Le contraddizioni di Lega e Cinque stelle su pentiti e carcere ostativo di Giulia Merlo Il Domani, 4 giugno 2021 La Lega e i Cinque stelle hanno definito sbagliata la liberazione di Giovanni Brusca, dopo 25 anni di carcere e dopo che ha collaborato con la giustizia, sulla base della legge che permette benefici carcerari ai pentiti. Sempre questi due partiti, tuttavia, hanno contestato la sentenza della Consulta che ha dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo, e hanno difeso il fatto che solo se ci si pente si può venire liberati. Delle due l’una allora. Molto facile e un po’ ruffiana, invece, è la posizione di quella politica che aizza sentimenti d’odio e invoca leggi marziali sull’onda dell’emotività. La scarcerazione del killer della strage di Capaci, Giovanni Brusca, ha suscitato un enorme clamore politico. Brusca è stato messo in libertà condizionale dopo aver scontato venticinque anni di pena, in forza della legge sui pentiti voluta dallo stesso Giovanni Falcone, che comporta una riduzione della pena per chi collabora con la giustizia. Il tema è stato subito cavalcato in particolare dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle. Matteo Salvini ha detto che “chi ammazza deve stare in galera fino alla fine dei suoi giorni, senza sconti e senza scorciatoie. Questa è la legge ma diciamo che siamo nel 2021 e si può aggiornare”. Tradotto: la Lega ritiene che vada abolito il meccanismo di premialità che ha permesso a Brusca di uscire dal carcere. Così facendo, però, si eliminerebbe qualsiasi incentivo al pentimento che è stato uno dei tasselli fondamentali per l’istruzione dei processi per mafia. Sulla stessa linea anche buona parte dei commenti di esponenti del Movimento 5 Stelle. Uno su tutti quello del deputato Francesco d’Uva: “Fa un certo effetto il riconoscimento della libertà vigilata a Brusca. La magistratura ha fatto la sua parte applicando la legge. Un conto, però, è concedere sconti di pena a chi collabora con la giustizia. Diverso è far uscire, dopo 25 anni, chi ha sciolto nell’acido un bambino e ha materialmente fatto saltare un’autostrada uccidendo Falcone, la moglie Francesca e la sua scorta. Questo non è oggettivamente giusto”. Entrambi i partiti, dunque, considerano da riformare il meccanismo che lega alla collaborazione con i magistrati l’ottenimento di benefici carcerari: perché chi ha commesso alcuni reati deve scontare carcere a vita. La previsione del carcere a vita, il cosiddetto “fine pena mai” dell’ergastolo ostativo, esiste. Solo che la Corte Costituzionale in una recente sentenza ha considerato non compatibile con la carta il principio per il quale l’unico modo di ovviare al “fine pena mai” sia la collaborazione: “La disciplina ostativa, facendo della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. La Consulta, però, ha stabilito che il legislatore ha tempo fino al 2022 per modificare la legge, rinviando la trattazione delle questioni a maggio 2022. Anche in questo caso, Lega e Movimento 5 Stelle si sono schierati contro il pronunciamento. “Per mafiosi e assassini l’ergastolo non si tocca”, ha detto Salvini. “Nessun passo indietro sull’ergastolo ostativo”, hanno detto i Cinque stelle. La contraddizione, tuttavia, è chiara. Dopo la sentenza della Consulta, la Lega e i Cinque stelle hanno sostenuto che la legge sull’ergastolo ostativo non debba cambiare come invece indicano i giudici costituzionali, dunque che l’eventuale beneficio carcerario possa essere ottenuto solo e unicamente con la collaborazione. Dopo la scarcerazione di Brusca, che proprio perché ha collaborato ha potuto ottenere il beneficio, la legge sui pentiti va modificata escludendo qualsiasi tipo di premialità e dunque introducendo un carcere a vita senza vie d’uscita. Per mettere ordine tra gli slogan della politica, meglio allora ancorarsi ai fatti oggettivi. La Consulta ha dichiarato incostituzionale il carcere ostativo se il detenuto non collabora. La modifica deve andare nella direzione di individuare un meccanismo ulteriore e aggiuntivo rispetto alla sola collaborazione con l’autorità giudiziaria, che permetta la possibilità di ottenere il beneficio carcerario. Questa legge va modificata dal Parlamento, oppure sarà a stessa corte a dichiararla incostituzionale e dunque a cancellarla dal nostro ordinamento. Il dolore dei familiari delle vittime è intoccabile e merita sempre e comunque rispetto, giustifica anche le loro reazioni di rabbia. Molto facile e un po’ ruffiana, invece, è la posizione di quella politica che aizza sentimenti d’odio e invoca leggi marziali sull’onda dell’emotività, furbamente dimenticandosi del ruolo del parlamento e della sentenza della Consulta. Al netto delle strumentalizzazioni, la scarcerazione di Brusca dopo 25 anni di carcere a fronte della sua collaborazione è una nuova sconfitta per la mafia e una vittoria per lo Stato, che dà prova di essere ordinato da leggi che valgono per tutti e che a tutti vengono applicate. Quando la pena viene comminata, quando viene fatta scontare, ma anche quando viene ridotta. Perché il sistema dei pentiti non funziona: le contraddizioni di una legge imperfetta di Alberto Cisterna Il Riformista, 4 giugno 2021 La scarcerazione di Giovanni Brusca per fine pena ha sollevato, com’è era logico attendersi, un nugolo di polemiche. A venire in discussione in queste ore è il fatto stesso che un uomo di efferata violenza possa aver espiato la propria condanna e possa intraprendere una nuova esistenza senza la prova di un vero ravvedimento interiore. Reazione, sia chiaro, in gran parte giustificabile alla luce dei gravissimi delitti di cui Brusca si è reso protagonista e soprattutto quando a indignarsi siano le vittime innocenti e i loro parenti. La legge sui collaboratori di giustizia che si è applicata a Brusca ha avuto un’esistenza tutt’altro che facile e ha, in gran parte, risentito di troppi plateali abusi in cui si è incorsi nel maneggiare il pericoloso strumento, almeno dall’arresto di Enzo Tortora in poi. Tanto che, nel 2001, la legislazione venne profondamente riscritta proprio per evitare il ripetersi di scandali, più o meno noti, nella gestione dei pentiti. Il fatto, poi, che anche queste modifiche, a distanza di venti anni, meritino di essere nuovamente considerate è un altro discorso che il vistoso attenuarsi della virulenza mafiosa per ora tiene in disparte. Si potrebbe discutere a lungo delle perduranti criticità del sistema e del preoccupante profilarsi di una generazione di inquirenti che, all’oscuro degli abusi di un tempo, appare spesso a traino, se non in balia, di qualche smaliziato dichiarante dai ricordi “a rate”. Se la storia tende a ripetersi, quella giudiziaria ancor di più e sarebbe bene por mano in modo più radicale al problema prima che si producano danni maggiori. D’altronde, nei suoi chiaroscuri, la vicenda dell’avvocato Amara sta lì a dimostrare quanto acuta sia le necessità di una più generale riforma delle norme relative alle cosiddette dichiarazioni etero-accusatorie - a prescindere dal contesto mafioso o terroristico di riferimento - per scongiurare trappole o timidezze di sorta affidate solo al buon senso di qualche operatore di giustizia. Un mondo turbolento e malmostoso, quindi, in cui si continua a registrare una pericolosa commistione di piani tra l’interesse dello Stato a procurarsi conoscenze qualificate circa la commissione di taluni reati, il vantaggio del pentito a poter usufruire dei benefici messi a disposizione dalla legge e la pretesa che la collaborazione con la giustizia debba promanare da una sorta di capovolgimento morale che nottetempo avrebbe diradato le nebbie della persa coscienza del resipiscente. Certamente alcune collaborazioni hanno una genesi di questo genere. Alcune volte è effettivamente successo che a rendere piena confessione siano stati uomini e donne liberi da ogni costrizione che hanno consapevolmente affrontato una pena che mai gli sarebbe stata comminata dallo Stato per i delitti da loro spontaneamente ammessi. Pochissime volte, sia chiaro. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di detenuti che mal reggono la detenzione carceraria e che, dopo un tempo più o meno lungo, decidono che sia arrivato il momento di vuotare il sacco per riconquistare più in fretta la libertà. Quale che sia stato il percorso prescelto ha poca importanza o poca dovrebbe averne in generale. Il più contrito e penitente dei collaboratori potrebbe rendere dichiarazioni totalmente sprovviste di riscontri obiettivi e il più callido e infido dei pentiti potrebbe portare con sé messe di prove a sostegno delle proprie accuse. L’uno potrà aspirare al perdono divino, l’altro alle prebende statali di questa vita. E guai se non fosse così. Guai se si cedesse alla tentazione, come troppe volte accade, di poter supplire alla fredda e oggettiva valutazione dei fatti con la propria, ipertrofica autostima di infallibile investigatore. Gli annali sono pieni di inquirenti che pretendono di “fiutare” la genuinità del pentito, come se la natura li avesse dotati di un’infallibile bacchetta rabdomantica su cui fanno pieno affidamento, finendo poi per sbattere contro la mancanza di riscontri e le assoluzioni. Talvolta la lezione serve, malgrado i gravi danni collaterali che ha generato, altre volte il segugio la ignora e impreca contro i lacci e lacciuoli del sistema che ostacolano la ricerca della verità in nome di qualche superflua rassicurazione e garanzia. È troppo avventato dirlo, ma a spanne potrebbe essere accaduto qualcosa del genere anche di recente per le prime, concitate indagini sul disastro della seggiovia di Mottarone, quando i cronisti erano estasiati a fronte delle iniziali notizie sulla crisi religiosa e sulle giaculatorie in carcere del primo sospettato che, immerso in cella nelle preghiere, aveva chiamato in correità gli altri. In fondo è proprio ciò che desideriamo. Vogliamo che il reprobo ammetta le proprie colpe e si liberi del peccato che ha commesso confessandosi in pubblico e chiedendo perdono; non vogliamo una solida e gelida collaborazione con la giustizia, ma l’ammissione corale dell’errore che ci fortifica e rassicura, rendendoci migliori, eticamente superiori, rispetto a chi sbaglia e lo riconosce con un atto di sottomissione. La celebrazione dell’autodafè, elaborato dall’inquisizione spagnola, in cui si proclamava la sentenza e si raccoglievano le abiure dei condannati. Nelle ultime settimane questo universo retorico è in fibrillazione e scricchiola. L’ordinanza della Consulta sull’ergastolo ostativo ai benefici senza la collaborazione di giustizia, la pronuncia delle Sezioni unite della Cassazione sull’affiliazione di mafia come mero atteggiamento interiore privo da solo di autosufficienza sanzionatoria, la liberazione di Giovanni Brusca di cui taluno lamenta che si ignori il vero ravvedimento interiore, sono nient’altro che le declinazioni di una grammatica giuridica che stenta ancora a fare laicamente i conti con l’insondabilità dell’animo umano, con l’inesplorabilità della coscienza, con l’impossibilità di misurare la rieducazione se non con canoni oggettivi ed esteriori. E questa, si badi bene, non è una resa di fronte alla dissimulazione astuta o al camouflage comportamentale, ma la indispensabile presa di consapevolezza che l’ordinamento quando viene a contatto con le opzioni interiori dell’uomo si deve ritrarre e giudicare le parole alla luce dei fatti e mai il contrario. I “nuovi” garantisti non difendono i diritti di Brusca ma i teoremi sulla trattativa Stato-mafia di Davide Varì Il Dubbio, 4 giugno 2021 La manciata di “garantisti per un giorno” sta solo legittimando il racconto mafioso del quale Brusca è la pietra angolare. Da domani torneranno ad attaccare diritti e garanzie. E dell’improvviso garantismo di alcuni “insospettabili” vogliamo parlarne? Miracoli del caso Brusca, il boss scarcerato col beneplacito dell’antimafia col marchio Doc, che ha improvvisamente svelato l’esistenza di benefici e pene alternative anche per chi ha commesso i crimini più duri. Intendiamoci, noi siamo convinti che anche Brusca abbia diritto a immaginare una vita fuori dal carcere: siamo da sempre critici nei confronti dell’ergastolo ostativo e abbiamo difeso il diritto a una vita (e spesso a una morte) dignitosa anche per Riina, Provenzano, Cutolo. Perché non dovremmo farlo per Brusca? Quel che invece ci sorprende è la lunga e inaspettata lista di compagni di viaggio che stavolta abbiamo accanto. E siamo tanto più sorpresi perché la metà buona di chi oggi difende la scarcerazione di Brusca ha ingaggiato una battaglia feroce a favore del fine pena mai e del 41 bis. E c’è chi è addirittura arrivato a contestare la pronuncia della Consulta quando ha osato mettere in discussione la costituzionalità dell’ergastolo ostativo. Ciò non toglie che a noi fa piacere trovare questi nuovi compagni di viaggio nella marcia per la difesa dei diritti. Eppure qualcosa non torna. Insomma, siamo garantisti, certo, ma non del tutto ingenui e sappiamo bene che molti di coloro che oggi inneggiano allo Stato di diritto, lo fanno perché Brusca è la pietra angolare su cui poggia l’intero teorema della presunta trattativa Stato-mafia. E allora abbiamo il sospetto, e non ce ne vogliano, che molti di loro non stiano difendendo i diritti di Brusca ma la loro ricostruzione degli ultimi 30 anni di storia della mafia, oltre che la legge sul pentitismo (della quale bisognerebbe discutere seriamente dei suoi benefici, certo, ma anche dei suoi drammatici effetti collaterali che hanno colpito centinaia di innocenti: il nome di Tortora dice qualcosa?). Insomma, Brusca è una tessera fondamentale di quel mosaico e la difesa della sua scarcerazione non è così disinteressata come vogliono far apparire. Ma noi sappiamo bene che molti di loro da domani torneranno nel proprio campo di battaglia e che li ritroveremo di nuovo di fronte come fieri avversari. Ma chissà se in questo piccolo tratto di cammino comune avranno colto qualcosa che di solito ignorano. Perché il garantismo è un virus: una volta contratto, una volta capita la forza e la bellezza della difesa dei diritti, è difficile liberarsene. Carcere, Flick: “percorrere la via della solidarietà e della pari dignità sociale” agensir.it, 4 giugno 2021 “Una via diversa per affrontare la realtà del carcere e i suoi problemi molteplici forse è percorribile, ed è segnalata proprio dal Coronavirus e dai problemi che esso ha posto in evidenza in modo drammatico. È la via della solidarietà”. Lo afferma Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, in una intervista pubblicata sul numero di giugno di “Vita Pastorale” sul tema del carcere in tempi di Covid. Al 28 febbraio i detenuti erano 53.697; un anno prima, a pochi giorni dalla scoperta del “paziente zero di Codogno”, erano in 61.230. Ancora non si parlava di lockdown. In dodici mesi gli istituti di pena si sono svuotati del 12%. Anche se è la stessa amministrazione penitenziaria a riconoscere che rispetto al tasso di affollamento ufficiale del 106%, quello reale sale al 115%, compresi i reparti chiusi. “Solidarietà - precisa Flick - vuol dire anche guardare alla condizione del detenuto, non ridurlo a un diverso”. Comprendere che gli ‘spazi residui’ di libertà personale non possono, comunque, essere garantiti da una pena in carcere. È, questa, un’occasione per riflettere. E per riuscire, forse, a superare il carcere, a farvi ricorso solo per le persone di cui sia accertata la violenza, l’aggressività, il ‘codice rosso’. Forse, l’emergenza Coronavirus può sollecitare un passo così innovativo. Potrebbe aiutarci a riscrivere la funzione del carcere nel nostro sistema”. Flick ricorda che “il carcere viene considerato un mondo a parte, poroso ma impermeabile a qualsiasi forma di cambiamento; uno strumento di reazione alla paura del diverso. Non è utilizzato come extrema ratio, per casi particolarmente gravi, ma come metodo normale per risolvere quello che è percepito come un problema ordinario”. A parere del giurista si continua a perseguire la strada del “carcere a ogni costo” e “ci si dimentica dei diritti e della dignità del detenuto, oltre che della funzione educativa della pena”. “Ma c’è un principio che spesso viene dimenticato: è la pari dignità sociale - sottolinea - la quale non esclude nessuno, neanche i detenuti; neanche i condannati per i reati più gravi. È una dignità che spesso viene negata nei fatti che sembrano rendere impossibile un carcere diverso da quello attuale”. Malati psichiatrici in carcere, la strada per uscire dal tunnel di Daniele Priori Il Riformista, 4 giugno 2021 In Italia il 78% dei detenuti è affetto da una condizione patologica, oltre il 50% assume psicofarmaci. Il Partito Radicale ha lanciato un appello e ora c’è una proposta di legge per introdurre budget di salute e cure personalizzate. La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari, risalente a ormai sei anni fa, è stato il primo passo. Le risposte alternative che lo Stato, attraverso il Sistema Sanitario Nazionale, oggi offre - le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) - restano però gravemente deficitarie e insufficienti tanto, a giudizio di alcuni esperti del settore, da poter diventare esse stesse in prospettiva un grave problema. Per questo serve una terza via. La politica, sostenuta da chi vive ogni giorno la dimensione della malattia mentale ha in tal senso cominciato a individuare i complessi ma possibili e necessari tentativi di cura e integrazione sociale dei malati - anche se detenuti - con una proposta di legge in discussione alla Camera, incentrata sulla introduzione sperimentale del cosiddetto budget di salute per la realizzazione di progetti terapeutici riabilitativi individualizzati, prima firmataria l’onorevole Celeste D’Arrando. A risvegliare un dibattito tanto sotterraneo quanto mai sopito è stato nelle ultime settimane il Partito Radicale riaccendendo i riflettori su una piaga in realtà atavica: la detenzione in carcere di persone affette da patologie psichiatriche. “Il problema della salute mentale in carcere coinvolge migliaia di cittadini e esige una vostra urgente e concreta risposta”, si legge nell’appello radicale ai ministri Cartabia e Speranza. Nei 109 istituti di pena italiani il 78% dei ristretti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui per il 41% da una patologia psichiatrica e oltre il 50% dei detenuti assumono psicofarmaci. I dati ci dicono che i detenuti con dipendenze da sostanze psicoattive rappresentano il 23,6%, con disturbi nevrotici il 18%, il 6% con disturbi legati all’abuso di alcol e il 2,7% con disturbi affettivi. Nell’appello del Partito Radicale viene citata, tra l’altro, una dichiarazione significativa del dottor Francesco Ceraudo, per 25 anni Presidente dell’Associazione nazionale dei medici dell’amministrazione penitenziaria: “Nelle carceri italiane - ebbe a dire il medico - si entra puliti e si esce dipendenti. La dipendenza da psicofarmaci fa comodo a tutti. Per il direttore del carcere e la polizia penitenziaria è utile che il detenuto se ne stia tutto il giorno accucciato sul materasso, non si metta a urlare, sia passivo, senza vitalità”. Ed è esattamente questa la strada che conduce nell’attuale buco nero dal quale a giudizio di numerosi esperti si deve in ogni modo provare ad uscire. L’inclusione sociale pare sia al tempo stesso l’obiettivo e la via d’uscita da percorrere. Ce lo spiega lo psicoterapeuta Bruno Pinkus, fondatore assieme alla collega Angela D’Agostino, trentuno anni fa, della Gnosis, cooperativa sociale che, in una splendida tenuta affacciata su Roma, quotidianamente anima due comunità terapeutiche. Al loro interno anche casi di persone, per lo più giovani, riuscite a