I referendum Radicali-Lega sono un grande assist a Cartabia di Errico Novi Il Dubbio, 2 giugno 2021 Dalla responsabilità civile al voto degli avvocati sulle carriere dei giudici: la campagna renderà gli stessi ddl sul processo un grande evento che i partiti non potranno “boicottare”. Salvini è un milanese atipico, cita Gaber ed è uno dei tanti piccoli segnali da non sottovalutare, nella sfida referendaria sulla giustizia lanciata ieri in conferenza stampa col Partito radicale. “Libertà è partecipazione”, scandisce il segretario della Lega: verso indimenticabile e variamente saccheggiato dalla politica, eppure capace di servire da scudo. Perché gli argomenti per contestare ai pannelliani e al Carroccio la scelta di mettere i piedi nel piatto delle riforme, e sentire cosa ne pensano i cittadini, sono evanescenti. La tesi (ieri per la verità poco gettonata) secondo cui i radicali e la Lega remano contro una buona riforma della giustizia rischia di essere insostenibile per almeno due ordini di motivi. Il primo è che intanto uno strumento previsto dalla Costituzione non può essere trattato come un atto sovversivo - anche se questa è in fondo l’accusa spesso rivolta a Marco Pannella. Il secondo motivo è che in ogni caso le proposte di referendum lanciate ieri nella conferenza stampa a via Torre argentina, storica sede del Partito radicale, sono una puntata al rialzo utile probabilmente a fiaccare le ritrosie dei partiti, soprattutto sul ddl penale. Un sottovalutato assist per Cartabia - Nei prossimi giorni, forse a inizio settimana prossima, Marta Cartabia dovrà compiere il passo decisivo sulla prescrizione e in generale sulla riforma del processo disegnata da Alfonso Bonafede: depositerà i propri emendamenti, le proposte governative, quelle che dovrebbero mettere i partiti d’accordo. Non ne scaturirà una pace improvvisa, anzi sarà il calcio d’inizio per la partita più dura, quella che si giocherà in commissione Giustizia a Montecitorio sul voto degli emendamenti. Ma che potrebbe essere sbloccata proprio dal fatto che, in uno scenario così difficile, così minacciato dalle resistenze dei 5 Stelle, pronti a opporsi in tutti i modi alle modifiche sulla prescrizione, ci si troverà di fronte a chi la spara ancora più grossa. A chi, come hanno fatto capire ieri Maurizio Turco e Irene Testa (segretario e tesoriera dei radicali) e appunto Matteo Salvini, vuol creare, con i referendum, l’impressione di una grande mobilitazione popolare sulla giustizia. Perché è questo il punto: con i radicali e la Lega che, come dice Salvini, puntano a raccogliere un milione di firme a quesito, dunque 6 milioni in tutto, con un’estate punteggiata da “tremila banchetti, aperti anche a Ferragosto” a partire dal primo “weekend di partecipazione” di inizio luglio, la giustizia diventerà un tema popolare, e chi ne rallenta la riforma sarà additato come un ostacolo, come la casta che si oppone al cambiamento. Idea notevole, che rischia di diventare un clamoroso assist per Cartabia. Cosa prevedono i 6 quesiti abrogativi - Intanto i quesiti, che saranno depositati domani in Cassazione: tutti classicamente abrogativi, niente formule propositivo- consultive come ci sarebbe potuti aspettare almeno su alcune materie. Ad esempio, per citare i “titoli” assegnati da radicali e Lega alle 6 proposte, si parte con la “Responsabilità diretta dei magistrati”. In pratica nella responsabilità civile si elimina lo schermo per cui tu fai causa alla presidenza del Consiglio, non al giudice o al pm, e poi Palazzo Chigi si rivale sulla toga caduta in errore: se vince il sì, il magistrato compare in giudizio. Più complicato il quesito sulla “Separazione delle carriere”: vengono eliminati tutti i singoli punti della disciplina vigente che prevedono passaggi da una funzione all’altra, non è chiaro se basterà. Poi si parla di “Limiti agli abusi della custodia cautelare”: proposta abrogativa sorprendente e acuta, perché prevede di eliminare il carcere preventivo se motivato col solo rischio che la persona accusata reiteri lo stesso reato, strumento che in effetti lascia margini spesso eccessivi alla magistratura. Sono invece più immediati gli altri tre referedum: “Elezioni del Csm” prevede semplicemente l’abrogazione della norma che obbliga gli aspiranti togati a raccogliere firme per candidarsi, operazione per cui il sostegno delle correnti è spesso irrinunciabile: molto indovinato. Poi c’è la “Abolizione del decreto Severino”: la famigerata legge sarebbe spazzata via, con tutti i suoi discutibili azzoppamenti di sindaci condannati con sentenza non definitiva per un abuso d’ufficio impalpabile. E infine una piacevole sorpresa per gli avvocati: il referendum intitolato “Equa valutazione dei magistrati” prevede l’abolizione di una norma relativa al funzionamento dei Consigli giudiziari, i cosiddetti “mini Csm” istituiti in ogni Corte d’appello. In particolare, se vincesse il referendum, avvocati e professori, cioè i componenti laici di questi organismi, non sarebbero più costretti a uscire letteralmente dalla sala della riunione quando si discute delle “valutazioni di professionalità”, i pareri da trasmettere al Csm sugli scatti di carriera dei magistrati. Avvocatura e accademia avrebbero diritto di voto su questi documenti: si tratta di una battaglia storica del Consiglio nazionale forense, che ora è confluita in emendamenti alla riforma del Csm messi a punto dal Pd e da Forza Italia. Insieme col referendum sulle liste per eleggere i togati, sarebbe il solo quesito effettivamente sovrapponibile alle riforme nelle mani di Cartabia. Ma qui entra in gioco l’astuta e plausibile strategia dei radicali e di Salvini: “Questa nostra campagna è un pungolo, un aiuto sia alla politica sia alla magistratura sana”, dice Irene Testa. Salvini aggiunge: “Lo è anche per la ministra Cartabia, su cui contiamo”. Paradossale? No, perché come fa notare il capo leghista, “questi sono temi di cui non ci si sta occupando, abbiamo scelto di non togliere al Parlamento le materie su cui è al lavoro”. Quasi del tutto vero se non per quei due passaggi della riforma relativa al Csm, ossia le liste e i Consigli giudiziari, sui quali sarebbe arduo parlare di “pericolosa collisione”. E poi tra le carte favorevoli al progetto c’è l’insolito connubio. Testa ringrazia Salvini “per la collaborazione su questo obiettivo comune, anche se molte cose ci dividono”. La strana sinergia in realtà rischia di essere un motivo di suggestione in più. Che il segretario del Carroccio avvalora con adulazioni del tipo “sono in una sede ricca di storia e mi auguro di presente e di futuro”, e “per me è un onore essere qui”. Alle spalle le gigantografie di Marco Pannella. Che probabilmente ha già afferrato la busta dei popcorn per godersi la scena. Per riformare la giustizia Salvini preferisce la piazza al Parlamento di Giulia Merlo Il Domani, 2 giugno 2021 La Lega ha presentato insieme al partito radicale sei quesiti referendari: responsabilità civile dei giudici, separazione delle carriere, custodia cautelare, abrogazione della legge Severino, abolizione della raccolta firme alle elezioni al Csm, voto per i membri non togati dei consigli giudiziari. Salvini ripete che la mossa è un aiuto a Cartabia, ma il timore della maggioranza è che la Lega punti a fare il partito di lotta pur rimanendo al governo, cavalcando il tema della giustizia nelle piazze ma senza di fatto affrontarlo nella sede parlamentare già avviata. I quesiti referendari, infatti, potrebbero essere incorporati in emendamenti ai testi già incardinati in parlamento, la cui approvazione è fondamentale per il piano di Recovery. Per ora, però, la Lega non ha seguito questa strada. Il leader della Lega, Matteo Salvini, ha un obiettivo ambizioso: raccogliere un milione di firme a sostegno dei sei quesiti referendari che il Carroccio sostiene insieme al Partito Radicale. I temi oggetto di referendum sono sei: responsabilità civile dei giudici, separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante, custodia cautelare, abrogazione della legge Severino, abolizione della raccolta firme per le liste dei magistrati alle elezioni al Csm, voto per i membri non togati dei consigli giudiziari. L’annuncio avviene nel luogo storico della sede di largo Argentina, con alle spalle una gigantografia di Marco Pannella, e Salvini spiega che non lesinerà uomini e forze, mobilitando uno schieramento di 3000 banchetti a partire dal 2 luglio, con 800 sindaci e 400 amministratori comunali pronti a convalidare le firme. Il partito radicale, invece, metterà in campo la sua decennale esperienza e la diffusione di radio Radicale. “Saremo in tutte le località di villeggiatura, dalle Alpi a Lampedusa, Ferragosto compreso”, dice il segretario leghista, insieme al segretario radicale Maurizio Turco, mentre annuncia che i due partiti “pur con storie così diverse” distribuiranno materiale comune a sostegno dei quesiti. Quella che dovrebbe partire in estate, quando anche la stretta della pandemia dovrebbe allentarsi, è una mobilitazione in grande stile con cui la Lega punta a ritornare nelle piazze e riconquistare presa su un elettorato sempre più insidiato da Fratelli d’Italia. Per farlo, la leva è il tema della giustizia, che non è mai stato cavallo di battaglia leghista ma a ben ricordare è stato l’inciampo che ha fatto cadere gli entrambi i governi Conte. La mossa leghista, pur se ormai da tempo annunciata, innervosisce sia il governo che la maggioranza. Salvini ripete che il suo è un appello a tutte le forze politiche e che “questi referendum vogliono essere uno stimolo al parlamento e un aiuto anche al ministro Cartabia, su cui contiamo per accelerare sulle riforme della giustizia”. Nessun emendamento - Eppure, politicamente la scelta rischia di mettere in difficoltà il percorso a tappe forzate di approvazione dei ddl penale, civile e ordinamento giudiziario che fanno parte del pacchetto di riforme della giustizia che sono uno dei capisaldi del Recovery plan. Il calendario approvato a cui Cartabia deve attenersi prevede l’approvazione della legge delega al governo entro fine 2021 e dei decreti delegati entro la fine del 2022. Per farlo ha chiesto la collaborazione di tutti i gruppi parlamentari della maggioranza: la Lega non ha intenzione di sfilarsi ma di mettere pressione dall’esterno mobilitando la piazza, invece che presentando i quesiti referendari sotto forma di emendamenti. L’intuizione sembra questa: la giustizia è tema al centro del dibattito pubblico a causa anche della crisi della magistratura e la Lega punta a trasformarla in un tema identitario e mediatico attraverso i referendum. Un risultato che non sarebbe ottenibile attraverso il solo lavoro in commissione Giustizia, impelagandosi negli emendamenti ai testi base che poi verranno comunque assorbiti dal maxi emendamento del governo. A far intuire la mossa è il fatto che tutti i quesiti referendari potrebbero essere incorporati, sotto forma di emendamenti, nel ddl penale e nel ddl di riforma dell’ordinamento giudiziario. Per il ddl penale - in cui rientrerebbe il referendum sulle misure cautelari - il termine per gli emendamenti è scaduto e la Lega non ha presentato un emendamento sul punto. Tanto che Enrico Costa di Azione, il quale ha presentato un emendamento che che esclude la custodia cautelare per pericolo di reiterazione per gli incensurati, salvi i casi di gravi reati, ha sfidato i leghisti: “I temi delle proposte referendarie annunciate oggi fanno parte del pacchetto di emendamenti di Azione. Basta votarli”. Gli altri quesiti referendari rientrano nel ddl sul Csm, il termine per gli emendamenti scade il 3 giugno, ma fino ad ora la Lega non ha anticipato in alcun modo il suo pacchetto, nemmeno alla presentazione dei referendum. La sensazione è che la Lega punti a fare il partito di lotta pur rimanendo al governo, cavalcando il tema della giustizia nelle piazze ma senza di fatto affrontarlo nella sede parlamentare già avviata. Un gioco pericoloso che gli altri partiti provano a depotenziare: “La riforma della giustizia va fatta in parlamento - dice la capogruppo del Pd alla Camera, Debora Serracchiani - è il momento delle soluzioni condivise e non delle bandierine agitate per convenienza politica”. Il 4 giugno Cartabia incontrerà la maggioranza in un vertice sulla riforma del Csm e la contromossa potrebbe essere quella di importare nel dibattito di commissione i temi dei referendum, alcuni dei quali sono appunto già stati proposti da altri partiti. Oltre che l’emendamento Costa già presentato sulle misure cautelari, infatti, anche il Pd porterà una proposta per introdurre membri laici con diritto di voto nei consigli giudiziari. Magistratura, le funzioni e la riforma di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 2 giugno 2021 Non devono essere confusi gli aspetti degenerativi del corporativismo con quelli elevati dell’associazionismo. Se si intende preservare una effettiva indipendenza e imparzialità bisogna garantirne la autonomia culturale e l’indipendenza istituzionale. Un recente sondaggio realizzato da Ipsos per il Corriere della Sera ha rivelato il crollo della fiducia nei magistrati passata, negli ultimi 11 anni, dal 66 al 39%. Benché la maggioranza delle persone interpellate ritenga che i tempi lunghi della giustizia, la presenza di magistrati politicizzati o corrotti e le sentenze discutibili, ne costituiscono le cause primarie, il dato più preoccupante è il diffuso disinteresse per la riforma della magistratura in quanto rispecchia quello più generale per la giustizia. Un punto di vista che, anche grazie alle sollecitazioni europee, non è condiviso dal Governo che comunque ha ritenuto di posticipare la riforma del Consiglio Superiore della Magistratura a quella del processo penale, pur premettendo che tra i primi interventi vi sarà quello di arginare il peso delle correnti all’interno della Associazione nazionale magistrati (ANM). Tuttavia è alto il rischio di una tempistica capovolta e soprattutto l’abbattimento di un bersaglio sbagliato posto che per dare maggiore concretezza alla astratta espressione rituale “riforma della giustizia” si deve partire proprio dalla magistratura e quindi dal significato che oggi deve essere attribuito ai principi di autonomia dell’ordine giudiziario e tutela dei diritti, sui quali la stessa si fonda. Al potere giudiziario è certamente affidato il funzionamento e la regolamentazione degli uffici giudiziari. Ma, al contempo, esso ha anche il compito di assicurare la corretta e uniforme applicazione al diritto in tutti i casi nei quali risulti essere controverso. Una funzione che in un momento storico come quello che stiamo vivendo, caratterizzato da una tumultuosa e frequentemente confusa produzione legislativa, equivale ad interpretare la legge nel rispetto di valori posti a base dell’Ordinamento giuridico, tenendo conto del continuo evolversi della società. Sotto altro profilo, non devono essere confusi gli aspetti degenerativi del corporativismo con quelli elevati dell’associazionismo che, nel caso della magistratura, sin dalle sue origini (la prima associazione fra i magistrati è stata l’AGMI - Associazione Generale fra i Magistrati d’Italia - nata nel 1909) persegue finalità di indipendenza, in primo luogo dal potere politico, e di imparzialità. Un concetto quest’ultimo da intendere come disinteresse personale e non certo di apoliticità assoluta. Senza dubbio vi sono margini per migliorare il sistema elettorale e disciplinare del CSM. È anche legittimo assumere una più adeguata regolamentazione dei magistrati in politica; un tema del quale da tempo si è occupata anche la Corte Costituzionale (sentenza n. 100/1981) per stabilire che gli stessi, al pari di ogni altro cittadino, devono godere dei medesimi diritti di libertà anche se, svolgendo funzioni non prive di effetto per l’ordinamento costituzionale, possono subire delle limitazioni all’esercizio dei loro diritti. Pur tuttavia se si intende preservare una effettiva indipendenza e imparzialità della magistratura, e quindi recuperare la fiducia dalla stessa perduta, bisogna garantirne la autonomia culturale e l’indipendenza istituzionale, che non si realizzano attraverso accordi correntizi, come purtroppo le cronache recenti e del passato inducono a supporre, bensì con un confronto di idee e di valori nel quale posso emergere anche forti contrapposizioni. Un dibattito che naturalmente deve svilupparsi all’interno dell’organismo associativo, a nulla rilevando che lo stesso possa essere espressione di una composita rappresentanza di “correnti”, a patto che le stesse recuperino la loro originaria missione di valorizzazione del pluralismo culturale. La magistratura, che rappresenta un ordine e non certo un potere dello Stato, oggi più che mai oltre a svolgere funzioni protettive e repressive, deve anche promuovere i diritti sociali alla luce di una nuova cultura giuridica caratterizzata da un maggiore radicamento nella società e, perché no, formulare critiche alla politica giudiziaria proponendo il proprio punto di vista e i suggerimenti utili a migliorarla. Il pericolo di una “giustizia di transizione” che diventa permanente di Adriano Sofri Il Foglio, 2 giugno 2021 I cambiamenti rapidi e radicali a cui andiamo incontro tutti i giorni devono essere governati. Ma la classe politica e giudiziaria in Italia non sembra essere all’altezza in questo momento. Pannella, chi gli rinfacciasse di essere disposto a fare un patto col diavolo, si sarebbe offeso: “Il diavolo sono io”. Matteo Salvini non è il diavolo, almeno non il diavolo in capo, ma è per il momento un tipo che dice: “marcire in galera” e che corre a farsi il selfie con gli agenti penitenziari accusati di torture. D’altra parte, iniziative