qualsiasi mezzo come, nel 2002, la lotta al terrorismo giustificò Guantánamo. Una scelta, quella di allora, che ha formato il nostro tempo trasportandoci in un’epoca più buia. Covid, le difficoltà per vaccinare gli “invisibili” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 giugno 2021 Rimane ancora annoso il problema della vaccinazione degli “invisibili”. Un conto è la teoria, ma nei fatti diventa impossibile. La teoria è che, in Italia, ad oltre 700 mila immigrati viene rilasciato il tesserino Stp (Stranieri temporaneamente presenti), che garantisce l'accesso alle prestazioni sanitarie urgenti o essenziali tra cui le vaccinazioni. L'Stp viene infatti rilasciato agli immigrati irregolari con più di tre mesi di presenza in Italia ma anche a chi ha fatto richiesta di asilo ma non ha ancora i documenti. Ma diventa impossibile, dal momento in cui numerose regioni hanno le piattaforme on line che non prevedono l’accesso in assenza di codice fiscale e numero di tessera sanitaria. Dunque, pur avendo diritto alla vaccinazione, in pratica queste persone non possono accedervi. In alcune Regioni poi, come ad esempio in Friuli Venezia Giulia, si prevede l'inserimento dello Spid, il codice di identità digitale e, in altre, del numero di telefono cellulare certificato. “Con tali livelli di accesso- denuncia l'Associazione medici di origine straniera in Italia (Amsi) - queste fasce di cittadini stranieri non in possesso di tessera sanitaria o altri codici richiesti non possono dunque prenotare la vaccinazione, pur avendone diritto, e nemmeno altre persone possono farlo a loro nome. Al momento, solo la piattaforma informatica dell’Emilia- Romagna prevede l'inserimento dei codici Stp, Eni e permessi di soggiorno temporanei”. Un problema enorme. Intanto in Liguria arriva la proposta del capogruppo del Partito democratico in consiglio regionale, Luca Garibaldi. Ovvero vaccinare gli invisibili presenti in Liguria con il monodose Johnson & Johnson, coinvolgendo le associazioni e la rete dei servizi sociali per intercettare chi non è noto al sistema sanitario regionale. “Si stanno aprendo le vaccinazioni per ogni fascia d’età, pensiamo di vaccinare anche i turisti, tutti quelli che possono prenotarsi sono sufficientemente coperti - analizza Garibaldi - rimane il tema degli invisibili, migranti in attesa del riconoscimento del permesso di soggiorno o senza fissa dimora che non hanno accesso al sistema di prenotazione perché non sono negli elenchi del sistema sanitario regionale, non hanno un codice fiscale né una tessera sanitaria neppure provvisori”. Da qui la proposta, e lo fa tramite l’agenzia stampa Dire: “Bisogna intercettare tutte queste persone attraverso il mondo dell’associazionismo e la rete dei servizi sociali che ogni giorno si occupa di loro per offrirgli pasti, cure e un tetto. Bisogna offrire anche a loro la campagna vaccinale, proponendo il vaccino Johnson & Johnson perché è monodose e si tratta di persone che non è così facile intercettare una seconda volta per un richiamo”. Trovare una soluzione per queste persone, prosegue Garibaldi, è imprescindibile: “Non bisogna lasciare indietro né dimenticare nessuno, il vaccino è un diritto universale, una regola di umanità nonché un tema di salute pubblica e una strategia epidemiologica importante per proteggere anche chi vive in condizioni di emarginazione e chi gli vive intorno. La Costituzione dice che vanno curati tutti gli individui, non tutti i cittadini”. Il consigliere spiega, inoltre, che il tema riguarda anche chi è in possesso di tessere sanitarie e codici fiscali provvisori rilasciati dalla Questura “perché non è detto che siano stati caricati nei sistemi regionali per la prenotazione”. Garibaldi riconosce che si tratta di un tema di valenza nazionale, “ma è importante iniziare a lavorarci fin da ora e chiedere al governo e al commissario straordinario la possibilità di muoversi anche in questa direzione. Si tratta di pochi casi e poche dosi, ma è essenziale costruire una strategia per tutelare tutte le persone”. Un problema che riguarda i fragili e i senza fissa dimora. Non a caso, la scorsa settimana, una delegazione della Comunità di Sant’Egidio, guidata dal presidente Marco Impagliazzo, ha incontrato il generale Francesco Paolo Figliuolo, commissario straordinario per il contenimento della pandemia. Nel corso del colloquio si sono “previsti percorsi per una vaccinazione che comprenda tutte le fasce della popolazione, con particolare attenzione ai più fragili, come le persone senza fissa dimora e chiunque abbia difficoltà ad accedere alla campagna nazionale”. Lo fa sapere in una nota la Comunità. Offensiva del Pd per blindare lo Ius soli. Mauri cerca l'accordo tra partiti di Giovanna Casadio La Repubblica, 5 giugno 2021 “Sarà legge entro la fine della legislatura”. L'impegno del nuovo responsabile Immigrazione dei dem: “Le norme sulla cittadinanza per i nuovi italiani non rimarranno nel cassetto. Il mio appello per una maggioranza parlamentare capace finalmente di approvarle”. “Lo ius soli 'temperato' e lo ius culturae non restano nel cassetto: il Pd punta ad approvare la legge sulla cittadinanza entro la fine di questa legislatura e io sto lavorando per un accordo politico tra i partiti e perché ci sia una campagna di mobilitazione nel Paese”. Appena nominato responsabile dell'Immigrazione, Matteo Mauri, ex viceministro all'Interno che ha seguito passo passo la cancellazione dei decreti Salvini, annuncia l'offensiva del Pd sulla legge di cittadinanza per i nuovi italiani. Mauri, lo ius soli non è accantonato? “Il Pd porterà avanti la battaglia sulla cittadinanza ai giovani nuovi italiani. Enrico Letta