convertire la propria condanna in una pena alternativa: “Il peggio che può capitare a una persona affetta da queste patologie - ci spiega Pinkus - è l’essere identificati come furfanti. Così si va solo ad amplificare il divario sociale che già li riguarda perché di fatto si mischia la loro condizione con quella di persone e situazioni che ne peggiorano ulteriormente la qualità della vita”. “Eppure ad avere accesso alle comunità terapeutiche non è più del 5% della popolazione carceraria affetta da patologie mentali”, ci spiega il professor Angelo Righetti, psichiatra, consulente dell’Oms per le disabilità mentali e, tra l’altro, amico d’infanzia e concittadino del rocker Vasco Rossi, a sua volta sostenitore delle idee dello psichiatra. Il nodo centrale di questa vicenda, denuncia Righetti, è che “il Sistema Sanitario Nazionale non ha preso mai troppo sul serio la cura delle malattie mentali nelle carceri. I Dsm (Dipartimenti di salute mentale) sono al di fuori dei penitenziari e tendono a non entrare in contatto con le carceri che pure sono istituzioni del territorio. C’è un problema di leggi e indirizzi esistenti che vengono disattesi” spiega ancora Righetti.”Si dovrebbero cambiare la gran parte dei comportamenti detentivi del carcere e in ogni caso si dovrebbe prevedere la possibilità che le cure vengano gestite in ambiti psico-educazionali (come le comunità appunto n dr). “È davvero complicato - aggiunge il professore di Zocca - perché i servizi in carcere non sono particolarmente presenti e questo impartisce un danno suppletivo alle persone con disabilità mentale: una sorta di doppia pena che si avvicina alla tortura”. È esattamente per uscire da questo cul de sac che ha senso, secondo Righetti, puntare sui cosiddetti budget di salute: “Con la possibilità per i detenuti di accedere a percorsi personalizzati, fino ad arrivare a una reale permeabilità tra carcere e comunità civile. Una contaminazione positiva che potrebbe rappresentare l’onda lunga della grande utopia trasformata in realtà che fu rappresentata dalla legge Basaglia con la quale nel 1978 furono chiusi i manicomi”. Edilizia penitenziaria, la commissione al lavoro per utilizzare i 132,9 milioni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 giugno 2021 La sua composizione fa ben sperare per un futuro non carcerocentrico. Sono 132,9 milioni, gli euro destinati all’edilizia penitenziaria. Ed è la commissione ministeriale presieduta dall’architetto Luca Zevi a elaborare un progetto per utilizzare al meglio i fondi. Come ha già ricordato Il Dubbio, la Commissione ha già presentato un format con un costo complessivo stimato di 10.575.000 euro. A fornire gli aggiornamenti sui lavori è stato, la scorsa settimana, il Sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto in audizione alla Commissione Bilancio del Senato. “Il Fondo Complementare del PNRR - ha detto Sisto - prevede 132,9 milioni di euro, dal 2022 al 2026, per la costruzione e il miglioramento di padiglioni e spazi per le strutture penitenziarie per adulti e minori, una prospettazione complessiva che tiene conto anche dei fondi per i lavori di ristrutturazione di 4 istituti per minori”. Ha aggiunto sempre il sottosegretario che “L’Amministrazione Penitenziaria aveva individuato, in origine, 8 siti in altrettanti istituti penitenziari dove edificare i padiglioni da 120 posti ciascuno: Rovigo, Vigevano, Viterbo, Civitavecchia, Perugia, Santa Maria Capua Vetere, Asti e Napoli Secondigliano. Il dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sta, comunque, rivalutando alcune delle sedi per evitare di incidere su Istituti già sovraffollati o evitare di sottrarre alla struttura, con la nuova edificazione, spazi trattamentali”. La Commissione per l’architettura penitenziaria ha ricevuto dal ministero della Giustizia il compito di proporre soluzioni operative per adeguare gli spazi detentivi, aumentarne la vivibilità e la qualità, rendendoli realmente funzionali al percorso di riabilitazione dei detenuti, al fine di orientare le future scelte in materia di edilizia penitenziaria. “L’obiettivo della Commissione - spiegava il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis nel corso della prima riunione - è duplice: definire e proporre un modello di architettura penitenziaria coerente con l’idea di rieducazione, da un lato, ed elaborare interventi puntuali di manutenzione sulle strutture esistenti, dall’altro”. L’osservatorio Carcere delle camere penali, ha ricordato che la “Commissione per l’architettura penitenziaria” potrebbe essere utile e positiva, “solo ove fosse accompagnata da altre da tempo attese e se non fosse da inquadrare nei lavori “a perdere” di tante altre Commissioni”. Per restare in materia - ma gli esempi potrebbero essere molti - l’osservatorio carcere evoca la Commissione presieduta dal professor Glauco Giostra, i cui lavori furono, in gran parte, cestinati. La Commissione si occupò, tra l’altro, proprio dello “spazio della pena” e della “vita detentiva”, in ossequio ai criteri fissati dalla Legge Delega del 23 giugno 2017. Non a caso, tra i componenti della Commissione vi era il professore Luca Zevi, architetto e urbanista, oggi chiamato a presiedere la neo-commissione istituita dal ministro Bonafede. Tra i componenti la Commissione vi erano anche avvocati dell’Unione delle Camere Penali e “possiamo affermare - ricorda l’osservatorio carcere - che si discusse a lungo di architettura penitenziaria. Tema poi abbandonato in sede di stesura degli schemi di decreto, per volere di una politica non interessata - nonostante l’espressa delega del Parlamento al governo - a migliorare gli spazi e la vita all’interno degli istituti di pena, in nome anche di quel diritto all’affettività, previsto ma da sempre negato”. Lo stesso Luca Zevi, prima ancora, nel 2015, era stato il Coordinatore del Tavolo N. 1 degli Stati Generali sull’Esecuzione Penale che aveva ad oggetto lo “spazio della pena: architettura e carcere”. Stati Generali e Tavoli previsti dai Decreti Ministeriali dell’8 maggio e del 9 giugno 2015. Inoltre si è più volte espresso sulla realizzazione del carcere di Nola, indicato nel bando ministeriale del 2017, i cui lavori, si badi, non sono ancora iniziati. La presidenza della Commissione affidata al Professore Luca Zevi, secondo l’osservatorio carcere, può essere certo una garanzia per le sue specifiche conoscenze e per la sua idea di detenzione, che vede il carcere come una struttura “in cui il detenuto può stare 12 ore al giorno lontano dalla cella, in modo da impegnare la giornata svolgendo attività lavorative, sociali, sportive e avere una camera di pernottamento, possibilmente individuale, dove dormire”. In concreto l’applicazione dei principi costituzionali e delle norme dell’ordinamento penitenziario. Ma una rassicurazione c’è. Nella Commissione per l’edilizia attuale, ci sono altre rilevanti figure, quali Mauro Palma, Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, di 2 Magistrati di Sorveglianza, di altri 5 architetti, tra cui Maria Rosaria Santangelo e Cesare Burdese, che si sono occupati in passato di interventi negli istituti di pena. Ma anche di Gherardo Colombo, presidente della Cassa delle Ammende, componente all’epoca della Commissione Giostra e che, anche con recenti pubblicazioni, ha evidenziato la necessità di rispettare il principio costituzionale di “rieducazione” del condannato. E c’è la presenza di Gemma Tuccillo, Capo del Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità, che crede nell’importanza delle misure alternative. Tutto questo, può far ben sperare. Sette mesi in cella per uno scambio di persona: “Un viaggio nel cimitero dei vivi” di Simona Musco Il Dubbio, 4 giugno 2021 Sette mesi in carcere prima che una semplice perizia fonica provasse quanto Domenico Forgione ha urlato sin dal primo giorno: la persona intercettata non era lui. E non poteva, dunque, essere lui l’uomo da arrestare, da esporre alla pubblica gogna, da tenere in un carcere dalle condizioni disumane per così tanto tempo. Forgione, storico, giornalista e autore di diversi saggi, è stato scarcerato lo scorso 16 settembre. Si trovava agli arresti dal 25 febbraio 2020, giorno in cui in cui gli abitanti di Sant’Eufemia d’Aspromonte, poco meno di 4mila anime in provincia di Reggio Calabria, hanno visto portar via in manette il sindaco Domenico Creazzo, accusato di voto di scambio, il vicesindaco Cosimo Idà, secondo la procura capo promotore ed organizzatore di una fazione mafiosa all’interno del locale di Sant’Eufemia d’Aspromonte, il presidente del consiglio comunale Angelo Alati e Forgione, consigliere di minoranza, accusato di associazione a delinquere. Arresti, questi, che hanno portato allo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose. Ma non solo: la Dda di Reggio Calabria ha chiesto anche l’autorizzazione per l’arresto di Marco Siclari, senatore di Forza Italia, accusato di scambio elettorale e politico mafioso. “Erano le 3.30 del 25 febbraio - racconta al Dubbio Forgione - quando siamo stati svegliati da dei colpi alla porta. Erano dei poliziotti, che ci chiedevano di aprire. Hanno tirato fuori due ordinanze, una per me e una per mio padre. Poi hanno perquisito casa e ci hanno portato via. Io non capivo, tant’è che mentre uscivo ho detto a mia madre: “ci vediamo più tardi”. Non pensavo potesse capitare una cosa del genere”. Forgione afferra il suo borsone e viene trasportato a Reggio Calabria, in Questura, dove ritrova mezzo Consiglio comunale, i suoi avversari politici. Il primo pensiero è che sia successo qualcosa al Comune, “una qualche delibera, ma io non potevo c’entrare: ero un membro della minoranza, facevo una dura opposizione a quell’amministrazione”. Forgione ha in mano il plico di 4mila pagine che gli altri, intorno a lui, cominciano subito a sbirciare. Lui attende e intanto inizia tutta la trafila delle formalità di rito: la schedatura, “come un delinquente e poi la gogna delle manette ai polsi all’uscita, da tenere nascoste. Ma sempre gogna è, a favore degli obiettivi dei fotografi”. Alle 13.30 lo trasferiscono al carcere di Palmi, dove attende in un buco di un metro per due. “La perquisizione personale, l’umiliazione di dovermi spogliare completamente davanti a due sconosciuti che mi fanno accovacciare: non ho mai subito un’umiliazione più forte”, dice. In cella ci arriva alle 18.30, dove inizia a sfogliare quelle pagine alla ricerca del suo nome. Tutto si trova in 17 pagine, dove trova trascritta un’intercettazione tra tre soggetti, uno dei quali è tale “Dominique”. Lui, nato in Australia, tra gli affetti più cari è conosciuto proprio con questo nomignolo. Ma leggendo non riesce a ritrovarsi tra quelle parole: “Pensavo: quando ho detto queste cose? Non ho mai parlato di appalti, di soffiate su possibili operazioni, di precedenti indagini. In realtà io ho sempre saltato, sui giornali, gli articoli sulle operazioni: erano al di fuori dei miei interessi”. Forgione legge tre volte prima di giungere alla conclusione scontata: “La persona intercettata non ero io. Quel Dominique non ero io”. La spiegazione, per lui, è una sola: hanno cercato qualcuno con quel nome, qualcuno che si occupasse di politica, essendo gli appalti l’argomento di conversazione. E si è arrivati a lui, consigliere di minoranza, famoso in paese e “colpevole” di avere quel nomignolo. “Ma c’era una illogicità evidente: non solo ero consigliere di opposizione, ma - documentate - tutte le elezioni mi hanno visto impegnato contro l’amministrazione comunale e contro Siclari, che per la Dda sarebbe stato appoggiato dalla cosca. Io mi sono esposto pubblicamente in tutte le elezioni (politiche, europee, regionali), sponsorizzando sempre il mio candidato (Pd prima, Leu dopo), che non è mai stato il loro. Al di là di altre considerazioni, ma può uno organico ad una ipotetica cosca schierarsi contro la cosca stessa?”. Insieme al suo avvocato chiedono subito una perizia fonica: sarebbe bastato comparare la voce di quell’intercettazione con la sua per capire che non si trattava della persona giusta. Ma non viene concessa, causa covid: il perito non può entrare in carcere. La difesa, allora, ne produce una propria, fatta comparando l’interrogatorio di garanzia con l’audio dell’intercettazione. E il risultato è scontato: la voce non è la sua e nemmeno il dialetto parlato è quello del suo paese. Per sollecitare una perizia da parte della procura, Forgione scrive al pm, reclamando il proprio diritto alla difesa. La lettera viene spedita il 25 maggio, l’incarico al perito viene conferito il 28 maggio. Oltre alla perizia, la difesa di Forgione porta anche altri elementi: il giorno in cui “Dominique” veniva intercettato, Forgione era a giocare una partita di calcetto. E non ci sarebbe stato il tempo materiale per arrivare al ristorante dove i tre conversanti si trovavano. Ma nemmeno questo lo aiuta ad uscire. E un mese dopo quella lettera, il 26 giugno, viene trasferito nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Lì le condizioni detentive peggiorano vistosamente: “Mi aspettavo di tornare a casa, invece sono stato deportato in Campania. Ritrovandomi a scendere con le manette nelle aree di servizio per andare in bagno - racconta -. L’acqua delle docce era marrone. Ho avuto prurito alla pelle per due mesi dopo la scarcerazione. E nei tre mesi che sono stato lì ci sono stati un suicidio e due tentati suicidi. Tra i comuni, non nell’alta sicurezza, dove ero io. La spazzatura arrivava alle finestre delle celle e vivevamo in mezzo ad un puzzo terribile”. Per Forgione il carcere è una parentesi, consapevole che, una volta effettuata la perizia, la verità verrà a galla. “Quando sei lì dentro - continua - sei un delinquente e le guardie te lo fanno notare. Una mi disse: “si chiama Forgione, come padre Pio. Solo che lui faceva miracoli, lei fa danni”. Una cosa umiliante. Il carcere è un posto dove viene annullata la dignità: non ha idea di quante persone, per reggere la vita lì dentro, prendono tranquillanti”. La perizia arriva a settembre. E il prelievo della sua voce non avviene in presenza: la comparazione viene fatta usando l’audio dell’interrogatorio di garanzia, così come aveva fatto, mesi prima, la difesa. A settembre, sette mesi dopo, Forgione esce e la sua posizione viene archiviata. Ritrova la vita, ma il suo punto di vista, ormai, è cambiato radicalmente. E ora rivendica quei giorni trascorsi ingiustamente in cella, mentre del vero “Dominique” non c’è ancora traccia. “Ora so che nessuno può sentirsi immune. Puoi ritrovarti dentro uno sporco gioco al quale non hai mai giocato e che hai sempre rifiutato - conclude -. Non sono il primo e non sarò l’ultimo caso di malagiustizia. Dovrei quasi ritenermi “fortunato”, visto che la mia posizione è stata archiviata e, pertanto, mi è stata almeno risparmiata l’ulteriore umiliazione di dovere affrontare un processo. Sono soddisfatto? No. Arrabbiato? Neanche. Sono deluso. Nessuno dovrebbe essere privato della libertà ed essere scaraventato nel “cimitero dei vivi”, prima dell’accertamento della sua colpevolezza. Sarebbe onesto che gli amanuensi delle procure che si annidano nelle redazioni giornalistiche ammettessero: “Ci siamo sbagliati perché, come sempre, abbiamo considerato dogma l’ipotesi investigativa degli inquirenti; perché, come sempre, abbiamo fatto carne di porco del principio della presunzione d’innocenza”. Non ho fiducia nella giustizia italiana. Credo invece nella verità, una forza tenace come la goccia che scava la roccia. Ora inizia il secondo tempo, che intendo come impegno per una battaglia di civiltà minoritaria e impopolare: contro la gogna del giustizialismo mediatico, contro l’aberrazione della carcerazione preventiva, contro la condizione disumana di molte carceri italiane”. La riforma penale e lo spettro della fiducia di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2021 I tempi aspetto decisivo nell’esame della Camera: emendamenti al più presto. No al derby tra garantisti e giustizialisti. Sì invece a una sana dialettica che permette di fare passi avanti. Lo ha sostenuto ieri la ministra della Giustizia Marta Cartabia, intervenendo alla presentazione del libro di Luciano Violante “Insegna Creonte”. Indicazione di metodo, che diventa però anche sostanza, nei giorni in cui Cartabia con fatica prova a individuare un punto di equilibrio sulla riforma del processo penale. Dove la necessità è di arrivare alla presentazione degli emendamenti alla Camera in tempi rapidi. Anche perché, si fa notare a Montecitorio, la dialettica ha anche bisogno di tempo per poter dare frutti. E il timore, neppure troppo velato, è quello di una strozzatura dei tempi di esame complessivi di un intervento centrale nell’ambito della più generale riforma dell’amministrazione della giustizia. Il provvedimento dovrebbe approdare in Aula entro la fine di giugno per essere approvato poi entro agosto. È evidente che anche il Senato vorrà intervenire sul merito delle misure, tra l’altro per ora delineate nel contesto di una legge delega, il che renderà poi necessario altro tempo per la scrittura dei decreti delegati. Insomma, lo spettro del voto di fiducia aleggia già con qualche ragione. Soprattutto se non dovessero essere superati i temi di frizione con la principale forza politica alla Camera, i 5 Stelle, ai quali sono soprattutto tre le misure sinora prefigurate dalla commissione Lattanzi a risultare indigeste: la revisione della prescrizione, l’inappellabilità da parte del Pm e l’indicazione da parte del Parlamento delle priorità nell’esercizio zio dell’azione penale. E ieri una delegazione Lega-radicali ha presentato in Cassazione i 6 quesiti referendari sulla giustizia. Oltre al processo penale e a quello civile due sono però gli altri tasselli che compongono il mosaico della più ampia riforma. Quello sulla disciplina della crisi d’impresa, sulla quale è al lavoro una commissione tecnica che sta completando le proposte finali in questi giorni. In discussione un nuovo rinvio del Codice della crisi, destinato a entrare in vigore il prossimo 1 settembre, magari per dare un po’ di respiro all’adozione delle misure di adeguamento alla nuova direttiva comunitaria sull’insolvenza. Slittamento che potrebbe essere accompagnato però da misure, ancora da leggere in un’ottica emergenziale e quindi con una scadenza già predeterminata, per favorire la composizione delle crisi meno dirompenti prima che provochino conseguenze irreparabili anche per l’occupazione. A chiudere il cerchio, almeno per ora perché per esempio anche l’ordinamento penitenziario avrebbe certo bisogno di una riforma “di struttura”, c’è la revisione dello status e delle regole di ingaggio della magistratura onoraria. Su questo tema, reso urgente anche da recenti sentenze della Corte costituzionale, c’è al lavoro la commissione guidata dal presidente della Corte d’appello di Brescia Claudio Castelli. Di certo per l’ampia platea della magistratura “non togata” il passaggio è cruciale, anche perché il maxiemendamento sul processo civile in corso di presentazione al Senato espressamente prevede, anche se non dettagliandolo nei valori, un aumento delle competenze. Riforma della Giustizia: limiti ai magistrati in politica, no al sorteggio per il Csm di Giuseppe Alberto Falci Corriere della Sera, 4 giugno 2021 Ecco le proposte degli esperti. Matteo Salvini e i Radicali depositano i quesiti per il referendum in Cassazione. Tutto in poco meno di 24 ore. Il 4 giugno Marta Cartabia illustrerà ai partiti che compongono la maggioranza il documento finale della commissione ministeriale che ha lavorato sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Nel frattempo, il 3 giugno, Matteo Salvini e i radicali hanno depositato in