Il carcere produce criminalità, dentro e fuori: aboliamolo! di Piero Sansonetti Il Riformista, 30 giugno 2021 Gli agenti della Polizia penitenziaria, come chiunque, hanno il diritto di difendersi e anche di essere considerati innocenti. Una retata con più di 50 misure cautelari, delle quali una decina in prigione, colpisce. È legittima? Era necessario alle indagini, quattordici mesi dopo il reato, sbattere in prigione gli indiziati? C’era rischio di fuga, di reiterazione, di inquinamento delle prove? Direi di no. Urge un referendum per riformare le norme sulla carcerazione preventiva. Finché non verrà riformata drasticamente, e cioè finché non ci si deciderà a ridurre al minimo la possibilità della magistratura di utilizzarla come strumento di indagine, continuerà questo costume dell’uso molto disinvolto della prigione da parte delle toghe. Per comodità di chi indaga. O addirittura come mezzo di pressione per far confessare o per ottenere delle delazioni. È giusto che sia così? Ma allora perché non prevedere delle forme, magari blande di tortura? La tortura, negli Stati di diritto, fu abolita alla fine del ‘700. Oggi però mi pare che la cultura giuridica predominante (qui da noi quella a 5 stelle) ritenga che la civiltà moderna sia stata travolta dal lassismo garantista, e che sia bene tornare indietro almeno di due secoli o due secoli e mezzo. Però, allora, è bene dirlo: ergastolo, patibolo, tortura. Tutto pur di dividere i cattivi dai buoni. Chi decide la linea di confine tra cattivi e buoni? I Pm e la voce del popolo: ovvio. Sulla voce del popolo c’è una famosa e bellissima poesia di Jacopone da Todi, fine duecento, che è costruita sulla ripetizione di una parola chiave: “Crucifige”. Jacopone si opponeva a quella incitazione, ma si sa, era un tipo troppo moderno, Jacopone, e forse anche subornato dalle Camere penali. Poi però bisogna dire subito un’altra cosa. Noi, evidentemente, non possiamo sapere se quei cinquanta poliziotti hanno picchiato o no selvaggiamente i detenuti di Santa Maria Capua Vetere. Però sappiamo con certezza che quei detenuti sono stati picchiati e torturati da un gruppo molto folto di guardie carcerarie. E questa è una cosa orrenda. È orrendo che dei maramaldi si accaniscano contro dei cittadini indifesi, per di più resi debolissimi dalla condizione di detenuti, è orrendo che il potere non sappia fare altro che utilizzare se stesso solo per affermarsi, per esprimere potenza, arroganza, punizione, umiliazione. È orrendo anche che le notizie su questo fetido episodio di aggressione e tortura non abbiano scosso neppure un po’ l’opinione pubblica e l’intellettualità, sempre pronta a indignarsi per la pensione di Formigoni. Si sa di questa aggressione in carcere da molti mesi. Noi la denunciammo per primi nei giorni immediatamente successivi ai fatti. Silenzio, finora. Ma la causa di tutto questo, qual è? Ogni persona onesta, nel fondo del suo cuore, lo sa, anche se magari non se la sente di ammetterlo. La causa è semplicissima. Si chiama prigione. La prigione è la più spaventosa, inumana e ingiusta delle istituzioni dello Stato. La sua utilità sta solo nel soddisfare, seppure in modo vago, il desiderio di vendetta dei giusti che ritengono se stessi superiori e perciò più meritevoli degli ingiusti. E per realizzare questo suo compito di acchetamento dell’opinione pubblica, e di sottomissione al rigore giudicante e autonobilitante degli opinionisti, questa istituzione infligge l’inferno in terra a decine di migliaia di esseri umani. Es-se-ri u-ma-ni. Come noi liberi. Esattamente come noi liberi. Qualunque cosa abbiano fatto, restano esseri umani. L’essere umano è quel che è, è la sua individualità, le sue emozioni, il suo sapere, la sua anima: non è quel che ha fatto. Le prigioni sono una delle più grandi perversioni di massa che resistono nell’epoca moderna. Il proseguimento della tortura, della peggior giustizia medioevale. Hanno una sola giustificazione: garantire la sicurezza. Non è così? Voi mi chiederete: ma se una persona ha appena ucciso qualcuno che faccio? Rispondo: arrestiamola. Con questo obiettivo: la sicurezza. Ma voi sapete quanti sono i detenuti pericolosi? Una volta un altissimo magistrato, che poi fu capo del Dap, mi disse: non più del 5 per cento. Su 50mila vuol dire duemila e cinquecento persone. Benissimo, adattiamo le attuali strutture carcerarie e realizziamo circa 25 istituti con 100 posti ciascuno. Saremo in grado di rendere molto più civili le condizioni di detenzione e potremmo utilizzare in assoluta serenità il personale carcerario, e controllarlo, e sapere sempre che cosa succede in quelle prigioni. E i magistrati potrebbero decidere con assoluta tranquillità chi non è più pericoloso e può essere liberato. Recentemente le giudici di sorveglianza di Milano hanno concesso la libertà provvisoria a un detenuto giudicando che - colpevole o innocente che fosse - sicuramente era largamente rieducato. E dunque che non aveva più senso tenerlo in cella, perché il senso della detenzione è la rieducazione, non la vendetta. Mi inchino, stavolta, davanti alla saggezza di queste giudici. Chissà se un giorno qualcuno capirà che hanno ragione. Chissà se in Parlamento si può trovare un partito che, magari timidamente, faccia alzare in piedi il suo capogruppo per dire: onorevoli, entriamo nella civiltà del diritto: aboliamo il carcere. Da Santa Maria Capua Vetere a via Arenula di Maurizio Crippa Il Foglio, 30 giugno 2021 Non siamo di quelli che “le divise fanno paura”, scemenza destituita di ogni rapporto con la realtà. Dunque il punto non è pretendere processi sommari e simbolici assalti alla Bastiglia: gli agenti di Polizia penitenziaria esistono perché servono, non dovrebbero fare paura. Ci sarà modo, anche per noi, di affrontare il tema. Ma è innegabile che 110 indagati, 52 misure cautelari e il provveditore delle carceri della Campania sospeso per le violenze perpetrate sui detenuti di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile 2020, come “risposta” a una protesta dei carcerati dovuta all’allarme per il Covid, sono qualcosa d’altro da una degenerazione momentanea, una perdita di controllo, uno scoppio di violenza dovuto alla esasperazione. Verranno individuati e puniti i responsabili. Ma bisogna per prima cosa ricordare il clima politico in cui è avvenuta quella violenza, quando al ministero di Giustizia c’era un ministro che considerava il carcere chiuso a doppia mandata come l’unica prospettiva della pena e che ha sottovalutato volutamente gli allarmi sanitari. Quando una parte della politica e dell’opinione pubblica gridava contro le “vacanze Covid”. Gli agenti che hanno sbagliato sono una cosa, la politica che li ha messi nelle condizioni di compiere violenze è un problema peggiore. Metterci la faccia di Michele Passione* Ristretti Orizzonti, 30 giugno 2021 28 giugno 2021, giù la maschera. Finalmente, dopo tantissimi mesi, si può tornare a sorridere, guardarsi negli occhi, svelare rughe e rossetti, respirare. Passa la bellezza, insomma; la paura non ancora. Poi, come un pugno in faccia, mentre usciamo di casa, lo stesso giorno arriva la notizia della macelleria del carcere di Santa Maria Capua a Vetere, con tutto il corollario che segue. Non è questo il luogo per prendere posizione sul merito della vicenda; non conosco le carte, ma in ogni caso i processi si fanno in aula. Non è questo il punto. Piuttosto, ancora una volta, la gravità assoluta dei fatti (documentati, pare, da referti, video, intercettazioni, messaggi, etc.) scatena reazioni contrapposte, quasi che sia necessario prendere posizione di parte, facendo scolorire il tema di fondo. Carcere di Pianosa, 1992; da quelle violenze, come sempre molti anni dopo, la condanna del nostro Paese (Labita c. Italia, 6.4.2000) Di nuovo, anni dopo, Saba c. Italia (1.7.2014), per quanto accaduto nel 2000 nel carcere di Sassari (San Sebastiano), oggi finalmente chiuso. E poi ancora nuove condanne alsaziane per le violenze nel carcere di Asti (Cirino e Renne c. Italia) e per i fatti tragici di Genova, di cui a breve ricorre il ventennale. Tante altre vicende in corso, per le quali vale la presunzione costituzionale di non colpevolezza di tutti gli indagati e imputati (taluni già condannati in primo grado di recente). E così ancora violenza, una tortura di Stato. Di nuovo “un corridoio umano” (ma quelli umanitari mai). Non mele marce, non un sistema. Un problema, semmai. L’uso della forza, una certa idea dei rapporti di potere, la banalità del male, la Dignità calpestata. Del resto, qualche anno fa si era parlato di “lezioni di vita carceraria che la guardia sta impartendo al detenuto” quando gli dice che “dentro al carcere comandano loro, non esistono né avvocati né giudici” Così la richiesta di archiviazione, poi accolta, presentata al gip da un pm emiliano. Oggi, nell’ordine, alle doverose notizie dell’accaduto seguono il comunicato stampa della Procuratrice della Repubblica di SMCV (tredici pagine), contenente numerosi riferimenti testuali captati durante le indagini, la furibonda grancassa social che (soprattutto da parte di alcuni esponenti dei sindacati di polizia) lamenta la criminalizzazione di servitori dello Stato, la pubblicazione su un quotidiano locale delle foto di decine degli indagati con i loro nomi, il comunicato del Garante nazionale delle persone private della libertà personale, che giustamente “ritiene inaccettabile la pubblicazione in prima pagina delle fotografie delle persone all’indomani della disposizione delle misure cautelari”. Qualcuno parla di spettacolarizzazione a proposito delle misure cautelari adottate, “proprio mentre le carceri scoppiano”. Crediamo di intenderci, non ci intendiamo mai. Serve fornire una versione dettagliata e coperta da segreto per farsi un’idea delle cose? Serve a qualcuno (agli stessi indagati) esser presentati come vittime dai loro colleghi, dimenticandosi dei detenuti, doppiamente vittime? Serve esporli a rischi e ludibrio con foto e nomi sui giornali, senza che per altro si riesca a introdurre un numero identificativo sui caschi? E’ intellettualmente onesto evocare l’habeas corpus a senso unico (ed è perfino banale evidenziare che chi scrive non vorrebbe nessuno in galera), quando di norma la custodia cautelare si dispone senza freno? Servirebbe, invece, debellare lo spirito di corpo, il senso di impunità che neanche l’introduzione del reato di tortura ha cambiato. Formazione delle polizie, confronto tra agenzie, apertura del carcere alla Società. Raccontare le prigioni, mostrarle nella loro realtà ai magistrati che dispongono della libertà e non sanno cosa sia il posto dove uno finisce, ai benpensanti che “a questi gli paghiamo noi da mangiare”, e poi urlano se qualcuno usa a caso il manganello ed è chiamato a risponderne. Il diritto democratico è limitazione della forza. Quando la tortura è di Stato non è mai la stessa cosa. Non basta il reato, introdotto troppo tardi e con evidenti limiti, ma occorre supportare il testo e la giurisprudenza con un dibattito costante, rafforzare il precetto e l’adesione dei consociati alle profonde ragioni sottostanti la norma a tutela della libertà morale. Mentre qualcuno si interroga sull’opportunità di un piccolo gesto (è giusto inginocchiarsi prima delle partite di calcio?), altri vengono piegati a forza a colpi di manganelli; queste le immagini terribili che finiscono in rete, e che tutti stiamo vedendo. Diranno i giudici chi sono gli uomini in divisa che quel ruolo han tradito, perché è accaduto, ma le immagini sono eloquenti. Qualcuno è Stato; come accaduto di recente, è lecito attendersi che a tempo debito il Ministero sia in aula, accanto a chi è rimasto solo dove il corpo si è piegato alla furia e all’esperienza storica del male *Avvocato Pestaggio in carcere, detenuti in ginocchio umiliati con calci e manganelli di Nello Trocchia Il Domani, 30 giugno 2021 Le immagini dell’”orribile mattanza” sembrano girate in una galera di un regime dittatoriale. Eppure sono riprese dei giorni nostri, del 6 aprile 2020, effettuate con le telecamere di sicurezza del carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere. Durante il primo lockdown, deciso per contenere il contagio da Covid-19, in carcere non ci sono mascherine, acqua potabile, biancheria e arriva anche il virus che contagia un recluso. Lo stato risponde con un pestaggio generalizzato, con un abuso di potere. Una violenza definita “orribile mattanza” da Sergio Enea, giudice per le indagini preliminari nell’ordinanza con cui ha disposto 52 misure cautelari (arresti e interdizioni) per agenti e dirigenti, incluso il provveditore regionale per le carceri della Campania. In tutto gli indagati sono 117. Domani pubblica i video inediti di questo pestaggio di massa, “premeditato”, precisano nelle carte i magistrati. Una sequenza che conferma le denunce e le nostre inchieste giornalistiche sugli eventi del 6 aprile nel penitenziario di Santa Maria Capua Vetere. Quel giorno 283 agenti della polizia penitenziaria hanno partecipato alla caccia ai detenuti, una repressione furiosa, contro persone disarmate e inermi. “Li abbattiamo come vitelli”, “domate il bestiame”, “chiave e piccone”, dicono gli agenti penitenziari nelle chat finite agli atti dell’inchiesta della procura, guidata da Maria Antonietta Troncone che ha coordinato l’indagine insieme al procuratore aggiunto Alessandro Milita (pm Daniela Pannone e Alessandra Pinto). Nell’elenco degli indagati c’è anche il provveditore Antonio Fullone, raggiunto da una misura interdittiva. Sotto inchiesta, dunque, anche chi avrebbe dovuto prima controllare e poi denunciare l’uso indiscriminato della violenza. I video confermano che il 6 aprile 2020 è stata scritta una pagina nera, buia della democrazia nel nostro paese, che ricorda la “macelleria messicana” della scuola Diaz di Genova durante le manifestazioni contro il G8 del 2001. Le immagini raccontano di agenti, uomini e donne, che partecipano alla brutale aggressione. Il tutto avviene nel pomeriggio per oltre 4 ore. L’area socialità con i detenuti in ginocchio - C’è una scena per esempio ripresa dalle telecamere di sorveglianza nell’area di socialità della prima sezione del penitenziario. I poliziotti, alcuni in tenuta antisommossa altri senza, portano dentro la stanza enorme i detenuti. Al centro c’è un biliardino, ribaltato dagli agenti, ai lati alcune sedie e un tavolo da ping pong. L’ora nella registrazione video segna le 18 e qualche minuto. Obbligano tutti i detenuti a inginocchiarsi. Hanno le mani dietro la testa e il capo appoggiato al muro. Sono disposti lungo le pareti, sono almeno in trenta. Sostano per diversi minuti. Gli agenti della penitenziaria vengono ripresi da tue telecamere di sorveglianza, immagini recuperate grazie alla prontezza dell’inchiesta giudiziaria e all’operazione dei carabinieri, immagini che dovevano sparire secondo gli auspici degli indagati. Non sono stati trovati i video di due piani di ripresa, non sono disponibili. Un pezzo di Stato che indaga su un altro pezzo deviato e infetto. Segno che gli anticorpi funzionano, esempio di una magistratura e di una polizia giudiziaria, i carabinieri di Caserta, che onorano la carta costituzionale. I video riprendono la scena. Lì nella sala una volta che sono tutti in ginocchio e umiliati inizia la giostra degli schiaffi, dei colpi di manganello quando i detenuti vengono fatti alzare per uscire. Resta un solo detenuto inginocchiato al quale un agente aveva già sferrato un calcio in pancia. Continuano a picchiarlo, viene preso per i capelli, gli fanno segno di tacere mentre lui zoppica. Stremato, non riesce più a camminare. Manganellate al disabile - Nella seconda scena c’è una camera che inquadra un pianerottolo tra due rampe di scale. I poliziotti penitenziari, tra loro uno ha il casco, si alternano e aspettano al varco i detenuti. Pugni nello stomaco, ancora botte con il manganello e schiaffi senza alcuna ragione. Uno dei detenuti sale claudicante, azzoppato dal tiro al bersaglio. A un altro ordinano di stare a terra sulle ginocchia, di nuovo botte. In un frammento di un video c’è un detenuto in sedia a rotelle che viene colpito dal manganello di un agente. Nella terza scena viene ripreso il corridoio del reparto con le celle disposte sui lati. I poliziotti si schierano a destra e sinistra, i detenuti devono passare in mezzo. Uno degli agenti ha i guanti arancioni, si accanisce su un detenuto: sferra colpi di manganello, una, due, tre volte. Per tutti stesso destino, botte e schiaffi, obbligati a tenere lo sguardo basso, a sottomettersi. Uno dei detenuti mentre cammina riceve improvvisamente una testata da un picchiatore in divisa dotato di casco. Un altro incassa in silenzio una gomitata. Il detenuto trascinato - In una quarta scena, al secondo piano del penitenziario, i poliziotti aspettano l’uscita dei detenuti. Il canovaccio si ripete: di nuovo testate con il casco, schiaffi, manganellate ovunque, pugni, calci. Qualche detenuto viene trascinato a terra come