ha ribadito che è in agenda, anzi è una delle proposte principali che il segretario ha messo sul piatto”. Ma passerete dalle parole ai fatti o restano sempre e solo buone intenzioni? “È il nostro obiettivo avere la legge entro la fine di questa legislatura. Ma è una legge di iniziativa parlamentare, quindi occorre che in Parlamento ci sia una maggioranza per portarla avanti. Io faccio un appello a tutte le forze politiche per decidere insieme di varare la legge sulla cittadinanza che non può più attendere. Deponiamo le armi della polemica politica. Il tema della cittadinanza non ha a che vedere con gli sbarchi o le politiche di gestione dell'immigrazione. Stiamo parlando di circa 1 milione e 100mila bambini e ragazzi che sono già in Italia, che sono italiani a (quasi) tutti gli effetti, tranne che per un pezzo di carta che certifichi il loro essere cittadini del nostro Paese. Sono i compagni di scuola, gli amici dei nostri figli. Hanno genitori stranieri, ma sono ragazzi che hanno una prospettiva di condurre in Italia la loro vita. E' una norma di civiltà, che peraltro fotografa una realtà esistente e quindi io mi rivolgo a tutti i partiti”. Davvero il Pd pensa di portarla a casa nonostante il governo Draghi abbia una maggioranza con Lega e Forza Italia, acerrimi avversari dello ius soli e ius culturae? “È necessaria. Puntiamo ad approvarla con il maggior numero di forze politiche. Ma se non fosse possibile, di certo con le forze che costituivano la coalizione del governo Conte 2 e con cui abbiamo votato una legge con ben maggiori implicazioni politiche, ovvero i decreti immigrazione che hanno archiviato i decreti Salvini”. Come farete a disincagliarla in commissione Affari costituzionali della Camera dove giacciano tre proposte? “Ci vuole un accordo tra i partiti e io ho cominciato a lavorare su questo Poi credo che bisogna partire con iniziative di mobilitazione ed eventi degli stessi ragazzi interessati, così da mostrare di cosa stiamo parlando, di giovani perfettamente integrati ed attivi che desiderano essere riconosciuti per quello che sono: italiani. Il Pd si mette a disposizione di una campagna di mobilitazione”. Nel merito cosa proporrete? “L'importante è avere una nuova legge sulla cittadinanza per i giovani figli di immigrati cresciuti in Italia. Questo l'obiettivo. Il testo che era stato approvato alla Camera nella passata legislatura e poi è naufragato al Senato è un ottimo punto di partenza. Ma c'è comunque la disponibilità al confronto aperto a tutti e quindi anche a modifiche”. Ma in concreto? “La nostra proposta della nuova legge sulla cittadinanza unisce due sistemi: lo ius soli 'temperato’ e lo ius culturae. Lo ius soli 'temperato’ prevede che un bambino nato in Italia acquisisca la cittadinanza se almeno uno dei due genitori stranieri è in possesso di un permesso di soggiorno di lungo periodo. Il genitore dovrà farne richiesta entro la maggiore età del figlio. Non esiste alcun automatismo quindi che lega la nascita in Italia con l'acquisizione della cittadinanza, in questo senso è 'temperato'. È introdotto anche lo ius culturae: i figli di stranieri arrivati in Italia prima del compimento dei 12 anni possono diventare cittadini dopo avere frequentato regolarmente almeno un ciclo scolastico in Italia”. Il Pd non teme di essere indebolito da questa battaglia che nei sondaggi risulta impopolare? “Non penso sia impopolare. Stiamo parlando di una realtà che tantissime famiglie conoscono perfettamente. Non ci si pone più il problema del perché fare la legge, ma gli italiani si chiedono piuttosto perché non farla. Tra la realtà e il diritto non può esserci la distanza che c'è oggi in Italia. I nuovi giovani italiani sono la realtà. E se anche questa battaglia fosse impopolare resterebbe comunque una battaglia giusta. E di fronte alle scelte giuste non ci si deve mai tirare indietro”. Stranieri, ma non lontani di Luigi Manconi La Repubblica, 5 giugno 2021 Il caso della ragazza pakistana scomparsa. La vicenda della diciottenne pakistana, Saman Abbas, presumibilmente rapita (forse uccisa) dai propri familiari perché voleva sottrarsi a un matrimonio forzato, solleva una questione enorme. E ci parla di una vera e propria “lotta di classe” a carattere generazionale, all’interno della popolazione straniera residente in Italia. Un conflitto che vede contrapposte le seconde generazioni (circa un milione di giovani), alle tradizioni patriarcali e integraliste, spesso dominanti nelle proprie famiglie; e che porta tanti ragazzi e ragazze a percorrere la strada dell’affermazione dei propri diritti e della piena inclusione nel sistema di cittadinanza. Ma la storia di Saman ci dice quanto possa essere faticosa e dolorosa l’integrazione - il termine è imperfetto ma è l’unico disponibile - degli stranieri, all’interno del nostro ordinamento giuridico e del nostro sistema culturale e sociale; e nella accettazione delle leggi dello Stato di diritto e dei valori su cui si fonda. In termini generali, c’è poco da aggiungere: i principi della Costituzione italiana e i diritti universali della persona valgono per tutti. Dunque, chi non rispetta la parità tra maschi e femmine all’interno della famiglia, nella formazione scolastica e lavorativa e nelle scelte affettive, sessuali, coniugali, commette reato e va sanzionato. Ancor più quando si attenti a quel diritto umano fondamentale che è l’integrità fisica e psichica: come è nel caso della pratica - prima culturale che religiosa - delle mutilazioni genitali femminili. Rispetto a tutto ciò, qualsiasi interpretazione in termini di relativismo culturale e di tutela delle “culture altre”, non è solo un grave errore, è una