strampalate - che il cielo le accompagni, del resto - non possono che fiorire nel momento in cui i pensieri forti si sono dimessi e il discredito simultaneo della classe politica e della classe giudiziaria ha spalancato le porte agli incursori. Anche la lettera di Di Maio piove da questo cielo. Anche Amara e Palamara. La concorrenza fra una riforma della giustizia nelle mani di Cartabia e Lattanzi, legate da giganti del diritto come Bonafede e Travaglio e dalla bava alla bocca del loggione, e la via referendaria imboccata estemporaneamente e, vorranno ben ammetterlo, strumentalmente, da Lega e radicali, porteranno chissà dove. È invalsa una formula, la “giustizia di transizione”, a definire il modo in cui un cambio di regime prova a chiudere i conti col passato. Ho appena letto un libro di Paolo Caroli che vi si dedica, a partire dall’episodio inaugurale dell’Italia repubblicana (“Il potere di non punire. Uno studio sull’amnistia Togliatti”, Esi, 2020). L’amnistia di Togliatti era decretata a ridosso di una tirannide ventennale, della persecuzione razzista, di una catastrofica guerra mondiale e di una feroce guerra civile. Ma il governo della transizione è anche il punto di svolgimenti successivi, pur se avvenuti senza, o quasi, un conflitto armato, e senza demolire la democrazia, e tuttavia segnati da crisi profonde e “sistematiche”, come quella che prese il nome di Tangentopoli. Nel ‘46, la classe politica fu abbastanza forte da decidere per l’amnistia - il potere di non punire - anche se lasciò poi mano libera alla magistratura largamente fascista per l’attuazione; nei 90 la classe politica non esistette - se non in quella chiamata di correo di Craxi, che fece ammutolire tutti ma non indusse nessuno a prendere un’iniziativa - e tutto passò in mano alle Procure. Ma la stessa cosa era già avvenuta nella lotta al terrorismo e in quella alla mafia. E sui due versanti, quello dello stato e quello della società, i fenomeni diversi, gli anni delle stragi e della lotta armata, delle mafie, e della corruzione politica e civile, si erano mescolati e sommati. Il tempo è traditore. Il libro di Caroli finisce quando sembra soverchiante la crisi di legittimazione del potere politico, e lo leggo quando straripa la crisi di legittimazione dell’ordine giudiziario. La situazione italiana di oggi è vicina a una ironica chiusura del cerchio. D’altra parte il paradosso sta nelle cose. Nella velocità che hanno preso i mutamenti e nella longevità degli umani. La contraddizione fra l’uomo “arcaico” e la quantità e radicalità dei cambiamenti cui assiste e cui si adatta rende sovreccitato ogni periodo. La giustizia di transizione si propone di assecondare la trasformazione nell’ordine - dunque non è né una rivoluzione né una restaurazione, e vuole sventare l’una e l’altra. Ma il MeToo è un mutamento che esige una giustizia di transizione, il Black Lives Matter lo è… E la cancel culture? L’esperienza planetaria della pandemia lo è clamorosamente - a meno che si pensi a un puro e semplice ritorno allo status quo ante. Il cambiamento climatico lo è. La fine del mondo - lo è. Si deve immaginare una specie di giustizia di transizione permanente? Un calendario in cui ogni giorno diventi un giorno della memoria? (Del resto, ci siamo). Dietro al garantismo “cieco” c’è l’immagine della vera giustizia di Guido Vitiello Il Foglio, 2 giugno 2021 Siamo stati per quasi trent’anni “garantisti pelosi”, da quando Giorgio Bocca - era il 21 marzo 1993 - coniò l’epiteto contro l’avvocato Alfredo Biondi, beccandosi peraltro una risposta memorabile: “Che io sia peloso l’avrà saputo da sua sorella”. A quanto pare oggi ci consentono di perdere il pelo (non il vizio, quello ce lo teniamo stretto) e ci propongono di scegliere tra due nuove opzioni: “garantisti ciechi” (Luigi Di Maio) o “impunitisti” (Enrico Letta). Per parte mia non ho dubbi, appoggio la mozione Di Maio. Oltre a trasudare vigliaccheria, malafede e prudenza pusillanime da ogni sillaba, “impunitismo” fa ridere i polli per ragioni simmetriche a “giustizialismo”. Francesco Saverio Borrelli si divertiva a ricordare che il justicialismo era l’ideologia di Juan Domingo Perón, una forma di populismo autoritario: ergo, il vero giustizialista - lì puntava il sillogismo maligno del procuratore - era Berlusconi. Allo stesso modo, faremmo bene a ricordare che impuniti o impunitari era il nome con cui la giustizia dello stato pontificio chiamava i delatori, ossia i proto-pentiti e i proto-whistleblower: ne consegue logicamente che se cercate impunitisti dovete citofonare a casa Davigo o alla procura di Palermo. La frase dalla lettera di Di Maio al Foglio, invece - “la cosiddetta questione morale non può essere sacrificata sull’altare di un ‘cieco’ garantismo” - ha almeno il pregio di suggerire un’immagine. Se chiudesse gli occhi e provasse a raffigurarselo, questo altare su cui rifiuta di compiere l’immolazione del mito dell’onestà, il ministro vedrebbe una figura umana bendata, che per via della sua cecità non si cura del potere, della ricchezza o della posizione sociale degli accusati, e ascolta solo la bontà delle loro ragioni. Non vi ricorda nulla? Facciamoglielo costruire, questo monumento al Garantista Cieco. Si accorgerà che è indistinguibile dalla dea della giustizia. Il garantismo non vale solo per chi è assolto di Astolfo Di Amato Il Riformista, 2 giugno 2021 Dalle scuse di Di Maio (poco credibili) al caso del Mottarone, vacilla lo stato di diritto. Per questo sono importanti i referendum promossi da Radicali e Lega: non contro i magistrati ma a favore dello stato di diritto. Luigi Di Maio, chiedendo scusa all’ex sindaco Uggetti con una lettera pubblicata su II Foglio, ha riscosso un larghissimo consenso. Tutti i commentatori, o almeno la più gran parte, ne hanno tratto il convincimento di un cambio di rotta così radicale, da parte del leader grillino, da segnare addirittura il tramonto di un’epoca ed il passaggio ad una fase nuova della politica italiana. Anche su questo giornale, Alberto Cisterna ha scritto che “l’analisi del ministro Di Maio segna uno scarto decisivo e irreversibile in un fronte politico che, troppo in fretta, era stato descritto come irrimediabilmente giustizialista”. È giustificato tanto entusiasmo? Le perplessità sono molte, troppe. Già l’analisi del testo della lettera suscita molti dubbi sulla sua reale portata. Vi sono, in particolare, due passaggi che vanno sottolineati. Con riferimento alla vicenda dell’ex sindaco Uggetti, afferma Di Maio che “l’arresto era senz’altro un fatto grave in sé, che allora portò tutte le forze politiche a dare battaglia contro l’ex sindaco, ma le modalità con cui lo abbiamo fatto, anche alla luce dell’assoluzione di questi giorni, appaiono adesso grottesche e disdicevoli”. È l’esito del processo, dunque, e cioè “l’assoluzione di questi giorni” che, siccome favorevole all’imputato, proietta una valutazione negativa su quanto avvenuto. Troppo facile! Non è questo il garantismo. Come ha scritto Sansonetti, con riguardo alla vicenda della funivia del Mottarone, il garantismo consiste in “quel sistema di civiltà e di rispetto della giustizia che scatta in modo più massiccio se il reato è più grave. Tanto più è grave il reato tanto più la giustizia pretende garanzie per l’imputato”. Non è, dunque, l’esito del processo il criterio per giudicare l’ordalia che si è scatenata durante le indagini. L’ordalia è inammissibile in sé e non ha niente a che vedere con la civiltà del diritto. Il secondo passaggio, che va sottolineato, è quello in cui si afferma che “la cosiddetta questione morale non debba essere sacrificata sull’altare di un cieco garantismo”. Cosa significa? Che il garantismo è legittimo se l’imputato è innocente, mentre se è colpevole deve prevalere la persecuzione moralistica? L’affermazione è tanto sconclusionata da rendere evidente il tentativo di conciliare l’inconciliabile e, soprattutto, di non mettere minimamente in discussione il diritto ad invocare la gogna pubblica, quando vi sia il sostegno di pretese ragioni morali. E questa sarebbe la “svolta garantista” dei 5Stelle? Meglio, dunque, non crogiolarsi nell’illusione che, dopo la lettera di Di Maio, si siano sciolte, anche solo in parte, le difficoltà per una accettabile riforma della giustizia. Anzi, quello che sta accadendo in questi giorni indica che il percorso è tutto in salita. Già con riguardo alla assoluzione di Uggetti, non vi è stato nessuno che abbia levato con forza la voce per chiedere di verificare se vi sia stata superficialità nelle indagini, pregiudizio nelle valutazioni. Nessuno che si sia vergognato della vigliaccheria di non avergli dato solidarietà di fronte alla debolezza delle accuse. Inutile, come ha scritto Gian Domenico Caiazza, rifugiarsi oggi nella retorica consolatoria e mistificante della “giustizia che alla fine trionfa. Una retorica inutile e beffarda”. Emblematico dello stato in cui la giustizia si trova in Italia è anche quanto sta avvenendo con riguardo alla vicenda del Mottarone, cui si é già fatto cenno. Si è scatenata immediatamente una volontà di linciaggio, che ha visto i media, anche quelli che si propongono come moderati, guidare un’opinione pubblica, alla quale si evita accuratamente di ricordare che la civiltà di un paese, anche di fronte a fatti gravissimi, si misura sulla capacità di mantenere fermo il principio che ogni vicenda deve trovare soluzione attraverso una applicazione razionale del diritto e che morale e diritto si collocano su piani diversi. A questa ondata di indignazione popolare ha fatto seguito la richiesta della Pm di carcerazione preventiva. Ebbene, la Gip ha rilevato che nelle carte dell’indagine mancava quello che tutti davano per scontato e, cioè, addirittura la esistenza di gravi indizi di colpevolezza per due dei tre imputati! Così confermando, per l’ennesima volta, che tra scandalismo moralista e razionale applicazione del diritto vi è un abisso. In proposito, è utile anche ricordare che nessuna richiesta di carcerazione preventiva ha fatto seguito alla tragedia del ponte Morandi, eppure nessuno dubita della estrema serietà della relativa indagine e del giudizio che seguirà. Queste considerazioni consentono anche di cogliere meglio il significato e la portata dei referendum sulla giustizia, che Partito Radicale e Lega stanno per promuovere. Sbaglierebbe chi ritenesse che la posta più importante in gioco sia il ridimensionamento, approfittando della attuale perdita di credibilità, dei magistrati e, in particolare, delle procure. Certamente l’ordine giudiziario si batte ormai da tempo, in modo compatto, per ostacolare qualsiasi riforma che limiti lo smisurato potere che oggi ha lo scassato sistema giustizia. In questo, dunque, sta svolgendo il ruolo di una forza conservatrice. La posta in gioco più importante è, tuttavia, costituita dal tentativo, attraverso il referendum, di ripristinare nella collettività il senso delle istituzioni e del diritto, la consapevolezza della complessità delle vicende umane e la totale inadeguatezza della rabbia e del rancore a governare una società. Specie una società sempre più articolata, che deve affrontare le sfide della modernità. Spetta ai partiti ed agli altri gruppi intermedi intercettare e razionalizzare le istanze di trasformazione e di tutela che vengono dalla collettività, Strumentalizzarle per convogliarle in un disperato desiderio di spietata vendetta collettiva, come purtroppo è spesso accaduto in questi ultimi trenta anni, ha portato il paese sull’orlo del collasso. Ecco, allora, che l’iniziativa referendaria presenta il pregio di offrire l’occasione per aprire nel paese una stagione di dibattito sulla giustizia, e quindi sul diritto. Il rischio, ovviamente, è che chi ha sinora lucrato su di una giustizia, usata come arma contro l’avversario, ostacoli il dibattito e cerchi di occultare la vicenda referendaria. Non sarebbe la prima volta. Ma significherebbe sottovalutare il rischio che un ulteriore degrado della attuale situazione può rappresentare per la tenuta delle istituzioni democratiche. Non è la rabbia popolare il fondamento di una democrazia. Difesa d’ufficio per i pm: così l’Anm “separa” le carriere di Simona Musco Il Dubbio, 2 giugno 2021 Il sindacato delle toghe “dimentica” i giudici. “Sulla separazione delle carriere ci sono criticità che a me sembrano non superabili. Creare un corpo di pubblici ministeri separato da tutto è probabilmente più pericoloso dell’attuale assetto”. La frase tra virgolette è stata pronunciata il 29 aprile scorso, poco più di un mese fa, da Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione nazionale magistrati. Una frase con la quale il numero uno del sindacato delle toghe ha ribadito la linea del no alla separazione delle carriere, considerata addirittura pericolosa, in quanto la conseguenza che ne deriverebbe sarebbe quella della dipendenza del pm dal potere politico. “È proprio necessario allontanarlo dalla giurisdizione, recidere quel legame di formazione comune e di condivisione di percorsi professionali, pur nella già accentuata separazione delle funzioni, che allo stato definiscono la cornice entro la quale il pubblico ministero può alimentarsi di una cultura delle garanzie?”, aveva dichiarato in un’intervista al Riformista. Per le toghe, d’altronde, è sciocco auspicare una divisione, perché l’indipendenza di inquirenti e giudicanti sarebbe garantita già oggi, senza bisogno di sconvolgere alcunché. Ne è certa, ad esempio, la procuratrice di Verbania, Olimpia Bossi, che ha preso come esempio la decisione della gip Donatella Banci Buonamici - che ha smontato l’impianto accusatorio formulato dalla procura nelle indagini sulla tragedia di Stresa-Mottarone - per ribadire che, nonostante la vicinanza (“prendevamo sempre il caffè insieme”), ognuno riesce a fare il proprio lavoro con il dovuto distacco. Eppure proprio questo caso ha dimostrato il contrario: non solo grazie al commento della stessa Bossi, che ha deciso di cambiare abitudini rimandando quel quotidiano caffè ad un domani non meglio specificato, come se le decisioni di un giudice contrarie alle posizioni di un pm fossero da considerare una sorta di sgarbo, ma anche grazie alla reazione dell’Anm. È lo stesso sindacato delle toghe, infatti, ad usare due pesi e due misure, difendendo a spada tratta i magistrati che hanno formulato le accuse dai presunti attacchi dei penalisti, accusati di voler esercitare indebite pressioni sulla procura (anzi, sulle procure in generale), solo per aver affermato che quel fermo è stato eseguito in maniera illegittima. Parole considerate un attacco e, dunque, respinte come una minaccia. Ma la stessa giunta piemontese dell’Anm, che si è espressa dopo il provvedimento del gip, non ha tenuto in considerazione proprio quanto detto dal giudice, che non la sua decisione ha sconfessato il lavoro di quelle toghe, peraltro confermando le osservazioni ritenute “indebite” degli avvocati. “Il fermo è stato eseguito al di fuori dai casi previsti dalla legge”, ha scritto Banci Buonamici, di fatto ribadendo quanto già detto dagli avvocati, che pure non erano entrati nel merito della questione. La domanda, formulata anche dalla Camera penale del Piemonte orientale, è d’obbligo: l’Anm non rappresenta, forse, anche i giudici? E perché la difesa d’ufficio è scontata per quei giudici che condannano o confermano le misure cautelari (aderendo alla tesi del pm) e per gli stessi organi inquirenti e non lo è per chi decide, con la stessa autonomia e indipendenza, di sconfessare le tesi dell’accusa? Il legame, allora, è già reciso. E l’Anm, ad oggi, appare proprio essere il sindacato dei soli pm. In caso contrario batta un colpo. “È lo Stato di diritto, bellezza”: la lezione del gip di Verbania di Simona Musco Il Dubbio, 2 giugno 2021 Strage della funivia, la giudice che ha scarcerato i tre indagati smonta le polemiche: “Dovreste essere tutti felici di vivere in uno Stato democratico”. “Il pm fa il suo lavoro bene e io faccio il mio lavoro credo altrettanto onestamente. È il sistema, dovreste ringraziare che il sistema è così, dovete essere felici di vivere in uno Stato dove il sistema fa giustizia o è una garanzia e invece sembra che non siate felici. Perché non siete felici? L’Italia è un Paese democratico”. Poche parole, rubate dai cronisti assiepati davanti al Tribunale di Verbania. Ma quanto basta al giudice per le indagini preliminari Donatella Banci Buonamici per liquidare una polemica alimentata dai media che, che da giorni, non aspettano altro che l’ennesimo battibecco sulla giustizia, mettendo in secondo piano tutto: la tragedia, le vittime, le regole del diritto, gli equilibri del giusto processo. Così, nel teatrino che è diventata l’inchiesta sulla tragedia della funivia di Stresa-Mottarone, tocca alla giudice rimettere in ordine le cose. Ricordando che esiste lo Stato di diritto e che per tutti, giustizialisti compresi, è una garanzia che dovrebbe far dormire sonni tranquilli. La decisione del giudice di rimettere in libertà due degli indagati e mandare a domiciliari il terzo ha, infatti, generato l’ennesimo vespaio di polemiche. Perché in tanti, ignari delle regole che stanno alla base del sistema accusatorio, hanno tratto un’unica conclusione: il giudice ha già assolto tutti, mandando in fumo un’inchiesta che, invece, aveva già trovato i colpevoli in pochi giorni, tradendo i familiari delle vittime che, intanto, aspettano giustizia. Insomma, una sentenza già scritta stracciata in faccia all’opinione pubblica, per la quale quegli indagati non meritano - ovviamente - alcuna difesa. La gip, però, ha chiarito, probabilmente suo malgrado, i fatti: “Io ho osservato - ha detto - che non esisteva il pericolo di fuga, e non ho