Referendum, Salvini e post-Radicali. Le priorità per la giustizia e il carcere di Franco Corleone L’Espresso, 3 giugno 2021 L’accordo tra Matteo Salvini e Maurizio Turco per la raccolta delle firme su sei referendum che riguardano soprattutto alcuni nodi del rapporto tra politica e magistratura, non deve sorprendere. Marco Pannella esercitava con maestria l’arte di stupire e non aveva paura di accompagnarsi con le persone e le forze anche più lontane. In alcuni casi si lanciava anche in rocambolesche avventure, almeno in un caso fermato da Leonardo Sciascia. Vale sempre però l’ammonimento di evitare di replicare la tragedia trasformandola in farsa. La politica è costruita anche su rapporti e giochi di potere e solo alla fine si capisce chi ha utilizzato con successo l’altro ai propri fini. Non mi interessa fare uno sforzo eccessivo per capire che cosa ha spinto Salvini a cavalcare questa battaglia, mentre per gli eredi di Pannella il motivo è semplice. Non solo scandalizzare, ma essere partecipi nella discussione sempre più centrale e divaricante tra partiti e coalizioni sulla giustizia. La spregiudicatezza non deve quindi costituire il metro di valore per giudicare la bontà e il merito. Mi domando solo quali siano oggi le priorità per la giustizia, il carcere e il diritto. Dopo un anno di pandemia che ha reso il carcere ancora più chiuso e più muto dopo le rivolte che hanno visto la morte di tredici detenuti, mi aspetterei una iniziativa per rendere praticabile per il Parlamento la possibilità di approvare un provvedimento di amnistia e indulto e tutto sommato chiederei a Salvini di non esporsi nella solidarietà ad agenti di polizia penitenziaria coinvolti in violenze e a non minacciare l’abrogazione della legge sulla tortura. L’ergastolo ostativo è stato dichiarato incostituzionale e forse da parte radicale ci si potrebbe aspettare la riproposizione di un referendum per la sua abrogazione, insieme al 4bis, se non al regime del 41bis. Il 24 giugno la Società della Ragione e le altre associazioni impegnate sul terreno della politica delle droghe presenteranno il dodicesimo Libro Bianco sugli effetti del proibizionismo e potrebbe essere l’occasione per lanciare un bel referendum sulla scelta ideologica della punizione salvifica dei consumatori. Invece alla Camera dei deputati il confronto è duro con una proposta della Lega di Salvini per eliminare anche una norma come la riduzione della pena per fatti di lieve entità, così rimarrebbe solo la condanna da sei a venti anni di carcere per la detenzione e il piccolo spaccio delle sostanze vietate. Infine basta leggere gli interventi in Commissione giustizia del Senato da parte dei leghisti contro la proposta per garantire il diritto alla affettività e ai rapporti intimi in carcere per capire quali mondi diversi si confrontino. “Nessuno è perduto per sempre” è il fondamento della Costituzione e dell’articolo 27. Neppure Salvini, ma qualche cambiamento in parole e opere sarebbe davvero consolatorio e renderebbe credibile un’operazione che rischia di essere solo politicista. Carceri, allo studio un nuovo modello architettonico di Rossella Calabrese edilportale.com, 3 giugno 2021 Dalla Commissione ministeriale presieduta dall’architetto Luca Zevi il format per l’edilizia penitenziaria cui il PNRR destina 132,9 milioni di euro. Un progetto da utilizzare come modello architettonico per riqualificare le strutture penitenziarie. Lo sta mettendo a punto la “Commissione per l’architettura penitenziaria”, istituita a gennaio scorso dal Ministero della Giustizia e presieduta dall’architetto Luca Zevi. La Commissione ha già presentato un format con un costo complessivo stimato di 10.575.000 euro. A fornire gli aggiornamenti sui lavori è stato, la scorsa settimana, il Sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto in audizione alla Commissione Bilancio del Senato. “Il Fondo Complementare del PNRR - ha detto Sisto - prevede 132,9 milioni di euro, dal 2022 al 2026, per la costruzione e il miglioramento di padiglioni e spazi per le strutture penitenziarie per adulti e minori, una prospettazione complessiva che tiene conto anche dei fondi per i lavori di ristrutturazione di 4 istituti per minori”. “L’Amministrazione Penitenziaria - ha aggiunto il Sottosegretario - aveva individuato, in origine, 8 siti in altrettanti istituti penitenziari dove edificare i padiglioni da 120 posti ciascuno: Rovigo, Vigevano, Viterbo, Civitavecchia, Perugia, Santa Maria Capua Vetere, Asti e Napoli Secondigliano. Il dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sta, comunque, rivalutando alcune delle sedi per evitare di incidere su Istituti già sovraffollati o evitare di sottrarre alla struttura, con la nuova edificazione, spazi trattamentali”. La Commissione per l’architettura penitenziaria ha ricevuto dal Ministero della Giustizia il compito di proporre soluzioni operative per adeguare gli spazi detentivi, aumentarne la vivibilità e la qualità, rendendoli realmente funzionali al percorso di riabilitazione dei detenuti, al fine di orientare le future scelte in materia di edilizia penitenziaria. “L’obiettivo della Commissione - spiegava il sottosegretario alla Giustizia Andrea Giorgis nel corso della prima riunione - è duplice: definire e proporre un modello di architettura penitenziaria coerente con l’idea di rieducazione, da un lato, ed elaborare interventi puntuali di manutenzione sulle strutture esistenti, dall’altro”. Penale, obiettivo razionalizzare di Ilaria Fisicaro Italia Oggi, 3 giugno 2021 La relazione della Commissione per la riforma del processo penale, presieduta da Giorgio Lattanzi, nel proporre un ampio numero di emendamenti punta a razionalizzare la disciplina. Operazione non facile dal momento che l’apparato codicistico ha subito nel tempo diverse riforme tanto che in alcune parti non è proprio in linea con la Carta Costituzionale (si veda Italia Oggi Sette del 31 maggio scorso). La commissione si è mossa sulle premesse contenute nel decreto istitutivo. In particolare è stato sottolineato che i procedimenti penali sono di molto superiori alla media europea e la durata è influenzata dal numero eccessivo dei procedimenti da trattare. La riforma, tuttavia rientra tra gli interventi prioritari richiesti da diversi organi dell’Unione europea e dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). La Commissione, insediatasi il 18 marzo 2021, si è suddivisa in sottocommissioni ripartite per materia: atti; notificazioni; termini di durata del processo; impugnazioni, indagini e udienza preliminare; procedimenti speciali; giudizio-sistema sanzionatorio; condizioni di procedibilità; prescrizione del reato; valutazione di ulteriori strumenti deflattivi; pena pecuniaria, sanzioni sostitutive, giustizia riparativa. Sul piano programmatico, una prima linea di intervento voluta dalla commissione è costituita dall’alleggerimento del carico giudiziario che si intende realizzare attraverso: l’estinzione delle contravvenzioni; l’archiviazione meritale; l’ampliamento delle ipotesi di procedibilità a querela. Alla logica del decongestionamento, tuttavia, la commissione ha pensato alle previsioni della tutela degli interessi civili sia nel processo penale che al ruolo degli enti esponenziali. Non sono ben chiare le competenze e le funzioni del Parlamento, del Csm e degli organi inquirenti e giudicanti. Sono stati previsti criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale. La vera riforma è costituita dal complessivo riordino del sistema sanzionatorio tra strumenti processuali premiali e aspetti di diritto penale sostanziale. In tale ambito viene rimodulato il patteggiamento, abbattimento della metà della pena, ferme le soglie dei due e cinque anni. Riguardo al rito abbreviato condizionato, si deve collocare nella fase iniziale del dibattimento, per poter valutare il canone della sua economicità rispetto al giudizio dibattimentale. Altra novità è rappresentata dalla previsione di sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, alla fissazione della soglia minima per l’esclusione della punibilità per la particolare tenuità dell’elevazione della fascia per accedere alla messa alla prova. Altro punto della riforma riguarda la prescrizione. La lentezza del processo e prescrizione del reato sono due problemi diversi, che si alimentano reciprocamente. I processi lenti favoriscono la prescrizione. Il report della Commissione per l’efficienza della giustizia, istituita presso il Consiglio d’Europa ha evidenziato che il giudizio di 1° grado in Italia ha una durata media di tre volte superiore a quella europea. Il giudizio di appello, addirittura, ha una durata media otto volte superiore. i procedimenti prescritti rappresentano il 9% di quelli avviati a livello nazionale. L’incidenza della prescrizione è di circa il 38% durante le indagini, del 32% nel giudizio di primo grado, del 26% nel giudizio d’appello; (0,8%) in Cassazione. Nel giudizio di appello dal confronto tra distretto di Napoli e Milano emerge che il primo impiega 2.031 giorni; mentre quello di Milano è di sei volte inferiore (335 giorni). In appello nel distretto di Napoli la prescrizione è del 32,8 in quello di Milano è stata solo del 4,5%. Numeri che devono portare a una necessaria riflessione. Pd: sulla giustizia vai con i Radicali di Goffredo Bettini Il Foglio, 3 giugno 2021 I Dem non possono farsi superare dalla Lega sul garantismo. E sui quesiti referendari non si può restare indifferenti. Non si può lasciare questo tema alla destra populista che esibiva il cappio in Parlamento: serve una svolta. La giustizia è in una situazione di evidente crisi. Su questo, ormai, c’è un’opinione da più parti consolidata. Occorrerebbe una riforma forte e giusta, in grado di superare le difficoltà che la rendono incerta e inefficace. Oggi prevale un’incertezza per le vittime del crimine e per gli imputati; per il prestigio della magistratura che ha lasciato negli ultimi decenni tanti eroici suoi rappresentanti sul selciato delle nostre strade per aver compiuto il proprio dovere; per chi vuole intraprendere attività economiche, produttive o di servizio per la comunità. Prevale la confusione e una discrezionalità malata. Essa è un impedimento alla bonifica dei territori dominati dalla criminalità organizzata e da tutte le mafie; alla certezza della esecuzione equa delle pene; al contenimento del dolore di un’attesa sospesa da parte di chi è indagato per reati, anche gravi, ma di minore rilievo, in quanto non concernenti la lesione della vita, del corpo o della integrità psichica degli altri. Troppe vite sono state spezzate. In varie direzioni. Per chi subisce l’offesa della delinquenza o per chi si trova in una situazione non risolta da un giudizio definitivo, umano e giusto. Non c’è una vera consapevolezza del carattere “terribile” del potere giudiziario. Come ricordava Montesquieu. Della sua dimensione relativa, difficile da verificare, umorale ed esposta alle pressioni esterne o alle convinzioni personali di chi ha la responsabilità di decidere. Non c’è sufficiente cognizione di quanto la conclusione di un accertamento della colpa, sia continuamente esposta all’errore; per sua stessa natura, in quanto, in ogni caso, è il frutto essa stessa dell’imperfezione degli esseri umani da quale scaturisce. Occorre comprendere quanto l’alta funzione della magistratura, che nella maggior parte dei casi è dedita ad una disciplina interiore e all’esercizio di un’alta responsabilità, sia simile a quella di un medico che ha nelle proprie mani il destino di un altro essere umano. Queste considerazioni sono il nucleo fondamentale di una sinistra innovativa, democratica e libertaria. Quella sinistra alla quale in questi mesi sto dedicando tutto me stesso, per renderla forte nella società italiana e nel Partito democratico. Essa, infatti, si deve realizzare nell’obiettivo fondamentale di affermare una giustizia sociale, che oggi è quanto mai messa in discussione da una divaricazione sempre più grande tra i ricchi e i poveri. E accanto a questa tensione sociale, essa non può essere che la fonte principale di un anelito di libertà umana. Che coincide esattamente con il sacrale rispetto delle persone e di tutte le vite umane. Questo è stato il grande “inciampo” del Novecento. Soprattutto, ma non solo, della sinistra del Novecento: quel sacrificare alle ragioni di un’ideologia generale sovraordinata, l’irrepetibilità e unicità di ogni essere vivente. Che non potrà mai essere fino in fondo compreso e racchiuso nella dimensione della politica e delle istituzioni. In quanto in esso rimane sempre uno spazio non ponderabile che, a prescindere da ogni elemento razionale, dovrebbe spingere ognuno a mantenere aperto lo spiraglio della pietà verso l’altro. In troppe occasioni il selvaggio chiasso attorno all’indagine che hanno riguardato tanti rappresentanti politici e di governo, hanno portato a linciaggi personali che poi si sono risolti nel nulla, in assoluzioni che non hanno per nulla ripagato le sofferenze di chi è stato messo alla gogna. È toccato a tutti, da una parte e dall’altra dello schieramento politico. Da Bassolino che ha ottenuto 19 assoluzioni dopo un travaglio di anni a Virginia Raggi. Dal governatore della Calabria Oliverio al braccio destro di Pier Luigi Bersani, Filippo Penati. E tale chiasso in certi casi ha spinto, quando si è accertata la colpa, a condanne ritenute “esemplari”. Non discuto le sentenze e ognuno ha il dovere di accettarle. Eppure non si può sfuggire da una valutazione libera sulla congruità di certe condanne. Anche qui riferite ad una parte o dall’altra dell’arco politico. Da quella così pesante al mio amico fraterno Nichi Vendola, un vero galantuomo, a quella di un mio avversario politico, che appunto ho considerato sempre un politico e non un criminale come Gianni Alemanno. Ecco perché in piena libertà, con una scelta personale che non impegna altro che me, non posso rimanere indifferente rispetto ai quesiti referendari promossi sul tema della giustizia dal Partito radicale. Se saranno l’occasione di un dibattito aperto, franco e responsabile e se potranno avere l’effetto di spingere in avanti una legislazione che si è dimostrata lenta negli anni passati, essi vanno considerati con grande attenzione e coraggio. Non credo affatto sia giusto che questo tema sia un po’ pelosamente impugnato da quella destra populista, come la Lega, che amava esibire il cappio nelle aule parlamentari. Nel merito: il quesito del referendum circa la separazione delle carriere è condivisibile; quello sulla custodia cautelare anche; il quarto quesito che riguarda la legge Severino mi pare giusta la sua abrogazione. Così come quella che riguarda la raccolta di firme dei magistrati per le elezioni domestiche; sul sesto quesito circa l’indicazione dei membri laici nei consigli giudiziali, esiste già una proposta del Pd alla commissione Lattanzi che va nella direzione giusta. Infine il primo quesito sulla responsabilità civile dei giudici solleva un problema che esiste. Tuttavia la soluzione proposta appare dirompente, in quanto non rende sereno l’esercizio della funzione giurisdizionale del giudice, sapendo egli di poter essere chiamato a rispondere direttamente di un eventuale errore. Si apra, dunque, un confronto sereno ma determinato. Che aiuti anche la politica a riformare se stessa. A svilupparsi al di fuori di speculazioni e di scorciatoie giudiziarie per eliminare l’avversario. Le alternative devono essere limpide, programmatiche, ideali e civili. Anche per la sinistra serve uscire sempre di più da quella guerra guerreggiata che mette al centro la manovra, la furbizia, l’organizzazione del potere di partito o di correnti, per navigare, invece, nel mare aperto della società, che oggi ha sempre meno punti di riferimento credibili e che vive un conflitto strozzato che non si riesce