Cassazione i sei quesiti referendari in materia di giustizia. Una mossa, quella del leader leghista, che sembra depotenziare il progetto di riforma della titolare di via Arenula. Non a caso è in corso uno scontro all’interno della maggioranza. Tutto, dunque, in poco meno di 24 ore. Oggi toccherà alla Cartabia, seppur a distanza, presentare ai capigruppo di maggioranza in Commissione Giustizia le proposte su cui hanno lavorato i tecnici guidati dal professore Massimo Luciani. Proposte che potrebbero diventare emendamenti al disegno di legge delega che si trova a Montecitorio. Ecco le novità. Non si prevede alcun sorteggio per l’elezione dei membri togati di Palazzo dei Marescialli. Una misura che non piacerà ai grillini, da sempre favorevoli assieme ai leghisti alla formula del sorteggio. Tuttavia, per ridurre il potere delle correnti, si dà la possibilità a chi lo volesse di candidarsi ugualmente al di fuori delle liste raccogliendo un numero inferiore di firme. Altra novità: non ci sarà il divieto di rientrare in magistratura a chi ha scelto di candidarsi o di rivestire incarichi politici. Si dispongono però dei paletti, ossia dei confini sia di carattere territoriale, sia funzionali. Di più: si introduce una moratoria di due anni prima e dopo aver rivestito una carica politica. E su questa formula Nello Rossi, direttore della rivista di Magistratura democratica, non solo si oppone ma sostiene che chi intende partecipare a competizioni elettorali o ricoprire incarichi di governo dovrebbe necessariamente dimettersi dalla magistratura. Inoltre, il documento finale dei tecnici introduce nuovi criteri sulle valutazioni di professionalità sulle nomine ad incarichi ai vertici degli uffici giudiziari. In questo contesto Salvini si smarca dal governo e dalla maggioranza e con i Radicali si materializza in Cassazione per consegnare i sei quesiti referendari che toccano i temi della responsabilità civile dei magistrati, del diritto di voto degli avvocati nei consigli giudiziari, delle liste elettorali per i togati al Csm, della legge Severino sull’incandidabilità dei condannati, della separazione delle carriere in magistratura e della custodia cautelare. Obiettivo, un milione di firme, con una campagna referendaria che entrerà nel vivo nel corso del primo fine settimana di luglio. Lo scatto in avanti di Salvini scatena la reazione dei suoi alleati di governo. “Chi lavora ai referendum anziché nelle aule parlamentari, in realtà allontana le prospettive di riforma, non le avvicina” mette in chiaro Alfredo Bazoli, capogruppo in commissione Giustizia in quota Pd. Critica Salvini anche Andrea Marcucci (Pd): “Incomprensibile il sostegno della Lega”. Mentre Maurizio Lupi elogia l’iniziativa della Lega: “È uno strumento formidabile per spronare il Parlamento ad approvare finalmente una riforma che il Paese attende da ormai troppi anni”. Riforma Csm, il Pd propone pagelle ai pm e sobrietà in tv di Conchita Sannino La Repubblica, 4 giugno 2021 Anna Rossomando, responsabile Giustiza dem: “Il primo obiettivo è recuperare la credibilità della magistratura”. Nuovo incontro tra la ministra Cartabia e i capigruppo della maggioranza. Primo obiettivo? “Recuperare credibilità e autorevolezza della magistratura”. A costo di scontentare chi - nella nuova legge su assetto e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura - dal Pd non si aspetterebbe alcuni emendamenti tranchant come quelli che saranno depositati oggi in commissione alla Camera da Anna Rossomando, responsabile Giustizia dei dem. Due su tutti. La proposta di valutare i pm anche sulla percentuale di “insuccessi” dei loro processi. E il divieto, per i procuratori, di utilizzare “conferenze stampa spettacolari”. Si parte però “dall’elezione parziale, ogni due anni, dei membri: per inserire un elemento di dinamismo interno utile a disarticolare eventuali accordi precostituiti”, premette Rossomando. Ma c’è spazio anche per la parità di genere tra i consiglieri eletti. Riforma Csm, il Pd spinge dopo il terremoto del caso Palamara e le recenti pagine non meno devastanti sulle fughe di notizie e la presunta loggia Ungheria. “L’immagine uscita dalle scandalose notizie sulle vicende del Consiglio, è uno stimolo in più per fare le riforme a partire da quella del Csm”, aveva avvertito Enrico Letta. “Autonomia e trasparenza sono lese dalla degenerazione del correntismo: non certo dal pluralismo delle idee”, ribadisce con Repubblica la deputata (anche avvocatessa), alla vigilia dell’incontro fissato per domani tra la ministra Marta Cartabia e i capigruppo di maggioranza. Ma basteranno le consultazioni del mid-term, come già le chiamano in Csm? “Nessuna modifica da sola abolisce distorsioni: ma il fatto che il plenum non sia eletto contestualmente è utile, e tra l’altro si può fare a Costituzione invariata”. Stop anche alle nomine “a pacchetto”: le decisioni sugli incarichi dovranno seguire un rigoroso ordine cronologico per evitare il mercato del “metodo Palamara”, utile a molti. Ma Rossomando difende anche l’introduzione della valutazione sul lavoro dei pm: una sorta di “pagella” su inchieste e insuccessi della pubblica accusa. Linea analoga, ma più dura sul punto, emergerà anche dagli emendamenti annunciati da Enrico Costa, di Azione (con modifica sulla responsabilità civile e fine delle porte girevoli tra magistrati e politica). Ma come funzionerebbe, invece, per il Pd? “Noi non parliamo di pagelle - sottolinea Rossomando - proponiamo, tra i diversi elementi di valutazione sulla professionalità, quello della verifica delle smentite processuali delle ipotesi accusatorie. Naturalmente parliamo di casi macroscopici, utilizzando criteri che evitino di scoraggiare le inchieste “difficili”: penso a quelle sui grandi gruppi criminali, sui reati finanziari, a inchieste storiche sulle malattie professionali, schedature Fiat o caso Abu Omar”. Un’impostazione che rivela uno sguardo più severo, forse uno strappo? “Nessuno strappo, diciamo da sempre che non è auspicabile avere tante richieste di rinvio a giudizio che poi non reggono al dibattimento - riprende la deputata - Per questo poniamo l’accento su come si scrivono le norme incriminatorie. Ma il luogo privilegiato è il processo: infatti c’è l’emendamento che prevede una regola di giudizio per il pm: si può chiedere il procedimento se c’è una ragionevole certezza di ottenere una condanna”. Altro freno riguarderebbe la stagione della perdita di autorevolezza (vedi i giudici che spiegano i loro provvedimenti in tv prima che con gli atti). E quindi: “Basta ai troppi riflettori”. Ma come? Per Rossomando, “la spettacolarizzazione delle inchieste è un vulnus alla presunzione di non colpevolezza. Quindi stop a conferenze stampa spettacolari, sì a sobri comunicati stampa. Il diritto all’informazione è sacrosanto perché la democrazia liberale esige informazione. Purtroppo oggi il vero processo rischia di celebrarsi fuori dai tribunali”. Riforma della giustizia, depositati i Referendum di Radicali e Lega di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2021 I quesiti riguardano l’elezione del Csm, la responsabilità diretta dei magistrati, l’equa valutazione dei magistrati, la separazione delle carriere dei magistrati, i limiti agli abusi della custodia cautelare e l’abolizione della legge Severino. Una delegazione di leghisti e radicali, tra cui Matteo Salvini e Maurizio Turco, copresidenti del comitato promotore, ha depositato in Corte di cassazione i sei quesiti referendari sulla giustizia, proposti dal partito di Matteo Salvini e dai radicali italiani. Le firme saranno raccolte dal 2 luglio. I quesiti riguardano l’elezione del Csm, la responsabilità diretta dei magistrati, l’equa valutazione dei magistrati, la separazione delle carriere dei magistrati, i limiti agli abusi della custodia cautelare e l’abolizione della legge Severino. “Oggi è una bellissima giornata di democrazia cambiamento e partecipazione popolare”, ha detto il leader della Lega Matteo Salvini. “Questo è un referendum - ha proseguito - per una riforma vera, profonda e giusta della giustizia attesa da decenni: meno correnti nel Csm, processi veloci, responsabilità civile di chi sbaglia, più tutele per i sindaci. Mentre il Parlamento andrà avanti nel processo delle riforme, gli italiani potranno accompagnare firmando da 2 luglio”. “È un aiuto - ha aggiunto -, portiamo una dote al governo Draghi che ha la nostra piena fiducia, e al paese”. Per Maurizio Turco: “Questa sarà la volta buona perché ci sarà qualcuno che difenderà in Parlamento le scelte dei cittadini”. Alla domanda se qualcun altro partito appoggerà i referendum, Turco ha risposto: “Abbiamo letto oggi di Bettini che invita il Pd a non isolarsi ulteriormente, in una battaglia di democrazia perché questo è un Paese dal vecchio regime al nuovo regime si è portato dietro leggi, persone, abitudini, consuetudini che non sono più tollerabili”. Fra i quesiti anche l’ingresso degli avvocati nelle valutazioni di professionalità dei magistrati attraverso il rafforzamento del loro ruolo all’interno del Consigli giudiziari. Si prevede infatti l’abrogazione dell’articolo 16 (Composizione dei consigli giudiziari in relazione alle competenze) del Dlgs 25/2006 che limita, per la componente di avvocati e professori universitari, la partecipazione “esclusivamente alle discussioni e deliberazioni relative all’esercizio delle competenze di cui all’articolo 15, comma 1, lettere a), d) ed e)”. Vale a dire alle tabelle ed alla vigilanza degli Uffici, nonché alla elaborazione di pareri e proposte in materia organizzativa per i giudici di pace. I legali attualmente sono invece esclusi dalle competenze assegnate al Consiglio dalla lettera b) che prevede la formulazione di pareri per la valutazione di professionalità dei magistrati “ai sensi dell’articolo 11 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, e successive modificazioni). Secondo quanto riporta il quotidiano del Cnf il “Dubbio”, in una dozzina dei 26 Consigli giudiziari italiani, i laici devo addirittura abbandonare la riunione quando si parla di valutazioni di professionalità dei giudici. I 6 referendum “per la giustizia giusta”. (I testi provvisori dei quesiti, faranno fede quelli pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale a seguito del deposito in Cassazione) 1. Responsabilità civile dei Giudici QUESITO Volete Voi che sia abrogata la l. 13 aprile 1988, n. 117 (“Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati”), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 2, comma 1, limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 4, comma 2, limitatamente alle parole “contro lo Stato”; art. 6, comma 1, limitatamente alle parole “non può essere chiamato in causa ma”; art. art. 13, rubrica, limitatamente alle parole “per fatti costituenti reato”; art. 16, comma 4, limitatamente alle parole “in sede di rivalsa”; comma 5, limitatamente alle parole “di rivalsa ai sensi dell’articolo 8”? 2.Separazione delle carriere dei magistrati sulla base della distinzione tra funzioni giudicanti e requirenti QUESITO Volete Voi che siano abrogati: il r.d. 30 gennaio 1941, n. 12, di approvazione dell’”Ordinamento giudiziario” nel testo allegato al medesimo regio decreto e altresì risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 192, comma 6, limitatamente alle parole: “, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del consiglio superiore della la magistratura”; la l. 4 gennaio 1963, n. 1 (Disposizioni per l’aumento degli organici della magistratura e per le promozioni) nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 18, comma 3: “La Commissione di scrutinio dichiara, per ciascun magistrato scrutinato, se è idoneo a funzioni direttive, se è idoneo alle funzioni giudicanti o alle requirenti o ad entrambe, ovvero alle une a preferenza delle altre”; il d. lgs 30 gennaio 2006, n. 26 (Istituzione della Scuola superiore della magistratura, nonché disposizioni in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera b), della legge 25 luglio 2005, n. 150) nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: Art. 23, comma 1, limitatamente alle parole: “nonché per il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa”; il d. lgs. 5 aprile 2006, n.160 (Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150) nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 11, comma 2, limitatamente alle parole: “riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti”; art. 13, relativamente alla rubrica del medesimo, limitatamente alle parole: “e passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa”; art. 13, comma 1, limitatamente alle parole: “il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti”; art. 13 comma 3: “3. Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, ne´ all’interno di altri distretti della stessa regione, ne´ con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni. Il passaggio di cui al presente comma può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario. Per tale giudizio di idoneità il consiglio giudiziario deve acquisire le osservazioni del presidente della corte di appello o del procuratore generale presso la medesima corte a seconda che il magistrato eserciti funzioni giudicanti o requirenti. Il presidente della corte di appello o il procuratore generale presso la stessa corte, oltre agli elementi forniti dal capo dell’ufficio, possono acquisire anche le osservazioni del presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati e devono indicare gli elementi di fatto sulla base dei quali hanno espresso la valutazione di idoneità. Per il passaggio dalle funzioni giudicanti di legittimità alle funzioni requirenti di legittimità, e viceversa, le disposizioni del secondo e terzo periodo si applicano sostituendo al consiglio giudiziario il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, nonché sostituendo al presidente della corte d’appello e al procuratore generale presso la medesima, rispettivamente, il primo presidente della Corte di cassazione e il procuratore generale presso la medesima”; art. 13, comma 4: “4. Ferme restando tutte le procedure previste dal comma 3, il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all’interno dello stesso distretto, all’interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d’appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.”; art. 13, comma 5: “5. Per il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, l’anzianità di servizio è valutata unitamente alle attitudini specifiche desunte dalle valutazioni di professionalità periodiche”; art. 13 comma 6:”6. Le limitazioni di cui al comma 3 non operano per il conferimento delle funzioni di legittimità di cui all’articolo 10, commi 15 e 16, nonché, limitatamente a quelle relative alla sede di destinazione, anche per le funzioni di legittimità di cui ai commi 6 e 14 dello stesso articolo 10, che comportino il mutamento da giudicante a requirente e viceversa”; il D.l. 29 dicembre 2009 n. 193, convertito con modificazioni in legge 22 febbraio 2010, n. 24 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario) nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 3, comma 1, limitatamente alle parole: “Il trasferimento d’ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma può essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa previsto dall’articolo 13, commi 3 e 4, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160”? 3.Custodia Cautelare QUESITO Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica del 22 settembre 1988 n. 447, “Approvazione del Codice di Procedura Penale” e successive modificazioni, limitatamente all’articolo 274, comma 1, lettera c), limitatamente alle parole: “o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali é prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’articolo 7 della legge 2 maggio 1974, n. 195, e successive modificazioni.”‘? 4.Abrogazione del testo unico in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo (legge Severino) QUESITO Volete voi che sia abrogato il decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, recante “Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190”? 5.Abolizione raccolta firme Lista magistrati. QUESITO Volete voi che sia abrogata la Legge 24 marzo 1958, n. 195 (“Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura”), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, all’articolo 25, comma 3 limitatamente a “unitamente ad una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. I magistrati presentatori non possono presentare più di una candidatura in ciascuno dei collegi di cui al comma 2 dell’articolo 23, nè possono candidarsi a loro volta”? 6.Voto per i membri non togati dei Consigli Giudiziari QUESITO Volete voi che sia abrogato l’art. 16 (Composizione dei consigli giudiziari in relazione alle competenze) del Decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 che reca “Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, a norma dell’articolo 1, comma 1, lett. c) della legge 25 luglio 2005 n. 150? Giustizia. Il Pd alle prese con i suoi tabù di Stefano Folli La Repubblica, 4 giugno 2021 Tra i dem c’è chi non vuole farsi superare dal gruppo Di Maio, ma nemmeno intende lasciare qualche bandiera radicale in mano a Salvini. A costo di abbandonare i vecchi capisaldi. Come garantisce lui stesso con una certa dose di civetteria, Goffredo Bettini è un privato cittadino che esprime “opinioni personali” nel dibattito politico. In realtà è un personaggio, figlio della storia del Pci, che da qualche anno influenza non poco il Partito democratico. O nelle vesti di suggeritore - non sempre infallibile - del leader di turno (l’ultimo è stato Zingaretti). O in quelle dell’osservatore che anticipa le tendenze e coglie il mutare del vento. L’intervento scritto per Il Foglio del 3 giugno appartiene alla seconda categoria e sembra voler cogliere un cambio di passo nei rapporti tra Pd e Cinque Stelle partendo dal punto cruciale: la riforma della giustizia, a cominciare da un ripensamento del rapporto tra politica e magistratura. Bettini pone un problema ai suoi compagni di partito: non farsi scavalcare dai Cinque Stelle in tema di “garantismo”, dopo che la lettera di Di Maio allo stesso quotidiano sul caso del sindaco di Lodi ha tracciato una linea nella sabbia. Certo, Di Maio non è tutto il M5S ma ne rappresenta un segmento assai consistente, specie nei gruppi parlamentari. L’avere affossato la vecchia posizione che per comodità chiamiamo “giustizialista” ha cambiato le carte in tavola. Per cui è logico che i 5S tendano a dividersi: di qui il gruppo Di Maio che appoggia la riforma Cartabia e non ha paura di dispiacere, entro certi limiti, ai magistrati; di là l’ex premier Conte e il gruppo degli intransigenti Lezzi-Morra-Di Battista, ostili alla riforma e ancora più, va da sé, alla raccolta di firme promossa dai radicali e appoggiata dalla Lega di Salvini. È noto che Bettini è stato probabilmente il maggior teorico dell’alleanza stretta tra Pd e M5S, quasi una fusione al cui vertice si collocava l’avvocato Conte come punto di riferimento progressista. Ora cambia tutto, in un certo senso: il movimento è allo sbando e la conversione sollecitata dal governista Di Maio sulla giustizia non può lasciare indifferente il Pd, a meno di non voler finire schiacciati sulle posizioni scomode del vecchio amico Conte. Il quale rischia di ritrovarsi tra poco ai margini della maggioranza e forse oltre, nel senso che l’unico spazio agibile rimane quello dell’opposizione alla riforma lungo un sentiero che porta, è inevitabile, a una crescente tensione con Draghi su questo e altri temi dell’azione di governo. Fino alla plausibile rottura nel corso del semestre