“Macelleria sammaritana” tra violenze e depistaggi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 giugno 2021 Sono 52 le misure cautelari, emesse dal Gip su richiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere. Interdetto il provveditore regionale. Non solo i video, ma anche le chat proverebbero il pestaggio del 6 aprile del 2020. Al carcere di Santa Maria Capua Vetere gli agenti penitenziari avevano formato “un corridoio umano” al cui interno erano costretti a transitare i detenuti, ai quali venivano inflitti un numero impressionante di calci, pugni, schiaffi alla nuca e violenti colpi di manganello. Accerchiati e colpiti quando erano al suolo - In alcuni casi, poi, le plurime percosse inflitte ai detenuti si sono trasformate in prolungati pestaggi, durante i quali i detenuti sono stati accerchiati e colpiti da un numero esorbitante di agenti, anche quando si trovavano inermi al suolo. Per il Gip si è trattato di “un’orribile mattanza” - Non solo i video, ma anche le chat comproverebbero l’avvenuto pestaggio al carcere di Santa Maria Capua Vetere del 6 aprile del 2020. Cinquantadue misure cautelari, otto arresti e 18 a domiciliari. Nell’ordinanza di oltre 2000 pagine vengono contemplate misure cautelari per reati gravissimi nei confronti degli agenti penitenziari e funzionari senza precedenti nella storia delle carceri del nostro Paese, nemmeno durante gli anni di piombo. “Una orribile mattanza”, sintetizza il Gip che ha emesso l’ordinanza. Alcuni degli agenti penitenziari raggiunti da una custodia cautelare in carcere, secondo quanto emerge dalle indagini, stavano provando a depistare le indagini sui presunti pestaggi avvenuti al carcere campano di Santa Maria Capua Vetere. Otto gli agenti tratti in arresto e 18 ai domiciliari - Delitti di concorso in molteplici torture pluriaggravate ai danni di numerosi detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, falso in atto pubblico (anche per induzione) aggravato, calunnia, favoreggiamento personale, frode processuale e depistaggio. Questi sono i reati contestati che hanno giustificato l’emissione di 52 misure cautelari nei confronti degli appartenenti al corpo della polizia penitenziaria coinvolti nella presunta mattanza avvenuta ne confronti dei detenuti allocati nel “reparto Nilo” del carcere campano. Otto sono gli agenti tratti in arresto e 18 ai domiciliari, tra cui il comandante del Nucleo operativo traduzioni e piantonamenti del Centro penitenziario di Napoli Secondigliano e il comandante dirigente della Polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere. 23 misure cautelari interdittive della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio - Sono 3 le misure cautelari coercitive dell’obbligo di dimora nei riguardi di tre ispettori della polizia penitenziaria. Mentre sono 23 le misure cautelari interdittive della sospensione dall’esercizio del pubblico ufficio rispettivamente rivestito, per un periodo diversificato che va tra i 5 ai 9 mesi. Interdetto anche il Provveditore regionale Antonio Fullone - Tra quest’ultimi c’è anche Antonio Fullone, il Provveditore delle carceri della Campania. Le indagini sono originate dagli eventi del 6 aprile 2020, che sono successivi alle manifestazioni di protesta di alcuni detenuti ristretti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere avvenute il 9 marzo ed il 5 aprile dello stesso anno. In particolare il 9 marzo, un gruppo di 160 detenuti del reparto “Tevere” (diverso da quello ove poi si consumeranno le violenze) dopo aver fruito dell’orario di passeggio, rifiutava di entrare nel reparto, protestando per la restrizione dei colloqui personali imposta dalle misure di contenimento del contagio da Covid. Organizzata una perquisizione straordinaria dopo la protesta del 5 aprile - Il 5 aprile seguiva una ulteriore protesta, operata da un numero imprecisato di detenuti del reparto “Nilo” e attuata mediante barricamento delle persone ristrette, motivata dalle preoccupazioni insorte alla notizia del pericolo di contagio conseguente alla positività di un detenuto al Covid. La protesta rientrava nella tarda serata, anche mediante l’opera di mediazione e persuasione attuata dal personale di polizia penitenziaria del carcere e del magistrato di sorveglianza. All’esito della seconda protesta, nella giornata del 6 aprile, veniva organizzata una perquisizione straordinaria, generalizzata, nei confronti della quasi totalità dei detenuti ristretti nel reparto Nilo del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Durante la perquisizione si sarebbero verificate le violenze - Ed è lì che si sarebbe verificata una vera e propria macelleria messicana. “L’estrema brutalità delle aggressioni subite, il tipo di umiliazioni loro imposte dagli agenti di polizia penitenziaria, le reazioni emotive manifestatesi nel corso della perquisizione stessa (molti detenuti a seguito delle percosse hanno cominciato a piangere ed uno di essi è addirittura svenuto) erano peraltro tutti elementi che rendevano chiara la sussistenza di un misurabile trauma psichico delle vittime”, questa la descrizione fatta dalla procura. Una brutalità avvenuta in maniera pianificata e accurata, tanto da impedire alle vittime di far conoscere i propri aggressori: i detenuti erano infatti costretti a camminare a testa bassa e nella sala di socialità erano posti con la faccia al muro. Tante le segnalazioni dei familiari dopo la presunta mattanza - All’indomani della presunta mattanza, diverse sono state le segnalazioni dei famigliari dei detenuti che hanno subito l’irruzione di un gruppo di quasi 300 agenti penitenziari. Molti di loro sono del personale esterno, ovvero del “Gruppo di Supporto agli interventi”, istituto alle dipendenze del Provveditore regionale Antonio Frullone. Il garante regionale della Campania Samuele Ciambriello - attraverso le testimonianze raccolte dall’associazione Antigone e la lista dei nominativi dei detenuti pronti a testimoniare - aveva inviato una richiesta al capo della Procura sammaritana, Maria Antonietta Troncone. Il Dubbio aveva pubblicato la testimonianza e le foto delle ferite di un detenuto picchiato - Il garante regionale aveva chiesto di accertare se fossero attendibili i racconti che emergevano dalle telefonate e se fossero stati commessi episodi penalmente rilevanti da parte di alcuni agenti penitenziari. Si era attivato anche Pietro Ioia, garante dei detenuti del comune di Napoli, rendendo pubbliche le foto del detenuto (testimonianza riportata da Il Dubbio il 13 aprile 2020) che era uscito dal carcere. Foto che presentavano ecchimosi per tutto il corpo e che anche il nostro giornale ha pubblicato. Sentito da Il Dubbio, il garante Pietro Ioia così commenta i fatti odierni: “Quando successero questi episodi di violenza, a me mandarono una foto con un fondoschiena che era stato colpito da uno stivale. Da Garante subito la pubblicai, perché fatti del genere non devono accadere. Noi garanti non vogliamo buttare benzina sul fuoco, ma solo acqua perché non vogliamo mai più che ci siano le violenze nelle carceri di tutta Italia”. Il garante campano Ciambriello: “Non si tratta di nuocere il corpo di polizia penitenziaria” - Interviene anche il garante regionale Samuele Ciambriello: “Qui non si tratta di nuocere il corpo di polizia penitenziaria. Le mele marce, però, vanno individuate e messe in condizione di non screditare più il corpo cui appartengono e di non alimentare tensioni nelle carceri. Va fatta giustizia senza se e senza ma. Più volte ho manifestato apprezzamento per il lavoro svolto dagli agenti di polizia penitenziaria e non ritengo che siano venuti meno gli elementi su cui ho fondato il mio giudizio”, e aggiunge: “In qualità di Garante delle persone ristrette della Campania, allo stato, mi sento di invitare l’opinione pubblica a non cedere alla tentazione di imbastire “processi sommari” prima che i fatti realmente accaduti vengano effettivamente accertati”. Gennarino De Fazio, il segretario Generale della Uilpa, così commenta la notizia: “Se le proporzioni fossero davvero quelle che sembrano emergere, quanto accaduto confermerebbe che il sistema complessivo non funziona, che l’esecuzione carceraria va reingegnerizzata e che l’Amministrazione penitenziaria va rifondata”. Il ministero della Giustizia ha fatto sapere di seguire con preoccupazione gli sviluppi dell’inchiesta. “La ministra Marta Cartabia, e i vertici del Dap - sottolinea una nota di via Arenula - rinnovano la fiducia nel corpo della Polizia Penitenziaria, restando in attesa di un pronto accertamento dei gravi fatti contestati”. Pestaggi in carcere, le intercettazioni: “Detenuti bestiame”, “Li abbattiamo come vitelli” di Nello Trocchia Il Domani, 29 giugno 2021 Domani aveva rivelato l’esistenza dei video e raccontato nei dettagli gli abusi. Era settembre scorso. Ora l’operazione dei carabinieri di Caserta. Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, su richiesta della locale procura, ha disposto 52 misure cautelari nei confronti di appartenenti al corpo della penitenziaria. Per il gip si è trattato di violenze premeditate. “Li abbattiamo come vitelli”, “domani chiave e piccone”, “domate il bestiame”. Sono alcuni dei messaggi presenti nei cellulari degli agenti della polizia penitenziaria che preparavano il pestaggio di detenuti nel carcere Francesco Uccella di Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta. Per i fatti accaduti il 6 aprile 2020 il giudice che ha diposto arresti e misure cautelari parla di “orribile mattanza”. Tortura, maltrattamenti, falso, calunnia, depistaggio. Gli indagati sono 117, tutti uomini dello stato che, a vario titolo, hanno contribuito a quanto accaduto. Domani lo aveva raccontato già lo scorso settembre, rivelando la presenza di video a riscontro, i “non ricordo” dei vertici del Dap, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il depistaggio. I carabinieri di Caserta hanno eseguito 52 misure cautelari, tra arresti e interdizioni, disposte dal giudice per le indagini preliminari su richiesta della procura guidata da Maria Antonietta Troncone. Il procuratore aggiunto Alessandro Milita, durante la conferenza stampa, ha spiegato che per il giudice delle indagini preliminari si è trattato di violenza premeditata: “Uno dei più drammatici episodi di violenza di massa ai danni dei detenuti, in uno dei più importanti istituti penitenziari della Campania”. Dai video che la procura ha potuto visionare è emerso “chiaramente un uso massiccio e indiscriminato, del tutto ingiustificato, di ogni sorta di violenza fisica e morale ai danni dei detenuti”. I pestaggi, conclude il giudice per le indagini preliminari, “non sono stati frutto di un’estemporanea escandescenza ma sono stati accuratamente pianificati e svolti con modalità tali da impedire ai detenuti di riconoscere i propri aggressori”. È stata disposta l’interdizione per il comandante del nucleo investigativo della polizia penitenziaria, ma anche per Antonio Fullone, provveditore regionale per le carceri in Campania. Fullone era rimasto al suo posto nonostante fosse indagato dallo scorso settembre. Il provveditore è indagato per maltrattamenti, anche se non era presente durante quella perquisizione, ma anche per favoreggiamento personale e depistaggio. Hakimi Lamine, uno dei detenuti vittima delle violenze, è finito poi, insieme ad altri 14, in isolamento. Alla fine, ingerendo un mix letale di stupefacenti, è morto. Secondo la procura, la vittima non doveva andare in isolamento e soprattutto, in quei giorni, non ha ricevuto i farmaci per curare la malattia da cui era affetto. Sempre secondo la procura, per mandare i detenuti in isolamento era stata redatta una falsa informativa. Falsi atti pubblici che dovevano giustificare le violenze commesse il 6 aprile. Per questo vengono contestati i reati di falso e calunnia. “Condotte violente, degradanti e inumane, contrarie alla dignità e al pudore delle persone recluse”, scrive nell’atto d’accusa la procura. Gli agenti della polizia penitenziaria, provenienti molti dal carcere di Secondigliano, avevano formato un corridoio umano al cui interno erano costretti a transitare tutti i detenuti dei reparti, costretti a uscire dalle celle. “Venivano inferti un numero impressionante di calci, pugni, schiaffi alla nuca e violenti colpi di manganello, che le vittime non riuscivano in alcun modo a evitare”, scrive la procura. Nelle chat gli indagati parlano di “metodo Poggioreale”, alludendo a un modo di operare votato alla violenza e al pestaggio. L’ordinanza di custodia cautelare, oltre 2mila pagine, descrive gli episodi e ne ricostruisce ogni passaggio. Si racconta di un detenuto costretto a trascinarsi in ginocchio, picchiato con calci e pugni. Quando il detenuto prova a proteggersi, viene colpito sulle nocche delle dita. Dopo la mattanza arriva il depistaggio. Vengono rinvenuti bastoni e altri strumenti durante una perquisizione effettuata due giorni. Secondo i magistrati quella perquisizione non è mai avvenuta e quei bastoni erano stati rinvenuti in un tempo e luogo totalmente diversi. Le foto che riprendevano un arsenale di strumenti atti a offendere erano false. Le stesse fotografie manomesse, secondo la procura, erano state prodotte dal provveditore Fullone, per giustificare la mattanza. La difesa di Salvini - “Non si possono trattare come delinquenti i servitori dello stato, indegnamente indagati. Visto che le rivolte non le tranquillizzi con le margherite, pistole elettriche e videosorveglianza prima arrivano e meglio è. Oggi è una giornata di lutto”. Il leader della Lega, Matteo Salvini, davanti alla casa circondariale, lo scorso giugno, aveva commentato così il provvedimento della procura di Santa Maria Capua Vetere che ordinava di perquisire alcuni agenti e il sequestro dei loro telefoni. Una difesa ribadita anche nel giorno degli arresti. Allo stesso modo Fratelli d’Italia ha solidarizzato con gli agenti della polizia penitenziaria, nonostante nelle stesse ore emergesse dalla chat agli atti dell’inchiesta il trattamento riservato ai detenuti, obbligati per esempio a rasarsi barba e capelli. I caschi non hanno consentito di identificare molti agenti coinvolti nelle violenze, “in Italia non è ancora obbligatorio il codice identificativo”, ha commentato il procuratore aggiunto Alessandro Milita. Dopo le inchieste pubblicate su Domani, il deputato Riccardo Magi aveva chiesto conto al governo Conte 2. In aula si era presentato il sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi che aveva definito “l’orribile mattanza” del 6 aprile come un “ripristino della legalità”. I verbali dell’orrore: “Qui è Santa Maria, è il capolinea: qui ti uccidiamo” di Stella Cervasio La Repubblica, 29 giugno 2021 Botte anche a un detenuto in sedia a rotelle. Il dialogo intercettato tra due indagati: “Sono state 4 ore di inferno per loro”. “Questo è Santa Maria, il capolinea. Qui ti uccidiamo”. I più aggressivi tra gli agenti penitenziari raggiunti ieri dalla misura cautelare della Procura di Santa Maria Capua Vetere, secondo il Gip che ha firmato l’ordinanza, facevano parte di quella che tutti chiamavano la “squadretta”. Immortalati nei video delle telecamere interne, il 6 aprile 2020 gli agenti misero in atto quella che venne definita una “mattanza”, con trasferimenti effettuati attraversando un corridoio sotto gragnuole di colpi, come in una tonnara. Furono 292 i detenuti di 8 sezioni del reparto Nilo (a Santa Maria si chiamano come i fiumi: Danubio, Tevere ecc.) malmenati. E a sottoporli a “perquisizioni personali arbitrarie e abusi di autorità”, come li denomina l’ordinanza firmata dal gip Sergio Enea, furono 283 fra commissari, ispettori, sovrintendenti e agenti di polizia penitenziaria in forza alla Casa circondariale, a cui si aggiunsero gli appartenenti al Gruppo di Supporto agli Interventi. Nelle intenzioni degli agenti doveva essere la risposta a una rivolta dei detenuti che avevano protestato il giorno prima, il 5 aprile, per un caso di Covid chiedendo le mascherine. Un intervallo, quello di 24 ore, che non giustifica l’intervento, secondo gli investigatori. La giornata seguente la “perquisizione straordinaria generale”: “Quattro ore di inferno per loro”, si dice in una intercettazione telefonica tra Pasquale Colucci, comandante del Nucleo operativo traduzioni e piantonamenti del carcere di Secondigliano e comandante del Gruppo di Supporto agli Interventi - e Gaetano Manganelli, comandante della polizia penitenziaria di Santa Maria Capua Vetere. Intorno alle 20 Colucci annuncia che è stata “ristabilita la legalità a Santa Maria”, e aggiunge “4 ore di inferno per loro: l’operazione ha interessato 8 sezioni del Reparto Nilo. Non si è salvato nessuno”. Prima della perquisizione sono state intercettate frasi del tipo: “Li abbattiamo come vitelli “ ; “domate il bestiame”. E riferimenti al “sistema Poggioreale”. Non sarebbe stato risparmiato neppure un detenuto costretto sulla sedia a rotelle, preso a manganellate - si legge nell’ordinanza - e con lui uno a cui le guardie avrebbero rotto gli occhiali. Molte le violazioni anche nella procedura, in quell’inferno paragonato ai fatti della caserma di Bolzaneto del 2001: sarebbero state impiegate anche donne, che per detenuti di sesso diverso non possono presenziare o eseguire perquisizioni. Queste ultime sarebbero avvenute anche servendosi di manganelli (peraltro vietati dalla legge, e permessi in casi eccezionali solo da una normativa risalente agli anni Trenta): “Hanno ordinato - afferma un detenuto riconoscendo nei video e nelle foto mostrate, coloro che l’avrebbero sottoposto a tortura - di mettermi un manganello nell’ano per controllare se c’era un telefonino”. Un detenuto racconta di un compagno di reparto nordafricano, che per chiedere il trasferimento mise in atto una protesta e con lui c’era un connazionale: “Uno mise la branda contro la grata della cella e quando arrivò la commissaria (Anna Rita Costanzo, commissario capo responsabile del Reparto Nilo, ndr) con la sua squadra di 50 agenti, si tagliò e sputò sangue contro gli agenti, e allora uno di loro diede un calcio alla branda facendola cadere e colpendo il detenuto alla testa. A uno dei due iniettarono del Valium, all’altro si ipotizza qualcosa di più forte, perché non è più tornato lucido “. In un’altra testimonianza: “Il detenuto che porta il vitto agli altri, e chiamiamo Maradona è stato afferrato per il collo della tuta e l’hanno colpito con schiaffi violenti in pieno viso”. In una intercettazione tra due agenti si sentono i commenti sulle deposizioni dei detenuti riguardo ai fatti del 6 aprile: uno confessa “al massimo possono avermi visto tirare un pugno con le chiavi a un detenuto”, e aggiunge: “Gli ho fatto un buco sulla testa “. E ancora un’affermazione che sa di presunzione di impunità: “Sarà tutta una bolla di sapone, perché hanno messo come ‘tortura’ quindi va a decadere”. Un altro detenuto della sezione Nilo: “Una guardia mi ha dato uno schiaffo e poi mi ha consigliato di prendermi acqua e zucchero, mentre io gli chiedevo di andare in infermeria”. Il contenuto di un’altra deposizione: “La guardia dell’ufficio matricola il 6 aprile, mentre mi perquisiva, mi riempiva di pugni - dice agli inquirenti un detenuto sottoposto alla “perquisizione straordinaria” - e ridendo diceva testualmente “e bravo, sei il primo carcerato che ha detto la verità”, alludendo al fatto che non avevo telefonini con me. Questo agente in seguito mi ha avvicinato cercando di giustificare gli eventi del 6 aprile con il comportamento esagerato e irrispettoso dei detenuti”. Non solo percosse, ma anche minacce e umiliazioni: “L’agente che ho riconosciuto il 6 aprile - dice un’altra testimonianza - era fuori dalla mia cella e mi ha detto che sarebbe tornato il giorno dopo per picchiarci. Il 7 aprile è venuto fuori alla cella intimandoci di farci la barba, altrimenti ce l’avrebbe fatta lui “. È di un detenuto nordafricano il racconto più dettagliato: “L’agente che temiamo di più è quello soprannominato “Penna Bianca”. L’ho conosciuto a Cassino dove sono stato dal 2017 al 2019. Si accompagna sempre con gli altri agenti della sorveglianza con cui forma una “squadretta”. Terrorizza tutti, perché è lui che dà il “benvenuto” ai detenuti quando arrivano in carcere. Il 10 marzo 2020 quando sono arrivato nella stanza della Matricola, l’ho salutato e lui mi ha detto “è da Cassino che ti volevo uccidere” e poi ha ribadito “t’aggia schiattà”. Ho provato a spiegare che io non avevo preso parte alla rivolta di Velletri avvenuta 2 giorni prima (250 detenuti diedero alle