a esprimere in forma politica. E che chiede una rappresentanza credibile, impegnata e anche onesta negli strumenti che agisce. Quella di una sinistra moderna e democratica. Perché dire sì ai referendum sulla giustizia dei Radicali (anche se c’è la Lega) di Roberto Giachetti* Il Foglio, 3 giugno 2021 È da molto tempo che penso che una giustizia giusta ed efficiente rappresenti il cuore di un’autentica politica riformista, la sfida per una classe dirigente politica che voglia assumersi in pieno le proprie responsabilità, archiviando definitivamente il processo di abdicazione ai propri compiti verso la magistratura. Tutti sanno che se è vero, come è vero, che vi è uno squilibrio di forza tra politica e magistratura, a favore di quest’ultima, la responsabilità è innanzitutto della politica che ormai da più di 30 anni rinuncia alla propria azione, non di rado delegando alla giustizia di intervenire in sua surroga. La mia formazione e la mia militanza radicale mi hanno portato più volte a partecipare attivamente alla raccolta firme su quesiti referendari sui temi della giustizia, da ultimo anche sulla proposta di legge di iniziativa popolare proposta dalle Camere penali. I temi, alla fine, sono sempre gli stessi: dalla separazione delle carriere alla responsabilità civile dei magistrati, dalla limitazione della custodia cautelare alla riforma dell’elezione del CSM. Ancora una volta bisogna ringraziare l’azione e la determinazione del Partito Radicale su temi così importanti e decisivi per consentire al popolo italiano di potersi pronunciare dando così un chiaro indirizzo al Parlamento su quale linea orientare le riforme. È un’altra straordinaria occasione, un’occasione da non perdere. Vedo che fa molto rumore l’adesione all’iniziativa della Lega di Matteo Salvini, accusato di voler in questo modo rendere difficile il tentativo di riforma della Ministra Cartabia e tacciato di scarsa credibilità a causa del suo repentino passaggio dal giustizialismo al garantismo, giudizio rivolto anche nei confronti di Luigi Di Maio per la sua recente lettera di scuse verso Uggetti (che in realtà, a mio avviso, rappresenta una sostanza politica che va ben oltre le scuse formali). Io dico molto francamente che chi ha un approccio laico alla politica non perde tempo per valutare se le intenzioni di chi sceglie la “nostra” strada sono buone o cattive. Se l’obiettivo è “il nostro”, se l’obiettivo è riuscire a fare esprimere il popolo su temi cosi attuali e, al contempo, cosi antichi e irrisolti dalla politica, ben venga qualunque compagno di viaggio. Il problema di spiegare perché si è cambiata posizione non è mio, sfruttare qualsiasi possibile contributo invece deve esserlo non solo per me ma per tutti coloro che da anni lottano per garantire al paese intero una “giustizia giusta”. Caso mai mi riesce davvero difficile capire con che logica i riformisti, o quelli che si dichiarano tali (a cominciare da tanti amici e colleghi che militano nel Pd), manchino ancora una volta l’opportunità di aderire convintamente a questa battaglia, assumerne la leadership ed evitare che sia solo Salvini a poterne domani rivendicare il traguardo. Io personalmente, e politicamente più convinto che mai, ovviamente ci sarò. Sarò a disposizione del comitato promotore anche per la realizzazione di banchetti e l’autenticazione delle firme oltre che, come ovvio, per una determinata campagna a favore del sì quando, come mi auguro, l’obiettivo delle sottoscrizioni sarà raggiunto. *Deputato di Italia viva Referendum sulla giustizia, cosa prevedono i sei quesiti proposti da Radicali e Lega di Angela Stella Il Riformista, 3 giugno 2021 Responsabilità civile dei magistrati, separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante, limitazione alla custodia cautelare, abrogazione della legge Severino, abolizione dell’obbligo della raccolta firme per i magistrati che vogliano candidarsi al Csm, diritto di voto per i membri non togati nei consigli giudiziari: sono questi i sei quesiti referendari sulla giustizia promossi dal Partito Radicale insieme alla Lega che verranno depositati domani in Corte di Cassazione. Sono stati presentati ieri in una conferenza stampa a via di Torre Argentina alla presenza di Maurizio Turco, Segretario del Partito, della Tesoriera Irene Testa, di Giuseppe Rossodivita, presidente della Commissione giustizia del Partito, e del leader della Lega Matteo Salvini. “Non è la prima campagna referendaria per noi - ha detto Turco - ma stavolta la portiamo avanti con una grande forza politica che difenderà in Parlamento la volontà popolare”. Il riferimento è al fatto che nonostante nel 1987 l’80,2% degli italiani votò a favore del quesito referendario sulla responsabilità civile dei magistrati, il Parlamento, con la legge 117 del 1988, tradì la decisione popolare “sotto dettatura della magistratura” come ha sottolineato l’avvocato Giuseppe Rossodivita nel ricordare le parole del Ministro Vassalli in un convegno poco prima della sua morte. “La legge non è uguale per tutti - ha detto Salvini - In Italia qualsiasi lavoratore che sbaglia paga, tranne i magistrati”, ma precisa che “non è un referendum contro i magistrati, noi vogliamo portarlo avanti con la magistratura, con gli avvocati, con la parte sana della giustizia che rappresenta il 99 per cento del totale”. Dunque, ha proseguito il segretario leghista, “questo referendum è un aiuto e uno stimolo al Governo e al Parlamento e chi pensa che questo sia un problema, come ho sentito dire giorni fa, si sbaglia. La volontà popolare non può essere un problema. Qualcuno ci ha insegnato che la democrazia diretta si fa tramite clic, invece per me è libertà e partecipazione diretta e cito Gaber”. Per Testa “da oltre 30 anni il Partito Radicale chiede alla politica una riforma della giustizia. Il Parlamento in questi anni non ha trovato il coraggio di fare questa riforma, oggi la rivendica, anzi ci viene a dire che il Parlamento è sovrano e che la riforma della giustizia deve farla lui. Ben venga, ma noi nel frattempo abbiamo deciso, insieme a Matteo Salvini, di farla fare a 500mila italiani”. Ma vediamo nel dettaglio i quesiti. Responsabilità civile dei magistrati: la norma vigente prevede che il cittadino danneggiato non può chiamare direttamente in causa il magistrato ma può rivolgersi allo Stato, il quale poi, in caso di esito positivo, si rivarrà (in parte) sul magistrato. I proponenti invece chiedono l’eliminazione di questa preclusione e la possibilità per il cittadino di chiedere il risarcimento dei danni direttamente al magistrato. Separazione delle carriere: la conseguenza dell’eventuale approvazione del referendum sarebbe che il magistrato, una volta scelta la funzione giudicante o requirente all’inizio della carriera, non potrebbe più passare all’altra e viceversa. Custodia cautelare: l’obiettivo del quesito è limitare il carcere preventivo ai soli reati gravi. Attualmente migliaia di cittadini vengono arrestati e restano in carcere in attesa di processo per mesi, anni in condizioni incivili. Lo strumento della custodia cautelare da istituto con funzione prettamente cautelare si è trasformato in una vera e propria forma anticipatoria della pena, in palese violazione del principio costituzionale della presunzione di non colpevolezza. I promotori chiedono che venga abrogato il comma 1, lettera c) dell’articolo 274 del codice di rito che prevede l’applicazione della custodia cautelare in carcere in caso di pericolo di reiterazione del reato. Abrogazione della Legge Severino: il referendum intende abrogare tutto il decreto legislativo in modo che non ci sia nessun automatismo per quanto riguarda i termini di incandidabilità, ineleggibilità, decadenza per parlamentari, consiglieri, governatori regionali, sindaci, amministratori locali. Così facendo si lascia ai giudici la facoltà di decidere, di volta in volta, se, in caso di condanna, occorra applicare anche l’interdizione dai pubblici uffici. Abolizione raccolta firme lista magistrati: oggi un magistrato che vuole candidarsi al Csm deve raccogliere dalle 25 alle 50 firme, aderendo ad una delle correnti della magistratura. Attraverso il quesito si intende abrogare questo vincolo delle firme, e dunque l’obbligo di iscriversi a una corrente, tornando alla legge del 1958 che prevedeva che tutti i magistrati potessero proporsi come membri del Consiglio presentando semplicemente la propria candidatura. Consigli giudiziari: l’abrogazione della norma darebbe la possibilità agli avvocati e ai professori universitari membri dei mini Csm distrettuali di esercitare il diritto di voto sulle valutazioni professionali dei magistrati. Il primo week-end di mobilitazione sarà quello del 2-4 luglio: occorre raggiungere mezzo milione di firme entro settembre. Dal punto di vista logistico, per la raccolta firme, ha detto Salvini “800 sindaci e circa 5000 amministratori comunali in Italia saranno mobilitati. Saremo in tutte le località di villeggiatura, dalle Alpi a Lampedusa, Ferragosto compreso”. E ha concluso: “Questa è una bellissima giornata per la democrazia. Non è un giochino politico ma una opportunità per tutti i partiti. Mi hanno scritto esponenti del Pd e anche dei 5 Stelle che mi hanno detto “A titolo personale firmerò”. Spero che si abbattano le divisioni politiche”. Secca la replica di Mario Perantoni (M5s), presidente della commissione Giustizia della Camera: “Il referendum sulla giustizia nelle forme in cui viene proposto è una evidente arma di distrazione. Dai quesiti si comprende solo che si vorrebbe imbrigliare la magistratura, vecchio tema caro alle forze politiche che fanno del garantismo opportunista un cavallo di battaglia per limitarne l’indipendenza”. Giunge immediatamente la controreplica di Turco e Testa: “Perantoni evidentemente non conosce la Costituzione e i suoi atti preparatori, anche perché non si conoscono altre forme di proporre il referendum che non siano quelle che stiamo rispettando con Matteo Salvini e la Lega. C’è però un particolare che avvalora che il M5S ha cambiato anima: usa gli stessi argomenti che usavano i comunisti negli anni ‘70 e ‘80 contro i referendum radicali. E tutto torna. Come si cambia per non morire”. La mina giustizia agita il governo di Laura Cesaretti Il Giornale, 3 giugno 2021 Mal di pancia grillini sulla prescrizione. Ma il Pd non ci sta. “I referendum vogliono essere un aiuto sia al governo che al Parlamento”. La raccolta di firme partirà a inizio luglio, ma Matteo Salvini sta ben attento, nel presentare insieme ai radicali i sei quesiti sulla giustizia, a non mettersi in contrapposizione con il titanico sforzo di mediazione che la ministra Guardasigilli Cartabia sta conducendo per portare a casa la “madre di tutte le riforme”. Il terreno della giustizia è politicamente minato, perché nelle leggi forcaiole approvate dal primo governo Conte (abolizione della prescrizione in testa) sta l’ultima, fragile bandierina identitaria del grillismo in disarmo. Ed è infatti dai Cinque Stelle (con qualche esponente Pd di complemento) che parte l’accusa contro Salvini: il suo “garantismo opportunista” ha il solo scopo di “imbrigliare la magistratura” e di “distrarre” il Parlamento dal compito di trovare un’intesa sulla riforma. Anche la responsabile giustizia dei Dem, Anna Rossomando, avverte la Lega: “Il tempo della riforma è adesso: rimandare al referendum significherebbe perdere una straordinaria occasione, rischiando di far perdere all’Italia i soldi del Recovery fund”. Per questo Salvini replica che invece la pressione referendaria vuol essere “un aiuto alla ministra Cartabia, su cui contiamo per accelerare la riforma”. Dal governo, in verità, qualche preoccupazione che la campagna referendaria finisca per alimentare lo scontro politico, esacerbando le differenze all’interno della anomala maggioranza, trapela. “Se si innesca un derby tra garantisti e giustizialisti, in piazza e in tv, si rischia una spirale di radicalizzazione delle posizioni che renderebbe molto più difficile il faticoso lavoro di sminamento della Guardasigilli Cartabia”, osserva un dirigente dem. Nel fronte garantista c’è però chi spiega che se la spinta referendaria si traducesse anche in iniziativa parlamentare, diventerebbe possibile coagulare una maggioranza trasversale su molti dei temi sollevati dai quesiti. Alcuni dei quali (dalla valutazione professionale dei magistrati alla separazione delle funzioni), dice Enrico Costa di Azione, “fanno già parte del pacchetto di emendamenti al ddl Penale e a quello sul Csm che abbiamo presentato. E possono essere apprezzati da molti gruppi parlamentari: se la Lega decidesse di farli propri e votarli, i numeri per approvarli si troverebbero. Mi auguro sia così”. Il dubbio, per Costa, è che invece si tratti di una mossa tutta politica del leader della Lega, “più interessato a lanciare un Opa sul centrodestra, imbracciando la bandiera garantista che è storicamente di Forza Italia, che a portare a casa risultati concreti”. Per venerdì Cartabia ha convocato un vertice per illustrare le proposte di revisione dell’ordinamento giudiziario elaborate dalla commissione ministeriale. Mentre la settimana prossima saranno presentati gli emendamenti governativi sul ddl penale, e si arriverà dunque al nodo della prescrizione. L’ex ministro Bonafede e l’ex premier Conte insistono: la prescrizione non deve tornare. Ma rischiano di non trovare sponda neppure negli amici del Pd: “Se si isolano nella difesa del loro totem, fanno un errore”, dice al Foglio il dem Carmelo Miceli. Mentre lo stesso segretario Letta - invece di polemizzare con Salvini sui referendum - incita a uscire “dallo scontro trentennale sulla giustizia: con Cartabia e Draghi possiamo fare tutti insieme la riforma”. E la mossa di Di Maio sul caso Uggetti, come i fervidi proclami filo-Draghi (“É una risorsa eccezionale”) di esponenti come D’Incà lasciano intuire che anche nel M5s si possano aprire processi inaspettati. Conta il merito. Per cambiare la giustizia non serve una rivoluzione, ma la normalità di Alessandro De Nicola, Andrea Mazziotti, Barbara Pontecorvo Il Foglio, 3 giugno 2021 Le riforme delle regole procedurali servono a poco, se non si premia chi lavora bene e non si blocca la carriera dei giudici-lumaca e dei pm dalle manette facili e che non reggono alla prova dei fatti. In questi giorni sembra esserci una sorta di congiunzione astrale: i miliardi del Pnrr condizionati alla riforma, un premier che, quando serve, dimostra di saper tirare diritto, ignorando i partiti, una ministra della Giustizia che ha letto Beccaria (a differenza di Bonafede), una debolezza senza precedenti della magistratura che, dal caso Palamara a quello Amara, sta perdendo credibilità e potere di veto, una raccolta firme referendaria che mette pressione a tutti. Anche per questo, i movimenti politici e le associazioni (Azione, +Europa, Partito Repubblicano, Ali - Per Fermare il declino, Liberali) che hanno dato vita a Programma per l’Italia - l’iniziativa presieduta da Carlo Cottarelli per arrivare a un vero e proprio programma di governo dell’area libidem - hanno scelto di partire proprio dalla giustizia, con una proposta che ha l’ambizione di toccarne tutti i gangli e le patologie. Perché se è vero che la lentezza dei processi è un problema gravissimo, la convinzione dei numerosi esperti che hanno partecipato al lavoro è che il sistema giustizia italiano debba recuperare due valori essenziali: il principio di “parità delle armi” tra individuo e pubblica autorità, e l’obiettivo di assicurare un servizio efficiente agli utenti/cittadini. E allora la prima essenziale questione da risolvere è quella della separazione delle carriere tra giudici e pm. Anche avendo la massima fiducia nella buona fede dei giudici e pm, resta il fatto che gli imputati hanno costantemente la sensazione di trovarsi di fronte a due