bianco. Il privato cittadino Bettini suggerisce dunque di prendere un’altra strada. Ma non si limita a una prudente correzione. Al contrario, si spinge su un terreno poco familiare alla sinistra e non teme di affrontare antichi tabù. Nell’intervento sul Foglio spezza una lancia a favore dei referendum radicali appoggiati da Salvini. Quindi va oltre la riforma Cartabia, quanto meno condivide la tesi secondo cui la scelta referendaria serve a spingere la riforma e a impedire che il punto di compromesso sia troppo basso. Infatti condivide quasi tutti i quesiti. Uno fra tutti, il più significativo a proposito di tabù infranti: la separazione delle carriere dei magistrati. Vuol dire che nel Pd c’è chi non vuole farsi superare dal gruppo Di Maio, ma nemmeno intende lasciare qualche bandiera radicale in mano a Salvini. A costo di abbandonare tutti i vecchi capisaldi. È il segno che qualcosa sta mutando negli equilibri di governo. E “l’opinione personale” di Bettini incrocia inevitabilmente la strada, questa sì cauta e attenta, di Enrico Letta. “Sulla giustizia Salvini sfrutta lo spazio vuoto lasciato dalla sinistra” di Luca Roberto Il Foglio, 4 giugno 2021 Parla Luigi Manconi: “Nel Pd il garantismo è minoritario ma negli altri partiti è ancora peggio. I referendum promossi dai Radicali sono sacrosanti, se i dem non li sostengono è per diffidenza”. “Solo chi ha una concezione autoritaria, organicistica o consociativa può considerare i referendum una minaccia per la democrazia parlamentare. In realtà sono sempre stati uno strumento di stimolo e di alleggerimento della partecipazione popolare, un’occasione di vitalità per la dialettica democratica”. Se si chiede a Luigi Manconi, che del garantismo, del rispetto della presunzione di innocenza, ha fatto la sua bandiera nell’attività politica (in Parlamento per tre legislature, dai Verdi al Pd), pubblicistica (oltre 30 libri nell’indice d’autore) e nell’attivismo (presiede la fondazione che presta assistenza giuridica A Buon diritto), di commentare l’invito che Goffredo Bettini ha rivolto al Pd perché sostenga i referendum sulla giustizia promossi dai Radicali, quel che si ottiene è una generale approvazione. “Ho massima stima della ministra Cartabia, penso che il suo tentativo di riforma sia prezioso e mi auguro che giunga a buon fine. Ma ciò non esclude l’utilità dei referendum in questione”, dice al Foglio. Condivide la considerazione di Bettini, per cui i quesiti promossi dai Radicali sono “l’occasione che ha la politica per riformare se stessa”. E per cui il Pd di fronte a questa battaglia garantista non può rimanere inerte, lasciando la figura di Pannella ostaggio di Matteo Salvini che già ha preso a farsi vedere per banchetti e conferenze stampa? “Penso che nelle battaglie in cui sono in gioco i diritti fondamentali tutti gli alleati siano i benvenuti, molto pannelliano come principio. Mi alleo anche con chi non mi piace, diceva Pannella”, aggiunge Manconi. “E però allo stesso modo questo non mi impedisce di pensare che la Lega sia il partito più giustizialista che c’è in Italia, perché è il più classista e discriminatorio nei confronti degli ultimi, i più vulnerabili. Del resto, nel momento in cui sostieni i quesiti proposti dai Radicali, che sono rivolti in parte a destinatari precisi, e cioè i detenuti, non puoi sostenere quello che ha detto Salvini su Brusca. Il problema è che quello spazio la Lega se l’è andato a conquistare per la totale assenza dei partiti del centrosinistra”. Che hanno preferito ripiegare sull’attendismo, quando non il silenzio, rispetto a prese di posizioni forti. Radicali, per l’appunto. Perché secondo lei, che il mondo dei democratici lo conosce da vicino essendo stato in Parlamento fino al 2018, il Pd è così timido, allora? “Perché la sinistra, che è sempre stata più attenta a tutelare i diritti sociali collettivi invece di quelli individuali, ha sempre avuto dei limiti culturali. Nel Partito democratico il garantismo è appannaggio di una minoranza, pur essendo il partito più garantista di tutti. E poi nel merito, il Pd è sempre stato diffidente nei confronti delle battaglie del Partito radicale, e più in generale dello strumento referendario”. Anche se Bettini ha detto che il Pd dovrebbe essere a favore della separazione delle carriere tra giudici inquirenti e giudicanti. “Ma questo - dice Manconi - è molto discutibile. Perché sul punto il Pd in tutti questi anni si è sempre opposto”. Lei non crede che anche sul rispetto delle garanzie fondamentali si sia verificato un superamento da parte dei Cinque stelle e della Lega, che i democratici si ritrovino a rincorrere su un tema, quello della giustizia, dove avrebbero più agibilità di manovra di altri? “Guardi, le posizioni del ministro Di Maio nei confronti del sindaco di Lodi Uggetti le abbiamo accolte con piacere, ma se hanno destato tanto scalpore è solo perché sono provenute da un leader politico che ha attinto tutta la sua popolarità dall’espressione massima del giustizialismo. E poi le ripeto, dopo il test Uggetti c’è stato il test Brusca a ricordarci che il rispetto delle garanzie nel nostro paese è un orientamento di minoranza. Se dalle persone comuni ce lo si può aspettare, questo non dovrebbe valere per le forze politiche”, rimarca Manconi. Ci sono forze garantiste al di là degli eredi di Pannella? “Sono marginali. Ricordiamoci sempre che anche uno come Matteo Renzi, che ha fatto del garantismo una sua sensibilità, arrivò a proporre Nicola Gratteri come ministro della Giustizia. Anche lui ha avuto un comportamento piuttosto erratico”. Ce lo dica, lei parteciperà alla campagna referendaria. “Darò una mano senz’altro”. Vuole fare un appello agli amici del Pd perché sciolgano le timidezze di queste ore? “Ma non sono tipo da appelli. Credo nel mio piccolo di aver dato qualche elemento per rifletterci su”. Giustizia, il Pd si divide sui referendum di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 4 giugno 2021 Per Bettini e Marcucci sono da sostenere e “molto utili”. Linea opposta dai parlamentari che seguono le riforme della ministra Cartabia. Che oggi vedrà la maggioranza sul nuovo Csm. Per il quale i suoi saggi escludono ogni forma di sortteggio. Nel giorno in cui depositano i sei quesiti in Cassazione, leghisti e radicali scoprono che i loro referendum sulla giustizia hanno estimatori imprevisti. Nel Pd c’è Goffredo Bettini che ne condivide almeno cinque. In cima alla lista mette il referendum che punta alla separazione delle carriere, proprio quello che ha più probabilità di essere fermato dalla Corte costituzionale che ha già detto che per una riforma del genere non basta un quesito abrogativo ma serve una legge (costituzionale). Il senatore Andrea Marcucci, ex capogruppo e prima fila della nostalgia renziana, considera i referendum “molto utili”. Cioè l’opposto di quello che dicono la responsabile giustizia del partito e i parlamentari che seguono le riforme. In appoggio alla strana coppia referendaria Lega-Radicali - che da inizio luglio a fine settembre dovrà raccogliere 500mila firme per ogni quesito - ci sono anche Iv e tutto il centrodestra. Giorgia Meloni dice che l’iniziativa è “molto interessante”. Forza Italia e Azione presentano emendamenti al disegno di legge sul Csm e l’ordinamento giudiziario che riprendono due quesiti radical-leghisti. Di nuovo quello sulla separazione delle carriere e poi quello che assegna diritto di voto agli avvocati nei consigli giudiziari. Gli altri emendamenti di centrodestra vanno da una stretta agli incarichi fuori ruolo per le toghe e alle cosiddette “porte girevoli” tra magistratura e candidature politiche, nuovi criteri di valutazione di professionalità per le toghe (voti e non giudizi), nuovi illeciti disciplinari. Anche questa volta, per la terza riforma della giustizia prevista nel Pnrr (le altre due sono quelle dei riti civile e penale), la maggioranza non rinuncia a una pioggia di emendamenti al testo base (che anche in questo caso è ancora quello dell’ex ministro grillino Bonafede). Ma stavolta sono 400 e non 700 perché Pd, 5 Stelle e Leu si contengono. Una decina di emendamenti a testa per i primi due, addirittura nessuno da Leu. Questo per una serie di motivi. Intanto il disegno di legge sull’ordinamento giudiziario (delega, ma con norme di immediata efficacia sul Csm) è meno divisivo di quello sul processo penale. Poi la ex maggioranza giallorossa vuole evitare di dare l’impressione di sconfessare la “sua” riforma. Infine i deputati hanno capito che la partita comincerà quando la commissione ministeriale presieduta dal costituzionalista Luciani calerà le sue proposte. Cosa che avverrà questa mattina, in un incontro al quale parteciperanno la ministra e i capigruppo di maggioranza nelle commissioni giustizia. “La dialettica tra garantisti e giustizialisti è provvidenziale ma non deve diventare un derby” ha detto ieri Cartabia, intervenendo alla presentazione di un libro di Luciano Violante. La commissione di saggi avrebbe ripreso proprio una proposta di Violante, quella di sottrarre il disciplinare dei magistrati al Csm per affidarlo a un’Alta Corte, spiegando però che occorrere una riforma costituzionale. Sulle carriere la commissione si sarebbe orientata a confermare la rigida distinzione delle funzioni già prevista dal testo Bonafede (due soli passaggi in carriera da pm a giudice o viceversa). Mentre sul punto più atteso, quello del sistema elettorale della componente togata del Csm, i saggi avrebbero ripreso le proposte della commissione Balboni (1996) prevedendo il voto di metà mandato e il sistema del voto singolo trasferibile, E avrebbero escluso il sorteggio anche nella forma ridotta (per la formazione di alcune commissioni) previsto dalla Bonafede. Mentre Forza Italia con i suoi emendamenti insiste sul sorteggio. Riformisti con Cartabia o referendari con i Radicali? Viaggio nella “giustizia” del Pd di Carmelo Caruso Il Foglio, 4 giugno 2021 “Perché firmo i referendum dei radicali sulla giustizia? Perché non lascio quel patrimonio che si chiama Marco Pannella a Matteo Salvini. Perché i referendum non sono alternativi alla riforma coraggiosa di Marta Cartabia. Perché cosa c’è di più avvincente di un referendum?”. Lo dice Enza Bruno Bossio. È una parlamentare del Pd. Il partito non la pensa come lei. “E cosa importa? Non c’è forse più gusto a fare questa battaglia?”. Dunque è vero che il Pd, quando ci si mette, rimane ancora il partito della ragione faticosa e della sorpresa stimolante? Due inviti. Entrambi sono apparsi ieri sul Foglio. Il primo. Simone Uggetti, ex sindaco di Lodi: “I referendum Radicali perché no? La mia esperienza spero che insegni qualcosa al Pd”. L’altro. Goffredo Bettini: “Con una scelta che impegna altro che me stesso, non posso rimanere indifferente rispetto ai quesiti referendari Radicali”. Sono i referendum che ha firmato Matteo Salvini, ma non è proprio per questo che bisognerebbe dirgli: “Giù le mani! Non eri tu che straparlavi di carcere?”. Ci sarebbe da discutere sulla parola. Oggi sono più “radicali” i referendum o è più “radicale” la riforma della ministra Marta Cartabia. Perché il Pd preferisce non firmare? Perché Anna Rossomando, che è la responsabile Giustizia, assicura che “la riforma Cartabia è ambiziosissima, arriverà prima dell’estate, e che gli esiti si vedranno ben prima degli effetti di un referendum che, voglio ricordare, deve essere valutato dalla Consulta. Un referendum che, tra le altre cose, rimane abrogativo. Noi crediamo nella nostra ministra. Ma Salvini ci crede? Quanto è importante questo parlare della giustizia? Tantissimo. Dice sempre la “signora diritto” del Pd: “I cambiamenti che ci servono li otterremo con questa riforma che è sicuramente meno confusa dei quesiti referendari. Si introducono valutazioni sulla professionalità dei magistrati, si riforma, e davvero il Csm”. E ha ragione quando aggiunge che nella lettera di Bettini, a vederla bene, c’è molto di più: “Io, ad esempio, condivido la prima parte. L’invito a discutere di garanzie, a ragionare su questi vent’anni velenosi”. Vuole ricordare insomma che questa Lega, fase Voltaire, è una simpatica novità e che vederla passata “dall’agitare il cappio al firmare referendum garantisti non può che rallegrare tutti. Io tuttavia non dimentico la Lega del ‘marcire in galera’. Diciamo che la buona volontà la guardo sempre con benevolenza. A Salvini però rivolgo una domanda: è sicuro di aver letto bene cosa ha firmato?”. Cosa fare quindi del “lodo Bettini”? Alfredo Bazoli, altro esperto di codici e giustizia Pd: “Con la sua proposta rischiamo di apparire subalterni a Salvini. Mi sembra che adesso sia scattata una corsa a chi è più garantista. Alcuni quesiti li condivido ma altri no”. Walter Verini, tesoriere saggio: “Quando Salvini si presenta in Cassazione cosa fa se non intestarseli? Questi sono referendum a marchio Salvini. Se c’è l’impegno a riformare la giustizia in Parlamento perché agitare la battaglia referendaria? Con la Cartabia la rivoluzione può essere copernicana”. Anche il segretario Enrico Letta ha meditato sulla proposta di Bettini e le ha dato il peso che meritava: l’invito nobile di uomo di intuizioni. Ma quello che pensa Letta è chiarissimo: “Avanti sulla riforma Cartabia, percorso ordinario. E sul garantismo non prendo lezioni da nessuno. Non ho mai utilizzato la frase “giustizia a orologeria”. Parlando ad alta voce ha raccontato che quella espressione che, negli ultimi giorni, tanto ha fatto sorridere (“impunitisti”) era del suo Beniamino Andreatta. Avrebbe detto anche che tutti quelli, e si riferiva a Italia Viva, che sono oggi garantisti di platino non lo sono stati nel consentire il passo indietro, nell’ordine, dei ministri Guidi, Cancelleri, Idem, Lupi. È per questo che il segretario del Pd ha voluto incontrare personalmente Uggetti per portargli le scuse di tutta la comunità, “scuse che prescindono dal referendum”. Attenzione, non è corretto dire che è paura del referendum. Stefano Ceccanti “valuterà attentamente il testo finale di ciascun quesito, ma il punto fermo rimane il sostegno all’azione della ministra Cartabia”. Valeria Fedeli, ex ministra dell’Istruzione e senatrice Pd, è convinta che “chi sta in Parlamento, e condivide i quesiti referendari si deve impegnare a fare qui e ora le riforme”. Dario Stefano, altro importante democratico, precisa: “Per prima cosa restituiamo ai radicali quello che è dei radicali. Il referendum lo hanno promosso loro ed è uno strumento che serve a spronare il Parlamento. Ma una riforma c’è, l’impianto pure. Dunque avanti tutta”. Salvatore Margiotta, ex sottosegretario: “Non mi scandalizza il referendum, ma lo immagino come ultima risorsa”. Dovrebbe invece scandalizzare il matrimonio fra Pannella e Salvini. Andrea Marcucci non lo capisce. “Io ricordo quando la Lega esibiva i cappi in Parlamento. Decenni di politica forcaiola e giustizialista. Ed è per questo che non voglio farmi condizionare dall’appoggio strumentale di Salvini sui miei temi. Vediamo allora i tempi, modi e accordi della riforma parlamentare. I referendum Radicali possono però essere certamente un mezzo utile”. Come si vede c’è in corso uno straordinario seminario sulla giustizia. Sta scuotendo sul serio un mondo che troppo spesso ha lasciato ad altri lo stato di diritto. Ieri, Enrico Rossi, l’ex presidente della Toscana, in una sincera intervista all’ Huffpost, ha usato parole importanti: “Usciamo dalla fase del giustizialismo e populismo. Ha ragione Bettini”. Potrebbe anche avere ragione l’indomabile Bruno Bossio: “Salvini fa il Radicale? Io lo faccio di più. Raccoglierò le firme, farò banchetti. E dopo la giustizia mi riprendo anche il tema del ponte sullo Stretto. Imitiamolo, ma meglio. Su una cosa la penso come lui. Di lotta e di governo. Che male faccio?”. Referendum? Perché no... Bettini spacca la maggioranza di Rocco Vazzana Il Dubbio, 4 giugno 2021 Con una lettera al Foglio, l’esponente dem invita la sinistra a riflettere sull’opportunità dei quesiti radicali sulla giustizia. E nel Pd c’è chi lo prende alla lettera. Non bastava l’iniziativa della Lega a sostegno dei referendum radicali sulla giustizia a mandare in fibrillazione la maggioranza. Ora ci si mette anche il Pd, o una parte di esso, a promuovere la consultazione popolare sul tema più sensibile in casa grillina: la giustizia. E per quanto il leader della Lega, che ieri ha depositato in Cassazione i sei quesiti, si ostini a ripetere che il referendum non danneggerà il governo, ma al contrario aiuterà Mario Draghi a uscire da un imbuto parlamentare, mettendo “in mano ai cittadini” riforme altrimenti irrealizzabili, il problema degli equilibri in maggioranza si pone, eccome. Soprattutto adesso che Goffredo Bettini, membro della direzione nazionale del Pd ed ex maitre à penser di Nicola Zingaretti, ha aperto una falla tra i dem, rompendo implicitamente l’asse col M5S, di cui pure è stato primo teorizzatore, come fa notare ironicamente Italia viva. Con una lettera al Foglio, Bettini viola il tabù del referendum a sinistra. A titolo “personale”, senza chiamare alle armi l’intero partito, ovviamente, l’esponente dem invita il centrosinistra ad aprire una riflessione sul tema giustizia, anche alla luce degli ultimi episodi di cronaca. “In troppe occasioni il selvaggio chiasso attorno alle indagini che hanno riguardato tanti rappresentanti politici e di governo, ha portato a linciaggi personali che poi si sono risolti nel nulla, in assoluzioni che non hanno minimamente ripagato le sofferenze di chi è stato messo alla gogna”, spiega Bettini. “È toccato a tutti, da una parte e dall’altra dello schieramento politico”, argomenta l’influente ex eurodeputato, portando a titolo d’esempio i casi eclatanti di Antonio Bassolino (19 procedimenti e 19 assoluzioni), Virginia Raggi e Filippo Penati. Ma non solo, perché Bettini mette sotto la lente anche alcune la “congruità di certe condanne”, come quella recentissima inflitta a Nichi Vendola, “un vero galantuomo”, o quella comminata a Gianni Alemanno, “un avversario politico, non un criminale”. E anche alla luce di questi episodi, Bettini dice non poter rimanere indifferente “ai quesiti referendari”, invitando una “sinistra innovativa, democratica e libertaria” ad aprire un confronto franco. Obiettivo: sottrarre alla Lega, “che amava esibire il cappio nelle aule parlamentari”, un tema delicatissimo oggi impugnato “un po’ pelosamente” L’esponente dem, pur nutrendo qualche dubbio sul primo quesito referendario, quello sulla responsabilità civile dei magistrati, che potrebbe togliere serenità ai giudici, promuove sostanzialmente gli altri cinque referendum: separazione delle carriere dei magistrati, limitazioni agli abusi della custodia cautelare, abrogazione della legge Severino, abrogazione della norma che obbliga gli aspiranti consiglieri del Csm a raccogliere firme per candidarsi, l’introduzione del diritto di voto per avvocati e professori all’interno dei Consigli giudiziari. Per il Movimento 5 Stelle, che col presidente della commissione Giustizia della Camera, Mario Perantoni, aveva già liquidato il referendum come “arma di distrazione”, la fuga in avanti di Bettini potrebbe essere un colpo basso. Soprattutto perché proprio sulla riforma della giustizia, e in particolare della prescrizione, i grillini rischiano l’implosione. E l’apertura di un nuovo fronte, con l’alleato del Pd, potrebbe non giovare alla serenità pentastellata e del governo di conseguenza. Una volta abbattuto l’argine, infatti, tra i dem comincia a farsi largo l’idea che il referendum possa trasformarsi in strumento di pressione politica. In special modo tra chi, pur distante da Bettini, pensa di poter utilizzare i quesiti per allentare l’abbraccio tra Letta e