ritenuto per due persone la sussistenza dei gravi indizi non perché non abbia creduto a uno (Tadini, ndr), ma ho ritenuto non riscontrata la chiamata in correità. La chiamata in correità - ha aggiunto - deve essere dettaglia e questa non lo era ed anzi era smentita da altre risultanze”. Insomma: di elementi concreti, tra quelli - necessariamente parziali - portati dalla procura, non ce n’erano. Non abbastanza, di certo, per tenere tre persone in carcere ipotizzando un pericolo di fuga motivato con il clamore mediatico della vicenda. Così, sabato sera, ha preso la propria decisione applicando semplicemente la legge, mandando ai domiciliari Gabriele Tadini, responsabile del funzionamento dell’impianto e reo confesso, e lasciando a piede libero Enrico Perocchio, direttore di esercizio dell’impianto e Luigi Nerini, amministratore unico di Ferrovie del Mottarone. Tutti rimangono indagati per gravi reati: rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, omicidio colposo e lesioni colpose, mentre il solo Tadini risulta anche indagato per falsità ideologica, non avendo segnalato nell’apposito registro il malfunzionamento del sistema frenante della cabina numero 3, che il 23 maggio, è precipitata a folle velocità verso valle, sganciandosi dalla fune e schiantandosi a terra, fino ad impattare contro gli alberi, provocando la morte di 14 persone e lesioni gravi all’unico sopravvissuto, un bimbo di 6 anni. La decisione non è piaciuta alla procuratrice Olimpia Bossi, che commentando l’esito dell’udienza di convalida si è lasciata andare ad un attimo di amarezza: “Prendevamo insieme il caffè - ha detto parlando della gip -, per un po’ lo berrò da sola”. Insomma, la non conformità dell’azione del giudice a quella del magistrato è stata interpretata come “un atto di inimicizia”, come ha osservato l’Unione delle Camere penali. Ma la procuratrice ha anche fatto una distinzione tra diverse categorie di diritti: “Quelli dei vivi” contro “quelli dei morti”, come se appartenessero a due mondi diversi, quasi in conflitto. Delle due donne protagoniste di questa vicenda giudiziaria la stampa fornisce due ritratti opposti: amorevole ed empatica la procuratrice, “gelida” la giudice, diceva ieri La Stampa. E non è difficile immaginare che leggendo tali descrizioni non si finisca per simpatizzare per l’una anziché per l’altra, come se, appunto, la giustizia fosse questione di tifo. Ma così non è, ricorda Banci Buonamici. La giustizia è fatta di diritti, di garanzie che valgono per tutti, buoni e cattivi, belli e brutti. E il suo provvedimento - che non tradisce alcuna convinzione personale sulla responsabilità degli indagati - ne è la dimostrazione più lampante. La giudice, infatti, non ha fatto altro che constatare la fragilità degli elementi a supporto della richiesta di convalida del fermo, sottolineando che lo stesso è stato eseguito “al di fuori dei casi previsti dalla legge”. Illegittimo, dunque, e non avallabile in uno Stato di diritto. Perché illegittimo? Nessun elemento concreto è stato portato a sostegno del pericolo di fuga, “presupposto indefettibile per procedere al fermo di indiziati di reato”. E la richiesta non indica “alcun (scritto tutto maiuscolo nell’ordinanza del giudice, ndr) elemento dal quale sia possibile evincere il pericolo di allontanamento dei tre indagati”. Non vale, giuridicamente, il richiamo al clamore mediatico della vicenda (“è di palese evidenza la totale irrilevanza”, al punto da definirlo “suggestivo”), né la minaccia di una pesantissima sanzione detentiva (“le situazioni di concreto e attuale pericolo non possono essere desunte unicamente dalla gravità del titolo di reato”). Si tratta, cioè, solo di supposizioni, di ipotesi non riscontrate. Tant’è che il giudice evidenzia dati ovvi, in assenza di altri elementi: i tre vivono, lavorano e hanno famiglia in Italia, uno dei tre ha confessato, gli altri due si sono messi subito a disposizione degli inquirenti. Da cosa si poteva evincere il pericolo di fuga? Così come la chiamata in correità di Tadini nei confronti di Nerini e Perocchio non risulta riscontrata: gli operai sentiti a sit hanno anzi tutti confermato la responsabilità di Tadini, tranne uno, colui che avrebbe dovuto togliere i ceppi al sistema frenante e che, dunque, “ben sapeva del rischio di essere lui stesso incriminato per avere concorso a causare con la propria condotta, che avrebbe benissimo potuto rifiutare, la morte dei 14 turisti”. Insomma: non era totalmente credibile. Così come non lo sarebbe l’indagato principale, che ha mentito laddove ha negato di avere il potere di fermare l’impianto, possibilità, invece, prevista dalla legge. “Certamente - ha evidenziato il gip - tale normativa non poteva essere da lui ignorata trattandosi di perito tecnico con mansioni di responsabilità, operante da 36 anni nel settore dei trasporti su fune”. Trattativa, il Pg di Palermo bacchetta tutti i giudici che l’hanno smontata di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 2 giugno 2021 Nella memoria, depositata alla Corte d’appello dove è in corso il processo trattativa, si criticano le sentenze di assoluzione di Calogero Mannino. Quasi a voler dire, parafrasando Orwell, che ci sono sentenze più uguali delle altre. “Travisamento dei fatti”, “mancata assunzione di prova decisiva”, “grave illazione fondata sul nulla”, “mera illazione”, “evidente abbaglio”, sono una delle tante considerazioni che il procuratore Generale di Palermo riserva alle motivazioni delle sentenze di primo e secondo grado che hanno assolto, con tanto di pronuncia definitiva della Cassazione, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino. Parliamo della memoria depositata alla Corte d’appello di Palermo dove è in corso il secondo grado del processo trattativa Stato-mafia. Più specificatamente la procura generale è entrata nel merito della decostruzione della tesi trattativa e della gestione del procedimento del famoso dossier mafia-appalti, di cui uno dei pubblici ministeri titolari era proprio l’attuale procuratore generale di Palermo, che rappresenta oggi l’accusa nel processo trattativa. Sono tre le giudici che - avrebbero omesso, travisato, fatto contradditorie motivazioni - In particolare, sono tre le giudici che - a detta del Pg - avrebbero omesso, travisato, fatto contradditorie motivazioni: la gup Marina Petruzzella, il collegio presieduto da Adriana Piras e la compianta Gip di Caltanissetta Gilda Loforti. Quest’ultima merita un ricordo. Era nata a Cefalù il 31 agosto del 1959 ed è scomparsa a soli 49 anni, per una grave malattia che l’aveva colpita nel 2000 e che pareva avere superato con grande energia, sino a un ultimo devastante episodio che il primo aprile del 2008 l’ha portato via. Nella sua breve ma intensa carriera, è stata prima giudice al Tribunale di Nicosia e, poi, al Tribunale e alla Corte di Appello di Caltanissetta. Oggi c’è un’aula del tribunale nisseno a lei dedicata. Gilda Loforti aveva smentito la teoria della doppia informativa per mafia-appalti - Nella memoria della Procura generale viene citata anche la Loforti, poiché la giudice di primo grado Petruzzella ha reso noto la sua ordinanza di archiviazione del 15 marzo 2000. In particolare il riferimento è al capitolo relativo alla teoria della doppia informativa, ovvero l’accusa da parte dei titolari del procedimento mafia-appalti di allora (e rievocata nuovamente dall’accusa del processo Mannino) che consisteva nel dire che i Ros avrebbero depositato un dossier depurato appositamente dei nomi dei politici importanti. La compianta Loforti, invece, attraverso un’analisi capillare dei fatti (con tanto di indagini svolte) aveva smentito tale teoria. La giudice Petruzzella l’ha fatto presente nelle motivazioni, respingendo le accuse del pm che, a detta della procura generale di Palermo - così come scrive nella memoria appena depositata - avrebbe fatto “ineccepibili e gravissime considerazioni”. Per il Pg l’accusa è ineccepibile, per la giudice Petruzzella evidentemente no. Motivazioni che saranno confermate e ampliate dal collegio guidato dalla giudice Piras. Ma anche in quel caso, come si evince dalla memoria depositata dal Pg, evidentemente non ci hanno capito nulla. La memoria del Pg è tutta concentrata sulla trattativa - Ma la memoria è tutta concentrata sulla trattativa. Una giudice e un intero collegio, secondo il Pg, non avrebbero assunto prove, a detta loro, decisive. Così come, sempre secondo la procura generale, ci sarebbe stata in più punti una “manifesta illogicità della motivazione assolutoria del Mannino”. Tra gli altri rilievi compare anche “l’omessa e contraddittoria motivazione in merito alle dichiarazioni rese da Ferraro Liliana”. In sostanza, la Corte d’Appello presieduta dalla Piras avrebbe dunque sbagliato concentrandosi sulle dichiarazioni dibattimentali della Ferraro del 28 settembre 2010, nel procedimento instaurato nei confronti dei carabinieri Mori e Obinu, imputati (e assolti definitivamente) della cosiddetta mancata cattura di Provenzano. Secondo il Pg la Corte che ha assolto Mannino avrebbe dovuto bacchettare la Ferraro - Come mai questa obiezione? Secondo la memoria del Pg, concentrandosi solo su questo, la Corte presieduta dalla Piras “ha omesso di valutare significative divergenze, palesi omissioni ed evidenti contraddizioni in precedenti e successive audizioni della stessa nella fase delle indagini”. Ed ecco che, secondo la procura generale di Palermo, la Corte che ha assolto Mannino avrebbe dovuto bacchettare la Ferraro. Sì, proprio colei che lavorò al fianco di Giovanni Falcone fino alla fine dei suoi giorni. Dedicò vent’anni della sua esistenza professionale alla collaborazione con gli uffici giudiziari, prima per la lotta contro il terrorismo, poi contro la mafia. Fu lei che contribuì alla ristrutturazione del carcere dell’Asinara per far rinchiudere le Brigate rosse, così come dopo, assieme all’ex ministro della Giustizia Claudio Martelli, fu sempre lei a far riaprire le carceri speciali per rinchiudere i mafiosi dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. Il ricorso rigettato dalla Cassazione - Una vita dedicata alla lotta alla criminalità organizzata. Parliamo della stessa Ferraro che nella sentenza di primo grado sulla presunta trattativa Stato-mafia viene fortemente bacchettata, sottolineando che ha avuto “eclatanti dimenticanze”. In questo caso nessuno ha avuto nulla da dire. Ma se delle giudici serie, come quelle del processo Mannino, che non si lasciano fuorviare dalle suggestioni e pressioni massmediatiche, decidono di restituire la giusta dignità a una donna che ha svolto con amore il proprio dovere - per questo rispettata da Falcone e Borsellino -, allora no, non va bene: arriva un pezzo, in realtà molto piccolo ma più rumoroso, della magistratura che si sente superiore ai giudici stessi e addirittura, come in questo caso, alla Cassazione che ha rigettato il loro ricorso. Lo Stato di diritto e il giudice terzo - Una superiorità manifestata tramite una memoria che, di fatto, colpisce il lavoro del giudice che deve essere terzo e che si pone in una posizione di assoluta indifferenza e di effettiva equidistanza dalle parti contendenti. Questo recita la Costituzione e questo è il pilastro dello Stato di diritto. D’altronde, la memoria dei Pg, ironia della sorte, arriva proprio nel momento in cui è sotto tiro un’altra Gip. Parliamo di Donatella Banci Buonamici, “rea” di aver scarcerato sabato i tre fermati per l’incidente della funivia del Mottarone, mettendo ai domiciliari Gabriel Tadini. L’Associazione nazionale dei magistrati, invece di difendere lei, ha attaccato le Camere penali. Secondo la memoria depositata la sentenza di primo grado sulla trattativa è l’unica via maestra - Ma ritorniamo alla memoria depositata dalla procura generale. Oramai siamo nella fase in cui si prende come unica via maestra la sentenza di primo grado sulla trattativa: tutte le altre sentenze, anche definitive, valgono come la carta straccia. Sbagliano i tre gradi giudizio sul processo a Mannino che smentiscono la trattativa, sbagliano le sentenze del Borsellino Quater che escludono categoricamente la presunta trattativa collegata con l’accelerazione della strage di Via D’Amelio, sbagliano le due decisioni del processo Capaci Uno e Capaci bis che individuano il movente mafia- appalti come causa della strage, escludendo teorie fantasiose come quelle del “doppio cantiere” nella fase di esecuzione della strage dove perse la vita Giovanni Falcone. Sembrerebbe proprio che gli unici a non sbagliare siano quelli che - inquirenti e giudicanti - da Palermo sostengono la tesi della trattativa. Parafrasando Orwell “ci sono sentenze più uguali di altre” - Siamo arrivati quindi ad Orwell. In particolare parliamo del suo famoso libro “La fattoria degli animali”. Un romanzo, tra l’altro, che aveva il compito di smascherare talune ipocrisie. Sì, perché, così ha affermato Orwell, “se la libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuol sentirsi dire”. Ebbene, il libro parla di un regime che diventa ben presto dittatoriale. Al motto “tutti gli animali sono uguali” viene aggiunto “Ma alcuni sono più uguali degli altri”. I pm contro la Cassazione su Mannino scrivono il de profundis della Trattativa di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 2 giugno 2021 L’ormai lungo romanzo mediatico-giudiziario della cosiddetta trattativa Stato-mafia si arricchisce di un ulteriore capitolo, suggestivo forse sul piano drammaturgico, ma discutibile in punto di diritto: la memoria di 78 pagine depositata dai sostituti procuratori generali Fici e Barbiera nel processo-trattativa con rito ordinario attualmente in fase di appello per contestare la fondatezza dell’assoluzione definitiva dell’ex ministro Calogero Mannino nel processo parallelo con rito abbreviato già conclusosi anche in Cassazione. Che la procura generale palermitana abbia interesse a tentare di smontare in profondità il predetto giudicato assolutorio è in sé comprensibile: l’accusa originaria rivolta a Mannino (di avere cioè sollecitato per primo il dialogo che esponenti delle istituzioni avrebbero avviato con i vertici mafiosi corleonesi per stipulare patti compromissori in vista dell’interruzione della strategia omicidiaria ai danni di uomini politici colpevoli, secondo Cosa nostra, di non aver voluto o saputo impedire l’avallo in Cassazione delle pesanti condanne piovute nel maxiprocesso) costituiva e continua infatti a costituire il presupposto di tutta la costruzione accusatoria della trattativa; per cui, se cade il primo pilastro, incombe il rischio concreto di un crollo dell’intera struttura argomentativa. Nondimeno, rimane da chiedersi: è ammissibile che l’organo di accusa del processo-madre prenda in mano la matita blu per segnare i (presunti) numerosi errori motivazionali in cui sarebbero incorsi i giudici di un altro processo per giunta passato al vaglio del giudizio di legittimità? I sostituti procuratori generali ritengono di potersi ergere a super-censori del già deciso avvalendosi del ricorso all’art. 238 bis del codice di procedura penale, cioè di una disposizione normativa approvata subito dopo la strage di Capaci (in cui perse la vita Giovanni Falcone) e concepita appunto per essere applicata soprattutto nei processi di criminalità mafiosa: questa disposizione stabilisce che le sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite in altri procedimenti ai fini della prova dei fatti da esse accertati e sono valutate a norma degli artt. 187 e 192, comma 3, dello stesso codice di procedura (vale a dire unitamente agli altri elementi di prova disponibili). Evidentemente il legislatore del 1992, disponendo in questo modo, muoveva dalla premessa - funzionale ad una esigenza di economia probatoria - che, essendo Cosa nostra una realtà criminosa unitaria, ogni singolo processo già concluso potesse contenere acquisizioni utili ai fini della condanna di altri mafiosi in processi ancora in corso: insomma, ciascun processo come un tassello che contribuisce alla messa in stato di accusa e alla punizione dell’intera organizzazione criminale. Se così è, sembra allora quantomeno dubbio che lo stesso art. 238 bis possa essere senza obiezioni utilizzato per uscire dal vicolo cieco di giudizi contraddittori sugli stessi fatti, la cui esistenza indebolisce fortemente un’ipotesi accusatoria che si intende nonostante tutto perseguire, e ciò sino al punto di pretendere di ribaltare di fatto e nella sostanza l’esito di processi già legittimamente chiusi. È vero che esiste pur sempre - come gli stessi procuratori riconoscono - lo sbarramento opposto dal principio del ne bis in idem, grazie al quale Mannino una volta assolto in via definitiva non può essere più formalmente riprocessato per gli stessi fatti. Ma è altrettanto vero che Mannino finisce, per effetto della mossa della procura, col subire ancora una volta la medesima imputazione su di un piano per così dire sostanziale, tornando a rivestire - anche agli occhi della pubblica opinione - il ruolo di un (presunto) colpevole fortunosamente sfuggito alla condanna a causa della (presunta) scarsa perizia dei suoi giudici. È tollerabile un tale accanimento accusatorio fuori tempo massimo, sia pure strumentale alla perseguita condanna di altri supposti protagonisti della trattativa, in uno Stato di diritto degno di questo nome? Comunque sia, due assunti sembrano a questo punto ricevere una significativa conferma. Il primo è questo: l’esistenza di sentenze contrastanti riprova che l’impalcatura della trattativa è basata su di un teorema che non può in ogni caso essere provato oltre ogni ragionevole dubbio, per cui l’esito dovrebbe essere sempre assolutorio. Il secondo: l’auspicato salto di