fosse un capo di bestiame. Uno dei picchiatori più duri è l’agente penitenziario con i guanti arancioni. In alcuni casi su un singolo detenuto si accaniscono in decine di uomini in divisa. Alla fine della mattanza sono state chiuse in isolamento 14 persone. Tra queste c’è Hakimi Lamine, che alla fine, ingerendo un mix letale di stupefacenti, è morto. Secondo la procura, la vittima non doveva andare in isolamento e soprattutto, in quei giorni, non ha ricevuto i farmaci per curare la malattia di cui soffriva. Sempre secondo la procura, per mandare i detenuti in isolamento era stata redatta una falsa informativa. Tortura, falso, depistaggio, maltrattamenti sono i reati contestati a vario titolo agli indagati, servitori violenti e infedeli dello stato. Santa Maria Capua Vetere, il Garante contro la gogna per gli agenti indagati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 giugno 2021 Il Garante nazionale delle persone private della libertà ha stigmatizzato la pubblicazione delle foto di alcuni indagati per i presunti pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Un giornale, all’indomani degli arresti per i fatti dei presunti pestaggi di Santa Maria Capua Vetere, ha pubblicato in prima pagina le foto degli agenti e funzionari della polizia penitenziaria raggiunti dalle misure cautelari. Una vera e propria gogna pubblica che il Garante nazionale delle persone private della libertà ha prontamente stigmatizzato. Il Garante, infatti, tramite un comunicato stampa, fa sapere di ritenere inaccettabile l’esposizione cui sono state sottoposte le persone sotto indagine per le presunte violenze nell’Istituto di Santa Maria Capua Vetere, con la pubblicazione in prima pagina delle fotografie di decine di loro all’indomani della disposizione delle misure cautelari. Il Garante: “C’è il rischio di esacerbare il clima negli Istituti” - Una esibizione - prosegue il comunicato - che nulla aggiunge all’informazione sull’indagine in corso e che rischia di esacerbare il clima negli Istituti, alimentando tensioni e mettendo oltretutto a rischio di ritorsione coloro che operano quotidianamente in carcere. Il Garante nazionale, nel contempo spiega che segue con attenzione l’indagine sin dai suoi primi sviluppi, nella convinzione della necessità di perseguire chi offende con i propri comportamenti la divisa che indossa. Ed è certo che i media sapranno raccontare la vicenda, offrendo una informazione completa e rispettosa di tutti, anche di chi è oggetto di indagine da parte delle Procure. Come già riportato, il ministero della Giustizia ha fatto sapere che segue con “preoccupazione” gli sviluppi dell’inchiesta di Santa Maria Capua Vetere, che ha portato a numerose misure cautelari. “La ministra Marta Cartabia, e i vertici del Dap - ha sottolineato la nota di via Arenula - rinnovano la fiducia nel corpo della Polizia Penitenziaria, restando in attesa di un pronto accertamento dei gravi fatti contestati”. L’equilibrio della ministra Cartabia - La guardasigilli ha mostrato equilibrio, da una parte rinnova la fiducia del corpo della polizia penitenziaria, dall’altra segue con preoccupazione gli sviluppi di questa inchiesta. L’ex ministro Bonafede parlò all’epoca di “una doverosa azione di ripristino della legalità” - Ma non è stato così con il ministro precedente Alfonso Bonafede. Ricordiamo che, in risposta all’interrogazione del deputato di +Europa Riccardo Magi, disse testualmente: “Il giorno seguente, ovvero il 6 aprile 2020, è stata disposta l’esecuzione di una perquisizione straordinaria all’interno del reparto “Nilo”. Si è trattato di una doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto, alla quale ha concorso, oltre che il personale dell’istituto, anche un’aliquota di personale del gruppo di supporto agli interventi”. Ebbene sì, per l’allora ministro Bonafede quell’irruzione da parte degli agenti fu “una doverosa azione di ripristino della legalità”. Forse avrebbe dovuto, come suo dovere, accertare i fatti. Magari qualche giorno dopo il 6 aprile 2020, quando Il Dubbio e qualche giornale locale, avevano riportato le testimonianze di chi avrebbe subito i pestaggi con tanto di foto. Non solo. C’erano anche i video che l’allora Dap poteva visionare subito, invece di attendere l’autorità giudiziaria. Il sindacato Uilpa: “Il body-cam per evitare mattanze nelle carceri” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 30 giugno 2021 Il segretario della Uil pol pen, Gennarino De Fazio, all’indomani delle 52 misure cautelari sui presunti pestaggi a Santa Maria Capua Vetere, chiede l’utilizzo della tecnologia già approvata nel 2018. “Riteniamo che non sia più rinviabile dotare il Corpo di body-cam al fine di riprendere ogni fase operativa all’interno delle carceri!”. È ciò che chiede il segretario della Uil pol pen Gennarino De Fazio all’indomani delle 52 misure cautelari nei confronti di agenti e funzionari della polizia penitenziaria sulla presunta mattanza avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. “Lo chiediamo da anni e lo abbiamo sollecitato recentemente nelle occasioni di confronto che abbiamo avuto con la Guardasigilli Cartabia”, sottolinea sempre De Fazio. Grazie al body-cam si abbassano i livelli di aggressività - Il body-cam è un supporto tecnologico che potrebbe creare due effetti: quello di “de-escalation” nell’individuo aggressivo una volta posto di fronte alla telecamera, migliorando nel contempo la sicurezza intrinseca degli agenti di polizia che si trovano ad effettuare l’intervento in una simile situazione; ma è anche utile a prevenire episodi di abuso da parte degli agenti penitenziari poiché questa strumentazione genera un abbassamento dei livelli della risposta aggressiva o, peggio ancora, dei pestaggi pianificati come sarebbe accaduto nel carcere campano. In realtà è già possibile visto che nel 2018 il Dap ha acquisito il parere favorevole del Garante per la protezione dei dati personali. Infatti, in quell’anno, sembrava che si fosse arrivato alla messa a punto del sistema di videosorveglianza in mobilità in dotazione al personale della Polizia penitenziaria, ma senza alcuna spiegazione c’è stato uno stop e dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non se n’è parlato più. Il perché non è dato saperlo. Nel 2018 c’era stato il parere favorevole del Garante per la protezione dei dati personali - Eppure il body-cam aveva trovato il parere favorevole non solo di diverse sigle sindacali, ma anche, come già detto, dal Garante per la protezione dei dati personali dopo aver esaminato preliminarmente la documentazione trasmessa dal ministero della Giustizia e dal Dap nell’aprile del 2018. Ricordiamo che a capo del Dap c’era ancora Santi Consolo. Poi con il cambio dei vertici tutto è finito nel dimenticatoio. Le caratteristiche di questo sistema di video sorveglianza in dotazione degli agenti erano illustrate in una nota dell’ex Direttore generale del personale e delle risorse del Dap, Pietro Buffa, e, più in dettaglio, in un disciplinare denominato “Sistemi di videosorveglianza in mobilità Scout ed Explor”. Il sistema è composto dal sistema Scout (dispositivo veicolare) e dal sistema Explor (dispositivo personale), “allo scopo - scrive l’ex direttore generale del Dap di dotare il Corpo di Polizia Penitenziaria, di uno strumento funzionale a coadiuvare l’operatore nella documentazione delle attività Istituzionali individuate dal disciplinare ed in particolare, nelle attività attinenti l’ordine e sicurezza interna degli Istituti Penitenziari, la sicurezza delle traduzioni e la prevenzione repressione di reati in atto o consumati”. “Scout” è un dispositivo veicolare, “Explor” è in dotazione all’agente - I terminali di videoripresa e registrazione sono costituiti, come accennato, dagli apparati “Scout” ed “Explor”. L’apparato “Scout” è un dispositivo veicolare che permette all’operatore di effettuare la videoripresa attraverso telecamere montate sul mezzo e di trasmettere i filmati, in tempo reale, alla Centrale Operativa competente per lo svolgimento del servizio. Il dispositivo è dotato di telecamera frontale, per la videoripresa delle immagini, e di una batteria integrata, ed è inoltre concepito per l’utilizzo portatile da parte dell’operatore. L’apparato “Explor “invece, è un dispositivo mobile in dotazione all’operatore di Polizia Penitenziaria, utilizzato come equipaggiamento personale, al fine di fornire all’operatore uno strumento di videoripresa funzionale alla documentazione delle attività svolte, in occasione di particolari circostanze operative. Le tracce video sono trasmesse in tempo reale alla centrale operativa - Ogni dispositivo “Scout” ed “Explor” è identificabile attraverso un numero seriale. Gli apparati sono in grado di effettuare registrazioni audio-video, che possono avvenire con due modalità: in modalità remoto - che rappresenta la modalità ordinaria di utilizzo - le tracce sono registrate temporaneamente su una memoria interna; in modalità streaming - modalità attivata dall’operatore in occasione di situazioni di possibile interesse dell’autorità giudiziaria o quando ricorrano motivi di ordine e sicurezza - le tracce sono trasmesse in tempo reale alle centrali operative. Abbiamo una possibilità, quella di rendere più trasparente il carcere e di prevenire gli episodi di violenza da entrambi le parti. Pestaggio in carcere, solo Letta risponde dopo i video: “Abusi intollerabili” di Federico Marconi Il Domani, 30 giugno 2021 “Abusi così intollerabili non possono avere cittadinanza nel nostro Paese. A maggior ragione gravi perché ascrivibili a chi deve servire lo Stato con lealtà e onore”, questo è il commento del segretario del Partito Democratico Enrico Letta. Manganellate, pugni, calci, violenze di ogni sorta da parte di uomini di Stato contro persone private della libertà. Nei video esclusivi pubblicati da Domani sono ripresi i pestaggi avvenuti contro i detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: immagini che hanno fatto scrivere al gip Sergio Enea nell’ordinanza di custodia cautelare che nella prigione è stata perpetrata una “orribile mattanza”. Domani ha chiesto ai leader politici di Pd, M5s, Lega e Fratelli d’Italia un commento su quelle immagini. Solo il segretario del Partito democratico ha risposto. Il capo politico ad interim del Movimento, Vito Crimi, era irreperibile per via della vicenda Grillo-Conte che sta scuotendo i 5 Stelle. Matteo Salvini e Giorgia Meloni, invece, hanno preferito non commentare. Letta: “Abusi intollerabili” - “Immagini gravissime su cui la Magistratura farà piena luce. La legge vale per tutti e in Italia vige lo stato di diritto. Abusi così intollerabili non possono avere cittadinanza nel nostro Paese. A maggior ragione gravi perché ascrivibili a chi deve servire lo Stato con lealtà e onore”, è il commento del segretario del Partito Democratico Enrico Letta sul video che riprende le violenze degli agenti di polizia penitenziaria. Salvini non commenta - Dopo la pubblicazione dei video dei pestaggi sul nostro sito, Domani ha chiesto un commento anche al segretario della Lega Matteo Salvini, che ieri con un video su Facebook aveva espresso “il suo pensiero e la solidarietà umana e politica alle donne e agli uomini delle forze dell’ordine in divisa della polizia penitenziaria” per gli arresti e le misure cautelari decise dal gip di Santa Maria Capua Vetere per la spedizione punitiva. Il suo portavoce ha risposto che Salvini “ha già parlato oggi e non credo torni sul tema”, invitando a guardare il post sui social network di ieri. Nel video, il leader del Carroccio afferma che “chi sbaglia paga, anche in divisa, ci mancherebbe altro, ma giù le mani dalle forze dell’ordine” e che il suo “pensiero va a loro, ai loro colleghi e alle loro famiglie. Sempre dalla parte delle forze dell’ordine”. La sua visita “per portare la solidarietà a donne e uomini della Polizia Penitenziaria che lavorano in condizioni difficili e troppo spesso inaccettabili”, prevista per giovedì 1 luglio, al carcere di Santa Maria Capua Vetere è confermata. Nessuna risposta da Giorgia Meloni - Domani ha inviato i video anche alla portavoce della presidente di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni per chiedere di commentare le immagini che riprendono calci, pugni e manganellate dei poliziotti penitenziari ai detenuti: nonostante ripetuti solleciti, non è arrivata nessuna risposta. Ieri Meloni aveva commentato le ordinanze di custodia cautelare con una nota all’Ansa: “Fratelli d’Italia ha piena fiducia nella Polizia penitenziaria, negli agenti e nei funzionari del Dap intervenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per reprimere la gravissima rivolta organizzata dai detenuti durante il lockdown. A loro va la nostra solidarietà e vicinanza”, la dichiarazione rilasciata ieri. Hakimi, morto in carcere un mese dopo il pestaggio di Raffaele Sardo La Repubblica, 30 giugno 2021 La Procura: in isolamento senza cure adeguate. Per gli inquirenti del casertano non aveva le medicine necessarie e c’è un collegamento con il raid degli agenti. Per il gip fu un suicidio. C’è anche la storia di un immigrato, Hakimi Lamine, nelle carte dell’ordinanza con cui il Gip del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha disposto 52 misure cautelari tra agenti e dirigenti del carcere casertano. La storia di Hakimi è una storia finita male, un giallo secondo le indagini. Hakimi è morto il 4 maggio 2020, a quasi un mese dalla protesta dei detenuti e dalle azioni violente operate, dagli agenti di polizia penitenziaria del carcere “Francesco Uccella”. Era uno dei 15 detenuti spostati nel reparto di isolamento. La procuratrice Maria Antonietta Troncone nel corso della conferenza stampa sul blitz che ha portato a 52 ordinanze, ha sottolineato: “Noi contestiamo la circostanza aggravante della morte di Hakimi Lamine seguita all’attività di tortura e di maltrattamento. Riteniamo, cioè, che ci sia un nesso causale tra l’essere sottoposto alle 4 ore di violenza e essere messo in isolamento. Quel tipo di soggetto con la sua patologia di schizofrenico non poteva andare in isolamento proprio per le sue condizioni e una volta messo in isolamento, non poteva stare senza assumere medicine e in condizioni di abbandono e di prostrazione”. Ed è qui che la storia si tinge di giallo: “Non conosciamo le circostanze di come si sia procurato gli oppiacei che ha ingerito in un reparto di isolamento - ha precisato la procuratrice - sinora non abbiamo gli elementi per capire cosa sia davvero successo”. Per il Gip, però, si è trattato di un suicidio, con nessuna correlazione con i fatti oggetto di indagine. Una decisione che la Procura è decisa a contestare perché farà ricorso contro tutte le circostanze che nell’ordinanza non sono state accettate. Nell’ordinanza che vede coinvolti tanti agenti penitenziari, tra gli indagati a piede libero, ci sono anche due medici dell’Asl di Caserta. Avrebbero attestato la falsa origine di presunte lesioni riportate da alcuni agenti del carcere di Santa Maria Capua Vetere dopo la protesta dell’aprile del 2020. Dalla ricostruzione degli inquirenti, circa 13 agenti avrebbero falsificato referti per dimostrare di essere stati picchiati dai detenuti. Dopo gli arresti degli agenti del carcere di Santa Maria Capua Vetere accusati dei reati di tortura, maltrattamenti, depistaggio, falso, trova il coraggio di parlare anche una delle vittime dei pestaggi avvenuti il 6 aprile 2020 nell’istituto di pena. “Mi hanno ucciso di mazzate, dal primo piano al seminterrato sono sceso con calci, pugni e manganellate. I poliziotti penitenziari hanno commesso un grande errore, non è così che si danno i segnali”. È ancora segnata dalla sofferenza la sua voce. Il detenuto, che non vuole rivelare il nome, è tra i pochi dei 293 malmenati ad avere presentato denuncia. Lui ebbe infatti la fortuna di uscire dal carcere il 10 aprile e di andare ai domiciliari in una località del casertano, dove i carabinieri lo ascoltarono. “Dopo gli arresti dell’altro ieri prosegue - sono sollevato, li aspettavo da tempo. Ma ad oltre un anno di distanza ho ancora paura. Negli occhi ho ancora quei momenti terribili, mai vissuti in carcere e con nessun poliziotto della Penitenziaria, con i quali ho sempre avuto buoni rapporti. Ma quel 6 aprile fu una cosa assurda, mai vista. Ci hanno pestato per ore, facendoci spogliare, inginocchiare, qualcuno si è fatto la pipì addosso, a qualcun altro tagliarono barba e capelli. Il giorno dopo ci hanno fatto stare in piedi non so per quanto tempo vicino alle brande, come fossimo militari. Non potevo non denunciare, ma altri compagni impauriti non lo hanno fatto. Vorrei dimenticare, spero che il processo arrivi presto”. Le parole del detenuto trovano piena conferma nel video interno al carcere che ha ripreso le violenze compiute. Intanto stamattina cominciano gli interrogatori di garanzia per gli arrestati nell’inchiesta sul carcere. La mattanza di Santa Maria Capua Vetere e gli anticorpi. Intervista a Daniela