fiamme il carcere contro un decreto che vietava i colloqui per il Covid), ma mi hanno gridato “stai zitto”. Quindi i tre agenti mi hanno aggredito dandomi calci e pugni su tutto il corpo, mentre io cercavo di coprirmi. Ma mi hanno dato anche schiaffi sul viso. L’aggressione è durata qualche minuto e sono caduto a terra. Per la paura che mi avevano trasmesso, sapendo quello che poteva farmi Penna bianca, mi sono fatto la pipì addosso e quando gli agenti se ne sono accorti mi hanno deriso. Poi mi hanno accompagnato alla mia cella Penna Bianca, l’assistente Michele e l’assistente Vittorio e hanno iniziato ad aggredirmi colpendomi con pugni e calci sulla schiena che ho lasciato esposta per evitare di ricevere colpi in viso, i lividi hanno fatto preoccupare mia madre che doveva farmi una videochiamata. Prima di chiudere la cella, l’assistente Michele mi ha detto “Qui è Santa Maria. Questo è il capolinea. Qui ti uccidiamo”. False perquisizioni e detenuti fatti “sparire” in isolamento. Spunta vittima dopo i pestaggi di Attilio Nettuno casertanews.it, 29 giugno 2021 Il 28enne algerino non è stato curato ma per il Gip è morto per suicidio. Si chiamava Lamine Hakimi ed è morto il 4 maggio 2020 all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere. Hakimi, affetto da schizofrenia, era tra i 15 detenuti posti in isolamento, dopo i pestaggi del 6 aprile, in quanto ritenuti i promotori della protesta al reparto Nilo di qualche giorno prima per la distribuzione di mascherine dopo il primo caso di Covid nell’istituto penitenziario. Detenuto morto dopo i pestaggi - Hakimi, secondo quanto riferito dalla Procura, non era in condizioni fisiche tali da sostenere la misura afflittiva, non è stato sottoposto ad alcuna visita preventiva, non è stato curato adeguatamente. Il suo compagno di cella di quei giorni di isolamento, trascorsi al reparto Danubio, ha riferito che il 28enne algerino ha sempre dormito e che non ha ricevuto medicinali. Per gli inquirenti quella morte sarebbe conseguenza dei pestaggi (morte causata da altro reato) o comunque da una condotta omissiva da parte di chi doveva vigilare su di lui. Una contestazione che, però, non è stata condivisa dal gip che ha ‘etichettato’ quella morte come suicidio per l’assunzione di una dose massiccia di oppiacei. Il giallo - Ma resta il giallo. Hakimi, come gli altri detenuti ‘messi in punizione’, era stato perquisito e, essendo in isolamento, aveva contatti esclusivamente con le guardie penitenziarie. Come quegli oppiacei siano entrati in quella cella non è stato chiarito dalle indagini. Detenuti in isolamento fatti ‘sparire’ - Una morte che si è verificata in un contesto di abusi più ampio. I quindici detenuti in isolamento, infatti, non sono stati ‘registrati’, o meglio la loro regolarizzazione nelle celle di isolamento è avvenuta solo dopo: il 22 aprile ed il 4 maggio, giorno proprio della morte del 28enne algerino. Uno, addirittura, non sarebbe mai stato registrato. In questo modo avrebbero trascorso più tempo reclusi al regime ‘differenziato’ anche in violazione di altre norme che tale misura prevede (più di una persona in celle omologate per una sola, mancanza di biancheria per i primi giorni). Inoltre, i verbali di regolarizzazione, secondo la ricostruzione della Procura di Santa Maria Capua Vetere, sono falsi, redatti per incolpare i 15 detenuti dei reati di resistenza a pubblico ufficiale e lesioni, descrivendo a loro carico condotte insussistenti. Per questo agli agenti è contestato anche il reato di calunnia, oltre a quello di falso. Il falso delle perquisizioni - Ma non solo. L’alterazione delle relazioni di servizio sembra essere una costante. False sono risultati i verbali relativi a quanto rinvenuto nelle celle l’otto di aprile. Si parlava di spranghe ed olio bollente ma nella realtà dei fatti quelle perquisizioni non ci sarebbero mai state. E’ dalle chat tra gli agenti che arriva la risposta. “Con discrezione e con qualcuno fidato fai delle foto a qualche spranga di ferro”, o ancora “in qualche cella in assenza di detenuti fotografa qualche pentolino sul fornellino, anche con acqua”. La Garante dei Detenuti - Sull’inchiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere è intervenuta anche la garante provinciale dei detenuti Emanuela Belcuore. “Finalmente c’è giustizia - ha riferito a Caserta News - Mi sono insediata come garante provinciale dei detenuti a giugno 2020 e già nei primi colloqui mi erano state rappresentate le torture. Una cosa però va detta: ci sono tanti, la stragrande maggioranza, poliziotti della penitenziaria che svolgono il proprio lavoro con onestà e dedizione. Il comportamento di queste mele marce va a discapito anche di chi fa semplicemente il proprio dovere”. Ma ora non parlate di “mele marce” di Luigi Manconi La Stampa, 29 giugno 2021 Va da sé: per i 52 poliziotti penitenziari raggiunti da altrettante misure cautelari vale la presunzione di innocenza fino a condanna definitiva. Eppure, ribaditi anche in questa circostanza i principi del più rigoroso garantismo, è difficile ignorare quanto emerge dall’indagine della Procura di Santa Maria Capua Vetere. È un grumo di aggressività e di sopraffazione covato nel fondo del rapporto sempre potenzialmente malato tra custodi e custoditi, che si trasforma in dispositivo di violenza e in meccanismo di disciplinamento dei corpi reclusi. Conversazioni nelle quali degli indagati parlano questo linguaggio brutale: “li abbattiamo come vitelli”, “domate il bestiame”, “non si è salvato nessuno”. Per certi versi, è ancora più allarmante il riferimento al “sistema Poggioreale” perché rinnova la torva tradizione di un codice di punizioni illegali che dominerebbe in quel carcere. Ai poliziotti viene contestata una lunga serie di reati e, tra essi, quelli di tortura, maltrattamenti e lesioni personali pluriaggravate. I fatti: nei primissimi giorni di aprile del 2020, nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, il manifestarsi di alcuni casi di coronavirus determinò la protesta di gran parte dei detenuti. Lunedì 6 aprile alcune centinaia di poliziotti, provenienti da diversi istituti, presidiano il carcere: una parte di loro, col volto coperto, si dispone su due file, così da formare un corridoio lungo il quale sono obbligati a passare i detenuti, sottoposti a ogni genere di percosse a mani nude, con i manganelli e con armi improprie. Molti vengono denudati, fatti inginocchiare, forzati a posizioni umilianti. A seguito di alcuni esposti, la Procura apre un’indagine e raccoglie testimonianze circostanziate. Nel giugno del 2020, le perquisizioni e gli interrogatori. Ieri, le misure cautelari. Nell’ottobre dello scorso anno, il Ministro della Giustizia, rispondendo a una interpellanza del deputato Riccardo Magi, definiva quella del 6 aprile una “doverosa azione di ripristino di legalità e agibilità dell’intero reparto, alla quale ha concorso, oltre che il personale dell’istituto, anche un’aliquota di personale del gruppo di supporto agli interventi”. C’è da rimanere senza parole. O il Ministro della Giustizia dell’epoca, Alfonso Bonafede, venne manipolato dai suoi collaboratori, a loro volta ingannati dai dirigenti dell’amministrazione penitenziaria, che fornirono quella versione dei fatti, oppure peggio mi sento. Devo dedurre che una intera catena di comando - dal responsabile politico del dicastero all’autorità regionale delle carceri - ritiene torture e sevizie come gli opportuni strumenti di “doveroso ripristino di legalità”. Se così fosse, andrebbero poste altre domande. Considerato che tra gli indagati ci sono due comandanti della penitenziaria e il provveditore delle carceri campane, è possibile che nessuno, proprio nessuno, del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) di Roma era stato informato preventivamente di quella azione? Non solo: c’è una preoccupante cronologia sulla quale sarebbe quanto mai opportuno che le autorità centrali, ancora il Dap e il Ministero della Giustizia, fornissero risposte adeguate: tra il luglio del 2019 e l’aprile del 2020 si sono verificati all’interno del sistema penitenziario italiano ben 9 episodi di maltrattamenti e violenze ai danni di detenuti, sui quali indagano le procure (San Gimignano, Viterbo, Monza, Torino, Palermo, Milano Opera, Melfi, Pavia e Santa Maria Capua Vetere). Per una di queste vicende (San Gimignano), già c’è stata una condanna per torture e lesioni aggravate a carico di dieci poliziotti penitenziari. Non si vuole intendere, qui, che sia in atto una strategia di controllo violento della popolazione detenuta: ma davvero qualcuno può sostenere che si tratti di poche mele marce? Un manuale di etnografia carceraria di Patrizio Gonnella* Il Manifesto, 29 giugno 2021 L’inchiesta. Il provvedimento con cui la procura della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha eseguito ben 52 misure cautelari nei confronti di altrettanti appartenenti al corpo di Polizia penitenziaria e funzionari dell’amministrazione costituisce un manuale di etnografia carceraria. Torture, lesioni, depistaggio, falso. Non è questo un sommario dei fatti accaduti a Genova nel 2001 ma è il cuore dell’inchiesta sulle violenze avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020 in pieno lockdown. Il provvedimento con cui la procura della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha eseguito ben 52 misure cautelari nei confronti di altrettanti appartenenti al corpo di Polizia penitenziaria e funzionari dell’amministrazione costituisce un manuale di etnografia carceraria. Il primo elemento è la pianificazione della rappresaglia. Dalle conversazioni via whatsapp avvenute tra gli agenti, tratte dagli smartphone sequestrati all’indomani dei fatti, emerge chiara la voglia di vendicarsi per le proteste inscenate dai detenuti nei giorni precedenti. La vendetta si consuma sempre con un’azione spettacolare di forza e violenza. L’operazione a Santa Maria Capua Vetere, che viene giustificata con l’esigenza di fare una perquisizione straordinaria alla ricerca di armi improprie, è condotta da centinaia di agenti quando oramai in carcere non c’era più tensione. Il secondo elemento è la certezza dell’impunità. Nonostante nell’ultimo anno ci siano state ben due condanne per tortura nelle prigioni di Ferrara e San Gimignano, nonostante le condanne europee per quanto accaduto a Genova nel 2001, nonostante la condanna nei confronti dei carabinieri che hanno ucciso Stefano Cucchi, si continuano a pianificare azioni di rappresaglia illegale senza temere le reazioni dei superiori gerarchici. È come se ci fosse una certezza di impunità. In qualche modo conta l’assenza di un messaggio universale e inequivocabile di inaccettabilità etica della tortura. D’altronde, a commento dell’inchiesta, esponenti di alcune forze politiche hanno affermato che andrebbe cancellata la legge che prevede il delitto di tortura. Dunque non andrebbe eliminata la tortura ma la legge che la proibisce. Negare la violenza significa fare il gioco dei violenti. Nessun paese è esente dal rischio di tortura. Lo abbiamo visto a Genova vent’anni fa. Lo stiamo vedendo a Santa Maria Capua Vetere oggi. Il terzo elemento è lo spirito di corpo. Negli atti di indagine si intravede come, a vari livelli, si sia cercato di manipolare le prove, depistare le indagini fino a cercare di modificare i contenuti della video-sorveglianza. Una parte delle misure cautelari riguarda chi, nel nome dello spirito di corpo, ha provato a coprire le violenze e le torture, così come accadde nella famosa conferenza stampa post-Diaz o all’indomani della morte di Stefano Cucchi. Lo spirito di corpo è l’ostacolo maggiore per chi lotta - a livello giudiziario, sociale e culturale - contro la tortura. Contribuirebbe a sradicarlo la decisione del ministero della Giustizia di costituirsi parte civile nel processo che si andrà ad aprire nei prossimi mesi. Lo Stato è leso nella propria immagine da chi fa uso arbitrario di violenza. Infine, il quarto elemento è il linguaggio. Il detenuto è considerato, finanche nelle parole, come un animale. Nelle conversazioni si parla di vitelli e bestiame. Nello slang carcerario resiste la parola “camosci” per chiamare i detenuti. D’altronde c’è chi a livello istituzionale ha usato l’espressione “marcire in galera” che poco si adatta a esseri umani. Ci vuole una rivoluzione di igiene nel linguaggio, affinché esso sia costituzionalmente orientato. Il linguaggio non è solo forma. Il linguaggio, in contesti chiusi come le galere, è performativo. *Presidente di Antigone Riconoscere l’orrore per ritrovare fiducia nello Stato di Fabio Anselmo e Ilaria Cucchi Il Domani, 29 giugno 2021 Ricordate Rachid Assarag? Il detenuto che per anni ha registrato i suoi aguzzini, rivelando le violenze in alcune delle nostre carceri italiane. Violenze, torture (non c’era ancora la legge che la puniva), connivenze e depistaggi. Aveva fatto così tanto scalpore che venne disposta un’inchiesta ministeriale sulla quale il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, venne chiamato a riferire in parlamento. Nulla di fatto, ovviamente. Brillante fu l’idea di chiedere relazioni al personale interessato di tutti gli istituti di pena coinvolti. Ma qui vogliamo parlare del Garante regionale della Campania, dei magistrati in forza alla procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere e dei carabinieri al loro servizio. Sono loro che, oggi, ci fanno avere ancora fiducia nelle istituzioni. I fatti - Siamo in piena emergenza pandemica, il 5 aprile del 2020. Scoppia la protesta in numerose carceri italiane e così anche a Santa Maria Capua Vetere. Le condizioni di vita dei detenuti, già critiche, diventano drammatiche a causa della situazione sanitaria. Lo stato reagisce con la sola repressione violenta. Il 6 aprile l’istituto diventa teatro di pestaggi e torture. Ma lo stato ha anche i propri anticorpi. Il garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, sporge denuncia. La procura fa il suo dovere e apre un’inchiesta per far luce su quegli indegni episodi. Così dev’essere. Vengono disposte perquisizioni a tappeto a carico degli agenti che si trovavano in servizio il giorno delle torture. Il delicato e “ingrato” compito di eseguirle viene affidato all’arma dei carabinieri che non si sottrae. I militari operano anch’essi in modo corretto ed efficace. Onorano il giuramento di fedeltà fatto al popolo italiano e vanno a meta. Vengono acquisti filmati e documenti. Ma l’infezione reagisce con forza cercando di mettere in crisi gli anticorpi. Lo stato non può ammettere di esser così cattivo da aver permesso le violenze denunciate. Non indugiamo qui sulla loro descrizione. Non serve. È più facile negare e mettere ancora una volta tutta l’immondizia sotto il tappeto. Ecco allora che gli agenti della penitenziaria salgono sui tetti dell’Istituto per mettere in scena una plateale protesta osannando il sempre presente Matteo Salvini che scalda loro i cuori con le consuete perle di ignorante (nel senso di disinformata) saggezza. I sindacati di polizia inveiscono contro magistrati e carabinieri lamentando la lesione inaccettabile del dovuto fair play tra i due corpi dello stato. Il procuratore generale di Napoli interviene pubblicamente rendendo noto di aver chiesto, “anche nella sua qualità di capo della polizia giudiziaria del distretto, una dettagliata e sollecita relazione al procuratore di Santa Maria Capua Vetere e ai vertici regionali dell’arma dei carabinieri per accertare” la veridicità di quanto riportato dagli articoli di stampa e denunciato da alcuni esponenti della penitenziaria. Ne ha facoltà ma perché volerlo dire pubblicamente in un momento così delicato? Ma c’è un video. La cronaca ora parla di 52 misure cautelari nei confronti di appartenenti al corpo della Polizia penitenziaria. Misura interdittiva inflitta persino al provveditore Antonio Fullone. 117 indagati. Il giudice parla di “orribile mattanza”. Il procuratore aggiunto di violenza premeditata. Gli anticorpi paiono avere la meglio ma le insidie di quell’infezione culturale che spesso attacca gli uomini delle nostre istituzioni inducendoli a perseguire un del tutto malinteso senso di autotutela, sono ancora pericolose. Quattordici mesi dopo, c’era bisogno di arrestarli? di Gennaro Migliore* Il Riformista, 29 giugno 2021 Passato più di un anno, che senso ha mettere in cella degli agenti per evitare il pericolo di fuga o di inquinamento delle prove, proprio mentre le carceri scoppiano? Inutile spettacolarizzazione. “Nessuno tocchi Caino” non è una formula biblica ma è il fondamento costituzionale del nostro ordinamento penale. Chi è sottoposto alla privazione della libertà, a seguito di una condanna, è nelle mani dello Stato, che deve esercitare il suo potere secondo l’articolo 27 della Costituzione, che impedisce trattamenti inumani e degradanti. A seguito di una rivolta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nel mese di aprile del 2020, il successivo intervento della Polizia penitenziaria era stato oggetto di una denuncia per fatti gravissimi, dalle lesioni fino alla tortura, reato che fu introdotto nel 2017 e che io seguii come sottosegretario alla Giustizia. Proprio per questo, non intendo parlare delle contestazioni e del futuro processo cui saranno sottoposti 52 agenti della Polizia Penitenziaria per i presunti reati ascritti, poiché per quelli ci dovrà essere una verità giudiziaria da accertare in sede giurisdizionale. Qui vorrei sottolineare, invece, l’assoluta anomalia delle misure cautelari che hanno colpito gli indagati: si va dagli otto arresti in carcere fino a una ventina di detenzioni domiciliari, passando per obbligo di dimora nel comune di residenza e interdittiva dai pubblici uffici. Ma la Magistratura di Santa Maria Capua Vetere ha riscontrato, dopo quattordici mesi (!), un pericolo di fuga o un possibile inquinamento delle prove? O forse si è temuto che vi fosse il pericolo di reiterazione del reato? Stiamo parlando di quattordici mesi passati senza che vi fosse nessuna di queste circostanze, o mi sbaglio? Per non dire della misura interdittiva che ha colpito il Provveditore regionale Antonio Fullone che, al netto dell’accertamento di eventuali responsabilità, è conosciuto, fin dai tempi in cui dirigeva il carcere di Poggioreale, per il suo equilibrio e per la sua capacità di gestire le situazioni più complesse con misura e senso delle istituzioni. Ma allora perché ancora misure cautelari e non, invece, accelerare l’iter giudiziario? Del resto la stessa Procura aveva spettacolarizzato anche la consegna delle notifiche dei rinvii a giudizio facendolo fare all’esterno dell’Istituto, davanti ai colleghi e ai parenti dei detenuti. Un tratto dimostrativo/ disciplinare che mal si addice all’equilibrio che dovrebbe caratterizzare l’azione giudiziaria. Intanto le carceri scoppiano di nuovo e questa vicenda non farà altro che gettare benzina sul fuoco. Dalla parte dei detenuti poiché, mentre aumentano i casi di autolesionismo e di condizioni insostenibili, mancano i provvedimenti per diminuire le presenze in carcere: dall’eseguire in maniera alternativa le pene residue sotto un anno o addirittura sei mesi, depenalizzare i reati bagatellari sanzionati con il carcere, rivedere l’eccesso di custodia cautelare preventiva e i detenuti in attesa di condanne definitive, che portano a migliaia i processi per ingiusta detenzione. Dalla parte della Polizia Penitenziaria, al cui corpo giustamente la ministra Cartabia ha rinnovato la fiducia, che lamenta carenza d’organico, mancanza di una riforma strutturale che adegui le strutture penitenziarie alle previsioni di legge e che, soprattutto, è vittima di numerosi casi di violenza da parte dei detenuti, soprattutto psichiatrici, che dovrebbero stare altrove e sottoposti a cure che gli istituti penitenziari non possono garantire. Insomma, il carcere di nuovo al centro dell’attenzione per un fatto grave ma non ancora centrale nelle politiche quotidiane. Eppure bisogna far presto, anzi prestissimo. *Parlamentare di Italia Viva Carceri, Salvini torna a vestirsi da poliziotto di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 29 giugno 2021 Il capo leghista cavalca la rabbia degli agenti penitenziari che hanno contestato la ministra. Tensioni in vista dei passaggi decisivi per la riforma del processo penale. Cartabia: dobbiamo costruire il nostro ponte di Genova. Giovedì andrà, o meglio tornerà a Santa Maria Capua Vetere, dove la solidarietà agli agenti di polizia penitenziaria era già andato a portarla a giugno dell’anno scorso quando ci