Cartabia a Ventotene: “La pena rieduchi” di Luca Liverani Avvenire, 27 giugno 2021 È la prima volta di un ministro della Giustizia a Ventotene. Marta Cartabia arriva in elicottero in questa isola pontina, tanto piccola quanto carica di storia antica e moderna, culla del pensiero europeista di Altero Spinelli, Rossi e Colorni. E lo fa per annunciare l’istituzione di un Centro di ricerca su diritto penitenziario e Costituzione, voluto dall’ateneo di Roma Tre, con sede d’onore proprio a Ventotene. Un’iniziativa che trova spazio nel grande progetto di recupero e rilancio del carcere borbonico di Santo Stefano, isolotto prospiciente Ventotene, avviato da due anni con la nomina di un Commissario straordinario di governo, Silvia Costa, alla guida della complessa opera di recupero del penitenziario, che nel 2025 diventerà il “Campus d’Europa”. Diritto penitenziario e Costituzione, dunque. E dove, se non tra Santo Stefano - sede del carcere di patrioti e antifascisti - e Ventotene - colonia confinale per Pertini, Scoccimarra, Terracini e per gli autori del Manifesto di Ventotene? Faro della ricerca su carcere e Costituzione sarà l’esperienza di Eugenio Perucatti, uomo di grande fede e direttore illuminato proprio del carcere di Santo Stefano tra gli anni 50 e 60. E autore del volume appena rieditato “Perché la pena dell’ergastolo deve essere attenuata”, presentato nel convegno a Ventotene che ha visto come ospite Marta Cartabia. Assieme a Lucia e Gennaro Perucatti, due dei dieci figli del direttore illuminato. L’articolo 27 sul fine riabilitativo della pena, dunque, è la bussola di Perucatti, dice la ministra della Giustizia: “La ricchezza dell’articolo 27 all’epoca non ebbe un’immediata applicazione, ma neppure un’accoglienza unanime tra studiosi e funzionari. La parola pena di morte d’altronde - ricorda Cartabia- è stata definitivamente cancellata dalla Costituzione solo nel 2007 per reati militari”. E l’articolo 27 “non è in contrasto con le esigenze di sicurezza, ma è orientato alla sicurezza che la società si attende”. La ministra previene le obiezioni giustizialiste: “Avverto una certa confusione per cui il senso di umanità richiesto dalla Costituzione nel trattamento penitenziario è confuso col buonismo. Ma l’articolo 27 nasce da una profonda conoscenza esperienziale dell’uomo” e nel suo possibile cambiamento. Cartabia cita Luigi Settembrini, uno dei tanti ospiti di Santo Stefano: “Ogni pena che non ha per suo scopo la correzione del colpevole e la riparazione alla società da lui offesa non è pena, ma cieca e spietata vendetta che offende Dio e l’umanità. La pena sia dura ma senza sdegno, abbia un fine e una speranza”. Parole - nota Cartabia - scritte nel 1852, un secolo prima dell’arrivo di Perucatti che si impegnerà per il rinnovamento della struttura e il lavoro degli ergastolani. L’articolo 27 darà i suoi frutti gradualmente, con la riforma penitenziaria del ‘72, la legge Gozzini, l’evoluzione della Corte costituzionale che nel ‘74 ha escluso l’incompatibilità dell’ergastolo con la Costituzione proprio per la possibilità di un accesso a liberazioni condizionate”. Il Direttore di Roma Tre, Luca Pietromarchi, spiega il percorso della nascita del Centro di ricerca grazie all’accordo tra Roma Tre con la Commissaria straordinaria e il comune di Ventotene. R prorettore Marco Ruotolo annuncia il primo impegno scientifico: “A inizio del 2022 discuteremo i primi esiti di uno studio scientifico sulla recidiva, per dimostrare che le pene alternative possono essere davvero strumento per la rieducazione e l’esigenza di sicurezza”. Cesare Battisti trasferito da Rossano a Ferrara di Valentina Stella Il Dubbio, 27 giugno 2021 L’onorevole Bruno Bossio commenta così a caldo la notizia: “Sono soddisfatta di questo trasferimento ma mi auguro che adesso a Ferrara possa vivere una detenzione dignitosa, in un regime ordinario. Se così non fosse mi impegnerò a conoscere le motivazioni di un’assegnazione diversa da quella del regime ordinario”. Cesare Battisti è stato trasferito dal carcere di Rossano a quello di Ferrara. Lo fa sapere il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe). “Cesare