parenti. Magari onesti e indipendenti, ma pur sempre parenti. La commistione di carriere ha anche l’ulteriore gravissimo effetto, da più parti denunciato, di un’influenza prevalente della magistratura inquirente nelle elezioni del Csm e nelle nomine ai vertici degli uffici giudiziari. Una dinamica che può essere spezzata solo separando le carriere e creando due Csm distinti, entrambi indipendenti e autonomi, dove i magistrati esprimano però la metà e non i due terzi dei componenti. L’indipendenza della magistratura è, infatti, un principio essenziale, da tutelare e valorizzare, così come, per le carriere dei giudici, dovrebbe contare il merito. Purtroppo, come emerge in modo chiaro dal libro di Palamara, le cose non stanno così. Per far carriera a contare sono soprattutto l’appartenenza correntizia e le connessioni politiche. Per scardinare queste dinamiche bisogna cambiare il metodo di elezione dei togati del Csm. Su questo punto Programma per l’Italia fa una proposta precisa, che Enrico Costa ha anche portato in parlamento: il cosiddetto voto singolo trasferibile, che permette di votare candidati anche di liste diverse, rendendo impossibile il lavoro delle correnti. Nel 2016, lo stesso Csm ne elogiò le qualità, proprio in chiave anti correntizia, ma la proposta finì rapidamente in un cassetto. Per recidere i legami con la politica, poi, la proposta di Programma per l’Italia è di ridurre ai minimi termini l’istituto del fuori ruolo, che sta alla base del sottobosco politico-giudiziario. Da ultimo, ma non certo per importanza, il merito. Oggi le procedure di valutazione di professionalità prescindono quasi totalmente dai risultati dei magistrati in termini di produttività e qualità del lavoro. Non a caso, la valutazione è positiva per il 98 per cento dei magistrati. Un quadro idilliaco… quasi la perfezione. Eppure siamo il paese che solo nel 2020 ha pagato 46 milioni di euro di risarcimenti per ingiusta detenzione (870 milioni dal 1992 a oggi), in cui 120.000 cittadini vengono assolti ogni anno in primo grado e in cui i processi, sia civili che penali, sono così lenti da farci finire in coda in tutte le classifiche. Sarebbe ora di tornare ad applicare criteri meritocratici. Per questo Programma per l’Italia propone di rendere obbligatoria l’applicazione nelle valutazioni di parametri oggettivi quali velocità, quantità di provvedimenti emessi, e soprattutto qualità, da valutare guardando che fine fanno i provvedimenti quando vengono impugnati. Non mancano nella proposta anche incentivi premiali per gli uffici che si dimostrano celeri e professionali. Ed è proprio questa la riforma più importante. Perché le riforme delle regole procedurali servono a poco, se non si premia chi lavora bene e non si blocca la carriera dei giudici-lumaca e dei pm dalle manette facili e che non reggono alla prova dei fatti. Riforma Csm, il Pd propone pagelle ai pm e sobrietà in tv di Conchita Sannino La Repubblica, 3 giugno 2021 Anna Rossomando, responsabile Giustiza dem: “Il primo obiettivo è recuperare la credibilità della magistratura”. Nuovo incontro tra la ministra Cartabia e i capigruppo della maggioranza. Primo obiettivo? “Recuperare credibilità e autorevolezza della magistratura”. A costo di scontentare chi - nella nuova legge su assetto e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura - dal Pd non si aspetterebbe alcuni emendamenti tranchant come quelli che saranno depositati oggi in commissione alla Camera da Anna Rossomando, responsabile Giustizia dei dem. Due su tutti. La proposta di valutare i pm anche sulla percentuale di “insuccessi” dei loro processi. E il divieto, per i procuratori, di utilizzare “conferenze stampa spettacolari”. Si parte però “dall’elezione parziale, ogni due anni, dei membri: per inserire un elemento di dinamismo interno utile a disarticolare eventuali accordi precostituiti”, premette Rossomando. Ma c’è spazio anche per la parità di genere tra i consiglieri eletti. Riforma Csm, il Pd spinge dopo il terremoto del caso Palamara e le recenti pagine non meno devastanti sulle fughe di notizie e la presunta loggia Ungheria. “L’immagine uscita dalle scandalose notizie sulle vicende del Consiglio, è uno stimolo in più per fare le riforme a partire da quella del Csm”, aveva avvertito Enrico Letta. “Autonomia e trasparenza sono lese dalla degenerazione del correntismo: non certo dal pluralismo delle idee”, ribadisce con Repubblica la deputata (anche avvocatessa), alla vigilia dell’incontro fissato per domani tra la ministra Marta Cartabia e i capigruppo di maggioranza. Ma basteranno le consultazioni del mid-term, come già le chiamano in Csm? “Nessuna modifica da sola abolisce distorsioni: ma il fatto che il plenum non sia eletto contestualmente è utile, e tra l’altro si può fare a Costituzione invariata”. Stop anche alle nomine “a pacchetto”: le decisioni sugli incarichi dovranno seguire un rigoroso ordine cronologico per evitare il mercato del “metodo Palamara”, utile a molti. Ma Rossomando difende anche l’introduzione della valutazione sul lavoro dei pm: una sorta di “pagella” su inchieste e insuccessi della pubblica accusa. Linea analoga, ma più dura sul punto, emergerà anche dagli emendamenti annunciati da Enrico Costa, di Azione (con modifica sulla responsabilità civile e fine delle porte girevoli tra magistrati e politica). Ma come funzionerebbe, invece, per il Pd? “Noi non parliamo di pagelle - sottolinea Rossomando - proponiamo, tra i diversi elementi di valutazione sulla professionalità, quello della verifica delle smentite processuali delle ipotesi accusatorie. Naturalmente parliamo di casi macroscopici, utilizzando criteri che evitino di scoraggiare le inchieste “difficili”: penso a quelle sui grandi gruppi criminali, sui reati finanziari, a inchieste storiche sulle malattie professionali, schedature Fiat o caso Abu Omar”. Un’impostazione che rivela uno sguardo più severo, forse uno strappo? “Nessuno strappo, diciamo da sempre che non è auspicabile avere tante richieste di rinvio a giudizio che poi non reggono al dibattimento - riprende la deputata - Per questo poniamo l’accento su come si scrivono le norme incriminatorie. Ma il luogo privilegiato è il processo: infatti c’è l’emendamento che prevede una regola di giudizio per il pm: si può chiedere il procedimento se c’è una ragionevole certezza di ottenere una condanna”. Altro freno riguarderebbe la stagione della perdita di autorevolezza (vedi i giudici che spiegano i loro provvedimenti in tv prima che con gli atti). E quindi: “Basta ai troppi riflettori”. Ma come? Per Rossomando, “la spettacolarizzazione delle inchieste è un vulnus alla presunzione di non colpevolezza. Quindi stop a conferenze stampa spettacolari, sì a sobri comunicati stampa. Il diritto all’informazione è sacrosanto perché la democrazia liberale esige informazione. Purtroppo oggi il vero processo rischia di celebrarsi fuori dai tribunali”. “La legge sui pentiti è una vittoria: solo così la mafia è stata scalfita” di Simona Musco Il Dubbio, 3 giugno 2021 Intervista a Gian Carlo Caselli, ex procuratore a Palermo nel periodo successivo alle stragi del 1992: “Grazie ai collaboratori i risultati delle indagini possono essere disastrosi per i mafiosi”. “Insieme al collega Alfonso Sabella (“Il cacciatore di mafiosi” nel titolo di un libro molto documentato che scriverà) ho partecipato ad alcune riunioni nella sala operativa della Questura di Palermo finalizzate alla cattura di Giovanni Brusca. Posso quindi dire di aver seguito molto da vicino l’operazione che pose fine alla sua latitanza. Come Procuratore capo di Palermo ho poi partecipato, con altri magistrati, ai primi interrogatori disposti non appena Brusca manifestò segnali (per altro all’inizio piuttosto ambigui e tortuosi) di disponibilità a collaborare. Ma i ricordi personali con le relative emozioni vorrei lasciarli da parte”. A parlare è Gian Carlo Caselli, che ha guidato la Procura della Repubblica di Palermo nel periodo successivo alle stragi del 1992. La scarcerazione di Brusca ha diviso l’opinione pubblica, vittime comprese. In molti, per deprecarla, hanno citato Falcone, vittima di Brusca ma anche sostenitore della legge che oggi gli consente di stare fuori dal carcere. Come giudica, lei che è stato tra i primi a interrogarlo, la sua fuoriuscita dal carcere? È vero, Falcone, vittima di Brusca nella strage di Capaci, è stato uno dei principali sostenitori della legge che oggi consente al suo killer di essere scarcerato. Anzi, poiché la legge che egli chiedeva a gran voce (dall’alto della sua straordinaria competenza quasi la pretendeva) tardava ad essere approvata, ad un certo punto arrivò ad esprimere il sospetto che dietro la “perdurante inerzia nell’affrontare i problemi del pentitismo” si nascondesse la voglia di non “far luce sui troppo inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti”. E attenzione: Falcone non parlava mai a vanvera, ma sempre a ragion veduta. Innanzitutto perché il suo capolavoro investigativo giudiziario, il maxi processo che ha segnato la fine del mito dell’invulnerabilità della mafia, lo ha costruito sulla base proprio delle rivelazioni dei pentiti Buscetta, Contorno, Calderone e Marino-Mannoia. Poi perché lavorando a stretto contatto con gli Usa sapeva bene che in questo come in moltissimi altri paesi l’uso dei pentiti nella lotta al crimine organizzato è pratica abituale. Con una differenza: che noi li processiamo e li condanniamo, sia pure a pene ridotte, mentre altrove (ad esempio proprio in Usa) i collaboratori possono godere di una completa immunità per i reati commessi. È una vittoria dello Stato, dunque? Se vogliamo chiamare vittoria l’applicazione di una legge dello Stato, ebbene è una vittoria. Ma di vittoria (volendo usare termini un po’ bellicistici) dovremmo piuttosto parlare con riferimento alla legge nel suo complesso. Per il semplice motivo che senza la legge sui pentiti di strada contro la mafia ne avremmo fatta e ne faremmo molto poca. Mi spiego con una metafora persino banale. Essendo fondato su vincoli associativi segreti, il gruppo mafioso può essere paragonato ad una roccia, rispetto alla quale le indagini senza “pentiti” appaiono come un semplice scalpello. Se non si rompe, lo scalpello riesce a scheggiare la superficie esterna della roccia ma non a penetrarci dentro. Invece, le indagini collegate alle ricostruzioni fornite dai collaboratori di giustizia riescono a trasformare lo scalpello in una sorta di carica esplosiva. Una carica posta all’interno della roccia, che la spacca mettendone a nudo la parte più segreta. Insomma, grazie all’apporto dei collaboratori di giustizia i risultati delle indagini possono essere disastrosi per la roccia, cioè per i mafiosi. E questo dato è quello che più dovrebbe interessare nel contesto della lotta alla mafia. E che poi porta a riflettere su una realtà ineludibile. Se allo Stato i pentimenti dei mafiosi sono utili (e lo sono), proprio per questo uno Stato responsabile deve incentivarli. Con misure previste da una legge ad hoc, senza i sotterfugi e le vischiosità che fisiologicamente caratterizzano la collaborazione dei semplici “confidenti”. I familiari delle vittime chiedono un controllo ferreo del suo comportamento fuori dal carcere. Molti pentiti lamentano, però, di essere abbandonati a se stessi. Si può potenziare il servizio centrale di protezione? Dico subito che i familiari delle vittime, vittime a loro volta di un continuo, immenso dolore dell’anima che non lascia respiro, meritano proprio per questo ogni rispetto. Non è pertanto accettabile che qualcuno (come invece è avvenuto), temendo un “approccio accentuatamente vittimo-centrico” ai problemi di mafia, arrivi a sostenere “che occorrerebbe creare un nuovo binario per la rieducazione delle vittime, da affidare alla competenza di eserti psicologici in gradi di aiutare ed elaborare il dolore con strumenti psicologicamente adeguati”. Ci mancherebbe solo questo… Quanto al controllo ferreo di Brusca in libertà, è persino ovvio pretenderlo. Non possiamo assolutamente consentirci altri Antonio Gallea: condannato all’ergastolo come mandante dell’omicidio Livatino, di recente egli ha approfittato dei benefici penitenziari ottenuti per rientrare in posizioni di rilievo nella sua organizzazione criminale (Stidda). Se si ripetesse con Brusca sarebbe uno tsunami. Quanto al servizio di protezione, l’ideale sarebbe qualcosa che si avvicini al “Marshall service” Usa, la cui efficienza persino spietata ho personalmente constatato quando son dovuto andare in Usa per interrogare alcuni pentiti italiani. Ma il nostro Servizio centrale di protezione (pur funzionando bene) ha problemi di bilancio e di un numero molto elevato di persone da proteggere, problemi che in Usa non esistono. Per molti Brusca è un pentito controverso e due anni fa la Cassazione ha respinto la sua richiesta di poter scontare i suoi ultimi anni ai domiciliari, in quanto non avrebbe mostrato il necessario pentimento civile, oltre che processuale. Quanto ha davvero contribuito nella lotta alla mafia la sua collaborazione? Preferisco non rispondere a domande che riguardano il caso specifico di Brusca. In molti ora, gridando allo scandalo, chiedono di cambiare la legge sui pentiti. C’è davvero qualcosa da cambiare? La legge originaria del 1991, che ha funzionato benissimo, è stata modificata nel 2001, secondo me in senso peggiorativo. Non è un caso che da allora i pentiti (che prima erano stati letteralmente una slavina) siano decisamente diminuiti. Per cui, basta così con le modifiche. Abbiamo, come usa dire, già dato… Il vero problema è l’uso corretto dei pentiti. Non si chiedono analisi ai pentiti: si pretendono fatti, ricostruzioni, il racconto di vicende da verificare, da sottoporre al vaglio critico della ricerca di concrete e oggettive conferme. E se tutto funziona secondo le regole (in particolare quella che senza adeguati riscontri le parole non sono prove) il contributo dei collaboratori di giustizia è davvero insostituibile. Quanto sono ancora utili i pentiti nella lotta alle mafie? È vero che oggi si sono sviluppate in misura esponenziale le indagini basate su intercettazioni telefoniche e/o ambientali. Ma dove piazzare le “cimici”, quali siano i posti dove i mafiosi si trovano o si riuniscono, sono proprio i pentiti che possono indicarlo. Di nuovo: si tratta di segreti e senza la password fornita dai pentiti i segreti restano tali. La Consulta ha chiesto al Parlamento di legiferare affinché la collaborazione non sia l’unico criterio per ottenere dei benefici quando si sconta l’ergastolo ostativo, in quanto la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento. Che posizione ha a riguardo? Sull’ergastolo ostativo ho detto e scritto persino troppo. Rispetto ovviamente e senza mere clausole di stile l’orientamento della Consulta, anche se alcuni passaggi della motivazione mi lasciano dei dubbi. In ogni caso prendo atto che è la stessa Corte costituzionale che mette in guardia contro “il rischio di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Equivale a riconoscere che bisogna fare molta attenzione a toccare una componente dell’architettura complessiva antimafia, se si vuole evitare che questa crolli tutt’intera. E la Consulta usa proprio questo “rischio” per spiegare il differimento di un anno dell’effettività della sua ordinanza di incostituzionalità in tema di ergastolo ostativo e liberazione condizionale. La Consulta inoltre afferma esplicitamente che il valore della collaborazione va salvaguardato. Rischio di interventi inadeguati e valore del pentimento sono dunque paletti di cui, secondo me, nell’anno a venire il Legislatore non potrà non farsi carico, salvo preferire che restino solo macerie e la soddisfatta allegria dei mafiosi. Non si tratta di giustizialismo manettaro, ma di semplice realismo. Per non finire come il