qualità della nostra giustizia penale esigerebbe, prima ancora che ennesime riforme legislative, un riorientamento culturale volto a contrastare la duplice patologia del teoremismo accusatorio e di un punitivismo oltranzista che tende, per di più, ad assimilare indebitamente giudizio penale, giudizio storico-politico e giudizio morale. Giovanni Brusca libero dopo 25 anni: uccise Falcone di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 2 giugno 2021 La sorella del giudice: doloroso, ma è la legge voluta da mio fratello. Salvini: non è giustizia. Il killer della mafia innescò l’ordigno della strage di Capaci, poi collaborò con i magistrati. Il fine pena è arrivato puntuale, lento ma inesorabile: trent’anni di carcere, che con la liberazione anticipata che si applica a tutti i detenuti - 45 giorni di sconto ogni sei mesi passati in cella, unico beneficio concesso anche ai mafiosi - sono diventati venticinque. E così Giovanni Brusca, il boss di San Giuseppe Jato che era nel cuore di Riina, l’artificiere che fece esplodere la bomba di Capaci, arrestato nel 1996, è uscito lunedì per l’ultima volta dal carcere romano di Rebibbia. Libero, seppure con qualche residua limitazione e sempre sotto protezione, inserito a pieno titolo nel programma per la sicurezza dei pentiti. Pentito - Perché questo ha consentito all’esecutorie materiale della strage di Capaci, l’assassino di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta di non morire in galera come gli altri boss di Cosa nostra che decisero quello e altri eccidi, e centinaia di omicidi: la collaborazione con la giustizia. Brusca i delitti commessi non riusciva nemmeno a contarli, per quanti erano. Ma grazie alla decisione di confessare, denunciare e far condannare gli altri mafiosi, capi, sottocapi e gregari, ha evitato l’ergastolo; trent’anni sono tanti, ma hanno comunque un termine, e adesso quel termine è arrivato. Le reazioni - Il leader della Lega Matteo Salvini accusa: “Non è la giustizia che l’Italia merita”, mentre Maria Falcone, sorella di Giovanni, commenta: “Umanamente è una notizia che mi addolora, però questa è la legge, che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata”. Ma Brusca è l’ultimo pentito della strage a uscire; gli altri che contribuirono a far saltare in aria l’autostrada Palermo-Punta Raisi e che subito o quasi scelsero la via della collaborazione, sono liberi da tempo: Gioacchino La Barbera, Santino Di Matteo e non solo. Di Matteo fu il primo a confessare, nell’autunno del ‘93; per vendetta gli rapirono il figlio Giuseppe appena dodicenne, tenuto segregato per oltre due anni, poi ucciso e sciolto nell’acido. Per ordine di Giovanni Brusca. Era l’inizio del ‘96, al killer chiamato ‘u verru, il porco, erano rimasti pochi mesi di libertà. Lo presero il 20 maggio di quell’anno, in provincia di Agrigento, dopo alcuni tentativi falliti in cui agli investigatori erano rimaste in mano solo le camicie firmate che a Brusca piaceva indossare, abbandonate nella fuga. Quella volta invece centrarono l’obiettivo, e il boss non ancora trentenne (è nato il 20 febbraio 1957) venne catturato assieme al fratello Enzo, altro manovale dei Corleonesi, altro pentito libero da tempo. La collaborazione - La collaborazione di Giovanni Brusca - figlio del boss Bernardo, condannato al maxiprocesso istruito da Falcone e da Paolo Borsellino -- cominciò con un tentativo di depistaggio. All’inizio parlò di patti sottobanco, provò a svelare ambigui contatti con lo Stato e cercò di tirare in ballo l’ex presidente dell’Antimafia Luciano Violante, ma erano bugie orchestrate per mettere in crisi le istituzioni e il pentitismo. Fallito quel tentativo, Brusca decise di collaborare per davvero, e rivelò tanti particolari della strategia messa in campo da Totò Riina, prima per conquistare Cosa nostra e poi per attaccare lo Stato. E lui, Brusca, fu uno dei suoi bracci operativi; se non il più fedele, uno dei più efficaci. La strage di Capaci - Quando nel 1992 il capo corleonese stabilì di chiudere i conti con i referenti politici da cui si sentiva tradito e di avviare la stagione del terrorismo mafioso per fare fuori i nemici storici, Falcone e Borsellino, Brusca fu l’uomo incaricato di procedere; altri killer inviati a Roma per mettersi sulle tracce del giudice antimafia trasferitosi al ministero della Giustizia avevano fallito la missione, e a quel punto Riina affidò a Brusca la pratica che si sarebbe chiusa il 23 maggio 1992, con l’esplosione sull’autostrada provocata dal radio-comando attivato da ‘u verru. Poi - così ha raccontato da pentito - lo zio Totò gli ordinò di organizzarsi per uccidere l’esponente democristiano Calogero Mannino, ma subito dopo gli chiese di rallentare, perché c’era da dare la precedenza a un’altra vittima: Paolo Borsellino. La trattativa Stato-mafia - Con le sue dichiarazioni Brusca ha dato il via anche alle indagini sulla trattativa Stato-mafia, parlò del papello con le richieste del boss consegnato ai rappresentanti delle istituzioni che “si erano fatti sotto” per chiedere che cosa voleva, e dei successivi rapporti con la politica. Sempre discusso, ma sempre ritenuto sostanzialmente attendibile, Brusca godeva da tempo di permessi premio, talvolta sospesi quando ne ha approfittato per violare qualche regola ma poi sempre ripristinati. Più volte ha chiesto gli arresti domiciliari, puntualmente negati dai giudici. Fino alla fine della pena, arrivata lunedì. Brusca libero, Lega e Meloni s’indignano. Grasso: lo Stato ha vinto di Andrea Carugati Il Manifesto, 2 giugno 2021 L’amarezza della vedova Montinaro. Maria Falcone: applicata la legge voluta da Giovanni. Salvini: ora cambiare quelle norme. La scarcerazione - dopo 25 anni - del killer di Giovanni Falcone, dell’uomo che ammesso di aver sciolto nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo, scuote l’Italia. A partire dai parenti delle tante vittime (150) di Giuseppe Brusca, per anni braccio destro di Toto Riina e poi collaboratore di giustizia. Ed è proprio grazie a questa collaborazione che la sua condanna è stata ridotta, e che lui ha potuto lasciare il carcere di Rebibbia per “fine pena” (anche se per 4 anni sarà in libertà vigilata). “Sono veramente indignata. Lo Stato ci rema contro. Noi dopo 29 anni non conosciamo ancora la verità sulle stragi e Brusca, l’uomo che ha distrutto la mia famiglia, è libero. Io adesso cosa racconterò al mio nipotino?”, si domanda Tina Montinaro, vedova di Antonio, il caposcorta di Falcone. È Maria, la sorella del magistrato ucciso a Capaci, a risponderle indirettamente: “Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata. Mi auguro solo che magistratura e le forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere, visto che ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia assai tortuoso”. Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, parla di una cosa che “umanamente ripugna”. “Ma nella guerra contro la mafia è necessario anche accettare delle cose che ripugnano, accettare la legge anche quando è duro farlo, come in questo caso”. Parla anche il fratello del piccolo Di Matteo, Nicola: “Abbiamo fiducia nella magistratura che ci è stata sempre vicina. Se non crediamo nella magistratura non crediamo più nello Stato. Brusca ha ucciso mio fratello ma ha espiato la pena nel rispetto della legge”. Salvini e Meloni cavalcano l’indignazione. “Una schifezza. Non è questa la “giustizia” che gli italiani si meritano”, tuona il leghista. “Il 90% degli italiani è contrario alla scarcerazione, Brusca è una bestia. Bisogna cambiare questa legge. Se c’è l’ergastolo a chi dovremmo darlo se non a lui?”. “Cambiare la legge”, gli fa eco da Forza Italia Licia Ronzulli. “Mai più sconti di pena ai mafiosi”, dice Mara Carfagna. Salvini fa un paragone con sé stesso: “Con 100 omicidi sulle spalle Brusca ha fatto 25 anni di carcere, io ne rischio 15 per aver rallentato e limitato gli sbarchi di immigrati clandestini”. Così anche la leader di Fdi: “L’idea che un personaggio del genere sia di nuovo in libertà è inaccettabile, un affronto per le vittime, una vergogna per l’Italia intera”. Per il leader del Pd Enrico Letta è “un pugno nello stomaco che lascia senza respiro e ti chiedi come sia possibile. La sorella di Falcone ricorda a tutti che quella legge applicata oggi l’ha voluta anche suo fratello, che ha consentito tanti arresti e di scardinare le attività mafiose, ma è un pugno nello stomaco”. Sulla stessa linea il senatore dem Franco Mirabelli: “No alle strumentalizzazioni, creare le condizioni per ottenere la collaborazione è certamente doloroso ma necessario”. A sorpresa il sottosegretario agli Interni Carlo Sibilia, M5S, difende la legge che “dimostra la grandezza della civiltà del nostro paese”. “Ben venga che ci sia stata la collaborazione, che ci siano state delle agevolazioni”. “Il legista Stefano Candiani s’infuria: “Parole superficiali, sorprende il silenzio del ministro Lamorgese”. Anche Luciano Violante si dice d’accordo con Maria Falcone: “È una legge che ci è servita contro il terrorismo, contro la mafia. Capisco bene lo stato d’animo dei familiari delle vittime, ma come c’è stato l’ergastolo per altri, tipo Riina o Provenzano, che sono morti in carcere, per chi ha collaborato non è così”. Claudio Martelli, che da ministro della Giustizia chiamò Falcone a via Arenula, non è d’accordo: “Parlerei di trattamento speciale, anzi indulgente. Mi piacerebbe che venissero messi sul tavolo i conteggi di questo scambio tra Brusca e lo Stato. Il ministero dovrebbe mettere a disposizione le carte, basterebbe un’interrogazione parlamentare”. Pietro Grasso, ex procuratore nazionale antimafia, spiega di “non vedere scandalo nella scarcerazione”. “Con Brusca lo Stato ha vinto non una ma tre volte. La prima quando lo ha arrestato, la seconda quando lo ha convinto a collaborare, perché le sue dichiarazioni hanno reso possibili processi e condanne. La terza quando ne ha disposto la liberazione, rispettando l’impegno preso con lui e mandando un segnale potentissimo a tutti i mafiosi che sono rinchiusi in cella e la libertà, se non collaborano, non la vedranno mai”. “L’indignazione di molti politici che di codice penale e di lotta alla mafia capiscono ben poco mi spaventa”, conclude Grasso. Mafia, il caso Brusca: la legge e il valore dei pentiti di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 2 giugno 2021 I collaboratori di giustizia rimangono a oggi uno strumento fondamentale per conoscere i clan dall’interno ed essere così nelle condizioni di meglio contrastarne le attività criminali. La definitiva scarcerazione di Giovanni Brusca ha suscitato un vivace dibattito nell’opinione pubblica e reazioni molto negative specialmente tra alcuni familiari delle vittime dei delitti di cui egli si è riconosciuto colpevole. Maria Falcone, sorella del giudice assassinato a Capaci, ha invece correttamente commentato la notizia, dicendo: “Umanamente è una notizia che mi addolora, però questa è la legge, che peraltro ha voluto mio fratello, e quindi va rispettata”. In effetti Brusca è stato scarcerato perché ha interamente scontato la pena massima di trent’anni di reclusione inflittagli, in quanto collaboratore di giustizia, invece dell’ergastolo, secondo quanto previsto dalla legge 15 marzo 1991 n. 82, approvata due mesi prima dell’arrivo di Giovanni Falcone al ministero della Giustizia, ma da lui ispirata e fortemente voluta sulla base delle esperienze palermitane, a cominciare dalle dichiarazioni rese nel 1984 da Tommaso Buscetta. Negli anni precedenti erano stati approvati - a partire dal decreto legge 15 dicembre 1979 n. 625 - ben dieci provvedimenti che prevedevano benefici e agevolazioni sempre più ampie per i terroristi che decidevano di collaborare con lo Stato. Nulla, invece, era stato deciso per la mafia, forse nel convincimento - errato - che per i crimini “politici” si potesse sempre ravvisare una scelta ideologica, non ipotizzabile nel caso dei mafiosi. Oltre a ciò, ragione ben più grave, pesava il fatto che mentre il terrorismo era visto come un pericolo mortale per la Repubblica, nell’opinione pubblica, anche la più qualificata, mancava la consapevolezza della ben maggiore gravità rappresentata dalla minaccia mafiosa. Una miopia che sarebbe perdurata fino alla stagione delle stragi. La legge del 1991 è invece determinata proprio da questa consapevolezza all’epoca patrimonio di pochi, maturata a fronte della serie infinita di omicidi di esponenti delle istituzioni in Sicilia, specialmente a Palermo, e dei risultati, eccezionali ma non decisivi, del primo maxi-processo. Fu così che 30 anni fa vide finalmente la luce quella disciplina complessiva dei benefici per i mafiosi che decidevano di collaborare con la giustizia, a partire proprio dalla sostituzione dell’ergastolo fino a un articolato sistema di protezione esteso ai familiari. La legge fa chiarezza anche sui termini e sulle ragioni di questo trattamento premiale: non è in gioco un ravvedimento ideologico, religioso o morale (cui alludeva il termine improprio di “pentiti”), si tratta invece di un contratto tra lo Stato e l’aspirante collaboratore, che si impegna a riferire ciò che sa sull’organizzazione e sui delitti da questa commessi, a cominciare dai propri, ricevendo in cambio la tutela dello Stato. A trent’anni dalla sua approvazione, va riconosciuto che la legge ha raggiunto il suo scopo: centinaia di capi e gregari di Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra e mafie pugliesi hanno deciso di collaborare, consentendo di fare luce su numerosissimi delitti, facendone condannare (dopo i necessari riscontri) gli autori, permettendo la cattura di latitanti e la confisca di beni per miliardi di euro. Particolarmente importanti in questo percorso sono state, ovviamente, le dichiarazioni di personaggi apicali quali Giovanni Brusca. Ed è significativo che oggi l’organizzazione mafiosa più potente e pericolosa sia la ‘ndrangheta: i collaboratori provenienti dalle sue file sono stati finora in numero ridotto e di rango abbastanza basso, quindi con limitate informazioni a disposizione. Questo contesto non può essere dimenticato di fronte alla (pur comprensibile) reazione emotiva per la scarcerazione dell’autore materiale della strage di Capaci nonché responsabile dell’assassinio del piccolo Giuseppe Di Matteo, e va anche aggiunto che in passato altre figure responsabili di identica ferocia sono state scarcerate in tempi persino più brevi, nel disinteresse generale. Né va dimenticato che solo poche settimane fa la Corte Costituzionale ha affermato che la possibilità di liberazione condizionale va introdotta anche per i mafiosi condannati all’ergastolo che non abbiano mai collaborato con la Giustizia. Massimo rispetto, dunque, per le accorate reazioni di famiglie colpite dal lutto per mano mafiosa, ma come ha detto Maria Falcone, lo Stato deve rispettare per primo le leggi che emana. Né alcuna critica può essere rivolta ai giudici della Corte di Appello di Milano che hanno disposto la scarcerazione di Brusca senza alcuna valutazione discrezionale, ma solo conteggiando la riduzione di 45 giorni di pena per ogni sei mesi espiati, secondo la norma da applicare a qualunque condannato che abbia tenuto negli anni un positivo comportamento in carcere. Peraltro, nei prossimi quattro anni Brusca sarà sottoposto a libertà vigilata e per un periodo probabilmente maggiore anche alla sorveglianza connessa alle misure di protezione disposte nei suoi confronti. Un’ultima notazione. Ormai da anni la prova principale nei processi di mafia è costituita dalle intercettazioni, una prassi investigativa oggetto di feroci critiche da quegli stessi che di fronte alle dichiarazioni dei “pentiti” invocano riscontri “oggettivi”, basati su acquisizioni tecniche e non su altri dichiaranti. Tuttavia, i collaboratori di giustizia rimangono a oggi uno strumento fondamentale per conoscere le mafie dall’interno ed essere così nelle condizioni di meglio contrastarne le attività criminali. Sempre che si sia realmente convinti, come ha detto pochi giorni fa il presidente Mattarella, che la lotta alle mafie “deve restare una priorità nell’agenda politica”. Santalucia: “Il pentitismo non ha esaurito la sua efficacia” di Davide Varì Il Dubbio, 2 giugno 2021 Il presidente dell’Anm sulla scarcerazione di Brusca: “Le regole sono state correttamente applicate”. “Non credo che il pentitismo abbia esaurito la sua funzione e la sua efficacia nel sistema giudiziario”. Lo ha affermato Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm, intervenendo a Studio24, su RaiNews24, commentando la scarcerazione di Giovanni Brusca. Brusca, ha aggiunto, “ha collaborato con la giustizia, ha dato un apporto importante per la ricostruzione di quei fatti e quelle stragi. La legislazione premiale è appunto questo: tu collabori e ti do un premio”. È questa “la logica della normativa sul pentitismo, una normativa che ha dato buona prova di sé, perché tanti fatti gravissimi sono stati accertati con sentenze passate in giudicato. Posso capire il turbamento di molti - ha concluso - ma queste sono le regole che sono state correttamente applicate. Non credo che il pentitismo abbia esaurito la sua funzione e la sua efficacia nel sistema giudiziario”. “La liberazione di Brusca, che per me avrebbe dovuto finire i suoi giorni in cella, è una cosa che umanamente ripugna. Però, quella dello Stato contro la mafia è, o almeno dovrebbe essere, una guerra e in guerra è necessario anche accettare delle cose che ripugnano. Bisogna accettare la legge anche quando è duro farlo, come in questo caso”, ha invece detto all’AdnKronos Salvatore Borsellino, fratello di Paolo ucciso da Cosa nostra nella strage di via D’Amelio. “Questa legislazione