Battisti - afferma Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto Sappe - probabilmente anche grazie al sostegno politico ricevuto, è stato trasferito dal carcere di Rossano, istituto a lui non gradito, a quello di Ferrara. Ricordiamo che tra gli omicidi commessi da Battisti vi è anche quello del maresciallo Santoro, allora comandante del carcere di Udine. Speriamo che adesso sconti la pena prevista, cioè l’ergastolo, considerato che per tanti anni si è sottratto alla giustizia e che per i familiari delle vittime ci sia il giusto risarcimento”. L’uomo, come vi avevamo raccontato proprio ieri a seguito di un incontro che ha avuto con la deputata dem Enza Bruno Bossio, era in sciopero della fame dal 2 giugno per protestare contro le sue condizioni di detenzione e per non conoscere i motivi della sua assegnazione nel reparto Alta Sicurezza 2 del carcere calabrese di Rossano, dove di fatto era in una condizione di isolamento, essendo tutti gli altri detenuti dei jihadisti. L’onorevole Bruno Bossio commenta così a caldo la notizia: L’onorevole Bruno Bossio commenta così a caldo la notizia: “Sono soddisfatta di questo trasferimento ma mi auguro che adesso a Ferrara possa vivere una detenzione dignitosa, in un regime ordinario. Se così non fosse mi impegnerò a conoscere le motivazioni di un’assegnazione diversa da quella del regime ordinario”. Invece lo storico avvocato di Cesare Battisti, Davide Steccanella, ci dice: “Mi dispiace che sia stato necessario ridursi allo stremo fisico per il rispetto di un minimale diritto, ringrazio come cittadino e non come avvocato di Battisti Mattia Feltri per il coraggioso articolo che ha rotto un silenzio imbarazzante contro una palese ingiustizia nel silenzio dei tanti ‘sdegnati democratici’ a parole del nostro paese e l’onorevole Bruno Bossio per il suo impegno e mi rattrista leggere che la notizia del trasferimento di un detenuto in sciopero della fame da molti giorni venga data all’Ansa dal sindacato di polizia penitenziaria prima ancora della famiglia a riprova che in Italia la strada per arrivare a una vera democrazia rispettosa delle garanzie costituzionali è ancora lunga”. Battisti era stato finora ristretto in una sezione Alta sicurezza 2 presso l’Istituto di Rossano, sezione popolata - oltre che da italiani - da molti detenuti islamici. Fino a questo momento, nonostante lo stesso Battisti avesse esposto preoccupazioni per la sua sicurezza proprio a causa della presenza di islamici, la sua collocazione era stata ritenuta del tutto sicura, anche alla luce dei pareri espressi dalle Procure competenti. Nell’ultimo periodo - anche in conseguenza delle espressioni di Battisti sulla presenza degli islamici e delle sue doglianze riprese da vari organi di stampa - si era creato in sezione un clima di possibile contrapposizione e tensione che, sfociato anche in alcuni episodi specifici, ha indotto a rivedere - anche in questo caso sulla base di pareri emessi dall’A.g. - la sua collocazione. Il trasferimento rientra anche in una più generale riorganizzazione del circuito alta sicurezza a livello nazionale, nei mesi scorsi ostacolata dal perversare della pandemia e dalle conseguenti limitazioni ai trasferimenti. Nel nuovo istituto Battisti sarà sottoposto al medesimo circuito penitenziario, quello dell’alta sicurezza. La maggiore presenza di detenuti italiani attenuerà la possibile contrapposizione e creerà anche maggiori occasioni di possibile socialità. Battisti non è stato declassificato, cioè “retrocesso” al circuito dei detenuti “comuni” (media sicurezza): questa procedura prevede - oltre all’istanza della direzione (anche a richiesta del detenuto) - il parere del Gruppo di osservazione e trattamento dell’istituto penitenziario, che valuta essenzialmente l’adesione del detenuto al percorso di rieducazione nel corso del tempo. Se questo primo parere è favorevole, vengono chiesti ulteriori pareri alle Procure competenti, dopo di che il Dap decide sulla declassificazione. Nel caso di Battisti, il percorso si era interrotto già al primo passaggio, considerando l’esiguo lasso