furono i primi indagati. Allora Matteo Salvini era all’opposizione del governo Conte 2, oggi a giorni alterni si presenta in veste di scudiero del governo Draghi o di spina nel fianco, come nel caso dei referendum sulla giustizia. Così un giorno è novello garantista che propone con i radicali un freno alla carcerazione cautelare, il giorno dopo eccolo tornare tutore della legge e ordine perché “è bizzarro che siano arrestati dei poliziotti”. “Io non condanno né assolvo nessuno prima del giudizio - è il saltellante ragionamento di Salvini - ma fare retate di poliziotti come fossero boss della camorra, addirittura arrestandoli entrando in casa loro alle quattro del mattino svegliando i figli, non è quello di cui l’Italia ha bisogno in questo momento”. Tanto che secondo il capo leghista “da oggi purtroppo si rischia il caos in tutte le carceri italiane”. Del resto il legame della Lega con il sindacato autonomo di polizia penitenziaria Sappe - che la settimana scorsa ha manifestato davanti al ministero della giustizia contro la decisione della ministra di costituirsi parte civile nel processo ai presunti torturatori - è noto e provato da diverse biografie di parlamentari. Il commento agli arresti di ieri che arriva da via Arenula è naturalmente di tutt’altro segno: “La ministra e i vertici del Dap rinnovano la loro fiducia nel corpo di polizia penitenziaria, restando in attesa di un pronto accertamento dei gravi fatti contestati”. Queste tensioni, che si aggiungono a quelle inevitabilmente causate dall’appoggio di Salvini ai referendum promossi con i radicali, finiranno per pesare nei prossimi giorni, decisivi per la riforma della giustizia. “Siamo chiamati a costruire il ponte di Genova della giustizia”, ha detto ieri a Milano Marta Cartabia. E ha confermato che gli emendamenti al disegno di legge di riforma del processo penale, una “profonda” riscrittura del testo di Bonafede, “a breve saranno all’attenzione del Consiglio dei ministri dopo intense settimane di sintesi politica”. Ma non sarà l’ultimo passaggio e potrebbe non essere nemmeno quello decisivo, visto che le distanze nella maggioranza almeno su due punti - abolizione dell’appello e nuove regole per la prescrizione - restano grandi. Tanto che il calendario della ministra subisce qualche adattamento: “Queste riforme sono da concludersi entro il mese di luglio, almeno nella parte governativa”. Non è più realistico sperare nel primo sì della camera entro l’estate, di conseguenza è difficile immaginare un via libera al nuovo processo penale entro la sessione di bilancio (lo prevede il Pnrr). Ma Cartabia insiste sul fatto che “il prossimo rinnovo del Csm non può avvenire con le attuali norme”. La riforma del Consiglio superiore è persino più in ritardo di quella del processo penale. Però le nuove norme sulla sua elezione sono fuori dalla delega e potranno entrare in vigore prima del 2022. Fratelli d’Italia contro il “soccorso rosso” a Battisti. Bruno Bossio: “La pena non è vendetta” di Valentina Stella Il Dubbio, 29 giugno 2021 Il trasferimento di Cesare Battisti dal carcere di Rossano a quello di Ferrara scatena la polemica nel centrodestra. “Il pluriomicida rosso Cesare Battisti avrebbe chiesto e ottenuto il trasferimento - grazie all’appoggio della sinistra - anche perché i compagni di carcere islamici lo escluderebbero dalla vita sociale, facendolo annoiare. Come non comprenderlo? Anni e anni di latitanza - alla faccia delle vittime, dei familiari e della giustizia - gli avranno fatto passare una vita sicuramente più movimentata. Per noi, questo terrorista dovrebbe scontare la sua pena senza la minima concessione”, ha scritto su Facebook il presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Sempre da Fdi l’onorevole Wanda Ferro annuncia un’interrogazione parlamentare per fare chiarezza sulla vicenda del trasferimento dell’ex terrorista dei Pac: “Si muove ancora il “Soccorso rosso” per il terrorista Cesare Battisti, annoiato dalla vita carceraria e disturbato dalla convivenza con detenuti stranieri. Quasi fosse il viziato ospite di un resort di lusso e non un criminale condannato all’ergastolo per quattro omicidi. Vogliamo capire - aggiunge Ferro - se e quali sono stati gli interventi politici che hanno consentito a Battisti di lasciare il carcere di Rossano, mentre la stessa solerzia non ci sarebbe stata per altri detenuti con problemi psichiatrici che, secondo quanto riferisce il sindacato Sappe, dovrebbero essere trasferiti altrove. Così come nessuno si preoccupa degli agenti di polizia penitenziaria più volte aggrediti”. Dello stesso tenore le parole dell’azzurro Maurizio Gasparri, che invece ha già presentato un’interrogazione: “Battisti è un criminale che deve rimanere in carcere, non un ospite del nostro Paese da assecondare nelle sue pretese”. In realtà quello di Cesare Battisti non è stato l’unico spostamento dal carcere di Rossano. Assieme a lui sono stati trasferiti dal penitenziario calabrese altri due detenuti. Inoltre nell’ultimo periodo si era creato nella sezione dell’Alta Sicurezza 2, dov’era detenuto Battisti a Rossano, un clima di possibile contrapposizione e tensione che, sfociato anche in alcuni episodi specifici, ha indotto a rivedere - anche in questo caso sulla base di pareri emessi dall’autorità giudiziaria - la sua collocazione altrove. Peraltro il trasferimento rientra pure in una più generale riorganizzazione del circuito alta sicurezza a livello nazionale, nei mesi scorsi ostacolata dal perversare della pandemia e dalle conseguenti limitazioni ai trasferimenti. Dunque nessuno appoggio politico, nessun trattamento di favore, come ribadito anche dall’onorevole dem Enza Bruno Bossio che proprio venerdì, nell’ambito dell’attività ispettiva propria di un parlamentare all’interno degli istituti di pena, aveva visitato il carcere di Rossano, in provincia di Cosenza, dove aveva anche incontrato Battisti: “La scelta di trasferirlo non ha nulla a che fare con le bandiere politiche. Semplicemente lo Stato interpreta la funzione della pena in chiave costituzionale; o dovrebbe farlo con la cultura vendicativa della Meloni? Politicizzare il trasferimento di Battisti significa strumentalizzare la questione, quando invece bisognerebbe preoccuparsi che ad ogni detenuto sia garantita una esecuzione della pena dignitosa”. Per uno dei legali di Cesare Battisti, Gianfranco Sollai, “dobbiamo essere tutti soddisfatti per il suo trasferimento nel carcere di Ferrara, perché tutti dobbiamo essere contenti quando si applicano le norme previste dall’ordinamento, a tutela di tutti i cittadini. Rimane la questione dell’Alta Sorveglianza, cui Battisti sarà sottoposto anche a Ferrara; non si conoscono i motivi della decisione del settore, probabilmente sulla base del titolo del reato, ma tenuto conto del tempo decorso e che da due anni sconta la pena, riteniamo che una valutazione su Battisti doveva essere fatta. Si può declassificare la sua posizione, ci sono tutti gli estremi, non possiamo solo attenerci al titolo del reato per cui ha subito la condanna. Battisti - conclude il legale - non deve avere un trattamento diverso dagli altri, né vantaggi, ma chiediamo che anche a lui vengano applicate le norme e i principi fondamentali dello Stato italiano”. Intanto l’altro legale, Davide Steccanella, ha presentato un esposto presso la Procura di Bologna contro Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe che per primo aveva dato all’Ansa la notizia del trasferimento: “Ignoro con quali modalità il segretario Sappe abbia potuto apprendere prima della famiglia stessa dell’interessato, ed evidentemente direttamente dal carcere di Rossano, la notizia dell’avvenuto trasferimento di un detenuto in regime di alta sicurezza. Sta di fatto che a causa dell’evidente gravità del contenuto del messaggio affidato alla più importante agenzia di stampa italiana, posto che si affermava che detto trasferimento sarebbe avvenuto “grazie al sostegno politico ricevuto”, il ministero della Giustizia si trovava costretto a diffondere in risposta all’evidente quanto infamante accusa di abuso per sudditanza politica, un comunicato ove si affermava che le ragioni del trasferimento del detenuto erano dovute, da un lato a ragioni di tutela della di lui incolumità personale, e dall’altro a già previste rotazioni rallentate dall’emergenza Covid”. Pertanto, conclude Steccanella, “ritengo che quanto avvenuto il 27 giugno 2021 (e di cui non credo si ravvisino precedenti) meriti di essere compiutamente accertato da Codesta A. G sia per le modalità con cui è stata divulgata la notizia dall’interno del carcere sia per l’evidente abuso di funzione nel diffonderla in quei termini da parte del segretario Sappe, che non è un privato cittadino ma riveste una carica pubblica ben precisa” Caso Crespi, tutti aspettano la decisione di Mattarella di Dimitri Buffa L’Opinione, 29 giugno 2021 Avrà il coraggio il capo dello Stato in carica di sfidare i forcaioli in servizio permanente effettivo dei giornali e dei talk-show filo-grillini e di concedere la grazia presidenziale entro il prossimo 9 settembre - in pieno semestre bianco - a un innocente come Ambrogio Crespi? Condannato però in via definitiva per il famigerato reato di concorso esterno in associazione mafiosa? Tutti i bei discorsi sull’esemplare provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Milano che alcuni giorni fa ha rimesso in libertà quasi a furor di popolo e con motivazioni esemplari una persona che - per chi lo ha conosciuto anche solo superficialmente - sta ad una condanna passata in giudicato per contiguità con la mafia come Enzo Tortora a suo tempo stava ad una accusa e a una condanna in primo grado per avere spacciato droga, si infrangono su una decisione che dovrà essere, per forza di cose, politica. Una vera assunzione di responsabilità di sfidare l’impopolarità presso i followers dei pm milanesi che a suo tempo a Crespi lo arrestarono senza prove. Senza badare, lui che per costituzione presiede il Csm, a quegli equilibri sempre interni alla magistratura milanese che per quieto vivere lo hanno condannato in via definitiva per chiudere una pratica scottante limitando i danni e senza sconfessare quei colleghi che purtroppo hanno tuttora carriere non separate con chi deve giudicare sulla base delle loro inchieste. Sergio Mattarella finora non ha dimostrato di avere quella grinta che ebbe a suo tempo Francesco Cossiga, suo illustre predecessore, con la corporazione in toga. Ma a fine mandato magari potrebbe prendere il coraggio a due mani per dare un segnale a chi ancora crede nella giustizia - come lo stesso regista Ambrogio Crespi ha sempre dimostrato non retoricamente di credere - e per darne un altro a chi vorrebbe riformare questa maniera di amministrare la procedura penale. Magari giovandosi dei referendum dei Radicali e della Lega in materia. Visto che il Parlamento è fermo al palo da sempre e che anche la bravissima ministra Marta Cartabia più di tanto sembra non poter fare. Come nel film più bello di Crespi, “Spes contra spem”, il presidente della Repubblica potrebbe dare alla speranza un significato ontologico e contribuire a cambiare le cose. Verrebbe così ricordato nella storia patria non solo per essere stato un buon notaio ma anche un grande, immenso statista. Se ne freghi delle critiche dei giustizialisti a un tanto al chilo. Quelli saranno il sarcasmo e la nemesi della storia a seppellirli sotto un’ondata di ridicolo. Giustizia, Cartabia: “La riforma sarà ultimata a luglio” di Valentina Errante Il Messaggero, 29 giugno 2021 A luglio sarà completata la proposta di riforma della giustizia, almeno per la parte inerente al governo. “In quattro mesi e mezzo abbiamo portato in dirittura di arrivo alcune riforme importanti da concludersi almeno nella parte governativa entro il prossimo mese”, lo ha affermato la ministra della Giustizia Marta Cartabia. La ministra ha parlato davanti ai vertici degli uffici giudiziari milanesi, presente in sala, tra gli altri, anche il procuratore Francesco Greco, in un Palagiustizia scosso in queste settimane da varie vicende giudiziarie. Durante il suo intervento al Palazzo di giustizia a Milano di questa mattina Cartabia ha sottolineato che “le riforme del processo civile, a volte ingiustamente sottovalutate, sono già state licenziate dal governo e sono ora incardinate al Senato”, mentre gli emendamenti al disegno di legge delega sul processo penale “a breve saranno all’attenzione del Consiglio dei ministri dopo intense settimane di sintesi politica”. “Quella in corso è una riforma molto profonda che va a incidere su punti nevralgici della procedura penale”, ha proseguito la guardasigilli. “Puntiamo a una giustizia che sia efficace ed efficiente, veloce e allo stesso tempo credibile, moderna e innovativa, capace di rispondere alle domande di cittadini e imprese”, ha proseguito ancora la ministra Cartabia. “Una giustizia che arranca, che fatica a seguire il ritmo e i cambiamenti dei bisogni dei suoi cittadini non sempre riesce a garantire risposte certe e giuste, e in tempi certi e giusti. La giustizia - ha aggiunto - diventa l’immagine di un Paese lento, che non cresce, inefficiente e quindi poco credibile e poco affidabile. E per tutto questo, non appetibile anche per gli investitori stranieri”. In un recente questionario stilato dalla cabina di regia per l’attrazione dei capitali esteri, infatti, nell’elenco delle criticità del nostro Paese, insieme al forte peso della burocrazia e alla lunghezza dei processi autorizzativi vengono indicate la mancanza di certezza del diritto, la corruzione, la repentina modifica delle norme, i tempi e le incertezze della giustizia. Oggi è iniziato anche il “viaggio” della ministra nei distretti delle Corti d’appello. Anche di questo ha fatto menzione nel suo intervento la guardasigilli. “L’intento è duplice: da un lato raccontare le novità e le occasioni importanti che per tutto il comparto giustizia potranno arrivare con i finanziamenti del Recovery plan, a cominciare dalle assunzioni dell’ufficio del processo (16.500 in due tranche, ndr); dall’altra, vorrei appunto che questo viaggio fosse davvero una grande occasione di ascolto delle esigenze, delle eventuali criticità, dei problemi, come dei progetti in atto in ogni distretto”, ha spiegato Cartabia. “Si tratta della più consistente immissione di nuove e fresche energie - ha proseguito - per la giustizia degli ultimi tempi. Ma sono anche la quota principale dell’intero reclutamento avviato dal governo con le assunzioni del Pnrr”. E ancora: “Non mi stanco di ripetere che dalla riforma della giustizia dipende l’erogazione non solo della quota di finanziamenti destinati al nostro settore, 2,3 mld di euro destinati alla giustizia, ma l’intero finanziamento destinato al nostro paese 219 mld di euro”. “Le critiche siano pur severe ma non prevalgano interessi personali e di categoria, ogni opposizione che arriverà sia costruttiva e mai sterile, ogni resistenza propositiva e mai nella difesa dello status quo, non possiamo limitarci a difendere l’esistente, non possiamo permettercelo davanti ai cittadini e davanti all’Europa”, ha concluso la ministra. Cartabia: avvocati e giudici, evitate muri sulle riforme di Errico Novi Il Dubbio, 29 giugno 2021 “Serve una seria assunzione di responsabilità, non prevalgano interessi di categoria”, dice la ministra. Altre volte Marta Cartabia ha fronteggiato la controparte con l’abilità del politico. Ma ieri a Milano, tappa d’esordio del suo “Viaggio nella giustizia”, non si è trovata di fronte i partiti, come nei vertici che hanno rivelato la sua forza diplomatica. Nel Palazzo di giustizia e nell’aula magna dell’università Statale, Cartabia ha parlato ai protagonisti del processo, avvocati e magistrati, e all’accademia. E per paradosso, è sembrata più consapevole di un possibile conflitto. Soprattutto quando ha evocato il “cantiere complicatissimo” delle riforme, che “sta impegnando molto il ministero”, dove “ci sono state, e assicuro ci saranno ancora, luci accese fino a notte fonda”. Ecco, di fronte alla “corsa contro il tempo” imposta dal Piano di ripresa, “io farò tutto quello che è nelle mie possibilità”, dice la guardasigilli, ma, aggiunge, “non basterà: servirà la disponibilità di tutti”. Una coesione che non può coniugarsi però con quelli che Cartabia definisce “interessi personali e di categoria”. Evocati un attimo dopo essersi esplicitamente rivolta ad “avvocati e magistrati”. Non è difficile interpretare. La titolare della Giustizia ha da poco depositato gli emendamenti alla riforma del processo civile. A breve, come lei stessa ribadisce, “saranno portati in Consiglio dei ministri gli emendamenti al penale” ed “entro luglio si concluderà la parte governativa”, anche per le altre riforme: il Csm, “visto che il prossimo Consiglio non potrà essere eletto con la vecchia legge”, quello sulla crisi d’impresa e, forse, l’intervento sulla magistratura onoraria. Eppure tutti questi capitoli che finora hanno tenuto impegnatissimo il ministero non sembrano impensierire Cartabia quanto le osservazioni dei magistrati e soprattutto degli avvocati al ddl civile. La guardasigilli pare riferirsi anche alle critiche ribadite venerdì scorso dal Consiglio nazionale forense, quando dice di sapere bene che “tutte le riforme sono imperfette e certamente lo saranno anche quelle messe in campo da questo governo: le riforme disturbano, i cambiamenti disturbano”, aggiunge. Fino alla sfida: “Chiedo a tutti voi, magistrati e avvocati, una seria assunzione di responsabilità: lo dobbiamo al nostro Paese, dobbiamo scrivere una nuova pagina della giustizia italiana per ridare credibilità al sistema e più fiducia ai cittadini. Le critiche siano pur severe ma non prevalgano mai interessi personali o di categoria”, appunto. Il discorso è pronunciato al Palazzo di giustizia milanese davanti a una platea composta da attori del processo, avvocati, giudici e pubblici ministeri, in un clima sereno: poco dopo a parlare per il Foro sarà un presidente dell’Ordine, Vinicio Nardo, a propria volta leale nel citare anche i riconoscimenti che la ministra rivolge alla “capitale morale”. Ma sembra di poter cogliere un potenziale dialettico ancora tutto da verificare, fra Cartabia e l’avvocatura contraria a preclusioni e sanzioni previste per accelerare il processo civile. D’altra parte la guardasigilli ricorre ad altre espressioni forti. Una su tutte: “Non dimentichiamo il ponte di Genova ricostruito in due anni, con un cantiere che ha lavorato giorno e notte anche in piena pandemia: noi siamo chiamati a costruire il nostro ponte di Genova della giustizia”. Evoca quindi la riduzione dei tempi attesa dall’Ue (“25% per i procedimenti penali e 40% nel civile, rispetto al 2019”) e l’impegno davvero notevole che si è dovuta assumere: “In questi 4 mesi e mezzo a via Arenula, i piani delle urgenze convivono ogni giorno con quelli di una progettazione a più lungo raggio: sono stati avviati moltissimi processi di trasformazione e affrontate innumerevoli emergenze”. Al momento, a proposito di piani, non è ancora fissato il Consiglio dei ministri in cui si discuterà degli emendamenti al penale, che promettono di creare certamente una tensione coi 5 stelle. Sul merito, Cartabia offre un paio di indizi: “Considerando i dati oggettivi, si evince che la prescrizione, vexata quaestio degli ultimi governi, è un problema davvero marginale quando la giustizia funziona”, dice a proposito del virtuoso esempio milanese: un modo per sdrammatizzare in anticipo il conflitto sulla legge Bonafede. Poi la ministra è forse ancora più netta quando aggiunge: “La mia riforma penale sarà frutto di una sintesi politica che, a partire dal disegno di legge già incardinato in Parlamento, tenga conto di un governo in cui è cambiata la maggioranza”. Non ci si può illudere dunque - non possono farlo neppure i pentastellati che sulla prescrizione e altri aspetti del ddl penale prevalga la logica seguita durante l’esperienza giallorossa. A Milano, e soprattutto nel secondo incontro, tenuto all’Università, Cartabia si sofferma innanzitutto sull’Ufficio del processo, struttura concepita per agevolare i giudici nel produrre sentenze, grazie all’apporto di 16.500 neoassunti a tempo determinato. È emerso che i laureati in Giurisprudenza, Economia e Scienze politiche da reclutare a breve vedranno equiparata la loro attività a un anno di frequenza nelle scuole di specializzazione per le professioni legali e a un anno di tirocinio professionale per l’accesso alle professioni di avvocato e di notaio. Riforma