don Ferrante di Manzoni, che discettava sulla peste che non esisteva mentre ne moriva. Giovanni Brusca chiede perdono ai familiari delle vittime: la mafia “è una fabbrica di morte” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 3 giugno 2021 Giovanni Brusca, l’uomo che uccise Falcone e che dopo 25 anni di carcere è stato rimesso in libertà, ha chiesto perdono ai familiari delle vittime in un video pubblicato ora per la prima volta: “Ho dato il mio contributo per mettere fine a Cosa nostra, una catena di morte”. “Chiedo scusa, perdono, a tutti i familiari delle vittime a cui ho provocato tanto dolore e tanto dispiacere”. Con queste parole, cinque anni fa - dopo venti di detenzione e di collaborazione con la giustizia - Giovanni Brusca (oggi 64enne) cominciò una lunga intervista con il regista-documentarista francese Mosco Levi Bocault, che stava realizzando il film “Corleone”, una produzione di Arte France e Zek, presentato al festival di Roma nel 2018. Nel film ci sono le immagini e le voci di pentiti di mafia, investigatori antimafia e testimoni della stagione di sangue e di terrore scatenata dalla cosca di Totò Riina. Tra quelle testimonianze spicca quella di Giovanni Brusca, registrato per alcune ore in una sala colloqui del carcere romano di Rebibbia, dove l’esecutore materiale della strage di Capaci si presentò bardato per non essere riconoscibile, ma con la sua voce inconfondibile già tante volte ascoltata nei processi di mafia. Davanti alla telecamera il killer di fiducia di Riina raccontò la sua affiliazione a Cosa nostra, i principi dell’organizzazione mafiosa, i delitti a cui ha assistito e quelli che ha commesso, compresi quelli per i quali è diventato famoso in tutto il mondo: l’eccidio in cui morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, e l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santo Di Matteo (qui la reazione di Di Matteo alla liberazione di Brusca: “Se lo trovo per strada, non so che succede”). Ma prima di cominciare a svelare i segreti di Cosa nostra e della sua vita di assassino e collaboratore di giustizia, Brusca volle fare una dichiarazione preliminare per chiedere perdono ai parenti delle tante vittime che ha sulla coscienza; e colse l’occasione per scusarsi anche con la donna che all’epoca era ancora sua moglie e con il figlio, per la doppia scelta che ha segnato la propria esistenza e quella della sua famiglia: prima mafioso e poi pentito (qui l’articolo che spiega la sua “nuova vita”). “Quella di collaborare con la giustizia è una scelta sempre denigrata - spiegò - ma è giusta perché serve a mettere fine a quella fabbrica di morte che si chiama Cosa nostra”. Il video con la richiesta di perdono - mai pubblicato, fino a questo momento - è finito agli atti del fascicolo del detenuto Brusca, per essere valutato dai giudici che nel tempo gli hanno accordato i permessi premio per uscire di tanto in tanto dal carcere, nonché i giorni di liberazione anticipata che spettano ai reclusi che mantengono una buona condotta, ma gli hanno negato la detenzione domiciliare, tenendolo in cella fino alla fine della pena. Arrivata due giorni fa. Tasse e multe, in 21 anni non incassato l’87% dei crediti di Marco Mobili e Giovanni Parente Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2021 È allarme rosso sulla riscossione. Dal 2000 al 2020 si stanno perdendo per strada quasi l’87% di multe e tasse contestate da enti locali e agenzia delle Entrate. Il tutto a fronte di un numero monstre di contribuenti raggiunti dalle cartelle: sono 18 milioni tra cittadini e operatori economici. È quanto emerge da una elaborazione de “Il Sole 24 Ore” che ha messo a confronto in queste due pagine i dati della Riscossione, delle Entrate, dell’Ifel e della Corte dei Conti. Un problema che si è stratificato nel tempo, nonostante la riscossione da ruolo, dopo la riforma del 2005, ha avuto, nei suoi valori assoluti, un progressivo incremento: da una media di circa 3 miliardi all’anno incassati dal 2000 al 2005 si è passati ad una media annuale di circa 7,5 miliardi nel periodo Equitalia (2006-2016) fino ad arrivare, anche grazie alle definizioni agevolate, ai 10,9 miliardi di euro nel periodo successivo alla nascita di agenzia delle Entrate-Riscossione (Ader 2017-2019). Come messo in luce dalla Corte dei conti su 100 euro affidati da recuperare, al netto di sgravi e sospensioni, in ventuno anni ne sono entrati, comunque, nelle casse dell’Erario e degli altri enti impositori appena 28. Con cifre che si assottigliano per i crediti che più recentemente sono stati affidati all’agente della riscossione. E qui vanno individuate almeno due concause. Da un lato, una difficoltà strutturale a riscuotere che viene da lontano. Fin dall’unità d’Italia la riscossione affidata alle differenti figure di esattori privati era tenuta a debita distanza dalla politica. Nel 1999 con la prima vera riforma della riscossione ci si rese conto delle difficoltà che la macchina della riscossione era costretta ad affrontare per recuperare le somme non versate. L’obbligo di rendicontazione per ogni singolo ruolo non avrebbe fatto altro che paralizzare l’intera macchina della riscossione privata e a cascata, per i relativi controlli, quella pubblica. Dall’altro le scelte della politica che dal 2011 in poi hanno limitato fortemente i poteri dell’agente della riscossione che all’epoca si chiamava Equitalia prima che nel 2016 il Governo Renzi archiviasse quell’esperienza dando vita ad Ader. Il risultato è stato quello di aver creato un magazzino dove oggi sono stipate oltre 163 milioni di cartelle esattoriali. Cifra al netto dei 9 milioni che saranno stralciati con il condono del decreto Sostegni-1 ma che comprende già gli oltre 10 milioni di Riscossione Sicilia, che dal 1° ottobre confluirà in Ader, sia i circa 13 milioni che ogni anno l’agente pubblico della riscossione emette. Una montagna di crediti dello Stato e di altri enti che tra sanzioni e interessi vale complessivamente oltre 930 miliardi di euro, come messo in luce dall’analisi della Corte dei conti, e che interessa qualcosa come 18 milioni di debitori, come ha ricordato in più occasioni nel corso delle audizioni in Parlamento lo stesso direttore delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini. Il problema è che si tratta di ruoli ormai datati e quindi diventati sempre più difficili da recuperare. Il 79% dei carichi è stato affidato dal 2000 al 2015, mentre solo il residuo è più recente. Se si guardano gli enti titolari di questa montagna di crediti, considerando il loro controvalore in euro, è quasi totalitario il peso di agenzia delle Entrate (79%) e Inps (11,6%). Mentre i Comuni hanno crediti pari all’1,9% del monte complessivo sia perché progressivamente si sono sganciati dall’agente pubblico della riscossione sia perché i loro carichi, su cui pesano prevalentemente le sanzioni amministrative per violazioni al Codice della strada, sono di valore più esiguo. Con questa situazione e senza un intervento mirato del legislatore ripulire il magazzino dei crediti incagliati dello Stato è impossibile e persino in molti casi antieconomica. Il conto è presto fatto. Per ogni debitore l’agente della riscossione ha diversi strumenti per avviare azioni esecutive e spingere a saldare quanto dovuto ma per ognuno non mancano le difficoltà operative da parte dei 7mila dipendenti di Ader. Facciamo qualche esempio. Il pignoramento presso terzi di stipendi e pensioni si presta alla possibilità di bloccare immediatamente l’importo da saldare ma l’Anagrafe dei conti non risponde puntualmente alle esigenze della riscossione perché fotografa situazioni e saldi relativi ad anni precedenti e dunque resta più funzionale alle esigenze dei controlli delle entrate mirati su anni d’mposta precedenti. O ancora le ganasce fiscali su autoveicoli o motocicli, su cui però diventa complicato per l’agente pubblico della riscossione gestire un parco mezzi di milioni di veicoli in caso di blocco o sequestro. Per non parlare poi dei pignoramenti di seconde case sulle quali sarebbe poi lo Stato a doversi sobbarcare i costi di gestione e manutenzione di milioni di appartamenti, villette e residence. Il paradosso è che proprio dall’esterno Equitalia prima e Agenzia delle Entrate-Riscossione ora sono viste come il “volto cattivo” del fisco italiano. Eppure chi ci lavora è chiamato a rispondere in prima persona se non danno seguito alle azioni esecutive e non cercano di recuperare incassi ormai ingestibili o meglio in buona parte inesigibili. Inesigibilità che, allo stato attuale, rappresentano un ulteriore elemento di rallentamento o addirittura di blocco di tutto l’ingranaggio. Basti pensare che si è arrivati a fissare un calendario tale che i ruoli del 2000 potranno essere dichiarati inesigibili soltanto nel 2044. E senza misure strutturali la Riscossione resterà la cenerentola del sistema fiscale facendo perdere di efficacia anche alla compliance su cui gli ultimi Governi stanno spingendo per passare da incassi coattivi a quelli spontanei. Sardegna. È boom di detenuti iscritti alla università di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 giugno 2021 Sono il 5,4% nelle carceri dell’isola a frequentare la università, contro l’1,4% a nazionale. Uno studio ha verificato la riduzione della recidiva. Dell’aumento del numero di detenuti che hanno deciso di accedere agli studi accademici ne abbiamo parlato qualche settimana fa, grazie alla segnalazione della Conferenza dei Poli Universitari Penitenziari, istituiti nel 2018. Ora ci concentriamo sul record di iscritti che spetta alla Sardegna, dove il 5,4% delle persone nelle carceri dell’isola frequenta un corso in università, contro l’1,4% nazionale. “Abbiamo iniziato in una ventina di atenei - ha detto Franco Prina, presidente Conferenza Nazionale dei Poli Universitari Penitenziari della Conferenza dei Rettori italiani. Oggi siamo 37 e copriamo regioni nuove, come Puglia e Sicilia, in cui stiamo attivando nuove convenzioni con i provveditorati. In totale l’anno scorso erano 920 i detenuti iscritti in università italiane che offrono questo servizio”. La Rettrice del polo cagliaritano, Maria Del Zompo, ha parlato di ascensore sociale, commentando il successo degli atenei sardi in ambito carcerario. L’ Università di Cagliari ha garantito lezioni e seminari, con la collaborazione di tecnici e docenti e inoltre la pandemia ha fatto sì che anche l’amministrazione penitenziaria adottasse collegamenti multimediali che hanno consentito anche in questo periodo la partecipazione dei detenuti ai corsi dell’università. “Negli anni scorsi gli studi scientifici dello staff della professoressa Cristina Cabras - ha aggiunto il direttore generale dei detenuti e del trattamento, Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, Gianfranco De Gesu - hanno dimostrato che quando i detenuti delle colonie penali sarde avevano la possibilità di acquisire competenze attraverso lo studio, il tasso di recidiva crollava”. A rivelare i dati del boom in Sardegna, ma anche a far riflettere sugli studi universitari in case di pena, è stato il Provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Maurizio Veneziano, che ha definito il fenomeno delle sedi universitarie carceraria sarde “fortemente significativo di un’azione ben condotta in questa regione con il supporto dell’amministrazione penitenziaria nazionale”, che ha saputo creare una rete interistituzionale in grado di far salire questo dato a livelli così importanti. Inoltre lo stesso Provveditore ha fatto rilevare come lo studio, la cultura e il lavoro, che sono considerati elementi premianti in ambito carcerario, riducano la recidiva, creando un risparmio notevole per l’amministrazione pubblica, un detenuto infatti costa allo Stato in media 300 euro al giorno. Attualmente sono 75 su 190 le sedi carcerarie dove sono attivi i poli penitenziari universitari. Il regolamento di esecuzione adottato con d.p.r.30 giugno 2000, n. 230 ha introdotto diverse agevolazioni per gli studi accademici, come la possibilità per gli studenti di essere assegnati a camere e reparti adeguati per potersi concentrare nello studio, di tenere nella propria camera libri, pubblicazioni ed altri strumenti didattici. I Poli universitari penitenziari sono stati realizzati grazie a protocolli d’intesa tra il DAP e/o i Provveditorati Regionali dell’Amministrazione penitenziaria (Prap) e le diverse sedi universitarie del territorio. Poli universitari penitenziari o - comunque - accordi volti a favorire il compimento degli studi universitari sono oggi presenti in diverse regioni italiane tra cui Lazio, Sardegna, Abruzzo, Triveneto, Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Calabria, Marche, Emilia Romagna, Puglia e Lombardia. La realtà dei “Poli Universitari Penitenziari”, nata dall’esperienza del volontariato, ha contribuito a dare attuazione ai principi del nostro ordinamento che riconoscono all’istruzione un ruolo fondamentale nell’ambito delle attività finalizzate a migliorare il trattamento dei detenuti e il loro reinserimento sociale. Dalla collaborazione di alcuni professori universitari di Padova con l’istituto penitenziario, che allora aveva sede a Piazza Castello, nacque negli anni 60 il primo corso “ufficiale” - riconosciuto dal ministero - di studi accademici in un carcere italiano; alcuni detenuti diplomati geometri nel carcere di Alessandria (all’epoca unico corso di studi), furono trasferiti a Padova e divennero matricole alla facoltà di Ingegneria civile, pur tra mille difficoltà, quando ancora era impossibile per un detenuto studente raggiungere l’Università per sostenere gli esami. Negli anni successivi, all’approvazione della riforma del 1975 che ha introdotto il nuovo ordinamento penitenziario, a Padova un gruppo di detenuti studenti universitari (quasi 20) diede vita alla “Scuola in carcere” rendendo possibile che detenuti facessero lezione ai loro compagni di detenzione, molti dei quali analfabeti. Esperienze di studi universitari in carcere vi furono pure a Firenze e Torino; e a Bologna per molti anni si protrasse con risultati straordinari l’esperienza delle letture-dialogo in cui detenuti di etnie diverse entravano in relazione gli uni con gli altri e con studenti esterni. Successivamente, sulla base di intese tra alcune Università e l’Amministrazione, in alcuni istituti, in applicazione di quanto disposto dagli artt. 19 comma 4 legge n. 354/75 e 44 dpr n. 230/2000, ai detenuti studenti sono state assegnate celle singole e sono stati posti comunque in grado di concentrarsi nello studio disponendo di biblioteche, locali comuni, libri, pubblicazioni e strumenti didattici (Poli universitari). I protocolli d’intesa hanno previsto forme di finanziamento o di contributi che, sia pure parzialmente, esonerano dal pagamento delle tasse universitarie, e ciò in aggiunta ai benefici economici concessi per legge ai detenuti studenti universitari in disagiate condizioni economiche che abbiano superato tutti gli esami dell’anno e a quelli che abbiano conseguito buoni risultati scolastici a prescindere dalle loro condizioni economiche. Numerose sono le esperienze sul territorio nazionale e le soluzioni raggiunte a volte sono sovrapponibili e a volte diverse le une dalle altre. Napoli. Giachetti al neo-garantista Di Maio: “Hai visto che succede a Poggioreale?” di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 3 giugno 2021 “La professione di garantismo fatta da Luigi Di Maio è significativa, ma impone che partiti giustizialisti come il Movimento Cinque Stelle affrontino problemi finora nascosti sotto il tappeto, a cominciare dalle drammatiche condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti a Poggioreale e nelle altre carceri italiane”: la pensa così Roberto Giachetti, deputato di Italia Viva e membro del Partito radicale transnazionale. Da sempre