premiale per i collaboratori di giustizia - ricorda l’ideatore del Movimento delle agende rosse - fa parte di un pacchetto voluto da un grande stratega, Giovanni Falcone, per combattere la mafia, dentro ci sono l’ergastolo ostativo, il 41 bis. Va considerata nella sua interezza ed è indispensabile se si vuole veramente vincere questa guerra contro la criminalità organizzata”. “L’alternativa, in assenza dell’ergastolo ostativo - sottolinea ancora Salvatore Borsellino- sarebbe stato vedere tra cinque anni questa persona libera senza neppure aver collaborato con la giustizia e senza aver permesso di assicurare alla giustizia tanti altri criminali come lui”. Al pentimento di Brusca, però, Salvatore Borsellino non crede. “Anche perché la sua collaborazione con la giustizia è stata molto travagliata: in un primo tempo aveva cercato di fingere per minare le istituzioni. Non credo si sia veramente pentito, come, invece, ha fatto Gaspare Mutolo, assassino anche lui, che ha ucciso, strangolandole, 50 persone a mani nude, ma che oggi penso sia una persona veramente cambiata. Di Brusca non ho questa impressione”. Anche perché, è la tesi del fratello del giudice antimafia, “non ha raccontato neanche tutto quello che sa e che avrebbe potuto dire. Sicuramente, però, quello che ha detto è stato tanto e ha permesso di fare tanti processi, di assicurare tanti criminali come lui alla giustizia”. Il ritorno in libertà di Brusca può costituire un pericolo? “È fondamentalmente un criminale, di una persona che uccide un bambino e lo scioglie nell’acido dicendo che era come un cagnolino non ci si può fidare appieno. Ma non credo che possa costituire oggi un pericolo”. Lo stato di diritto non può fare altrimenti di Giuseppe Di Lello Il Manifesto, 2 giugno 2021 Giovanni Brusca, pluriomicida di mafia, esce dal carcere dopo aver espiato la pena con 25 anni di reclusione. Ricordando alcune delle sue numerosissime vittime come Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, gli agenti della scorta e, soprattutto, il piccolo Di Matteo, c’è in giro una grande indignazione e perfino stupore per l’entità della pena e, ovviamente per la scarcerazione. Quest’ultima però ha una sua spiegazione nella legge che, per essere uguale per tutti, deve essere uguale anche per Brusca. La pena di morte è stata cancellata nel nostro sistema sanzionatorio con l’articolo 27 della Costituzione. La pena massima ora è quella dell’ergastolo che però non si sconta mai interamente dato che un ergastolano (o un condannato ad altra pena detentiva), dopo aver superato un percorso rieducativo può essere ammesso ai vari benefici quali l’assegnazione al lavoro esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione, fino alla liberazione anticipata. Una concatenazione di leggi riguardanti i condannati per molti specifici reati (mafia e terrorismo in testa), però, ammette la concessione di questi benefici solo a chi collabora con la giustizia. Così stabilendo, il legislatore ha reso, con l’articolo 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, l’ergastolo perpetuo, detto ostativo, per quanti non vogliono collaborare. Giovanni Brusca non ha dovuto dare segni di pentimento interiore, (facili da spendere e difficili da controllare) ma ha collaborato dando così ai giudici elementi per far luce su Cosa nostra e su molti delitti. Brusca ha stretto, cioè, un patto con lo Stato sul piano della reciproca utilità e questo patto lo Stato lo ha rispettato, ieri sottraendolo alla pena dell’ergastolo e oggi scarcerandolo per espiata pena. Uno stato di diritto non poteva fare altrimenti: le leggi sui collaboratori non possono essere esaltate quando permettono successi giudiziari e poi denigrate quando mostrano i loro frutti amari, specie per le vittime e i loro parenti. La vicenda di Brusca richiama alla mente la quasi coeva indignazione per la recente sentenza della Corte costituzionale proprio sull’ergastolo ostativo. È ovvio che questo tipo di ergastolo, che implica il “fine pena mai”, è in conflitto con l’articolo 27 della Costituzione dove si stabilisce tra l’altro che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, una rieducazione che dovrebbe logicamente portare prima o poi ad una liberazione di quest’ultimo. L’ergastolo ostativo è stato concettualmente inquadrato nel divieto di cui all’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali per il quale “nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Conseguentemente la Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) da tempo ha stabilito la non conformità alla Convenzione di questa pena. Anche la nostra Corte costituzionale aveva rilevato la non conformità alla Carta di un divieto che poteva riguardare un condannato che pur non collaborando aveva seguito un percorso rieducativo e non aveva più nessun contatto con la criminalità organizzata. Da poco, comunque, nell’inerzia del parlamento, la Corte con la sentenza del 15 aprile scorso, ha dichiarato la incostituzionalità (condizionata) di quella disposizione per contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione. Dando al legislatore anno di tempo per adeguarla alla Carta poiché “l’accoglimento immediato della questione rischierebbe di inserirsi in modo non adeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Un anno di tempo, quindi, ma la fine dell’ergastolo ostativo è segnata dato che l’inerzia eventuale del parlamento comporterebbe un ulteriore intervento della Corte che, a questo punto, ne sancirebbe la incostituzionalità immediata: c’è da rallegrarsi perché certi meccanismi istituzionali funzionano e riaffermano lo stato di diritto. Comunque apriti cielo anche per questa decisione che, detto per inciso, il consigliere del Csm Di Matteo in televisione ha visto in consonanza con una delle richieste del famoso “papello” di Riina: un quasi concorso esterno in trattativa dei giudici di Strasburgo e della Corte costituzionale? Alcuni stati hanno già iniziato a togliere l’ergastolo dal loro sistema penale (Spagna, Svezia, ecc.) ma quello che dovrebbe impressionarci di più è l’abolizione dell’ergastolo nella legislazione del Vaticano, una pena che Papa Francesco ha più volte equiparato a una condanna a morte dilazionata nel tempo. Certo con questi chiari di luna è difficile pensare che l’Italia possa raggiungere a breve un tale livello di civiltà giuridica, ma almeno che si contrasti l’indignazione per decisioni che rispettano la Costituzione e le leggi che da essa promanano. Ingiusto non è il boss libero, ma l’ergastolo ostativo di Tiziana Maiolo Il Riformista, 2 giugno 2021 I più sincero è proprio Santino Di Matteo, quello che fece il “pentito” per primo e pagò con il sangue del suo figlio bambino, strangolato e buttato nell’acido. Lui dice, chiaro chiaro, che se incontra Giovarmi Brusca appena scarcerato dopo aver scontato la pena con 25 anni di detenzione, colui che emise quella sentenza infame nei confronti di un innocente, colui che fece mettere le mani al collo a un bambino, non sa “che cosa accade”. Tra due mafiosi che la pena di morte l’hanno conosciuta e applicata giorno dopo giorno nella loro vita, si può anche immaginare che cosa “può succedere” se si ritrovano faccia a faccia. Senza ipocrisie, senza “sono garantista però”. Per il resto, dai magistrati ai politici, il giorno dopo l’uscita da Rebibbia del “pentito” numero uno di Cosa Nostra, le differenze si distanziano solo tra i vomitatori e i virtuosi. I primi sono quelli che non vanno per il sottile, che sotto sotto sono a favore della pena di morte ma non possono dirlo, quindi lasciano che sia il proprio corpo a esprimersi. Vocabolario ristretto, quindi c’è poca libertà di scelta tra disgusto, rabbia, schifezza, vergogna, brividi, pugno nello stomaco. Si va da Matteo Salvini a Enrico Letta. I virtuosi, guidati da Maria Falcone e seguiti da Mara Carfagna, sono altrettanto schifati ma costretti ad allargare le braccia in segno di resa davanti alle leggi sui “pentiti”, comunque considerate utili e fondamentali per la lotta alla mafia. Per cui, il fatto che un mafioso che ha confessato circa 150 omicidi, che ha schiacciato il pulsante per far saltare in aria l’auto di Giovanni Falcone e poi ha fatto arrestare tanti suoi complici, e soprattutto che ha aperto la strada al processo sulla trattativa che non c’è, sia stato condannato a 30 anni di carcere invece che all’ergastolo (ostativo), è un tributo da pagare. A malincuore, con l’ipocrisia del “dolore”, strano sentimento sulla bocca di parlamentari o esponenti del governo. Ben pochi resistono alla tentazione del nulla dei propri pensieri espressi in coro, banalmente uno simile all’altro. Giovanni Brusca era il pupillo di Totò Riina, rampollo d’oro della stagione sanguinosa dei Corleonesi. Fu arrestato nel 1996 nel tripudio scomposto degli agenti che fecero una sorta di girotondo con le moto, urlando di gioia con l’adrenalina a mille. Fu un traguardo fondamentale nella lotta a Cosa Nostra. Dopo un tentativo imbroglionesco, lui impiegò ben poco a fare il “pentito”. Proprio lui che con la vicenda Di Matteo era stato il giustiziere della vendetta trasversale nei confronti del primo grande traditore, seppe giocare la carta pesante di una carriera criminale molto intensa. Capì da detenuto quel che forse aveva intuito anche da libero, e cioè che le leggi speciali giovano a chi delinque di più, perché più ne uccidi e più hai da raccontare. E più racconti, con abilità, mescolando il vero e il falso, il reale e il fantastico, più sarai ascoltato e premiato. Dal 1996 sono trascorsi 25 anni, quelli giusti da scontare per chi sia stato condannato a 30 anni di carcere, e che diventano appunto 25 calcolando 45 giorni di sconto ogni sei mesi. Tutto regolare. Tranne che per un piccolo particolare. Perché in genere i mafiosi della stazza di Brusca non vengono condannati a 30 anni, ma all’ergastolo, e non a un ergastolo qualunque, ma a quello “ostativo”, che non consente l’applicazione di nessun beneficio penitenziario e la cui applicazione consiste nel “fine pena mai”. Nel coro delle prefiche disgustate perché uno come Brusca vorrebbero vederlo solo morto e di quelle virtuose del “dura lex sed lex”, è difficile captare una qualche stonatura positiva. C’è Peppino Di Lello, che fu un esponente di rilievo della componente garantista di Magistratura democratica e che sedette nel pool antimafia con Falcone e Borsellino, che all’ennesima sollecitazione a scandalizzarsi, sbotta: “Ha scontato la pena, che vogliamo fare? Impiccarlo?”. È poi lui a ricordare, nel silenzio generale, che in molti Paesi occidentali non esiste neppure l’ergastolo e che altri si accingono a eliminarlo. L’Italia invece non solo si tiene ben stretta la pena a vita, ma l’ha addirittura appesantita con lo zaino della disciplina “ostativa” che oscilla tra la tortura e la pena di morte. Vogliamo scandalizzare un po’ i vomitatori professionali dell’antimafia? Giovanni Brusca è un cittadino dei peggiori, il Caino più cattivo di tutti. Perché ha assassinato e compiuto stragi. Poi perché ha tradito. E infine perché, per far piacere a qualche pubblico ministero più o meno invasato, si è inventato la balla della “trattativa Stato-mafia”, vendicandosi cosi di qualche alto poliziotto che gli aveva dato la caccia. Questo Caino numero uno è un cittadino che è stato processato e condannato a trent’anni di carcere e secondo le leggi vigenti e che riguardano tutti, ne ha scontati venticinque. Venticinque anni sono quasi un terzo della vita di un uomo, secondo le aspettative degli anni duemila. Facciamo insieme un esercizio di memoria, cerchiamo di ricordare che cosa abbiamo fatto negli ultimi venticinque anni della nostra vita. Forse non riusciamo neanche a ricordare tutto. Proviamo a immaginare come sarebbero stati se li avessimo trascorsi in cattività, nella delizia delle carceri italiane. Sul fatto che Giovanni Brusca li meritasse tutti, pochi sarebbero in disaccordo. Ma i suoi anni di detenzione sono stati tanti. Più che sufficienti. Ora basta. Ma il punto è un altro. E a maggio scorso sono state depositate le motivazioni dell’ordinanza con cui la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legittimità di quella pena che Brusca non ha avuto, ma i suoi complici non “pensili” si, cioè dell’ergastolo “ostativo”. E ha detto chiaramente, pur concedendo un anno al Parlamento perché corregga la rotta, che quella legge speciale del 1992 che partorì tra l’altro questa sorta di pena capitale mascherata, è fuori dalla Costituzione. Perché tra l’altro, come ha ricordato di recente il pm Henry lobo Woodcock, cha delineato un sistema mirante all’annientamento di un presunto “nemico”, e bandito qualsivoglia prospettiva di un suo reinserimento nella società civile, lasciandogli come unica via d’uscita la “scelta” imposta di collaborare con la giustizia”. La fabbrica dei “pentiti”, in poche parole, la costruzione dei Brusca. Con il ricatto, neanche tanto sotterraneo, di subordinare la possibilità di un normale percorso riabilitativo, pur in una lunga permanenza in carcere, alla delazione. C’è qualche differenza con la pratica della tortura? Che cosa si chiedeva alle streghe sul rogo, se non di confessare peccati propri e altrui in cambio del perdono? Se c’è dunque qualche motivo per scandalizzarsi oggi, non è l’uscita di Brusca dal carcere, ma il fatto che tutti coloro che lui ha denunciato e fatto arrestare, e che sono detenuti magari da 25 anni, siano ancora dentro con tutte le limitazioni degli articoli 4 bis e 41 bis, e che non lo abbiano potuto accompagnare nel giorno della sua liberazione. È questa la vera ingiustizia. Brusca, il problema non è l’uscita dal carcere ma il fatto che non ha detto tutto di Claudia Fusani tiscali.it, 2 giugno 2021 Brusca è fuori in applicazione della legge sui collaboratori di giustizia. Grazie a lui fatta luce sull’attentato di Capaci e il tema della trattativa tra Stato e Cosa Nostra. Ora è un uomo di 64 anni, libero e con un tesoretto da qualche parte. Il ritorno in libertà di Giovanni Brusca provoca reazioni di legittimo disgusto e qualche insopportabile strumentalizzazione giustizialista. Pochi però, nel corso delle ultime 24 ore, centrano il vero non detto della questione: che pentito è stato U Verru, il porco, il killer di Capaci? Ha raccontato tutto quello che sa o solo quello che gli tornava utile per contrattare con lo Stato una via di uscita? Soprattutto, dov’è il suo patrimonio che non ha mai consegnato e che le indagini hanno confiscato solo in parte? La collaborazione - Familiari delle vittime, magistrati, forze dell’ordine, tutti sapevano che per la sua liberazione era solo una questione di tempo. Arrestato il 20 maggio 1996 in una villetta nella contrada Cannatello (guidava le indagini Renato Cortese che dieci anni dopo arrestò anche Provenzano), campagna di Agrigento, Brusca inizia a collaborare subito con un gigantesco depistaggio subito smascherato dai magistrati della dda di Firenze Piero Luigi Vigna e Gabriele Chelazzi. Dopo qualche mese inizia a fare sul serio, a svelare preparativi e protagonisti dell’attentatuni di Capaci, a parlare del papello, le richieste di Riina allo Stato per far cessare le bombe dopo le bombe e gli attentati del biennio ‘92-’93, il primo tassello della trattativa Stato-Cosa Nostra. “Il porco” diventa tecnicamente collaboratore di giustizia nel 2000 (fu un percorso controverso, pieno di dubbi), questo status consente di evitare l’ergastolo e di ottimizzare la condanna ad un massimo di trenta anni. Che se trascorsi con buona condotta, come Brusca ha fatto, garantiscono a loro volta uno sconto di 45 giorni ogni sei mesi. E così i trenta anni sono diventati 25 e le porte del carcere si sono aperte lunedì sera. Tutto regolare. Tutto scandito dal contratto che un criminale sottoscrive con lo Stato nel momento in cui si decide che il contributo alle indagini e alla verità di quell’individuo è più importante dell’ergastolo a vita. Che è il massimo della pena prevista dal sistema delle pene italiano. Può risultare una beffa ma Brusca è uscito dal carcere così come stabilito dalla legge. Legge, sui collaboratori di giustizia, voluta proprio da magistrati come Giovanni Falcone, Piero Vigna e Gabriele Chelazzi. La rabbia - Ma la notizia della liberazione di Brusca è stata deflagrante e non poteva essere diversamente. L’ex capomafia di San Giuseppe Jato che ha confessato “più di cento omicidi ma meno di duecento” tanto fa non aver saputo (o voluto) neppure indicare i loro nomi. Tra queste le cinque vittime di Capaci, Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Ha descritto con i dettagli la brutalizzazione del piccolo Giuseppe Di Matteo, sciolto nell’acido mentre Brusca mangiava un panino. Aveva solo 13 anni e pagò per “colpa” del padre, Santino Mezzanasca che aveva deciso di collaborare. Brusca è per tutti, anche per chi segue meno i fatti di mafia, il male fatto persona, l’arroganza del boss di Cosa Nostra che pensa sempre di farla franca, l’uomo che pigiò il bottone sulla collinetta che guardava Capaci e fece saltare in aria 500 kg di tritolo, un km di autostrada e il giudice che aveva trovato il modo di sconfiggere la mafia consapevole che “come ogni fatto umano è destinata ad avere un inizio e una fine”. Insomma, un criminale del genere dove può stare se non in carcere a vita? Le reazioni - Legittime quindi rabbia e indignazione. Soprattutto quelle di famigliari e parenti di vittime. “Un pugno nello stomaco che lascia senza respiro” ha detto Maria Falcone, sorella del giudice assassinato. E però, come lei stessa ha ricordato, “quella legge l’ha voluta anche mio fratello, ha consentito tanti arresti e di scardinare le attività mafiose”. Lucidissimi il fratello e la madre del piccolo Di Matteo: “Umanamente non si potrà mai perdonare. Il dolore della morte di mio fratello non si rimarginerà mai, per mia madre la sofferenza è ancora più grande. Ma abbiamo fiducia nella magistratura che ci è stata sempre vicina. Brusca ha ucciso mio fratello ma ha espiato la pena nel rispetto della legge”. Non se ne fa, invece, una ragione Tina Montinaro, vedova del caposcorta di Falcone: “Sapere che uno come Brusca è tornato libero nel rispetto delle leggi, significa che quelle leggi sono sbagliate”. Quello che invece non si comprendono affatto sono le reazioni di politici e parlamentari, soprattutto di centrodestra, che utilizzano questa occasione per piantare le solite bandierine. Quelle del garantismo a senso unico. Per cui, ad esempio, guai a parlare di revisione dell’istituto dell’ergastolo ostativo e del regime del 41 bis come invece hanno chieste due sentenze, una della Corte Costituzionale e anche la Corte europea dei diritti dell’uomo. Tema su cui gli stessi boss stanno da tempo facendo i conti per strappare vantaggi e benefici. Una cosa è certa: quello delle misure antimafia è un terreno minato che deve stare fuori dalle dispute politiche. È un tema di unità nazionale, senza fughe in avanti. Ieri invece i 5 Stelle, alle prese con un’altra giornata no sul fronte del partito che verrà, sono subito partiti lancia in resta chiedendo “svolte sul piano normativo” e alzando polveroni sul rischio che “altri boss possano uscire dal carcere”. Nessun’altra scarcerazione - Tranquilli. Il ministero della Giustizia tramite il Dap ha subito verificato l’esistenza di altre situazioni simili e non ne ha trovate. Nessun altro boss o pentito di elevata caratura criminale sembra destinato a lasciare presto il carcere. Tutti i grandi nomi di Cosa nostra, con l’eccezione del superlatitante Matteo Messina Denaro, stanno scontando l’ergastolo ostativo (che non può essere in alcun modo addolcito da sconti e benefici) al regime del 41 bis sulla base di sentenze definitive. È il caso dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano, mandanti delle stragi del 1992 e del 1993 e dell’uccisione di don Pino Puglisi; del boss catanese Nitto Santapaola e del nipote Aldo Ercolano; di Nino Madonia. Altri boss, tornati in libertà per l’emergenza Covid - tra cui Giuseppe Sansone e Francesco Bonura - sono tornati in cella. Tra i collaboratori più in vista non tornerà in libertà neppure Gaspare Spatuzza, che pure viene considerato uno dei pentiti più affidabili. Al momento sconta l’ergastolo. Piuttosto, occhi e orecchie dei boss sono direzionati sulla riforma dell’ergastolo ostativo e del 41 bis. Brusca, pentito, collaboratore, opportunista? - Fatta dunque chiarezza su regole, leggi e motivi della scarcerazione, si apre grossa come una casa un’altra domanda: chi è stato veramente Brusca, un pentito vero o un opportunista? Intanto è necessaria una premessa: una cosa è un pentito (lo sono stati Buscetta e Spatuzza che ha attraversato una vera crisi mistica), altra cosa è un collaboratore di giustizia. Il fatto è che la maggior parte dei cosiddetti “collaboratori di giustizia” non sono affatto pentiti di quello che hanno fatto ma “vendono” parte della propria storia, quel tanto che basta, per avere sconti di pena. Brusca è stato un collaboratore di giustizia. Non un pentito. Utile, anzi necessario per alcune cose. Muto su altre. Lo “scannacristiani” - altro nomignolo conquistato sul campo - ha riempito migliaia e migliaia pagine di verbale, decine e decine di faldoni. L’attentato di Capaci è l’unico fatto del biennio ‘92-’93 per cui è stato possibile ricostruire dinamica, mandanti e protagonisti. Senza Brusca non sarebbe stato possibile. Come dimostra il processo gemello di via d’Amelio giunto ormai alla sua quarta edizione (per colpa di un falso pentito, Vincenzo Scarantino). Brusca è stato decisivo anche per ricostruire i rapporti tra Stato e Cosa nostra. È stato il primo a parlare del famoso papello, nel 1997-1998, con i magistrati di Firenze (titolari dei processi per le bombe in continente Roma, Firenze, Milano) spiegando l’elenco delle richieste di Totò Riina per far cessare l’aggressione a colpi di bombe contro lo Stato. Fu Brusca, insomma, ad aver messo in moto il meccanismo che ha indicato la strada dei “mandanti occulti delle stragi” (un’altra intuizione di Chelazzi), un fascicolo che si rinova nel tempo senza però arrivare ad una conclusione. È stato Brusca che ha fatto scrivere nelle motivazioni della sentenza della corte d’assise di Firenze sulle bombe del ‘92-’93 che “ci fu una trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra”. Così come è stato Brusca a costituite le basi - al di là della modalità e degli esiti di quei processi - per l’inchiesta e poi il processo Trattativa che tra pochi giorni arriverà alla sentenza d’Appello. Cosa nostra miliare ha cominciato ad agonizzare anche grazie a Brusca. I non detti e i misteri di quel biennio - Così come è vero che Brusca ha taciuto su molti aspetti. Ha deciso cosa dire e cosa no. Sicuramente ha puntato il dito più sui nemici (altre famiglie) che sui compari. E poco nulla ha detto del suo patrimonio. Brusca non ha aiutato, o meno di quello che avrebbe potuto, a raccontare il prima della strage di via d’Amelio, cosa è successo in quei due mesi tra il tritolo di Capaci e quello di via D’Amelio. Non ha spiegato come sia stato stato possibile che un balordo come Vincenzo Scarantino abbia potuto depistare per sedici anni investigatori e procuratori di razza come Tinebra e Caselli. È stato necessario aspettare il 2008 e la decisione di Gaspare Spatuzza di parlare con magistrati come Piero Grasso, Piero Vigna e Gabriele Chelazzi. Sono ancora tanti i misteri di via d’Amelio: l’agenda rossa, il ruolo dei servizi segreti, per quale dannato o spaventoso motivo in quei mesi dopo Capaci e la morte di Falcone, il suo alter ego, Borsellino non era stato blindato in ogni suo passo. Sono tanti ancora e purtroppo i misteri di quella stagione. Non c’è dubbio che Brusca avrebbe potuto dire di più. Essere più collaborativo. I silenzi - Di sicuro il killer di Capaci è stato bravissimo a dire poco o nulla del suo tesoretto. È agli atti un dialogo avvenuto in aula a Palermo durante una misura di prevenzione. Brusca ha raccontato ai magistrati che avrebbe “guadagnato 200 milioni di vecchie lire solo con gli appalti truccati”, altri 200 milioni sarebbero arrivati “per aver realizzato una stradella”. Insomma, Giovanni Brusca ha molto probabilmente un tesoretto da qualche parte che non ha mai messo a disposizione della magistratura. E che ora, libero a 64 anni, può immaginare di andare ad usare per una serena pensione. Se c’è qualcosa di giuridicamente sbagliato in questa storia è questo: chi decide che è sufficiente dire un po’ e non tutto? Perché la consegna dei beni materiali non diventa imprescindibile per accedere agli sconti di pena? Brusca ha sempre negato di avere altri beni. L’ex procuratore antimafia, poi presidente del Senato Piero Grasso ieri ha detto che “lo Stato ha vinto tre volte contro Brusca: quando lo ha arrestato, quando lo ha convinto a collaborare, quando ne ha disposto la scarcerazione rispettando l’impegno preso”. Ora lo Stato deve mettere in conto una quarta partita: la confisca totale dei beni frutto di malaffare, se esistono da qualche parte esistono. L’ultima zampata - Per dire che tipo è Brusca, basta raccontare cosa ha fatto tre giorni prima di uscire dal carcere. Lo ha raccontato il suo avvocato storico Luigi Li Gotti all’agenzia Adnkronos. “Brusca mi ha chiamato tre giorni fa al telefono e mi ha detto di fare attenzione perché ‘faccia da mostro’ non è il poliziotto Giovanni Aiello (presunto agente dei servizi segreti, ndr)”. Così, all’improvviso, giusto tre giorni prima di uscire, Brusca si ricorda di aggiungere un pezzo alla storia. Un pezzo che conta perché riguarda la regia e l’esecuzione della strage di via d’Amelio. E gli indizi che sembrano portare alla presenza di servizi segreti (deviati?) Sia nella fase della preparazione della 126 che nelle ore dell’attentato. Tre giorni prima di uscire dal carcere Brusca si preoccupa di dire che “i servizi segreti in quella storia non c’entrano”. Anzi, il boss suggerisce: “Andate a guardare la fotografia del mafioso pentito Vito Galatolo e vedete che faccia ha”. Sarebbe Galatolo l’uomo con la faccia butterata di cui parla Spatuzza? Spatuzza all’epoca non era affiliato a Cosa Nostra e dunque potrebbe non aver conosciuto Galatolo. Ma “è lui - dice Brusca - l’uomo con la faccia deturpata presente in quel garage”. Li Gotti parla di “sfogo”. “Ma quale agente dei servizi segreti, non ce n’era bisogno” si è “sfogato” Brusca con il suo avvocato. È questo il problema dei collaboratori di giustizia: non la raccontano mai tutta. E aggiungono sempre un pezzo. La sola affiliazione non è reato: la Cassazione smonta un mito di Alberto Cisterna Il Dubbio, 2 giugno 2021 L’evocazione dei demoni mafiosi non basta a condannare se non è accompagnata dalla concreta messa a disposizione della propria opera per conseguire i fini dell’associazione. Ci stanno dentro un mucchio di cose diverse. Ma l’antropologia, la sociologia, la criminologia, la letteratura, la psicologia - ciascuna per la propria parte - non fanno altro che restituirci un’immagine imperfetta di quel cosmo apparentemente noto, continuamente esplorato e anche ampiamente narrato che è la mafia. Da decenni relazioni, libri, sentenze, articoli, pellicole riempiono librerie intere, eppure tutto questo sapere - dall’ondivaga e incerta qualità - non è riuscito a generare punti condivisi, opinioni accettate, posizioni unanimi negli osservatori più attenti. È vero che, da qualche tempo, di mafia si parla sempre meno e questo, lo diciamo subito, in fondo è un bene. Dopo l’abbuffata mediatica degli ultimi tempi, dopo libri di cassetta frutto di sospette premonizioni su indagini e arresti, dopo serie televisive ampiamente romanzate, dopo carriere discutibilmente lucrate, il chiacchiericcio mafiologico sembra tacere incapace com’è di trovare nuove storie da narrare, nuove gesta da mitizzare. In questo silenzio il lavoro dei giudici ha però continuato a dipanare matasse e ad affrontare vicende, ponendosi - nella ritrovata continenza mediatica - quesiti importanti e cercando soluzioni che per troppo tempo erano state rimandate. Questa volta è toccato alle Sezioni unite della Cassazione dar risposta a una domanda che a lungo era rimasta latente; forse perché per troppe volte il rumore assordante delle semplificazioni e delle congetture era di ostacolo a una visione laica, moderna, lucida della criminalità mafiosa. Ci si chiedeva da anni ormai, e da oltre un decennio in modo più assillante, se a fondare una condanna per mafia fosse sufficiente sorprendere taluno a recitare giaculatorie e giuramenti, a salmodiare su “Osso, Mastrosso e Carcagnosso”, a discettare di pungiute e di pungiuti. La mainstream giudiziale e le connesse salmerie giornalistiche erano irremovibili sul punto: certo che basta, si ripeteva; l’affiliazione, la ritualità, i santini bruciati, le invocazioni pagane alla divinità sono la sostanza stessa della mafia, sono le stimmate del mafioso che - assoggettandosi a quegli esorcismi - scaccia da sé ogni bene e vende la propria anima al male. Nel cuore di questa visione della mafia e dei mafiosi stavano cose importanti. C’erano “Il Padrino” di Puzo insieme con “Il giorno della civetta” di Sciascia solo per citare le opere più prestigiose e autorevoli che hanno ampiamente orientato la percezione collettiva del fenomeno mafioso e della personalità dei suoi adepti. La mafia è stata per decenni ostinatamente costretta negli argini di una sorta di sacerdozio malefico in cui i delitti affondavano le proprie radici in personalità ammaliate da riti antichi che gratificavano e, al tempo stesso, rendevano comprensibile il male più efferato. La parodia degli uomini d’onore intesa come selezione eugenetica di una razza superiore di criminali che - depurato il delitto della sua quotidiana quanta banale contingenza - lo traducevano come parte di una trama di potere più ampia e misteriosa. Quanto di attuale ci sia in questa visione è un altro paio di maniche. Quanto questa impostazione antropologica abbia ispirato indagini, sentenze e condanne è un’altra cosa ancora. Negli anni strumenti d’indagine sempre più sofisticati e pervasivi hanno consentito di documentare, filmare, ascoltare i riti del paganesimo mafioso e hanno concluso che questo fosse sufficiente, che la sola condivisione di questo pantheon ideale popolato di idolatrie pagane potesse bastare per una condanna. Ora la Cassazione ha posto un punto fermo. Le motivazioni più complete arriveranno, ma la prima informazione provvisoria rilasciata da piazza Cavour rende chiaro che la sola affiliazione, la sola evocazione dei demoni mafiosi non basta a condannare se non è accompagnata dalla concreta ed effettiva messa a disposizione della propria opera per conseguire i fini dell’associazione. Si può essere mafiosi “dentro”, nel circuito interiore delle proprie convinzioni, della propria arretratezza culturale e delle proprie aspirazioni, si possano idolatrare gli uomini d’onore e si può anche aspirare a emularli, ma tutto questo non basta per incorrere nel carcere. È una rivoluzione. Forse la più importante da quando, nel 1982, il reato di associazione mafiosa trovò ospitalità nella cittadella codicistica. In quel recinto di norme la mafia, il suo carico di semitoni, di sfumature, di ambiguità persino caratteriali entrarono portandosi dietro commissioni parlamentari, libri, cinema, serie televisive, Joe Petrosino e don Mariano Arena, un cosmo complesso, una filigrana sconnessa in cui cosmologie letterarie e processi penali, in gran parte falliti, nella Sicilia degli anni ‘ 60 delineavano il mito dell’invincibilità e descrivevano una razza di uomini geneticamente vocati al male. In quella epifania del delitto, in parte reale e in parte immaginifica per opera di un’ineguagliabile letteratura, l’affiliazione era decisiva poiché era la prova stessa di quella scelta irreversibile in favore della violenza e della sopraffazione. Ora la Cassazione pone un argine a questa impostazione che non solo ha confuso (e non sempre in buona fede) un fossile antropologico con una effettiva realtà criminologica, ma che rischiava di concedere spazio a un diritto del foro interiore, a una diagnostica della morale priva dei requisiti di concretezza e di offensività che devono contraddistinguere ogni delitto. Una visione arretrata, colpevolmente arretrata della mafia e della sua modernità che veniva annacquata da esibizionismi rituali, utili per le conferenze stampa e per vendere libri, ma inidonea a rincorrere la vera e più pericolosa evoluzione delle consorterie, laicizzate dalla politica e dal denaro e spogliate di orpelli sacramentali nelle sue propaggini più temibili. Sicurezza lavoro, il medico competente ha il dovere di proporre le protezioni contro i rischi di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 2 giugno 2021 Scatta il reato di lesioni colpose per la mancata richiesta di acquisto di siringhe “Butterfly” se il dipendente s’infetta facendo un prelievo Per l’infezione dell’infermiere contratta sul luogo di lavoro scatta il reato di lesioni personali colpose aggravate per il medico competente della Asl che non ha proposto in sede di redazione del Documento di valutazione dei rischi l’acquisto e la prescrizione d’uso di dispositivi di protezione personale. E a nulla vale che vengano assolti il datore di lavoro e il suo delegato responsabile del pronto soccorso dove si è verificato l’evento dannoso. Infatti, dice la sentenza n. 21521/2021 della Cassazione penale che il medico competente dell’Azienda sanitaria locale ha una posizione originaria di garanzia e non derivata. Inoltre, il medico aveva partecipato alla collettiva redazione del Documento di valutazione rischi e non aveva richiesto la dotazione di siringhe protette - che avrebbero evitato l’evento - giustificandosi in ragione dell’assenza di fondi dimostrata, secondo lui, anche dall’assenza del Dpi nella farmacia del presidio ospedaliero sede del pronto soccorso in cui si era verificato lo scambio accidentale di sangue da paziente a infermiere. Ma proprio l’articolo 25 del Dlgs 81/2008 prevede un obbligo di collaborazione “attiva” - e non un ruolo passivo della figura del medico competente - indicata esplicitamente nel dovere di fare proposte atte a promuovere la protezione della salute sul luogo di lavoro. Tale collaborazione attiva non può essere ravvisata nell’informale presa d’atto della mancanza di un dato dispositivo di tutela presso la farmacia interna o di fondi disponibili per il suo acquisto. In sintesi se la spesa era da ritenersi necessaria andava comunque proposta e sicuramente andava indicata - su input formale del medico competetente - la necessità di dotarsi del Dpi nel Documento di valutazione rischi. Comunque l’affermazione del ricorrente di aver sollecitato oralmente l’acquisto delle siringhe protette avrebbe dovuto essere portata compiutamente all’esame di merito per una sua eventuale rilevanza a discolpa. Per cui la mancata proposizione formale della dotazione di sicurezza ha determinato la responsabilità penale del medico competente per l’infezione contratta dall’infermiere del pronto soccorso che aveva operato sprovvisto del dispositivo di protezione individuale non acquistato, ma soprattutto non richiesto dalla figura di garanzia. Abruzzo. Università: niente tassa per i detenuti nelle carceri regionali ilpescara.it, 2 giugno 2021 La legge regionale, presentata dal consigliere Santangelo, prevede a partire dall’anno accademico 2021/2022 l’esonero per i