del processo penale, i tre punti chiave per il giudizio in Corte d’Appello di Valentina Maglione e Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 29 giugno 2021 L’arrivo di nuovi assunti per l’ufficio per il processo penale. L’ipotesi di dare l’addio agli appelli del pubblico ministero e delle parti civili e limitare quelli degli imputati. E trasformare l’appello in una impugnazione “a critica vincolata”, cioè solo per determinati motivi. Sono questi i punti chiave della strategia proposta dalla commissione per la riforma del processo penale, voluta dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia e presieduta da Giorgio Lattanzi, per rendere più efficiente il giudizio in Corte d’appello, che oggi rappresenta il collo di bottiglia del processo penale. I?tempi del giudizio di appello - Il giudizio di appello ha infatti tempi lunghi (oltre mille giorni in media), un arretrato monstre (271.640 pendenze a fine 2020, al 39% concentrate nelle Corti di Napoli e Roma) e un alto tasso di prescrizioni (più di un quarto del totale dei definiti). Un quadro su cui si punta a intervenire nell’ottica della riduzione del 25% dei tempi totali di trattazione dei processi penali previsti dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Le proposte della commissione ministeriale sono attese nei prossimi giorni al Consiglio dei ministri: sul tavolo ci sarà soprattutto la ricerca di un accordo sulla prescrizione, ma non sono escluse modifiche anche su altri capitoli. Poi, le proposte saranno presentate come emendamenti al disegno di legge delega sul processo penale, elaborato quando ministro della Giustizia era Alfonso Bonafede, e all’esame della commissione Giustizia della Camera (atto 2435). Passaggi che dovrebbero comunque avvenire in tempi “brevissimi”, ha detto la ministra Cartabia. L’ufficio per il processo - La creazione dell’ufficio di staff del giudice è uno dei capisaldi della riforma della giustizia delineata dal Pnrr. Ed è il punto che catalizza le maggiori risorse riservate alla Giustizia: 2,3 miliardi per quasi 17mila assunzioni, tutte a tempo determinato. Si tratta in realtà di una struttura già prevista dalle norme del 2014, ma finora realizzata in modo disorganico e limitato in ambito penale. Tanto che parte questa mattina da Milano il “viaggio” della ministra Cartabia nelle Corti d’appello per far conoscere l’ufficio per il processo. Un tour che è anche un’occasione per ascoltare le esigenze, le richieste e i progetti delle diverse realtà giudiziarie. Non a caso l’avvio è da Milano: “Da noi l’ufficio per il processo è operativo e ha dato buoni risultati in termini di aumento della produttività. Finora è stato fatto con poche risorse e usato perlopiù per le emergenze, ora può diventare strutturale”, afferma il presidente della Corte d’appello, Giuseppe Ondei. “È uno strumento molto positivo - conferma Giuseppe De Carolis Di Prossedi, presidente della Corte d’appello di Napoli -. Il lavoro del giudice è di tre tipi: studio del fascicolo, decisione e poi scrittura della sentenza. Sia nella prima che nella terza attività può essere aiutato da uno staff qualificato di aspiranti magistrati e concentrarsi così sulle decisioni. Il limite è che si tratta di assunti a tempo determinato, da formare”. Meno impugnazioni - Nel 2020, secondo una rilevazione dell’ufficio statistiche della Corte d’appello di Roma, a livello nazionale i processi sopravvenuti in appello sono stati il 37,8% di quelli definiti in tribunale; una percentuale che cresce nei distretti di Roma (38,7%) e Napoli (45,7%). Un flusso che verrebbe ridotto con le proposte della commissione. Intanto, l’eliminazione della possibilità di proporre appello per i Pm e per le parti civili. Poi, lo stop all’appello degli imputati contro le sentenze di proscioglimento su reati puniti solo con pena pecuniaria o con pena alternativa, le sentenze di condanna a pena detentiva sostituita con il lavoro di pubblica utilità e le sentenze di condanna alla sola pena pecuniaria, anche se risulta dalla sostituzione della detenzione, con alcune eccezioni (particolare afflittività della pena e se si impugna anche la condanna al risarcimento del danno). Più in generale, si propone di rivedere la funzione dell’appello, strutturandolo come una “impugnazione a critica vincolata”, per cui dovranno essere individuati i motivi per cui potrà essere proposto, a pena di inammissibilità. Sono norme introdotte, dal punto di vista della commissione, per allineare il sistema delle impugnazioni al modello accusatorio del processo penale introdotto dal 1988. Un tentativo “giusto - secondo il presidente della Corte d’appello di Roma, Giuseppe Meliadò - di razionalizzare, semplificare e specializzare l’appello, trasformandolo in un giudizio sempre più “cassatorio”, cioè nella direzione del giudizio di Cassazione: non si riesaminerà tutto il processo ma solo i motivi oggetto di censura”. Contro l’appello a critica vincolata si schierano invece gli avvocati: “Dietro i discorsi sull’efficientismo si nasconde lo stravolgimento dell’appello - attacca il Presidente dell’Unione delle Camere penali, Giandomenico Caiazza. Lo si vuole trasformare in un giudizio solo sugli atti, mentre è importante che resti un secondo grado sui fatti. Per allargare il collo di bottiglia dell’appello bisogna soprattutto aumentare il numero dei magistrati e dei cancellieri”. Le altre misure - Per togliere pressione all’appello “occorre individuare un modo condiviso di gestione, coinvolgendo gli uffici giudicanti e requirenti e tutta l’avvocatura - osserva il presidente della Corte di Bologna, Oliviero Drignani. Siamo al lavoro per stabilire i criteri di priorità per i processi, ad esempio privilegiando quelli che hanno più chance di essere definiti, evitando la prescrizione”. Si tratta di una strada percorsa anche da altri uffici giudiziari e che trova spazio tra le proposte della commissione ministeriale, per cui gli uffici giudiziari dovranno predisporre i “criteri di priorità” ma nell’ambito di criteri generali definiti dal Parlamento anche sulla base di una relazione presentata dal Csm. “Presunto innocente” è il sito dei garantisti che unisce Fratelli d’Italia al Pd di Giulia Merlo Il Domani, 29 giugno 2021 Online da oggi, è stato presentato da Enrico Costa (Azione), Gianni Pittella (Pd), Guido Crosetto, ex parlamentare di Fd’I e Roberto Giachetti (Italia Viva). Raccoglierà storie di malagiustizia e suggerimenti di riforma. Lo ripetono tutti gli organizzatori: “Ci siamo seduti al tavolo spogliandoci delle casacche dei partiti per abbracciare una battaglia culturale”. Tradotto: il vicepresidente dei senatori Pd Gianni Pittella, Roberto Giachetti di Italia Viva, Enrico Costa e Alessandro Barbano di Azione, l’ex parlamentare di Fratelli d’Italia Guido Crosetto e Giusi Bartolozzi e Andrea Ruggieri di Forza italia parlano a titolo individuale. Altrimenti, sarebbe un’alleanza ulteriormente inedita all’interno di questo arco parlamentare. L’iniziativa che li vede coinvolti è quella del sito presuntoinnocente.com, un sito “per la giustizia giusta”, lo definisce Enrico Costa, “I promotori, con percorsi differenti, si ritrovano su principi sanciti nella Costituzione, come la presunzione d’innocenza. Vogliamo dare voce a tante persone che hanno storie da raccontare”. Il senso del progetto è quello di aprire una sorta di piazza virtuale in cui i cittadini possano raccontare le loro storie legate alla giustizia e soprattutto alla malagiustizia e per raccogliere idee per la riforma della giustizia. Nonostante ce ne sia una già in via di approvazione e un referendum - quello promosso dal partito radicale e dalla Lega - a provare ad aggiungere qualche pezzo. I due ispiratori “intellettuali” del progetto sono il presidente dell’Unione camere penali italiane Gian Domenico Caiazza, con cui molti dei promotori erano in piazza per chiedere la separazione delle carriere, e l’ex magistrato Carlo Nordio. “Penso che la trasversalità di questa iniziativa sia molto importante”; ha spiegato Roberto Giachetti, parlando di ribaltamento culturale per cui la presunzione ormai è quella di colpevolezza e non quella di innocenza. Anche Gianni Pittella, vicepresidente dei senatori Pd, ha messo l’accento sul fatto che questa concomitanza di sensibilità è preziosa per “per cogliere un’opportunità di riforma”. Ed è suo l’accenno forse più inaspettato, perché parla anche della separazione delle carriere come riforma necessaria: un tabù che rimane ancora intoccabile per molti all’interno del Partito democratico. Nessuno di loro si esprime sulla riforma incardinata da Cartabia: il giudizio rimane sospeso, troppo spinoso perché le trattative tra singoli partiti di appartenenza sono ancora aperti, e il tema esula dalle ragioni per cui l’iniziativa sarebbe nata. “Non ci siamo uniti intorno a un colore politico o per trattare argomenti di appannaggio del parlamento, ma è una iniziativa di singoli”, ripete Costa. Eppure, il punto politico c’è e la domanda è una: che tipo di pressione potranno esercitare questi singoli nei loro partiti, per orientarne l’agire politico in una direzione che, almeno per il sito web, è caratterizzata da una parola: garantismo. Per alcuni il lavoro è più semplice: Azione e Italia Viva. Crosetto è sempre stato un battitore libero, anche quando era parlamentare di Fratelli d’Italia. L’incognita invece è legata al Partito democratico, dove lo stesso segretario Enrico Letta ha addirittura cancellato la parola quando ha chiesto di smettere con la “guerra dei trent’anni tra giustizialisti e impunitisti”. Per ora, dunque, il tutto si ferma al sito web e oltre è impraticabile spingersi. Soprattutto quando di i singoli, usciti dalla sala stampa, devono reindossare la loro casacca politica e in ballo c’è una riforma della giustizia in corso di approvazione. Giudici, whistleblowing ko di Andrea Mascolini Italia Oggi, 29 giugno 2021 Il whistleblowing non si applica ai magistrati e l’Anac non può intervenire in caso di condotte illecite denunciate dall’interno della magistratura. È quanto si legge nelle nuove linee guida in tema di whistleblowing emesse dall’Autorità nazionale anticorruzione (delibera 469 del 9 giugno 2021, con relativo modulo per segnalazioni) sulla segnalazione di condotte illecite all’interno delle pubbliche amministrazioni, che fornisce indicazioni sull’applicazione della legge 179/2017. Le linee guida sono rivolte alle p.a. e agli altri enti indicati dalla legge tenuti a prevedere misure di tutela per il dipendente che segnala condotte illecite, nonché ai potenziali segnalanti. In questa materia Anac è titolare di un autonomo potere sanzionatorio in caso di mancato svolgimento di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute; di assenza o non conformità (rispetto alle modalità delineate nelle presenti linee guida) di procedure per l’inoltro e la gestione delle segnalazioni; di adozione di misure discriminatorie nei confronti del segnalante. Nelle linee guida sono approfonditi i profili relativi all’articolo 1 della legge 179 concernente le segnalazioni effettuate in ambito pubblico, tenendo anche conto dell’art. 3. L’Autorità chiarisce che in base alla definizione di dipendenti pubblici non è possibile estendere, diversamente da quanto previsto nelle direttive Ue, la disciplina ad altri soggetti che, pur svolgendo un’attività lavorativa in favore dell’amministrazione, non godono di tale status (stagisti, tirocinanti etc.). Nella categoria dei dipendenti con rapporto di lavoro pubblicistico sono inclusi anche i magistrati ordinari, amministrativi e contabili ma a tale riguardo l’Anac rileva che “ciò fa nascere perplessità sulle effettive modalità di applicazione della disciplina in parola anche a tali soggetti. Infatti, il rapporto di lavoro dei magistrati ordinari, amministrativi, contabili è regolato anche da norme di rango costituzionale (art. 101 e seguenti, Cost.), che prevedono, fra l’altro, competenze esclusive attribuite agli organi di autogoverno”. In base a tali considerazioni l’Anac, “tenuto conto della lacunosità della disciplina nonché dell’inquadramento costituzionale della magistratura, ritiene di non poter intervenire direttamente sulle segnalazioni proposte da magistrati o relative a magistrati (seppure proposte da dipendenti pubblici)”. Nella predisposizione delle linee guida l’Autorità ha considerato i principi espressi in sede europea dalla Direttiva (UE) 2019/1937 del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 ottobre 2019 e gli effetti che possono produrre sul sistema di tutela previsto dal nostro ordinamento nazionale e dalle linee guida stesse. L’Anac potrebbe, in un futuro prossimo, adeguare il documento al contenuto della legislazione di recepimento della direttiva del 2019 da adottarsi entro il 17 dicembre 2021. Le linee guida sono suddivise in tre parti. La prima dà conto dei principali cambiamenti intervenuti sull’ambito soggettivo di applicazione dell’istituto, con riferimento sia ai soggetti (pubbliche amministrazioni e altri enti) tenuti a dare attuazione alla normativa, sia ai soggetti, i segnalanti, beneficiari del regime di tutela. Vengono anche date indicazioni sulle caratteristiche e sull’oggetto della segnalazione, sulle modalità e i tempi di tutela, nonché sulle condizioni che impediscono di beneficiare della stessa. Nella seconda parte si declinano, in linea con quanto disposto dalla normativa, i principi di carattere generale che riguardano le modalità di gestione della segnalazione preferibilmente in via informatizzata. Si forniscono indicazioni operative sulle procedure da seguire per la trattazione delle segnalazioni. Nella terza parte si dà conto delle procedure gestite da Anac e del relativo cui potere sanzionatorio. Bologna. Nel carcere della Dozza apre il nido. Sindacati divisi: necessario o rischioso? di Ambra Notari redattoresociale.it, 29 giugno 2021 Per il Sinappe, “nessun bambino dovrebbe andare in carcere. Ma arrivano comunque: giusto, allora, accoglierli in maniera adeguata”. Per la Fp-Cgil, “la Dozza è sovraffollata. Mancano gli spazi, la struttura è in sofferenza”. Ancora bloccati i fondi ministeriali per per l’accoglienza in case protette “Siamo convinti che nessun bambino dovrebbe varcare il cancello di un carcere per restarvi assieme a un adulto con un regolare provvedimento restrittivo, ma bisogna ammettere che in questi spazi c’è stata un’attenzione alla cura dei particolari che merita un plauso”. Lo scrivono in una nota Antonio Fellone, Segretario nazionale Sinappe, Anna La Marca e Nicola d’Amore, vice segretari regionali dopo una visita alla Dozza per conoscere lo stato d’avanzamento dei lavori per la realizzazione del nido all’interno della sezione femminile. La nota è indirizzata alla direttrice Claudia Clementi: “Abbiamo notato come sia stato creato un ambiente ‘casalingo’ ma ricco di comfort e sicurezza per l’incolumità dei minori che saranno ospitati”. Dall’uso dei colori ai vari accessori, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria mette l’accento sui dettagli: “La cucina comune è davvero molto funzionale e la stanza dei giochi è ricca di particolari: complimenti davvero, l’attesa è stata ampiamente ripagata”. “Non condividiamo posizioni ostative all’apertura del nido - sottolineano -. Lo ribadiamo, i bambini non dovrebbero mai entrare in carcere. Ma siamo convinti che, se il legislatore ha disciplinato la materia, la Polizia penitenziaria non può che eseguirla al meglio delle proprie potenzialità. Non sappiamo se e quando entrerà un minore a Bologna, ma porsi con pregiudizio dinanzi a un’esigenza organizzativa che riguarda un minore è mettere in risalto un analfabetismo e un inguardabile individualismo, che mette da parte ogni briciolo di coscienza”. Dubbi sull’apertura del nido nella sezione femminile sono stati espressi dalla Fp-Cgil: “Non siamo contrari, ma molto preoccupati - spiega Salvatore Bianco -. Gli spazi sono molto ristretti, il sovraffollamento è un problema costante, con l’apertura del nido gli spazi sono destinati a ridursi ulteriormente. A fronte di un sacrosanto adeguamento alle procedure necessarie, bisogno poi fare i conti con la realtà. La struttura è obsoleta, già in sofferenza. Chiediamo che questa scelta venga approfondita perché possa funzionare davvero e non rimanere sulla carta. Diciamo no a prese di posizioni nobili ma astratte. Chiediamo, poi, che venga promosso un ragionamento più avanzato, verso la promozione delle case famiglia, per far sì che questi nuclei familiari possano godere di un regime più idoneo alle loro necessità e condizioni”. Nei giorni scorsi, Carla Garlatti, Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, in una nota al ministero della Giustizia e al ministero dell’Economia ha chiesto di sbloccare quanto prima i 4,5 milioni di euro per accogliere i genitori detenuti con bambini in case famiglia protette e in case alloggio. I due dicasteri, infatti, avrebbero dovuto adottare un decreto entro due mesi dall’entrata in vigore della legge 30 dicembre 2020, n. 178 (legge di bilancio 2021) - dunque entro febbraio 2021 - per poter utilizzare a tale scopo 1,5 milioni di euro per ogni annualità fino al 2023. “A oggi il provvedimento, necessario a finanziare la predisposizione di case famiglia protette, non risulta ancora approvato - denuncia Garlatti -. Occorre procedere alla sua adozione quanto prima, per evitare l’ingresso in strutture penitenziarie a bambini piccoli, che hanno diritto a non essere vittime dello stato di detenzione dei loro genitori”. Firenze. Bortolato e Vigna contro i “luoghi comuni” sul carcere di David Allegranti La Nazione, 29 giugno 2021 Presentazione del libro del presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze e del caporedattore di Sette del Corriere della Sera. Il rapporto con la realtà è falsato. Il percepito è più importante del resto, per questo negli anni - nel giornalismo e non solo - ci si è lungamente dedicati ai dati, nel tentativo di riportare un minimo di oggettività nella discussione. C’è un bel libro di Bill Davies che si intitola “Stati nervosi” in cui viene affrontato il potere dell’emotività nel condizionamento del dibattito pubblico. Quante volte le istituzioni - governi, partiti, singoli ministeri - hanno reagito in termini puramente emotivi, sull’onda di un fatto di cronaca o più fatti di cronaca? Quante volte in nome del populismo penale si sono prese delle decisioni le cui conseguenze non sono temporanee, anzi sono destinate a rimanere perché a nessun governo o parlamento successivo verrebbe mai in mente di ridiscutere una norma populista introdotta precedentemente? Il libro di Marcello Bortolato ed Edoardo Vigna (“Vendetta pubblica”, Laterza) è prezioso perché, capitolo per capitolo, smonta luoghi comuni intorno alle carceri italiane. Come “in carcere si sta meglio che fuori”, un grande classico dei due lockdown appena trascorsi. Leggendo il libro ho ritrovato i riflessi pavloviani che durante l’emergenza sanitaria mi hanno accompagnato - sui social e non solo - nei mesi in cui raccontavo il contagio in carcere. Non avete idea di quante persone - anche insospettabili o, forse meglio, sospettabilissimi elettori di sinistra - si siano scagliate contro chi cercava di raccontare perché c’è una differenza enorme fa contagiarsi in carcere e contagiarsi fuori dal carcere. La parte migliore, devo dire la verità, era quando - sulla scorta anche di alcune argomentazioni favorite da procuratori telegenici e direttori di giornale altrettanto telegenici, mi riferisco a Piercamillo Davigo e Marco Travaglio - si citavano le statistiche. Ora, mentire con le statistiche è facilissimo. È per questo che il ricorso ai dati, seppur utile, non può essere esaustivo. Perché le statistiche non ci dicono tutto e comunque vanno interpretate. Dunque, è diventato un lavoro smontare le fake news o meglio ancora le balle pronunciate da politici, magistrati e anche dagli stessi giornalisti. Quelle sul carcere sono notevoli e penso che abbiano a che fare con la cattiva coscienza. Un reato è motivo di vergogna, una vergogna che può anche diventare pubblica. C’è chi pensa che nascondendo questa vergogna agli occhi del pubblico, inteso come pubblica opinione, si risolva il problema. Quello che si cerca è una società igienizzata, sanificata, anche se è solo una illusione. Accanto alla cattiva coscienza però mi pare che ci sia anche un problema di informazione. Letteralmente, di conoscenza. Il libro di Bortolato e Vigna va a coprire opportunamente questo vuoto. Con linguaggio chiaro ed efficace, fa a pezzi il