in prima linea per i diritti dei reclusi, Giachetti accetta di svolgere con il Riformista una riflessione a pochi giorni dal suicidio di un giovane ospite di Poggioreale. La vicenda ha suscitato l’indignazione di molti, inclusa quella della leader radicale Rita Bernardini che ha colto l’occasione per denunciare nuovamente lo stato di illegalità in cui versano le prigioni italiane e la sostanziale indifferenza che certa politica riserva a un tema spinoso come quello dell’esecuzione penale. “Il fatto che un giovane si tolga la vita all’interno di una struttura che dovrebbe essere garantita dallo Stato deve far riflettere tutti, a cominciare da chi detiene il potere decisionale - sostiene Giachetti - Mi riferisco non solo alla ministra Marta Cartabia e ai vertici del Dap e del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, ma anche a tutti i partiti giustizialisti che devono finalmente comprendere che il carcere è l’extrema ratio e non l’unica risposta dello Stato alla criminalità”. Tra questi figura il M5S al quale il ministro (napoletano) degli Esteri, Luigi Di Maio, sta tentando di imprimere una svolta in senso garantista e meno giustizialista. Significative, in questa prospettiva, sono le scuse a mezzo stampa che il titolare della Farnesina ha rivolto a Simone Uggetti, l’ex sindaco di Lodi assolto dopo anni nel mirino dei pm e dei grillini. “Le parole di Di Maio hanno valore perché segnano una netta inversione di tendenza rispetto alla politica alla quale il M5S ci ha abituato - continua Giachetti - ma devono essere seguite da un’analisi e da un impegno concreti su temi cruciali come il processo penale e le condizioni dei detenuti”. Il deputato di Italia Viva può permettersi di lanciare un simile monito. È proprio lui, infatti, ad aver proposto una modifica della durata della liberazione anticipata, cioè di quello “sconto” di pena previsto per i detenuti che dimostrino di partecipare all’opera di rieducazione e mantengano un comportamento irreprensibile all’interno dei penitenziari. A fronte dell’emergenza Covid, Giachetti aveva proposto di portare quella riduzione da 45 a 75 giorni ogni sei mesi di pena scontata; successivamente, il deputato ha suggerito un aumento da 45 a 60 giorni ogni semestre in via strutturale e definitiva. Quest’ultima proposta è contenuta in un emendamento al disegno di legge di riforma della giustizia penale e attende di essere discussa. Se approvata, la norma alleggerirebbe la pressione sulle carceri, soprattutto su strutture sovraffollate come quella di Poggioreale dove oggi si registrano più di 2.100 detenuti a fronte di una capienza di circa 1.400 unità: “Sarebbe una svolta importante - conclude Giachetti - a patto, però, che cambi la cultura giustizialista che in Italia domina da 30 anni e impone di sbattere qualsiasi criminale in cella e di buttare la chiave”. Torino. Suicida nel Cpr, i parlamentari Pd in visita al centro di Sarah Martinenghi La Repubblica, 3 giugno 2021 “Chiudiamo la stagione dei decreti Salvini”. “È necessario chiudere definitivamente la stagione dei decreti Salvini e dei tagli ai servizi che vengono organizzati all’interno di queste strutture”. Il parlamentare Andrea Giorgis commenta così la visita effettuata oggi dentro il Cpr, il centro per il rimpatrio dentro al quale si è tolto la vita Musa Balde. Insieme con la collega Anna Rossomando e alla garante per i detenuti Monica Gallo, hanno infatti discusso per oltre un’ora con gli operatori della struttura per comprendere le criticità che hanno portato anche al gesto estremo di un soggetto fragile come era il migrante di 23 anni della Guinea trasferito a Torino con un figlio di via dopo essere stato brutalmente aggredito a Ventimiglia. “Bisogna che il prossimo capitolato ripristini una presenza di 24 ore di un presidio sanitario, occorre ripristinare i servizi erogati dai mediatori culturali. Abbiamo trovato conferma che occorre ripensare l’attuale disciplina sul diritto di asilo, prendendo spunto anche da altri paesi e investire sul rimpatrio volontario e sul percorso da offrire a chi non ha le condizioni per poter vivere in Italia per avere un’opportunità di vita nel proprio paese. Rimpatrio volontario e una disciplina più equilibrata del diritto d’asilo sono le sue direttrici per garantire il rispetto dei diritti fondamentali della persona e maggiore sicurezza”. “Il problema va affrontato con un aumento di risorse- ha aggiunto Anna Rossomando- Paradossalmente questo non è un luogo di detenzione ma ha meno tutele di un carcere. Abbiamo sentito che si prevede finalmente di far rientrare le associazioni di volontariato: bisogna assolutamente farlo. C’è una questione relativa alle ore di assistenza degli psicologi, che attualmente sono solo 16 a settimana per tutti i 112 ospiti, e del medico che prima era presente 24 ore mentre ora solo 5 ore al giorno”. Desta poi preoccupazione la situazione negli ospedaletti: “la visita ha confermato come la pandemia abbia ulteriormente acuito la criticità di alcune situazioni e abbia fatto emergere come sia necessario ripensare complessiva disciplina dell’immigrazione ed espulsione”. Milano. Detenute-madri e bambini. “L’alternativa al carcere non chiuda” di Paolo Foschini Corriere della Sera, 3 giugno 2021 Rischia la chiusura l’Icam di Milano, l’Istituto di custodia attenuata che da 15 anni consente alle detenute madri con bambini di non scontare la pena in carcere con i figli. L’appello di Francesco Maisto, garante dei detenuti in Comune, e l’adesione delle Acli. Non è una buona notizia, anzi. Ma diciamo che è il tentativo di non farla succedere. È l’appello di Francesco Maisto, che per il Comune di Milano è il Garante dei diritti delle “persone private della libertà personale”, affinché non venga chiuso l’Icam cioè l’Istituto di custodia attenuata per madri detenute. Per i non addetti ai lavori può darsi sia un oggetto sconosciuto o quasi. Di fatto è una palazzina in via Macedonio Melloni, zona est di Milano, che da quindici anni e per iniziativa dell’allora provveditore delle carceri lombarde Luigi Pagano ospita appunto le detenute madri di bambini piccoli i quali in assenza di altra alternativa - fino a prima dell’Icam capitava eccome, in altre città capita ancora - finivano per stare in carcere con loro. Il fatto è che con il Covid son calati gli arresti e ora a quanto pare non ci son madri da tenere in custodia: attualmente solo una. Ma siccome i costi di struttura e personale ci sono lo stesso l’amministrazione pensa di chiudere. “Sarebbe un grave errore”, dice Maisto. Per ora quel che ha ottenuto è un rinvio dello stop al prossimo settembre. E per questo insiste. A a lui si è unito Paolo Petracca, presidente delle Fondazioni Acli di Milano. “Attraversiamo una fase difficile - dice il Garante - in cui è prevedibile che un contesto di pandemia abbia diminuito la micro-criminalità e quindi gli arresti”. Ma è chiaro che si tratta di una fase. “Non roviniamo un modello - prosegue - che è stato imitato anche in altre città, una struttura che aiuta i bambini a non subire il trauma di una mamma in carcere”. “Dobbiamo raccogliere l’allarme lanciato da Francesco Maisto - aggiunge Paolo Petracca per le Acli milanesi - perché non possiamo disperdere l’esperienza unica nel suo genere dell’Istituto di custodia per detenute madri di Via Macedonio Melloni”. Gli istituti come questo, per i quali Milano ha fatto da apripista, sono in tutto quattro in Italia. “In questi quindici anni di attività Icam è diventato un autentico modello. Quel luogo che ospita madri con bambini soggette a custodia attenuata è stato visitato, tra gli altri, dal Presidente della Repubblica Mattarella proprio per la unicità dell’Istituto e per l’esperienza sin qui maturata. Icam rappresenta una concreta applicazione dello spirito dell’articolo 27 della Costituzione”. Modena. “Anche qui un Garante per chi è privato di libertà” Il Resto del Carlino, 3 giugno 2021 Volta Pagina lancia la proposta di istituire il Garante comunale per le persone private della libertà o in condizioni di limitata libertà. Il suo compito è controllare “il rispetto della dignità di chi, per motivi diversi, si trovi, anche temporaneamente, in condizioni di costrizione”. Una figura di garanzia a tutela, ad esempio, dei tanti ospiti delle strutture protette, spesso non autosufficienti, di cui le famiglie hanno più volte denunciato le condizioni di forte disagio e talvolta il degrado fisico e psicologico. La petizione ricorda inoltre la terribile giornata dell’8 marzo 2020 quando, nel carcere modenese di Sant’Anna, persero la vita 5 detenuti. In quella tragica circostanza, mancando un garante locale, è dovuto intervenire il garante nazionale come figura terza per valutare i fatti. Accogliendo questa proposta si potrà dotare anche Modena di una figura già presente, in Regione, nei comuni di Bologna, Parma, Piacenza, Ferrara e Rimini che sono essi pure sedi di carceri. Modena Volta Pagina nel chiedere al Presidente del Consiglio Comunale, Fabio Poggi, di intervenire, raccoglie firme con una specifica petizione che tutti i cittadini e possono sottoscrivere sia presso il municipio, sia firmando al sito https:forms.gleASUndUVqwgRmufCm9. Può firmare chi risieda in città ed abbia 16 anni. Ravenna. Nuovi occhiali ai detenuti grazie all’accordo tra e Casa circondariale ravennanotizie.it, 3 giugno 2021 È stato rinnovato l’accordo tra il Lions Club Ravenna Dante Alighieri e la Casa circondariale di Ravenna, che prevede un Service per la fornitura gratuita di occhiali da vista per lettura nonché per la riparazione di montature e lenti danneggiate anche in relazione ad altri disturbi della vista, a favore di detenuti indigenti. La collaborazione nasce nel febbraio 2015, grazie all’impegno e disponibilità del socio Ottico Optometrista Gianni Forlini e, ad oggi, ha consentito a numerosi detenuti indigenti di poter fruire di ausili alla lettura o riparazioni di occhiali da vista che hanno contribuito al miglioramento delle loro condizioni di vita. “Si ringraziano, il Presidente Giorgio Palazzi Rossi e i Soci del Club Dante Alighieri - ha dichiarato Carmela De Lorenzo, direttore Casa Circondariale di Ravenna - per la tempestiva ed illimitata disponibilità espressa in tutti questi anni nei confronti di questa Casa Circondariale, frutto di un profondo sentimento di solidarietà nei confronti dei ristretti e del personale che ha consentito a questa Direzione in tanti momenti di difficoltà di avere un prezioso sostegno”. Questo Service rientra nelle priorità dei programmi Lions che sono riconosciuti in tutto il mondo per il loro impegno volto a migliorare la vita delle persone ipovedenti e a prevenire la cecità e vantano un’eccellenza per l’addestramento e la donazione di cani guida” concludono dal Lions Dante Alighieri. Catanzaro. Libro di ricette scritto in carcere, la presentazione agli studenti zoom24.it, 3 giugno 2021 La presentazione si è svolta nella sala consiliare del comune di Taverna in occasione della fiera del libro Gutenberg ideata dal professor Armando Vitale. “Oggi mi avete regalato un giorno di libertà. Siete il mio vero successo immenso”. Con queste parole riportate da Angela Paravati, direttrice della Casa circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro, Fabio Valenti ha ringraziato gli alunni delle classi I A, III A e IV A dell’Istituto alberghiero di Taverna, coordinati dalla prof.ssa Chiara Fera, e gli alunni della I C dell’Istituto alberghiero di Botricello, coordinati dalla prof.ssa Federica Tomaino, che hanno animato la presentazione del libro “Dolci (C)reati” (Città del Sole edizioni) svoltasi nella sala consiliare del comune di Taverna in occasione della fiera del libro Gutenberg ideata dal professor Armando Vitale. Tanti gli ospiti in collegamento all’evento, professionisti impegnati nel corso di scrittura e lettura che si tiene all’interno del penitenziario di Siano durante il quale è nata l’idea di mettere insieme in un libro - la cui prefazione è a firma del noto pasticcere Luca Montersino - le ricette sperimentate negli anni da uno dei detenuti del circuito di massima sicurezza. Un dibattito che ha lasciato il segno nel cuore dell’autore Valenti, visibilmente emozionato dall’intensità delle riflessioni suscitate nei ragazzi dalla lettura di un libro nato dalla costruzione artigianale in cella degli strumenti da pasticceria, a dimostrazione di una forte passione “nata per gioco come tutte le cose serie della vita - ha raccontato - un gioco che poi è diventato una sfida, dando vita a qualcosa di buono dove in realtà forse di buono pensavo di non trovare nulla”. Clima, in arrivo la prima causa contro lo Stato di Madi Ferrucci Il Manifesto, 3 giugno 2021 Il prossimo 5 giugno oltre duecento ricorrenti tra cittadini e associazioni lanceranno la prima azione legale contro lo Stato italiano per l’assenza di politiche efficaci nella lotta al cambiamento climatico. La causa sarà presentata con un evento riservato alla stampa presso l’Hotel Nazionale di Piazza Montecitorio. Il gruppo, coordinato dall’Associazione A Sud, accusa lo Stato di non aver fatto abbastanza per mitigare i cambiamenti climatici ed è pronto ad agire in giudizio. L’obiettivo è quello di ottenere una condanna dello Stato per fare in modo che metta in atto una serie di adempimenti in grado di contrastare con forza il surriscaldamento globale. Il lancio della causa è stato preparato da una campagna di sensibilizzazione chiamata evocativamente Giudizio universale: “Il giudizio universale sta arrivando: scioglimento dei ghiacciai, siccità, desertificazione, eventi climatici estremi, estinzione di interi ecosistemi sono solo alcuni dei fenomeni che già oggi si verificano su tutta la Terra. In moltissimi paesi, movimenti e cittadini stanno citando in giudizio Stato, istituzioni e imprese per costringerli ad attuare politiche realmente efficaci. Abbiamo deciso di fare causa anche in Italia. Chiederemo allo Stato Italiano di attuare misure più stringenti per rispondere ai cambiamenti climatici e invertire il processo: se non ci pensiamo noi, nessuno lo farà al posto nostro”, denunciano i ricorrenti sul sito della campagna. La causa arriva dopo il successo delle climate litigation lanciate da diversi gruppi di attivisti in Francia, Germania e Olanda, che si sono concluse con la vittoria dei ricorrenti e la condanna degli Stati, costretti ad innalzare i loro obiettivi di riduzione delle emissioni cilmalteranti. L’ultima vittoria, infatti, appartiene alla Germania, dove per merito di alcune associazioni ambientaliste tra cui Fridays for Future e Greenpeace, lo scorso aprile la Corte costituzionale ha stabilito che il governo tedesco dovrà rendere ancora più rigida la legge del 2019 che regola la riduzione delle emissioni. In Italia potrebbe accadere la stessa cosa e attivisti e i cittadini sono già pronti a chiedere ai tribunali di giudicare l’inazione dello Stato. Sul tema del riscaldamento globale esistono ormai delle evidenze scientifiche innegabili e la necessità di agire si fa sempre più impellente: “Secondo i dati recenti delle Nazioni Unite - sottolinea la portavoce di A Sud Marica di Pierri - nei prossimi cinque anni la temperatura media globale del Pianeta aumenterà di altri 1,5 gradi. Vogliamo costringere lo Stato ad intervenire subito: le attuali politiche ambientali sono insufficienti e l’emergenza climatica è sempre più grave. In Europa le climate litigation si stanno diffondendo a macchia d’olio e stanno già riportando vittorie storiche: la nuova frontiera della battaglia contro i catastrofici effetti del riscaldamento globale si gioca nelle aule dei tribunali”. “Il ddl Zan? Un segno di civiltà. Non si smette mai di lottare per i diritti” di Francesca Spasiano Il Dubbio, 3 giugno 2021 Intervista a Guido Alpa, giurista, avvocato, presidente emerito del Cnf, e autore del saggio appena