Conte. “Il referendum può essere certamente uno strumento molto utile”, dice Andrea Marcucci, esponente di Base riformista e per nulla tifoso dell’alleanza giallo-rossa. “Mi resta incomprensibile il sostegno della Lega di Salvini, le cui radici sono molto lontane da me, e risalgono al famoso cappio”, aggiunge Marcucci. E per quanto Franco Mirabelli e Andrea Bazoli, rispettivamente capigruppo dem in Commissione Giustizia di Senato e Camera, provino a riportare tutti sulla retta via (le riforme si fanno in Parlamento, non nelle urne) il rischio che altri pezzi del Pd possano seguire l’esempio di Bettini resta alto. Una grana in più per Draghi e Marta Cartabia, già alle prese con una mediazione apparentemente impossibile proprio sulla giustizia. Al via i referendum sulla giustizia, ma la Lega giura fedeltà a Cartabia di Liana Milella La Repubblica, 4 giugno 2021 Salvini deposita in Cassazione con i Radicali i sei quesiti sulla giustizia. A luglio la raccolta delle firme. Partito “di lotta e di governo” diceva Berlinguer ormai decenni fa. E adesso la Lega rispolvera la frase buttandosi nella campagna dei referendum sulla magistratura. Tenendo insieme quello che - almeno razionalmente - non dovrebbe proprio poterci stare. E cioè far parte contemporaneamente del governo Draghi e, con la Guardasigilli Marta Cartabia, fare le riforme della giustizia, e al contempo, in piazza, portare in Cassazione con i Radicali i sei quesiti referendari con tesi da sempre divisive. Bastino, tanto per citarne tre dei sei, quello sulla separazione delle carriere di giudici e pm, quello sulla responsabilità civile e personale dei giudici, quello sull’abolizione della legge Severino. Chissà perché, poi, si vuole eliminare quest’ultima legge che ha fissato un principio logico e razionale: chi viene condannato con una sentenza definitiva per una pena superiore a due anni non può rappresentare i cittadini in Parlamento e neppure in Europa, né stare al governo. Logico no? Per Lega e Radicali pare che non sia così. Ma tant’è. Da oggi - con i quesiti presentati in Cassazione - fino a quando la Consulta ne deciderà l’effettiva praticabilità, ci sarà tutto il tempo per valutare nel merito ogni proposta. Ma adesso l’interrogativo è un altro. E nasce dalla palese contraddizione che, con uno sforzo esplicativo, la senatrice Giulia Bongiorno - responsabile Giustizia della Lega, nonché avvocato di Salvini, nonché l’ex presidente della commissione Giustizia della Camera che negli anni caldi del governo Berlusconi bloccò il suo intervento repressivo sulle intercettazioni - cerca di far apparire un fantasma che alcuni vedono, ma che in realtà per la sua natura evanescente non esiste. Dice la Bongiorno in piazza Cavour: “Non c’è nessuno scontro in corso. Noi stiamo dicendo che la riforma Cartabia va nella giusta direzione. Parlare di scontro vuol dire non sapere cosa toccano i quesiti e cosa la riforma Cartabia, che sono cose diverse”. È davvero così oppure Salvini e Bongiorno negano l’evidenza? Si può utilizzare, per rispondere, la reazione di un dem sempre equilibrato come il vice presidente dei senatori Franco Mirabelli: “Per noi è il tempo delle riforme, di sostenere il lavoro del ministro Cartabia, non quello delle bandierine da piantare. È forse l’ultima occasione per cambiare e riformare la giustizia, sprecarla per interessi di bottega sarebbe imperdonabile”. Ma perché, secondo Mirabelli, i sei referendum hanno un inevitabile effetto nocivo? Perché si “rischia di rimettere indietro le lancette dell’orologio e ritornare al clima che da almeno 20 anni ha impedito in Italia la ricerca di risposte e soluzioni alle tante cose che non funzionano, preferendo il conflitto manicheo, utile solo per la propaganda, tra giustizialisti e garantisti, partito dei magistrati e partito contro i magistrati, eliminando ogni possibilità di incontro e confronto”. Nel Pd non tutti la pensano come lui, basta leggere quanto scrive sul Foglio Goffredo Bettini, il quale considera “condivisibili” il quesito sulla separazione delle carriere, quello sulla custodia cautelare, nonché l’abrogazione della legge Severino. Ma un fatto è certo. Proprio alla vigilia dell’incontro in via Arenula tra Cartabia e i partiti sulla proposta di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario del costituzionalista Massimo Luciani e del suo gruppo di studio, l’uscita movimentista della Lega suona come un evidente segnale: qualunque sia la proposta Cartabia, sul Csm, sulla prescrizione, sui tempi del processo, sulle regole che pm e giudici devono rispettare per garantire un processo giusto, non sarà sufficiente. E per questo bisogna andare in piazza e interrogare la piazza. Una sfiducia in nuce. “La proposta Lattanzi dice addio all’idea della giustizia vendicativa” di Errico Novi Il Dubbio, 4 giugno 2021 Ddl penale, intervista a Domenico Pulitanò, professore emerito di diritto penale della Bicocca: “Tra le ipotesi più coraggiose avanzate dagli esperti, va ricordato l’effettivo rafforzamento della funzione di filtro che l’udienza preliminare deve svolgere”. Domenico Pulitanò è una di quelle voci dell’accademia poco inclini a presidiare la scena mediatica. Ma se chiedi all’Unione Camere penali, all’avvocatura, quali sono i riferimenti scientifici più affidabili, ricorre sempre il professore emerito di Diritto penale della Bicocca. Secondo Pulitanò, dunque, sulla relazione prodotta dalla commissione di esperti presieduta da Giorgio Lattanzi “sarebbe auspicabile che ci si impegni in una battaglia politica”. C’è il rischio di sottovalutare la proposta Lattanzi, professor Pulitanò? “Non so dirle se sia sottovalutata. So che è un lavoro complesso, ampio, impegnativo e organico che potrebbe assicurare un passo avanti notevole per la struttura del processo penale”. Cosa la convince in particolare? Faccio un esempio: la funzione di filtro dell’udienza preliminare. Mi sembra uno degli aspetti più innovativi e seri. Con l’emendamento proposto dalla commissione si stabilirebbe che il giudice deve valutare la sussistenza di elementi tali da rendere altamente probabile una condanna, e solo se li rinviene, accoglie la richiesta di rinvio a giudizio. Il filtro sarebbe davvero effettivo, e lo stesso pubblico ministero si assumerebbe la responsabilità di chiedere il processo, o di opporsi a un’archiviazione, non più con una logica ad explorandum. Cosa vuol dire? Che si può ottenere una deflazione, e dunque una maggiore celerità del sistema penale, se si esce dall’idea di poter arricchire il quadro probatorio a dibattimento già avviato. La forza dell’ipotesi accusatoria deve essere costruita con il lavoro compiuto nella fase preliminare. Significa pretendere dal magistrato dell’accusa una concentrazione di sforzi e, appunto, un’assunzione di responsabilità... Certo, ma mi sembra una scelta necessaria, se vogliamo avere effetti di riequilibrio e alleggerimento del sistema. Comprendo come possano esserci posizioni contrarie, come da altri punti di vista si colgano dei rischi: e infatti si tratta di una scelta forte. Ma io propendo certamente a favore di questa scelta. Una concentrazione di sforzi per acquisire un quadro probatorio serio, anziché mere suggestioni da verificare a dibattimento, può anche disincentivare la cosiddetta giustizia mediatica? È un effetto collaterale che potrebbe effettivamente verificarsi. Anche se sento di dover esprimere qualche preoccupazione proprio per il tono con cui, innanzitutto nell’informazione, si tende ad alimentare di nuovo, in queste ore, un’idea vendicativa della giustizia penale. Mi riferisco evidentemente sia alla tragedia della funivia sia alla liberazione di Brusca. Ci sono commenti e letture, di una parte dei media, che trovo imbarazzanti, sempre orientati appunto alla vendetta. Il diritto penale non è questo. Cos’altro l’ha colpita della proposta Lattanzi? Inviterei a leggere con attenzione tutta la sezione quarta del documento, in cui sono contenute le proposte in materia di giustizia riparativa. Un esempio: la commutazione della pena in sanzione pecuniaria calcolata in base al reddito che quel particolare imputato è in grado di percepire nel singolo giorno lavorativo. Ecco, una determinata pena pecuniaria non pesa allo stesso modo per il ricco e per chi ha pochi mezzi. Si tratta di una rimodulazione che l’accademia penalistica sollecita da diversi anni. Vederla accolta in un lavoro serio e organico come la proposta della commissione ministeriale è un sollievo. Vada avanti... Ci sono diverse ipotesi condivisibili e potenzialmente efficaci in materia di messa alla prova, o di estensione dell’area di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Altre ancora innovative, seppur destinate a suscitare dibattito, come la cosiddetta archiviazione meritata, in cui il pm consente alla persona accusata di uscire dal procedimento senza che gli sia addebitata alcuna responsabilità a fronte di un determinato corrispettivo pecuniario, o realizzato con lavori di pubblica utilità. Una cosa è certa: sono tutte proposte che vanno nella direzione contraria al penale-spazza. Il penale-spazza? Cosa sarebbe? È la formula che ho ritenuto di adottare nei miei scritti per definire l’approccio punitivo e vendicativo culminato nella legge cosiddetta spazza-corrotti. Lì si proclama una giustizia basata sull’innalzamento delle pene, sulla risposta sanzionatoria indiscriminata al punto da diventare vendetta. Invece nella relazione Lattanzi si va in una direzione diametralmente opposta, di alleggerimento razionale e organico del sistema: giustizia riparativa, rafforzamento dei riti speciali, riduzione del carico processuale, della punibilità. E poi c’è la prescrizione: quale preferisce fra le due “exit strategies” proposte dagli esperti? Le dico subito che le proposte processuali in materia di prescrizione non mi hanno mai convinto. D’altronde la Corte costituzionale ha più volte corroborato l’idea per cui la prescrizione del reato rappresenta l’essenza del diritto penale sostanziale. Riconosco la serietà del lavoro compiuto negli anni passati sull’argomento soprattutto da esponenti della sinistra parlamentare: penso per esempio a Elvio Fassone. Ma io non credo si tratti di una strada capace almeno di rassicurare chi, come il Movimento 5 Stelle, difende la legge Bonafede. Eppure quell’ipotesi allontana il rischio di condanne non inflitte a causa di una tardiva emersione del reato, lamentata dai 5 Stelle soprattutto sulla corruzione... Guardi che le conseguenze possono essere di segno opposto. In molti casi la improcedibilità per sforamento della soglia temporale massima prevista per ciascuna fase potrebbe sopraggiungere in modo da diminuire di molto la durata complessiva del procedimento rispetto a quanto avviene, per esempio con la legge Orlando, in virtù di una prescrizione del reato. Si ricordi che alcuni delitti, sul piano sostanziale, non si prescrivono mai: l’omicidio, per esempio. Ecco, con fattispecie simili cosa avverrebbe se, pur in assenza della prescrivibilità del reato, si giungesse alla cosiddetta prescrizione del processo? I giustizialisti non sarebbero contenti. E la legge Orlando, di cui la relazione propone, in alternativa, il recupero con pochi ritocchi? La Orlando non mi ha mai entusiasmato, ma è comunque un passo avanti rispetto alla legge Bonafede, che mi auguro fortemente i partiti abbiano il coraggio di accantonare. Spero nella eliminazione di quella norma assurda e irrazionale. Dopo le parole di Luigi Di Maio su Uggetti, mi aspetterei una svolta del M5S persino sulla prescrizione. I referendum di radicali e Lega possono favorire una proposta di riequilibrio e avanzamento culturale come quella di Lattanzi? Non lo so, dietro la proposta referendaria possono intravedersi anche alcune complicazioni tecniche. Sugli scenari non mi pronuncio, mi limito a dire che siamo in presenza di una proposta, come quella elaborata dalla commissione, che rappresenta un’occasione imperdibile sulla quale andrebbe condotta una battaglia politica forte. È un netto passo avanti. Mi auguro che la ministra Cartabia non si risparmi dall’evocare le urgenze legate al contesto europeo. D’altronde la guardasigilli ha compiuto una scelta precisa nel momento stesso in cui ha scelto Giorgio Lattanzi come guida del gruppo di lavoro. Era già quella un’indicazione politica condivisibile. La riforma della giustizia di Salvini? Chiesta dai giustizialisti leghisti non convince di Roberto Rampi Il Riformista, 4 giugno 2021 Nella mia convinta e attiva partecipazione al Partito Radicale Transnazionale Trasparito e a quella che un tempo si chiamava “Galassia Radicale” in tutte le sue forme e, a maggior ragione, dopo l’onore di essere stato chiamato a partecipare al Consiglio Generale del Partito, ho sempre messo in conto e praticato, facendone un elemento caratteristico della mia storia personale e politica anche precedentemente e indipendentemente a quella radicale, il dialogo, il confronto e l’incontro con tutti. E sono assolutamente convinto sostenitore e difensore di quella pratica radicale profondamente e intimamente liberale e democratica che ritiene che si possa fare un pezzo di strada insieme con chiunque quando il cammino si incrocia e l’obbiettivo e la meta sono comuni e che non esistono in politica nemici, nemmeno avversari e men che men diavoli con cui non si può spartire nulla, ma invece vivano idee diverse con cui confrontarsi e rafforzarsi. Ero ragazzo quando difendevo la scelta, contestata da molti, di Marco Pannella di percorrere un importante tratto di strada insieme con l’allora innominabile Silvio Berlusconi, oppure quando decise l’operazione del gruppo tecnico al Parlamento Europeo pur di garantire spazi di partecipazione e di discussione persino con Le Pen padre. Tuttavia non mi convince la possibilità di raggiungere un obiettivo fondamentale come quello della Riforma della Giustizia insieme alla Lega e, in particolare, alla Lega di Matteo Salvini. In un rapporto esclusivo, non occasionale e dichiaratamente strategico per la “costruzione di una nuova classe dirigente”. Non è la Lega che mi preoccupa e tanto meno i singoli esponenti con cui capita quotidianamente di condividere pezzi di strada. Ad esempio, nelle battaglie per i diritti umani in Cina e Tibet (ma non in Russia, sic.). Non mi stupirebbe un cammino comune strategico, ad esempio su aspetti che riguardano le politiche economiche, la fiscalità, la piccola media impresa, l’approccio allo Stato. Ma su giustizia e carceri occorre ricordare che la Lega nasce e fiorisce nei consensi proprio sull’onda emotiva e anti politica degli anni ‘90, detiene tutt’ora il non invidiabile primato di aver portato il cappio nelle aule parlamentari, ha coltivato il giustizialismo, la detenzione definitiva, il braccio violento della legge come caratteristica fondante e non occasionale della sua identità. La Lega di Salvini, poi, rinasce accentuando queste sue caratteristiche per l’oggi e per il domani e inquadrandole in un progetto sovranazionale di Nuova Destra Europea che incrocia i campioni delle nuove democrature ungheresi e polacche. Quella Polonia che fa della frattura dell’equilibrio tra i poteri dello stato e dell’attacco frontale ai giudici e alla loro indipendenza il fronte più avanzato di un modello che risuona nelle motivazioni di Salvini anche nel momento del lancio quella campagna referendaria. Non si tratta, purtroppo, di ricostruire un equilibrio spezzato, di dare valore all’intuizione costituzionale di una giustizia ripartiva, lontana da ogni forma di vendetta. Come possono coesistere la concezione giudiziaria di chi è per sbattere in carcere e gettare via le chiavi, di chi giustifica i pestaggi in carcere, di chi si scandalizza ogni volta che viene applicato un istituto di garanzia, di pena alternativa, di clemenza, di chi considera abominio la parola amnistia, di chi mimava il gesto delle manette nei giorni successivi l’arresto di Simone Uggetti, con il modello e le battaglie che solo in casa Radicale si sono potute praticare in tutti questi anni. Non mi scandalizzo. Non mi preoccupo, ma ne occupo. Credo che le finalità siano profondamente diverse. Sono pronto a ricredermi. Non siamo una caserma e non lo siamo mai stati, le idee possono convivere, nel confronto e nel dibattito, anche quando si raggiunge il massimo della distanza, avendo ben chiari invece i tanti momenti di massima vicinanza. Sarò felice se Gandhi riuscirà a far riporre lo spadone ad Alberto da Giussano, ma penso che su questo cammino i sentieri siano profondamente diversi e nemmeno si trovino nello stesso bosco, ma su pianeti caratterizzati da differenti ecosistemi. “Rivolte nelle carceri” e revoca della detenzione domiciliare: solo con rapporto disciplinare di Alessia Ciccarelli avvocatodelgiudice.com, 4 giugno 2021 Cassazione penale sez. I, 21/04/2021, (ud. 21/04/2021, dep. 28/05/2021), n. 21134. Con la sentenza in argomento, la Corte di Cassazione si è pronunciata sul caso di un detenuto, a cui era stata revocata la detenzione domiciliare dal Tribunale di Sorveglianza di Ancona, per aver preso parte, con un ruolo attivo, alle cd. “Rivolte nelle carceri” del marzo 2020. Nello specifico, al condannato veniva negato il beneficio sulla base di mere informazioni fornite dalla Direzione dell’Istituto, in assenza di un formale rapporto disciplinare. La Suprema Corte ha annullato il provvedimento del Tribunale di Sorveglianza, affermando che la revoca del beneficio al condannato può essere disposta solo in presenza di un formale rapporto disciplinare emesso nei suoi confronti. Ed invero, ha stabilito che “la norma prevede che, quanto meno, sia redatto rapporto disciplinare ai sensi dell’art. 81, comma 1 del Regolamento. Non si tratta di un requisito soltanto formale, come sembrano ritenere il Magistrato di Sorveglianza e il Tribunale di Sorveglianza: il rapporto richiede l’individuazione dell’operatore penitenziario che lo redige e pretende che in esso siano indicate “tutte le circostanze del fatto”. La mancanza di un rapporto disciplinare, quindi, sottopone il detenuto all’arbitrio della Direzione della Casa Circondariale, la cui segnalazione è sfornita di notizie precise relative agli operatori penitenziari che avevano accertato la partecipazione alla sommossa e alle condotte specificamente addebitate allo stesso: ogni possibilità di difendersi è, di conseguenza, preclusa. In definitiva, si deve ritenere che, pur adottando un provvedimento avente natura urgente, il legislatore abbia preteso, per negare l’accesso alla misura alternativa, un requisito minimo che responsabilizzi l’Amministrazione penitenziaria, tenuto presente che il rapporto disciplinare comporta un controllo successivo delle valutazioni effettuate”. Campania. Carceri, strage senza fine: in meno di 20 anni oltre 230 morti di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 4 giugno 2021 C’è chi ha perso la vita a causa di una malattia e chi la vita se l’è tolta in un momento di disperazione incontrollabile. Ma c’è anche chi è stato ucciso, chi è stato stroncato da un’overdose di droga e chi, infine, è stato trovato esanime in circostanze da chiarire. Il “campionario” dei detenuti morti nelle prigioni campane dal primo gennaio 2002 al 30 maggio 2021 è drammaticamente vario. E ancora più allarmante sono i dati contenuti nel dossier Morire di carcere stilato dal centro studi del sito Ristretti Orizzonti: negli ultimi vent’anni, ben 234 persone hanno trovato la morte dietro le sbarre, a una media di quasi 12 ogni 365 giorni. È come se, con un improvviso colpo di spugna, fossero stati cancellati gli ultimi cinque Consigli regionali della Campania o gli ultimi sei Consigli comunali di Napoli con tutti i rispettivi componenti. La parte più allarmante