luogocomunismo sul carcere. Catanzaro. Carcere, l’auto-etnografia come tesi di laurea per riflettere sulla sopravvivenza di Francesco Ciampa news48.it, 29 giugno 2021 Scrivere della propria vita con gli occhi di chi osserva l’ambiente sociale e le mentalità cui si appartiene o si è appartenuti. Narrare se stessi per comprendere il significato delle proprie azioni, ma anche per allenare la consapevolezza e vedere con più chiarezza le strategie di adattamento praticate. Un modo per estrarre dal “pozzo” della propria interiorità caratteristiche utili ad andare avanti anche nel presente, almeno “qui e ora”. Un percorso introspettivo sperimentato da due persone detenute nel carcere di Catanzaro, in Calabria. Si tratta di due uomini condannati all’ergastolo e ora prossimi alla laurea in sociologia con tesi a carattere auto-biografico per mettere a fuoco risorse psicologiche e creative servite per la propria sopravvivenza prima del carcere e nella condizione di detenuti. Cos’è l’auto-etnografia - “L’approccio è quello dell’auto-etnografia”, sottolinea per News48.it Charlie Barnao, docente di sociologia della sopravvivenza all’Università “Magna Graecia” di Catanzaro e relatore che affianca i due studenti nel lavoro di tesi. “In pratica - spiega Barnao - con l’etnografia il ricercatore si avvicina all’oggetto di ricerca per studiare le “culture altre” e comprendere attraverso processi di immedesimazione il soggetto che agisce; mentre con l’auto-etnografia c’è di più che il ricercatore fa parte lui stesso della cultura che vuole studiare. L’auto-etnografia è una forma di auto-narrazione che posiziona il sé all’interno del contesto sociale; l’auto-etnografo è allo stesso tempo l’autore e il focus della storia, colui che racconta e che vive l’esperienza, l’osservatore e l’osservato” specifica il professore per la rivista Sociologia Italiana - AIS Journal of Sociology, numero 10, ottobre 2017. Sempre per la rivista, il sociologo definisce il processo auto-etnografico come “un processo lungo, aperto, flessibile, spesso molto faticoso, di comprensione della realtà”. E non si escludono le cosiddette “epifanie”, possibili esperienze di questo cammino “che modificano radicalmente e modellano i significati che la gente attribuisce a sé ed ai propri progetti di vita”. Recuperate qualità del passato - Nel caso di queste due tesi di laurea il risultato consiste intanto nell’individuazione di “qualità straordinarie di adattamento in situazioni estreme”. Sono emerse “competenze particolari filo conduttore per la vita di persone che la letteratura considera spesso allo sbando e prive di strategie (per esempio, persone che si prostituiscono, senzatetto eccetera, nda)”. In entrambi i lavori, inoltre, l’auto-etnografia “è servita a non buttar via tutto il passato” e a evitare la “scissione” netta tra la vita prima del carcere e quella nel carcere. Sono stati quindi riconsiderati e rimessi in ballo tratti di personalità e punti di forza alla base della carriera criminale: “Alcune caratteristiche che hanno consentito a queste persone di eccellere nei gruppi criminali” prima della detenzione “sono le stesse che oggi permettono loro di sopravvivere in contesti diversi, con finalità diverse”. Un’azione di recupero possibile se il lavoro di ricerca - sostiene Barnao - è libero da giudizio morale: “Ho dovuto chiedere ai miei tesisti di seguire un approccio il più possibile non giudicante per potersi esprimere al meglio; ciò ha fatto sì che venissero fuori qualità del percorso criminale importanti anche oggi”. Salvatore Curatolo e il ruolo dello studio - Uno dei due tesisti si chiama Salvatore Curatolo, sessantacinque anni, da quasi un trentennio in carcere, condannato per reati di mafia all’ergastolo ostativo, che vuol dire possibilità di richiedere la libertà condizionale solo attraverso la via della collaborazione con la giustizia. A proposito di questo suo lavoro da osservatore di se stesso in chiave auto-etnografica, Curatolo - esame di laurea il 20 luglio 2021 - parla di “un percorso difficile e doloroso” descrivendolo in una testimonianza rilasciata per News48.it. L’idea di diventare etnografo del proprio sé arriva “quando il professore Barnao legge alcuni file”, documenti in cui “spiegavo che avevo iniziato a leggere e studiare per amore delle mie figlie, su consiglio di mia moglie, per mantenere le relazioni con loro” che nel frattempo crescevano e diventavano persone istruite e colte. L’amore per lo studio come risorsa per la sopravvivenza; il sapere come prezioso capitale per mantenere e consolidare importanti relazioni familiari e affettive. Una risorsa - osserva dal canto suo Barnao - venuta meglio alla luce attraverso la scrittura capace di accendere i riflettori della consapevolezza su questa storia di adattamento alla vita prima del carcere e a quella da ergastolano. Scrivere della propria vita, delle proprie azioni e credenze spiegandole in relazione ai contesti culturali di appartenenza richiede però impegno emotivo per sospendere il giudizio su sé stessi: “Quando sono entrato nel “ciclone” dell’auto-etnografia il dolore aumentava ogni giorno”, racconta Curatolo ricordando “il tempo tolto alle mie figlie e a mia moglie come tempo pieno di dolore”. In questo viaggio di ricordi riaffiora anche il “rosso della vergogna” di quando un professore universitario lo definisce pubblicamente suo amico sentendo di “non essere degno di un’amicizia così grande”. Poi la meraviglia di quando un altro docente universitario si proclama suo alleato appoggiandone la decisione di iscriversi all’università: “Un’alleanza alla quale non ero abituato, perché non mi si chiedeva nulla in cambio; mentre nelle alleanze della cultura a cui appartenevo, prima o poi dovevi ricambiare”. Insomma: altra cosa rispetto a “zu Cicciu, mentore di cultura criminale nella mia precedente vita”. All’inizio di questo suo cammino prevale quindi la tentazione di guardare al passato “paragonando le amicizie di un tempo a quelle dentro il carcere”, giudicando e giudicandosi. Una tentazione sfumata passo passo, fino a quando “ho trovato la forza e la naturalezza di raccontarmi senza rinnegare il vissuto che mi ha portato ad essere un ergastolano”; fino a quando “l’auto-etnografia ti trascina fuori dal tunnel, ti rende più libero intellettualmente e il racconto diventa catarsi”. A commento di questo lavoro interviene sempre Barnao: “In questo processo auto-etnografico, Salvatore Curatolo ha scoperto quanto fossero importanti i libri per la sua sopravvivenza psicologica all’interno del carcere. Dopo tantissimi anni di 41 bis (cioè in regime di carcere duro e con misure di elevata sicurezza, nda) Curatolo, che non aveva neanche la quinta elementare, si rende conto della distanza culturale tra lui e le figlie, ormai iscritte all’università; decide quindi di studiare per trovare nuovi argomenti di discussione. I libri, inoltre, lo aiutano a entrare in contatto con agenti di polizia penitenziaria e con detenuti politici, persone culturalmente e ideologicamente distanti dai detenuti per mafia, andando al di là dei pregiudizi tipici in questi casi”. Sergio Ferraro: leader e tutor in carcere - “L’esperienza auto-etnografica è stata estremamente significativa per il mio percorso universitario e di vita”, dice per News48.it Sergio Ferraro, quarantaquattro anni, da ventuno in carcere, condannato all’ergastolo con l’accusa di affiliazione al clan camorristico dei Casalesi. “Questo approccio -prosegue la testimonianza - “mi ha fatto capire che noi esseri umani ci distinguiamo gli uni dagli altri non solo sotto il profilo biologico (colore dei capelli, colore degli occhi, colore della pelle, altezza eccetera), ma anche in base al contesto culturale da cui veniamo”. “Una delle cose più orrende che può commettere un essere umano è uccidere un suo simile, ma oggi mi vergogno di dire che molte volte è il contesto culturale che ti “impone” tale efferato crimine, che per quella cultura crimine non è”, sostiene Ferraro in riferimento all’approccio metodologico dell’etnografia che guarda ai comportamenti e ai valori secondo il significato culturale di chi li pone in essere. Attraverso questa chiave di lettura ‘non giudicante’ è possibile aprire le porte all’accettazione di se stessi. Per la storia di Ferraro - esame di laurea autunno 2021 - significa far emergere i tratti descritti da Barnao in questi termini: “Si sta rendendo conto che le qualità carismatiche di leader affidabile, pronto a tutto per il gruppo criminale” per cui era attivo oltre la cella, “sono le stesse qualità che lo valorizzano per le varie attività in carcere e che lo vedono ‘tutor alla pari’ per aiutare, coinvolgere e spronare altri detenuti studenti universitari come lui”. Il ruolo di tutor didattico alla pari è peraltro centrale per l’università “Magna Graecia”, “il primo ateneo d’Italia ad aver istituito formalmente questa figura”, dice Barnao parlando di “traguardo particolarmente significativo per il percorso di apprendimento e rieducativo dei detenuti”. Un ruolo già sperimentato in via informale e “basato sulla cooperazione tra pari, tra persone con caratteristiche simili”: qualcosa di diverso, con potenzialità diverse - sostiene il sociologo - rispetto ai tutor esterni, di solito dottorandi o assegnisti di ricerca, “comunque distanti culturalmente da detenuti, specie se uomini e magari condannati all’ergastolo”. Potenzialità educative ed effetti psicologici - Rispetto agli obiettivi scientifici di queste tesi di laurea, Barnao chiarisce subito un punto: “Il mio approccio di docente non è quello di rieducare qualcuno. Il mio obiettivo di professore è quello di educare” rispetto a determinate forme di sapere “fuori e dentro il carcere”. Ciò detto, questi lavori di auto-etnografia - che partono dalla logica di sospensione del giudizio morale per spiegare il senso di scelte e forme di resilienza in determinati contesti culturali e di mentalità - “possono nei fatti tradursi in aspetti rieducativi. Sono convinto che valorizzare aspetti della personalità senza gettar via ogni cosa del passato possa avere una valenza significativa anche nell’ambito dei percorsi di risocializzazione” laddove, ad esempio, persone detenute aprano a punti di vista e valori diversi da quelli considerati socialmente pericolosi e condannati dal diritto penale dello stato. In ogni caso - è il ragionamento del sociologo - questa impostazione scientifica favorisce la consapevolezza del sé, “un aspetto importantissimo per chiunque”, a prescindere da eventuali scelte di pentimento e di redenzione; a prescindere dal fatto che questi momenti di autoriflessione riguardino persone criminali o persone che nulla hanno a che fare col crimine. “Lo stimolo maggiore di questi lavori è dato dall’aiuto alla riflessività: una conquista di non poco conto sia all’interno che all’esterno del carcere”, sostiene dal canto suo Giuseppe Napoli, responsabile dell’area educativa per la Casa circondariale di Catanzaro, struttura carceraria dove si trovano Curatolo e Ferraro. In particolare, i due studenti fanno leva sull’auto-etnografia per arrivare - secondo Napoli - a “una serissima rivisitazione in chiave sociologica del loro passato che può avere rilevanza dal punto di vista educativo”. Manola Albanese, psicologa e psicoterapeuta, definisce la strada dell’auto-etnografia “uno strumento per riscoprire il senso di eventi e comportamenti”. “l guadagno che si può avere - spiega - è quello di riqualificare la propria esistenza dandole un significato che magari fino a quel momento non era stato dato”; un’opportunità “per sentirsi vivi pur in un ambiente mortifero come il carcere”. Questo percorso di tesi inoltre “corona un lavoro che restituisce la dignità persa socialmente”. E ancora: “Quando una persona riesce a trovare in sé stessa frutti, risorse preziose e creatività, non è più il fuori che riempie, ma il dentro; si può essere mai più soli, mai più con il vuoto”. Una possibile via per prevenire gesti estremi come il suicidio? “Credo che ogni persona, se conosce meglio se stessa e conosce meglio la vita, può difendersi meglio da se stessa e dalla vita”, risponde Albanese. “Il suicidio - ragiona - non è altro che una fuga estrema, disperata, da una vita angosciante. Però è certo: più strumenti conosciamo, più possibilità abbiamo di trovare la strada piuttosto che andare via”. Un percorso replicabile ma con molti limiti da considerare - Questo metodo “è innovativo e replicabile” anche in altri contesti, sottolinea Barnao. Ad esempio, per restare nel circuito della giustizia penale, dal Tribunale per i minorenni di Trento “c’è l’interesse a replicare questo approccio nell’ambito di un percorso di messa alla prova” per un neo-maggiorenne pronto a un cammino di cambiamento. Per seguire questa linea di ricerca e renderla robusta è importante però acquisire saperi ben precisi: “Bisogna essere attrezzati con competenze specifiche come quelle elaborate al corso di laurea in sociologia da questi studenti, che inoltre hanno potuto comprendere cos’è la sopravvivenza in condizioni di vita estreme”, dice Manola Albanese portando l’esempio di Curatolo e Ferraro. Delimita il perimetro di applicabilità anche Giuseppe Napoli: “Tesi di questo livello non sono proponibili a tutti. Si richiede una certa preparazione scientifica, un certo impegno e una guida costante. Senza la presenza costante del professor Barnao non si sarebbe potuto portare a compimento il lavoro in questo modo”. C’è poi l’aspetto economico-organizzativo: “Questo percorso - continua l’educatore - nasce da una forte interazione tra l’Amministrazione penitenziaria e l’Università. Si tratta di un percorso validissimo, ma non facilmente replicabile soprattutto per un discorso di risorse disponibili”. Barnao fa un bilancio delle condizioni favorevoli e sfavorevoli: “Una situazione favorevole è rappresentata dall’Amministrazione penitenziaria di Catanzaro, da una decina di anni guidata da una direttrice illuminata che ha dato impulso fortissimo all’istruzione. C’è stata la disponibilità dell’ateneo “Magna Graecia”, c’è stata la mia disponibilità, si sono create tra me e i due studenti relazioni di rispetto reciproco che hanno permesso di ridurre la fatica, c’è stata la collaborazione fortissima degli agenti di polizia penitenziaria”. D’altro canto, “esiste il limite della fatica di maneggiare le parti più profonde del sé soprattutto per vite travagliate come queste”. In parallelo “c’è la fatica del relatore: sarebbe impensabile per me seguire più di due o tre tesi l’anno per un approccio come questo che richiede incontri in presenza quasi tutte le settimane, due-tre volte a settimana”. Più in generale, “è una cosa complicata visto che l’università italiana non brilla per investimenti particolarmente significativi nella ricerca”. Inoltre, se da una parte in Italia “la rete dei poli universitari penitenziari sta crescendo”, dall’altra “ci sono ancora difficoltà di relazione tra le istituzioni carcerarie e l’Università caratterizzata da burocrazia eccessiva e talvolta chiusa rispetto alle logiche esterne”. L’importanza di garantire il diritto allo studio in tutte le carceri - Secondo il sociologo, anche altri aspetti frenano le iniziative per la crescita personale e l’eventuale rinascita a partire dal carcere e oltre il carcere. “Purtroppo - afferma Barnao - il diritto allo studio non è garantito alla stessa maniera in tutte le carceri; tant’è che fino a poco tempo fa il polo universitario di Catanzaro era quello più a Sud d’Italia”. Il professore dell’ateneo catanzarese dice questo citando il caso di Bruno Pizzata, sessant’anni, condannato per reati di ‘ndrangheta e traffico di droga, morto dopo essere risultato positivo al Covid-19 a seguito di un focolaio nel carcere di Catanzaro. Il detenuto - racconta Barnao - “stava iniziando un interessante progetto di tesi sui pastori calabresi”. Da qui la sua opposizione all’ordine di trasferimento; un appello accordato e la possibilità di proseguire la propria attività universitaria senza punti di rottura; “dopo poche settimane però scoppia il focolaio: molto probabilmente, Pizzata non sarebbe morto se non avesse avuto interesse a studiare da persona appassionata di sociologia quale era”. Inoltre, per Barnao, le finalità rieducative e di cambiamento personale vengono contrastate dal clima culturale di questa fase storica “caratterizzata da una crisi della democrazia e da una maggiore richiesta di ordine su base autoritaria. È il populismo penale del buttare via la chiave”, cioè del sollecitare pene più dure e/o anche il “no” a ogni via d’uscita dal carcere; “è il giustizialismo in cui siamo profondamente immersi”. “Aspetti culturali per cui le carceri italiane sono tra le peggiori nel contesto europeo”, continua Barnao. Che poi si sofferma sull’ergastolo ostativo per dire che “è espressione incostituzionale e disumana di una cultura di cui facciamo fatica a liberarci”. Un istituto del diritto italiano su cui la Corte europea dei diritti dell’uomo è intervenuta chiedendo una riforma dell’attuale assetto normativo che limiterebbe in eccesso le prospettive di rilascio delle persone detenute e la possibilità di riesaminare la pena. Su basi analoghe la decisione della Corte costituzionale, che parla di “incompatibilità con la Costituzione” e fissa una nuova udienza a maggio del 2022 “dando così al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia”. Intanto, sullo sfondo restano le storie di sopravvivenza e i tentativi di rinascita, nonostante tutto. Potenza. “Teatro oltre i Limiti”, conclusione del laboratorio nella Casa circondariale cinquecolonne.it, 29 giugno 2021 A conclusione del laboratorio teatrale nella Casa Circondariale “Antonio Santoro”, la proiezione sulle mura esterne dello spettacolo finale con i detenuti della sezione maschile. Mercoledì 30 giugno, in via San Vincenzo de Paoli a Potenza, si chiuderà la terza edizione del progetto “Teatro oltre i Limiti” della Compagnia teatrale Petra. Alle ore 19.30 è in programma la proiezione, sulle mura esterne della Casa Circondariale “Antonio Santoro”, della performance finale del laboratorio teatrale che dallo scorso ottobre ha visto coinvolti i detenuti della sezione maschile del penitenziario. “Teatro oltre i Limiti” è un’attività di teatro sociale in carcere promossa dalla Compagnia teatrale Petra con la stretta collaborazione della Direzione dott.ssa Maria Rosaria Petraccone, del Comandante Giovanni Lamarca e dell’area sicurezza e trattamentale della Casa Circondariale. Alla base del progetto c’è l’assunto del teatro come linguaggio capace di superare il concetto di “limite”, nel luogo stesso a cui viene automaticamente abbinato dall’immaginario collettivo. Mettendo insieme teatro, carcere e società civile, “Teatro oltre i Limiti” ribalta la concezione detentiva a favore di una nuova visione: da luogo di vergogna a luogo di cultura. Giunto alla sua terza edizione, “Teatro oltre i Limiti” intende consolidare quel “ponte” costruito negli anni tra gli abitanti “di dentro”, che si relazionano in un modo nuovo grazie al teatro, e quelli “di fuori”, che scoprono l’interno delle mura del contesto carcere: il carcere si apre alla città e i detenuti diventano attori. Da ottobre 2020 a giugno 2021, i detenuti della sezione maschile della Casa Circondariale di Potenza hanno potuto seguire un percorso formativo di pratica delle discipline teatrali, attraverso un laboratorio condotto da Antonella Iallorenzi, esperta in teatro sociale, e Mariagrazia Nacci, coreografa e danzatrice. Il progetto si articola in diverse azioni strettamente collegate tra loro. Il laboratorio teatrale rivolto ai detenuti è accompagnato da un corso tecnico per operatori scenici e da un percorso di formazione destinato, invece, agli operatori sociali. Attraverso gli appuntamenti denominati “Artisti in transito”, inoltre, si mettono in relazione detenuti e mondo teatrale, con la partecipazione di artisti del panorama nazionale. Ospite di questa edizione è stato il performer Philippe Barbut, che dal 20 al 23 ottobre ha condotto il workshop “Bermudas out/in”, incentrato su un lavoro di ricerca in libertà nel movimento dei corpi. Tra febbraio e marzo 2021, infine, sono stati realizzati degli incontri pubblici on line di approfondimento, con ospiti e testimonianze. “Siamo felici e soddisfatti per essere riusciti a portare avanti le attività all’interno della Casa Circondariale di Potenza, nonostante un anno caratterizzato da importanti limitazioni. Il progetto dei laboratori di teatro vuole favorire l’incontro tra esterno e interno del