temporale trascorso in detenzione dallo stesso e l’atteggiamento serbato finora nel corso della detenzione. Per una giustizia che sia volta a riparare di Marta Cartabia* Il Sole 24 Ore, 27 giugno 2021 “Questo consesso io istituisco, intatto da lucro, venerando, severo. Dopo aver scelto i migliori dei miei cittadini”. È l’energia di reiterazione dei testi classici a portarmi ancora una volta qui, all’acme delle Eumenidi di Eschilo. E qui ritrovo quel sostrato immutabile delle umane società, di cui parla Nicole Loraux. Più volte mi sono confrontata con l’Orestea, a cominciare da una prolusione per l’Università Roma-Tre. E ora, che da ministra della giustizia mi accingo ad assistere alla messa in scena al teatro di Siracusa delle Eumenidi, pur nella distanza del tragico, tre temi, più di tutti, ritrovo del nostro tempo: la rilevanza pubblica della violenza domestica; l’effetto distruttivo di ogni spirito vendicativo; il cambio di paradigma nella giustizia, dovuto al prevalere della ragione, del logos. A conclusione della catena di violenze che ha travolto la famiglia degli Atridi e la stessa città di Argo, Atena segna un passaggio di civiltà interrompendo la catena sanguinosa e distruttiva delle vendette, con l’istituzione dell’Aeropago, il primo tribunale, “consesso venerando, severo”, composto dai “migliori dei miei cittadini”. Oreste, l’imputato, è reo confesso. Ha ucciso la madre Clitemnestra. Ma il caso è più complesso di quanto appaia a prima vista e la dea della sapienza, nata dalla testa di Zeus, non arroga a sé la facoltà di giudicare Oreste, ma nomina un collegio di dodici cittadini e lo presiede. Al termine del processo sarà il voto di Atena a determinare l’assoluzione dell’imputato, non come atto di grazia, ma come intervento necessario a stabilire un nuovo ordine. È l’affermazione del logos che prevale sull’istinto vendicativo. Una svolta che Eschilo mette in scena, contrapponendo i mugugni delle Erinni - esseri informi e abominevoli - al processo argomentato e dialogico celebrato davanti ai migliori cittadini che compongono il Tribunale, presieduto dalla dea della ragione. Una svolta maturata con il travaglio di un’evoluzione, non calata dall’alto con un deus ex machina. Un esodo Handlungsschluss, secondo la classificazione dello studioso Gerd Kremer, che la contrappone a Ecceschluss. Un esodo che alla fine celebra il trionfo di Zeus agoraios, “patrono della parola”. Mentre compone i suoi versi, Eschilo non si schiera sulle riforme del suo tempo, portate avanti da Efialte nel 462: la sua preoccupazione è solo scongiurare la stasis, la divisione della città, la guerra civile “che mai di mali è sazia” e che reca sempre un esito tragico. In ogni vicenda giudiziaria c’è sempre una dimensione pubblica: non è mai una questione meramente privata, nemmeno quando riguarda il più stretto ambito domestico e familiare. Un reato non è mai solo una storia privata, di vittima e carnefice, riguarda sempre l’intera comunità, che a conclusione della trilogia riceverà “un istituto di giustizia che resterà saldo per sempre”. Nasce così il processo davanti a un tribunale e l’affermazione della parola, dell’uso della ragione e del dia-logos diventa la più importante “delle mutazioni del diritto che mette in scena l’Orestea”, secondo Frangois Ost. Se la giustizia delle Erinni è muta e sorda, incapace a dirsi, prigioniera del risentimento e dell’istinto vendicativo, intessuta di giuramenti e maledizioni, la nuova giustizia di Atena è basata sull’argomentare, sul ragionare, sul parlare. E non è difficile ritrovare l’eredità di quell’iniziale istituzione umana nei riti del nostro processo. Prima all’accusa il compito di “spiegare con esattezza il fatto”, poi un incalzare di domande, quindi entra in scena il difensore, Apollo. Una difesa che non negai fatti, ma invita a comprenderne le ragioni (vv. 614 - 621). In questo primo, mitologico, dibattimento ci sono già i fondamenti del giusto processo. E c’è un collegio che innanzitutto è nella posizione di ascolto, prima tra le virtù richieste a ogni giudice di ogni tempo. Occorre sempre, direbbe Paul Ricoeur, “una parola