del dossier riguarda i suicidi all’interno dei penitenziari. Dal 2002 a oggi sono stati almeno 111, con una media superiore a cinque l’anno. Il gesto estremo di Luca, il 25enne tossicodipendente che sabato scorso si è tolto la vita nel carcere napoletano di Poggioreale, alimenta un trend da tempo in preoccupante ascesa. Accusato di maltrattamenti e lesioni, il giovane era transitato per i reparti Firenze e Roma prima di approdare al Salerno. Pochi giorni prima di togliersi la vita era stato a messa e aveva persino parlato con un cappellano. Tutto inutile. Nessuno è riuscito a intercettare la sua disperazione e a evitare che il suo percorso di rieducazione e reinserimento sociale venisse tragicamente interrotto. Elementi, questi ultimi, che spesso sfuggono alla classe dirigente locale, come sottolineano Samuele Ciambriello e Pietro Ioia, garanti dei detenuti rispettivamente per conto della Regione Campania e del Comune di Napoli: “Il dolore e la morte sono la grande scuola della vita. A quanto pare, però, i politici continuano a ignorarlo e a considerare il carcere come un mero luogo di custodia”. Certo è che, nelle prigioni campane e italiane, ci si toglie la vita con una frequenza circa venti volte superiore a quanto avviene tra le persone libere. I drammi si verificano soprattutto negli istituti dove le condizioni di vita sono peggiori, quindi in strutture particolarmente sovraffollate e fatiscenti, con poche attività trattamentali e una scarsa presenza del volontariato. A complicare tutto ci ha pensato poi la pandemia che, oltre a mietere numerose vittime tra personale e ospiti dei 15 penitenziari campani, ha reso più complicati i colloqui e diradato i contatti tra detenuti e familiari con conseguenza psicologiche e affettive facilmente immaginabili. A destare allarme, però, non è solo il numero di suicidi, ma anche quello di morti a causa di malattie pregresse oppure contratte oppure ancora aggravatesi durante la permanenza in una cella. Dal primo gennaio 2002 al 30 maggio 2021 sono stati 76, il che dimostra quanto sia disastrata l’assistenza sanitaria in cella. Un’ulteriore conferma arriva dai dati relativi al personale medico e paramedico. All’inizio del 2020 nei 15 penitenziari della Campania si contavano 108 medici di reparto e 189 infermieri più sette tecnici della riabilitazione, 17 psicologi e 23 psichiatri per un totale di 344 “camici bianchi” chiamati a gestire una popolazione carceraria di circa 6mila e 500 unità. Inutile sottolineare la sproporzione tra i membri del personale sanitario, in quantità nettamente inferiore a quella prevista dalle piante organiche, e il numero dei detenuti, di gran lunga superiore a quello regolamentare e caratterizzato dalla presenza di numerosi casi clinici complessi. Il quadro descritto da Ristretti Orizzonti assume tinte ancora più fosche se si pensa che quasi 50 detenuti in Campania sono morti in circostanze da chiarire, per mano di altri o addirittura per abuso di droghe. Insomma, complessivamente si tratta di oltre 200 persone che in carcere, anziché un’occasione di riscatto e di reinserimento sociale, non hanno trovato altro che abbandono, disperazione e morte. E davanti a tutto ciò la politica - salvo rarissime eccezioni - si mostra del tutto indifferente. “Dall’inizio dell’anno siamo già a tre sucidi nelle carceri campane cui si aggiunge quello di un adolescente in una comunità del Casertano - conclude Ciambriello - Parliamo di uomini che in carcere dovevano ricevere una prestazione rieducativa, invece hanno trovato la morte. È ora che tutti si impegnino per spezzare questa catena di dolore che calpesta il senso di umanità prima ancora che la Costituzione e le leggi dello Stato”. Brescia. Detenuto oncologico muore in ospedale: medico del carcere indagato quibrescia.it, 4 giugno 2021 Da capire se Emiliano Dolcetti, deceduto a 47 anni e condannato per il delitto della zia, fosse adatto al carcere. La procura di Brescia ha acceso i riflettori sulla morte di Emiliano Dolcetti, l’uomo di 47 anni che era stato condannato in via definitiva a 18 anni e otto mesi di reclusione per il delitto, avvenuto nel luglio del 2010, della zia Carolina Ruffatto di 83 anni a Prevalle, in Valsabbia, nel bresciano. Nel corso di quell’azione, durante la quale aveva brandito un’accetta, anche ferendo la cugina Franca, era sotto l’effetto di cocaina. Il detenuto, che aveva scontato un periodo di pena nel carcere di Canton Mombello, è deceduto alla Poliambulanza di Brescia dove era stato condotto dopo essersi sentito male nell’istituto di pena. Ne dà notizia il Giornale di Brescia. E in questo ha pesato il fatto che l’uomo fosse stato colpito da un tumore e fosse, quindi, un malato oncologico. Sul corpo dell’uomo è già stata effettuata l’autopsia, mentre la procura ha deciso di iscrivere nel registro degli indagati un medico operativo nel carcere cittadino. In particolare, si vuole capire se il detenuto sia stato curato a dovere e se il regime di carcere per lui fosse compatibile. E ad alimentare il fascicolo della magistratura ci sono anche gli atti medici inviati proprio dall’ospedale dove Dolcetti è deceduto. Nel 2018 Emiliano Dolcetti era stato sottoposto a un intervento chirurgico per il tumore e in quel momento il tribunale di Sorveglianza aveva sospeso la permanenza in carcere. Per lui la pena dal tribunale di Brescia per il delitto della zia era stata accertata dal fatto che l’uomo, dopo una perizia psichiatrica, fosse stato riconosciuto capace di intendere e volere. Torino. Morte di Musa Balde nel Cpr, si indaga per istigazione al suicidio di Rita Rapisardi Il Domani, 4 giugno 2021 Morire nelle mani dello Stato, senza che sappia chi tu sia. È questa la versione che emerge dai gestori e responsabili del Centro per Rimpatri (Cpr) di Torino sulla morte di Musa Balde, il migrante 23 enne proveniente dalla Guinea che si è tolto la vita nella notte tra il 22 e il 23 maggio scorso. Musa era stato aggredito a colpi di spranga il 9 maggio scorso da tre italiani a Ventimiglia e la procura indaga per istigazione al suicidio. Gli operatori della struttura hanno raccontato di non essere stati a conoscenza dell’accaduto prima della sua morte. Il racconto del consigliere - “Ci è stato detto che finché non è morto non sapevano chi fosse. Chi operava nella struttura non era a conoscenza che Musa fosse il ragazzo picchiato a Ventimiglia. Com’è possibile che in una settimana trascorsa lì nessuno abbia informato chi di dovere?”, ha detto a Domani Marco Grimaldi, consigliere regionale di Liberi e uguali uscendo dal Cpr dopo un sopralluogo martedì 1 giugno insieme al consigliere del Partito Democratico Domenico Rossi. Una visita che Grimaldi ha chiesto incessantemente per una settimana: “Troppe fughe di notizie: maggiore trasparenza avrebbe forse aiutato a capire prima gli eventi. Le istituzioni devono avere libertà di accesso immediata in questi luoghi”. Il racconto - Dal racconto del consigliere pare anche che Musa avesse raccontato di essere caduto. E che non sapesse di essere diventato un caso mediatico dopo il video che ritraeva il suo pestaggio da parte di tre italiani. “Qui abbiamo una Questura, quella di Imperia, che sembra non abbia segnalato la delicata vicenda di Musa e questo neanche l’Asl. Il giudice che ha convalidato avrebbe dovuto dare almeno un permesso di soggiorno provvisorio per motivi giuridici, qui la parte lesa era il ragazzo”, aggiunge Grimaldi. Anche per questo gli atti della brutale aggressione subita dal 23enne originario della Guinea sono entrati nel fascicolo di inchiesta della procura di Torino. Che indaga, al momento contro ignoti, per istigazione al suicidio. L’ipotesi di reato vuole mettere in contatto le due fasi della storia. La questura - La Questura di Torino dalla sua dice di aver appreso del pestaggio di Musa soltanto dopo il suicidio. Qualcosa insomma non ha funzionato nel passaggio di consegna tra Imperia e Torino: Musa non avrebbe dovuto essere lì, vista l’aggressione che aveva subito. In particolare non dentro all’Ospedaletto, una zona separata dal resto del Cpr, composta da 12 cellette pollaio, di tre metri quadrati, senza telecamere di sorveglianza. Il caso particolare di Musa sarebbe almeno dovuto emergere durante l’udienza di convalida da parte di un giudice di Pace, obbligatoria per l’ingresso al Cpr. Ma queste sono di solito delle formalità di pochi minuti in cui non si discute realmente il singolo caso, il fatto di non possedere documenti è sufficiente per stabilire l’ingresso: “Avendo letto qualche centinaio di verbali di convalida immagino che questo profilo non sia emerso o che sia emerso e ritenuto irrilevante - spiega Massimo Veglio, avvocato dell’Asgi -, ma si possono solo fare speculazioni, anche se mi chiedo com’è possibile che la documentazione medica non fosse al seguito, visto che aveva transitato per un ospedale. Stesso discorso per la compatibilità per fare vita in comune, fatta invece dai medici del Cpr”. Le risorse dentro ai Cpr sono scarsissime e seguire tutti i detenuti impossibile. Il capitolato dice un infermiere e un medico, per 24 e 6 ore al giorno. I tagli dovuti ai decreti sicurezza Salvini hanno ridotto tutti i servizi: 16 ore settimanali di assistenza psicologica per 100 persone, altrettante di assistenza legale, gli operatori diurni sono quattro, solo due quelli notturni. L’avvocato di Muse - “Ho incontrato Muse per la prima volta giovedì e poi venerdì, ho subito segnalato che aveva disagi psichiatrici, ma i tempi lì sono lentissimi”, racconta Gianluca Vitale, avvocato di Muse, subentrato solo in un secondo momento, dopo l’affidamento di un avvocato d’ufficio. Vitale ha anche “presentato un esposto in Procura per capire se il giovane ha avuto adeguata assistenza psicologica. Quello che è stato detto al consigliere Grimaldi sposta solo un po’ la colpa verso la questura di Imperia, ma a me poco cambia. La responsabilità è sempre dello stato, hanno sbagliato tutti”. Intanto le associazioni dei Guineani residenti in Piemonte, Nakiri Comunità Guineana a Torino, Accoglienza Controvento, Carovane Migranti, LasciateCIEntrare, Re.Co.Sol Rete Comuni Solidal hanno lanciato una raccolta fondi per riportare la salma di Musa in patria: “Nessun governo - dicono - lo farà mai al posto nostro”. Verona. Don Carlo Vinco è il nuovo Garante dei detenuti veronanetwork.it, 4 giugno 2021 Ieri sera, durante il consiglio comunale Don Carlo Vinco è stato eletto Garante dei diritti dei detenuti. Don Carlo Vinco è il nuovo Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Verona. L’elezione è avvenuta ieri sera, a scrutinio segreto, ottenendo i 25 voti necessari, dopo che lo scorso febbraio la dottoressa Margherita Forestan, in carica da diversi anni, si è dimessa. In tutto erano 6 le candidature pervenute. La figura del Garante è stata istituita allo scopo di promuovere, in conformità ai principi della Costituzione, il diritto delle persone soggette a misure limitative della libertà, di partecipare alla vita civile e a fruire dei servizi erogati dalle pubbliche amministrazioni, con particolare riferimento ai diritti fondamentali quali la tutela della salute, il lavoro, la formazione, la cultura. Il Garante rimane in carica per tutto il mandato del Consiglio dal quale è eletto. Siracusa. “Ritardi nell’erogazione di visite mediche specialistiche” siracusanews.it, 4 giugno 2021 La relazione del Garante dei detenuti sul Cavadonna. Tra i problemi messi in luce: spreco di cibo, scarsa presenza del patronato e carenza dei medici. Si è tenuta, nelle scorse settimane, la visita del Garante dei detenuti, Giovanni Villari, nella Casa Circondariale di Cavadonna, a Siracusa. La visita è iniziata con l’ispezione delle cucine del Blocco 50, quello interessato precedentemente dalla violenta rivolta del 9 marzo 2020. Si sta provvedendo alla ristrutturazione dei locali che costituiscono l’intera cucina, risalenti al lontano 1997, anno in cui entrava in funzione per l’istituto. Al momento i cibi per i detenuti sono preparati in una seconda cucina (alternativa alla precedente) situata nel blocco 25, dove sono stati ricollocati gli stessi strumenti di lavoro della prima, e sistemati allo scopo. Per il momento stanno ancora utilizzando un solo forno per cuocere i cibi per tutta la popolazione detenuta, oltre ai bollitori, alle piastre e ai fuochi per il resto delle preparazioni. “Segnalo in quel contesto, e con particolare indignazione, lo spreco incredibile di cibo in avanzo dal pasto giornaliero dei detenuti. - scrive il Garante nella relazione finale - È stato notato un intero bidone di rifiuti organici grande e colmo di cibo rifiutato relativo al solo pranzo e rientrato in cucina con il carrello della distribuzione. A questo si aggiunge il caso di quei detenuti che tendono a rifornirsi di cibo dal carrello per poi liberarsene in cella come forma di protesta. Sebbene sia una realtà circoscritta, contribuisce a portare il conto economico nazionale dello spreco a lievitare a dismisura, forse anche decine di milioni di euro all’anno. L’alimentazione giornaliera dei detenuti purtroppo si caratterizza da una sorta di spreco costante: prendono il cibo che passa col carrello ma non sono tutti quelli che lo mangiano interamente. Succede inoltre che alcuni provvedono a cucinarsi per conto proprio il pasto con prodotti che acquistano con il sopravvitto, servizio che in ogni penitenziario viene gestito con la collaborazione di ditte esterne che forniscono settimanalmente i detenuti di generi alimentari, prodotti per l’igiene personale e l’igiene degli spazi abitativi. In tutto ciò, resta comunque fuori da questo genere di scelte, tutta la fascia di detenuti più poveri o senza familiari alle spalle, che nel vitto giornaliero hanno il solo loro unico sostentamento”. L’istituto è comunque tenuto a erogare quotidianamente i vari pasti perché deve farsi carico del mantenimento del detenuto. Questi alimenti però diventano quasi subito spazzatura, perché nel rifiuto e nello spregio di quel cibo si compie un piccolo rituale di rifiuto della carcerazione e dell’istituzione. “Sarebbe opportuno - continua Villari - studiare e organizzare un’adeguata modalità per la ridistribuzione del cibo non consumato a favore di soggetti esterni che potrebbero usufruirne, evitando lo spreco, individuati magari tra quelli appartenenti alla filiera degli allevamenti dei suini. Oppure, puntando su un sistema giornaliero di programmazione anticipata dei pasti principali in funzione delle effettive richieste dei detenuti, sezione per sezione, cucinare solo ciò che poi sarà realmente consumato, almeno relativamente alle portate essenziali: primi e secondi piatti. Sarebbe ideale a tal proposito riuscire realizzare cucine per ciascun reparto, come già esistono in varie carceri, e promuovere corsi di formazione con l’ausilio delle istituzioni scolastiche, per qualificare i detenuti che svolgerebbero questi lavori. Aggiungerei la possibilità di utilizzare magari alimenti provenienti da filiera corta, ad esempio coltivati all’interno delle stesse strutture carcerarie, oppure attraverso l’uso di prodotti alimentari ottenuti tramite protocolli d’intesa con Cooperative agricole e del settore agroalimentare nelle quali possono lavorare detenuti art. 21 o ex detenuti”. Successivamente, il garante ed i suoi collaboratori hanno visitato le sezioni del Blocco 20, “alta sicurezza”, e del Blocco 50 “media sicurezza”, per interloquire con i detenuti che hanno richiesto un colloquio privato. I problemi maggiori riscontrati riguardano le richieste di avvicinamento/trasferimento per motivi familiari, nel rispetto del diritto della territorialità della pena e dell’affettività familiare, e la richiesta di visite sanitarie specialistiche nel rispetto del diritto alla salute e per le quali si lamentano ancora tempi di attesa assolutamente irragionevoli. Ulteriore problema è la rarissima presenza della consulenza del patronato che permette ai detenuti di presentare le proprie domande per l’assistenza al reddito, alla pensione di vecchiaia, per il riconoscimento di invalidità e altre simili operazioni. “A questo si ovvierà, - afferma Villari - in accordo con l’amministrazione, all’affissione in ogni piano e sezione del carcere di apposito avviso e relative istruzioni per formulare le istanze per assistenza personale del Caf. Quest’ultimo, raggiunte un numero consistente d’istanze, programmerà le giornate per incontrare i detenuti. Sarebbe opportuno e innovativo realizzare o rafforzare le infrastrutture di rete per consentire le comunicazioni a distanza anche con i servizi dei patronati e risolvere tempestivamente e più facilmente tutte le problematiche connesse a questo servizio. L’attuale emergenza ci ha insegnato la necessità di sfruttare la tecnologia in carcere, per le comunicazioni con familiari, avvocati e magistrati. Questa prassi potrebbe essere utile anche per l’assistenza sanitaria e per le attività di formazione e reinserimento sociale. Con una buona connessione e la promozione delle digital skills1 si possono intensificare le relazioni familiari e migliorare l’assistenza sanitaria. Sarebbe un notevole passo avanti avere l’opportunità di sfruttare il progetto di telemedicina in ambito carcerario”. La telemedicina è il complesso di tecnologie e strumenti che riguardano servizi medici, che vanno dalla composizione di un parere durante la consultazione, alla diagnosi, alle prescrizioni, al trattamento e al monitoraggio del paziente, tutti effettuati da remoto tramite una connessione Internet. Una volta completati i colloqui con i detenuti il Garante si è recato con i suoi collaboratori nell’area sanitaria dell’istituto. Vengono notati subito i carrelli che l’Asp8 ha fornito per la distribuzione dei farmaci ai detenuti nelle loro sezioni, e non ancora utilizzati, tutt’ora avvolti dall’imballo di cellofan, perché giudicati dagli stessi addetti ai lavori troppo pesanti e ingombranti tenuto conto degli spazi e dei percorsi non sempre idonei al loro transito. Pare che questi siano stati gli unici nuovi arredi che sono stati forniti dall’azienda sanitaria all’infermeria del carcere. Restano infatti ancora vetusti tutti gli altri arredi tra cui spiccano per difformità in termini di sicurezza e per raggiunta precarietà, il blocco di classificatori a cassetti per l’archiviazione delle cartelle sanitarie di tutti i detenuti. Alcune cartelle giacciono una sopra l’altra nei vani in cui mancano i cassetti. “Dopo tanto tempo, e le numerose richieste, si segnala finalmente la nuova linea telefonica per la comunicazione diretta tra l’area sanitaria del carcere e la struttura sanitaria della città. - spiega il Garante -Resta ancora in attesa di essere collaudata la rete internet che consentirebbe l’accesso più rapido e diretto delle prenotazioni di visite e controlli tramite il portale dell’Asp8 dedicato ai vari reparti sanitari di cui fa parte anche l’area penitenziaria, nonché per la richiesta di farmaci previsti ed essenziali per le cure e terapie da somministrare quotidianamente ai detenuti. Chissà quando ciò avverrà, considerato che quasi dopo un anno non si è giunti ancora alla conclusione dell’operazione.” Il personale durante il giorno è composto da un solo medico di turno e mediamente due infermieri per una popolazione carceraria di 580 individui circa. “Appare subito evidente quindi la problematica carenza di personale che si riflette immediatamente sulle esigenze di supporto medico sanitario ad una popolazione di detenuti a cui va rivolta quotidianamente attenzione per le molteplici e variegate necessità assistenziali e infermieristiche. - si legge nella relazione - Il problema è palese e si spera che l’Asp possa provvedere ad assegnare nuovo personale in aggiunta a