De Robert di Graziella Di Mambro articolo21.org, 30 giugno 2021 Lunedì i carabinieri di Caserta hanno eseguito 52 misure cautelari nei confronti di agenti della polizia penitenziaria, accusati di violenze nei confronti dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, avvenute tutte la sera del 6 aprile 2020. I provvedimenti sono stati emessi dal giudice per le indagini preliminari su richiesta della Procura della Repubblica, in seguito a un’indagine avviata dopo le denunce di alcuni detenuti. Tra le persone coinvolte dai provvedimenti ci sono Gaetano Manganelli, ex comandante del carcere, e Pasquale Colucci, comandante del nucleo traduzioni e piantonamenti, e Antonio Fullone, provveditore delle carceri della Campania, per il quale è stata disposta l’interdizione dalle proprie funzioni. In altri termini una delle storie più buie della Repubblica, capace di oscurare i molti passi avanti fatti in questi anni a tutela delle persone private della libertà e, al tempo stesso, in grado di riportarci indietro di venti anni, alle violenze del G8 di Genova. Eppure Daniela De Robert componente del Collegio del Garante Nazionale dei detenuti è la prima a rinnovare fiducia nel nostro sistema democratico e di controllo “che ha consentito di intervenire subito e di individuare i responsabili, senza fare sconti”. Su quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere la De Robert ha le idee molto chiare: “Non ci sto a criminalizzare tutto e tutti del nostro sistema carcerario, sarebbe un grave errore. Ci sono due concetti importanti che ruotano attorno a questa vicenda”. Quali sono? “La magistratura si è mossa subito, la sera stessa sono stati sentiti i detenuti, è andata a fare i colloqui. Il Garante nazionale infatti non si è mosso, non ha detto nulla perché sapevamo che si stava già operando. Credo che la tempistica sia importante in questa storia perché restituisce il segno della reazione, degli anticorpi che si sono messi in moto”. Non si può comunque negare che sia intercorso molto tempo dalla data dei fatti all’applicazione delle misure cautelari. I tempi della giustizia italiana molto lunghi… “In effetti 14 mesi sono tanti e anche il fatto che i poliziotti indagati siano rimasti nello stesso posto quindi con la possibilità di inquinare le prove è un elemento negativo, sì”. Lei ha parlato di due elementi importanti nel caso specifico, qual è il secondo? “Riguarda l’aspetto mediatico, mi riferisco al fatto che accanto alla notizia ci sono state paginate di foto dei 52 indagati, ecco questo non lo trovo adeguato, non necessario. Cosa aggiunge? Nessuna ingerenza sul modo di raccontare una vicenda gravissima, i pestaggi contestati sono un vulnus alla nostra democrazia, tuttavia quel modo di informazione può mettere a rischio di ritorsione le tantissime altre persone che lavorano nelle carceri italiane. Ciò che voglio dire è che non va cavalcato il filone dell’odio”. Siamo nel 2021, i fatti sono del 2020, come è possibile che sia accaduta in Italia, in Occidente, in Europa una vicenda così sudamericana? “Le immagini video mostrano le cose come sono andate e non doveva accadere nel 2020. La chiusura per il Covid purtroppo non ha aiutato i controlli, noi lo abbiamo detto dal primo momento. C’è molto da lavorare sul fronte della formazione. L’Autorità del Garante per i detenuti ha firmato molti protocolli con tante carceri e Procure italiane proprio per quanto concerne la formazione che resta la chiave di volta. Ci sono dei ‘focolai’ nella nostra democrazia però ribadisco che non bisogna né generalizzare né soffiare sul fuoco dell’odio perché questo sarebbe un ulteriore grave errore. La tentazione di molti adesso è quella di demonizzare la polizia penitenziaria e questo non va bene, non sarebbe preciso né giusto, nè tantomeno risolutivo”. Esser feroce con loro mi fa sentire giusto... di Tiziana Maiolo Il Riformista, 30 giugno 2021 Chissà perché mi è tornato nella mente “Pietà l’è morta”, il famoso canto partigiano scritto nel 1944 da Nuto Revelli, mentre nelle stesse giornate assistevo allo scempio sul riposo notturno del novantenne Emilio Fede e al digiuno di Cesare Battisti, “l’atto più degno che potessi fare per evitare di morire in ginocchio”. Ho pensato ai loro corpi legati a diverse prigionie, ma che avevano a che fare tutte e due con la crudeltà della giustizia, con la sua insensatezza, con la casualità di roulette russe impazzite. Ha senso che un uomo di novant’anni, che un corpo e una mente per i quali i progetti di vita sono ridotti al lumicino debbano ancora subire forme di prigionia? Non ha senso alcuno, eppure, nel silenzio generale, nelle carceri ci sono questi corpi sequestrati, spesso malati, sempre dolenti. Ci sono perché violenta è la necessità di vendetta della cosiddetta funzione “retributiva” della pena, la fotocopia progressista dell’occhio per occhio dente per dente. Ci sono perché magari qualche aggravante “osta” all’applicazione umana della pena. E sono lasciati lì a porre termine ai loro giorni, magari di vite non proprio commendevoli, ma pur sempre vite. Troncate dalla pena di morte all’italiana, quella dell’imbroglio e dell’ipocrisia. Emilio Fede è stato processato e condannato per qualcosa di assurdo, dopo esser stato spiato insieme ai tanti ospiti di serate trascorse in casa di Silvio Berlusconi. Ed essendo stato il “capo” assolto in via definitiva, la vendetta giudiziaria della moralità di Stato si è abbattuta su altri mille rivoli laterali che hanno colpito amici e testimoni. Perché la giustizia giacobina ha questo effetto- tenaglia che, se ti pizzica, non te la scrolli più di dosso. Emilio deve restituire qualcosa allo Stato. Per esser stato amico di Berlusconi, prima di tutto. Per esser stato un direttore del Tg4 colto e irriverente. Per la sua vita di pokerista beffardo. Per l’ironia nei nomi storpiati (che il povero Travaglio non riesce a imitare) e i colpi che gli arrivavano alle spalle con i fuori-onda carpiti mentre nel bel mezzo dei servizi sulla guerra del golfo lui si lasciava scappare un “bella cosciolona” e poi non se ne pentiva. Sembra quasi una nemesi storica il fatto che, mentre gli muore la moglie e lui compie novant’anni, la sua vita e il suo corpo subiscano la violazione di una visita notturna della polizia quasi a marchiare a fuoco il suo passato di nottambulo. Perché un tribunale di sorveglianza lo vuole prigioniero sempre, e rispettoso di orari e spostamenti. La logica vorrebbe che si dicesse agli zelanti poliziotti e ai burocrati in toga: ma lasciatelo in pace! Ha sepolto la moglie con cui sperava di poter spegnere le candeline, e voi siete ansiosi di sapere in quale letto sta dormendo? E magari anche con chi, visti i reati per cui è stato condannato? Ma il suo corpo non è suo da almeno quattro anni, il suo corpo è dello Stato occhiuto e proprietario implacabile. Il che sposta l’attenzione su un altro, ben diverso prigioniero, Cesare Battisti. Il quale, mentre Fede era schiacciato da quel lutto che avrebbe preferito non dover trascorrere in compagnia notturna di due poliziotti, aveva girato la boa dei venti giorni di sciopero della fame. Non certo per una sfida allo Stato che lasciasse emergere il trasgressivo che un giorno lui era stato, fino a privare altri della vita. Ma per illuminare le violazioni di legalità che stava subendo, essendo diventato lui stesso vittima di una forza dello Stato silenziosa quanto implacabile. Una sorta di ergastolo ostativo applicato in modo arbitrario ed extragiudiziale. Non mi interessa investigare per sapere se questo ex militante di sinistra e terrorista sia simpatico. E neanche se le condanne per i reati che ha commesso (e ammesso) siano state eque, visto che lui stesso le ha accettate, nonostante un percorso di commutazione dell’ergastolo fosse stato tentato dal suo avvocato Davide Steccanella. Mi interessa invece sapere perché, trascorsi i sei mesi di isolamento previsti dalla sentenza, gliene siano stati inflitti altri ventiquattro, cioè due anni, fuori dalla legge. Perché dopo un processo milanese, lui sia stato mandato in luoghi lontani come la Sardegna e la Calabria. Perché sia considerato ancora un terrorista e come tale sia classificato nella detenzione. Ha sofferto e sopportato per due anni e mezzo, dopo che era stato braccato nella sua latitanza più di un boss, dopo che il suo corpo era stato esibito come un trofeo da due ministri (vergogna), mentre i suoi occhi disperati vagavano nel nulla. Tagliategli la testa, ho pensato in quei momenti, perché mi era parso già di vederla rotolare. Di Emilio Fede oggi non si occupa quasi nessuno, qualche cronaca dopo l’irruzione notturna della polizia e lo sdegno, tra i politici, della sola capogruppo di Forza Italia al Senato Annamaria Bernini. Nessuno, o quasi, a vedere la contraddizione tra -m novantenne abbandonato dai più ma pur sempre ancora prigioniero di questa giustizia stracciona ma eterna nella sua perfidia. Ma le baionette sono pronte per il nemico di sempre, quel Cesare Battisti odiato come assassino e invidiato come lo scrittore coccolato nei salotti parigini, ma perfetto “tipo d’autore” per ogni nefandezza. Quanto lui ha deciso di rinunciare al cibo ‘fino alla morte”, gli ha risposto Sergio D’Elia, il fondatore di “Nessuno tocchi Caino”, che si è messo al suo fianco, come fosse Pannella, a digiunare “fino alla vita”, la vita del diritto. Ma intorno intanto fischiavano le pallottole. Da Giorgia Meloni a Maurizio Gasparri: pietà l’è morta, appunto. Contro il nemico. Gli altri, quelli che comunque sostenevano il diritto di Battisti a una detenzione normale, si premuravano di premettere che comunque lui era una specie di mostro e che a loro stava sulle palle. Oltre a essere ripugnante in quanto assassino, ovviamente. Ma c’è anche Vittorio Feltri, per fortuna. Quello costretto a lasciare l’inutile Ordine della nostra categoria, probabilmente perché è il più bravo giornalista esistente. Feltri parla di dignità e del diritto di ogni detenuto, anche un pluriomicida, a “godere di un’esistenza non umiliante”. E si spinge a chiedere alla ministra Cartabia di eliminare l’ergastolo ostativo e l’articolo 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Siamo parlando di Vittorio Feltri, di quel direttore considerato una specie di fascista volgare dai perbenisti del “sono garantista però...”. Lui non usa nessun “però” nel chiedere, non solo per Battisti, alla ministra “di provvedere ad eliminare certe gratuite crudeltà, che contrastano con le caratteristiche di un Paese civile”. Non sempre “Pietà l’è morta”. Ho incontrato Cesare Battisti, ecco come sta e il perché della sua protesta di Enza Bruno Bossio* Il Riformista, 30 giugno 2021 Cesare Battisti è stato trasferito da Rossano Calabro a Ferrara. Nella giornata precedente a quella in cui è stato disposto e poi, conseguentemente, è avvenuto il trasferimento, ho fatto visita alle carceri di Rossano Calabro e ho potuto, personalmente, constatare quanto fosse drammatica la sua condizione. Ho incontrato una persona assai sofferente e provata. Le ragioni della sua protesta erano effettivamente fondate. Una persona costretta per lunghi mesi in una condizione di isolamento che la condanna inflittagli non contempla. Un uomo a cui non venivano garantiti i livelli minimi di civiltà penitenziaria, privato dal godimento dei diritti carcerari riconosciuti dalla legge e dall’ ordinamento costituzionale. Una sottile forma di tortura detentiva. Ieri l’annuncio di una buona notizia, quella della sospensione dello sciopero della fame. Il fatto che Battisti abbia inteso assumere questa decisione solo dopo aver varcato la soglia del carcere ferrarese, potrebbe indurre a ritenere che il trasferimento possa essere una misura atta a determinare la cessazione di una illegale condizione carceraria. Nella nostra breve conversazione avvenuta venerdì durante la visita al carcere, ho notato la sua insistenza rivolta non a chiedere sconti o trattamenti di favore per un detenuto “speciale”, ma ad invocare il rispetto di diritti primari che anche la condanna all’ergastolo non sopprime. È da ritenersi, dunque, che la detenzione a Ferrara non sia di continuità con il carattere illegalmente sanzionatorio di quella vissuta prima ad Oristano e poi a Rossano. Battisti chiede di scontare la sua condanna nella legalità. E non a caso la richiesta primaria che avanza insieme al suo legale è quella di poter conoscere le motivazioni che il DAP ha dato per la classificazione del detenuto da assegnare in Alta Sicurezza. Non è ammissibile che in risposta alle istanze presentate si possa attestare che “la documentazione richiesta è stata sottratta al diritto all’accesso”. Un modo per impedire, persino, l’esercizio del diritto alla difesa. È davvero incomprensibile che, in questo Paese, si possa giustificare e apprezzare la scarcerazione di Giovanni Brusca come un atto dovuto in applicazione della legge e poi, contestualmente, gridare invece allo scandalo per Cesare Battisti che protesta perché è sempre quello stesso Stato che si fa promotore di evidenti violazioni e, così, impedisce che la pena possa essere scontata nel pieno rispetto delle norme vigenti. Nel colloquio in carcere ho notato momenti in cui il “duro” Battisti si è commosso: quando ha ricordato gli occhi di un bambino presente, ahimè, in uno di quei raid degli anni di piombo, e quando mi ha mostrato la foto del piccolo Raul, il suo bambino. Comunque, il tema non è il giudizio etico-politico sul terrorista Battisti, paradossalmente, invece, in questo caso è quello sullo strabismo da parte dello Stato che riconosce a Brusca il diritto del cittadino che in base alla legge riacquista la libertà e a Battisti nega la espiazione di una condanna nelle forme legali. Ciò contribuisce ad alimentare il sospetto che la gestione della detenzione di Battisti sia improntata alla ritorsione e ad uno spirito vendicativo. Insomma, la pena diventa vendetta. *Deputato del Partito Democratico Così la crisi M5S trascina nelle sabbie mobili pure la “nuova giustizia” di Errico Novi Il Dubbio, 30 giugno 2021 Se Cartabia portasse ora gli emendamenti al ddl penale in consiglio dei ministri, i grillini non reggerebbero. E il motivo non è difficile da comprendere. Lo spiega un parlamentare del Pd, forza politica direttamente contro-interessata alla tellurica del Movimento: “Forzare ora sulla prescrizione e sulla riforma penale sarebbe pericoloso: i pentastellati già sono in uno stato di agitazione e smarrimento assoluti, se poi sul tavolo piovessero pure norme a loro indigeste, ne seguirebbe un’ulteriore deflagrazione. Adesso manca una figura in grado di tenere il Movimento unito. Non c’è chi possa offrire una prospettiva di medio- lungo periodo che renda tollerabili i passaggi critici sulle riforme. Non esiste”. È evidentemente così. Oltretutto, è chiara anche l’impossibilità, per l’esecutivo, di ragionare su una clamorosa amputazione, cioè su un’eventuale alleanza di governo che veda i 5 stelle ai margini. “Impossibile”, spiega il parlamentare dem, “si complicherebbe l’intero percorso dell’attuale maggioranza. Sarebbe completamente alterato l’equilibrio da cui è nato l’esecutivo Draghi”. Ed è evidente: il Pd a fine luglio. E chissà se per fine luglio, come pure Cartabia ha assicurato, sarà completa almeno la “parte governativa” della nuova giustizia. In teoria manca poco. Gli emendamenti al ddl penale, come detto, sono pronti. Lo è anche il complicato dispositivo sulla prescrizione. Che fa tesoro della “ipotesi B” avanzata dalla commissione Lattanzi, basata sulla improcedibilità in caso di durata irragionevole e sulla conservazione della legge Bonafede. Soluzione dalla difficile applicazione retroattiva, eppure in grado di ridurre al minimo le intemperanze pentastellate: il blocco alla prescrizione introdotto da Bonafede verrebbe infatti mantenuto, con l’idea di limitare i casi in cui il reato si estingue perché emerso tardi o per la estrema complessità dell’istruttoria (come è in parte avvenuto per la strage di Viareggio, vicenda a cui l’ex guardasigilli del Movimento ha quasi ispirato la propria modifica). Eppure, tanta premura ora non basterebbe. Anche una versione non può permettersi una vita serena in una maggioranza sbilanciata verso centrodestra. Se il Movimento uscisse dal patto di governo, o ne diventasse una componente instabile e incerta, il partito di Letta si troverebbe ospite in casa d’altri. In casa di Salvini, Berlusconi e Renzi, per intendersi. Un incubo. Un incubo che magari finirà nel giro di pochi giorni. Ma che intanto gela il sangue anche a Draghi e Cartabia. Inevitabile dunque che la manovra d’emergenza preveda il temporaneo spegnimento della giustizia. Almeno nei suoi versanti più tormentati: la riforma penale con dentro la prescrizione, appunto, e anche la legge delega sul Csm, che pure non ci si può permettere di affossare. Sul punto, la guardasigilli è stata chiara, due giorni fa a Milano, nella prima tappa del suo “Viaggio nella giustizia”: “Non si può eleggere il nuovo