detenuti degli otto istituti penitenziari abruzzesi. L’Abruzzo, grazie ad una legge regionale, è la prima regione italiana che esonera dal pagamento delle tasse universitarie i detenuti. Questa mattina la legge, proposta dal consigliere e vicepresidente del consiglio Santangelo, è stata illustrata alla presenza del garante per i detenuti Cifaldi. I detenuti degli otto istituti penitenziari della nostra regione, a partire dall’anno accademico 2021/2022, non pagheranno le tasse per gli studi universitari, come spiega Santangelo aggiungendo che se da un lato è giusto scontare le pene all’interno di un carcere, dall’altro è doveroso dare una possibilità a chi ha sbagliato. “In tal senso, la cultura e l’istruzione rappresentano senza dubbio il primo gradino per riabilitare una persona all’interno della società una volta che ha scontato le proprie pene. L’Abruzzo, grazie al rapporto virtuoso con il Garante dei detenuti Gianmarco Cifaldi, è la prima regione in Italia a varare un provvedimento in questo ambito e sicuramente altre amministrazioni seguiranno il nostro esempio. Questo provvedimento dimostra la nostra volontà di andare avanti in un processo caratterizzato da politiche attive virtuose dove il carcere non è solo punitivo ma offre la possibilità di raggiungere un riscatto sociale alla fine di un percorso di riabilitazione”. Lo stesso Cifaldi ha sottolineato l’importanza di questo provvedimento, aggiungendo che nel carcere di Pescara si sta pensando di realizzare un polo didattico a disposizione di tutti i ristretti che intendono mettersi in discussione e vogliono crearsi un percorso per il futuro, che raccoglierà tutti gli studenti detenuti di Teramo, Sulmona, Lanciano, Pescara e Chieti. “Visto che non è possibile seguire le lezioni in modo sincrono, abbiamo creato delle condizioni per seguire in modalità asincrona caricando le lezioni dei docenti su pen-drive che poi vengono distribuite con il materiale didattico. Noi dobbiamo pensare che le persone che sono in carcere stanno sì scontando una pena ma non possono essere abbandonante dalla società civile. È nostro dovere creare le condizioni per un reinserimento completo nel mondo del lavoro e della società e in questo senso è sempre attivo il numero verde per essere vicini alle esigenze della popolazione penitenziaria”. Marche. Carceri, parla il Garante: “Quadro difficile, rivalutare interventi” anconatoday.it, 2 giugno 2021 Giancarlo Giulianelli ha scritto al ministro della Giustizia. “Una situazione sempre più difficile negli istituti penitenziari marchigiani: occorre una rivalutazione generale degli interventi con un interessamento complessivo dei soggetti coinvolti a vario titolo e delle diverse strutture con le loro specificità”. È il succo della lettera inviata dal Garante regionale dei Diritti delle Marche, Giancarlo Giulianelli, alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ed ai vertici del Dipartimento di amministrazione penitenziaria e del Provveditorato di amministrazione penitenziaria Emilia-Romagna, oltre che al Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, Mauro Palma, ed al responsabile regionale della sanità carceraria, Franco Dolcini. Giulianelli evidenzia quanto accaduto negli ultimi mesi in alcune strutture evidenziando, tra le maggiori criticità, quelle riferite all’assistenza sanitaria che, ormai da tempo, si caratterizza per mancanza di personale specifico. Le difficoltà sono in aumento anche alla luce dell’emergenza sanitaria Covid-19. Il Garante sottolinea, infine, anche la carenza organica con cui gli agenti di Polizia penitenziaria, degli istituti di reclusione marchigiani, devono da tempo fare i conti. Roma. Donna uccisa al Portuense, l’omicida si è tolto la vita in carcere a Frosinone di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 2 giugno 2021 Fernando Koralagamage, 49 anni, è stato trovato morto martedì mattina: si sarebbe impiccato. Aperta un’inchiesta. Sabato scorso aveva colpito la donna in via Leonardo Greppi con una decina di coltellate: lei lo aveva lasciato da una settimana. È rimasto per quasi due giorni in camera di sicurezza negli uffici del commissariato San Paolo. In stato di arresto per omicidio volontario, già interrogato dal pm. Poi lunedì sera è stato trasferito nel carcere di Frosinone, dopo un’attesa di 48 ore per trovargli un posto in un istituto penitenziario del Centro Italia, tutti occupati a causa delle rigide disposizioni anti-contagio. Ieri mattina infine Fernando Basath Chandana Koralagamage, il badante cingalese di 49 anni che sabato pomeriggio in via Leonardo Greppi, al Portuense, ha ucciso l’ex compagna che lo aveva lasciato da una settimana, è stato trovato senza vita nella sua cella. Secondo una prima ricostruzione dei fatti, si sarebbe ucciso impiccandosi con un lenzuolo arrotolato usato come una corda. La conclusione tragica di una vicenda sanguinosa che aveva già lasciato senza fiato chi conosceva la vittima del femminicidio, Perera Priyadarshanie Donashantini Liyanage Badda, 41 anni, trafitta da una decina di coltellate alle due del pomeriggio mentre tornava dalla famiglia dove lavorava dopo aver fatto la spesa al Carrefour di zona. La procura di Frosinone ha aperto un’inchiesta sul suicidio dell’ex compagno della donna, ed è in attesa dei risultati dell’autopsia in programma nei prossimi giorni. Non sono ancora chiare le modalità con cui il cingalese sia riuscito a togliersi la vita. Dopo essere stato immobilizzato e disarmato da un carabiniere fuori servizio - Gianluca Coppa - che aveva udito le grida della vittima mentre passeggiava con la moglie, il 49enne era stato preso in consegna dagli agenti delle volanti e anche da quelli del commissariato San Paolo ai quali aveva detto, in un assurdo tentativo di giustificare quello che aveva appena fatto, di amare l’ex compagna, alla quale aveva chiesto più volte nei giorni precedenti di tornare insieme con lui. Perera se n’era andata dalla loro casa al Trullo da una settimana e si era trasferita da alcuni amici. Di lui non voleva più saperne e glielo aveva detto anche sabato pomeriggio quando il 49enne l’aveva raggiunta in via Greppi su un monopattino elettrico, stringendo in pugno un coltello da cucina con la lama seghettata. Dapprima l’aggressore avrebbe implorato la 41enne di tornare sui suoi passi, ma poi le è saltato addosso colpendola più volte, soprattutto all’addome e al torace. Perera non è morta subito. Ha resistito fino all’arrivo dei soccorsi ma poi è deceduta all’ospedale San Camillo dove era tutto pronto in sala operatoria per salvarle la vita. Lui e Fernando stavano insieme da anni, non avevano figli. Il loro permesso di soggiorno era stato rinnovato nel 2019. Per Perera tuttavia la loro storia era arrivata al capolinea, anche se il compagno non l’ha accettato. L’ha uccisa senza pietà, e poi si è tolto la vita in carcere. Genova. Morto a Marassi, l’esame del luminol per ricostruire gli ultimi minuti di Polizzi di Tommaso Fregatti Il Secolo XIX, 2 giugno 2021 Per gli inquirenti ci sarebbe anche un movente dietro alla lite in carcere poi sfociata in un sempre più probabile caso di omicidio. E cioè un debito di droga che la vittima non avrebbe onorato nei confronti di uno dei due compagni di cella tutt’oggi indagati da Procura e squadra mobile. Con il passare delle ore al nono piano di palazzo sono sempre più convinti che dietro alla misteriosa morte di Emanuele Polizzi, l’artigiano rapinatore di 41 anni trovato impiccato venerdì mattina all’interno della sua cella nella seconda sezione del carcere di Marassi, ci sia un omicidio. Dall’esame autoptico sono emersi elementi tali - una inspiegabile ferita dietro il cranio - che non sono assolutamente compatibili con il suicidio. Per questo nelle prossime ore all’interno della cella - ora sequestrata - sarà svolto l’analisi con il luminol. “Occorre rendere buio tutto l’ambiente, utilizzare una speciale colla e con luci particolari si riescono a trovare le tracce di sangue” spiega al Secolo XIXuna qualificata fonte della polizia scientifica. Questo esame permetterà di capire dove Polizzi si sia procurato le ferite alla testa. E anche per questo ieri pomeriggio gli agenti della sezione omicidi della squadra mobile, il pubblico ministero Giuseppe Longo, gli esperti della polizia scientifica e il medico legale Sara Lo Pinto hanno compiuto un sopralluogo all’interno della cella. Dove sulla base dei risultati autoptici sono stati ripercorsi gli ultimi momenti di vita di Polizzi. Nel frattempo i due detenuti sotto indagine - Mattia Romeo e Giovanni Genovese, entrambi di 36 anni - sono stati separati e messi in isolamento. Erano le due uniche persone presenti all’interno della cella mentre Polizzi moriva e secondo i pm che indagano non hanno raccontato la verità quando sono stati sentiti dalla polizia giudiziaria. Agli agenti della sezione della mobile hanno detto che “dormivano e non si sono accorti di nulla”. Ma dagli accertamenti investigativi è emerso che uno dei due detenuti vantava un credito non riscosso con Polizzi. Un credito che, secondo gli inquirenti, sarebbe all’origine della lite. I due per questo devono rispondere del reato di omicidio volontario. Sono difesi dagli avvocati Celeste Pallini e Fernando Barnaba, per quanto riguarda Romei, e da Mauro Morabito, legale di Genovese. Le altre tre persone che dividevano la cella con Polizzi erano uscite presto la mattina per andare a lavorare. Romei e Genovese durante l’interrogatorio non solo hanno respinto le accuse ma hanno anche confermato agli investigatori come Polizzi vivesse un momento di grande depressione e sconforto dovuto alla lunga permanenza in carcere - dall’ottobre del 2019 - e dal fatto che se la sentenza di primo grado fosse stata confermata anche in appello avrebbe dovuto scontare dieci anni di reclusione. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Tragedia nel carcere, detenuto muore per un malore di Marino Ciccarelli teleclubitalia.it, 2 giugno 2021 Un malore ha stroncato la vita di Marcello Morimile, detenuto del carcere di Santa Maria Capua Vetere. L’uomo, 52 anni, è morto poco dopo le 11. Era originario di Gricignano d’Aversa. L’uomo era recluso presso la casa circondariale del casertano per reati di camorra. Nel febbraio 2013 fu coinvolto nell’operazione Talking Three che portò la squadra mobile ad eseguire diversi arresti tra l’agro aversano e la Toscana. L’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Mormile fu eseguita proprio in carcere dove era già detenuto per un precedente arresto. Nel corso del processo l’uomo fu condannato per un episodio inerente ad un’estorsione aggravata dal metodo mafioso. Dopo il malore di ieri mattina, come spiega Edizione Caserta, Mormile ha ricevuto immediatamente i soccorsi. Tuttavia i sanitari del 118, giunti presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere, ne hanno potuto solo constatare il decesso. Sotto choc i detenuti e gli agenti della polizia penitenziaria presenti al momento della tragedia La salma è stata trasferita all’istituto di medicina legale anche se il decesso è legato a cause naturali. Sassari. Il Garante dei detenuti Unida: “Troppe carenze, realtà insostenibile” La Nuova Sardegna, 2 giugno 2021 Sui disagi legati all’assenza di un direttore nel carcere di Bancali, dopo il trasferimento di Graziano Pujia a Cagliari, interviene anche Antonio Unida, il garante territoriale delle persone private della libertà personale. Una difficoltà che si unisce a molte altre presenti nell’istituto penitenziario sassarese (privo anche del comandante della polizia penitenziaria e dei funzionari che dovrebbero sostituirlo): “Tutto ciò non è più tollerabile - rimarca Unida elencando tutta una serie di disservizi - L’acqua non è potabile, l’area educativa è composta da una sola funzionaria pedagogico-educativa in pianta stabile, supportata saltuariamente da altre due che si sdoppiano con altre strutture”. Carenze che diventano pesanti di fronte a certi numeri: “Sono circa 400 i detenuti - sottolinea il garante - fra 41bis, AS2 islamica, protetti, comuni, femminile, art. 21”. Senza contare tutto il resto: “Manca il detersivo per lavare le camere di pernottamento e quello per le stoviglie. E ora è arrivato il trasferimento del direttore Pujia ad altro incarico. Tutto ciò è inammissibile”. Soprattutto perché quella di Bancali “è definita una struttura strategica, di importanza nazionale, di cosiddetta fascia uno. Ma ovviamente solo sulla carta, perché nei fatti siamo ancora all’anno zero”. Brescia. L’appello di un detenuto: condizioni disumane, i politici vengano a vedere bsnews.it, 2 giugno 2021 A patire le pene di una situazione più difficile di quanto dovrebbe sono gli agenti di Polizia penitenziaria e i detenuti, ovviamente. Costretti a restare chiusi in una cella, spesso fatiscente, anche per più di 23 ore al giorno. La situazione di Canton Mombello (oggi Nerio Fischione) è critica e le cause sono note: il sovraffollamento, le restrizioni legate al Coronavirus, la carenza degli organici, una struttura architettonicamente inadeguata ai tempi e - come denunciato più volte dai sindacati di Polizia - la presenza di troppi detenuti problematici, che causano spesso disordini e violenze (l’ultima è la maxirissa della scorsa notte). A patire le pene di una situazione più difficile di quanto dovrebbe sono gli agenti di Polizia penitenziaria e i detenuti, ovviamente. Costretti a restare chiusi in una cella, spesso fatiscente, anche per più di 23 ore al giorno. A evidenziarlo è la moglie di un detenuto, che ha deciso di contattare BsNews per portare a conoscenza di tutti la situazione del marito, un 40enne incarcerato con una pena di alcuni anni che - stando a quanto riferisce la donna - avrebbe già tentato il suicidio in un paio di occasioni per le condizioni di carcerazione definite “disumane”. Parole ovviamente prive di prove documentali, ma comunque sintomatiche di come i detenuti di Canton Mombello vivono la loro carcerazione e apparentemente in linea con quanto anche i sindacati di Polizia “denunciano” da tempo. “Sono mesi - spiega la donna riferendo quanto detto dal marito - che a mio marito vengono concessi sporadici minuti al giorno a causa del sovraffollamento. Dorme in celle piene di umidità da cui risale l’odore di fognatura e su materassi scaduti quasi a contatto con il ferro, che provocano dolori alle articolazioni. I muri si scrostano. Lui e il suo compagno di cella sono chiusi 23 ore al giorno con solo la Tv e senza poter fare attività fisica”. Una situazione definita “impossibile” e che cozza con il diritto di due ore al giorno d’aria che dovrebbero avere tutti i detenuti secondo la legge dell’ordinamento penitenziario. “Fanno proteste fuori dal carcere - conclude l’appello - ma nessuno va all’interno a verificare in quali condizioni disumane si trovano i detenuti. Si lamentano per il sovraffollamento ma non fanno nulla in merito. Faccio appello ai politici e al Sindaco di Brescia affinché vengano a vedere le nostre condizioni di persona”. Firenze. Dalle carceri della Libia all’ospedale Meyer: la storia del 17enne Ahmed di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 2 giugno 2021 Dopo due mesi di ricovero per una gravissima forma di Tbc che lo ha quasi ucciso, è pronto a cominciare una nuova vita. Si è ammalato di tubercolosi nell’inferno delle carceri libiche, ha tentato la traversata del Mediterraneo ma è stato respinto dalla Guardia costiera libica. Il somalo Ahmed (nome di fantasia) oggi è vivo per miracolo. Tutto merito del corridoio umanitario che lo ha portato all’ospedale Meyer di Firenze, che gli ha salvato la vita. La sua storia è un’odissea. Ha lasciato la Somalia quando aveva quattordici anni. Adesso ne ha diciassette e, dopo due mesi di ricovero al Meyer per una gravissima forma di Tbc che lo ha quasi ucciso, è pronto a cominciare una nuova vita. Ricorda il passato. La decisione di partire in cerca di un futuro migliore è stata solo sua: i genitori e i nove fratelli non sapevano niente. Si è affidato a una organizzazione di trafficanti di esseri umani e si è messo in viaggio. Ha attraversato, con mezzi di fortuna procurati dai criminali, l’Etiopia, il Sudan, l’Egitto fino ad arrivare in Libia. Ed è qui che, per più di un anno, è stato costretto a fare quanto gli veniva chiesto dai nuovi affaristi della disperazione: prigioniero, prima in un campo e poi in un appartamento, è stato obbligato a trovare il denaro per pagare il debito accumulato e per ricompensare chi lo avrebbe imbarcato alla volta dell’Europa. Questo il suo scopo e questa la sua speranza e per raggiungerli ha subito umiliazioni, minacce, violenze e torture. Ad aiutarlo, è stata la sua famiglia che, grazie al contributo della comunità locale che si raccoglie intorno alla moschea, è riuscita a raccogliere la somma di denaro richiesta dai suoi aguzzini. Il tanto sospirato imbarco però non è andato a buon fine: la barca su cui viaggiava è stata fermata dalla Guardia costiera libica. E questo adolescente si è trovato di nuovo rinchiuso, prima in carcere e poi in un campo. Facendo pesanti lavori manuali, è riuscito a mettere da parte una nuova somma di denaro, ma anche stavolta la traversata non è riuscita e, come nel peggiore degli incubi, si è trovato di nuovo in carcere. È qui che ha contratto una violentissima forma di tubercolosi disseminata in quasi tutto l’organismo, che si è manifestata, tra gli altri sintomi, con un nodulo aperto al livello del collo, che gli impediva perfino di deglutire. In un ospedale libico, gli hanno applicato una sonda che permettesse l’alimentazione attraverso l’addome, ma una volta dimesso le sue condizioni sono rapidamente peggiorate. Il ragazzino è approdato al Meyer di Firenze grazie a un corridoio umanitario. “Quando è arrivato - spiega Lucia Macucci, l’infermiera della Cooperazione internazionale del Meyer che ha seguito il caso - era in condizioni davvero critiche. Era debolissimo, denutrito, sfinito, non riusciva quasi più a camminare”. Il diciassettenne è stato ricoverato in una stanza isolata della Pediatria e, grazie al mediatore culturale, è riuscito a comunicare con medici e infermieri. In poche settimane, nonostante le inevitabili difficoltà linguistiche, ha conquistato l’affetto di tutti, grazie alla sua gentilezza e al suo grande senso di responsabilità. “Gli abbiamo procurato dei vestiti e lo abbiamo aiutato a lavarsi - racconta Lucia Macucci - e questi semplici gesti sono stati per lui un immenso sollievo”. Il percorso clinico non è stato semplice: a seguirlo, nel suo lungo processo verso la guarigione, è stata una equipe multidisciplinare composta da infettivologi, chirurghi, pediatri e infermieri specializzati. Prima è stata rimossa la sonda gastrica Peg: così, con grande lentezza, ha potuto ricominciare a mangiare e a bere, seguendo un piano alimentare costruito su misura per lui. Poi i medici si sono dovuti occupare della ferita al collo, ma la terapia ha richiesto più tempo del previsto. Nel frattempo, le assistenti sociali del Meyer si sono mobilitate per aiutarlo e creare intorno a lui una rete solidale. Un percorso che è stato possibile anche grazie alla rete di soggetti istituzionali e di volontariato presenti sul territorio della nostra regione che si sono attivati per organizzare l’accoglienza del ragazzo una volta dimesso dal Meyer. Il Tribunale per i minorenni ha nominato fin dall’ingresso del ragazzo nello spazio aereo italiano un tutore legale volontario, che a sua volta ha attivato il supporto dell’Associazione dei tutori volontari della Regione toscana. Ora che è stato dimesso, sarà accolto in una casa famiglia dove potrà iniziare la sua nuova vita. Ad attenderlo, lo studio della lingua italiana, ma anche un percorso scolastico e formativo. Dove è finita la solidarietà di Laura Sabbadini La Repubblica, 2 giugno 2021 La Costituzione sancisce i nostri diritti fondamentali e richiede a tutti noi solidarietà. La solidarietà nell’articolo 2, è un insieme di doveri in riferimento alla politica, all’economia, alla società. Ognuno di noi ha ricevuto alla nascita un grande scrigno pieno di gioielli preziosi: i diritti. Una ricchezza incredibile di cui spesso non siamo consapevoli. E di cui dobbiamo prendere coscienza, perché la nostra democrazia ha bisogno di cura, consapevolezza, azione attiva per crescere, rafforzarsi e vivificarsi. 