carcere e portare avanti nuove forme di dialogo tra le due realtà”, spiega la direttrice artistica della Compagnia teatrale Petra Antonella Iallorenzi. “La proiezione del 30 giugno aprirà un varco “virtuale” nelle mura del carcere di Potenza: un momento di condivisione con la comunità che si pone, soprattutto in questo tempo particolare, come un tentativo di resistenza. Per la prima volta quest’anno saranno coinvolti in veste di spettatori anche gli abitanti del quartiere Betlemme, all’insegna di un processo di superamento delle barriere e di relazione con la città”. “Teatro oltre i Limiti” è un progetto prodotto dalla Compagnia teatrale Petra, con il contributo di Otto per Mille della Chiesa Valdese, il partenariato della Casa Circondariale di Potenza e del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere. La direzione artistica è di Antonella Iallorenzi, la direzione tecnica di Angelo Piccinni. Per assistere alla proiezione sarà necessario prenotarsi e seguire le prescrizioni in vigore in materia di sicurezza sanitaria per l’emergenza coronavirus, inviando una mail all’indirizzo info@compagniateatralepetra.com con i propri dati anagrafici e un recapito telefonico: l’organizzazione risponderà con la conferma del posto riservato. Frosinone. Teatro-carcere, i detenuti mettono in scena “Ossigeno” regione.lazio.it, 29 giugno 2021 Rappresentazione teatrale nella casa circondariale “G. Pagliei” il 30 giugno e il 7 luglio. Luna piena. Un luogo ideale dove andare e respirare, per sfuggire all’emergenza Coronavirus che sta angosciando l’umanità intera andrà in scena mercoledì 30 giugno e mercoledì 7 luglio (alle 10,30) nella Casa circondariale “G. Pagliei” di Frosinone. Assisterà alla prima di mercoledì 30 giugno anche il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa. Si tratta della rappresentazione teatrale “Ossigeno”, frutto dell’immaginazione dei dodici detenuti attori del laboratorio teatrale media sicurezza. La regia è della funzionaria giuridica pedagogica Laura Mariottini, con la collaborazione volontaria delle operatrici teatrali Sofia Tremontini, Chiara Petrolati e Cristiana Lucentini. L’evento s’inserisce nell’ambito delle iniziative promosse dalla direzione della casa circondariale, per condividere i risultati conseguiti durante il secondo anno di attività teatrale con i detenuti. Vercelli. Il cinema in carcere per vivere un’esperienza di bene di Davide Dionisi vaticannews.va, 29 giugno 2021 Presentato ieri mattina nel carcere di Vercelli il progetto “Liberare lo sguardo”. Si parte con la proiezione di “Papa Francesco - Un uomo di Parola”. Il cinema per uscire dalle mura del carcere, le storie per confrontarsi con il mondo esterno e per imparare a guardare. Si intitola “Liberare lo sguardo” il percorso di formazione e di promozione della cultura cinematografica dedicato alla Casa Circondariale di Vercelli, presentato questa mattina nella Sala Convegni della Fondazione Cassa di Risparmio della provincia piemontese. Il progetto e? promosso dall’Associazione di Cultura Cinematografica “Officina Cultura e Territorio” che da ormai quindici anni opera nel settore culturale e sociale attraverso l’utilizzo di linguaggi audiovisivi, sia nel territorio di origine, quello bergamasco, sia a livello nazionale. Esperienza di bello e di bene - Si parte dalla proiezione di “Papa Francesco - Un uomo di Parola” il film di Wim Wenders, che ruota attorno ad un lungo dialogo col Pontefice che si sofferma su diversi temi offrendo risposte alle principali sfide globali del mondo contemporaneo: la morte, la giustizia sociale, l’immigrazione, l’ecologia, la diseguaglianza, il materialismo e il ruolo della famiglia. La scelta della pellicola del regista tedesco non è casuale perché, secondo Mons. Dario Edoardo Vigano?, Vice Cancelliere della Pontificia Accademia della Scienze e Scienze Sociali, che questa mattina ha presentato l’iniziativa “l’obiettivo è far sì che questa diventi una esperienza di bello e di bene in un carcere. Vogliamo che gli ospiti che sceglieranno di aderire, apprendano l’importanza del guardare, che è ben diverso dal vedere, quale esercizio di libertà e di responsabilità”. Il cinema come strumento formativo - Il progetto nasce dalla volontà di investire in un’iniziativa di cultura, bellezza e rieducazione di una fascia considerata debole della società come quella dei detenuti, in totale continuità con le attività già messe in campo dal territorio e, nello specifico, dalle case circondariali molto attente alla promozione culturale e da iniziative attente alle persone detenute. Secondo i promotori, infatti “La cinematografia rappresenterà un efficace strumento formativo, nello stesso modo dei percorsi educativi già attivati dall’istituto. Il modello del progetto, una volta consolidato, potrà essere facilmente applicato ad altre carceri e realtà del territorio”. Testimoniare la propria unicità davanti a Dio - “La visione del film di Wenders aiuterà i ragazzi a prendere consapevolezza del proprio percorso detentivo, ma anche di vita” osserva Antonella Giordano, Direttrice del carcere di Vercelli. “Siamo abituati a posare lo sguardo solo sulle cose che ci interessano, oppure su quelle che ci sono davanti, senza pensare che andare oltre lo sguardo significa toccare le anime delle persone che ci circondano. Il cinema diventa uno strumento per testimoniare la propria unicità davanti a Dio”. Educare allo sguardo - La parte formativa prevede due corsi tenuti da docenti universitari che avranno lo scopo di favorire una discussione tra i detenuti perché elaborino, attraverso le loro personali esperienze e le culture d’origine, i messaggi lanciati dai film. “Sono percorsi di educazione allo sguardo affinché i cuori possano parlarsi” spiega Mons. Viganò. Alla presentazione hanno preso parte, tra gli altri, Pierluigi Pianta, Procuratore Capo di Vercelli; Aldo Casalini, Presidente Fondazione Cassa di Risparmio di Vercelli; Antonello Monti, Consigliere d’Amministrazione Fondazione CRT e il prof. Fabrizio Buratto, dell’equipe dei formatori. Caritas, da 50 anni dalla parte di chi ha bisogno: “Ascolto, accoglienza, aiuto, amore” di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 29 giugno 2021 Monsignor Redaelli, presidente dell’ente voluto dalla Cei e da Paolo VI nel 1971: “Sostituiamo l’assistenza con le altre “4A”. Cosa vorrei ora? Che non servisse più”. “La Caritas non fa assistenza. Sono altre quattro le “A” che ci caratterizzano: ascolto, accoglienza, aiuto, amore. Le persone hanno bisogno di essere ascoltate, perché da lì poi arriva l’accoglienza”. Le persone, tutte: “Liberiamoci dalle etichette, come ha detto papa Francesco. La carità può e deve abbracciare tutti”. Monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli è dal maggio 2019 il presidente di Caritas nazionale che celebra i suoi 50 anni di attività: e questa analisi dei bisogni (e delle risposte ai bisogni) parte proprio da allora. Monsignore, come è cambiata la domanda? “La Caritas all’inizio ha fatto un grosso lavoro per le emergenze: il terremoto del Friuli era stato un po’ il battesimo perché a quei tempi non esisteva ancora la Protezione civile e andavano coordinati i soccorsi e gli aiuti. E poi c’era la necessità di avviare un intervento nazionale perché questi compiti venivano assolti da istituti religiosi e strutture parrocchiali, penso alla San Vincenzo, ma tutto restava molto relegato all’ambito locale. Fin dall’inizio si era cercato di fare attenzione ai nuovi fenomeni andando dove nessuno arrivava: a Milano, per esempio, il primo centro per l’accoglienza dei malati di Aids fu realizzato da Caritas. E poi sui temi della disabilità, soprattutto quella psichica: molte esperienze di accompagnamento e assistenza sono nate qui”. Questa attenzione ai bisogni è la vostra cifra anche oggi? “Esattamente: capacità di elasticità e adattamento. Quando è scattato il lockdown quasi tutte le nostre Caritas, che hanno dormitori per i senza fissa dimora, in poco tempo li hanno trasformati in centri di accoglienza h/24, organizzando pasti interni e spazi comuni per non lasciarli al loro letto. E poi anche sul tema delle povertà alimentari, in crescita continua, stiamo potenziando la diffusione degli empori solidali: non abbiamo la pretesa di risolvere i problemi, ma di esserci”. Torniamo alla missione iniziale. “La Pontificia opera di assistenza attiva fino al 1968 era una struttura del Vaticano che aiutava l’Italia a uscire dalla Seconda guerra mondiale: collegata a questa c’erano le Opere diocesane, molto autonome, che organizzavano anche servizi come le colonie per i bambini e altre attività complementari. Fu papa Paolo VI insieme con monsignor Nervo e altri a cambiare il passo: non più assistenza ma promozione della carità per lo sviluppo profetico della società. A Milano il cardinal Martini con il convegno Farsi Prossimo volle che ogni parrocchia aprisse un centro di ascolto e da lì, dai bisogni, presero vita progetti strutturati”. Come si preparano i volontari? “Serve competenza: da sempre garantiamo una formazione di base per i centri di ascolto. Mentre per tematiche specifiche, penso ai disabili, alla psichiatria, ai migranti, ricorriamo a competenze specifiche”. C’è differenza fra la Caritas italiana e quelle straniere? “Beh, sì. In Germania gestiscono l’aspetto socio assistenziale e socio sanitario: hanno 600mila dipendenti e un milione di volontari; anche in Francia la struttura è verticistica. Da noi Caritas italiana è il riferimento centrale delle Caritas, dove ogni parrocchia ha la sua, riferita a quella diocesana e il vescovo ne è responsabile. Ovvio che poi c’è un rapporto con i delegati regionali. Ma non esiste una struttura di dipendenza, perché l’idea è favorire l’attenzione ai bisogni che possono essere diversi da territorio a territorio. E poi in questo modo ogni comunità può crescere nell’attenzione di carità e anche questo è scopo della Caritas”. Nel vostro ultimo rapporto elencate nuove emergenze: quali? “Abbiamo sempre i senza fissa dimora, ma l’emergenza sanitaria ha aggiunto persone che non trovano lavoro o che lo hanno perso. Molte famiglie che vivevano con due piccoli stipendi perdendone uno vengono a chiedere il pacco alimentare. Sono aumentati i numeri delle donne in difficoltà e dei giovani senza prospettiva. E poi stiamo gestendo il tema dei migranti: molti di loro avevano occupazioni precarie e sono rimasti a casa”. La “dimensione caritativa” di cui parla è cresciuta? “Nel concreto sì, la risposta c’è. Ma se si parla in generale il tema dell’accoglienza non scatta subito. Per questo dicevo che dobbiamo liberarci dalle etichette e insistiamo sul far incontrare le persone: perché quell’incontro cambia l’opinione. Lo dice anche il Papa nella sua enciclica Fratelli tutti: la strada è quella”. Come è il rapporto con le istituzioni? “A livello locale e sugli interventi direi che funziona con efficacia e correttezza e va molto bene anche il sistema di convenzioni. Forse abbiamo avuto qualche criticità su alcuni progetti per i migranti ma alla fine sono superate”. E nelle emergenze? “Da quando c’è la Protezione civile noi non dobbiamo più arrivare con roulotte e tende ma svolgiamo un compito complementare: creiamo centri di comunità, stiamo vicino alle prime necessità delle persone, attiviamo gemellaggi”. Il volontariato resiste? “Sì, e abbiamo anche un bel ricambio generazionale che è stato accelerato dal Covid quando molti ultra sessantenni per sicurezza sono stati fermati: ma sono subito arrivati i ventenni a sostituirli e questo è davvero un bel segnale”. Come garantite trasparenza nell’utilizzo dei fondi? “Caritas italiana presta grande attenzione al tema: tutti i fondi che arrivano sono destinati a un progetto e vengono usati solo per quello come dimostriamo alla fine con una rendicontazione puntuale. Poi Caritas da qualche anno riceve una fetta consistente dell’8 per mille: attraverso le chiese i fondi vengono destinati alle Caritas diocesane ma anche qui legati a un progetto specifico che alla fine va rendicontato. Per esempio ultimamente c’è poca attenzione al mondo del carcere e mettiamo soldi a disposizione di progetti legati a questo tema: così incentiviamo anche le Caritas a intraprendere strade nuove. Comunque stiamo lavorando perché secondo me queste cose andrebbero raccontate di più e meglio”. C’è un calo di fiducia nei donatori che volete recuperare? “La gente continua a fidarsi e a sostenerci, ma proprio per questo dobbiamo stare molto attenti e spiegare bene come vengono usati i soldi donati”. Cosa le piacerebbe che facesse Caritas nei prossimi 50 anni? “Intanto le dico una cosa sulla organizzazione: gli attuali direttori di Caritas sono quasi tutti uomini, anche perché il loro percorso è molto spesso partito dal servizio civile quando era legato all’obiezione di coscienza. Abbiamo tante donne molto impegnate a livello di base, ma non nella dirigenza e questo mi dispiace perché le loro potenzialità vanno valorizzate meglio. Un altro tema è che il venir meno di molti istituti religiosi che coprivano un ambito di assistenza lascia un po’ un vuoto: intendo dire che se i camilliani chiudono una clinica, Caritas non riesce a subentrare. E il venir meno di tali realtà, a causa del calo delle vocazioni, sta impoverendo la chiesa italiana”. Ma la sfida del futuro? “Le nostre iniziative si chiamano opere-segno. Perché un’opera deve diventare un segno: non ha la pretesa di risolvere tutto ma è significativa anche per altre realtà e per far partire un’attenzione. Papa Francesco parlava della santità della porta accanto, ma c’è anche la carità della porta accanto e lì non c’è bisogno dello sportello della Caritas. Ecco: in futuro mi piacerebbe non ci fosse più bisogno della Caritas: significherebbe che i bisogni sono diminuiti, le fragilità sono accompagnate e che ciascuno ha imparato a esercitare la carità della porta accanto”. Quegli adolescenti invisibili, prigionieri dell’isolamento di Massimo Ammaniti Corriere della Sera, 29 giugno 2021 Inchiodati ore ed ore davanti allo schermo del computer per la didattica a distanza. Questa drastica rinuncia alla vita sociale li ha spinti a rinchiudersi nella loro stanza. Degli adolescenti si parla solo se si comportano in modo spericolato e violento oppure se manifestano alterazioni psichiche, per il resto sono socialmente invisibili. Proprio in questi giorni El Pais ha pubblicato un articolo allarmante sulle patologie psichiche degli adolescenti spagnoli che sono emerse in questo periodo, nonostante le attuali riaperture e le maggiori libertà di movimento che dovrebbero intuitivamente migliorare il loro equilibrio mentale e la loro vita. È il Direttore dell’Ospedale Pediatrico Sant Joan de Deu di Barcellona, il più grande di tutta la Spagna, a parlare dei frequenti tentativi di suicidio degli adolescenti che arrivano al loro Pronto Soccorso, più di venti casi settimanali ben più dei quattro casi del passato. E non si tratta solo dei tentativi di suicidio sono molto diffusi anche gravi disturbi alimentari comparsi soprattutto nel periodo del lock-down. E riguardano specificamente ragazze di 13-14 anni, periodo estremamente critico per le trasformazioni del corpo e del cervello. Il Direttore dell’Ospedale amaramente commenta che la società è poco attenta alle esigenze dei giovani, bisognerebbe non solo rispondere a queste emergenze ma soprattutto cercare di prevenirle. Anche in Italia le condizioni degli adolescenti sono state molto difficili durante la pandemia, costretti all’isolamento in casa, inchiodati ore ed ore davanti allo schermo del computer per la didattica a distanza. Questa drastica rinuncia alla vita sociale ha spinto gli adolescenti a rinchiudersi nella loro stanza quasi appropriandosi dell’isolamento per non doverlo subire, connessi al mondo dei coetanei solo attraverso i social network, le chat e i videogiochi. Tutto questo ha stravolto i ritmi e le abitudini della loro vita quotidiana che si muoveva fino ad allora entro rotaie di prevedibilità, necessarie per il riconoscimento della propria identità personale. Anche le interazioni e gli scambi coi coetanei davano un’ulteriore stabilità attraverso condivisioni e coinvolgimenti affettivi. Con la pandemia si è insinuato nella mente dei giovani un senso di solitudine e di vuoto che ha cominciato a minare la fiducia di sé, anche perché il mondo che si era sempre conosciuto veniva scomparendo, non più la scuola e gli incontri cogli amici e i coetanei, le uscite in gruppo, le schermaglie sentimentali, le corse in motorino, lo sport, le discoteche con la musica a palla. È scesa una nebbia che ha reso tutto sfumato e insignificante. Non va dimenticato che il cervello degli adolescenti ha bisogno di questi stimoli e queste esperienze sociali per maturare come ha messo in luce la ricerca neurobiologica internazionale. E quali sono state le conseguenze di queste restrizioni negli adolescenti italiani? Molti adolescenti hanno cominciato a manifestare stati di ansia e di stress con somatizzazioni fastidiose, difficoltà di concentrazione e di attenzione che ha reso l’apprendimento scolastico più problematico. E poi disturbi del sonno dal momento che la notte era l’unico momento nel quale si potevano connettere coi coetanei, mandarsi delle chat e delle foto, fare dei videogiochi in gruppo. Ed internet è divenuto sempre più pervasivo, non solo le ore della didattica a distanza ma i continui messaggi coi coetanei per non sentirsi soli. Molte ricerche hanno messo in luce che si è creata nei ragazzi una difficoltà a regolare e a vivere le proprie emozioni, momenti di appiattimento emotivo a cui fanno seguito reazioni impulsive. Ma quello che è più allarmante è quello che si è verificato negli ultimi mesi un aumento anche in Italia di tentativi di suicidio al pari della Spagna come è stato segnalato dagli ospedali pediatrici italiani. Addirittura ragazze e ragazzi alle soglie dell’adolescenza ricorrono al suicidio come unica via di uscita da una situazione insopportabile, come è successo ad Orlando il ragazzo di Torino insultato e deriso perché gay. Quando i tentativi disperati di controllare la propria psiche e il proprio corpo falliscono, come succede anche nei disturbi alimentari, non rimane che tentare il suicidio. Dovremmo chiederci che possiamo fare per i ragazzi e le ragazze che stanno uscendo dalle restrizioni e che esprimono il loro malessere che si è accumulato in questi sedici mesi e rischia ora di esplodere. È importante che le famiglie e la scuola ne siano consapevoli e che soprattutto il Governo appronti un progetto per le nuove generazioni che non significa il voto ai sedicenni, ma un impegno ad investire sul loro futuro formativo e lavorativo evitando che stazionino anni ed anni senza nessuna prospettiva. Ddl Zan, Salvini attacca Letta. Il segretario Pd: confronto solo in Parlamento di Paola Di Caro Corriere della Sera, 29 giugno 2021 Il leader leghista: grave non accetti il dialogo, così strumentalizza le persone. Nuova capigruppo per cercare un’intesa su modifiche e calendario. Il Pd non cede, IV media. Resta altissima la tensione nella maggioranza sul ddl Zan contro l’omotransfobia, con Pd, M5S, Leu e solo in parte Italia viva (che lavora ad una difficile mediazione) ferme sulla difesa del testo, e Lega e Forza Italia che insistono perché venga modificato in più punti. È ancora muro contro muro tra Matteo Salvini ed Enrico Letta. Il primo da giorni ha chiesto, pubblicamente e con messaggio privato, al leader del Pd di incontrarsi per decidere assieme possibili modifiche e assieme valutare il tema complessivo delle riforme. Il secondo non crede alla buona fede e tiene duro. “Scriverò un WhatsApp di risposta a Salvini, gli dirò: siamo persone serie, andiamo in Parlamento e lì ci confronteremo, non mi sono mai sottratto al confronto, mi aspetto che chi parteciperà sia lì non per affossare la legge ma per discutere del merito”, dice Letta. E aggiunge: “La nostra tesi è che oggi c’è una grande occasione per potere approvare quella legge, la nostra linea è: andiamo avanti. Ascolteremo quello che diranno gli altri, ma le dichiarazioni della Lega sono per affossarlo”. Insomma, il leader del Pd vuole “capire se questa offerta di Salvini di dialogo rappresenta un girare completamente strada, ma mi sembra strano e improbabile”. Salvini invece si fa forte della posizione del Vaticano, del centrodestra e dei dubbi che albergano anche nel centrosinistra e non molla: “Ddl Zan, incredibile che Letta rifiuti dialogo e confronto, invocati anche dalla Santa Sede, sul tema dei diritti