Consiglio superiore con la vecchia legge”. Lo ha ricordato più volte Sergio Mattarella. Lo sa benissimo la ministra. Ma intanto, il futuro della magistratura è materia troppo sensibile, per i 5 stelle, da poter essere trattata nel pieno dell’eruzione. Se ne parlerà, forse, così scrupolosamente attenta alle ritrosie pentastellate non potrebbe essere presentata in Consiglio dei ministri. Tra le anime più inquiete dell’universo grillino, un pur minimo cedimento sulla prescrizione sarebbe il pretesto decisivo per l’addio. Un quadro drammatico per Grillo, ma anche per il governo Draghi. Fino a poche ore fa la ministra della Giustizia puntava forte su quella strategia insolita: portare a Palazzo Chiogi il proprio pacchetto di emendamenti al penale. Idea ritenuta utile, dalla guardasigilli e dal premier, a far prevalere l’orientamento condiviso da molti partiti rispetto al no dei soli 5 stelle. Una liturgia efficace in tempi normali ma non adesso. Tra le poche materie in grado di minimizzare le tensioni c’è invece il ddl sul processo civile, che nei prossimi giorni potrà avanzare in Senato. Altra eccezione è l’equo compenso per i professionisti, pure incardinato in commissione Giustizia, ma alla Camera. D’altra parte il testo base è in quota opposizione: lo ha depositato la leader di FdI Giorgia Meloni, poi lo si è abbinato con le proposte di Jacopo Morroine (Lega) e Andrea Madeli (FI). Alle 19 di oggi scade il termine per gli emendamenti. “L’equo compenso è un provvedimento doveroso nei confronti di migliaia di professionisti, e di avvocati in particolare, che sono privi di adeguati strumenti di tutela”, ricorda Mario Perantoni, deputato 5S che della commissione Giustizia è presidente. “Devo dire che la materia sta a cuore non solo a noi del Movimento ma a tutte le forze politiche, e per questo sono fiducioso sul fatto che entro il mese di luglio possa approdare in aula un testo condiviso”. “Grande soddisfazione” anche da parte di Morrone e dalla deputata leghista che fa da relatrice, Ingrid Bisa: “Da tempo lavoriamo su questo tema: un compenso equo rappresenta un diritto per i professionisti, a lungo colpiti da penalizzazioni, a partire dal cosiddetto decreto ‘ Bersani’, con cui, nei fatti, si è provocato lo scardinamento di quel compenso dignitoso che dovrebbe spettare loro”. Una pur faticosa agibilità legislativa, nella maggioranza, ora come ora può arrivare sul lavoro autonomo, non certo sulla giustizia. Perché i referendum sulla giustizia sono necessari per fermare la deriva dei tribunali di Marcello Lala Il Riformista, 30 giugno 2021 Che la giustizia debba essere riformata e che il paese abbia bisogno di un sistema giudiziario efficiente ce lo dice l’Europa. “Se non riformate addio ai fondi per il Piano nazionale di ripresa e resilienza”, tuona Bruxelles. Quindi, volenti o nolenti, anche a livello internazionale si sono accorti che qualcosa non va nel sistema giudiziario italiano. Napoli è sicuramente e tristemente il simbolo delle storture e delle inefficienze di questo sistema. Lo è per l’inefficienza del settore civile: cause che durano anni, recupero crediti pressoché impossibile, tutela della proprietà quasi nulla, uffici giudiziari che cadono a pezzi, personale insufficiente. Il penale invece è a dir poco imbarazzante tra sentenze “ciclostilate” (è di qualche settimana fa la sentenza trovata in un fascicolo pronta per essere compilata) e intere zone della città in mano alla camorra. In un Paese in cui i gup rinviano a giudizio nel 97% dei casi, la Procura partenopea non brilla di certo: nel 2020, a Napoli, è stato registrato il record nazionale di persone ingiustamente arrestate, addirittura 101. Senza dimenticare i 52mila procedimenti dinanzi al Tribunale di Sorveglianza chiamato a emettere provvedimenti che potrebbe ben adottare un giudice di merito. Per non parlare poi, ampliando il raggio, dei continui scandali che in questi mesi (a partire dal caso Palamara) hanno aperto uno squarcio sulla magistratura politicizzata e sul “sistema” della giustizia in Italia: sentenze politiche, carriere pilotate, scandali costruiti ad arte, depistaggi e corruzione solo per citare alcuni dei mali endemici e penetranti del sistema giudiziario del nostro paese. Nessuno ci leva dalla mente che tutto questo ebbe inizio nel 1993, quando il circuito mediatico giudiziario abbatté la prima Repubblica cancellando un’intera classe politica, con i risultati che oggi sono sotto gli occhi di tutti, e una certa magistratura prese il sopravvento. Noi di Riformismoggi, con l’associazione Nomos Movimento Forense, abbiamo deciso di aderire convintamente al referendum proposto dai Radicali e dalla Lega perché crediamo che sia necessario fare tutto quanto sia possibile per stimolare le riforme e che il ministro Marta Cartabia e il governo Draghi siano i soggetti adatti ad attuarle una volta per tutte. I sei quesiti: responsabilità civile dei giudici; separazione delle carriere dei magistrati sulla base della distinzione tra giudicanti e inquirenti; custodia cautelare; abrogazione del testo unico in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di governo (legge Severino); abolizione della raccolta firme della lista magistrati; voto per i membri non togati dei consigli giudiziari. Sono quesiti a cui chi è socialista, riformista e garantista non può non aderire e che non può non sostenere affinché ci sia una giustizia giusta. I riformisti hanno il compito di bloccare sul nascere la sensazione, ormai diffusa tra i cittadini, che la magistratura e la giustizia da essa amministrata siano come un potere contro e non a favore dei diritti di tutti. Così come nel 1987 i socialisti, insieme con i radicali, promossero il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, rimasto lettera morta a causa della successiva riforma del processo penale dell’allora ministro Giuliano Vassalli che limitò i risarcimenti a carico dello Stato, oggi noi dobbiamo contribuire in maniera determinante e con il massimo impegno, coinvolgendo tutte le forze di ispirazione laica cattolica e socialista, alla buona riuscita dell’istituto referendario e alla realizzazione delle riforme per il Paese, per i cittadini e per la giustizia stessa. È l’Europa che ce lo chiede, è il Paese stesso che ne ha bisogno per essere al passo con i tempi e porre fine allo spettacolo indecoroso di questi ultimi mesi. L’ingiusta detenzione nel 2020 è costata 37 milioni di euro di Pieremilio Sammarco* Libero, 30 giugno 2021 Tra le varie ipotesi di riforma della giustizia in discussione vi è un tema sensibile di grande rilievo sociale: la ingiusta detenzione e segnatamente la custodia cautelare subita da cittadini poi rivelatisi innocenti. In questi giorni sono stati pubblicati nella Relazione al Parlamento per l’anno 2020 elaborata dal Ministero della Giustizia i dati relativi alle misure cautelari personali coercitive emesse nell’anno 2020 e la loro lettura offre un contributo aggiuntivo al dibattito in corso. Nel 2020 sono state emesse dai Tribunali italiani 82.199 misure cautelari di cui quasi il 30% relative alla custodia in carcere ed oltre il 26% relative agli arresti domiciliari. Per i procedimenti giudiziari pregressi, oltre il 9% dei cittadini sottoposti a misure cautelari è stato assolto e dunque ingiustamente privato dai magistrati della libertà personale. Il distretto della Corte di Appello di Roma è quello che ha disposto più di tutti gli altri la custodia cautelare, seguito da quello di Milano. Ma se si analizzano in dettaglio i dati sui provvedimenti di restrizione della libertà personale dichiarati poi illegittimi, la Corte di Appello di Reggio Calabria risulta quella con il più alto numero di flop (43), seguita da Napoli con 40, Roma con 36, Palermo con 34 e Catanzaro con 32. Per quanto riguarda l’aspetto riparatorio, cioè le somme liquidate dai Tribunali per l’ingiusta detenzione, i dati del ministero delle Finanze dicono che per il 2020 l’esborso complessivo è stato di circa 37 milioni di euro ed è riferito a 750 ordinanze, con un importo medio di euro 49.278 ciascuna. E trai distretti di Corte di Appello i cui uffici hanno causato l’indennizzo in favore dei cittadini ingiustamente privati della loro libertà personale, al primo posto della classifica vi è Reggio Calabria con una spesa di quasi 8 milioni di euro, seguita da Catanzaro con 4,5 milioni, Palermo con 4,3 milioni e Roma con 3,5 milioni. Il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione non può essere ritenuto indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento risultato ingiusto. Di interesse è rilevare che attraverso un doppio monitoraggio sia sulle ordinanze di accoglimento delle domande di riparazione sia sulle decisioni della sezione disciplinare del Csm, inspiegabilmente non vi è una correlazione tra il riconoscimento del diritto alla riparazione accertato nei citati provvedimenti e la responsabilità disciplinare dei magistrati che hanno disposto l’illegittima misura cautelare, i quali non vengono mai adeguatamente sanzionati in sede disciplinare. Forse, anziché dibattere sull’abrogazione referendaria della norma che vieta al cittadino danneggiato di chiamare in causa il magistrato ai fini dell’accertamento della sua responsabilità, occorre intervenire sul procedimento disciplinare, al fine di renderlo più credibile agli occhi del pubblico. *Professore di Diritto Comparato dell’Università di Bergamo “La cultura dell’omofobia non si batte con il carcere ma aumentando i diritti” di Valentina Stella Il Dubbio, 30 giugno 2021 Per Alessandro Barbano, giornalista e saggista, il Ddl Zan ha il limite di voler superare le discriminazioni non con una pedagogia culturale ma con il carcere. Il paradosso è che il primo a discriminare è proprio lo Stato quando nega alle coppie dello stesso sesso i diritti delle famiglie etero. In un Paese già sofferente per il panpenalismo, ci voleva il Ddl Zan a creare nuovi reati? È una tendenza tipicamente italiana quella di usare il diritto penale per promuovere cambiamenti sociali, per affermare valori e diritti, per rispondere a tutte le aspettative illusorie e ideologiche di una società. Il Ddl Zan è un esempio clamoroso di questa inclinazione, tipica dei regimi: il diritto penale in un sistema liberale dovrebbe essere l’extrema ratio che protegge valori pienamente consolidati. Ad esempio il reato di omicidio è perseguito perchè, quand’anche non esistesse una norma a disciplinarlo, nella coscienza di tutti è comunque già considerato una condotta illegale. E poi chiediamoci: qual è l’obiettivo vero del Ddl Zan? A me sembra che si voglia imporre, in forma coattiva, una sorta di egemonia culturale. La parità dei diritti non si conquista con il carcere quindi? Il primo a discriminare la condizione delle coppie omossessuali è lo Stato quando nega ad esempio il matrimonio civile e il diritto di adozione per le coppie dello stesso sesso, ossia quando non fa nulla per raggiungere la piena equiparazione al regime previsto per le famiglie etero. La prima cosa da fare per rafforzare un valore in via di consolidamento è creare una cornice civile di parità effettiva tra le varie posizioni in campo. L’omosessualità è una libertà umana, non una specie protetta né una rivincita del progresso sulla storia. Qual è il suo pensiero sull’iniziativa della Santa Sede? Chiedere alle scuole cattoliche di celebrare la Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia e la transfobia è come chiedere ad un ateo di recitare l’Ave Maria. Partendo dal presupposto che la condizione dell’omosessualità sia discriminata nel nostro Paese e che ciò comporti un grande carico di sofferenza, tuttavia è evidente che le forme e le modalità con cui si voglia superare questa discriminazione siano inadeguate. Il lavoro da fare è culturale non punitivo. Anche perché, come nel caso del ragazzo che si è suicidato a Torino probabilmente perché bullizzato per la sua omosessualità, come si fa a stabilire se vi sia stata una istigazione al suicidio? Ricondurre il suicidio ad una azione discriminatoria è molto difficile. Un diritto penale liberale rinuncia a stabilire facili connessioni causali tra le idee e il fatto, che pure ad esse sembra ricondursi secondo il senso comune. Quale umiliazione, quale insulto, quale discriminazione potrebbe tradursi nella condotta penalmente rilevante che avrebbe indotto il ragazzo a togliersi la vita? Allargando lo sguardo, come giudica il comportamento del Pd in materia di giustizia? Credo che il Pd sia subalterno al M5S e alla paura di perdere quel rapporto privilegiato che per anni ha avuto con parte della magistratura. Dopo la fase di riformismo tentato e fallito della stagione di Matteo Renzi, il Pd ha ripiegato sugli slogan e sugli schemi che hanno caratterizzato la sua posizione nella seconda Repubblica, quella della lotta a Berlusconi. Quindi mi pare che il Pd debba assumersi la responsabilità di aver caratterizzato il decennio 2010 - 2020 con un giustizialismo imperante. Le legge Severino chi l’ha sostenuta? E l’estensione del codice antimafia ai reati contro la pubblica amministrazione o l’uso disinvolto del trojan? Tutto quello che è avvenuto in quel decennio porta la firma di un guardasigilli del Partito Democratico. Chi è che per primo ha teorizzato l’interruzione della prescrizione dopo il giudizio di primo grado? Non è stato Bonafede ma Felice Casson, uno dei magistrati imbarcati dal Pd per fare la guerra a Berlusconi. Il Pd sta tornando drammaticamente su quelle posizioni, vuoi per un vuoto di cultura giuridica dell’attuale leadership, vuoi per un tatticismo che gli suggerisce erroneamente di non farsi scavalcare a sinistra dai cinque stelle. Ha citato la Legge Severino. Deduco che andrà a firmare per i referendum promossi dal Partito Radicale e dalla Lega... Assolutamente sì, andrò. Anche se manca in quel pacchetto un quesito per l’abolizione dell’ergastolo, ma non poteva essere diversamente visto che i radicali hanno scelto di condividere l’iniziativa con un partito giustizialista e falsamente garantista come la Lega. Si tratta di quesiti complementari alla riforma della giustizia che si sta portando avanti in Parlamento. Come ho detto due giorni fa durante la conferenza stampa di presentazione di presuntoinnocente.com promossa dall’onorevole di Azione Enrico Costa, la giustizia è affetta da tre distorsioni. La prima concerne l’assetto dei poteri: oggi la giustizia è diventata il tutore e il garante del sistema politico. Ciò è sbagliato perché la nostra è una democrazia parlamentare. Qualora un primato dovesse essere assegnato, questo spetterebbe alla funzione legislativa. La seconda distorsione riguarda il processo accusatorio incompiuto dove le garanzie della difesa sono fortemente compresse. La terza e più importante riguarda il racconto che i media e i procuratori fanno della giustizia e delle vicende di cronaca. Certi tipi di narrazione anticipano agli occhi dell’opinione pubblica l’eventuale condanna. Come se ne esce? Con una pedagogia culturale che spieghi ai cittadini che cos’è il diritto penale, ossia l’extrema ratio della democrazia, e non lo strumento, come dicevano alcuni magistrati, per affermare l’innocenza dell’indagato, quasi che fossimo tutti presunti colpevoli. Quando si afferma un convincimento di questo tipo è la fine dello Stato di Diritto. Calabria. Il Garante: “Sovraffollamento delle carceri e problemi legati all’assistenza” Gazzetta del Sud, 30 giugno 2021 “Continuano le visite ispettive del Garante regionale delle persone detenute o private della libertà personale, Agostino Siviglia, che dopo l’istituto di Crotone ha visitato la Casa di Reclusione di Rossano. Purtroppo, ancora oggi, evidenzia il Garante, continuiamo a fare i conti con il sovraffollamento penitenziario, reso ancor più insopportabile dalle temperature torride di queste settimane. Anche a Rossano come a Crotone, per vero, la popolazione detenuta è in sovrannumero rispetto alla capienza regolamentare: rispettivamente, a Rossano le persone detenute sono 282 a fronte di una capienza regolamentare di 242 ed a Crotone ci sono invece 142 persone detenute a fronte di una capienza regolamentare di 88. Oltre al sovraffollamento, evidenzia Agostino Siviglia, stentano a ripartire le consuete attività trattamentali, sospese durante la fase di maggiore recrudescenza della pandemia, così come ancora non sono ripresi compiutamente i colloqui in presenza con i familiari ed i trasferimenti, peraltro, già disposti dall’Amministrazione Penitenziaria”. Al Garante “sono state segnalate, soprattutto, problematiche connesse all’assistenza sanitaria in carcere, ovvero ai ritardi delle decisioni in tema di permessi premio o accesso alle misure alternative alla detenzione. In specie, l’istituto penitenziario di Rossano, che si ricorda è l’unica Casa di Reclusione della Calabria, ospita in gran parte persone detenute in regime di alta sicurezza, con pene oramai definitive e di lunga durata, oltre ad ergastolani ostativi ed ordinari; una sezione di