di giustizia”. Una parola che si esprime nel processo. Giustizia e parola non possono procedere disgiunte: il giudice è chiamato a rendere ragione delle decisioni con la motivazione. La sentenza non conclude però nelle Eumenidi il compito di Atena. Le Erinni reagiscono con rabbia all’assoluzione di Oreste, minacciano distruzione: lo spirito vendicativo non è sazio, non accetta un atto di ragione che veda e proceda oltre la cieca reattività. A lungo la dea della Sapienza dialoga con le Erinni, per cercare di placarne il risentimento. Ed è qui che si esplicita l’ulteriore trasformazione della giustizia. Come la giustizia vendicativa delle Erinni alimenta lo spettro di un dissidio irrimediabile distruttivo dell’interapolis, così la potenza della persuasione di Atena trasforma il loro inamovibile lamento in forza benefattrice per la comunità. Nelle Eumenidi, la trasformazione dell’antica giustizia si realizza in un superamento - Aufhebung - che conserva, senza liquidare. Tanto che Atena riserva alle antiche Erinni un posto in città. “Anche le operazioni più civilizzate della giustizia, in particolare nella sfera penale - scrive Ricoeur - mantengono ancora il segno visibile di quella violenza originale che è la vendetta”. Anche nelle civiltà contemporanee la giustizia è inevitabilmente espressione di forza, sia pur necessaria per fini costituzionalmente rilevanti: l’ordine, la sicurezza, la convivenza sociale, la prevenzione del crimine, la sanzione per chi si è reso colpevole. E per realizzarsi, la legge “prende qualcosa in prestito - osserva Ost - dalla violenza che intende combattere”. Ma la nuova giustizia delle Eumenidi non è più l’occhio per occhio, dente per dente. Somiglia piuttosto alla “vendetta gentile” di cui scrive Albie Sachs nel Sudafrica degli anni Novanta. Sachs, avvocato delle vittime dell’apartheid e futuro giudice della Corte costituzionale sudafricana, si trova in una stanza d’ospedale, colpito da un attentato in cui ha appena perso un braccio e un occhio, quando un amico gli si avvicina per sussurrargli: “Non preoccuparti, Albie, ti vendicheremo”. È lì che il giudice Sachs matura la sua idea di giustizia: “Mi vendicherete? Pensai. Andremo in giro a mozzare braccia alla gente? Ad accecare un occhio a chi mi ha accecato? È questo ciò per cui combattiamo? Un Sudafrica pieno di gente senza braccia e senza occhi? Se avremo libertà, democrazia, lo Stato di diritto: ecco allora - ammonì in una memorabile pagina - io sarò vendicato”. È lo stesso impeto che indusse Liliana Segre, mentre detenuta nel campo Malchow, a non raccogliere la pistola del suo carceriere nazista in fuga dall’Armata Rossa “Da quel momento - racconta la senatrice a vita - sono diventata quella donna libera e di pace che sono anche adesso”. “Prevalse Zeus - conclude Eschilo - che protegge chi parla”. *Ministra della Giustizia Zagrebelsky: “Riformare la giustizia senza tante storture. Basta tentennamenti” di Silvia Truzzi Il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2021 “La Giustizia come professione” è il titolo dell’ultimo libro di Gustavo Zagrebelsky. Avrebbe potuto essere anche “Confessioni di un giurista”: il saggio è una guida ragionata attorno al diritto come traduzione mondana di una virtù morale, la giustizia. Ma è anche una lunga lettera d’amore al mestiere di giurista, non priva d’amarezze come accade sempre nei rapporti duraturi. O forse una lettera d’addio al diritto? Non ho una risposta sicura. Dopo più di mezzo secolo nel mondo del diritto sento l’esigenza di respirare anche altre atmosfere. Soprattutto visto come viene concepito oggi il mestiere del diritto: una girandola di commi, contro-commi e combinati disposti. Una severa critica è riservata al diritto come tecnica, cioè all’uso strumentale che professionisti, più o meno consenzienti, fanno del diritto. Il diritto non è più mite? In buona parte ha cessato di essere cultura, ed è per l’appunto diventato tecnica. Quando si ha a che fare solo con la tecnica (i giuristi di oggi amano parlare di ragionamenti “tecnico-giuridici”) il diritto diventa ciò di cui scrive il Manzoni quando l’avvocato