mascalzonata sottilmente razzista: in quanto muove dal presupposto che vi siano determinati individui, gruppi o etnie non meritevoli della protezione dei diritti universali. Perché, dunque, la vicenda di Saman è stata sottovalutata da parte di media e opinione pubblica? Non certo a causa della presunta sudditanza psicologica della sinistra verso l’Islam o di un riflesso condizionato politicamente corretto che indurrebbe a un pregiudizio favorevole nei confronti di tutto ciò che riguarda l’immigrazione. Né tantomeno (si è sentita anche questa), a motivo di un calcolo elettoralistico: in Italia, gli stranieri titolari di cittadinanza, e conseguente diritto di voto, sono oltre due milioni. E, dai dati disponibili, emerge che le loro opzioni politiche si collocano lungo l’asse destra - sinistra, in percentuali sostanzialmente sovrapponibili a quelle degli altri italiani. Vale la pena ricordare che, in passato, il leader politico che riscuoteva maggiori consensi tra gli stranieri, era Silvio Berlusconi: e proprio per i valori trasmessi dal suo messaggio politico (famiglia, tradizione, religione, ascesa sociale, successo…). Dunque, una lettura politicistica appare totalmente infondata. Ciò che pesa è piuttosto il fatto che le relazioni all’interno delle comunità e delle famiglie di stranieri, sembrano appartenere a mondi lontani e inaccessibili, dai quali difenderci e comunque prendere le distanze. Dietro, c’è un’idea di società rigorosamente ripartita per nicchie distinte e autonome. La sola preoccupazione è che non minaccino la nostra sicurezza e i nostri beni, ma su cosa accada al loro interno la rimozione è la scelta, degli individui e delle istituzioni, meno ansiogena e più tranquillizzante. Ne consegue la difficoltà di un confronto ravvicinato - anche aspro e conflittuale - tra differenti culture e sistemi di valori. Il che alimenta la separatezza di quelle comunità e di quelle famiglie, al cui interno è più facile che si perpetuino rapporti di potere arcaici. Nella vicenda di Saman, per la verità, le istituzioni pubbliche si sono mosse, ma nella tensione tra due progetti di vita (quello della diciottenne e quello dei suoi genitori), ha finito col prevalere, in ragione della violenza esercitata, l’ordine della tradizione più cupa. Non accade sempre così, la sorte di Saman non è unica ma non è nemmeno generalizzabile. La gran parte dei giovani stranieri tende a rassomigliare ai nostri figli e non solo nei costumi e nei consumi: anche nella consapevolezza dei propri diritti. La consigliera comunale di Reggio Emilia, Marwa Mahmoud, a proposito della vicenda di Saman, pronuncia parole sagge, e altrettanto fanno le non poche giovani musulmane elette nelle assemblee rappresentative locali. E va sottolineato che l’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (Ucoii), si è espressa nettamente (e non è la prima volta) contro i matrimoni forzati e l’infibulazione femminile. Lo Stato deve fare la sua parte: “Non investiamo abbastanza nella mediazione sociale e culturale”, ha scritto il sociologo Maurizio Ambrosini (Avvenire del 2 giugno scorso), e molto possono fare gli italiani che nelle scuole, nei posti di lavoro, nei condomini, devono condurre una loro quotidiana battaglia culturale, ragionevole e rispettosa, senza alcuna tracotanza e senza alcuna soggezione. Ne verrà incentivata la convivenza pacifica tra stili di vita e sistemi morali destinati comunque a coabitare. Sudan. “Sono all’inferno, in carcere tra centinaia di persone ammassate in una stanza” di Elisabetta Rosaspina Corriere della Sera, 5 giugno 2021 Il racconto dell’imprenditore italiano Marco Zennaro, incarcerato per una controversia commerciale: “I compagni di cella mi hanno preso in cura perché vedono un uomo morto, vi prego riportatemi a casa”. Quando Marco Zennaro è entrato due giorni fa nella sua nuova cella, dopo 8 ore di attesa in una camera di sicurezza del tribunale e un’ora e mezza di viaggio in un cellulare della polizia nell’afa da 50 gradi di Khartum, i suoi “coinquilini” gli hanno raccontato poi di aver visto “un uomo morto”; e si sono presi cura di lui forse con più umanità della sua scorta. È il primo racconto in presa diretta che arriva dal carcere del Sudan dove continua la prigionia dell’imprenditore veneziano di 46 anni, accusato di frode e trattenuto nel paese da poco meno di undici settimane. La controversia riguarda una partita di trasformatori elettrici che la ditta di Zennaro ha venduto al suo distributore locale, Ayman Gallabi, che - a sorpresa - l’aveva ritenuta non conforme al contratto. Marco Zennaro è andato a Khartum nella seconda metà di marzo per comprendere le ragioni della contestazione. Da allora non è più riuscito a fare ritorno in Italia, passando da una cella del commissariato a quella della prigione, nonostante un primo rimborso di 400 mila euro concordato con Gallabi, il cui corpo però è stato poi ritrovato morto nel Nilo, il 22 maggio. E nonostante l’ambasciatore italiano, Gianluigi Vassallo, e la Farnesina stiano cercando una composizione con i clienti finale della fornitura e la società elettrica sudanese Sedc, diretta da un parente stretto del generale Mohammed Dagalo, vice presidente del governo di transizione in Sudan. Ecco il resoconto che Marco Zennaro è riuscito a far arrivare alla famiglia in Italia nelle ultime ore: “Sono rimasto 8 ore nel carcere del palazzo della corte dove non sapevo nemmeno di doverci andare. Uno stanzino sottoterra al buio. Senz’acqua né gabinetto né modo di comunicare con l’esterno. Mi era stato detto che era per portarmi in albergo. Ma la corte ha deciso il contrario: carcere. Mi viene detto di salire su una camionetta di latta in 