terrorismo islamico ed una sezione di media sicurezza. Si tratta, dunque, di una struttura estremamente complessa da gestire che, certamente, sarà oggetto di specifica attenzione da parte del Garante regionale. Nelle prossime settimane, per vero, Siviglia invierà, alla competente commissione consiliare del Consiglio regionale, un’accurata relazione semestrale sull’attività istituzionale svolta, evidenziando i maggiori punti di criticità, ma anche le buone prassi riscontrare, indicando le principali aree di intervento. Nel frattempo, tutte le segnalazioni rappresentate al Garante saranno oggetto di specifico intervento. Certamente, conclude Agostino Siviglia, deve tenersi alta l’attenzione sul sistema penitenziario calabrese, al fine di garantire la più compiuta tutela e salvaguardia delle persone detenute, nell’ottica della loro risocializzazione ed in ossequio alla dignità della persona umana, che la Costituzione repubblicana sancisce e che lo Stato democratico è chiamato a fare rispettare”. Sassari. Dal cibo alle cure mediche, 19 detenuti in sciopero della fame per protesta di Emanuele Floris sassarioggi.it, 30 giugno 2021 Diciannove detenuti in sciopero della fame dal 22 giugno nella casa circondariale di Bancali a Sassari. Lo denunciano gli stessi ospiti della nona sezione islamica, la cosiddetta sezione AS2, con un documento trasmesso ai massimi referenti istituzionali dal garante dei detenuti di Sassari Antonello Unida. A motivare lo sciopero, così si legge nella nota, “la scarsa quantità e qualità del cibo”. Con l’aggravante, per loro, della carne, non macellata secondo il rito della religione musulmana, credo professato dai diciannove. Un’assenza che a Bancali perdura da quattro anni nonostante, sostengono gli estensori della nota, in altre strutture penitenziarie questo non avvenga. L’altro problema denunciato è quello relativo all’area sanitaria, con diverse operazioni chirurgiche in attesa da mesi e pur capendo i rallentamenti dovuti al virus, “vero è”, sottolineano, “che noi patiamo pena alla pena”. A questa situazione si aggiunge il personale insufficiente dell’area educativa. “Tutto questo va avanti da troppo tempo - concludono i detenuti, tutti provenienti da Nord Africa e dalla Siria - noi siamo allo stremo, non c’è la facciamo più”. Un contesto complesso confermato dallo stesso Unida: “Alzeranno l’asticella e continueranno con lo sciopero della sete”. Proprio il garante rimarca come l’assenza in pianta stabile, a Bancali, di un direttore e un comandante della polizia non aiuti nella soluzione del problema. “La situazione è molto grave. Bisogna intervenire “, chiosa Unida. Livorno. “Carceri inadeguate. Detenuti, educatori e agenti sono a rischio” di Matteo Scardigli Il Tirreno, 30 giugno 2021 A rischio detenuti, educatori e guardie delle Sughere e dell’isola di Gorgona. Il Movimento 5 Stelle fa il punto su lavori e progetti delle due case circondariali, chiede al governo garanzie per i diritti e avverte: “Entro il 2023 in arrivo quasi 300 carcerati, ma le strutture sono inadeguate per il personale e per i reclusi. E i nuovi agenti non vogliono venire a Livorno”. Alloggi e sezioni fatiscenti, collegamenti del trasporto pubblico insufficienti e parcheggi inadeguati. “Quando il ministro Bonafede e il sottosegretario Ferraresi sono venuti negli anni scorsi a Livorno e Gorgona abbiamo messo in luce il tema dei diritti. Ma l’Italia continua ad essere oggetto di sanzioni per le condizioni di sovrappopolazione carceraria”, premette il deputato M5S Francesco Berti, che poi racconta: “A Livorno, se da un lato i lavori al tribunale di via De Larderel sono finalmente pronti a partire, alle Sughere forse si riusciranno ad avere 50 posti letto entro il 2022 per gli agenti che entro dovranno fare fronte, entro l’anno successivo, a un sostanziale raddoppio della popolazione carceraria”. “Per metterlo a norma servono 3,6 milioni (il denaro è già stanziato, la consegna è prevista per l’agosto 2023; ndr), un’operazione strategica per attrarre le reclute della Polizia penitenziaria che oggi preferiscono lavorare altrove perché a Livorno mancano i servizi”, spiega l’ex Garante dei detenuti Giovanni De Peppo, che poi precisa: “Si stanno già ristrutturando le otto sezioni che accoglieranno quasi 250-300 nuovi ospiti per un totale di circa 600, ma altre aree sono interdette. E con il prossimo pensionamento del direttore Carlo Mazzerbo, e le difficoltà nell’attrarre nuovo personale, rischiamo di perdere le competenze su cui Livorno è riuscita a costruire negli anni una rete virtuosa”. In tal senso De Peppo applaude al protocollo firmato a giugno scorso dal sindaco Luca Salvetti per la ripresa delle attività di rieducazione dei detenuti in chiave etica, e la capogruppo M5s in consiglio comunale Stella Sorgente ribadisce: “Bisogna mantenere continuità con il nostro operato e con quello del governo. A Livorno manca un autobus per le famiglie che vanno a trovare i detenuti, il servizio a chiamata non basta. E con l’aumento della popolazione carceraria è opportuno ripensare anche l’intera area di sosta, già insufficiente”. Ferrara. Le biciclette rimosse e abbandonate ai detenuti estense.com, 30 giugno 2021 Dal Comune sostegno al laboratorio “Ricicletta” in carcere per la formazione e il reinserimento. A Ferrara la bicicletta è anche un mezzo per favorire il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, grazie a un protocollo d’intesa che ha ottenuto il via libera della giunta municipale e che sarà sottoscritto da Comune di Ferrara, Casa Circondariale “Costantino Satta” e Cooperativa sociale Il Germoglio. Su proposta dell’assessore alle Politiche sociali Cristina Coletti, l’amministrazione comunale si impegna, infatti, a sostenere le attività formative rivolte ai detenuti del carcere cittadino in materia di manutenzione e recupero delle biciclette. In particolare, il Comune si rende disponibile a donare alla Cooperativa Il Germoglio, che dal 2017 gestisce all’interno del carcere il laboratorio ‘Ricicletta’, le biciclette rimosse per violazione del Codice della strada e acquisite al patrimonio comunale come oggetti abbandonati, non reclamati dai proprietari e privi di valore economico. “In questo modo - spiega l’assessore Cristina Coletti - offriamo ai partecipanti alle attività formative del laboratorio materia prima su cui esercitarsi per acquisire nuove competenze, spendibili poi nel mondo del lavoro, al termine del percorso detentivo. Si tratta di un progetto di grande valore per tutta la comunità, poichè, favorendo percorsi individuali di reinserimento delle persone detenute, ne facilita il reintegro in società, promuovendo comportamenti responsabili e prevenendo il rischio di recidiva”. L’attività del laboratorio si concretizza secondo un percorso formativo curato dalla Cooperativa Il Germoglio che si sviluppa in tre fasi: una prima fase teorica con un corso sulla sicurezza del lavoro; una seconda fase teorica in cui vengono definiti all’interno del gruppo le attrezzature necessarie, i materiali utilizzati, le procedure da seguire, le regole e i criteri d’impiego. E una terza fase operativa in cui i detenuti si dedicano al recupero delle biciclette attraverso alcuni step di lavoro. In quest’ultimo ambito i partecipanti lavorano in particolare sui telai, procedendo allo smontaggio, alla pulizia, verniciatura e rimontaggio, fino all’uscita dal carcere del prodotto finito per il collaudo e la vendita da parte degli operatori di Ricicletta. Il protocollo d’intesa, che avrà una durata di tre anni rinnovabile, prevede da parte della Casa circondariale l’impegno a individuare i detenuti da inserire nelle attività formative e a favorire il buon andamento dell’iniziativa. Milano. Pene alternative, da settembre detenuti al lavoro negli spazi pubblici milanosud.it, 30 giugno 2021 Il 24 giugno le Commissioni Carceri e Politiche sociali del Municipio 5 si sono riunite per discutere un ordine del giorno sui lavori di pubblica utilità. Ospite la dottoressa Monica Gasparini del settore Politiche sociali - Area diritti, inclusioni e progetti del Comune di Milano, che si occupa dell’attuazione di una convenzione che il Comune ha stipulato con il Tribunale ordinario di Milano (rinnovata nel 2018 e reperibile sul sito del Tribunale di Milano nell’area Lavori di Pubblica utilità). La nostra città, come ha attestato “La Repubblica” il 24 gennaio 2020, è la “capofila delle pene alternative” in tutta Italia, dato l’ampio numero di condannati che svolgono questo tipo di attività sociale per sanare la pena. Durante il dibattito in Commissione è emerso l’apprezzamento per l’impiego di detenuti per lavori di pubblica utilità, sia per il Comune che per chi deve scontare una pena di meno di tre anni. Inoltre è stato sottolineato che nel Municipio 5 ci sono numerosi posti dove si possono svolgere questo tipo di lavori, come per esempio il Cimitero di Chiaravalle. Il Municipio si è quindi impegnato a segnalare i luoghi in cui accogliere le persone che verranno avviate a tali tipi di lavoro, indicando già da ora prioritariamente gli spazi comunali per lo sport. Presente in Commissione anche il direttore del Municipio Ing. Porretti che ha concordato le modalità per avviare l’iter burocratico con il settore presieduto dalla dottoressa Gasparini e rendere operativa la convenzione anche nel Municipio 5 già da settembre prossimo. Così, sull’esempio virtuoso del Municipio 8 dove la convenzione opera a pieno regime, anche altri municipi si affiancano alle associazioni private nel dare ospitalità e godere dell’attività prestata gratuitamente al fine di evitare la pena interdittiva o l’ammenda per reati di lieve entità come ad esempio la guida in stato di ebbrezza da cui non siano derivate conseguenze a terzi. Lecce. L’economa circolare per l’inclusione sociale dei detenuti di Simone Di Conza nelpaese.it, 30 giugno 2021 Cosa accade quando ad un’esistenza viene concessa un’opportunità di riscatto, mettendo al servizio della comunità il tempo trascorso in detenzione? È quel che è successo nel progetto “Green Compost”, da poco concluso, presso la Casa Circondariale di Lecce. Alle tante importanti iniziative di recupero e valorizzazione di beni sottratti alla mafia e alla camorra, si affiancano progetti come questo, in cui ad essere recuperate e valorizzate sono invece le vite dei detenuti. Ed anche in questo caso i benefici per la società sono concretissimi ed al contempo ideali. Grazie alle azioni portate avanti dall’Associazione Green Life, i detenuti dell’istituto penitenziario hanno conciliato aspetti di economia circolare ed attività rieducative. Gli esiti? Nella casa circondariale la popolazione detentiva e gli operatori hanno collaborato per modificare il sistema di raccolta e gestione dei rifiuti prodotti all’interno del carcere e attuare il recupero della frazione organica dei rifiuti stessi al fine di reimpiegarli nelle colture agricole e delle aree verdi dell’Istituto, con un significativo risparmio per l’intera comunità. Al tempo stesso, i detenuti hanno avuto modo di acquisire nuove professionalità, ben spendibili in una prospettiva di reinserimento lavorativo. Un circuito virtuoso di inclusione sociale e rieducazione si combina ad azioni di trattamento dei rifiuti e compostaggio di comunità, in un percorso partecipativo di riqualificazione e formazione e di vantaggi ambientali derivanti da quelle medesime azioni di recupero sociale. Il progetto inoltre risulta un possibile modello di buona prassi, facilmente replicabile in altri istituti detentivi con caratteristiche simili, soprattutto nell’ottica di considerare analoghe strutture penitenziarie come comunità “viventi” ed in grado di influire positivamente con il tessuto sociale e produttivo del territorio. Pistoia. Il film teatrale arriva da dietro le sbarre quinewspistoia.it, 30 giugno 2021 Proiezione evento a ingresso gratuito per l’opera che vede interpreti i detenuti attori della casa circondariale pistoiese Santa Caterina. Al teatro Mauro Bolognini, venerdì 2 luglio alle 21,15 si terrà la proiezione del film teatrale “L’anima buona de Seuzan”, per la regia di Jacopo Belli. È il prodotto del progetto di ricerca pratica e disciplina teatrale con musica dal vivo “Semi di rinascita 3.0”, interpretato dai detenuti attori della casa circondariale Santa Caterina di Pistoia che hanno partecipato al percorso annuale. “Semi di rinascita” è nato nel 2017 e prevede la pratica del teatro fisico con musica dal vivo, ma anche lo studio di autori teatrali e la messa in scena ogni anno, o comunque periodicamente, di un’opera inedita, che in casi come quello di quest’anno può essere anche liberamente riadattata dall’opera omonima, in questo caso di Bertolt Brecht. Il progetto è realizzato in compartecipazione con il Comune di Pistoia e con il contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, nell’ambito del bando Socialmente 2020. Il film teatrale è prodotto dall’associazione Biribà-APS-teatro di natura, girato dall’artista pistoiese Sara Bargiacchi e montato da Sara Bargiacchi e Alessio Celli. La regia è a cura di Jacopo Belli, che è anche responsabile e curatore del progetto. Assistenti alla regia sono l’artista fiorentina Linda Salvadori e la pistoiese Vera Biagioni. La proiezione sarà preceduta da una breve presentazione del regista e delle collaboratrici, che saranno a disposizione per dialogare col pubblico e animare un piccolo e ordinato dibattito dopo la proiezione-evento. Inoltre, nel corso della serata Jacopo Belli proporrà delle sonorizzazioni dal vivo e alcuni brani musicali tratti dal suo disco in prossima uscita Camera dei suoni, mentre Paolo Giordano interverrà con pezzi inediti e in linea con l’opera di Brecht, che è fulcro dell’intero lavoro svolto, di teatro di figura. L’ingresso è libero e con offerta libera e volontaria. È raccomandata la puntualità per permettere di ottemperare alle procedure dettate dalla normativa anti Covid-19. “La vendetta del boss, l’omicidio di Giuseppe Salvia”, speranza e perdono nel libro di Mattone recensione di Angela Stella Il Riformista, 30 giugno 2021 Antonio Mattone ne “La vendetta del boss - L’omicidio di Giuseppe Salvia” (Guida Editori, pag. 517, Euro 20) “è spinto a scrivere la storia” di un servitore fedele dello Stato “da una passione: quella per il dramma della vita carceraria che, ben lontano dall’antica ma sempre valida prospettiva di Cesare Beccaria, riproduce la criminalità, più che rinnovare le persone”. Così scrive Andrea Riccardi, Fondatore della Comunità di Sant’Egidio, nella prefazione del libro che ripercorre la storia del vice direttore del carcere napoletano di Poggioreale ucciso il 14 aprile 1981 dalla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Il volume verrà presentato domenica 4 luglio, con la presenza anche di un nostro giornalista, alle ore 17 presso la sala della Fondazione Premio Napoli a Palazzo Reale all’interno della più ampia manifestazione culturale “NapoliCittàLibro - il salone del libro e dell’editoria di Napoli”. Cutolo, morto lo scorso febbraio a 79 anni di cui 57 trascorsi dietro le sbarre, aveva sempre negato di essere stato il mandante di quel barbaro assassinio, anche se la giustizia lo aveva condannato all’ergastolo. Poi, come racconta Mattone, quando lo incontrò nel 2019 nel carcere di Parma dove era rinchiuso al 41 bis, Cutolo confessò per la prima volta: “sì, l’ho fatto io l’omicidio di Salvia. Lui si accaniva contro di me, non so perché, non lo faceva con gli altri, ma mi faceva sempre perquisire. E per questo gli diedi due schiaffi”. In realtà, come si evince dalle numerose testimonianze raccolte nel libro, Salvia non si accaniva contro nessuno, faceva semplicemente rispettare i regolamenti: “aveva una grande umanità e, nello stesso tempo, manteneva un fermo rispetto delle regole. Non era un burocrate esecutore, né un ingenuo sognatore. Il suo atteggiamento fin dall’inizio fu di grande ascolto e comprensione per i problemi dei carcerati e di coloro che lavorano all’interno della struttura”, ossia il carcere di Poggioreale. Tra gli anni Settanta e Ottanta l’istituto di pena, una tra più sovraffollati ancora adesso (su 1476 posti regolamentari disponibili, ci sono 2053 detenuti), era una vera palestra di delinquenza, dove a comandare erano i detenuti eccellenti, in primis il boss Cutolo, con la complicità di diverse guardie carcerarie, deferenti più verso il potere criminale che verso la legge, o semplicemente impotenti e impaurite dalle possibili ritorsioni. Eppure in quel contesto di profondo degrado sociale, Salvia non si è girato mai dall’altra parte, ha sempre lavorato per un carcere giusto da un lato e rigido nel rispetto delle norme dall’altro. Il funzionario fu colui che “non volle fare il penalista per non avere a che fare con i delinquenti” ma allo stesso tempo “la sua indole non gli avrebbe consentito mai di condannare qualcuno”. E allora scelse di stare lì dove la pena si esegue, “incarnando quella che Benedetto Croce definì ‘la religione del