e delle libertà. Io invece insisto, vediamoci e troviamo una soluzione condivisa. Letta non fa gli interessi di chi vuol difendere, anzi usa strumentalmente le persone”. Posizione sostenuta da FI. Lucio Malan spera che ci sia un “ripensamento rispetto alla faccia dura mostrata dal Pd in Commissione Giustizia (dove il ddl si sta esaminando, ndr). Anche perché anche tra loro ci sono molti dubbi, e mi aspetto che dopo il Vaticano arriveranno altre prese di posizione. Questa legge è scritta male”. Che succederà adesso? Domani è prevista una riunione con tutti i capigruppo, convocata dal presidente della commissione Giustizia e relatore al Senato del provvedimento, il leghista Andrea Ostellari, per cercare un’intesa prima del voto del 6 luglio sulla calendarizzazione del testo in aula per il 13 luglio. Sulla carta la maggioranza per la calendarizzazione c’è, come per approvare il provvedimento, ma con i voti segreti c’è anche il rischio di andare sotto, nonostante anche nel centrodestra si discuta (l’azzurro Elio Vito sprona i suoi: “Se vogliamo davvero essere europei, il ddl Zan diventi subito legge”). Alla riunione parteciperanno per il Pd sia la capogruppo al Senato Simona Malpezzi, sia quello in Commissione Franco Mirabelli, secondo il quale “se ci saranno proposte serie le valuteremo, ma non stravolgeremo un impianto che funziona. Vogliamo andare avanti, non accettare posizioni pretestuose”. E se anche Alessandra Maiorino per il M5S, che ha partecipato alla stesura del ddl Zan, assicura che il suo gruppo sarà compatto e avverte che “qualunque modifica rallenterebbe il lavoro, e le presunte criticità che il centrodestra lamenta non possono essere accolte perché renderebbero la legge monca”, chi cerca di favorire un’intesa è Italia viva. Lo conferma il capogruppo in Commissione giustizia Giuseppe Cucca: “Bisogna fare un ragionamento serio, perché il rischio è quello di imboscate in Aula. È importante che la legge passi, ed è sempre meglio poco che nulla”. Ddl Zan, conta in aula: si vota dal 13 luglio. Scontro Salvini-Letta di Concetto Vecchio La Repubblica, 29 giugno 2021 Mercoledì vertice dei capigruppo del Senato per trovare un punto di caduta. Il Pd chiede l’approvazione senza modifiche, Iv più propensa a dialogare con il centrodestra. Sulla legge Zan tutto sembra rotolare verso la conta in aula, il 13 luglio. Mercoledì, convocato dal relatore al Senato, il leghista Andrea Ostellari, si terrà un vertice con tutti i capigruppo per tentare di giungere a una mediazione tra le parti. Il fronte pro legge, Pd, M5S, Leu, Italia viva, autonomisti da un lato, e dall’altro il centrodestra che invece chiede modifiche, facendosi forte della nota verbale della Santa sede. Ma nel centrosinistra in pochi sono ottimisti sull’esito, nessuno ci crede davvero. “La trattativa è stata proposta da chi in questi mesi ha fatto soltanto muro”, ragiona amaro il capogruppo pd in Commissione Giustizia, Franco Mirabelli. “Sarà complicato trovare un compromesso sulle modifiche, ad ogni modo andremo ad ascoltare”. Il Pd chiede che la legge venga approvata così com’è uscita dalla Camera, il 4 novembre scorso; il centrodestra reclama la riformulazione di almeno tre articoli: 1, 4 e 7. “La rigidità di Enrico Letta - avvisa Licia Ronzulli, vicepresidente di Forza Italia al Senato - porterà all’affossamento: avvisatelo che nemmeno i suoi senatori lo seguiranno”. In questo contesto di muro contro muro il capogruppo di Italia Viva Davide Faraone tenta a sua volta un negoziato, “nella convinzione che la Lega non è solo Pillon, e che se non allarghiamo la maggioranza al momento del voto rischiamo di naufragare”. Ma qual è il punto di caduta per i renziani? Faraone cita il presidente emerito della Consulta Giovanni Maria Flick, che ha suggerito di modificare l’articolo 1, perché “in sede penale elenchi e casistiche non funzionano troppo”, ed “è difficile capire dove finisce la legittima scelta, decisione ed espressione di un pensiero e dove invece inizi un atto discriminatorio”. “Dobbiamo puntare ad avere 50-60 voti di scarto, altrimenti è un terno a lotto”, sostiene Faraone. Ma è un proposito realistico? Il Pd preferisce morire sul campo, addossando ad altri l’eventuale fallimento di una legge che definisce la sua identità di partito dei diritti, piuttosto che finire impelagato nella palude di una riformulazione, visto che poi il testo tornerebbe a Montecitorio. “Siamo nel punto di equilibrio più avanzato, il frutto di lunghe mediazioni, ma se la cambiamo non vedrà più la luce”, preme il padre della riforma, il pd Alessandro Zan. “Sono convinto che anche i renziani alla fine la voteranno”. Ivan Scalfarotto, Italia viva, condivide la fretta di Zan: “Corriamo il rischio di fare la fine della mia legge contro l’omofobia. Siamo seri: qui c’è chi la vuole e chi non la vuole, tutto il resto è strumentale. Voglio ricordare che sulle unioni civili Renzi mise la fiducia. E l’introduzione del concetto di identità di genere, nell’articolo 1, nasce per tutelare dalle discriminazioni anche i transessuali. Non la penso come Flick, le sue obiezioni mi sembrano debolissime”. E quindi Italia viva è divisa? “Con Faraone siamo d’accordo sul fatto che si rischia grosso in aula, ma non credo affatto che la Lega voglia una legge migliore”. Il sentiero è strettissimo. “Quello che noi, come tante associazioni e la Santa Sede abbiamo contestato, è l’introduzione di nuovi reati d’opinione e il fatto che alcuni temi arrivino sui banchi di scuola dei bambini di sei anni”, ha ribadito Salvini, a proposito di un altro punto criticato dalla destra: l’istituzione della giornata nazionale contro l’omofobia anche nelle scuole. Ho mandato un messaggio a Letta la scorsa settimana e manco mi ha risposto”. “Gli scriverò su whatsapp”, ha replicato Letta, “e gli dirò che il luogo del confronto è il Parlamento. Mi auguro che sia nel merito, ma le dichiarazioni della Lega sono per affossare tutto”. In aula quindi. “I numeri ci sono”, giura Mirabelli. Migranti. Mare “monstrum”: tra sbarchi fantasma e Ong bloccate di Alessandro Puglia La Repubblica, 29 giugno 2021 Già più di 14mila i migranti riportati nell’inferno della Libia. Nel Mediterraneo prevale l’attività della guardia costiera libica: si prospetta un’estate drammatica e senza “testimoni”. Vita difficile anche per i pescatori italiani. MAI così tanti migranti intercettati in mare e riportati in Libia. L’estate appena cominciata, che in Italia sul fronte sbarchi ha visto interessata in prima linea Lampedusa con l’arrivo in autonomia di barchini provenienti dalla Libia e dalla Tunisia, ci restituisce un Mediterraneo centrale ridisegnato, con i ruoli dei protagonisti sempre più definiti. L’Europa e l’Italia da una parte che supportano la stabilità di Tripoli e di fatto affidano il coordinamento dei soccorsi alla guardia costiera libica; l’utilizzo delle navi quarantena per alleggerire le strutture a terra; il coinvolgimento di mercantili anch’essi chiamati a coordinarsi con le autorità libiche; le Ong che, se non si trovano in stato di fermo amministrativo in qualche porto siciliano, riescono a condurre solo una piccolissima parte dei soccorsi. Uno scenario mutato come dimostrano i numeri. Stando ai dati dell’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim) dall’inizio dell’anno sono infatti 14.388 i migranti intercettati in mare e riportati in Libia. Un record dalla firma del primo memorandum tra Italia e Libia di luglio 2017. Cifre, relative alle persone riportate in quello che le maggiori organizzazioni internazionali da anni definiscono “porto non sicuro”, che superano già i dati del 2020, quando furono 11.891 le persone riportate in Libia. Dall’inizio di quest’anno, secondo i dati forniti dal Ministero dell’Interno, in Italia sono sbarcati 19.360 migranti, a fronte dei 34.154 arrivati in tutto il 2020 quando ci fu un picco proprio nel mese di luglio (7062, più che ad agosto dello stesso anno). Nel 2021 sono già 827 i morti accertati in vari naufragi secondo quanto riferisce il progetto Missing Migrants dell’Oim, rispetto ai 375 dell’anno precedente a cui si aggiungono le vittime dei naufragi “fantasma”, circa 600 persone che hanno affrontato la rotta del Mediterraneo centrale e di cui non si hanno più notizie. Nonostante lo scenario dei soccorsi stia mutando verso quella che appare sempre più come una politica europea basata sulla difesa dei confini, in previsione delle condizioni meteo-marine favorevoli ci saranno migliaia di persone pronte a partire. “Farebbero qualsiasi cosa pur di scappare dai centri di detenzione dove sono costretti a vivere in condizioni disumane - spiega a Repubblica Deanna Dadush, che insieme ad altri 100 volontari, ricercatori di diritto internazionale ed esperti nel campo delle migrazioni, fa parte di Alarm Phone la piattaforma che raccoglie gli Sos dei migranti in difficoltà nel Mediterraneo. E purtroppo avendo affidato tutta l’amministrazione del Mediterraneo alla guardia costiera libica è possibile prevedere altri possibili naufragi, con i migranti che alla vista delle motovedette libiche si getteranno in mare come è già accaduto. È uno scenario che peggiora di giorno in giorno. In base alle chiamate che riceviamo possiamo dire che la guardia costiera italiana non soccorre più come prima, la guardia costiera maltese è invece inesistente considerando che nel 2021 a Malta sono sbarcate meno di 100 persone”. Sbarchi fantasma e navi quarantena - “Di sicuro la maggior parte degli arrivi sarà costituita da sbarchi autonomi e quindi direttamente su Lampedusa o Pantelleria - spiega Fulvio Vassallo Paleologo, già docente di diritto d’asilo all’Università di Palermo e vice presidente dell’associazione Diritti e Frontiere. Anche se di fronte a un rallentamento di partenze di queste ultime settimane dovuto alle trattative in corso con ingenti contropartite economiche tra autorità libiche, italiane e dell’Unione europea e agli esiti incerti della conferenza di Berlino sulla Libia del 23 giugno, è difficile fare previsioni”. La settimana scorsa sono stati circa 1000 in meno di 48 ore i migranti arrivati a Lampedusa con sbarchi fantasma di barchini con a bordo dalle 10 alle 30, massimo 40 persone. I migranti che giungono a Lampedusa vengono accolti nell’immediato nell’hotspot di Contrada Imbriacola, che ha una capienza di circa 250 persone, quindi nei giorni successivi allo sbarco vengono trasferiti nelle navi quarantena a largo dei porti siciliani. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, nella relazione annuale presentata al Parlamento il 21 giugno ha sottolineato come le navi quarantena presentino diverse criticità sul piano dei diritti: dall’impossibilità di richiedere la protezione internazionale, alla difficoltà di individuare le vulnerabilità, al fatto che l’operazione sia nata in un contesto pandemico di piena emergenza e oggi quindi andrebbe ripensa. Sbarchi fantasma, navi quarantena, mercantili e “push-back”: cosa accade nel Mediterraneo - Dal 12 aprile 2020 ad oggi sono transitati nelle navi quarantena oltre 23mila persone, più di 11mila nel 2021. Per il governo il nodo delle navi passeggeri per la quarantena dei migranti, riguarda anche i costi superiori a quelli delle strutture a terra. Nell’ultimo bando della Protezione civile del 14 maggio con cui si cercavano altre quattro grandi navi da impiegare nel periodo dal 1 giugno al 31 luglio, si apprende che le unità “potranno avere da 361 a 460 cabine con un costo massimo stimato per la fornitura del servizio pari a 36mila euro al giorno, 25 euro al giorno per ospite”. Una nave quarantena quindi costa all’incirca poco più di un milione di euro al mese. In assenza di un dispositivo di soccorsi davanti alle coste italiane è successo che a Lampedusa a soccorrere i migranti siano stati i pescatori, come avvenuto il 12 giugno quando il consigliere comunale dell’isola, Vincenzo Partinico, a 39 miglia dall’isola ha soccorso con il suo peschereccio San Matteo 24 persone che altrimenti sarebbero annegate: “Avvicinandosi la loro barca ha cominciato a piegarsi e imbarcava acqua, alcuni ragazzi si sono aggrappati al nostro peschereccio, altri si sono tuffati in mare. Siamo riusciti a salvarli tutti, erano 24, non c’erano donne e bambini”, racconta commosso. Le Ong ai box per fermo amministrativo - Dal 17 aprile al 25 giugno, la nave della Ong spagnola Open Arms è stata sotto fermo amministrativo al porto di Pozzallo per carenze tecniche che secondo la Guardia costiera italiana andavano dalla “sicurezza della navigazione”, ovvero la possibilità di portare a bordo solo un esiguo numero di persone, alla “prevenzione dell’inquinamento”. Con questo modus operandi sono state in un anno nove le navi delle Ong costrette a fermarsi. Oggi, dopo il dissequestro della Open Arms, sono la Sea-Eye 4 a Palermo, la Sea Watch 4 a Trapani, la Sea Watch 3 e la Alan Kurdi che dopo il provvedimento delle autorità italiane sono in sosta in Spagna, nel porto di Buriana. La Geo Barents di Medici Senza Frontiere è in quarantena al porto di Augusta dopo aver completato lo sbarco di 410 persone, mentre la Aita Mari di Salvamento Maritmo Humanitario e la Mare Jonio di Mediterranea sono ferme per lavori di manutenzione. La Ong italiana vede oggi alcuni dei suoi fondatori indagati per favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina da parte della Procura di Ragusa. Il caso risale allo scorso 11 settembre a seguito di quello che fu il più lungo “stand off” della storia marittima internazionale. Dopo 38 giorni di richieste di aiuto da parte del colosso marittimo internazionale Maersk, la Mare Jonio autorizzata dal Centro di coordinamento dei soccorsi di Roma effettuava il trasbordo dalla petroliera Maersk Etienne dei 27 naufraghi. L’accusa per Mediterranea è di aver accettato un corrispettivo economico tramite un assegno di 125 mila euro a Idra, ma sia la Ong italiana che Maersk hanno precisato che si è trattato di una semplice donazione per l’opera svolta, donazioni che sono fonte di sostentamento per le unità della società civile. Nonostante l’indagine a carico, l’equipaggio di Mediterranea ha ricevuto quest’anno il “Premio navigazione 2021” proprio da parte della Danish Shipping, la più importante categoria di armatori danesi fondata nel 1864, che premia i marittimi che si sono distinti per il loro coraggio. “L’unico vero pull factor dalle coste della Libia sono le terribili condizioni di vita in cui queste persone sono costrette a vivere e le condizioni meteo-marine che come ogni anno incentivano le partenze. Il risultato di ciò che accadrà lo stiamo già vedendo con un incremento pesantissimo di persone intercettate e deportate in Libia attraverso una strategia di supporto alla guardia costiera Libica, con motovedette regalate dal nostro Paese e informazioni fornite da Frontex” spiega Beppe Caccia, il fondatore di Mediterranea Saving Humans. I mercantili in attesa di istruzioni - Il 14 giugno il mercantile battente bandiera di Gibilterra “Vos Triton” ha soccorso 270 migranti in acque internazionali, consegnando le persone soccorse alla guardia costiera libica che il giorno successivo li ha riportati a Tripoli. L’Organizzazione internazionale per le migrazioni e l’Agenzia delle Nazioni Unite in un comunicato congiunto hanno richiamato i Paesi europei affinché “nessuna delle persone soccorse in mare faccia ritorno in Libia e perché, in assenza di meccanismi collaudati di sbarco, gli attori marittimi non devono essere obbligati a far tornare rifugiati e migranti in luoghi non sicuri. I migranti - continuano le due organizzazioni - sbarcati in Libia una volta soccorsi sono poi esposti ad abusi ed estorsioni, altri spariscono e tornano nelle mani dei trafficanti di esseri umani”. L’Oim e l’Unhcr richiamano quindi gli Stati europei “per porre fine all’arbitraria detenzione in Libia, trovando soluzioni alternative e rilasciando nell’immediato i più vulnerabili”. Il caso della Vos Triton non è così diverso da quelli documentati tra il 23 e 25 giugno dal velivolo di ricognizione Moonbird della Ong Sea Watch. Due navi mercantili italiane, l’Asso 25 e l’Asso 29, si trovano nelle vicinanze di una barca in legno in pericolo con circa 20 persone a bordo. Scrive la Ong tedesca: “Confermato il respingimento illegale in Libia. L’Italia ha rifiutato il coordinamento, due navi italiane nelle vicinanze non sono intervenute e la cosiddetta guardia costiera libica ha catturato le persone. Ennesima grave violazione del diritto internazionale marittimo”. I pescatori siciliani mitragliati dalle motovedette libiche - Lo scacchiere ormai definito nelle zone Sar (Search and Rescue) del Mediterraneo centrale riguarda anche le vicende dei pescatori siciliani che, dopo l’esperienza del sequestro per 108 giorni a Bengasi da settembre a dicembre 2020 da parte delle milizie del generale Haftar, si trovano a fronteggiare gli spari delle motovedette “governative”, come avvenuto il 6 maggio al peschereccio Aliseo di Mazara del Vallo, con il comandante Giuseppe Giacalone che è rimasto ferito dopo oltre un’ora e mezza di mitragliamento da parte della motovedetta 660 Ubari, tra le prime unità navali donate dall’Italia alla Libia nel 2018. Il comandante del peschereccio tramite il suo avvocato ha presentato una denuncia contro la motovedetta libica e l’intero equipaggio per i reati di tentato omicidio aggravato, sequestro di persona, minaccia grave, naufragio, danneggiamento di nave e tentato incendio. Nel frattempo la motovedetta Ubari da cui partirono i colpi è tornata indisturbata a intercettare i migranti nel Mediterraneo riportandoli in Libia. Abusi e torture in Libia - Dopo le immagini shock del 24 maggio che nessuno di noi avrebbe voluto vedere, con donne e bambini morti e con il corpo e volto ricoperti di sabbia nella spiaggia di Zwara, le violazioni dei diritti umani in Libia sono venuti nuovamente alla luce con il caso delle donne somale violentate e abusate dalla polizia libica nel centro di detenzione ufficiale di Shar al-Zawyah. A seguito di ripetuti episodi di violenza contro migranti e rifugiati, Medici Senza Frontiere ha annunciato nei giorni scorsi la sospensione delle sue attività nei centri di detenzione di Al-Mabani e Abu Salim: “Non è una decisione facile da prendere perché significa che non saremo presenti lì dove sappiamo che le persone soffrono quotidianamente - ha commentato Beatrice Lau, capo missione Msf in Libia -. I continui e violenti incidenti che causano gravi danni a migranti e rifugiati, nonché il rischio per la sicurezza del nostro personale, hanno raggiunto un livello che non siamo più in grado di accettare. Fino a quando la violenza non cesserà e le condizioni non miglioreranno, non potremo più fornire assistenza medico-umanitaria in queste strutture”. I diritti negati dei migranti respinti in Grecia dal porto di Bari di Gaetano De Monte Il Domani, 29 giugno 2021 È il 23 maggio del 2020, una domenica mattina. Sette cittadini stranieri di nazionalità turca, di etnia curda, tra cui una donna, arrivano al porto di Bari nascosti all’interno di un camion. Quando la polizia di frontiera li scopre, li riporta immediatamente indietro verso Igoumenitsa, il porto greco da cui erano partiti. “Hanno riferito di essere stati costretti con la forza a salire sul traghetto che li avrebbe portati in Grecia e di aver subìto abusi e violenze da parte della polizia italiana nel corso della procedura di riammissione”. A denunciarlo è il Network porti adriatici, una rete di associazioni di cui fanno parte l’Ambasciata dei diritti delle Marche, l’Asgi, l’Associazione studi giuridici immigrazione, Lungo la rotta balcanica e S. O. S diritti di Venezia, organizzazioni che dal 2017 garantiscono tutela legale ai cittadini stranieri che arrivano in Italia attraverso i porti dell’Adriatico, dalla Grecia o da altri paesi dell’area dei Balcani, quali l’Albania, la Croazia e il Montenegro. Le cifre dell’esclusione - I respingimenti dei richiedenti asilo ai valichi di frontiera italiani non sono, tuttavia, episodi isolati, ma sono il frutto di una precisa strategia politica. Come si legge nell’ultimo rapporto di Migrantes, la fondazione della Conferenza episcopale italiana: “Le persone respinte ai valichi di frontiera italiani nel 2019 sono state 9.943, 8.138 alle frontiere aeree e 1.805 alle marittime”. Cifre, queste, che si sommano agli altri 6mila richiedenti asilo respinti da gennaio al luglio del 2020. Come si legge in un altro report di Rivolti ai Balcani, una rete di 32 organizzazioni di cui fa parte anche Amnesty International: “secondo i dati forniti