dice al povero Renzo: “Figliuolo a te spetta di dire le cose come stanno, a me di ingarbugliarle”. La riprova sta nel fatto che il diritto in tutti i suoi settori è diventato non un fine, ma un mezzo per sostenere quasi tutto quel che si vuole o che interessa. Perché rivolgersi all’autorità giudiziaria “è già un fallimento”? Perché significa l’incapacità di risolvere le controversie di cui la vita è ricca in un rapporto a tu per tu. Nel Vangelo di Matteo un versetto dice: “Prima di andare dal giudice mettiti d’accordo con il tuo avversario”. In altri termini: il ricorso al giudice, in una società sana, è da considerare l’extrema ratio. Mentre nella nostra società, che da questo punto di vista sana non è, in presenza di qualsiasi contrasto si va per avvocati. Questa è una disumanizzazione. Lei scrive: “La prescrizione è una norma di civiltà. Ma si può ammettere che sia usata per vanificare il processo? Difendersi non vuol dire vanificare”. Perché è un nodo politico così centrale? Due considerazioni. La prescrizione dei reati che sono lontani nel tempo è una esigenza di civiltà. Diversa è la prescrizione che si determina non perché il reato è sepolto nel tempo, ma perché la macchina della giustizia è inefficiente. Ora l’inefficienza si combatte con l’efficienza. La prescrizione che deriva dall’inefficienza, in linea di principio, non dovrebbe essere assunta come ragione per non perseguire reati che non sono sepolti nell’oblio. Una cosa è la prescrizione sostanziale, necessaria; un’altra cosa è la prescrizione processuale, dovuta all’inefficienza del processo. E la seconda considerazione? La prescrizione sostanziale è un’esigenza di giustizia, la prescrizione processuale è una sconfitta della giustizia. Non solo: è diventata uno strumento di abuso del diritto quando viene utilizzata - con tutte le tecniche, i cavilli e gli artifici dalle difese degli imputati - per impedire che si faccia giustizia. Impedire alla giustizia di fare il suo corso non è una cosa buona. Gli avvocati che abusano della prescrizione saranno magari dei bravi legulei nell’interesse dei clienti, ma non sono dei buoni cittadini. Lo stesso dicasi per il legislatore. Con gli avvocati non è, manzonianamente, tenero. In un passaggio parla degli studi legali come aziende: la giustizia è un brand? È inevitabile, in un mondo del diritto così complesso, che la figura dell’avvocato solitario che si occupa di tutto sia oggi recessiva e che sia stata sostituita dai grandi studi associati che operano spesso su tante piazze, nazionali e internazionali, e che offrono servizi omnicomprensivi, “chiavi in mano”. Tra questi studi si sviluppano tecniche concorrenziali per affermarsi sul mercato. La vecchia e nobile idea dell’avvocato libero professionista è oggi manifestamente in crisi. Della categoria dei giudici, lei elabora una tipizzazione: il politico, l’empatico, il redentore, il vendicatore. Perché? Guardi, i giudici hanno a che fare con la giustizia. E la giustizia è una dimensione dell’animo umano che si nutre di tanta materia morale. Per quanto si voglia che il diritto sia indipendente da valutazioni morali, la tentazione è sempre sull’uscio. Ma naturalmente si tratta di tentazioni e il buon giudice sa quando deve resistere. Cosa non sempre facile. Questo è uno dei nodi che rendono tanto difficile la professione del giudice. Riserva parole molto lusinghiere all’aggettivo politico, nel senso del perseguimento dell’interesse della polis, anche quando lo accosta all’amministrazione della giustizia. Eppure le tensioni tra politica e giustizia non accennano a diminuire... La politica e il diritto appartengo a due àmbiti della vita collettiva, distinti e inevitabilmente in tensione. La politica è il luogo del potere, il diritto è il luogo della giustizia. Contrariamente all’apparenza non è buona cosa se vanno d’amore e d’accordo, poiché ciò significherebbe o che la giustizia si è asservita alla politica oppure che la giustizia prevarica la politica. Ciò è particolarmente deplorevole in democrazia. Stiamo parlando, ma quando non accade?, di riforma della giustizia: vaste programme. È un’idea