40 persone per un viaggio di 1 ora e mezzo nel traffico di Khartoum. Tutti ammassati. Un forno a 50 gradi”. “Arrivo in carcere, ho paura - prosegue il racconto di Zennaro - Non so cosa mi aspetta. Nessuno sa nulla, non ho telefono e nessuno parla inglese. Mi hanno fatto attraversare il settore degli omicidi, spacciatori e criminali: un inferno di 700-800 corpi ammassati uno a ridosso dell’altro. Alla fine mi mettono nella sezione di reati penali con giustificazione finanziaria. Ci saranno 200 persone. Mi hanno preso in cura tutti i miei nuovi compagni perché hanno detto di aver visto un morto. Sono ostaggio di un sistema senza regole. Vi prego riportatemi a casa dalla mia famiglia”. Alvise Zennaro, il fratello minore di Marco, conferma che “Avvocato, ambasciatore e Farnesina stanno ancora lavorando per farlo uscire al più presto, perché la sua situazione resta estrema, sia fisicamente sia psicologicamente”. L’Unhcr contro la Danimarca per la legge che esternalizza i rifugiati di Giansandro Merli Il Manifesto, 5 giugno 2021 “L’Unhcr si oppone fermamente agli sforzi che mirano ad esternalizzare o a fare gestire ad altri paesi gli obblighi relativi ad asilo e protezione internazionale. Tali sforzi per eludere le responsabilità sono contrari alla lettera e allo spirito della Convenzione sui Rifugiati del 1951 e al Global Compact sui Rifugiati”. È netta la presa di posizione dell’alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati Filippo Grandi all’indomani del voto del parlamento danese di una legge che permetterebbe di trasferire all’estero, in un paese non ancora specificato, i richiedenti asilo. La misura è stata promossa dal partito socialdemocratico della premier Mette Frederiksen e ha avuto il sostegno di verdi e destre. Grandi ha ricordato che già oggi quasi il 90% dei rifugiati del mondo vivono in paesi in via di sviluppo. Lunedì scorso l’Unhcr aveva diffuso una nota in cui condannava duramente l’esternalizzazione delle procedure per la richiesta di protezione internazionale. “Il parlamento ha votato alla cieca - ha dichiarato Charlotte Slente, segretaria generale del Danish Refugee Council, una Ong di carattere globale - Non è chiaro come un centro di accoglienza in un paese terzo possa essere amministrato tenendo contro della responsabilità legale della Danimarca nella tutela dei diritti di richiedenti asilo e rifugiati”. Per Slente si tratta di un pessimo segnale verso paesi molto meno ricchi ma che ospitano molti più rifugiati: potrebbero “rinunciare agli sforzi globali per trovare soluzioni sostenibili”. A esultare del secondo assist nel giro di poche settimane che un governo di centro-sinistra ha offerto alla propaganda sovranista Matteo Salvini: “Dopo i respingimenti spagnoli e le frontiere chiuse della Francia, un altro governo europeo ci dà lezioni”. Hong Kong. Luci accese nella notte per salvare la memoria di Tienanmen di Guido Santevecchi Corriere della Sera, 5 giugno 2021 Per la prima volta in 32 anni la polizia ha bloccato la veglia democratica a Victoria Park. Per 32 anni il 4 giugno ha ricordato al mondo e al Partito comunista l’eccezionalità di Hong Kong rispetto a Pechino e ad altre centinaia di città della Cina, tutte uguali. Nella capitale della Repubblica popolare cinese, la polizia già settimane prima dell’anniversario di Tienanmen rastrellava “i soliti sospetti”, coloro che avrebbero potuto cercare di tenere viva la memoria dei martiri schiacciati dalla repressione del 1989 per aver osato chiedere giustizia sociale (prima ancora che la democrazia). Nell’ex colonia britannica decine di migliaia di persone erano libere di riunirsi nella notte a Victoria Park, per ricordare i caduti. Dall’anno scorso radunarsi per accendere candele dopo il tramonto del 4 giugno è vietato anche a Hong Kong. Motivi di prevenzione sanitaria ai tempi del coronavirus, hanno detto le autorità. Ma naturalmente nessuno ci crede. Nel 2020 comunque alcune migliaia di hongkonghesi si erano dati appuntamento nel grande spazio di Victoria Park, luogo tradizionale di concentramento delle manifestazioni. I dimostranti indossarono le mascherine sanitarie e rispettarono per quanto possibile il distanziamento, non ci furono incidenti e gli agenti osservarono senza intervenire. Ma poi arrestarono alcuni esponenti del comitato organizzatore: tra loro Joshua Wong, che ha ricevuto una condanna a 10 mesi per aver “deliberatamente e premeditatamente” violato il divieto. È il virus della democrazia che Pechino ha voluto sempre debellare a Hong Kong. Per questo, l’1 luglio del 2020 è stata imposta la legge di sicurezza nazionale cinese anche nel territorio ad amministrazione speciale, che la Cina si era impegnata a governare fino al 2047 in base all’accordo “Un Paese due sistemi”. Commemorare Tienanmen ora sarebbe reato anche a Hong Kong, perché il Partito-Stato considera sempre “sovversivi” i ragazzi massacrati nella notte tra il 3 e il 4 giugno del 1989. Però, ipocritamente, la polizia ha negato il permesso di riunione anche quest’anno per motivi sanitari. Ieri il Victoria Park è stato chiuso e presidiato da cordoni di poliziotti; altoparlanti hanno ammonito la gente a non avvicinarsi; nella City sono stati mobilitati 7 mila agenti per vigilare. Nonostante le minacce di arresto, nella notte gruppi di cittadini coraggiosi hanno acceso candele e le luci dei telefonini nelle strade della City. Anche il Consolato americano ha esposto lumini alle finestre. E il vecchio cardinale cattolico Joseph Zen ha celebrato una messa in suffragio dei caduti di Tienanmen, dicendo nell’omelia: “Chiedevano solo un governo pulito, ma hanno dovuto lasciare il mondo con il marchio di rivoltosi”. Per