quello che a tutt’oggi, con alacre impegno contribuisce al funzionamento dell’area sanitaria e al proseguimento del difficile e sensibile compito affidatogli.” I medici di turno, comunque, così come il Garante e i detenuti, non riescono a spiegare il perché degli irragionevoli ritardi nell’erogazione di visite e interventi specialistici. “Lui (il medico di turno) visita, - spiega Villari - scrive sul diario clinico, comunica al dirigente che comunica all’ufficio preposto (uff. matricola del carcere) ad inviare la richiesta alla struttura sanitaria competente. Questo farraginoso iter presenta sicuramente qualche intoppo da qualche parte ma la risoluzione del problema sembra continuare ad essere un eterno mistero”. “Non sono giustificabili simili ritardi nell’erogazione di visite specialistiche in palese violazione della dignità dell’essere umano, - dice Villari - ormai principio fondamentale a livello internazionale, e del diritto alla salute sancito dall’art. 32 della nostra Costituzione. È una palese violazione dell’art. 27 c. 3 secondo cui “la pena non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. Non si può contestare che, in uno stato di diritto come il nostro, negare le cure ad un essere umano equivale ad una forma di tortura indiretta”. Lo scorso 2 ottobre “per monitorare - spiega il Garante - alcuni militari della “Nave Morgattini” risultati positivi al Covid e poi isolati negli alloggi della Marina militare di Augusta, l’Asp di Siracusa ha prontamente adottato, a supporto delle unità mediche domiciliari (Usca), il servizio di Telemedicina per il controllo sanitario a distanza. Il Dipartimento di Radiodiagnostica dell’Asp8 di Siracusa ha inoltre inviato il mezzo mobile dotato delle apparecchiature radiologiche per l’effettuazione delle radiografie del torace a tutti i militari in isolamento”. “Ma purtroppo - conclude Villari - niente di fatto per quanto riguarda la presenza in istituto dell’unità radiologica mobile; ancora nulla per i detenuti che attendono visite da anni; ancora nulla per il personale sanitario del carcere che richiede più presenze di forza lavoro e tutto ciò si riflette automaticamente in maniera negativa sui detenuti, persone a cui questi servizi sono destinati oltre che concepiti. Nonostante tutto si spera ancora che, in uno spirito di leale collaborazione, le Amministrazioni possano collaborare al fine di garantire i diritti essenziali a tutti i detenuti”. Pavia. Progetto “Qua la zampa”, i cani in carcere per aiutare i detenuti nel percorso riabilitativo vigevano24.it, 4 giugno 2021 Aiutare i detenuti nel loro percorso di recupero e imparare un nuovo mestiere per il futuro. Questi gli obiettivi dell’innovativo progetto “Qua la zampa”, fortemente voluto dal Direttore della Casa Circondariale di Pavia Stefania D’Agostino, dal direttore generale di ATS Pavia Mara Azzi e dall’ex garante provinciale dei detenuti Vanna Jahier, in collaborazione con la Scuola Cinofila “Il Biancospino” di Casteggio. Presentato questa mattina presso la Casa Circondariale Torre del Gallo di Pavia, il progetto ha permesso la costruzione, nell’area dell’intercinta esterna dell’Istituto, di uno spazio di accoglienza stabile di due cani provenienti dal canile di Voghera e l’attivazione di un percorso di educazione cinofila per i detenuti, finalizzata all’ottenimento di un patentino di educatore. Gli istruttori della scuola cinofila sono responsabili del percorso educativo che prevede un impegno quotidiano da parte dei detenuti nella cura ed educazione dei cani, mentre le cure veterinarie sono garantite dall’Area Veterinaria di ATS Pavia guidata dalla Dott.ssa Gabriella Gagnone. Attualmente sono tre i detenuti che si occupano quotidianamente dei cani, e che frequentano regolarmente il corso di educatore cinofilo, usufruendo di un percorso in borsa lavoro. Le competenze che acquisiranno durante il corso offriranno loro un’opportunità di impiego dopo la scarcerazione. Il progetto è finanziato da Fondazione Banca del Monte di Pavia e Fondazione UBI di Milano e promosso dall’Associazione di volontariato Amici della Mongolfiera di Pavia, che da anni collabora con la Casa Circondariale Torre del Gallo, attivando laboratori interculturali e servizi di assistenza per detenuti stranieri. La rivoluzione mancata della sanità dopo il Covid di Giovanna Faggionato e Davide Maria De Luca Il Domani, 4 giugno 2021 Il Piano nazionale di riforma e resilienza destina solo 20 miliardi del Recovery fund e altri fondi alla sanità, una cifra inferiore a quella del piano casa, più bassa dei 37 miliardi di tagli che il sistema ha subito negli ultimi 10 anni. La popolazione italiana intanto sta invecchiando e la spesa sanitaria è probabilmente destinata a crescere in futuro, mentre il piano assegna al fondo per finanziarla risorse costanti per i prossimi anni. Il Pnrr per la salute diventa così un esperimento e una scommessa: un tentativo di digitalizzare la sanità italiana e renderla più economica, nel tentativo di mantenerla sostenibile ed efficiente senza aumentarne il costo. “Il sistema sanitario è il nostro bene più prezioso”. Quando a partire dallo scorso settembre il ministro della Salute Roberto Speranza ha iniziato a parlare del futuro della salute in Italia non ha lesinato sulle espressioni grandiose. L’arrivo delle risorse del Recovery fund e il desiderio generale di vedere riformato un sistema sanitario che aveva appena dovuto affrontare una pandemia da 120mila morti, sembravano giustificare le aspettative più radicali. In quei giorni, Speranza diceva di aspettarsi un investimento complessivo di 68 miliardi di euro nella sanità, una cifra colossale, circa metà dell’intera spesa sanitaria italiana di un anno. Quelle promesse e quelle aspettative sono finite nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, il famoso Pnrr. Ultimato da pochi giorni, il piano è composto da migliaia di pagine, che includono gli indirizzi di riforma sanitaria, gli investimenti “straordinari” e gli orientamenti della spesa sanitaria ordinaria. Domani ha potuto esaminarlo nel dettaglio e quello che emerge è un piano con ambizioni molto più ridotte di quelle immaginate da Speranza. Le risorse assegnate alla sanità sono 20 miliardi, meno di un terzo di quelle chieste dal ministro, meno di quelle assegnate al piano casa e meno dei 37 miliardi di euro che, secondo i calcoli della Fondazione Gimbe, il sistema sanitario italiano si è visto tagliare negli ultimi dieci anni. Di fronte alla scarsità di risorse che sono state attribuite alla salute, il ministero ha tentato una scommessa azzardata: investire nelle cure domiciliari e nel digitale nella speranza di generare sufficienti risparmi da mantenere il sistema sostenibile con le poche risorse assegnate. Si tratta di una impostazione concordata e suggerita dalla Commissione europea che, per fare i conti con l’invecchiamento della popolazione, sta spingendo da anni per la transizione digitale dei sistemi sanitari. Sarà anche una occasione di business per le imprese, a cui l’Italia arriva con un livello di cultura digitale ancora molto basso e con pochissima consapevolezza di temi come la gestione dei dati sanitari. Il passaggio dal governo Conte a quello guidato da Mario Draghi non ha segnato un cambio di atteggiamento nei confronti della sanità. La “Missione 6” del Pnrr, che riguarda la salute, si è vista assegnare la stessa cifra, un limite superiore con fermezza dal ministero dell’Economia, sia sotto la guida di Roberto Gualtieri che di Daniele Franco. In un piano di riforma che, diplomaticamente, cerca di accontentare tutti i numerosi attori, pubblici e privati, che si occupano di sanità,il totale dell’investimento è uno dei punti più controversi. “La sanità è tornata a essere Cenerentola, sia per l’esiguità delle risorse che le sono state destinate, sia per il fatto che nessun partito della variegata maggioranza ha ritenuto di farne la propria bandiera dentro il Pnrr”, ha detto una settimana fa Carlo Palermo, segretario del sindacato dei medici dirigenti Anaao. “È del tutto evidente che chi lavora in sanità avrebbe voluto un aumento delle risorse complessivamente assegnate alla Missione 6 e un aumento per tutte le misure della sanità territoriale”, dice Tiziana Fritelli, presidente di Federsanità, l’organizzazione che riunisce aziende sanitarie pubbliche ed enti locali. Oltre agli investimenti, nel Pnrr viene delineato anche il futuro del finanziamento ordinario del sistema sanitario. Oggi, il fondo sanitario nazionale ammonta a 121 miliardi di euro e il governo promette di farlo crescere di qui al 2027 al ritmo dell’un per cento l’anno. Considerata l’inflazione e l’invecchiamento della popolazione, significa sostanzialmente mantenere il finanziamento stabile o in leggera contrazione. La speranza è che gli investimenti in digitalizzazione e sanità territoriale porteranno a una diminuzione delle ospedalizzazioni e quindi a un risparmio sulle spese correnti, così da mantenere stabile il livello dei servizi. Per esempio, il nuovo sistema di cure territoriali comporterà costi aggiuntivi per 1,3 miliardi di euro nel 2027, che verranno compensati per 180 milioni grazie all’aumento del fondo e per il resto da risparmi ottenuti dall’abbattimento delle ospedalizzazioni dei malati cronici e soprattutto di più dei due terzi degli accessi ai pronti soccorso, del 90 per cento dei codici bianchi e del 60 per cento di quelli verdi. Il piano prevede di investire in alcuni settori che da decenni sono un punto debole del nostro sistema: 537,6 milioni saranno destinati a finanziare 4.200 borse di specializzazione, il collo di bottiglia che mantiene basso il numero di medici nel nostro paese. Mentre un altro mezzo miliardo andrà a finanziare la ricerca biomedica. A parte queste spese necessarie, il piano di investimenti nella salute contenuto Pnrr si divide in due parti: territorio e digitalizzazione. Sette miliardi saranno destinati al potenziamento della sanità territoriale, il tema diventato centrale con l’arrivo della pandemia. La sanità territoriale è la prima barriera di difesa non solo contro un’epidemia, ma anche contro le malattie croniche che affliggono una popolazione sempre più anziana. Investire sul territorio significa alleggerire il carico di lavoro degli ospedali che in Italia, molto più che in altri paesi, sono ancora i principali distributori di cure. L’investimento più grande di questo capitolo è quello nelle cure domiciliari, ben quattro miliardi di euro. Di questi, 2,72 miliardi saranno destinati a pagare personale, come medici di medicina generale e infermieri, e i servizi necessari a portare le cure direttamente a casa dei pazienti. Si tratta di un’aggiunta recente al piano e la cui approvazione è definita da fonti del ministero della Salute un “capolavoro” diplomatico. Non sono infatti spese per investimenti veri e propri, cioè spese una tantum, ma spesa corrente, che andrà finanziata anche dopo l’esaurimento delle risorse europee. ll sistema si regge sulla creazione di 602 centri di coordinamento territoriale, uno ogni 100 mila abitanti, dotati di sistemi di intelligenza artificiale, che dovrebbero disporre dei dati di pazienti in tempo reale, grazie all’uso di dispositivi come i peacemaker, e collegati al sistema delle emergenze. In questo modo sarà possibile “diminuire il numero di sanitari necessari per ogni paziente che necessita cure domiciliari senza diminuire la qualità” del servizio, si legge nel piano. L’obiettivo è arrivare a fornire cure casalinghe ad almeno il 10 per cento degli ultra 65enni, riducendo notevolmente il carico di lavoro degli ospedali. Un traguardo ambizioso, che punta non solo a recuperare il divario con l’Europa, ma a superare di gran lunga l’attuale media europea del sei per cento. Per calcolare i diversi livelli di cura richiesta dai pazienti over 65 sono state prese come riferimento le tre regioni con le migliori performance: Emilia Romagna, Veneto e Toscana, regioni del Nord Est e del centro che però per numero di anziani e di livello di salute rischiano di essere molto diverse dalle aree del Meridione. Il resto degli investimenti nella sanità territoriale è destinato alle infrastrutture. Il piano prevede di investire due miliardi di euro nella costruzione di case di comunità, una sorta di poliambulatori locali, dotati di punti prelievo, ispirati soprattutto all’esperienza delle case della salute dell’Emilia Romagna, che riuniranno medici di famiglia, specialisti impiegati amministrativi e infermieri, senza disporre però di un finanziamento ad hoc per il personale, a parte quello per i contratti di nuovi infermieri. Un altro miliardo è destinato alle cosiddette “cure intermedie”, cioè l’investimento in ospedali di ridotte dimensioni, un livello di cure superiore alla casa di comunità, ma inferiore a quello degli ospedali veri e propri. Alla seconda parte del piano sono destinati 8,6 miliardi, inclusi i finanziamenti per ricerca e formazione. L’investimento in telemedicina, caldeggiato dalla Commissione europea, è l’anello di congiunzione tra cure territoriali e investimento nel digitale. Quasi un miliardo di euro sarà investito nel creare infrastrutture per effettuare esami e ricevere consulti medici a distanza. Il piano, per ora, si limita a prevedere standard comuni e un bando per valutare e finanziare progetti regionali, mentre a livello centrale sarà creata una piattaforma con regole condivise da tutti i servizi regionali dove far incontrare la domanda, anche direttamente dei cittadini, e l’offerta di aziende accreditate fornitrici di servizi e apparecchi. Altri quattro miliardi di euro andranno a finanziare nuovi macchinari per le diagnosi, mentre 1,67 miliardi di euro saranno investiti per la creazione dell’infrastruttura digitale, di intelligenza artificiale e di trattamento dati, del ministero della Salute, anche a scopo di “programmazione e prevenzione”. Per renderlo possibile, i fascicoli elettronici sanitari dovranno essere ommogenei in tutta Italia e il piano prevede che i fornitori del supporto tecnologico per queste attività dovranno essere aziende in grado di servire più regioni. Il presidente di Confindustria digitale Cesare Avenia si dice pienamente soddisfatto della nuova allocazione delle risorse, “molto positiva” in particolare per la telemedicina: “Avere la fibra garantirà a tutti i cittadini le assistenze a distanza che possono essere molto più efficaci, costano molto meno, e riescono dare a servizi alle persone fragili che stanno a casa, rendendo il servizio sanitario nazionale più efficiente”. Le aziende italiane aspettano la transizione da molto tempo, il fascicolo sanitario elettronico era stato finanziato già nel 2014. Il settore della sanità digitale e della telemedicina continua a crescere: nel 2019 valeva circa 18 miliardi, per il 2020 si stima una crescita del 2,3 per cento. Ma per il business dei dati sanitari le previsioni sono addirittura a doppia cifra: nel 2021 secondo Net consulting globe dovrebbe crescere del 14 per cento a 122,6 milioni di euro. A monte della filiera, infatti, servono protocolli per la gestione in sicurezza dei dati e per la loro anonimizzazione e poi tecnologie di analisi sviluppate soprattutto dalle grandi aziende, spiega Antonio Scala, presidente della Big data in health society. La transizione va di pari passo con i progetti di cloud europeo, come Gaia X, in cui però sono entrati anche operatori controversi come Palantir, che non offrono garanzie sull’uso dei dati. In Italia la situazione per ora è frammentata. In prima linea per la telemedicina ci sono sia attori del sistema sanitario, pubblico e privato, Asl, cliniche, istituti di ricerca, sia multinazionali della diagnostica e grandi operatori della tecnologia e dell’innovazione. A Trento, per esempio, la società pubblica Farmacie comunali Spa ha avviato un sistema hitech per il confezionamento delle dosi di farmaci per i pazienti ricoverati, e contemporaneamente l’azienda provinciale sanitaria si appoggia al colosso del software americano Salesforce per la telemedicina. Leonardo, che si è candidata alla gestione del cloud della pubblica amministrazione italiana, ha progetti anche per il fascicolo sanitario elettronico e soprattutto ha da poco firmato un accordo con Dompé farmaceutici per creare quella che viene già pubblicizzata come “la prima infrastruttura nazionale di sicurezza sanitaria”. Ma anche un’azienda della telefonia come Vodafone, da cui proviene il ministro della transizione digitale Vittorio Colao, investe da tre anni in telemedicina, attraverso una serie di collaborazioni che vanno dalla clinica Maugeri al politecnico di Milano. Secondo Confindustria digitale, nel piano di ripresa la parte delle infrastrutture digitali per la sanità è molto meno dettagliata rispetto a quella curata direttamente dal ministero della transizione digitale. A preoccupare Avenia è soprattutto la garanzia della interoperabilità delle piattaforme della pubblica amministrazione: “La sanità digitale è un diritto di tutti i cittadini”. Finora, spiega, sul fascicolo sanitario nazionale si è proceduto a macchia di leopardo: “Abbiamo speso malissimo i fondi europei perché non c’era una chiara governance e abbiamo regioni come il Trentino in cui è quasi completo, altre in cui i cittadini nemmeno sanno che esiste”. Le magre risorse del Pnrr salute sono state distribuite con cura tra le varie categorie e complessivamente il piano è stato accolto positivamente da aziende e professionisti. Ma non manca chi indica potenziali criticità. L’obiettivo dell’assistenza con telemedicina il 10 per cento degli over 65, ad esempio, “è raggiungibile in maniera equa, non aumentando il solco da sempre esistente tra il Nord e il Sud del paese?”, si chiede Gregorio Cosentino, presidente della Associazione scientifica sanità digitale (Assd), formata da numerosi ordini delle professioni sanitarie. Un altro ostacolo sono le competenze. “La formazione e l’aggiornamento continuo risultano infatti ancora insufficienti”, dice Cosentino. Secondo le ricerche di Assd, quasi metà delle strutture sanitarie nazionali non ha ancora realizzato nessun progetto di formazione digitale. Il presidente di Confindustria digitale Avenia concorda: “Le risorse per le competenze digitali sono insufficienti: rischiamo di ripetere quello che è successo con il tracciamento: avevamo la tecnologia, la app Immuni, ma molte Asl non sapevano che farne”. Il piano non è molto generoso su questo capitolo. Gli investimenti si concentrano sull’emergenza delle borse di specializzazione. Per la formazione straordinaria sulle infezioni ospedaliere, che la pandemia ha portato in prima pagina, restano 88 milioni e “solo” 18 sono destinati alle figure chiave nelle amministrazioni sanitarie. I medici di medicina generale che, almeno nei grandi centri, dovranno probabilmente irreggimentarsi dentro le case di comunità, senza risorse aggiuntive e sacrificando in parte la loro indipendenza, sono i più critici. “Il Pnrr è ancora un contenitore con poco contenuto. Valorizza molto questa offerta di casa di comunità, ma chiarisce poco di cosa faranno”, dice Silvestro Scotti, segretario generale della Federazione dei medici di medicina generale. Occasione perduta? Ma dietro queste critiche puntuali, aleggia un timore più grande: che le risorse insufficienti, la mancanza di ambizione e la necessità di accontentare tutte le varie categorie, abbiano eliminato la possibilità di compiere una storica riforma. “Tenendo conto che le risorse del Pnrr costituiscono per due terzi debiti per le future generazioni, la domanda sorge spontanea: qual è il reale obiettivo della Missione salute?”, si chiede Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe: “Certamente permetterà di portare i soldi a casa per mettere costose toppe ad un Ssn profondamente indebolito da tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi quindici anni. Difficilmente potrà rilanciarlo, massimizzando il ritorno delle risorse ottenute in termini di salute delle persone”. La “pazza idea” di chi vuole cancellare la rivoluzione di Basaglia di Gianni Cuperlo Il Domani, 4 giugno 2021 Quanto costa fare una riforma? Una di quelle destinate a incidere sul modo di vivere e pensare di milioni di persone? Costa molto, spesso anni di lotte, fatiche, errori, finché una congiuntura di storia, cronaca e cultura, quel traguardo rende possibile. Ma quanto costa disfare una riforma? Sì, insomma, tornare indietro, da dove si era parti? C’è una piccola grande vicenda che questa retromarcia racconta, tristemente ma la racconta. 