velleitaria? Non ci si può aspettare miracoli e si deve temere di fare peggio di quanto già non sia. Per esempio complicando ulteriormente le procedure che andrebbero semmai semplificate; oppure aumentando il numero dei componenti del Csm, fino a farne una sorta di grande Consiglio Comunale. Ecco, il Csm: ha un’idea di come si possa ridurre al minimo l’influenza delle correnti? Sì: nove componenti, sei togati e tre laici. Torniamo un momento alla riforma: si aspetta una svolta significativa? C’è una massima di Montesquieu che dice che le cattive abitudini non si combattono con le leggi, ma con le buone abitudini. A un concetto simile si richiama la ministra della Giustizia quando dice che la vera riforma deve provenire innanzitutto dalla parte sana - che è mio parere è quella di gran lunga più numerosa - del mondo giudiziario. All’inizio mi ha detto che non si occupa più di diritto: come passa le sue giornate? Mi occupo di cose che colpevolmente finora ho trascurato. E il tempo è scarso. A settembre uscirà un mio commento al Qohelet, che tratta di vita e morte. Attualmente sto lavorando a una riflessione sulla “lezione”: pensi che ho fatto lezioni per cinquant’anni e solo ora m’interrogo su cosa ha da essere una lezione. Separazione delle carriere, strada obbligata per restituire credibilità alla magistratura di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 27 giugno 2021 Giovedì a Roma in Piazza Cavour è accaduto che alla manifestazione dei penalisti italiani per il rilancio del percorso parlamentare della loro proposta di legge di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere in magistratura, sottoscritta da 75mila cittadini, si sono presentati i più autorevoli rappresentanti di tutte le forze politiche presenti in Parlamento, ad eccezione di M5S e Partito Democratico. Da Italia Viva (con Maria Elena Boschi) alla Lega (con Matteo Salvini), da Azione (con Carlo Calenda ed Enrico Costa) e + Europa (Riccardo Magi) fino ad una folta e qualificata rappresentanza di Fratelli D’Italia con il responsabile Giustizia Del Mastro ed il vice-Presidente della Commissione Giustizia del Senato Balboni (la cui leader Giorgia Meloni ha voluto far sapere che avrebbe personalmente partecipato, se non fosse stata all’estero). L’impegno unanime (quella proposta di legge va ri-calendarizzata) nasce da una convinzione esplicitata senza riserve: la separazione delle carriere è la strada obbligata verso una riforma della giustizia che restituisca credibilità alla giurisdizione ed alla magistratura italiana. Non credo sia azzardato trarre concreti auspici da questo importante evento politico. Quella riforma epocale si appresta sempre più concretamente a divenire il nuovo assetto, anche costituzionale, dell’ordinamento giudiziario nel nostro Paese. Difficile che possa accadere in questa legislatura, ma ancora più difficile che non accada con la prossima. La crisi della giurisdizione è crisi di credibilità del Giudice. Chiunque abbia a cuore la credibilità della giurisdizione, deve farsi carico di questo problema, ed innanzitutto comprenderlo nei suoi esatti termini. Il cittadino, ci dicono gli impietosi sondaggi, non ha fiducia nella indipendenza del Giudice. Il disvelamento delle dinamiche di organizzazione del potere giudiziario che la c.d. “vicenda Palamara” ha reso ben comprensibile a tutti, ha restituito ai cittadini l’idea che le logiche del giudizio penale seguano (ma anche solo: possono seguire), percorsi indipendenti dal rigoroso accertamento della verità dei fatti. Ciò in quanto si è avuta documentata contezza della commistione, indebita ed inconcepibile, tra inquirenti e giudicanti, che si concretizza nelle pieghe delle dinamiche correntizie e di potere che decidono carriere e, quando necessario, protezioni sul versante disciplinare. Una commistione che vede, per di più, l’assoluto protagonismo, prepotente e non contrastabile, dei magistrati inquirenti, cioè dei Pubblici Ministeri. La natura schiettamente politica dei titolari dell’azione penale, e la formidabile esposizione mediatica che l’accompagna, hanno non a caso consegnato da decenni ai