precauzione, ieri mattina la polizia aveva arrestato Chow Hang-tung, vicepresidentessa dell’Alleanza democratica che organizzava la veglia. Chow, 37 anni, avvocata, aveva annunciato la determinazione di accendere una candela in strada alle 8 di sera. L’hanno ammanettata per dare un esempio. Altri arresti nella notte. Gli hongkonghesi che hanno illuminato i loro smartphone dimostrano che c’è ancora una differenza tra la loro città e Pechino. Nella capitale della Cina da decenni non c’è più bisogno di vietare alcuna manifestazione: la strategia dell’”amnesia collettiva” ha offuscato la memoria, la censura ha rimosso ogni riferimento a Tienanmen e al 4 giugno 1989, il Partito-Stato in cambio della rinuncia alla memoria ha garantito alla gente la corsa incessante dell’economia. E comunque qualunque pechinese sa che riunirsi in pubblico (o anche in privato) porterebbe in carcere. A Hong Kong, invece, le lucine nella notte sono ancora lampi di libertà. Lee Cheuk-yan, veterano del movimento democratico incarcerato per le proteste del 2019, ha acceso una sigaretta in cella: “Protesto mandando segnali di fumo”. Cina. Tienanmen, 32 anni fa. Tre uomini che non esistono più sono quello che ci resta di Roberto Saviano Corriere della Sera, 5 giugno 2021 Prima che la pandemia spazzasse via tutto, ci siamo concentrati sul binomio popolo versus élite solo riferendoci all’oggi. Ma cosa significa popolare se il popolo non esiste più? E come faccio a esprimere un giudizio sulle élite se le élite, di fatto, non hanno più interesse a esporsi? In questi giorni, 32 anni fa, le proteste di piazza Tienanmen culminavano in una feroce repressione di Stato di cui ancora oggi non conosciamo la reale entità, per numero di vittime, feriti e arrestati. Quello che però sappiamo bene sono gli effetti di quelle proteste nel resto del mondo. Quando penso a ciò che accadde in piazza Tienanmen mi vengono in mente tre persone e un paradosso. Parto dal paradosso. Negli scorsi anni, con l’imporsi sulla scena politica di forze sovraniste di destra, ci siamo interrogati sulla contrapposizione “popolo” versus “élite”. Le proteste di piazza Tienanmen furono palesemente proteste popolari, perché coinvolsero un numero elevatissimo di operai, ma furono anche una protesta delle élite: in piazza c’erano studenti, intellettuali, professori universitari. E a infiammare gli animi fu un editoriale pubblicato sul Quotidiano del Popolo che stigmatizzava le proteste studentesche: appunto, popolo versus élite. Credo che, negli ultimi anni, prima che la pandemia spazzasse via tutto, ci siamo concentrati sul binomio popolo versus élite solo riferendoci all’oggi; non siamo stati in grado, o non ne abbiamo avuto il tempo, di chiarirci le idee su come la realtà sia cambiata tanto da rendere questi termini due false friends, ovvero parole che ci prendono un po’ in giro sul loro significato. Cosa significa popolare se il popolo non esiste più? E come faccio a esprimere un giudizio sulle élite se le élite, di fatto, non hanno più interesse a esporsi? Ma lasciamo i paradossi e concentriamoci sulle persone. Il primo è il rivoltoso sconosciuto ritratto nella foto di questa settimana. Un uomo (più verosimilmente un ragazzo) che ha scelto di resistere e, il 5 giugno 1989, fermò una colonna di carri armati in piazza Tienanmen. Lo fece non solo con il corpo, ma con le parole: salendo sul carro, discutendo con il carrista. E così i rivoltosi sconosciuti divennero due: l’uomo che con il suo corpo bloccò l’avanzata dei carri armati e il carrista che, fermandosi, si rifiutò di eseguire gli ordini. Entrambi probabilmente sono stati uccisi. Di loro non si è saputo nulla, nemmeno i nomi. Ma i loro nomi saranno i nostri se oseremo parlare fuori dal coro e leggere la realtà con occhi liberi. Il terzo uomo è Liu Xiaobo, primo cinese ad aver vinto il Nobel per la pace, ricevuto nel 2010 mentre iniziava a scontare la pena a 11 anni di carcere inflittagli nel suo Paese. Liu è stato un personaggio chiave della scena politica cinese; è morto a 61 anni e l’ultima condanna - la quarta - l’ha subita a 55. Il suo battesimo politico avvenne proprio nella primavera di Tienanmen, quando fu accusato di “istigare alla controrivoluzione”. A 30 anni era già ritenuto uno degli spiriti più anticonformisti nel panorama culturale cinese. Liu è uno dei leader che, il 2 giugno, organizzò lo sciopero della fame degli studenti. Meno di due giorni dopo, quando i carrarmati di Deng Xiaoping cinsero d’assedio la capitale e si avvicinarono alla sua piazza centrale, Liu negoziò con i militari una “via di ritirata” agli studenti. Il suo intervento salvò molte vite. Dal 1989 in poi, la sua fama e il suo prestigio crebbero di pari passo con i sospetti del regime su di lui. Nel 1995 fu imprigionato per 6 mesi. Dal 1996 al 1999 passò tre anni in un campo di lavoro dove veniva rieducato per avere “disturbato l’ordine sociale”. La sua sfida più audace, e gravida di conseguenze, la lanciò nel dicembre 2008 con la Carta 08, manifesto democratico che si ispirava a Charta 77 dei dissidenti cecoslovacchi contro il comunismo. “Ho esercitato, da cittadino cinese”, dirà Liu Xiaobo in tribunale, “il diritto alla libertà di espressione sancito dalla Costituzione, e non solo non potrei subire restrizioni politiche e privazioni arbitrarie, ma anzi dovrei ricevere il rispetto dello Stato e la protezione della legge”. Carta 08, con la richiesta di libertà di stampa ed elezioni democratiche, doveva uscire il 10 dicembre 2008, 60° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata dalle Nazioni Unite. Quarantott’ore prima della fatidica data, la polizia bussò a casa di Liu per