1978: anno grandioso e tragico per mille motivi. Ci sono via Fani, il 16 marzo, e la Renault rossa col corpo di Moro in via Caetani. E ci sono tre riforme che il parlamento di un’Italia sgomenta licenziato con larghe maggioranze. Si istituisce il Servizio sanitario nazionale, bene comune che la pandemia ha fatto riscoprire nella sua potenza. Il movimento delle donne, e non solo, saluta il varo della 194, la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza. E si approva una terza legge, anch’essa contrassegnata da un numero, la 180, ma assieme da un nome che rimarrà scolpito a suggello di una norma rivoluzionaria, quello di Franco Basaglia. La vicenda aveva un antefatto lontano. Gorizia, 1961, vi arriva un giovane medico spedito lì pensando forse di punirlo. Deve dirigere l’ospedale psichiatrico della città. Ha nomea di somigliare più a un filosofo che a un “medico dei matti”. Per lui l’impatto è doloroso, tra pazienti legati al letto e trattamenti che di umano non avevano alcunché. Basaglia riassegna un nome e un’identità a corpi senza un passato, e soprattutto un futuro, ma assieme riflette sui guasti di quella “medicina” frutto di un positivismo scientifico depurato del rispetto per l’altro. Spiega Peppe Dell’Acqua, di Basaglia allievo ed erede, “per la prima volta fu possibile vedere il malato e non la malattia”. Eccola la rivoluzione. Ed è camminando su quel sentiero che diciassette anni dopo si arriva alla riforma. Nel mezzo c’è Trieste, il suo manicomio adagiato sulla collina di San Giovanni. Una successione di padiglioni a salire verso l’alto dove stava, e sta, la cappella religiosa, congedo per chi, decenni prima, lì dentro aveva spesso trascorso e ucciso l’intera esistenza. Alla corte di Basaglia arrivano da ogni dove, italiani, stranieri, medici alle prime armi, volontari. Così la rivoluzione comincia a vivere oltre i confini della teoria. Si fa pratica, servizi territoriali, centri aperti giorno e notte per ricollocare le vite recluse in una città che finalmente può riaccoglierle. Non cercavano quei visionari di liberare dall’istituzione le pareti del manicomio: a modo loro volevano togliere dalla istituzione la sofferenza, separare la “follia” dalla malattia. centri aperti giorno e notte per ricollocare le vite recluse in una città che finalmente può riaccoglierle. Non cercavano quei visionari di liberare dall’istituzione le pareti del manicomio: a modo loro volevano togliere dalla istituzione la sofferenza, separare la “follia” dalla malattia. centri aperti giorno e notte per ricollocare le vite recluse in una città che finalmente può riaccoglierle. Non cercavano quei visionari di liberare dall’istituzione le pareti del manicomio: a modo loro volevano togliere dalla istituzione la sofferenza, separare la “follia” dalla malattia. Tentativi di restaurazione - Fino qui la riforma fatta, almeno tentata. Ma chi e come vorrebbe disfare oggi quella scommessa temeraria? La risposta torna lassù, al confine più estremo dove è in atto il tentativo di affondare un percorso durato oltre mezzo secolo. Si bandisce un concorso per la direzione del Centro di salute mentale 1 di Trieste. Vi concorre quasi naturalmente il candidato che svolge già le funzioni di direttore. La sua scuola è quella di Basaglia, ha il punteggio più alto tra tutti per il curriculum presentato. Alla prova orale, stranamente a porte chiuse, viene sorpassato da altri due candidati, in partenza assai dietro a lui per titoli espressi. Entrambi però provengono da esperienze e strutture che della pratica basagliana scorgono solo difetti e tragedie. Parliamo di sedi dove le pratiche di contenzione non sono mai scomparse e, se lo erano, hanno ripreso piede. A quel punto cinque autorità, ex direttori dei Dipartimenti di salute mentale della città capoluogo e di Gorizia, Udine, Alto Friuli e Pordenone, scrivono una lettera e mettono nero su bianco la denuncia di uno spoils system usato al solo scopo di silurare gli eredi di Franco Basaglia da “posizioni dirigenziali nelle quali le competenze e l’orientamento valoriale sono fondamentali e decisivi”. La notizia fa il giro del mondo, arrivano attestati di sostegno che esprimono il timore di una restaurazione. La paura è che si voglia colpire una realtà che l’Oms (l’Organizzazione mondiale della sanità) in un documento in uscita tra pochi giorni giudicherà assieme alla francese Lille e alla brasiliana Campinas un “sistema complessivo di eccellenza” nell’ambito dei servizi di salute mentale di comunità. Dalla regione, l’assessore competente denuncia la strumentalità della polemica (sic) e tanto basta. Ma la piccola grande storia che rischia di finire sepolta dall’ansia di tornare ai padiglioni coi “matti” reclusi ed esclusi, quella non merita di rimanere nel buio. Fosse solo perché nel buio, si sa, i fantasmi spesso ricompaiono. Dadone: “La politica arranca sulla legge Zan. I ragazzi sono più avanti” di Viola Giannoli La Repubblica, 4 giugno 2021 “Noi siamo ancora qui impantanati a discutere del ddl Zan, ma fuori i giovani sono molto più avanti”. Fabiana Dadone, 37 anni, Movimento Cinque Stelle, è la ministra per le Politiche giovanili e con loro, i giovani, dialoga, soprattutto sui social: di politica, impresa, vaccini, sessualità. Ministra, lo Stato può aiutare e in che modo i percorsi di transizione verso un altro sesso? “Al di là dell’aspetto medico e psicologico, che resta fondamentale, bisogna continuare il cammino culturale. Noi dobbiamo abituare il Paese a un dibattito sull’affettività: è una tematica ritenuta di secondo piano, di cui ci ricordiamo solo quando si scatena il dibattito parlamentare e invece è fondamentale”. Cosa intende? “Credo che si debba lavorare sul rispetto reciproco, sull’insegnare ad accettare il proprio corpo così com’è, sul decostruire un modello di bellezza unico e standardizzato che coincide con quello che la società ci impone, sul rifiutare il concetto di normalità, sul discutere di come si creano i rapporti umani. I ragazzi sono molto più aperti di noi che abbiamo ancora ritrosia ad affrontare questi temi”. Ludovica, che a 16 anni ha iniziato il trattamento con farmaci bloccanti, ha raccontato ieri a “Repubblica” i pettegolezzi a scuola, gli insulti su Instagram. Come si combatte l’odio transfobico? “Penso chele famiglie e le scuole, dove i ragazzi passano la maggior parte del loro tempo, possano e debbano fare di più. Sui social ad esempio vanno bene i controlli, le restrizioni ai profili, la censura, ma c’è un problema culturale legato alla diffusione di messaggi di odio. E non penso solo all’omofobia e alla transfobia ma anche al bullismo, alla stigmatizzazione in base a ipotetici parametri di bellezza o di una normalità che non esiste”. Le scuole in cui c’è la carriera alias, che riconosce cioè l’identità di genere scelta, sono pochissime; gli atenei appena la metà del totale. “Bisogna prendere le prassi migliori e farne una norma uniforme. Non c’è dubbio che il riconoscimento delle carriere alias debba essere esteso a tutta Italia. Anche questo fa parte del percorso culturale e linguistico”. Per cambiare nome sui documenti c’è un procedimento molto complesso, anche a garanzia dei percorsi di transizione, pensa che le procedure debbano essere snellite? “In Italia c’è ovunque una ipertrofia dei passaggi burocratici e personalmente auspico procedure più snelle in ogni campo. Ma la legge di riassegnazione del genere risale al 1982, io non ero ancora nata. È ora di aggiornarla. Non bisogna smantellare le tutele di un percorso delicato come la transizione, ma su alcune cose la giurisprudenza tutta e il Paese si sono spinti più avanti”. Tra i ragazzi che incontra trova più apertura rispetto alla sua generazione o c’è un allarme sociale maggiore legato alle violenze di genere? “Purtroppo leggiamo dalle cronache di continui episodi di ragazzi pestati perché omosessuali, considerati diversi. E questo ci dimostra che dobbiamo lavorare di più sul rispetto e l’inclusione. Un allarme sociale c’è. Non perdiamo di vista però che la maggior parte dei giovani ha una sensibilità spiccata, un’attenzione contro le discriminazioni e il bullismo. Come per la campagna di sensibilizzazione sui vaccini per gli under 30 che ho lanciato, anche su questo gli influencer possono avere un ruolo positivo e dare forza ai loro coetanei per combattere la violenza”. Il ddl Zan è una legge necessaria? “Assolutamente sì. Un conto è la libertà di opinione, un conto è l’istigazione all’odio, l’accanirsi contro chi ha un orientamento sessuale o un’identità di genere diversi dai nostri. Trovo assurdo il dibattito che si è creato in Parlamento tra chi è pro e contro”. È un tema che divide anche la maggioranza del suo governo. come si esce dall’impasse? “Il governo c’entra poco, è il Parlamento a essere sovrano. Il Movimento ha chiesto assieme al centrosinistra di discutere la legge entro fine giugno, senza accorparla ai ddl del centrodestra che vogliono escludere, tra le altre cose, la transfobia dai reati puniti. Bisogna spogliarsi delle ideologie e andare incontro alla società là fuori, alle ragazze e ai ragazzi che ci chiedono aiuto e tutele”. “Cina e Uiguri? Occidentali sensazionalisti”. Il blog di Beppe Grillo nega le violenze di Paolo Salom Corriere della Sera, 4 giugno 2021 Il garante M5S pubblica un “rapporto indipendente” sulla “presunta” persecuzione della minoranza musulmana della provincia dello Xinjiang firmato da studiosi, giornalisti e dal presidente M5S della Commissione Esteri del Senato Vito Petrocelli. Con la Cina o contro la Cina? Sul blog di Beppe Grillo è possibile trovare un “rapporto indipendente” sulla questione della provincia dello Xinjiang e della “presunta” persecuzione degli Uiguri che vorrebbe confutare con prove “scientifico-storiche” le accuse occidentali originate soltanto dal desiderio di “colpire la Repubblica Popolare”. Intitolato “Xinjiang. Capire la complessità, costruire la pace”, il saggio è firmato da studiosi, giornalisti ed esperti italiani e stranieri, alcuni dei quali formati nelle università cinesi. Anche il senatore 5 Stelle Vito Petrocelli, presidente della commissione Esteri, ha apposto il suo nome perché, scrive tra l’altro in un tweet, sostiene l’iniziativa in quanto “la situazione sociale e politica nella Xinjiang (sic)” è “più complessa del sensazionalismo della stampa generalista occidentale”. Che la storia della provincia più occidentale controllata da Pechino sia “complessa” è quasi una tautologia. Ma il problema del rapporto pubblicato sul blog del fondatore del Movimento 5 Stelle è, in fin dei conti, lo stesso di cui accusa l’Occidente (preso nel suo insieme come se fosse un blocco unico e compatto): la parzialità. Raccontare le vicende secolari (anzi: millenarie) dello Xinjiang o Turkestan Orientale come un tempo veniva chiamato, le sue relazioni conflittuali con l’Impero Celeste prima - a partire dalla dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) - con la Repubblica di Cina e la Repubblica Popolare poi, non cambia la sostanza del problema che, oggi, si vorrebbe affrontare sulla base dei principi dei diritti dell’uomo, principi considerati universali secondo la Carta dell’Onu, cui anche la Cina aderisce. Dunque disquisire sul come e sul quando le popolazioni dello Xinjiang sono entrate nell’orbita di Pechino e se oggi i loro diritti di cittadini non vengono rispettati sono questioni del tutto differenti. Il rapporto, in particolare, ricostruisce la genesi dei movimenti insurrezionali di stampo islamista e panturco all’origine degli attentati terroristici che hanno provocato centinaia di vittime sia nello Xinjiang, sia nel resto della Cina (come gli attentati a Pechino e Kunming, 2013-2014) e inquadra in una “risposta culturale confuciana” - peraltro assente in Occidente - la “rieducazione sociale e politica” della popolazione uigura. Il difetto pare essere proprio nella lente culturale, distorsiva: le accuse internazionali nei confronti della Cina riguardano la forma della “punizione collettiva” di un milione circa di persone, la maggior parte delle quali non ha evidentemente avuto minimamente a che fare con sanguinosi atti di terrorismo senz’altro esecrabili. Cina e resto del mondo (almeno l’Occidente) non si capiscono principalmente sulla responsabilità individuale nei delitti: punire il reo e con lui famiglia, amici e anche il villaggio intero non è considerata giustizia ma persecuzione. Nessuno ha visto i “campi di concentramento” dove avverrebbero torture ed esecuzioni sommarie (Pechino non ne ha mai ammesso l’esistenza, nonostante le testimonianze di chi ci è passato); ma il governo centrale ha in più occasioni organizzato visite di giornalisti di media internazionali (tra cui il Corriere) nei centri di rieducazione dove migliaia di giovani e meno giovani sono tenuti a seguire lezioni che hanno lo scopo di “costruire buoni cittadini”, rispettosi delle leggi cinesi. Non sono corsi facoltativi: e basterebbe questo a squalificare la “versione dei fatti” pubblicata sul blog di Grillo. Giappone. L’odissea dei rifugiati nell’inferno di Ushiku di Matteo Boscarol Il Manifesto, 4 giugno 2021 Lo scorso sei marzo moriva in uno dei centri di detenzione dell’ufficio immigrazione di Nagoya, nel Giappone centrale, dopo più di tre mesi di permanenza, Ratnayake Liyanage Wishma, ragazza originaria dello Sri Lanka e detenuta per esser rimasta in Giappone una volta che il suo visto era scaduto. La tragedia finita su molti giornali nazionali ed internazionali ha portato alla luce la sconcertante situazione di coloro che entrano in Giappone e che, per vari motivi, hanno problemi con la burocrazia dell’immigrazione del paese. Le condizioni inumane a cui è sottoposto molto spesso chi arriva nell’arcipelago, specialmente come rifugiato e richiedente asilo, rappresentano alcune delle pagine più nere della società giapponese contemporanea. A gettare ulteriore benzina sul fuoco di una situazione già particolarmente esplosiva, anche se taciuta, è arrivata una proposta del governo giapponese per un emendamento che, se approvato, inasprirebbe ulteriormente le normative sui richiedenti asilo. Questa modifica permetterebbe infatti la deportazione automatica di coloro che fallissero per due volte la richiesta ed approvazione di asilo. Ushiku è un documentario di inchiesta che coraggiosamente denuncia questa situazione, immagini e parole negate sono il tema centrale del lavoro, costruito da video girati di nascosto di conversazioni con alcuni di coloro che da anni, anche più di tre o quattro, vivono in questi luoghi di nessuno. Ian Thomas Ash, autore americano, ma da anni residente nell’arcipelago, dà voce alle storie di queste persone arrivate in Giappone per cercare aiuto e scopre un lato nascosto del paese asiatico, sconosciuto alla maggior parte della sua stessa popolazione. Se nell’immaginario internazionale l’arcipelago è visto come un paese ospitale, questo è vero solo in modo selettivo, verso i rifugiati è ancora anni luce distante da un livello di civiltà e cooperazione internazionale che lo stesso governo giapponese ha sottoscritto, peraltro, al summit del G7 del 2016, svoltosi a Ise. Si tratta di un risultato di politiche di chiusura di un paese che se da una parte contribuisce con ingenti versamenti all’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, dall’altra non sembra voler allinearsi alle pratiche politiche portate avanti dagli altri paesi. Nel documentario si vede infatti anche un passaggio di un breve dibattito parlamentare dove viene fuori tutta l’impreparazione e l’ignoranza di gran parte dei politici giapponesi sulla questione e che si limitano a sentenziare “se le condizioni sono quelle che sono, dobbiamo aumentare i rimpatri”. La situazione dei detenuti mostrata nel documentario, che è possibile vedere anche in Italia in streaming fino al 6 giugno - è nel cartellone del festival Nippon Connection di Francoforte, fa intravedere allo spettatore l’interno dell’inferno fisico e psicologico del grande centro di detenzione di Ushiku, nella prefettura di Ibaraki, non troppo distante da Tokyo. Il lavoro copre circa due anni di intermittenti visite e telefonate a questi detenuti da parte di Ash, dal 2019 fino ai primi mesi di quest’anno, compreso quindi il periodo della pandemia. A pochi mesi dell’evento Olimpico, che la popolazione giapponese decisamente non sostiene più, e che aprirà le porte ad atleti di tutto il mondo, è un tragico paradosso che in un paese di circa 125 milioni di abitanti non possano trovare un’accoglienza dignitosa alcune migliaia di rifugiati in cerca di asilo, perché di questo si tratta, di poche migliaia di persone. Pakistan. 7 anni nel braccio della morte, libera coppia cristiana accusata di blasfemia Avvenire, 4 giugno 2021 I due erano stati condannati a morte con false accuse di aver offeso l’islam. Oggi l’assoluzione dell’Alta Corte di Lahore dopo il ricorso dell’avvocato che difese anche Asia Bibi. Un tribunale pakistano ha oggi assolto una coppia cristiana, Shafqat Masih e sua moglie Shagufta Kousar Masih, che erano nel braccio della morte da sette anni per presunta blasfemia. La sentenza di assoluzione è stata emessa da un team di tre giudici dell’Alta Corte di Lahore (Lhc), che ha accolto il ricorso della coppia. Il loro avvocato, Saif-ul-Malook, parlando con l’Ansa ha confermato l’epilogo della vicenda. “Sono molto felice che si sia giunti all’assoluzione”, ha affermato, aggiungendo che i due sposi “ora sono liberi e possono godersi la vita”. Secondo il legale, il caso era molto debole, tanto che i due imputati sono stati assolti per mancanza di prove. L’avvocato Saif-ul-Maloof ha difeso con successo anche Asia Bibi, la donna cristiana per la quale si era mobilitata l’opinione pubblica, con l’appoggio di Avvenire, e che aveva trascorso dieci anni nel braccio della morte per blasfemia e poi rilasciata nel 2018. Shafqat Masih e sua moglie Shagufta Kousar Masih erano stati condannati nel 2014 per aver inviato, secondo l’accusa, messaggi di testo blasfemi insultando il profeta Maometto. I messaggi erano stati inviati da un numero di cellulare registrato sotto il nome di Shagufta Masih a un leader di preghiera musulmano locale. Quella sulla blasfemia è una delle leggi controverse del Pakistan. Chiunque manchi di rispetto all’islam o al profeta Maometto rischia la condanna a morte. A maggio, il Parlamento Europeo aveva esortato il personale diplomatico europeo a fare tutto il possibile per fornire “protezione e sostegno” a Shagufta Kousar e Shafqat Masih. Il Parlamento Ue si è anche detto “preoccupato per il continuo abuso delle leggi sulla blasfemia” e ha invitato il governo del Pakistan “a rivedere e infine ad abolire queste leggi” che sono “incompatibili con le leggi internazionali sui diritti umani”. Secondo la risoluzione, queste leggi sono sempre più utilizzate per colpire le minoranze vulnerabili nel Paese, tra cui sciiti, indù e cristiani.