magistrati del pubblico ministero (appena il 20% delle toghe) un potere immenso, dovuto al controllo assoluto della rappresentanza politica ed associativa della magistratura. Occorre dunque comprendere che i cittadini hanno ora ben chiaro quello che da sempre era noto solo agli addetti ai lavori, ma che fino a ieri poteva facilmente essere spacciato per la menzognera narrazione dei nemici della magistratura (oggi meglio definiti “impunitisti”): le Procure della Repubblica sono le vere protagoniste della giurisdizione, poiché sono in condizioni di esercitare un potere di condizionamento - correntizio, disciplinare, mediatico e carrieristico- in grado di attentare alla indipendenza del Giudice. Le recenti vicende di Verbania e di Milano rappresentano solo una eclatante esemplificazione di una realtà largamente diffusa nel Paese. Se si vuole restituire ai cittadini fiducia nella giurisdizione, occorre che la indipendenza del giudice (dalla Politica ma soprattutto dalla Pubblica Accusa) non resti affidata alle risorse morali o alla radicata ed orgogliosa sua formazione professionale, ma alla estraneità ordinamentale della magistratura giudicante rispetto a quella inquirente: concorsi diversi, carriere autonome, organismi di autogoverno separati. La manifestazione di giovedì ha confermato in modo inequivocabile quanta strada stia facendo questo convincimento. Solo il livoroso Fatto Quotidiano poteva mettersi a contare quanti fossero gli avvocati in quella assolata piazza, per conseguirne (Dio solo sa secondo quali parametri) che si è trattato di un “flop dei penalisti”. Non c’è nulla di più penoso della mancanza di senso del ridicolo. D’altronde, cosa vuoi aspettarti da chi è capace di sostenere, per dirne una tra mille, che Mario Draghi ha copiato il recovery plan da un civilista di Volturara Appula? Quell’appello struggente di Davigo al Salvini manettaro d’un tempo di Davide Varì Il Dubbio, 27 giugno 2021 L’ex magistrato del pool non si capacita della decisione del leader leghista di appoggiare i referendum radicali. Soprattutto quello sulla carcerazione preventiva. L’appello ha un tono drammatico, a tratti struggente. Il mittente è Piercamillo Davigo, l’ex magistrato più potente d’Italia caduto in disgrazia dopo il penoso caso Amara: quella strana fuga di notizie che ha terremotato la già instabile magistratura italiana. Ma questa è un’altra storia. Il destinatario, invece, è Matteo Salvini, l’ex Capitano che voleva buttare le chiavi delle patrie galere e che ora si ritrova al fianco dei radicali nella promozione dei referendum più garantisti della storia della Repubblica. E così, Davigo, dalle pagine del Fatto Quotidiano di Travaglio chiede al leader leghista di rinsavire… “Ma come - gli dice - non ti rendi conto che il referendum sulla carcerazione preventiva metterà a piede libero migliaia di immigrati irregolari?”. Il che, peraltro, la dice lunga sui motivi per cui le nostre carceri sono così sovraffollate: sono piene di poveri disgraziati colpevoli di fuggire da fame, guerra e povertà. Ma questo Davigo preferisce non dirlo. Fatto sta che l’ex magistrato del pool milanese non si rassegna e rivolge il suo appello al Salvini di un tempo, quello che fermava le navi cariche di migranti per giorni e giorni impedendo lo sbarco a bambini, donne e uomini fiaccati da giorni di navigazione su barconi clandestini pronti a colare a picco al minimo sbotto di mare; al Salvini del “marciscano in galera”, sentenziato dalla “bestia” social in occasione di ogni fattaccio di cronaca. Ma Matteo, ingrato, ormai è sulla nave radicale e non sente le suppliche del povero Davigo il quale appare come una sirena afona che prova a ricordare al vecchio amico di bisbocce i bei tempi andati, quando un paio di giorno di galera preventiva non si negavano a nessuno, neanche a un “presunto innocente”. L’idea bipartisan di un’antipiattaforma dei garantisti di Errico Novi Il Dubbio, 27 giugno 2021 Enrico Costa, l’ex viceministro poi responsabile Giustizia di FI e ora nell’Azione di Carlo Calenda, inventa un portale web, presuntoinnocente.com, che ha tutta l’aria di essere una piattaforma