arrestarlo. Per un anno viene detenuto in una località segreta, senza contatti con la stampa né difensori legali. Liu Xiaobo è morto in Cina, avrebbe dovuto essere trasferito all’estero, avremmo dovuto pretenderlo. Il cancro al fegato l’ha consumato in carcere e questa è una sconfitta per tutti. La crisi umanitaria in Mozambico: una guerra civile da 700mila sfollati di Youssef Hassan Holgado Il Domani, 5 giugno 2021 “Parlando con la popolazione locale ti rendi conto che se capiti nelle mani del nemico è un incubo a occhi aperti” dice Alessandro Pasta ufficiale di campo a Pemba la capitale della regione di Cabo Delago nel Mozambico settentrionale. È uno dei membri della missione dell'Unhcr che offre sostegno e assistenza ai mozambicani sfollati da quando nell'ottobre del 2017 alcuni gruppi armati hanno cercato di impossessarsi di alcune aree del paese. In totale sono circa 700mila gli sfollati ma il numero tende a salire e secondo Pasta può fino a un milione entro la fine dell'estate. Il conflitto tra i gruppi armati e il governo non mostra segni di cedimento. Anzi, dallo scorso autunno si è intensificato, con i miliziani islamisti che hanno provato a impossessarsi di strutture e aree strategiche. Francesca Fontanini, capo delle relazioni esterne di Unhcr in Mozambico. Parla da Maputo, la capitale del paese, ma spesso va sul campo. Almeno una volta al mese si reca a Pemba per verificare le condizioni degli sfollati interni, qui ci sono alcuni degli oltre quaranta campi per sfollati costruiti dal governo. Ma sono insufficienti ad ospitare l'alto numero di persone che cercano rifugio. È diventato quasi normalità vedere gli sfollati dormire per terra. Chi è arrivato in questi campi da più tempo è riuscito a costruirsi delle abitazioni di fango, ma gli ultimi arrivati ??non hanno neanche una tenda. Almeno una volta al mese si reca a Pemba per verificare le condizioni degli sfollati interni, qui ci sono alcuni degli oltre quaranta campi per sfollati costruiti dal governo. Ma sono insufficienti ad ospitare l'alto numero di persone che cercano rifugio. È diventato quasi normalità vedere gli sfollati dormire per terra. Chi è arrivato in questi campi da più tempo è riuscito a costruirsi delle abitazioni di fango, ma gli ultimi arrivati ??non hanno neanche una tenda. Almeno una volta al mese si reca a Pemba per verificare le condizioni degli sfollati interni, qui ci sono alcuni degli oltre quaranta campi per sfollati costruiti dal governo. Ma sono insufficienti ad ospitare l'alto numero di persone che cercano rifugio. È diventato quasi normalità vedere gli sfollati dormire per terra. Chi è arrivato in questi campi da più tempo è riuscito a costruirsi delle abitazioni di fango, ma gli ultimi arrivati ??non hanno neanche una tenda. Ci sono città come Pemba che hanno raddoppiato la loro popolazione, accogliendo gli esodati del conflitto. Per decongestionare le zone urbane il governo ha deciso di costruire i campi in zone isolate. Lontani dagli ospedali e dai pozzi d'acqua. Taniche alla mano, i mozambicani camminano chilometri ogni giorno per prendere acqua potabile. La crisi umanitaria in corso ha raggiunto quasi l'apice. Si fa fatica anche a trovare i generi alimentari più basilari. Qui interviene il World Food Program ma non sempre i fondi stanziati dalla comunità internazionale bastano a colmare le necessità. “Tante madri vengono con i bebè e non hanno latte da dare, tritano delle erbe e le danno ai bambini. Sono delle erbe basiche che possono trovare e coltivare, ma non è l'alimentazione adeguata” spiega Fontanini. “Vengono in condizioni traumatiche, molti addirittura solo con i vestiti addosso. Non hanno niente con loro” continua il funzionario di Unhcr. “Ci ??sono anche migliaia di casi di separazione e in questo lavoriamo con Save the Children per cercare di riunificare le famiglie”. I servizi di assistenza sanitaria e di educazione sono quasi inesistenti. Ogni tanto il governo invia delle cliniche mobili fuori i campi sfollati ma non sono dotate di attrezzatura sufficiente e adeguata. Con la pandemia la situazione sanitaria è ancora di più allo stremo. Sono quasi 71mila i casi da Covid-19 registrati nel paese, alcuni funzionari delle Nazioni unite che anche sul territorio e che tra possono. “Ci ??sono anche migliaia di casi di separazione e in questo lavoriamo con Save the Children per cercare di riunificare le famiglie”. I servizi di assistenza sanitaria e di educazione sono quasi inesistenti. Ogni tanto il governo invia delle cliniche mobili fuori i campi sfollati ma non sono dotate di attrezzatura sufficiente e adeguata. Con la pandemia la situazione sanitaria è ancora di più allo stremo. Sono quasi 71mila i casi da Covid-19 registrati nel paese, alcuni funzionari delle Nazioni unite che anche sul territorio e che tra possono. “Ci ??sono anche migliaia di casi di separazione e in questo lavoriamo con Save the Children per cercare di riunificare le famiglie”. I servizi di assistenza sanitaria e di educazione sono quasi inesistenti. Ogni tanto il governo invia delle cliniche mobili fuori i campi sfollati ma non sono dotate di attrezzatura sufficiente e adeguata. Con la pandemia la situazione sanitaria è ancora di più allo stremo. Sono quasi 71mila i casi da Covid-19 registrati nel paese, alcuni funzionari delle Nazioni unite che anche sul territorio e che tra possono. Ogni tanto il governo invia delle cliniche mobili fuori i campi sfollati ma non sono dotate di attrezzatura sufficiente e adeguata. Con la pandemia la situazione sanitaria è ancora di più allo stremo. Sono quasi 71mila i casi da Covid-19 registrati nel paese, alcuni funzionari delle Nazioni unite che anche sul