dal Dipartimento della pubblica sicurezza del ministero dell’Interno dal primo gennaio al 15 aprile 2020, complessivamente, risultano essere state respinte 1.432 persone presso i valichi di frontiera aerea e 421 presso i valichi di frontiera marittima”. Rispetto ai porti adriatici di Ancona, Bari, Brindisi, Trieste e Venezia, nello stesso periodo considerato, i funzionari del Viminale hanno riferito alle organizzazioni che si sono verificati “400 respingimenti ai valichi di frontiera marittima”. Ed è proprio il porto di Bari, a conti fatti, la frontiera adriatica con il più elevato numero di stranieri respinti. Bari frontiera d’Europa - Oltre i numeri, ci sono le storie delle persone che raccontano di un modus operandi da parte della polizia di frontiera che continua ancora oggi. Tornando a quello che è successo il 23 maggio scorso, al porto di Bari: i migranti “sono stati privati in modo arbitrario della libertà personale e trattenuti all’interno di un vano tecnico, privo di finestre e di servizi igienici, talmente piccolo da doversi alternare per restare seduti in terra”, hanno riferito dal Network porti adriatici: “Nei momenti che hanno preceduto la chiusura del suddetto vano, uno di loro è stato colto da una crisi epilettica ed è stato portato fuori dal traghetto solo dopo insistenze e proteste da parte dei suoi compagni di viaggio che gli hanno prestato un primo soccorso, prevenendone il soffocamento. Successivamente soccorso da un’ambulanza, è stato trasferito in ospedale dove è stato ricoverato”. Non solo. Secondo quanto hanno raccontato i giuristi dell’Asgi che seguono il caso: “I sei richiedenti asilo sono stati trattenuti per tutta la durata del viaggio di ritorno, di circa 12 ore, in condizioni inumane e degradanti, al freddo, senza ricevere né cibo né acqua”. E poi ancora, i giuristi hanno riferito che le sei persone respinte dal porto di Bari “dopo essere arrivati nel porto di Igoumenitsa in Grecia, sono stati ulteriormente trattenuti per 24 ore in un luogo fatiscente e dallo spazio ristretto, nonché privo di qualunque misura che garantisse un adeguato distanziamento, insieme ad altri cittadini stranieri, senza che potessero comunicare ai familiari e alle associazioni dove si trovassero e senza che l’Unhcr, cui la situazione era stata segnalata, ricevesse informazioni dalle autorità italiane”. Le istituzioni italiane le chiamano riammissioni, ammettendo anche che, a volte, avvengono per i richiedenti asilo; nella pratica, però, sono respingimenti. Proprio come quelle della polizia di frontiera al confine tra il Friuli Venezia Giulia e la Slovenia, attuate in maniera completamente informale, senza la consegna di un provvedimento scritto. A Bari succede ormai da qualche anno, nel silenzio generale, a centinaia di afgani, bengalesi, curdi, turchi, anche minori, che arrivano in Italia nascosti nei camion e vengono rispediti in Grecia, senza poter chiedere asilo politico. Avviene in quasi tutti i porti adriatici italiani, sulla base di un accordo di riammissione bilaterale firmato nel 1999 tra Italia e Grecia che, nella realtà dei fatti, produce espulsioni collettive di cittadini stranieri richiedenti asilo, nella più completa informalità, senza consentire l’accesso a un ricorso effettivo, anche con trattamenti inumani e degradanti. Prassi illegittime per cui l’Italia e la Grecia sono state già condannate il 21 Ottobre del 2014, nel cosiddetto caso Sharifi, dalla Cedu, la Corte europea per i diritti dell’uomo, nel ricorso partito dall’espulsione avvenuta al porto di Ancona di 32 cittadini afgani, 2 sudanesi e 1 eritreo. Il gioco dell’oca - Prima ancora dei respingimenti del 23 maggio, il 30 marzo scorso un ragazzo di 25 anni di nazionalità afgana è stato riportato in Grecia e scaricato a Patrasso, dopo essere stato respinto a Bari. L’uomo ha raccontato la sua odissea agli operatori della Ong No Name Kitchen. Così: “Mi sono nascosto nella parte superiore di un camion nel porto di Patrasso il 29 marzo; il camion era a bordo di un traghetto Superfast che è arrivato il giorno successivo a Bari, in Italia, intorno alle 9 del mattino. Lì sono stato svegliato da tre uomini e una donna e portato in un commissariato, dove mi hanno preso le impronte digitali. Alle 16 dello stesso giorno, il 30 marzo, la polizia mi ha riaccompagnato al porto, dove un agente della sicurezza mi ha sequestrato il cellulare”. E ancora: “Mi hanno fatto alloggiare in una cella che aveva il pavimento bagnato. Lì dentro non riuscivo a dormire a causa del freddo, nonostante non lo facessi da 36 ore. Non mi sono stati offerti né acqua né cibo”. Quando poi il traghetto è arrivato nel porto di Patrasso intorno alle 13 del 31 marzo, la polizia greca lo ha trattenuto ancora un altro po’ di tempo in una cella del commissariato del porto, prima di restituirgli il cellulare e rilasciarlo. È il gioco dell’oca dei migranti tra Italia e Grecia, un pezzo della catena dei respingimenti che avvengono lungo la rotta balcanica in cui è pienamente coinvolta anche l’Italia. Accade lungo la frontiera adriatica: anche nel porto di Venezia, dove i migranti rintracciati, poi, impiegano 32 ore per ritornare scortati in Grecia. Quattro giorni di viaggio, andata e ritorno, per tornare indietro alla casella di partenza, a Patrasso, uno dei tanti buchi neri dove finisce l’idea di Europa. Al porto di Bari il gioco dell’oca termina e poi ancora ricomincia. È il luogo in cui un minore di 17 anni di origine afgana ha raccontato alla stessa Ong Name Kitchen: “Sono stato circondato da 6 o 7 poliziotti italiani che discutevano tra di loro su cosa avrebbero dovuto fare con me. Uno di loro ha detto che potevano portarmi in un campo profughi in campagna. Ma poi un altro ha detto no, riportalo in Grecia”. Era il 20 novembre del 2020. “Mi sono trovato di nuovo su una nave Superfast. Chiuso in una piccola stanza, simile a quella in cui ero stato rinchiuso soltanto dieci giorni prima. Perché era la seconda volta che venivo respinto in pochi giorni e in quel modo”. Un altro testimone ha rivelato ciò che gli è accaduto nel respingimento tra Italia e Grecia avvenuto tra il 7 e il 9 novembre del 2020. “In Italia hanno picchiato il mio amico. In Grecia, invece, siamo stati picchiati entrambi. La polizia greca mi ha colpito con un pugno, chiedendomi perché fossi andato in Italia, minacciandomi di riportarmi indietro in Turchia. Dopo questo interrogatorio subìto nel quartiere generale della polizia di Patrasso, il mio amico è stato rilasciato. Io ho trascorso la notte in cella, ma alle ore 10 del 9 novembre mi hanno detto che potevo andare e mi hanno dato indietro i vestiti che mi avevano sequestrato”. Stessa sorte e stesso giorno, il 7 novembre del 2020, identico porto (di Bari) e destino (respingimento) quello condiviso da un altro giovane proveniente dall’Afghanistan, che ha riferito alla Ong No Name Kitchen: “Quando sono entrati nel camion al porto di Bari, i poliziotti italiani mi hanno svegliato gettandomi l’acqua in faccia. Poi mi hanno tolto le scarpe per vedere se nascondessi qualcosa all’interno. E mi hanno detto: vuoi andare in Germania o a Parigi? Ti aiuteremo, nessun problema, siediti. Invece mi hanno ammanettato e riportato sulla barca, chiudendomi in una stanza. Ho dormito sul pavimento e dopo circa una decina di ore di viaggio ho trovato alcuni agenti greci, molto violenti, con le mani e anche con le parole, che mi hanno dato il benvenuto a Patrasso, il porto da cui ero partito”. Il caso delle riammissioni collettive dei richiedenti asilo disposte lo scorso 23 maggio dal porto di Bari è approdato alla Camera, dove il deputato di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, ha chiesto spiegazioni sul comportamento della polizia alla ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese. Fratoianni ha posto l’accento, in particolare, sul fatto che le riammissioni avvengono informalmente, senza un provvedimento scritto e senza alcuna possibilità che la persona possa presentare un ricorso giurisdizionale. Lamorgese ha negato che ci siano stati abusi e violenze da parte della polizia al porto di Bari. Ha riferito che “le persone in questione sono state soccorse e rifocillate e che nessuno di loro ha espresso la volontà di chiedere asilo in Italia, bensì hanno dichiarato di voler andare in Germania o in Svizzera”. La ministra dell’Interno ha difeso gli accordi di riammissione “voluti dalla Commissione Europea per contrastare i movimenti secondari”. Palestina. Nizar Banat, una morte pesante come una montagna di Luisa Morgantini* Il Manifesto, 29 giugno 2021 Ci auguriamo che la sollevazione popolare e l’indignazione contro questo crimine possa portare ad un cambiamento dei metodi usati dalle Forze di Sicurezza Preventive e del Mukhabarat Palestinese. È un dolore ed una ferita profonda per tutto il popolo palestinese, l’assassinio da parte delle Forze di Sicurezza Palestinese, di Nizar Banat, militante e attivista indomito per la libertà del Villaggio di Dura. Un dolore ed una ferita profonda per tutti noi e per me che conoscevo Nizar da molti anni, sono stata ospite della sua famiglia, nel suo villaggio ed abbiamo, varie volte manifestato insieme ad Hebron nella campagna Open Shuhada Street. AssoPacePalestina porge alla famiglia di Nizar e ai palestinesi tutti le più sentite condoglianze, con l’impegno di continuare ad esigere con Nizar il rinnovamento, la trasparenza, la democrazia e la partecipazione popolare per liberarsi dall’occupazione, dalla colonizzazione e dall’apartheid israeliana. Ci auguriamo che la sollevazione popolare e l’indignazione contro questo crimine possa portare ad un cambiamento dei metodi usati dalle Forze di Sicurezza Preventive e del Mukhabarat Palestinese, non è possibile che per un “reato d’opinione” si faccia incursione nelle case nelle prime ore del mattino, si facciano saltare porte con ordigni, si terrorizzi la famiglia e si uccida di botte una persona. Certo succede anche in Italia che si muoia durante gli interrogatori o gli arresti fatti dalla polizia, quest’anno in Italia, ricorderemo i 20 anni dal massacro di Genova compiuto dalla nostra polizia contro inermi manifestanti. Ci auguriamo che l’Anp, il Presidente, il primo Ministro e il Capo del General Intelligence Service (GIS) si assumano la responsabilità di questo tragico evento, cessando ogni tipo di intimidazione e repressione verso chi esprime critiche alla leadership palestinese o manifesta pacificamente subendo gli attacchi e gli arresti, non solo dei servizi di sicurezza in divisa, ma anche da individui in abiti civili. Per onore della franchezza, dobbiamo dire che ci stupisce che Hamas si faccia paladino della libertà nella Cisgiordania, visto che a Gaza dove ha preso il potere, pratica la pena di morte ed in questi anni ha ucciso e incarcerato molti militanti e attivisti. Fratelli che uccidono fratelli. Ci auguriamo, ed abbiamo la speranza, che il popolo palestinese sappia trovare l’unità, non perdendosi in reciproci discrediti o accuse, non cercando in Fatah il facile capro espiatorio ma mettendo in discussione tutta la rappresentanza dei partiti e perché no anche dei movimenti, ed invece di delegare la ricerca dell’unità solo alle vecchie rappresentanze formi una commissione di riconciliazione che possa trovare una mediazione e soluzione alle divisioni così profonde che indeboliscono tutti i palestinesi, nei territori occupati, in Israele e nella diaspora. Confidiamo anche in nuove elezioni nelle quali la popolazione palestinese possa liberamente scegliere le proprie rappresentanze capaci di essere il rinnovamento necessario per la costruzione di un paese che sappia riconciliarsi e raggiungere la libertà. Noi di AssoPacePalestina ci sentiamo responsabili, in quanto italiani ed europei, della iniquità della politica del nostro governo e dell’Unione Europea, che permette ad Israele di essere totalmente impunita per le violazioni continue dei diritti del popolo palestinese. Per questo, continueremo, insieme a tutti quelli che hanno amore per un mondo giusto ed umano ad agire per la libertà e autodeterminazione del popolo palestinese. *Già Vicepresidente del Parlamento Europeo, Presidente AssoPacePalestina Germania. Sconto di pena per i profughi siriani se tornano in patria di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 29 giugno 2021 Sarebbero circa 50 i potenziali candidati attualmente detenuti nelle carceri tedesche. La Spd protesta: “La Siria è ancora devastata da una feroce guerra civile: eventuali migranti respinti lì sarebbero esposti a rischi enormi per la propria vita”. Una proposta del ministero dell’Interno tedesco ha suscitato un’ondata di indignazione e sta spaccando il governo Merkel. Il sottosegretario Helmut Teichmann ha rivelato che il ministero guidato da Horst Seehofer (Csu) starebbe pensando di “offrire ai siriani che sono attualmente in carcere uno sconto della pena se lasciano la Germania” per tornare in patria. Sarebbero circa 50 i potenziali candidati attualmente detenuti nelle carceri tedesche. E dal 2020 gli uomini dell’ex governatore della Baviera starebbero anche riflettendo su come respingere obbligatoriamente criminali, sospetti terroristi o migranti che hanno dichiarato un’identità falsa “nelle aree della Siria non controllate dall’esercito siriano”. Il prerequisito, ha aggiunto, è che “i procuratori diano l’assenso”. Una proposta che ha prevedibilmente sollevato polemiche, anzitutto nella Grande coalizione. Il vicecapogruppo della Spd, Dirk Wiese, ha ricordato al ministro che “la Siria è ancora devastata da una feroce guerra civile: eventuali migranti respinti lì sarebbero esposti a rischi enormi per la propria vita”. Anche dall’opposizione arrivano critiche dure. Ulla Jelpke, responsabile delle politiche migratorie della Linke, parla di una “proposta cinica dai presupposti legali discutibili”. I liberali non sono contrari, anzi, sostengono che “criminali e persone pericolose dovrebbero essere respinte”, come sottolinea il vicecapogruppo Stephan Domae. Ma anche la Fdp nutre dubbi sulla fattibilità legale di una misura del genere. L’ultradestra Afd sostiene invece che sia stato “insufficiente decidere una sospensione del divieto dei respingimenti in Siria”. Per il responsabile delle politiche interne dell’Afd Gottfried Curio “è tempo di essere onesti e di riprendere i rapporti con il governo siriano”. Aver interrotto le relazioni con il sanguinario dittatore siriano Bashar Assad è stato un errore “contrario all’interesse della Germania”, secondo l’esponente della destra radicale tedesca. Al di là delle polemiche, secondo dati del ministero dell’Interno, 347 siriani hanno già accettato un incentivo finanziario per tornare volontariamente in Siria. L’anno scorso, nonostante la pandemia, sono stati 83 siriani a tornare in patria, nei primi cinque mesi di quest’anno 42. Iran. Diari dal carcere: “Temo che non resterò in vita” di Sepideh Gholian Corriere della Sera, 29 giugno 2021 L’attivista iraniana Sepideh Gholian era stata arrestata alla protesta sindacale. Nel suo racconto dalla cella le torture, le confessioni forzate e la solidarietà. I diari di Sepideh usciranno in Italia per iniziativa del festival Vicino/lontano e delle Librerie in Comune di Udine, con il patrocinio di Amnesty International. Ci picchiano da mezzogiorno alle 10 di sera. Temo che non resterò in vita. Dire che sono terrorizzata non basta davvero a esprimere ciò che provo. Sento qualcosa di caldo fuoriuscire dal mio corpo. Resto completamente muta, persino quando mi picchiano non riesco neppure a gemere. Sono certa che uccideranno Esmail e che questa oscurità non avrà mai fine (Esmail Bakhshi è un sindacalista della raffineria Haft Tappeh, imprigionato e torturato per il suo ruolo nella mobilitazione del 2018, ndr). Viaggiamo su una strada che sembra in salita, dopo un po’ la macchina si ferma. Dalle voci attorno a me capisco che hanno buttato a terra Esmail e lo stanno trascinando via. È morto? Sono morta, io? D’improvviso riattaccano dalla mia parte e mi colpiscono nuovamente. Scendo dalla macchina. Mi accusano: “Hai insudiciato l’auto con il tuo sangue”. Poi, tirando un pezzo di cartone che mi mettono in mano mi dirigono da un’altra parte. Sono bendata e non posso vedere bene dove vado. So solo che mi guidano per un declivio fino a una stanza. Sto tremando, e imploro che mi lascino vedere una guardia donna, ma in risposta mi urlano: “Una donna, e perché? Qui dentro ci muori”. Sono circondata solo da voci maschili, e questo mi fa tremare ancora di più. Mi portano da qualche parte, ignoro dove. Mi danno un cambio di vestiti, “Va’ dentro e cambiati i vestiti”. È una vecchia e sporca uniforme blu scuro, così grande che sono costretta a tenere su i pantaloni con la mano. La mia perdita di sangue è molto intensa. È da stamattina che mi stanno insultando. Ho paura di chiedere degli assorbenti. Ho paura di essere insultata e picchiata di nuovo. La guardia mi spinge avanti reggendo il pezzo di cartone, che chiamano il “bastone”. Il bastone mi mette paura, non so perché. Mi spingono in un angolo. “Resta qui qualche minuto finché la tua cella non è pronta. E intanto, non parlare con le altre donne nelle celle!”. Mio Dio! Allora alla fine vedrò un’altra donna? Entro nella cella. Il mio corpo è coperto di lividi. Arranco faticosamente, la porta della cella si chiude alle mie spalle. Alzo la mia benda e vedo una donna con la stessa uniforme, il velo e la benda sollevata dagli occhi. Una coperta le copre la parte inferiore del corpo. Dopo dieci ore di torture e di terrore, non appena la vedo sento come se tutto fosse passato. La abbraccio e, senza farci domande, singhiozziamo una nelle braccia dell’altra. Chiede il mio nome. “Goli… No, Sepideh” rispondo. Piangiamo ancora. “Hanno ucciso Esmail” dico. Invece di chiedere chi è Esmail, mi accarezza la testa e dice: “Stanno uccidendo tutta la mia famiglia”. Le chiedo il suo nome. Risponde: “Mi chiamo Makieh… Makieh Nisi. Sono qui da ventun giorni”. Makieh capisce che mi fanno male testa e collo. Mi massaggia il collo e mi chiede: “Perché sei qui?” “Perché ero alla protesta sindacale. Tu perché sei qui?” “Non ti spaventi se te lo dico?” “No, dimmelo”. “Ci accusano di essere membri dell’Isis. Non sei spaventata?” “Perché dovrei essere spaventata? Oggi l’ho visto, l’Isis. Sono loro l’Isis, non tu”. Improvvisamente un carceriere apre la porta. (...) Mi porta nella cella accanto. Prima di rinchiudermi dentro, mi dice: “Domani informerò il tuo interrogatore che quelli dell’Isis ti hanno sedotta”. Yemen. 300 rapiti morti sotto tortura nelle carceri Houthi expartibus.it, 29 giugno 2021 Il Ministero dei diritti umani yemenita denuncia che sono stati uccisi sotto tortura nelle carceri della milizia, mentre più di 1.450 tra rapiti e prigionieri sono stati torturati. Una statistica yemenita ha rivelato cifre scioccanti sul numero di persone morte a causa delle torture all’interno delle carceri della milizia Houthi, braccio armato dell’Iran nello Yemen. Il Ministero yemenita dei diritti umani ha riferito che più di 300 uomini rapiti dal gruppo sono stati uccisi sotto tortura nelle carceri della milizia Houthi, mentre più di 1.450 tra rapiti e prigionieri sono stati torturati. Il Sottosegretario al Ministero dei Diritti Umani e membro del team governativo del Comitato sui prigionieri, i rapiti e gli scomparsi forzati, Majed Fadhil, ha confermato che più di 1.450 rapiti e prigionieri sono stati sottoposti a gravi torture fisiche e psicologiche nelle carceri di Houthi, e molti sono ancora sottoposti a vari tipi di tortura in queste carceri. Il funzionario yemenita, in un tweet in occasione della Giornata internazionale a sostegno delle vittime della tortura, che cade il 26 giugno, ha ricordato le vittime dei miliziani Houthi. In questo contesto, la Yemeni Coalition to Monitor Human Rights Violations, Rasd Coalition, ha rivelato di aver documentato più di 1.600 casi di rapiti che sono stati sottoposti a vari tipi di torture fisiche e psicologiche e trattamenti crudeli all’interno delle carceri della milizia golpista Houthi, durante i sei anni precedenti. In una statistica in occasione della Giornata internazionale a sostegno delle vittime della tortura, il funzionario dell’Unità di monitoraggio e documentazione della Coalizione Rassd, Riyadh Al-Dabai, ha affermato che la Coalizione ha documentato 1.635 rapiti che sono stati sottoposti a vari tipi di torture all’interno delle carceri di Houthi durante i sei anni precedenti, tra cui 109 bambini, 33 donne e 78 anziani, distribuiti in 17 governatorati yemeniti.