pubblicato “Il diritto di essere se stessi”. “I diritti civili sono un terreno che deve essere continuamente riguadagnato”. Per Guido Alpa - giurista, avvocato, accademico e presidente emerito del Consiglio Nazionale Forense - questa lezione di Stefano Rodotà è come un mantra. Un monito che Alpa applica anche alla riflessione sul concetto di identità posta al centro del suo ultimo libro “Il diritto di essere se stessi” (La nave di Teseo, collana Krisis). Per alcuni, spiega il giurista, il “diritto di avere diritti” è ancora una meta, “un traguardo difficile da raggiungere”. E su questo terreno, sempre da riguadagnare, si muovono certamente gli avvocati, custodi e garanti della democrazia. Professore, nel suo saggio scrive che il “il livello di civiltà di una società è dato dalla misura con cui è in grado di assicurare a ciascuno il diritto di essere se stessi”. Noi a che punto siamo? Il livello ovviamente è alto, se consideriamo che i diritti fondamentali sono stati non soltanto consacrati nella nostra Costituzione, ma anche sanciti sulla base della giurisprudenza della Corte Costituzionale, a cui si aggiunge una osservanza scrupolosa della Carta europea dei diritti fondamentali e della Convenzione europea dei diritti umani. Tuttavia, nei rapporti sociali che via via si sono evoluti, sono rimasti dei residui preoccupanti di antisemitismo, di intolleranza nei confronti dei gay e atteggiamenti che possono danneggiare e ledere i diritti delle donne. Ci sono poi forme di “servitù personale” che si impongono ai lavoratori immigrati, privi di qualsiasi garanzia. In più, gli eventi che si susseguono e che riguardano la salute dei lavoratori in fabbrica sono preoccupanti. E altrettanto preoccupanti sono gli eventi che riguardano il danno all’ambiente. Non dobbiamo poi fermarci a considerare la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che applica la tutela dei diritti umani per verificare che le carceri siano adeguate e siano appropriate per contenere migliaia e migliaia di detenuti in condizioni non ottimali. Questa non è che la punta dell’iceberg, segnalata dalla Corte europea dei diritti umani, che ha più volte condannato l’Italia. Tutti questi fenomeni, che qualche volta si esprimono in modo eclatante, con aggressioni di carattere fisico, indicano che ci sono ancora delle sacche di intolleranza che devono essere combattute con vigore. Nel dibattito attuale il fenomeno dell’hate speech, il linguaggio dell’odio, occupa uno spazio centrale. In relazione agli atti di intolleranza verbale, quali strumenti di contrasto ritiene più adeguati? Credo ad esempio che il disegno di legge Zan contro l’omotransfobia sia un segno di civiltà. E questo non significa ovviamente introdurre delle norme penali in bianco e neppure limitare eccessivamente la libertà di espressione, di opinione e di stampa. Si tratta piuttosto di riportare ad equilibrio un sistema nel quale certe volte la libertà di espressione non è bilanciata con i diritti fondamentali della persona e quindi finisce per essere ingiustamente lesiva. Tra coloro che si oppongono al ddl Zan, c’è chi crede che il nostro ordinamento preveda già strumenti di tutela adeguati e non sia necessario introdurre nuove leggi. Non è d’accordo? No, perché mi pare che i risultati di quelle norme che si invocano siano deludenti. E se è necessario cambiare il sistema normativo, bisogna farlo. Proprio perché l’applicazione di quelle disposizioni è risultato insufficiente a garantire una adeguata tutela delle persone.Il fatto che questa norma sia così osteggiata è per lei un indice del nostro livello di civiltà? È indice del fatto che quel livello di democrazia che pensavamo di avere attinto ha manifestato un suo deficit, e quindi un regresso. E significa anche quello che diceva Stefano Rodotà, cioè che i diritti civili sono un terreno che deve essere continuamente riguadagnato. Che ruolo ha l’avvocatura nella battaglia per i diritti? Il ruolo dell’avvocato è essenziale, perché l’avvocato non è tenuto a difendere soltanto gli interessi del cliente, ma anche a difendere i diritti, e in particolare i diritti civili e politici. Da questo punto di vista la storia dell’avvocatura è significativa, sia per il ruolo che gli avvocati hanno avuto durante la dittatura, sia successivamente. Per la sua funzione sociale, l’avvocato deve promuovere la difesa dei diritti ed entrare in modo determinato nella dinamica dei rapporti sociali. Una funzione che lei ritiene si debba rafforzare inserendo la figura dell’avvocato in Costituzione? Assolutamente sì. In occasione della consueta relazione annuale della Corte Costituzionale, il presidente Coraggio ha parlato di “nuovi diritti” e dell’esigenza “sempre più avvertita di garantirli”. Richiamando, in questo modo, l’inerzia del legislatore... Bisogna dire che c’è una favorevole circostanza. Il fatto cioè che alla Consulta siano intervenuti giudici particolarmente sensibili ai diritti umani e fondamentali. Mi riferisco in particolare a Paolo Grossi e a Marta Cartabia. Il ruolo che la Consulta ha avuto nella tutela di questi diritti, sia la tutela attuale che quella in fieri, è straordinario. Come dimostrano quei moniti rivolti al legislatore perché intervenisse per sanare la situazione. È quindi il Parlamento che, a volte distratto da vicende contingenti, altre volte incapace di superare le contraddizioni e i contrasti interni, non ha reagito come avrebbe dovuto. Tornando alle pagine del suo libro, in un passaggio Lei parla del diritto come di una “gabbia”. Cioè come di uno strumento che, di volta in volta, può assolvere alla tutela dell’individuo o esercitare una funzione persecutoria... Questo rafforzamento dei diritti e questa lotta per le garanzie ha portato, dopo la Seconda guerra mondiale, alla redazione di testi costituzionali nei quali i diritti fondamentali campeggiano tra diverse posizioni soggettive che sono tutelate in capo all’individuo. Precedentemente, il diritto aveva una funzione “costrittiva”, nel senso che prevalevano altri interessi sui diritti fondamentali. Per tutto l’Ottocento hanno prevalso gli interessi della proprietà e dell’industria. Soltanto di recente è emerso dal conflitto tra tutela dell’iniziativa economica e salute dei lavoratori, la tutela dell’ambiente e della salute collettiva. Ma a forza di inquadrare e catalogare l’individuo attraverso gli strumenti del diritto, non si rischia di “costringerlo”, e di lasciare indietro qualcuno? Certamente. Anche perché ci sono tante situazioni di difficoltà in cui si trova la persona che il legislatore per il momento non ha preso in grande considerazione. Mi riferisco in particolare ai disabili e agli anziani. Si avverte per queste categorie, che sono categorie deboli, un deficit di difesa. Ddl Zan, “la legge è necessaria e l’identità di genere va tutelata” di Jacopo Rosatelli Il Manifesto, 3 giugno 2021 Intervista a Luciana Goisis, docente di diritto penale esperta di crimini d’odio e discriminazioni: Nell’ambito della legislazione europea e internazionale, del diritto straniero ma anche italiano, “identità di genere” ha assunto un significato chiaro. Allargare lo sguardo per evitare che il dibattito sul ddl Zan si chiuda in un’ottica provinciale: questo, in sostanza, l’invito che fa Luciana Goisis, docente di diritto penale nell’università di Sassari, tra le massime esperte italiane in materia di crimini d’odio e discriminazioni. Professoressa, cominciamo dalla critica più radicale al ddl: la legge non serve, le aggravanti per futili motivi ci sono già, quindi le persone lgbtq e le donne sono già protette. È vero? L’aggravante dei motivi abietti e futili non è in alcun modo in grado di cogliere la specificità delle manifestazioni d’odio di cui si sostanziano gli hate crimes. La giurisprudenza interpreta tale aggravante in maniera unanime tenendo conto della “coscienza media del popolo in un dato momento storico”: è noto che il rigetto dell’odio razziale, religioso, xenofobo, omofobo e di genere nella attuale coscienza sociale non è univoco e quindi in tali casi l’aggravante non viene applicata. Nel nostro ordinamento c’è già l’aggravante dell’odio etnico, nazionale, razziale e religioso, mentre fra le caratteristiche protette mancano l’orientamento sessuale, l’identità di genere e il genere, diversamente da quanto accade invariabilmente nel diritto straniero. La legge, quindi, è necessaria... Sì, anche perché esiste un obbligo internazionale, quanto meno implicito per l’hate crime omofobico ed espresso per il gender hate crime. Un obbligo corroborato dalla ormai costante giurisprudenza della Corte di Strasburgo, che è un parametro di costituzionalità anche nell’ordinamento italiano. E non si dimentichi quello che noi chiamiamo il dato vittimologico: non si può ignorare l’alta vittimizzazione di donne e persone Lgbt, oltre che disabili, cui pure verrebbe estesa la tutela penale. Un altro genere di critica verte sulle varie definizioni, in particolare sesso, genere, identità di genere. L’ex guardasigilli e giudice costituzionale Flick sostiene che potrebbe bastare “sesso”, interpretandolo in chiave non solo biologico/anagrafica. Lei cosa ne pensa? La Convenzione di Istanbul è chiara: occorre introdurre l’ottica di genere nelle nostre legislazioni penali. Genere che sta ad indicare non solo la differenza corporea e biologica, ma anche quella culturale e sociale. L’esistenza della violenza contro le donne basata sul genere è un fatto. La Convenzione di Istanbul, ratificata all’unanimità dal Parlamento nel 2013, la definisce in dettaglio: la “violenza di genere quale violenza agita contro la donna ‘in quanto donna’” ha ottenuto pieno riconoscimento ed esige interventi risolutivi. Sul piano terminologico io opterei piuttosto per la soluzione inversa: abbandonare il sesso e mantenere il genere in quanto nella nostra legislazione è già chiaro che il termine genere comprende la differenza sessuale. Come in molte legislazioni straniere. Variazione sullo stesso tema della domanda precedente: c’è chi sostiene che andrebbero bene “orientamento sessuale” e “genere”, ma non “identità di genere”, perché sarebbe un concetto poco chiaro e troppo ideologico... Non è così. Nell’ambito della legislazione europea e internazionale, del diritto straniero, ma anche del diritto italiano - si pensi all’art. 1 dell’ordinamento penitenziario - il termine “identità di genere” ha assunto un significato chiaro. Quasi tutte le legislazioni straniere che puniscono gli hate crimes di stampo transfobico lo fanno attraverso l’uso di questo concetto. Escludere dalla disciplina penale le vittime di transfobia significa non tutelare soggetti estremamente vulnerabili. Quindi le definizioni contenute nel ddl Zan non spalancano la porta a un eccesso di potere interpretativo dei giudici... Esatto. Io semmai rilevo un problema diverso: la nozione di atto di discriminazione andrebbe delineata meglio. In Francia è prevista la discriminazione quale autonoma figura di reato: qualsiasi distinzione operata fra le persone fisiche, sulla base dei fattori protetti, è punita con la pena di tre anni d’imprisonnement e la pena dell’amende pari a 45mila euro. Ecco la definizione della nozione di discriminazione del codice penale francese: “rifiuto di fornire beni o servizi, ostacolo al normale esercizio dell’attività economica, rifiuto di assumere una persona, sanzione o licenziamento della persona, subordinare la prestazione di un bene o servizio, l’offerta di un impiego, una domanda di tirocinio o un periodo di formazione a condizioni relative alle caratteristiche della persona”. Definendo più chiaramente la nozione di atto di discriminazione, si potrebbe arginare anche il problema di un eccessivo potere interpretativo in capo alla magistratura. È un rischio che vede? In generale occorre sempre fare attenzione a non violare il principio di legalità in materia penale, nella forma della precisione o sufficiente determinatezza della fattispecie. Altrimenti il rischio è che i cittadini non siano in grado di compiere “libere scelte d’azione” e che si crei un eccessivo arbitrio giudiziale. Proprio per questa ragione sarebbe importante una definizione della nozione di atto di discriminazione, come dicevo, sull’esempio di quanto avviene in altri ordinamenti europei. L’eroina anti-mazzette a capo della Procura europea contro la corruzione di Andrea Tarquini La Repubblica, 3 giugno 2021 La magistrata Laura Codruta Kövesi è stata nominata al vertice della neonata Eppo. Contro di lei scendono in campo il sovranista sloveno Janez Jansa e il premier-tycoon ceco Andrej Babis. Laura Codruta Kövesi è abituata da anni ad affrontare sfide e anche minacce di politici al potere corrotti o sospetti tali, spesso sovranisti ma non solo. Per anni in Romania fu la giudice-eroina della lotta anticorruzione, spedí in carcere un migliaio di corrotti eccellenti e smascherò anche il più potente di loro, il padre-padrino dei socialisti Liviu Dragnea. Ma adesso da oggi Laura è ascesa molto in alto: è la prima capa della Eppo, la neocostituita Procura europea anticorruzione. Ed ecco che un sovranista e un politico discusso e tycoon, l’uno pregiudicato l’altro accusato dalla polizia del suo paese di malversazione di fondi Ue, scendono in campo contro di lei. Soprattutto il premier sovranista sloveno Janez Jansa, amico e pupillo prediletto dell’autocrate magiaro Viktor Orbán, reduce da una pena per corruzione e malversazione, ha bloccato la nomina dei rappresentanti sloveni all´Eppo, in modo che la Procura europea sia messa nell’impossibilità di indagare a Lubiana. Contro Laura è anche “Babisconi”, al secolo il premier-tycoon ceco Andrej Babis, che in ottobre affronta svantaggiato difficili elezioni politiche che potrebbero costargli il posto. La polizia ceca proprio ieri in una lettera aperta dei suoi inquirenti ha chiesto che Babis sia indagato per aver malversato fondi dell’Unione europea destinati agli agricoltori cechi a vantaggio della sua ex azienda, il colosso agroalimentare Agrofert. Non a caso, come riferisce il sito Euractiv, Agrofert ha denunciato il Parlamento europeo asserendo che non fornisce i documenti con cui ha surrogato l’accusa ripresa dalle forze dell’ordine ceche. “Sono pessimi segnali”, ha commentato a caldo Laura Codruta Kövesi in un´intervista al sito europeo Politico, riferendosi soprattutto alla Slovenia. “Venendo da Lubiana, si tratta anche di chiari indizi che c´è ben da sospettare che qualcosa non vada sul posto e che ci sia qualcosa di illecito. Il blocco dei rappresentanti sloveni influirà negativamente su tutto il lavoro dell´Eppo”. Che l’Eppo non piaccia a tutti i paesi membri dell´Unione, o meglio a non tutti i loro governi, appare ovvio. Anche perché con un sofisticato sistema elettronico basato a Lussemburgo la nuova procura europea anticorrotti ha particolari capacità tecnologiche di collegare un caso a un altro, una pista a un’altra, anche se si tratta a prima vista di episodi solo nazionali e magari invece non lo sono. Alcuni paesi non hanno ancora nominato i loro rappresentanti all´Eppo. Oltre alla Slovenia, il secondo di cui mancano ancora i rappresentanti è a sorpresa la Finlandia. Ma solo per colloqui ancora in corso con la Ue su competenze e ruoli dei magistrati Eppo e nazionali, colloqui tra costituzionalisti. E non è tutto: Ungheria, Polonia, ma anche Danimarca, Irlanda e Svezia non hanno ancora aderito formalmente al trattato europeo di fondazione della nuova superprocura anticorrotti ue. Per cui l´Eppo riunisce 22 paesi sui 27 membri dell’Unione. Secondo Kovesi, “la decisione slovena apre rischi pericolosissimi: senza l´appoggio e la partecipazione di questo o quel paese, specie se membro dell´eurozona, avremo difficoltà a proteggere anche la moneta comune europea. Andrés Ritter, procuratore generale all’Eppo e quindi braccio di destro di Codruta Kövesi, aggiunge