territorio e che tra possono. Ogni tanto il governo invia delle cliniche mobili fuori i campi sfollati ma non sono dotate di attrezzatura sufficiente e adeguata. Con la pandemia la situazione sanitaria è ancora di più allo stremo. Sono quasi 71mila i casi da Covid-19 registrati nel paese, alcuni funzionari delle Nazioni unite che anche sul territorio e che tra possono. Il conflitto - Rapimenti, violazioni di diritti umani, violenze sessuali e uccisioni sono all'ordine del giorno. Sono oltre duemila le vittime da quando nell'ottobre del 2017 è scoppiato il conflitto. Alcune aree del paese sono totalmente fuori controllo. Ma è una “guerra” di cui non si sa molto. Ci sono poche informazioni a riguardo e pochi i giornalisti locali che riescono a ottenere dati di prima mano che attribuisce gli attacchi a un gruppo armato. Ma non è una casualità se il conflitto si è intensificato nell'area di Cabo Delgado e in alcune aree dove ci sono le risorse più ricche del paese. Parallelamente allo scontro armato è nata una rete di contrabbando di traffico di eroina e di pietre preziose. Il gruppo armato si fa chiamare Al Shabaab, come l'organizzazione terroristica attiva in Somalia, ma non ci sono riscontri di una eventuale affiliazione. Le operazioni militari condotte dal governo hanno riconquistato alcuni territori finiti in mano del gruppo armato islamista. Sono venuti in soccorso anche contractors russi del gruppo Wagner dopo un accordo siglato con il governo. Sono gli stessi militari che combattono in Libia e in Siria. Alcune aree sono estremamente militarizzate e le aziende straniere hanno lasciato il paese. “Le persone che vivono nei villaggi non sanno neanche cosa sta succedendo” spiega Pasta. “Vedono questi gruppi armati e non sanno cosa accade, per questo chiamano i militanti “i fantasmi” perché vengono e vanno all’improvviso”. Il trauma è maggiore vista la cultura pacifica che vige in questi villaggi. Una cultura che si sta spezzando. “Il Mozambico è uno dei paesi più giovani al mondo, ha un’età media di 14 anni. Ci sono generazioni di ragazzi che hanno visto solo la violenza e crescono in un ambiente simile” denuncia il funzionario dell’Unhcr. La crescita economica - Il Mozambico è un paese da mille contraddizioni. È complesso capire cosa sta accadendo. Secondo il Transparency index del 2020 si posiziona al 149esimo posto tra i paesi con il più alto tasso di percezione della corruzione, insieme alla Nigeria e al Camerun. Soltanto il 15 per cento della popolazione su 25 milioni di abitanti ha accesso all’energia elettrica. Eppure, il Mozambico ha una ricchezza potenziale enorme. Ha riserve minerarie ed energetiche che potrebbero renderlo tra i paesi più ricchi del continente Ebano e sono molte le multinazionali e aziende occidentali che hanno puntato i loro investimenti nel paese. A Mamba sono stati scoperti giacimenti di gas naturale di una portata enorme, in totale sarebbero oltre 2 miliardi i metri cubi di gas naturale che potrebbero essere estratti. Il Fondo monetario internazionale ha stimato una crescita del Pil di circa l’11,5 per cento per il 2024. Investimenti miliardari che potrebbero dare un grande slancio al paese. Ma c’è il peso del debito pubblico sulle spalle, che è raddoppiato negli ultimi 7 anni e si attesta a circa il 110 per cento del Pil nazionale. I legami tra Italia e Mozambico sono tanti, risalgono al periodo della guerra civile che si è conclusa con il trattato di pace firmato nel 1992 tra il governo e il gruppo armato Renamo. Una copia di quel documento è attualmente custodito nella Chiesta di Sent’Egidio a Roma visto il ruolo da mediatore dell’Italia. I legami storici si dipanano fino ai giorni nostri e si trasformano in dollari. La Saipem, società italiana leader nel settore energetico e delle infrastrutture ha ottenuto nel 2019 una commessa da 6 miliardi per la costruzione di un impianto onshore di gas naturale. Una delle commesse più costose ottenute dal Mozambico ma che vista l’instabilità dovuta al conflitto è attualmente ancora in stand by per preservare il progetto finale. L’Eni ha scoperto importanti giacimenti di gas a Coral, Memba e Agulho, la maggior parte dei suoi investimenti sono garantiti da Sace, di proprietà di Cassa depositi e prestiti. Nel progetto Coral South (dal valore di 4,7 miliardi di euro), l’Eni e la ExxonMobil puntano a esportare circa 3,4 milioni di tonnellate di gas liquefatto all’anno. Le aziende italiane non sono le uniche, qui tra le più conosciute c’è la francese Total che nel 2019 ha rilevato gli asset dell’americana Anadarko sul territorio. Il suo potere è talmente potente da avere un aeroporto privato vicino ai suoi stabilimenti. Con il conflitto civile l’azienda ha quasi ritirato tutto il personale, ma è attiva nel progetto Mozambique Lng, valutato 20 miliardi di dollari. Un progetto che ha portato a oltre 500 famiglie a lasciare le loro abitazioni e il loro territorio. Insomma, ennesimi progetti miliardari che non sono stati di ridistribuire la ricchezza nel territorio e che anzi hanno attratto un conflitto armato civile senza precedenti. La mano del Cremlino sul Sahel. “Punta al potere nella regione” di Pietro Del Re e Anais Ginori La Repubblica, 5 giugno 2021 Macron mette fine alla cooperazione militare con Bamako, ma teme che Putin ne possa approfittare. Soldati e propaganda russa destabilizzano il Sud della Libia, Mali e Repubblica Centrafricana. A sorpresa, giovedì sera la Francia ha annunciato la sospensione della cooperazione militare con il Mali. Davanti al “golpe nel golpe”, Emmanuel Macron ha piazzato una doppia linea rossa: transizione democratica e rifiuto di scendere a patti con i gruppi