dovere’”, e tentò con tutte le sue forze, spesso lasciato solo da chi stava sopra di lui, affinché il potere dei boss non prevalesse su quello dello Stato. Ma pagò con la sua vita per questo: mentre guidava sulla tangenziale di Napoli per tornare a casa dall’amata moglie Giuseppina, conosciuta quando lei aveva solo 15 anni, fu crivellato da diversi colpi e morì sul colpo, lasciandola vedova a solo 33 anni. Tuttavia il suo sacrificio fu presto dimenticato. Riccardi ricorda: “l’assassinio di un vice direttore, che voleva un carcere ‘legale’, si scontrava con una pratica diversa che, in alcuni casi, sembra utile alla politica. Confondere e dimenticare sono il modo di sopravvivere per una cultura politica carica di contraddizione”. Ed infatti pochi giorni dopo l’uccisione di Salvia, venne rapito dalle Br l’assessore regionale democristiano Ciro Cirillo, “per la cui liberazione pezzi di Stato e della stessa Dc sollecitarono Cutolo. L’autorevolezza di questi, già forte dentro Poggioreale, in crescita in Campania, ebbi quasi una consacrazione politica. Il suo intervento, prima negato, è stato poi acclarato. La vicenda Cirillo - nota l’Autore - con l’intervento di Cutolo fece scivolare in ombra l’omicidio Salvia”. In più, evidenzia Mattone, ai funerali “l’assenza del ministro di Grazia e Giustizia non passò inosservata, così come quella del Cardinale Ursi”. Ma l’aspetto più sorprendente fu che nel processo a carico degli esecutori e dei mandanti dell’omicidio “lo Stato, non costituendosi parte civile, dopo averlo lasciato solo in vita, anche da morto ne prese le distanze”. A ciò si aggiunge che solo nel 2013 il carcere napoletano venne finalmente intitolato a Giuseppe Salvia. Tuttavia il libro non è solo narrazione di un dramma personale: è il racconto del rapporto tra camorristi e Br, dei cambiamenti di prospettiva nei confronti dei detenuti a seguito del Concilio Vaticano II per cui “non dovevano essere più considerati persone da evitare ma tutto sommato erano dei bisognosi anche loro”, dei sanguinosi fatti avvenuti nel carcere nella notte del tragico terremoto che sconvolse l’Irpinia, dell’entrata in prigione con iniziale scetticismo degli educatori, è una critica ai falsi pentiti, è la denuncia delle torture della ‘cella zero’, ma soprattutto è una luce sul senso rieducativo della pena e una denuncia degli ostacoli che impediscono ancora oggi l’attualizzazione dell’articolo 27 della Costituzione. In uno sfogo con il giornalista del Mattino Enzo Perez, Salvia disse: “Le condizioni di vita nel gigantesco carcere sono proibitive, a volte impossibili per i detenuti e gli agenti di custodia. Un bubbone di malessere nel quale fermentano e si sprigionano solo sentimenti di vendetta, di odio e di morte. Come si fa a parlare di rieducazione e reinserimento futuro nella società in questo modo?”. C’è un punto ancora più apprezzabile del libro per chi, come questo giornale, negli ultimi mesi di vita di Raffaele Cutolo - che fu detenuto dal 25 marzo 1971 e messo tra i sepolti vivi del 41 bis dal 20 luglio 1992 - ha denunciato un accanimento nei suoi confronti da parte di uno Stato più di vendetta che di Diritto, avendogli negato non la liberazione bensì la detenzione domiciliare per motivi di salute e avendolo lasciato morire solo e gravemente ammalato nel carcere, lontano dalla sua famiglia. Ebbene, anche l’autore ha “avuto la sensazione di un accanimento inutile contro questo vecchio che, è vero, forse è stato il più grande criminale italiano di tutti i tempi, ma le restrizioni che subisce sono troppo disumanizzanti. Anche lui sa bene che non può aspirare alla libertà, ma si potrebbe riservare un trattamento più umano, che certamente non cancellerebbe le sue colpe e le sue condanne”. Le pagine migliori sono quelle dedicate alla famiglia di Giuseppe Salvia e alla loro riconciliazione con chi sbaglia. Nonostante il male subìto, Riccardi nella prefazione scrive che “Claudio, figlio di Giuseppe, non coltiva odio verso Cutolo ed è sensibile alla condizione dei carcerati. Mattone è rimasto colpito dalla dignità e dalla capacità di perdono della famiglia Salvia”. Tant’è vero che ormai da diversi anni lui e sua madre partecipano al pranzo di Natale organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio a Poggioreale: Claudio, che oggi lavora in prefettura, mentre suo fratello maggiore Antonino è impiegato nell’amministrazione penitenziaria come formatore del personale, “aveva avuto - scrive Mattone - un senso di scetticismo sul recupero dei detenuti, soprattutto di quelli incalliti. Li considerava irrecuperabili e quella casa circondariale era il luogo dove riteneva fosse radunato il peggio della società”. Ma decise comunque di varcare “quel portone angosciante e, senza darne troppa pubblicità, servì a tavola i carcerati e riuscì anche a scambiare qualche parola con alcuni di loro. Quando uscì dal carcere aveva il morale a mille: “camminavo a due metri da terra - ricorda -mi sentivo il cuore pieno ed ero soddisfatto della giornata. Aveva avuto contatto con una realtà che pensava completamente diversa. I carcerati erano persone come tutte le altre e gli vennero in mente le parole del padre, attraverso i racconti della madre: quando non si ha una guida, una famiglia che ti educa, allora è facile perdersi”. Lo stesso disse la madre: “erano persone che avevano sbagliato ma vedevo nei loro occhi la speranza di uscire e riabilitarsi”. Lo stesso concetto di ‘speranza’ richiamato ormai nelle sentenze sia europee che nazionali per denunciare l’incompatibilità dell’ergastolo ostativo con la Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali e con la nostra Carta Costituzionale. “L’urlo di Moussa Balde ha superato mura e sbarre” di Giansandro Merli Il Manifesto, 30 giugno 2021 La conferenza stampa. In parlamento arriva il “Il Libro nero del Cpr di Torino”, scritto dopo il suicidio del ragazzo. “L’urlo che ha lanciato Moussa Balde togliendosi la vita ha superato mura e sbarre del Cpr di Torino”, ha detto ieri l’avv. della difesa Gianluca Vitale, in conferenza stampa alla Camera. Non capita spesso quando muore un migrante, un “clandestino”, che l’attenzione pubblica superi il tempo di un tweet indignato. Con Balde, il ragazzo aggredito a Ventimiglia e trasferito dall’ospedale al Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr), forse è accaduto qualcosa di diverso: la rete No Cpr si è mobilitata due volte davanti al centro; gli avvocati di Asgi hanno manifestato il 4 giugno in piazza Castello; Nicola Fratoianni (LeU) ha presentato un’interrogazione parlamentare alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese il 9 giugno; il 23 del mese si è tenuta una preghiera interreligiosa con autorità cittadine. È stata organizzata una raccolta fondi per riportare la salma a casa, in Guinea. IERI, POI, “Il Libro nero del Cpr di Torino” pubblicato da Asgi a inizio giugno è giunto a Roma. “Questa conferenza stampa serve a dare attenzione al testo all’interno del parlamento, la sensibilità alle violazioni dello stato di diritto che avvengono nei Cpr è insufficiente”, ha affermato Riccardo Magi (+Europa). Durante l’incontro sono state denunciate le problematiche specifiche del Cpr piemontese, ma anche quelle più ampie del sistema di detenzione amministrativa. La pubblicazione di Asgi è un piccolo libro degli orrori che assembla storie e voci dei reclusi: quella di Hossain Faisal, morto l’8 luglio 2019 dopo quasi 5 mesi di isolamento; quelle di chi per protesta ingoia lamette e pile, si frattura gli arti, si cuce le labbra; di chi è malato di leucemia ma riesce a ottenere un esame medico solo 49 giorni dopo l’inizio della detenzione; oppure di chi finisce in isolamento nelle “celle di sicurezza” non ufficiali o all’”Ospedaletto”, che i giuristi ritengono luoghi illegali e il Garante nazionale dei detenuti ha chiesto di chiudere. È PROPRIO all’Ospedaletto che è deceduto Balde. L’autopsia ha confermato l’ipotesi della morte autoinflitta, ma nel corso delle indagini il capo di accusa è cambiato: da istigazione al suicidio a omicidio colposo. Nel registro degli indagati, per ora, sono iscritti direttrice e responsabile medico del Cpr. Sembra che le indagini della Procura torinese non si stiano limitando alla vicenda singola, ma stiano passando sotto la lente tutto il funzionamento del centro di detenzione. Al 24 giugno erano rinchiusi nei Cpr italiani 452 migranti, tutti uomini (su 786 posti). Lo ha detto ieri Daniela De Robert, membro del collegio del Garante nazionale dei detenuti. De Robert ha sottolineato come negli anni la media dei migranti transitati nei Cpr e poi espulsi resti intorno al 50%. Vale anche per i 4.387 reclusi del 2021. La detenzione amministrativa, quindi, nella metà dei casi risulta ingiustificata perfino in base alla funzione che le attribuisce la legge: il rimpatrio. Come nel caso di Balde visto che, ha ricordato De Robert, “nessuno è stato espulso in Guinea negli ultimi anni”. L’avv. Lorenzo Trucco, presidente Asgi, ha definito i Cpr “uno squarcio nel nostro sistema di diritto”. Psichiatria. Una riforma radicale, per non tornare all’Opg di Pietro Pellegrini* Il Manifesto, 30 giugno 2021 La “rivoluzione gentile” che ha portato alla chiusura degli OPG richiede un più avanzato punto di incontro tra politica, giustizia, psichiatria e sociale. In questa direzione va la recente ordinanza n.131/2021 della Corte Costituzionale che sulla base di rilievi di costituzionalità della legge 81/2014 sollevati dal Tribunale di Tivoli richiede a ministeri e regioni dati e modalità di funzionamento del nuovo sistema. Un approccio apprezzabile che prende atto di una situazione profondamente cambiata non riportabile allo stato precedente e agli OPG. Per questo i codici vanno rivisti togliendo la parola “internati” e l’art 222 del c.p. (che prevede il ricovero in OPG che non esiste più!) cancellare il doppio binario, promuovere l’imputabilità e il principio di responsabilità sia per la terapia sia per la sicurezza. Le persone vanno giudicate per l’atto commesso, devono avere il diritto al processo, cioè a confrontare con la legge, espressione della comunità, le proprie convinzioni e motivazioni. L’ascolto partecipe dà diritto alla parola, al punto di vista della persona, riconosciuta interlocutore degno di attenzione e non infantilizzato o reso alieno. Vi è bisogno di chiarezza per creare le migliori condizioni per la cura e la prevenzione di nuovi reati. Occorre assicurare il diritto alla salute a prescindere dallo stato giuridico e al contempo, il diritto alla giustizia in ogni condizione, supportando con più diritti le persone fragili. Se con la legge 180 il malato mentale è diventato cittadino, portatore di diritti e doveri salvo che in ambito penale, dopo la legge 81 si può completare il percorso. Ha diritto alla giustizia ed ha bisogno della parola della legge. L’incapacità a stare in giudizio per disturbi mentali va superata con il supporto culturale e professionale. Laddove sono maggiori i problemi della comunicazione, vanno fatti sforzi per ripristinarla in quanto fattore essenziale per la regolazione degli affetti e dei comportamenti. La riforma deve abolire la “pericolosità sociale” del malato mentale perché non ha fondamenti scientifici. Possono essere al più valutati i fattori di rischio e protezione. Le misure di sicurezza detentive “provvisorie” sono confusive e di fatto “cautelari”, mentre quelle “definitive” vanno sostituite da pene la cui esecuzione dovrà tenere conto delle condizioni di salute della persona. Il reato è sempre molto presente nel suo mondo interiore e su questo occorre lavorare con gli strumenti della psichiatria di comunità, tenendo conto del contesto culturale, religioso, filosofico, e promuovendo l’assunzione di responsabilità, di forme di elaborazione, di riparazione possibile, di riconciliazione, di ristoro. Un percorso doloroso, difficile e complesso che la psichiatria cerca di realizzare con la persona e la sua famiglia, all’interno del quale il ruolo della giustizia e della comunità sono fondamentali. Si sono create misure di cura e giudiziarie di comunità, basate sulla reciproca responsabilità, dove la valutazione non è oggettivante ma di sistema, è centrata sulla persona e sul suo contesto, nel quale sono attori anche il sistema curante, della giustizia, del sociale, dell’ordine pubblico. Non il proscioglimento e la misura di sicurezza che sospendono, isolano e non fanno altro che aumentare la confusione, l’incomprensione della persona e della comunità, ma un altro scenario che fondi la convivenza sullo sviluppo della reciproca responsabilità, nella sua accezione etimologica di “res pondus”, del farsi carico delle persone e delle situazioni, di portare insieme il senso delle esperienze umane, anche quelle estreme, di vite coesistenti. Nel legame inestricabile che lega reciprocamente la qualità della cura, della convivenza e della sicurezza. La Consulta chiede se sono allo studio riforme legislative. La proposta di legge n. 2939 dell’on. Magi offre una soluzione radicale. Psichiatria. Dopo la Conferenza, i conflitti degli psichiatri e quelli del Pd di Maria Grazia Giannichedda Il Manifesto, 30 giugno 2021 Un tentativo per una fase nuova ma sotto pesanti nubi: il modello “posto letto ospedaliero, farmaco” e non invece territorio, salute mentale e servizi. L’ambigua “mozione Lorenzin”. È stata molto diversa da quella di vent’anni fa la Conferenza Per una salute mentale di comunità che si è conclusa il 26 giugno, promossa come la prima dal ministero della salute. La Conferenza del 2001, voluta dalla ministra Bindi e finita in mano al ministro Veronesi, era stata un flop, e aveva inaugurato vent’anni di degrado dei servizi di salute mentale. Questa seconda Conferenza potrebbe aprire una fase nuova, ma nubi pesanti si vedono all’orizzonte. La relazione del ministro Speranza e quella della sua consulente Dirindin hanno dato indicazioni politiche chiare: rafforzare l’assistenza territoriale e la presa in carico integrata delle persone con sofferenza mentale, aprire un confronto con le Regioni per superare l’uso della contenzione meccanica, reperire da subito nuove risorse secondo modalità che il ministro ha indicato pur senza quantificarle, in attesa di un possibile uso di fondi dal Piano per la ripresa, il Pnrr (ne ha riferito Dell’Aquila su il manifesto del 27 giugno). Il messaggio forte è stato che occorre non solo rimediare alla carenza di risorse ma “ripensarle e riallocarle in termini economici e culturali” (Dirindin) con un’attenzione “all’innovazione organizzativa e gestionale perché non è sensato mettere carburante in un’auto in panne”, come ha detto Fabrizio Starace del Consiglio superiore di sanità. Altro dato importante la partecipazione: 130 relatori nelle otto sessioni, oltre tremila visualizzazioni, tra i relatori non solo operatori dei servizi ed esperti di università e istituti di ricerca ma anche utenti, familiari, operatori e volontari di cooperative e associazioni. Questa scelta di coinvolgere tanti e diversi attori ha probabilmente contribuito alla scelta di non partecipare da parte della Società italiana di psichiatria (Sip), la più antica società scientifica del campo psichiatrico, dove oggi si contano almeno ventiquattro società scientifiche accreditate. Alcune di queste, e diversi aderenti alla Sip, sono intervenuti alla Conferenza così come società, ordini professionali e associazioni di psicanalisi, psicologia, psicoterapia, infermieristica, servizio sociale, tecniche della riabilitazione ecc. Il campo della salute mentale infatti non è più solo psichiatria, e tanto meno lo è quello della salute mentale di comunità. Ma se il monopolio del discorso psichiatrico sulla sofferenza mentale è finito da tempo, non altrettanto si può dire del potere istituzionale della psichiatria, almeno finché i servizi pubblici restano più psichiatrici che di salute mentale. La differenza non sta nel nome (indicato dalla legge) ma nei modelli organizzativi che svelano l’orientamento. È psichiatrico un sistema di servizi incentrato sul posto letto ospedaliero, cioè sul servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) concepito, contro la legge “180”, come reparto specialistico per ricoveri di breve durata, a cui seguono ricoveri di durata media in altri reparti psichiatrici di ospedale o di clinica, day hospital e visite ambulatori per il controllo dei farmaci e i colloqui. L’esito di un tale sistema sono i ricoveri in istituti, cliniche e comunità che escludono dalla vita. Questo è il modello lombardo-veneto ormai diffuso, qui il farmaco è la prestazione chiave, che mette lo psichiatra in cima alla piramide degli operatori. Quando i dirigenti della Sip si dichiarano portatori di innovazione è di questo che stanno parlando, dei farmaci, in parte nati negli ultimi anni dai potenti investimenti di Bigfarma. Peccato che questa innovazione, su cui manca - lo ha ripetuto Silvio Garattini nella Conferenza - un’informazione indipendente, sia usata dentro un