sempre in dichiarazioni a Politico: “Ci indebolirà, non potremo inviare procuratori in paesi che ci boicottano, ma siamo un’autorità molto resiliente”. Chi conosce Laura Codruta Kövesi dai suoi tempi eroici romeni sa bene che non si ferma davanti a nulla. Nel suo ufficio in un luogo segreto, sempre protetta da agenti speciali con l´automatica Walther PPK o la Maschinenpistole MP-5 in pugno, ci disse: “Io non guardo in faccia nessuno, chi mi accusa di preferenze politiche ha la coscienza sporca. La corruzione distrugge l’anima e la coesione della società e divora parti consistenti di questo o quel prodotto interno lordo. Per questo la combatto, in nome dello Stato di diritto, non per piacere di assicurare i disonesti alla giustizia”. Il padrino Liviu Dragnea poi di nuovo condannato la fece assurdamente incriminare per corruzione con accuse-farsa e false prove prefabbricate da giudici asserviti alla sua rete di corruzione, il capo dello Stato Klaus Iohannis la ha sempre difesa come ha potuto. Ma Ursula von der Leyen scegliendola a capo dell’Eppo ha scelto la persona giusta al posto giusto. Al Qaeda sta per tornare di Bernard-Henri Lévy* La Repubblica, 3 giugno 2021 L’Afghanistan e gli effetti del ritiro dei soldati occidentali. Per Trump era stato un vagheggiamento. Joe Biden, invece, l’ha fatto. E un anno dopo l’annuncio ufficiale, un passo alla volta, giorno dopo giorno, i 2.500 soldati americani ancora di stanza in Afghanistan hanno iniziato la loro ritirata, e con loro - per obbligo - gli altri contingenti stranieri della missione Resolute Support, di cui gli Stati Uniti erano il pilastro. Le conseguenze non si sono fatte attendere. L’annuncio di questa resa incondizionata, la notizia di questa partenza priva di gloria, di questo abbandono inaudito, di questa disfatta autoinflitta, ha avuto effetti immediati. Dei capi anziani, dei malek, hanno fatto subito visita ai comandanti delle guarnigioni del Wardak e di Ghazni, a ovest di Kabul, oppure, quando non sono riusciti ad arrivare ai comandanti, hanno telefonato ai loro familiari, per riferire cose di questo genere: “I vostri compari se ne sono andati; l’esercito nazionale afgano non è più in grado di difendervi; deponete le armi; saremo clementi”. Abbiamo visto - su una strada che conosco bene e che unisce Kabul al Panjshir, ai confini, quindi, del territorio che fino agli inizi del XXI secolo fu il feudo del comandante Massoud e che da qualche anno è diventato quello di suo figlio Ahmad - la circolazione bloccata; checkpoint brutali che impediscono il vettovagliamento; villaggi presi d’assalto, tagliati fuori dal mondo; uomini armati che si presentano alle autorità locali per dire: “Arrendetevi; fate i nomi dei cattivi musulmani che ci sono tra voi, di chi ama le canzoni, di chi ha commesso apostasia, delle donne che si sentono libere; ma, soprattutto, non temete, perché noi siamo già così potenti da esserci infilati con altrettanta potenza in ogni ingranaggio del potere nazionale, a tal punto che nessuno, a Kabul, potrà venire né a soccorrervi né ad accusarvi di essere scesi a patti con noi”. Abbiamo visto, nella provincia di Herat, donne percosse sulla pubblica piazza e a volte, pare, addirittura lapidate. Abbiamo visto, a Jalalabad, 80 chilometri a est dalla capitale, una medica saltare in aria insieme alla propria auto, dove un gruppo di islamisti aveva collocato una bomba; e abbiamo visto due ragazze giovanissime, che lavoravano per la tv locale, assassinate, a bruciapelo, in mezzo alla strada, da un altro gruppo di jihadisti. Scopro che a Kabul si rintanano in casa le adolescenti che avevo filmato appena sei mesi fa negli stadi di calcio, nei caffè in cui si mescolavano ragazzi e ragazze, o che semplicemente gironzolavano per la città senza il velo; vengo a sapere che quei giovani che negli ultimi anni avevano riscoperto il piacere della musica ora nascondono i loro strumenti e cancellano dai loro laptop le app che servono a scaricare musica da internet; ricevo notizia che i giornalisti di Tolo News, il gruppo privato multimediale che diffondeva, e ancora diffonde, ogni giorno, informazione libera, vivono nel terrore delle esecuzioni mirate. Sempre a Kabul, ciò che resta dei servizi di sicurezza repubblicani sa, e da qualche giorno tenta di far sapere anche agli amici dell’Afghanistan libero, che tutti questi crimini sono opera non di gruppi fuori controllo ma di cellule di Al Qaeda e di Daesh talebani, che attendevano il momento propizio per uscire allo scoperto - che significa, in parole povere, che sanno che i talebani sono già venuti meno a uno dei rari impegni che l’America si era illusa avrebbero rispettato, e che costituirono la conditio sine qua non per iniziare i negoziati di Doha, e cioè: se dovessimo tornare nel giro, rinunceremmo almeno a fare da base o a divenire ricettacolo di organizzazioni che “potrebbero attaccare di nuovo la patria degli americani”, Joe Biden dixit. Sappiamo quindi che, esattamente come vent’anni fa, alla vigilia dell’11 settembre, Al Qaeda sta per tornare. Sappiamo che Daesh, in un’escalation folle, come accadde nello Yemen o in Pakistan, sta per contendere il primato della barbarie ai fratelli nemici di Al Qaeda. Sappiamo, e tutte le testimonianze che mi giungono lo confermano, che sia con l’uno che con l’altra, tanto con Daesh come con Al Qaeda, nei villaggi si rinnova lo stesso patto di sempre con il diavolo: “Voi, fratelli assassini, ci fornite le armi; voi formate le milizie che ci proteggeranno dall’immoralità e dai vizi; i fondi che spillerete ai vostri generosi compari che vivono all’estero scorreranno nelle nostre campagne; in cambio, vi garantiamo che in mezzo a noi nuoterete soddisfatti come pesci nell’acqua e potrete riprendere comodamente a ordire le vostre trame di guerra universale”. Il seguito della storia, purtroppo, è già scritto: e così le cancellerie occidentali preparano i bagagli mentre compilano la lista dei loro collaboratori locali da sistemare lontano dal mirino della vendetta; e così, nonostante tutti scrivano il contrario, l’esercito nazionale si sfascerà proprio quando stava per strutturarsi, all’ombra del deterrente americano; così certe menti non impiegheranno molto tempo a programmare non dico un nuovo 11 settembre ma sì dei nuovi attacchi che - Dio ce ne scampi- moltiplicheranno, in Occidente, gli attentati suicida e le decapitazioni che, fino a poco tempo fa, si caldeggiavano tra Raqqa e Mosul. La Storia, quando è tragedia, si ripete sempre. Il ragionamento che ha portato a optare per questa débâcle è ben noto. È la convinzione - che Trump e Biden, come ho detto, condividono - che dalle “guerre interminabili” si debba “saper uscire”. È il voler mettere nello stesso sacco la guerra a bassa intensità dell’Afghanistan e guerre come quella del Vietnam che accumulò, in metà tempo, un numero di morti e dispersi trenta volte più alto. È un ragionamento assurdo, dal punto di vista strategico. Ed è lo stesso ragionamento che, in sostanza, conferma ciò che era già stato annunciato ai curdi della Siria, consegnati a Erdogan; a quelli dell’Iraq dopo il loro referendum di autodeterminazione; ai somali vittime degli Al Shabaab e ad altri popoli: prostratevi, dannati della terra; basta geopolitica; vedetevela voi con i russi, i cinesi, gli ottomani, i persiani, gli islamisti radicali; addio, mondo. *Traduzione di Monica Rita Bedana Sudan. Conclusa senza successo la missione della Farnesina per liberare Marco Zennaro di Giuseppe Pietrobelli Il Fatto Quotidiano, 3 giugno 2021 Marco Zennaro, detenuto in un commissariato Khartoum in una cella con altre 30 persone, non ritorna ancora a casa. L’intervento del ministero degli Esteri dopo che la procura ne aveva chiesto la scarcerazione ma le milizie l’hanno impedita. Si è conclusa la missione in Sudan del direttore generale per gli italiani all’estero e le politiche migratorie, ma l’imprenditore veneziano Marco Zennaro, detenuto a Khartoum, non ritorna ancora a casa. Anzi, la situazione sembra essersi congelata, dopo che il procuratore generale della capitale africana la scorsa settimana aveva dato il via libera alla scarcerazione del quarantaseienne titolare di un’azienda di trasformatori elettrici, ma subito dopo le milizie avevano bloccato l’italiano quando ormai sperava di poter salire su un aereo diretto in Italia. Il viaggio di Luigi Vignali, l’uomo della Farnesina, inviato dal ministro Luigi Di Maio, non si è concluso con un esito positivo, come aveva lasciato intravedere perfino il governatore del Veneto, Luca Zaia, che aveva accennato a possibili notizie positive. La realtà è stata diversa. Vignali ha avuto incontri e colloqui per cercare di sbloccare la situazione, ma non è nemmeno riuscito ad ottenere una misura cautelare alternativa rispetto a quella che costringe Zennaro a restare un una cella di un commissariato di polizia. È assieme a un’altra trentina di detenuti, con un caldo infernale e in condizioni igieniche disumane. Vignali gli ha fatto visita e ha anche incontrato il suo difensore e alcuni familiari che si trovano a Khartoum. Le autorità saudite non sembrano disposte a lasciar tornare Zennaro in Italia prima di aver ottenuto garanzie bancarie riguardanti la somma di 700mila euro che un potente militare dice di avanzare per asserite irregolarità in una fornitura alla società elettrica del Paese. Vignali è quindi ritornato a Roma da solo, mentre cresce l’apprensione per la sorte del nostro connazionale. Zennaro conosce molto bene la situazione africana, visto che l’azienda di famiglia opera da 25 anni in quel mercato. Aveva concluso un affare riguardante una fornitura di trasformatori per oltre 1 milione di euro. Il mediatore era Ayman Gallabi, che ha rivenduto la partita alla società Sedc. Sulla base della perizia di una ditta cinese concorrente di quella italiana, la fornitura è poi stata contestata. Alle spalle di Gallabi c’è un finanziatore di peso, Abdallah Esa Yousif Ahamed, che fa parte delle milizie sudanesi che si sono impossessate del potere nel 2019, costringendo alle dimissioni il presidente Omar Bashir. Due mesi fa Yousif Ahamed ha denunciato Zennaro per frode nella fornitura ed è riuscito ad ottenerne l’arresto. Non è bastata una prima cifra di 400mila euro, versata dalla famiglia dell’italiano, a tacitare le pretese. Il militare sudanese vuole altri 700mila euro e garanzie perché il pagamento avvenga. Nel frattempo il mediatore Gallabi è morto in un misterioso incidente subacqueo avvenuto nel Nilo. A Zennaro non è rimasto che lanciare disperati appelli attraverso la famiglia per essere aiutato dall’Italia. La revoca della custodia cautelare, decisa dai magistrati la scorsa settimana, era stata di fatto annullata dall’intervento delle milizie che avevano impedito all’imprenditore di tornare libero. Egitto. Patrick Zaki resta in carcere. Ora subito la cittadinanza italiana di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 giugno 2021 L’Egitto prolunga per altri 45 giorni la detenzione preventiva. Amnesty: “Accanimento giudiziario”. Tenuto fuori dal tribunale cairota anche l’avvocato dell’Unione europea. Coro di: “Ora basta”. “Rinnovata la detenzione preventiva per Patrick Zaki. L’ennesimo rinnovo che non lascia spazio a dubbi: la sua detenzione è un accanimento giudiziario #freepatrickzaki”. twitta così Amnesty International Italia alla notizia diffusa dall’avvocata Hoda Nasrallah, legale egiziana dello studente universitario di Bologna al quale la sua città adottiva ha già conferito la cittadinanza onoraria. A nulla è servito inviare un rappresentante dell’ambasciata italiana in Egitto, tanto più che nel tribunale cairota dove martedì si è svolta l’ennesima udienza per il rinnovo della custodia cautelare di Zaki, il nostro diplomatico, come altri, e pure l’avvocato dell’Unione europea, non è riuscito neppure ad entrare. Uno schiaffo ai diritti umani e pure ai rapporti con Roma, malgrado - o forse proprio a causa - il trattamento speciale riservato dalle istituzioni italiane ed europee al regime di Abdel Fattah al Sisi. La deputata Pd Laura Boldrini centra il problema: “Quanto durerà ancora questa violazione dei diritti umani? Il tempo delle parole è finito. Il nostro Paese sia coerente e dia un segnale chiaro. L’Egitto è il primo importatore di armi italiane: fermiamo il commercio!”. Sì perché non solo il regime di Al-Sisi è il più importante partner commerciale dei produttori italiani di armi e navi da guerra ma, come riportato dallo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), negli ultimi cinque anni il governo egiziano è diventato il terzo più grande importatore di armi al mondo dopo Arabia Saudita e India, acquistando il 136% di armi in più rispetto al quinquennio precedente. E così Patrick Zaki, arrestato per “propaganda sovversiva su Internet” dalle autorità egiziane all’aeroporto del Cairo il 7 febbraio 2020, compirà 30 anni in una fetida cella della terribile prigione di Tora. Una detenzione giudicata “illegittima” dal deputato di LeU, Erasmo Palazzotto, a capo della commissione monocamerale sull’omicidio di Giulio Regeni. “Inaccettabile. Disumano - twitta Palazzotto - Non possiamo più stare a guardare”. Sono tanti gli esponenti della maggioranza di governo che commentano questa ennesima prova di arroganza da parte delle autorità egiziane sollecitando pubblicamente il loro stesso esecutivo (evidentemente non trovano spazio o attenzione nei luoghi della politica e istituzionali) a non indugiare ulteriormente e ad agire incisivamente una volta per tutte. “La strategia italiana fondata su piccoli passi e relazioni diplomatiche non sta dando risultati - è l’analisi dell’europarlamentare dem Pierfrancesco Majorino - Dal parlamento europeo diciamo altro, attraverso la risoluzione votata il 18 di dicembre: basta armi all’Egitto. Basta mezze misure”. Gli fa eco il suo collega Giuliano Pisapia che chiede al governo Draghi di “dare seguito alla posizione assunta dal Parlamento” e concludere l’iter per la cittadinanza italiana (e di conseguenza europea) a Patrick, “in modo da avere più forza nel chiedere il suo ritorno nel nostro Paese”. La senatrice Monica Cirinnà, responsabile Diritti del Pd, annuncia che per accelerare i tempi si recherà dal presidente Mattarella, insieme a tutti i membri della Commissione diritti umani del Senato. A supportare l’iniziativa della cittadinanza italiana, su Change.org, con una petizione lanciata a gennaio dalla community Station to Station e da 6000 Sardine, ci sono anche 264.000 persone, di cui circa 56 mila firmatari da Spagna, Francia, Germania e Regno Unito. Perché, come sottolinea in una nota l’europarlamentare M5S Sabrina Pignedoli, l’Egitto sta “compromettendo i rapporti con tutta l’Unione europea. Alla luce di questi eventi - aggiunge - chiediamo a Joseph Borrell, Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, di valutare una presa di posizione forte verso l’Egitto che includa anche l’uso di sanzioni”. La speranza, almeno quella di una parte dell’opinione pubblica italiana, è di non dover assistere nuovamente allo stesso valzer di promesse e indignazioni tra 45 giorni. Libia. Ora i droni scelgono chi uccidere “Raid turchi guidati da robot” di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 3 giugno 2021 Un documento Onu rivela: un “Kargu-2” ha colpito i miliziani di Haftar senza supporto umano. Sarebbe la prima volta. Per gli analisti è una svolta fondamentale: “Le macchine non sono capaci di decisioni etiche, i rischi di errore sono enormi”. Il ghigno terrificante sul volto liquefatto di Arnold Schwarzenegger nelle scene finali di “Terminator” può andare in archivio: il primo robot assassino della Storia ha l’aspetto di un giocattolo innocuo, di quelli che i papà lanciano nei parchi per far divertire i bambini. È un drone di ultima generazione, che sul campo di battaglia non solo spia e