jihadisti. “L’Islam radicale in Mali con i nostri soldati sul posto? Mai e poi mai”, è sbottato il leader francese, anche in vista di possibili accordi tra la giunta di Bamako e alcune formazioni islamiste contro le quali la Francia combatte da otto anni. Anche se la minaccia di un ritiro francese è ancora soltanto teorica, la guerra del Sahel, con già una cinquantina di caduti nell’esercito francese e un sostegno in patria che diminuisce, potrebbe complicare la campagna per le presidenziali dell’anno prossimo. Ma a ridurre l’influenza di Parigi nella regione potrebbe essere la Russia, che con il nuovo colpo di Stato in Mali cercherà di trarre vantaggi economici e politici. Il 28 maggio alcune centinaia di dimostranti si sono radunati di fronte all’ambasciata russa a Bamako, invocando l’intervento di Mosca e la cacciata dei militari francesi. Manifestazioni dietro cui Macron vede la lunga mano del Cremlino. La Russia è inoltre il Paese che ha contribuito ad addestrare diversi membri della giunta golpista, a cominciare dal colonnello Assimi Goita che lunedì sarà nominato presidente. Secondo il Capo di Stato maggiore François Lecointre, a capo dei cinquemila soldati francesi nel Sahel, “se Parigi se ne andasse, Mosca potrebbe riempire il vuoto”. Le mire russe sul continente non sono un mistero. E nella regione per la Francia gli interessi economici sono limitati. Il petrolio del Ciad è sfruttato da cinesi e americani. In Mali non c’è petrolio, nessuno sbocco commerciale in uno dei Paesi più poveri al mondo, le miniere d’oro sono sfruttate dai canadesi. E l’attività di estrazione dell’uranio del nord del Niger, componente essenziale per le centrali nucleari francesi, è sempre più complicata, tanto che Parigi ormai si alimenta più dal Kazakistan. Non solo: ad aprile, con l’uccisione di Idriss Deby, la Francia ha perso uno dei migliori alleati nella regione. Il presidente ciadiano, ora sostituito dal figlio, sarebbe stato assassinato dai ribelli del Fronte per l’alternanza e la concordia del Ciad (Fact) addestrati dal generale libico Khalifa Haftar, con l’appoggio dei mercenari russi di Wagner, vicini al Cremlino. Se per anni Parigi ha appoggiato Haftar, le relazioni si sono raffreddate anche alla luce del patto di ferro tra il generale della Cirenaica e Mosca. “Il loro sistema di disinformazione è fatto molto bene”, osserva l’inquilino dell’Eliseo. In teoria, gli obiettivi russi e francesi sono simili: entrambi i Paesi dichiarano il loro sostegno alle autorità locali, alla lotta al terrorismo e alla cooperazione allo sviluppo, tuttavia l’offerta russa è un’alternativa sempre più allettante per i governi africani perché Mosca è più focalizzata sulla stabilità e sull’unità del potere che sulla riconciliazione interetnica, mentre l’approccio francese incoraggia la democratizzazione, le elezioni regolari e il consenso. Inoltre, a differenza della Russia, per via del suo passato coloniale Parigi è vista spesso come una potenza oppressiva soprattutto dalle popolazioni del Mali, del Burkina Faso e della Repubblica Centrafricana. Anche in Libia il ruolo militare dei russi è molto forte. A Sirte dispongono di un aeroporto militare e di loro basi logistiche, mentre le truppe del generale Haftar possono ancora contare sull’appoggio dei contractor della Wagner, che non si sono mossi da lì nonostante il cessate il fuoco. Ora, a monitorare la tregua dovrebbe essere una polizia composta da uomini fedeli sia al governo di Tripoli sia a quello di Bengasi. Ma il progetto di questa forza mista non decolla per via delle forti resistenze di Mosca, che una volta consolidata la pace teme di perdere ogni controllo nel Paese nordafricano a scapito dell’Ue, che cerca di riconquistare il terreno perduto. Ma Bruxelles deve guardarsi dal fuoco amico: l’ambiguità di Parigi. Infatti sono i libici stessi che chiedono all’Europa un aiuto per pattugliare il confine meridionale del Paese, dove oltre a droga e armi transitano i migranti verso il Mediterraneo. I Paesi dell’Unione si sono più volte detti disponibili a svolgere questo compito, al quale però si è sempre opposta Parigi, che preferisce un accordo bilaterale con i libici per controllare da sola il sud del Paese. Il prossimo 14 giugno, la Francia proporrà agli altri Stati membri di spostare da nord a sud l’operazione “Irini”, destinata ad attuare l’embargo sulle armi in Libia, ma solo dopo le elezioni, che nessuno sa se si terranno veramente il prossimo dicembre. Quanto alla Repubblica Centrafricana, da anni funestata da una sanguinosa guerra civile, gli uomini di Mosca hanno firmato un accordo con il governo locale che prevede, in cambio di grosse concessioni minerarie nel Paese, l’addestramento delle forze di sicurezza locali e la protezione del presidente Faustin-Archange Touadéra. E anche lì sono presenti circa duemila uomini della Wagner, i quali ammazzano impunemente non solo i ribelli ma anche gli oppositori del regime. I metodi brutali degli “istruttori” russi preoccupano il personale delle Nazioni Unite che ha stilato una lunga lista dei crimini commessi, in cui si parla di esecuzioni sommarie di massa, stupri, sequestri, torture durante gli interrogatori, attacchi contro le organizzazioni umanitarie, spostamenti forzati di popolazioni. L’influenza russa è sempre più incisiva anche grazie a un’abile propaganda. Il 15 maggio è stato proiettato nello stadio di Bangui, davanti a 20mila spettatori, una superproduzione cinematografica russo-centrafricana: un film di guerra in cui i soldati di Mosca e quelli del regime combattono eroicamente contro orde di sanguinari ribelli, ovviamente sostenuti e addestrati da un perfido generale francese.