modello organizzativo che risale agli anni ‘50, posto letto, farmaco, ambulatorio, con alle spalle allora i grandi contenitori manicomiali e oggi contenitori più piccoli dello stesso tenore. Le psicologie, i cui professionisti sono cresciuti in modo rilevante, stanno cercando di sottrarsi alla relazione soffocante con questo modello di servizio psichiatrico, e cercano di creare, anche grazie a questi tempi di Covid, un proprio territorio specifico, separato. Potrebbero invece trovare spazio nel sistema di comunità, fondato su centri accoglienti 24 ore, sul lavoro nelle abitazioni e nei contesti di vita delle persone che stanno male e che prendono anche farmaci, che non sono però l’unica né la principale risposta poiché i centri hanno costruito un circuito di risorse, istituzionali e non, che aiutano le persone a trovare casa, lavoro e spazi di vita. Gli organismi internazionali, la ricerca, le leggi, indicano che le risorse vanno allocate in questa direzione, ma non da oggi certe lobbies e certa politica remano contro. L’ultimo episodio è la mozione approvata all’unanimità dalla Camera il 16 giugno, prima firmataria Beatrice Lorenzin, ministra della salute con Forza Italia, oggi nel Partito democratico. Per Lorenzin e il sottosegretario alla salute Costa (gruppo del presidente Toti) che l’ha approvata a nome del governo, questa mozione ha l’ambizione di “disegnare una visione per un nuovo piano nazionale salute mentale”. In realtà c’è tutto fuorché una visione. Si tratta di un patchwork in 32 punti che include le solite inutili campagne contro lo stigma (punto1); l’offerta di “fino a dieci sedute dallo psicologo ai giovani depressi per via della pandemia” (p.5); l’incremento dei posti letto pubblici per adulti e minori “per rispondere ai quadri acuti con luoghi di ricovero specialistici” (p.14); non meglio identificate “iniziative per investire sull’innovazione farmacologica, riabilitativa e psicoterapica”(p.17); telepsichiatria e telepsicologia infine per coloro che per ragioni imprecisate “altrimenti avrebbero difficoltà ad accedere ai servizi”(p.19). Migranti. Ue, accordo per la nascita dell’Agenzia per l’asilo di Carlo Lania Il Manifesto, 30 giugno 2021 Intesa tra parlamento europeo e Consiglio: “Renderà le procedure più rapide e uniformi”. A Bruxelles qualcuno parla già di decisione “storica”: a undici anni dalla sua nascita (è stato fondato nel 2010 ma è diventato operativo solo l’anno dopo) Easo, l’Ufficio europeo per l’asilo, cambia pelle, si rafforza e diventa una vera Agenzia dell’Unione europea. Il cambiamento è frutto di un accordo raggiunto tra il parlamento europeo e il Consiglio e rientra tra le novità introdotte con il nuovo Patto su immigrazione e asilo presentato a settembre dello scorso anno dalla presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen. La nuova agenzia, ha spiegato ieri la commissaria agli Affari interni Ylva Johansson, “migliorerà la protezione delle persone e colmerà le lacune per creare una maggiore convergenza tra i sistemi di asilo degli Stati membri”. Il via libera alla nascita dell’Agenzia per l’asilo è arrivato di fatto l’8 giugno scorso quando i ministri dell’Interno di Italia, Spagna, Grecia, Malta e Cipro, i cinque Paesi che danno vita al Med5 e da sempre sostenitori della necessità di modificare il patto sull’immigrazione tutto insieme e non per singoli punti, con una lettera alla Commissione Ue sono scesi a patti accettando di procedere con la riforma di Easo e lasciando in sospeso altre questioni sulle quali manca ancora un accordo, come la Riforma di Dublino, le Procedure, le qualifiche, le condizioni di accoglienza e il regolamento Eurodac, il database europeo delle impronte digitali (con un potenziamento per evitare movimenti secondari e rendere più efficace lo strumento dei rimpatri). Easo cessa dunque di essere un ufficio di supporto agli Stati, per diventare un’Agenzia attiva in tutte le procedure di asilo con il compito di esercitare un monitoraggio sul rispetto dei diritti dei migranti riuscendo, si spera, a facilitare i ricongiungimenti familiari. Inoltre avrà a disposizione un organico di 500 esperti tra interpreti, gestori di casi o specialisti dell’accoglienza e potrà stilare le liste delle persone ritenute ammissibili per i ricollocamenti o destinate a essere rimpatriate. Compito, quest’ultimo, a cui dovrebbe far fronte solo nel caso scattasse il meccanismo di solidarietà verso i Paesi di arrivo dei migranti. Resta inteso che l’esame delle richieste di asilo rimane di competenza degli Stati. “Gli esperti - hanno spiegato ieri fonti della Commissione europea - faranno parte delle squadre di supporto all’asilo su richiesta degli Stati membri, avranno il mandato di preparare l’intera procedura amministrativa di asilo per la decisione delle autorità nazionali e di offrire assistenza nella fase di appello”. Secondo i sostenitori del progetto, la nuova Agenzia europeo dovrebbe in qualche modo fare da contrappeso al lavoro svolto da Frontex, l’agenzia che si occupa del controllo delle frontiere, e prevalentemente basato su principi di sicurezza. Resta in sospeso uno dei compito pure attribuiti all’Agenzia, come il monitoraggio delle frontiere, congelato su richiesta dei Paesi Med5 fino al 2024 quando, si spera, l’Unione europea raggiungerà un accordo su un effettivo sistema di solidarietà, vale a dire sui ricollocamenti dei migranti tra tutti gli Stati membri. Prima di diventare operativo l’accordo dovrà ora superare l’approvazione del Consiglio Ue e del parlamento europeo, passaggio che non dovrebbe però riservare sorprese. “La riforma di Easo segna un primo passo verso una solidarietà significativa, procedure di asilo efficaci e una maggiore protezione dei diritti fondamentali”, ha commentato Elena Yoncheva, l’eurodeputata S&D che ha guidato i negoziati sulla nuova Agenzia. “Un aggiornamento dell’Easo era atteso da tempo - ha proseguito Yoncheva. E’ davvero importante potersi concentrare su politiche interne efficaci in materia di asilo e non solo sulla prospettiva delle frontiere esterne che ha dominato il dibattito per troppo tempo”. Corte penale internazionale, ultimo presidio di giustizia di Elisabetta Galeazzi* Il Dubbio, 30 giugno 2021 Ma ora anche gli Stati facciano la loro parte sui crimini contro l’umanità. Un imponente edificio a metà strada tra il centro dell’Aia ed il mare. All’interno delle sue severe architetture ha trovato sede per decenni il Tribunale Penale Internazionale per i crimini nell’ex Jugoslavia. Istituito con risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu, ha operato dal 1993 al 2017 celebrando processi per i crimini internazionali commessi nel corso dei conflitti balcanici che videro disgregare quella che fu la federazione jugoslava. Unitamente al Tribunale “gemello” che giudicò i crimini commessi in Ruanda, la loro creazione nell’ambito del sistema delle Nazioni Unite ha rappresentato il primo archetipo postbellico - successivo ai processi di Tokyo e Norimberga - per una giustizia penale internazionale. Scaduto il suo mandato istituzionale, residua oggi il cd. Meccanismo (International Residual Mechanism for Criminal Tribunals), organo temporaneo a cui è affidato il compito di completare i giudizi ancora in corso. In questo scenario, reso plastico dall’ordinata efficienza olandese e, se possibile, ancor più avulso dall’attuale contesto storico - a cagione dell’eccessivo tempo trascorso e dell’attuale monopolio mediatico della pandemia - il Meccanismo ha pronunciato nei giorni scorsi la sentenza d’appello che ha definitivamente condannato all’ergastolo Ratko Mladic, uno dei più importanti e tristemente noti protagonisti di quelle guerre lontane. Confermando la sentenza di primo grado del 2017, i giudici d’appello (con alcune dissenting opinions) hanno ritenuto il “macellaio di Bosnia” colpevole di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Mladic è oggi un anziano quasi ottuagenario, almeno somaticamente assai distante dal generale e capo di stato maggiore delle forze armate della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, resosi responsabile durante la guerra Bosniaca dell’assedio di Sarajevo e del massacro di Srebrenica. Di quei tragici fatti, consegnati alla Storia, è augurabile si conservi anche memoria comune, giacché molti ancora sono i conflitti nel mondo ove continuano barbarie non dissimili dai crimini per cui Mladic dovrà scontare la sua pena, per il tempo di vita che gli rimane. Dopo quasi tre decadi, tutti i principali responsabili dei crimini commessi nell’ex Jugoslavia sono stati individuati, seppur con destini giudiziari diversi. Con la morte improvvisa di Slobodan Miloševic nel carcere di Scheveningen, il primo grande processo si è concluso anzitempo nel 2006. Željko Ražnatovic, più noto come Arkan, per anni è sfuggito al mandato d’arresto internazionale per genocidio e crimini di guerra, per poi essere ucciso nel 2000, giustiziato da ignoti in un hotel di Belgrado. Anche Radovan Karadžic ha goduto di una lunga latitanza, interrotta con la sua cattura solo nel 2008. Portato a processo, non ne ha mai riconosciuto la legittimità. Oggi sconta un ergastolo nelle carceri britanniche. Lo stesso Mladic, latitante fino al 2011, ha potuto contare su contiguità ed appoggi politici, ad intralcio delle attività del Tribunale, come descrisse l’ex Procuratrice Carla Del Ponte, nel famoso libro “La caccia: io e i criminali di guerra”. In ogni caso, la sentenza Mladic non esaurisce il compito del Meccanismo: oltre ai vertici di comando in gran parte processati restano tuttora “at large” molti coautori e dunque l’attività investigativa e d’indagine per ora prosegue. Tuttavia, nonostante le lentezze processuali, l’esperienza dei Tribunali ad hoc è generalmente considerata positiva, ancor più se confrontata con le criticità (e le critiche) che al contrario investono la Corte Penale Internazionale. Organo giurisdizionale universale e permanente, indipendente dal sistema Onu ed istituzione internazionale fondata sullo Statuto di Roma, dopo nemmeno due decenni dalla sua creazione la Cpi trova molti ostacoli e detrattori, non solo in ambito politico ma anche tra gli studiosi. Senza addentrarsi nelle complesse ragioni che ostacolano un suo più efficiente funzionamento, vi è certo un consolidato fronte d’opinione secondo cui la giustizia penale internazionale trova più compiuta risposta in Corti speciali o con mandati limitati, più simili appunto ai Tribunali Onu. Esempio fra tutti, il Tribunale speciale per i crimini in Libano, correlati all’assassinio nel 2005 del premier al-? ariri. Fortemente voluto dal suo primo presidente Antonio Cassese, l’Stl non ha retto l’impatto con i mutamenti dell’assetto geopolitico mondiale. Sicché, la notizia degli ultimi giorni è che ne è stata decretata la chiusura definitiva per mancanza di fondi, senza che dal 2007 ad oggi si siano ottenuti risultati processuali di rilievo. Un segnale di riassestamento del contesto globale in cui queste istituzioni internazionali sono chiamate a rendere giustizia. Di talché, al di là di velleità locali con ovvia matrice politica, la Corte Penale Internazionale resta l’unico riferimento, ancor più efficace se gli Stati parte della Convenzione daranno piena attuazione al principio di complementarietà, processando i crimini internazionali nelle Corti domestiche, secondo le norme dello Statuto di Roma. Ne è consapevole il neo eletto Procuratore della Corte Karim Khan, avvocato londinese, grazie alla pregressa esperienza maturata sia nei Tribunali ad hoc sia dinnanzi alla stessa Cpi. Una linea di continuità che induce grandi aspettative, per il prossimo mandato di nove anni durante il quale Khan dovrà confrontarsi con indagini epocali, che non potranno più evitare ipotesi di crimini come il genocidio. Basti pensare a quanto perpetrato in Myanmar ai danni dei Rohingya o all’eterno conflitto israelo- palestinese, situazioni entrambe di competenza della Cpi. Dopo la condanna di Mladic per genocidio, si rafforza dunque quel filone giurisprudenziale a cui anche la Cpi potrà attingere, quando si troverà a fare i conti con la Storia e con le migliaia di vittime che, come partecipanti ai processi, chiederanno di avere giustizia. *Avvocata in Bologna, difensore alla Cpi Venezuela. “Qui è l’inferno”, i detenuti in lotta si cuciono la bocca di Sara Volandri Il Dubbio, 30 giugno 2021 Sovraffollamento, igiene, sicurezza, soprusi, detenzioni preventive: la protesta estrema chiama in causa l’autorità giudiziaria di Caracas. Una protesta clamorosa, dolente, estrema. Un gruppo di ottanta detenuti venezuelani nello stato centrale di Miranda si è letteralmente cucito la bocca con ago e filo per protestare contro le disumane condizioni di prigionia che dopo l’arrivo della pandemia di covid 19 sono diventate “infernali”, in particolare nei centri di detenzione provvisoria. L’iniziativa avviene alla fine di una lunga settimana di sciopero della fame e interpella direttamente l’autorità giudiziaria affinché intervenga: al di là del sovraffollamento, delle condizioni igienico- sanitarie, della sicurezza (la situazione degli istituti di pena venezuelani è storicamente disastrosa e conta uno dei più alti tassi di rivolte interne di tutto il pianeta): lo sciopero delle “bocche cucite” vuole denunciare il prolungamento abusivo della custodia cautelare nei locali della polizia municipale della città di Plaza; come spiega in una nota l’Ong Una Ventana a la Libertad (Uvl) che da anni di batte per i diritti delle persone in prigione “i detenuti rimangono nelle segrete della polizia municipale e hanno iniziato lo sciopero della fame per chiedere l’attenzione della magistratura per essere trasferiti nelle carceri”, precisa l’Uvl in una nota. L’organizzazione, che opera per la difesa e la promozione dei diritti umani dei detenuti in Venezuela, ha chiarito che i parenti degli stessi si trovano fuori dal complesso della Plaza Police “per accompagnare i loro parenti in sciopero e per sollevare alle autorità governative il sovraffollamento situazione in cui si trovano in questo centro di detenzione preventiva”. Secondo i dati raccolti dell’organizzazione, nelle celle sono rinchiusi più di 110 prigionieri ammassati gli uni sugli altri, sono talmente stipati che alcuni di loro sono sdraiati anche nei corridoi delle celle. “Più di 20 di hanno una condanna definitiva da scontare e di quel totale, la metà è stata detenuta lì da quattro a sette anni”, ha aggiunto Uvl. I familiari, secondo il comunicato dell’organizzazione, hanno sottolineato che i loro parenti non mangiano da una settimana e hanno solo bevuto solamente acqua. Per questo hanno chiesto al ministro del Servizio penitenziario, Mirelys Contreras, “di pronunciarsi su questo caso, prima che i nostri ragazzi peggiorino di salute, per mancanza di cibo”, aggiunge l’informazione. “Vogliamo che li trasferiscano a coloro che dovrebbero già essere trasferiti. Per questo chiediamo al ministero penitenziario di affrontare questo caso in modo che cessino lo sciopero”, hanno concluso. Il 21 giugno, il presidente Nicolàs Maduro ha annunciato la creazione di una commissione per realizzare una ambiziosa “rivoluzione giudiziaria” in un periodo di non oltre sessanta giorni. La commissione, ha spiegato l’uomo forte di Caracas, deve risolvere il sovraffollamento nei centri di carcerazione preventiva entro 60 giorni e garantire il passaggio dei detenuti da questi centri alle carceri. Le quali rimangono comunque tra le peggiori del mondo. In Myanmar è crisi umanitaria di Emanuele Giordana Il Manifesto, 30 giugno 2021 Una settimana fa, Mai Nuam Za Thiang, 19 anni, è morta dissanguata dopo essere stata ferita dai soldati a Kalay, nel Sagaing. I suoi parenti hanno raccontato che i militari li hanno costretti a cremarla immediatamente, sostenendo che fosse affetta da Covid. Il magazine birmano Myanmar-Now ha rivelato una storia che spiega fino a che punto si sta spingendo il regime militare: nascondere il Covid - in forte ascesa - assieme alle proteste. Farne un fascio, bruciarlo e occultarlo. Secondo gli ultimi dati diffusi dall’Onu sono circa 350mila gli sfollati del conflitto sociale e militare in Myanmar: dal 1 febbraio sono 177mila nel Sudest e nello Shan meridionale (103 mila nel solo Stato Kayah da fine maggio) cui se ne aggiungono quasi 18 mila sempre da altre aree dello Shan, sfollati sin da gennaio. Altri 20mila sono dello Stato Chin, del Magway e di altre regioni dove infuriano i combattimenti da maggio. Oltre 11mila sono sfollati interni dello Stato Kachin (scontri armati cominciati in marzo). L’Humanitarian Response Plan dell’Onu prevederebbe un esborso di almeno 270 milioni di dollari ma resta finanziato solo per il 21%. Difficile nascondersi che aiutare gli sfollati è difficile visto che già lo era ai tempi della fragile democrazia birmana quando comunque Tatmadaw, l’esercito fedele alla giunta, controllava o impediva l’accesso a certe zone dell’assistenza umanitaria. Essenziale ora in una