75 anni fa gli italiani sancirono con il voto la nascita della Repubblica, milioni di donne emozionate votarono per la prima volta. Non possiamo che ringraziare i nostri padri e madri, nonni e nonne per averci donato la democrazia. Non è vero che le dittature siano più efficienti. Nei Paesi democratici si sono trovati vaccini realmente efficaci contro la pandemia, negli altri, troppo spesso non si sa quel che accade. Non è vero che la compressione delle libertà e la mancanza di trasparenza aiutino a risolvere i problemi. Serve solo ad occultarli. La democrazia, con tutti i suoi problemi, è dinamica, progressiva, rigenerativa. La dittatura frena il pensiero e le energie dei popoli, comprime la libertà degli individui, cosa peggiore di qualunque pandemia. In questi anni abbiamo corso uno dei rischi più seri per le nostre democrazie, ma abbiamo visto il legame profondo, inscindibile, fra noi che uscimmo provati dalla tragedia delle dittature e noi, che forgiammo nella sofferenza l’unione dei Paesi democratici. E le vicende di questi anni ci hanno insegnato ancora che non è vero che democrazia è dittatura della maggioranza ma, con tutti i limiti di attuazione, è comunque dialettica, capacità di rispettare le opinioni diverse, rispetto di diritti e libertà degli individui. La Costituzione sancisce i nostri diritti fondamentali e richiede a tutti noi solidarietà. La solidarietà nell’articolo 2, è un insieme di doveri in riferimento alla politica, all’economia, alla società. La solidarietà diventa tanto più centrale tra i nostri valori fondanti, quanto più siamo interconnessi nel mondo. La modernità della nostra Costituzione è incredibile. Non cede il passo ai tempi, li anticipa. Certo, ha bisogno di ampliarsi alle nuove frontiere dei diritti, in primo luogo al diritto di accesso a internet, perché questo grande spazio pubblico sia fruibile e al tempo stesso sicuro per tutti. Ma regge. Alla luce della pandemia, è chiaro che o siamo solidali globalmente o la pandemia non finirà. Il Pnrr è stato possibile grazie alla solidarietà europea. E noi ce ne siamo avvantaggiati, così come domani se ne avvantaggerà qualcun altro. Ma abbiamo un vulnus. C’è qualcosa che è mancato nella azione politica dei governi che si sono succeduti nel Paese. La concretizzazione del principio costituzionale della solidarietà in politiche sociali avanzate, fondamentali per garantire uguaglianza, libertà e dignità. Siamo carenti nelle politiche sociali. Sempre residuali. Le prime a essere tagliate, viste come costi e non come investimenti. Le ultime ad essere finanziate. Arranchiamo, in primis, nella consapevolezza della loro importanza. Subito pronti ad investire in infrastrutture economiche, fondamentali anche certo, ma non altrettanto per le infrastrutture sociali. I servizi sociali per la collettività sono un bene comune prezioso. C’è un qualcosa che frena a comprendere l’importanza della centralità della persona, del welfare di prossimità, della cura come pratica sociale, del ruolo del Terzo settore. C’è un qualcosa che frena a capire l’ingiustizia che subiscono tante donne nel sostenere il carico di lavoro di cura al prezzo di tante rinunce, ai propri sogni, al lavoro, a traguardi, persino ad avere i figli che desiderano. Questo qualcosa è un approccio antico, il primato culturale dell’economia sulla società che ancora domina il nostro Paese, ma non la nostra Costituzione che è molto chiara al riguardo. Una forte resistenza culturale. È necessaria una presa di coscienza collettiva. Tante leggi importanti sul piano sociale e di genere sono state adottate nella storia del Paese, ma scarsa ne è la attuazione, e scarsa la traduzione in realtà viva. Rimuoviamo questa resistenza culturale, poniamo economia e società sullo stesso piano. Rimettiamo al centro la persona, come indica la nostra Costituzione. *Direttora centrale Istat Migranti. Rossomando e Giorgis: “Rimpatri volontari e più diritti nei Cpr” di Irene Famà La Stampa, 2 giugno 2021 Dopo il suicidio di Musa Balde, vittima di una brutale aggressione a Ventimiglia e finito al Cpr di Torino perché senza documenti. “I Cpr andrebbero chiusi e andrebbe trovata un’altra soluzione al più presto. È inaccettabile che ci siano luoghi come questi, come meno trasparenza e meno diritti delle carceri”. Così il consigliere regionale Marco Grimaldi di Leu e il consigliere regionale Domenico Rossi del Partito Democratico al termine di una visita al Centro di permanenza per il rimpatrio di corso Brunelleschi. Hanno visitato il Cpr così come i deputati del Pd Anna Rossomando e Andrea Giorgis. Un sopralluogo dopo il suicidio domenica 23 maggio di Musa Balde, il 23enne della Guinea vittima di una brutale aggressione a Ventimiglia e finito al Cpr perché senza documenti. “Da questo sopralluogo è emerso che è necessario chiudere definitivamente la stagione dei decreti Salvini e dei tagli ai servizi organizzati all’interno di queste strutture” spiegano gli onorevoli Anna Rossomando e Andrea Giorgis. “Bisogna che il prossimo capitolato ripristini ad esempio la presenza h24 di un medico, e non di sole cinque ore al giorno com’è la situazione attuale, gli investimenti per i mediatori culturali e per gli psicologi”. Il “paradosso” è che nei Cpr, che non sono strutture di detenzione, “ci sono meno tutele e garanzie che nelle carceri”. È necessario, aggiungono, ripensare la procedura che riguarda le persone irregolari, “investire risorse per dare effettività e disciplina al rimpatrio volontario”. Il caso Musa, poi, pone un’ulteriore questione: “La direttiva comunitaria prescrive a tutti i paesi membri di predisporre una disciplina a tutela delle vittime di reato. La condizione di vittima deve prevalere sulla condizione di irregolarità”. “Sull’accaduto farà chiarezza la magistratura, a cui ci rivolgeremo per fornire gli elementi raccolti oggi - spiegano Grimaldi e Rossi- A quanto ci è stato detto oggi, pare che nessuno, né la Questura di Imperia né l’Asl di Imperia, abbia comunicato agli operatori chi era Musa, della violenza che aveva subito”. Musa era in isolamento per questioni sanitarie, nella zona chiamata Ospedaletto. “Un’area - dicono Grimaldi e Rossi - in cui non ci sono nemmeno le telecamere. Per cui è impossibile intervenire in caso di malore o di un gesto anti-conservativo”. In tanti, spiegano, “ci hanno raccontato di essere al Centro solo perché senza documenti. Di non aver fatto nulla di male. Altri, invece, ci hanno raccontato di aver avuto qualche problema con la giustizia e di aver scontato la pena in carcere. Ci hanno anche detto che piuttosto che stare al Cpr preferirebbero tornare in cella”. I due consiglieri regionali aggiungono: “I Cpr sono luoghi indegni di un paese civile. Vanno chiusi, ma sino a che rimangono aperti bisognerebbe renderli il più umani possibile. Abbiamo saputo che i fondi previsti dal Ministero sono stati ridotti drasticamente negli anni”. Grimaldi e Rossi denunciano mancanza di “trasparenza”: “Per poter ottenere il permesso per questo sopralluogo c’è voluta una settimana. La politica deve avere libertà d’accesso immediata”. E concludono: “Abbiamo appreso che negli ‘ospedaletti’, la struttura di isolamento dove si trovava Moussa, continuano a non esserci dispositivi di videosorveglianza. Un luogo come questo non è in grado di gestire la sofferenza, ma la fa esplodere, a maggior ragione per chi viene da una storia di vulnerabilità”. Tra i racconti dei detenuti raccolti da Grimaldi e Rossi c’è quella di “chi nonostante un regolare contratto si trova nel Cpr perché ha il permesso di soggiorno scaduto. C’è chi è finito qui dentro perché ha attraversato il confine dalla Francia per salutare la fidanzata o dopo aver scontato una lunga pena in carcere senza essere stato identificato - spiegano - Ci sono giovani che appena compiuti i 18 anni sono usciti dalla comunità per finire al Cpr. E c’è chi vive in Italia da anni e ha figli nati qui che nemmeno parlano la lingua del paese di provenienza”. Le foto dei piccoli migranti morti: non possiamo abituarci all’orrore di Daniele Mencarelli Avvenire, 2 giugno 2021 Nel settembre del 2015 il mondo gridò di orrore. Una fotografia stravolse l’opinione pubblica, fermò di colpo tutte le questioni interne ai singoli Stati, sembrò quasi cancellare qualsiasi forma di ordinaria amministrazione. La fotografia era quella del piccolo Alan Kurdi, ritrovato senza vita su una spiaggia dell’Egeo. La sua famiglia, in fuga dalla Siria, tentò come altre migliaia di profughi di raggiungere l’occidente attraverso le tratte clandestine, nel loro caso dalla Turchia verso la Grecia. Partirono da Bodrum, ma il loro viaggio durò poco, pochissimo, il gommone sul quale viaggiavano si capovolse per il mare grosso e il peso eccessivo. Della famiglia Kurdi sopravvisse solo il padre, mentre la madre e i due figli, Ghalib e Alan, affogarono. La fotografia di Alan con il volto nella sabbia, bagnato dalle onde del mediterraneo, con la sua magliettina rossa, i pantaloncini blu, ci rimase negli occhi per settimane. Una civiltà che permette una simile sciagura non è più una civiltà. Questo dissero, dicemmo, tutti. Talmente forte lo sdegno collettivo, e sincero, che in molti pensarono che quel sacrificio potesse aprire un nuovo capitolo della Storia. Una nuova era. Dove i bambini, tutti, ma proprio tutti, avessero stessi diritti e possibilità. Poi l’umanità riprese la corsa, dimenticò quegli attimi di commozione, come succede sempre, in preda alla sua smania frenetica. Qualche giorno fa, Oscar Camps, il fondatore della Open Arms, l’organizzazione non governativa che si occupa di aiuto ai migranti, ha diffuso delle fotografie scattate in Libia. Si vedono i corpi di tre bambini. Altre foto ritraggono adulti. Tre bambini, di cui uno neonato. Vittime di un naufragio, uno dei tanti. Dalla foto di Alan Kurdi a queste sono trascorsi poco meno di sei anni. Un dato salta agli occhi, evidente per quanto preoccupante. Il piccolo siriano, la sua immagine straziante, divenne icona di una crisi che riguardava tutti, perché tutti hanno una coscienza e da che mondo è mondo i bambini si proteggono. Perché tutto questo non è successo per quelli ritrovati in Libia? Perché quei tre corpi bambini non hanno prodotto nulla? Se ne è parlato per mezza giornata, poi basta. Qualsiasi spiegazione è a dir poco terribile. La prima cosa che viene in mente è questa: nel giro di poco meno di sei anni l’opinione pubblica, tutti noi, ha vissuto una specie di assuefazione-regressione all’orrore, al punto da rendere digeribile una foto che ritrae tre bambini morti su una spiaggia. Un’altra chiave di lettura potrebbe essere questa, forse ancora più disumana della prima. Le foto diffuse da Camps sono state scattate a Zuwara, in Libia, e si sa, la nostra coscienza ha oggi un confine geografico, e quel confine è proprio il Paese nordafricano, tutto ciò che accade da lì in poi e affare di altri, ed è sempre lecito. E poi, a guardare bene, quei tre bambini erano dalla pelle scura. Ma delle spiegazioni possibili interessa il giusto. Anzi niente. L’orrore, un tanto al giorno, come una cura omeopatica somministrata ai nostri occhi, ci sta invadendo la coscienza e non ce ne accorgiamo. È la storia. La nostra storia. Quella che fa di ogni sciagura del passato, dai lager ai roghi, qualcosa che deve ancora avvenire. Lo stigma del drogato fa paura. Anche a David di Claudio Cippitelli Il Manifesto, 2 giugno 2021 I francesi si sono scagliati contro i Måneskin, vincitori all’Eurovision Song Contest di Rotterdam accusandoli di essere drogati. In una nota il Quai d’Orsay afferma che “È la commissione di deontologia che deve risolvere la questione. Se c’è bisogno di sottoporsi ai test, faranno i test”. Il gesto incriminato è del cantante Damiano David, che in diretta si china su un tavolo, gesto interpretato come un’assunzione di cocaina. Ora, se la Francia ha una così spiccata sensibilità e intolleranza verso gli artisti che consumano stupefacenti dovrebbe spiegare perché ha scelto di tumulare le ceneri di Alexandre Dumas Padre nel Panthéon di Parigi. E sì, perché il grande scrittore era solito frequentare il Club des Hashischins in compagnia di altri mostri sacri della cultura transalpina come Charles Baudelaire, Victor Hugo, Honorè de Balzac e Thèophile Gautier, un bel gruppo di scrittori che in pieno Ottocento sfidavano la morale borghese coniugando arte e consumo di droghe. Forse, prima di richiedere il drug test ai Måneskin, i cugini d’oltralpe dovrebbero rivisitare la loro storia artistica, a partire dalla grandissima Edith Piaf, o da Johnny Hallyday che in una intervista a Le Monde del ‘98 raccontava di abusare di droghe e medicinali: “Ne prendo per lavorare, per riaccendere la macchina, per reggere. D’altra parte non sono il solo. La polvere e l’hashish circolano a fiumi fra i musicisti”. Va detto, a parziale giustificazione dell’intemerata transalpina, che i francesi si aspettavano la vittoria della loro cantante Barbara Pravi, arrivata però solo seconda. Dunque, “I francesi rosicano”: questa l’elegante espressione utilizzata da una parte dei media italiani (adnkronos, ilGiornale.it, liberoquotidiani.it), soddisfatti dalle affermazioni dell’artista che si dichiara contro la droga e disponibile a fare il test. Ecco, da un cantante che gira il video ufficiale di Zitti e Buoni truccato da Marylin Manson e che canta “Siamo fuori di testa, ma diversi da loro”, magari ci si aspettava qualcosa di più del semplice balbettio: “sono contro la droga, fatemi il test”. Perché? Forse i Måneskin, come scrive Massimo Coppola sul Domani, sono anche loro vittime di “una grave psicopatologia sociale, collettiva e individuale, (…) doversi discolpare senza la prova della colpa, e quando suddetta colpa non è chiaro che rilievo abbia.” Paura di perdere il successo appena raggiunto? Una paura che non ha avuto Kate Moss, che non ha mai rilasciato abiure e pentimenti per i suoi fotografati consumi di coca, o Vasco Rossi, che in una recente intervista afferma: “Mi definisco un tossico indipendente. Le sostanze le ho provate tutte, perché volevo farlo. Tranne l’eroina. E chi dice che sono tutte uguali è un criminale”. Eppure, avremmo tutti bisogno di coraggio per opporci ai danni che le politiche basate sulla guerra alla droga producono: i drug test non sono strumenti neutri, ma metodiche spesso usate come clave per colpire studenti e lavoratori con stili di vita non graditi: sono mezzi che, fuori da un contesto terapeutico, sono utili solo a rassicurare gli adulti, o a promuovere un rapporto tra le generazioni informato dal sospetto e pochissimo dalla genuina ricerca della salute. Esempio: una recente Proposta di Legge presentata dalla Lega in Consiglio Regionale del Lazio, ha come titolo “Osservatorio regionale per l’educazione alla salute e la prevenzione delle tossicodipendenze tra i giovani”. In verità, la reale finalità della proposta è realizzare uno screening indistinto e di massa sulla popolazione scolastica del Lazio. Risponderemo anche noi come il Blasco, che ha postato una foto dei Rolling Stone con l’ironica scritta “Facciamo anche noi il test antidroga”.