minaccia, ma ora colpisce, per la prima volta su propria decisione, senza intervento di operatori umani. A rivelare che un limite simbolico è stato superato è la lettera datata 8 marzo 2021 che il gruppo di esperti incaricati dall’Onu di seguire gli affari della Libia ha inviato al Consiglio di Sicurezza. Nel marzo 2020, si racconta, un convoglio delle forze fedeli al generale Khalifa Haftar è stato “rintracciato e affrontato da veicoli da combattimento aereo o da letali sistemi d’arma autonomi come l’Stm-Kargu 2” lanciati dai soldati turchi. La parola chiave è “autonomo”: il documento spiega che sistemi del genere “sono programmati per attaccare gli obiettivi senza richiedere scambio di comandi fra l’arma e l’operatore”, un sistema che i militari chiamano “lancia e dimentica”. Il Kargu 2 è un quadricottero che pesa sette chili, capace di volare per 30 minuti sopra i 70 km orari, fino a cinque chilometri dalla zona del decollo. Può operare in sciame e agire come kamikaze, cioè decidere di lanciarsi su un obiettivo e farsi esplodere, anche puntando, dice il fabbricante, un singolo individuo, grazie al software di riconoscimento facciale. Secondo gli esperti dell’Onu, in Libia è stato uno strumento “molto efficace”: le forze di Haftar non sono state in grado di difendersi e hanno subito “perdite significative”. L’uso di queste armi, dicono all’Onu, viola l’embargo stabilito nel 2011. Ma per Zachary Kallenborn, esperto di armamenti non convenzionali, è un’evoluzione sconvolgente. “Un nuovo capitolo nelle armi autonome, in cui sono usate per combattere e uccidere esseri umani basandosi su intelligenza artificiale”, scrive l’analista sul Bulletin of the Atomic Scientists. Siamo ben oltre gli attacchi Usa definiti “signature strike”, dove un software indirizzava i droni armati Reaper su persone spesso non identificate, il cui comportamento (spostamenti, contatti, eccetera) sembrava indicare che fossero coinvolte in attività terroristica. Questi protocolli, voluti e alla fine abbandonati da Barack Obama, affidavano a un algoritmo la vita e la morte di persone ignare. Unica differenza, rispetto alle armi autonome, era l’intervento di un operatore in fase esecutiva. Secondo la Campagna per fermare i robot assassini, strumenti dotati di capacità decisionale varcano una soglia morale, perché “mancano di caratteristiche umane come la compassione, necessarie per compiere complesse scelte etiche”. L’organizzazione chiede un trattato internazionale, per stabilire che nell’uso della forza deve essere mantenuto un controllo umano significativo. “Solo gli esseri umani sono capaci di distinguere fra combattenti e no, e di valutare la proporzione fra azione e obiettivi”, sottolinea Maurizio Simoncelli dell’Archivio Disarmo. Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, chiede da anni un divieto di armi “moralmente ripugnanti e politicamente inaccettabili”. L’anno scorso anche papa Francesco si è schierato contro i sistemi autonomi che “alterano in modo irreversibile la natura della guerra, allontanandola ancora di più dall’azione dell’uomo”. Persino la Difesa Usa nel 2012 ha stabilito che una valutazione umana deve essere presente in ogni uso della forza. Ma secondo il Pentagono, Mosca avrebbe invece allestito un sistema automatico per far partire i suoi missili se i sensori sismici, di luminosità, pressione e radioattività registrano un attacco nucleare. Insomma, se una ribellione dei robot contro l’umanità resta nel complesso improbabile, il pericolo di errori o hackeraggi nei sistemi automatici è concreto. Un possibile primo provvedimento potrebbe essere l’inquadramento dei sistemi autonomi entro la Ccw, la Convenzione del 1980 su certe armi convenzionali, che già vieta o limita l’uso di armamenti capaci di causare sofferenze ingiustificabili. I lavori per ampliare la portata della Ccw sono cominciati, ma per vedere qualche risultato ci vorrà parecchio. C’è solo da sperare che un accordo si trovi presto: per l’applicazione delle sue visionarie Leggi della Robotica, con il divieto ai robot di far del male agli esseri umani, Isaac Asimov aveva immaginato dovesse arrivare l’anno 2058. Ma potrebbe essere già troppo tardi. Yemen. In lotta per la vita sulla linea del fronte di Federica Iezzi Il Manifesto, 3 giugno 2021 Nello Yemen malgrado il cessate il fuoco i civili continuano a morire. E 16 milioni di persone restano senza assistenza umanitaria. Reportage dai villaggi più esposti al confitto e dall’ospedale di Medici senza frontiere a al-Mokha, un gioiello in un Paese distrutto. “Prego Allah perché tu possa tornare presto”. Quando il tuo team meraviglioso ti dice questo guardando il cielo e portandosi le mani al cuore, significa che hai toccato l’anima del progetto. Siamo nella città di al-Mokha, nell’ospedale di Medici Senza Frontiere. Mettendo piede nell’ospedale, ci si rende conto di avere tra le mani un gioiello in un Paese interamente distrutto dalla guerra. Strade devastate, case abbattute dalla furia delle bombe, case ricostruite a metà, uomini a piedi nelle vie principali con kalashnikov in spalla, delle donne nemmeno l’ombra. L’attività dell’ospedale è rivolta alle vittime dirette e indirette del feroce conflitto armato che logora il Paese da più di sei anni. È l’unico ospedale sulla costa occidentale yemenita che fornisce cure chirurgiche di emergenza alla popolazione civile, vittima della violenza legata alla guerra. I pazienti provengono principalmente dalle aree limitrofe alle linee del fronte del governatorato di Taiz (Mawza, Dhubab, al-Wazi’iyah) e da quello meridionale di al-Hudaydah (Khawkah, Hays, at-Tuhayta, ad-Durayhimi, Bait al-Faqih), aree controllate dalla coalizione guidata dall’Arabia saudita, dove l’accesso alle cure è sostanzialmente ineguale. I combattimenti indiscriminati e le ostilità attive presso zone densamente popolate continuano ad essere una delle principali cause di morte per la popolazione civile yemenita. I distretti rurali sono duramente colpiti, con oltre il 60% delle vittime civili, la maggior parte delle quali si trova nel governatorato di al-Hudaydah, nei distretti di at-Tuhayta e Hays, e nel governatorato di Taiz. Proprio in queste aree, l’accesso all’assistenza umanitaria è gravemente limitato. Nonostante il cessate il fuoco mediato dalle Nazioni unite a al-Hudaydah, il numero di incidenti civili nel governatorato è aumentato. Quando le linee del fronte sono dinamiche e mutevoli, l’impatto della guerra sui civili è spesso significativamente maggiore rispetto a quando le linee del fronte sono statiche. Il conflitto nel governatorato di Taiz è emblematico. Le rivalità regionali tra gli Stati del Golfo e l’Iran e l’ipercompetizione locale per il potere e l’influenza si sono sviluppate e intersecate, espandendosi a macchia d’olio in tutto lo Yemen. In una certa misura, gli scontri locali sono il risultato diretto di dinamiche regionali più ampie. Affermando una politica estera più proattiva negli ultimi anni, gli Emirati arabi uniti hanno promesso di combattere l’Islam politico - incarnato nello Yemen dal poliedrico partito al-Islah - in tutte le sue forme, in tutta la regione e oltre. Dopo la cittadina di al-Mafraq, a più di 40 km da al-Mokha, lungo la via segnata con i puntini blu su google maps, improvvisamente c’è un’interruzione della strada principale, che segna la vicinanza alla linea del fronte. Siamo a circa un chilometro dai combattimenti. Proprio in quel tratto di strada sono posizionati i tiratori scelti. Si continua su una strada sterrata che allunga il percorso. L’interruzione è segnalata da una montagnetta di terra su cui è piantato un tubo in plastica. Tutti gli autisti sanno che quel segno corrisponde a una deviazione. Da quel momento solo le montagne dividono il terreno di combattimento, le strade e le case. Passiamo attraverso 12 posti di blocco con la medesima coda di controlli e dopo due ore arriviamo nel distretto di al-Wazi’iyah, nel governatorato di Taiz. Il paesaggio cambia, rispetto alla west coast yemenita arida, ventosa e afosa. Ai piedi delle montagne, con l’acqua del Wadi Rasyan, regna il verde con acacie e palme. Attraversiamo piccoli villaggi. Incontriamo un farmacista che, dopo anni di studio e sacrifici, guida un camion che trasporta thè fino alla città di Aden: “Non ci sono altre opportunità di lavoro”, ci dice. Alcune Health Facilities sono state supportate da Save the Children, Yemen Humanitarian Fund e Unicef per anni. Da agosto non arriva più nulla. Nel villaggio di al-Khoba come in quello di al-Khuraif le storie si ripetono. Non arrivano gli stipendi per il personale, le medicine e i reagenti di laboratorio stanno finendo. Chiediamo che fine faranno. Ci dicono che con molta probabilità avranno un sostegno governativo, ma nel frattempo il flusso di pazienti diminuisce fino a scomparire. I movimenti dei civili sono ridotti al minimo per la vicinanza con la linea del fronte, per i posti di blocco militare e per le strade totalmente distrutte. Il risultato è che le cure sono dilazionate in modo preoccupante, con la cronicità dilagante di patologie altrimenti sanabili. Il personale sanitario offre alcuni servizi a pagamento, come ecografie in gravidanza, esami di laboratorio, esami al microscopio. Alcuni distretti sanitari hanno all’interno farmacie private, i cui farmaci colorati come caramelle sono inconfondibilmente “made in China”. L’escalation del conflitto, il deterioramento della situazione economica, l’insicurezza alimentare e le condizioni nutrizionali indicano un imminente collasso. Circa 20 milioni di persone nello Yemen, su una popolazione totale di 24 milioni, necessita di una qualche forma di assistenza umanitaria e protezione. Dal 2015, il conflitto ha costretto 4 milioni di persone ad abbandonare le proprie abitazioni, rendendo il Paese la quarta più grande crisi, se si parla di sfollati interni, al mondo. Il numero totale di vittime riportate è stimato a oltre 230 mila, principalmente nelle città di Taiz, Aden, Sana’a e Sa’adah. Le agenzie delle Nazioni Unite e le maggiori organizzazioni non governative hanno ripetutamente espresso preoccupazione per le violazioni dei diritti umani, esortando a fermare i bombardamenti indiscriminati. Secondo l’ultima dichiarazione, rilasciata dall’Ufficio delle Nazioni unite per il coordinamento degli Affari umanitari, più di 16 milioni di yemeniti, due terzi della popolazione, hanno bisogno di assistenza umanitaria. Tra questi più di 12 milioni sono in grave bisogno. Nel frattempo, le malattie prevenibili sono diventate pervasive e la morbilità e la mortalità stanno esponenzialmente aumentando. Sono 15 milioni i civili senza accesso all’assistenza sanitaria di base, 400 mila i bambini che necessitano di sostegno psicosociale e 75 mila quelli che contraggono malattie abbattibili con i regolari cicli di vaccinazione. Il conflitto ha devastato i servizi sanitari. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, più della metà delle 5 mila strutture sanitarie dello Yemen non sono funzionanti o lo sono parzialmente, in 22 governatorati. Migliaia di professionisti sanitari sono sottoutilizzati a causa della distruzione delle strutture sanitarie, della mancanza di farmaci e dell’inaccessibilità della popolazione. Secondo il dataset 2020 dell’Health Resources and Services Availability Monitoring System (Herams), dei 333 distretti dello Yemen, il 18% non ha affatto medici. Ma una particella di vita continua a combattere l’ultima disperata battaglia, nell’ospedale di Medici Senza Frontiere. A Al-Mokha ci sono sempre rumori: clacson, sirene, armi da fuoco, prove di artiglieria antiaerea, fuochi d’artificio. All’inizio sembra tutto un grande frastuono, tutto si confonde, ma poi inizi a riconoscere esattamente di cosa si tratta. Rumori di granate. Poi sirene. E già sai che devi correre a mettere la tua abaya per saltare nella macchina che ti porta in ospedale. Nell’aria c’è sempre odore di fumo, di polvere da sparo e di sabbia. Stati Uniti. Tulsa: il massacro dimenticato che cancellò un intero quartiere afroamericano di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 3 giugno 2021 Si rompe il silenzio sul giorno più tragico della plurisecolare storia Usa di violenza razziale: in poche ore venne distrutta la più prospera comunità nera d’America. Oggi Biden in visita alla città. Cento anni fa l’America visse il giorno più tragico della sua plurisecolare storia di violenza razziale: il massacro di Tulsa. Un incidente in apparenza irrilevante e forse addirittura inesistente - un giovane nero sospettato di aver fatto avances indesiderate in ascensore a una ragazza bianca, circostanza peraltro da lei non confermata - fu la scintilla che innescò l’incendio: in poche ore venne distrutta la più prospera comunità nera d’America. Allora Tulsa, in Oklahoma, era la ricca capitale dell’industria petrolifera americana e nel suo centro c’era il quartiere di Greenwood: 35 isolati di case negozi, studi professionali, templi, teatri della comunità nera. Un distretto che per la sua ricchezza era stato soprannominato la Wall Street nera. Il film di quelle ore è mozzafiato: le accuse, probabilmente infondate, al ragazzo, Dick Rowland; il suo arresto; mille bianchi, decisi a linciare il presunto aggressore, che assediano il presidio di polizia; lo sceriffo con sei agenti che cerca di tenere a bada la folla inferocita; l’arrivo, in difesa di Dick, di gruppi di afroamericani armati. In poche ore un incidente banale si trasforma in una vera e propria guerra: i miliziani bianchi cercano di disarmare un ragazzo nero. Parte un colpo e dal quel momento si scatena il finimondo: mille case ed edifici commerciali distrutti, l’intera popolazione nera, 10 mila abitanti, costretta a fuggire altrove. E, ancora, 800 feriti, mentre il conto dei morti resterà per sempre un mistero: 36 di cui dieci bianchi secondo il conteggio ufficiale delle autorità del tempo. Centinaia, quasi tutti neri, secondo le altre ricostruzioni, compresa quella della Croce Rossa. L’enormità di quanto accaduto - una comunità distrutta in un giorno e mezzo, centinaia di edifici saccheggiati e dati alle fiamme, i neri bersagliati anche dal cielo da aerei civili pilotati da bianchi che prendevano di mira i residenti e tentavano di appiccare il fuoco alle loro case di legno lanciando ordigni infuocati - spinse gli amministratori della città a cercare di calare, più che un velo, una saracinesca di oblio su questa immane tragedia. Le inchieste non approdarono a nulla, non ci furono condanne, del massacro di Tulsa non si parlò più: silenzio delle autorità, dei giornali, del cinema, della scuola che non inserì mai il massacro - la più grave tragedia razziale della storia americana - nei suoi programmi didattici. Fino a oggi. Nel clima di risveglio delle coscienze maturato con le proteste dell’ultimo anno, dall’uccisione di George Floyd in poi, è venuto il momento di raccontare anche la guerra di Tulsa a un’America che ignora questa pagina tremenda della sua storia. O che preferisce trincerarsi dietro l’incertezza delle ricostruzioni: le vittime furono soprattutto nere, ma a sparare furono anche afroamericani armati che uccisero molti bianchi. Ora quel velo è stato strappato: diversi documentari su Tulsa vengono proposti in queste ore dalle reti televisive Usa e oggi il presidente Biden si recherà in pellegrinaggio nella città. Celebrazioni che rischiano di svolgersi in un clima infuocato: le indagini giudiziarie e quelle parlamentari bipartisan condotte dal 2000 in poi hanno attribuito la responsabilità dei disordini ai bianchi, ma i suprematisti non hanno mai accettato questo verdetto e oggi si temono contromanifestazioni che potrebbero degenerare. Forse è anche per questo che all’ultimo momento è stata cancellata la grande manifestazione politico-musicale che doveva essere animata da John Legend e Stacey Abrams.