guerra iniziata ormai 5 mesi fa e che, oltre alla resistenza di gruppi in “abiti civili” (le cosiddette People’s Defence Force), vede impegnati eserciti e milizie regionali armate che non si sono piegate al golpe di febbraio. Il governo ombra di Aung San Suu Kyi (National Unity Government-Nug) chiede adesso “un’assistenza umanitaria ampia e rapida per salvare la vita di chi vive in in Myanmar… Il recente colpo di stato militare e le atrocità in corso commesse dalla giunta - dice il documento-appello - hanno gettato ancora una volta il nostro popolo in una complessa emergenza politica e umanitaria” con 3,4 milioni di persone senza cibo, 883 vittime e oltre 5mila detenuti politici. Ma c’è un ovvio problema politico. Bypassare la giunta? I problemi stanno a monte delle evidenti necessità di cibo, medicine, assistenza. “L’appello ci riporta all’urgenza di reagire di fronte a quanto sta succedendo in Myanmar. Il golpe di febbraio si può ormai dire che a livello internazionale sia stato “digerito” e cancellato. Ma la resistenza interna continua e un governo illegittimo, impegnato soltanto a garantirsi l’impunità e controllare il Paese, non può fare fronte all’emergenza umanitaria, aggravata dalla pandemia”, commenta Alfredo Somoza presidente dell’Ong Icei: “È molto difficile per la società civile immaginare come si possa rispondere a questo appello che dovrebbe spronare la comunità internazionale a chiedere seriamente conto ai militari di quanto sta avvenendo. Senza l’attenzione dell’Onu, o almeno dell’UE, il dramma birmano rischia di assumere dimensioni gigantesche. Nel silenzio e l’ipocrisia di chi, quando dichiara di volersi impegnare contro l’autoritarismo, lo fa in modo selettivo per non urtare ‘sensibilità’”. La comunità internazionale in effetti si muove lentamente e non fa molto. L’Assemblea generale dell’Onu il 18 giugno ha votato l’embargo delle armi alla giunta (119 a favore, 36 astenuti tra cui Cina e Russia e il voto contrario della Bielorussia) ma se non si muovono Consiglio di sicurezza e singoli Stati si arriva a poco. Ue e Usa hanno congelato i conti dei militari che però ne hanno diversi a Singapore. E, per quanto si sa, le cooperazioni bilaterali intendono sbaraccare. Anche nell’agenda europea i diritti umani non stanno sempre al primo posto. Myanmar, così i golpisti riscrivono la storia di Raimondo Bultrini La Repubblica, 30 giugno 2021 Nelle librerie di Yangon e delle altre città birmane si moltiplicano i libri che riproducono i discorsi del generale Min Aung Hlaing che danno una versione stravolta degli eventi seguiti al colpo di Stato contro Aung San Suu Kyi. Gli arresti e le sanguinose repressioni diventano normali e democratiche misure di sicurezza per difendere la legge. Una versione prima utilizzata per motivare i soldati e ora imposta al paese. Per 24 ore è circolata in rete la foto del dittatore birmano piccolo di statura vestito da laureato russo dentro una toga rossa accecante grande il doppio delle sue misure. Poi è quasi sparita al di fuori di qualche tweet, eliminando dalla storia un’altra delle tante memorie che nessun libro di testo del regime militare riporterà mai, l’antidoto ridanciano alle tensioni di una repressione feroce e ininterrotta da 5 mesi, con 850 vittime, migliaia di detenuti e orrende torture inflitte a moltissimi di loro. Maggioranze birmane e minoranze etniche hanno associato l’immagine al lato debole del nemico comune sanguinario e sul campo invincibile, la vanagloria di un re che non è nudo, ma vestito da clown: il cappello da laureato più stretto del cranio, goffo in piedi di fianco a un corpulento e impassibile generale russo molto più alto di lui (non ce n’erano della stessa altezza in tutta l’Armata) in sobria divisa verde. Qualcuno sospetta che il governo di Mosca abbia voluto fargli un dispetto abbigliandolo così per una laurea accademica in ‘Scienze della Difesa’ chiaramente associata ai cospicui acquisti di armi firmati la settimana scorsa al Cremlino dal generale e capo di stato Min Aung Hlaing, l’uomo del ritratto. A sentire i dietrologi Putin non era rimasto troppo soddisfatto dell’incasso, sapendo che molti più miliardi Min aveva sganciato a Xi Jinping in cambio delle armi e della protezione cinese prima, durante e dopo il golpe di febbraio. Per le genti del Myanmar che lo odiano ormai dal profondo dell’anima, ripiegare sul lato ironico della storia è una delle poche armi a disposizione di quanti, tra i membri della Disobbedienza civile, non hanno imbracciato i fucili come fanno altri. Sono costretti però a ridere in segreto della figuraccia di un uomo che si sta dimostrando estremamente pericoloso, perché la giunta sta migliorando velocemente la rete di controlli sulla telefonia mobile, oggi semiparalizzata dalle restrizioni Internet. Ma sta avvenendo ben altro sul piano della riscrittura della Storia caratteristico di ogni conquistatore dopo la conquista. Il comandante generale Min i capitoli li sta vergando già oggi a futura memoria e i libri pubblicati sono tratti da suoi discorsi pubblici e ristretti disponibili oggi ovunque, come nella celebre strada dei Librai di Pansodan a Rangoon, dov’è sparito da 5 mesi ogni ritratto un tempo ubiquo di Aung Suu Kyi dagli scaffali e dalle copertine dei testi ammessi dalla Censura militare. Dall’alto del trono della Capitale dei Re, cioè Naypyidaw, il comandante in capo dell’esercito e del paese sta passando o cercando di far passare tra la popolazione civile attraverso una cospicua pubblicistica la stessa versione degli eventi servita a convincere i suoi soldati e inferiori che si era giunti a un punto di non ritorno nell’alleanza con il governo civile della Lega per la democrazia. D’accordo o in dissenso i librai espongono questi piccoli tomi che spiegano come mai la cancellazione del voto di novembre e l’arresto di leader come Aung San Suu Kyi hanno sventato i pericoli di anarchia e dissoluzione dell’Unione. Nessun cenno alle feroci repressioni degli ultimi 5 mesi per un pubblico finora ristretto a militari e supporter del regime, ma potenzialmente esteso alle prossime generazioni di studenti costrette a studiarseli con cura per passare gli esami. Min Aung Hlaing è l’autore o ispiratore di diversi libri che l’attuale ministro militare dell’Informazione U Chit Naing si è premurato di presentare al pubblico con tre titoli che raccolgono ciascuno una selezione dei suoi discorsi tenuti in varie circostanze. Il settimanale birmano in lingua inglese Irrawaddy ne cita uno chiamato “È tempo che le persone distinguano tra giusto e sbagliato, giustizia e ingiustizia” che contiene più di 90 articoli sul pensiero del leader per lo più pubblicati sui quotidiani controllati dalla giunta Myanma Alinn e Kyemon. Un esempio di revisionismo a caso: “La polizia militare - ha detto - sta svolgendo il suo lavoro in conformità con le pratiche democratiche e le misure che sta adottando sono persino più morbide di quelle di altri paesi”. Per ora nessuno tra birmani ed etnici di fede democratica si beve la nuova versione degli eventi d’inizio anno che già circola nei tre testi e altri in uscita destinati al solo pubblico di militari e sostenitori del regime in cerca di risposte alla domanda: “Perché stiamo facendo tutto questo?”. Quando l’oggi diventerà storia da memorizzare i futuri studenti troveranno certo molte altre fonti con la vera storia del golpe, ma difficilmente potranno raccontarla ai professori che li esamineranno, vincolati come loro a testi e programmi stabiliti dai ministeri militari. La narrativa ufficiale del regime da offrire ai posteri è riassunta in ciascuno dei discorsi pubblicati e tenuti in varie circostanze da Hlaing. Anche questi diventeranno testi scolastici, quantomeno per le facoltà di storia delle università, attualmente boicottate in gran numero da insegnati e studenti. Il 2 marzo, un mese dopo il golpe, il generale supremo spiega così le punizioni inflitte ai dipendenti pubblici che si sono ribellati. “Alcuni - disse - hanno preso i loro stipendi senza andare a lavorare, adducendo vari motivi. I rispettivi ministeri avvieranno sistematiche ispezioni. Circolano contenuti illegali e foto (delle manifestazioni di studenti, ndr) che ritraggono chi indossa abiti indecenti contrari alla cultura birmana, soprattutto sui social. Tali atti intendono danneggiare la moralità delle persone, quindi sono necessarie azioni legali”. I messaggi culturali passano dal capo supremo ai suoi vice e giù giù fino all’ultimo fante spedito a combattere lungo i confini dell’Unione di Myanmar. Lo scopo è esaltare la supremazia militare e politica della maggioranza di etnia Bamar buddhista come la sola in grado di evitare il baratro dell’anarchia e - più pragmaticamente - dominare territori ricchi di risorse da sfruttare. Uno dei libri che Min Aung Hlaing ha senz’altro studiato a fondo durante i cosi di “psicoguerra” si può trovare liberamente anche dai librai che espongono la loro merce con approvazione ministeriale sui marciapiedi di Pansodan road, oggi pieni di negozi e librerie (e la letteratura “illegale” su ordinazione in fotocopia). Si tratta dell’Arte della guerra di Sun Tsu, pensatore cinese vissuto 2500 anni fa, ispiratore di Mao come dei generali birmani e di quelli americani addestrati a West Point su questo manuale di tattiche per conquistatori. È un trattato machiavellico destinato a istruire non il re, ma i suoi soldati su come preparare una guerra, che non è cosa semplice ma richiede l’analisi delle forze fisiche e psicologiche in campo, dell’ambiente naturale attorno al fronte di battaglia e dei punti deboli o di forza dell’altrui difesa. Meno facile da trovare in libreria, anche se ispirato agli stessi principi di questo antico di strategia militare, è una raccolta di riflessioni, in gran parte segrete, del primo dittatore dell’attuale dinastia che contribuì notevolmente a creare l’odio tra birmani e resto delle minoranze in nome del divide et impera attribuito a Giulio Cesare. Chiamata in suo nome Dottrina Ne Win, è un manuale di strategia privo di scrupoli etici, ispirato agli stessi trucchi consigliati 2500 anni fa da Sun Tsu che ogni generale dovrebbe adottare per ottenere la vittoria sul nemico, sia esso un esercito armato etnico o un movimento dissidente politico popolare e pericoloso. Tra la fine degli anni 40 e 50, quando una pace duratura post-indipendenza poteva portare a un governo e un esercito federale di pacificazione nazionale, Ne Win ha capito che senza avversari da combattere non avrebbe avuto ragione di chiedere all’allora governo civile di espandere le truppe dei birmani. La strategia di provocazione e istigazione all’odio adottata in regioni di natura ribelle come Kachin e Karen era basata proprio su questa esigenza di accrescere il numero dei nemici. Villaggi bruciati, ingiustizie e persecuzioni ottennero lo scopo di far crescere i gruppi di guerriglia, contro i quali servirono armi sempre più sofisticate oltre che uomini. Così l’esercito è passato dai 2000 soldati nel post liberazione agli attuali 500mila. Oggi i militari decidono tutto da soli e prendono il 40 per dell’intero bilancio statale attualmente destinato anche a combattere un nemico interno, gente della stessa fede ed etnia buddhista che ha osato sfidare in massa nelle strade delle città il loro potere. Nei libri attribuiti a Min Aung Hlaing in circolazione oggi, i lettori trovano questa spiegazione che nelle sue intenzioni formerà d’ora in poi la versione “storica” ufficiale: “Le manifestazioni (di protesta) sono causate - ha detto - da persone scontente per l’azione intrapresa contro i brogli elettorali (attribuiti al partito di Aung San Suu Kyi) e per le restrizioni di prevenzione e contenimento del Covid-19. La polizia del Myanmar sta controllando la situazione con il minimo della forza e con i mezzi meno dannosi”. Quanto fosse falso oggi lo sappiamo tutti visto l’alto numero di vittime e le violazioni di qualsiasi codice internazionale dei diritti umani. Ma la domanda resta la stessa: e domani? Tra gli articoli della raccolta che distingue tra “il giusto e lo sbagliato” ce n’è uno che giunge ad accusare gli influencer dei social network di aver istigato le proteste. “Se le persone sono morte e sono state arrestate - è scritto - è per causa loro”. Come quando nei libri di testo del 1988 la rabbia di un intero popolo venne attribuita all’istigazione di Aung San Suu Kyi “in combutta con l’Occidente”. Afghanistan, rischio guerra civile di Gianluca Di Feo La Repubblica, 30 giugno 2021 Il generale americano Miller avvisa i talebani: fermatevi o vi bombardiamo. E le milizie tribali scendono in campo per difendere i loro territori, complicando la situazione del Paese. Ritorno al passato. Con le truppe occidentali che in queste ore stanno completando il ritiro, l’Afghanistan rischia di precipitare nella guerra civile. E’ il monito del generale Austin Miller, l’ufficiale americano a cui è stato affidato il compito di chiudere la missione durata venti anni: “La guerra civile è certamente una prospettiva e dovrebbe essere una preoccupazione per il mondo”. Di fronte all’offensiva dei talebani, che stanno conquistando decine di province, Miller ha minacciato raid aerei: “Io non voglio ordinare i bombardamenti. Ho detto ai talebani che devono fermarsi: l’unico modo di evitare il nostro intervento è far cessare la violenza”. Ma la situazione sembra procedere inesorabilmente verso il caos. I talebani sostengono di avere occupato cento distretti, in molti casi senza bisogno di sparare perché le truppe hanno deposto le armi, affidandosi alla mediazione degli anziani dei villaggi. L’alto ufficiale spiega la disfatta con un sovrapporsi di cause. Il logoramento delle forze di Kabul, che stanno subendo perdite altissime, il crollo psicologico e in alcuni casi la sconfitta sul campo ad opera dei talebani, che sentono vicina la vittoria finale. Guardando al futuro prossimo, Miller ritiene che l’esercito nazionale debba consolidare le sue posizioni, creando delle aree strategiche da proteggere. La milizia fondamentalista infatti grazie al controllo dei nuovi territori può rendere difficili i rifornimenti e le comunicazioni con i capoluoghi, in cui si stanno asserragliando i soldati fedeli al governo. Il generale non difende l’impegno militare statunitense: “L’unica soluzione per il popolo afgano è qualcosa che ruoti intorno a una soluzione politica. Ma devo dire che non se non si riduce la violenza, questa soluzione diventa sempre più difficile”. A rendere più complicato lo scenario, adesso stanno scendendo in campo anche le brigate personali dei vecchi signori della guerra. I comandanti mujaheddin che hanno lottato prima contro i sovietici, poi contro i talebani dando vita all’Alleanza del Nord, tornano ad armare i loro seguaci. Nascono così formazioni tribali che vogliono proteggere i propri territori dall’offensiva fondamentalista. Intorno a Mazar-e-Sharif centinaia di volontari delle “forze pubbliche” - come si definiscono - si sono schierati per pattugliare le strade principali e partecipano agli scontri per liberare i villaggi della provincia di Balkh. Due giorni fa il generale Abdul Rashid Dostum, che vent’anni fa guidò assieme a un pugno di commandos statunitense il primo grande attacco contro i talebani, ha annunciato di volere tornare alla guida delle sue truppe. Dostum, in passato vicepresidente del governo afghano, adesso è ricoverato in un ospedale turco: “Non gli permetteremo di prendere la nostra terra”. Anche il controverso Gulbuddin Hekmatyar, ora leader del movimento Hizb-e-Islami, fa sentire il suo peso sul fragile governo di Kabul. In passato le sue bande hanno tenuto testa ai russi nell’area di Herat, poi si è avvicinato all’Iran e adesso torna con prepotenza sulla scena chiedendo spazio politico al presidente Ghani nella gestione della crisi. Ed è chiaro che questi personaggi si stanno trasformando nello strumento delle potenze interessate ad arbitrare il futuro del Paese. Turchi, russi, pachistani, cinesi, iraniani, indiani muovono velocemente le loro pedine vecchie e nuove per occupare il vuoto creato dalla partenza dei reparti della Nato. Ieri è stato completato il ritiro dei militari italiani e di quelli tedeschi, lasciando le aree di Herat e Mazar-e-Sharif senza presidio occidentale: nello scorso ventennio erano state le zone più sicure, con i talebani sempre sulla difensiva. Adesso il timore che l’esercito nazionale non sia capace di proteggerle spinge i capi tribali a mobilitare i propri uomini. Miller sostiene di essere ancora in grado di offrire sostegno alle divisioni di Kabul, a quell’esercito regolare che è l’unica istituzione realmente nazionale esistente in Afghanistan. Ma solo l’aeroporto di Bagram, alle porte della capitale, rimane ancora nelle mani della Nato. Tra pochi giorni, gli americani potranno contare esclusivamente sulla portaerei Reagan che naviga a largo del Pakistan: in tutta la regione il governo statunitense non avrà più una base, nemmeno per operare con i droni.