Rousseau alla rovescia. In principio fu Silvio Berlusconi. Il garantista era lui, e il suo imprinting si rivela, a una decade dall’ultima giornata del Cav a Palazzo Chigi, un infortunio fatale. Perché nell’immaginario italiano la politica garantista è stata indebitamente ridotta alle asserite campagne personalistiche di Berlusconi. In realtà l’ex premier ha prodotto anche riforme valide, nel campo della giustizia: dalla “Castelli”, la revisione dell’ordinamento giudiziario che tuttora regola la vita delle toghe, alla legge Pecorella sul divieto, per il pm, di ricorrere contro le assoluzioni, legge che fu cestinata dalla Consulta ma che viene ora riveduta e corretta dalla commissione Lattanzi. Fatto sta che dirsi garantisti, in politica, è quasi un’autoaccusa, come i giocatori di basket che alzano il braccio se fanno fallo. Adesso qualcosa è cambiato, per tanti motivi. E adesso la nouvelle vague garantista che tira in Parlamento e ha già prodotto vari risultati, come la ricezione della direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza, comincia a consolidarsi e addirittura a farsi “partito”, o almeno gruppo interpartitico, cordata trasversale. Chi altri poteva esserci se non Enrico Costa, l’ex viceministro poi responsabile Giustizia di FI e ora nell’Azione di Carlo Calenda. Costa è il campione di un instancabile lavoro ai fianchi dei giustizialisti. Ha animato più o meno tutte le battaglie già felicemente concluse in questo scorcio di governo Draghi, ora inventa un portale web, presuntoinnocente.com, che ha tutta l’aria di essere una piattaforma Rousseau alla rovescia, e lo fa con altri quattro parlamentari, Guido Crosetto (FdI), Roberto Giachetti (Iv), Giusi Bartolozzi (FI) e Gianni Pittella (Pd), e uno dei pochi protagonisti dell’informazione schierati dalla parte dei diritti, Alessandro Barbano. Stavolta la “piattaforma” non è il luogo dove coltivare piani politici anticasta ma il punto di partenza per restituire alla politica, attraverso il garantismo, la propria dignità. Vediamo. Ieri i 6 animatori dell’iniziativa hanno anticipato in una nota i contenuti della conferenza stampa in programma alla Camera per le 16 di lunedì: l’idea, spiegano, “nasce da persone di diverso orientamento politico e culturale, accomunate dallo stesso spirito e dalla medesima convinzione in principi affermati nella Costituzione, ma affievoliti nella realtà, quali la presunzione di innocenza, il diritto alla difesa, la certezza della pena e la ragionevole durata del processo”. Scopo del sito è “pubblicare informazioni, opinioni e soprattutto ospitare testimonianze di cittadini che raccontino la loro esperienza a contatto con la giustizia. Storie da cui possono nascere proposte, mobilitazioni e idee”. Ma è chiaro che un sito di giustizia prodotto da cinque deputati di altrettanti partiti diversi e da un grande giornalista è anche un’altra cosa: è un’alleanza per i diritti. Una promessa di cambiamento. Oggi i garantisti sono almeno apparentemente maggioranza. Costringono i 5 Stelle con le spalle al muro, tanto che il pacchetto di “emendamenti Cartabia” al ddl penale, con dentro l’addio alla prescrizione di Bonafede, andrà in Consiglio dei ministri, dove sarà certificata la maggiorana contraria al fine processo mai. Ma presuntoinnocente.com può essere qualcosa di più. “Il nostro obiettivo è far comprendere che i temi della giustizia non sono estranei alla vita quotidiana di ciascuno, ma rappresentano le regole fondamentali dello stare insieme”, è la promessa. Creare un intergruppo garantista che si dà anche una propria “antipiattaforma Rousseau” è un modo per dire che la politica deve recuperare i valori del garantismo e della presunzione d’innocenza come prioritari nella propria “costituency” e lo deve fare con forza, anche a costo di fronteggiare un’opinione pubblica spesso divergente. Lo deve fare per riaffermare il proprio primato anche sulla magistratura, superare la maledizione di Mani pulite, l’associazione indebita fra politica e malaffare. Deve insomma avere l’orgoglio di mettere fine a trent’anni di anticasta basata sul pregiudizio colpevolista. È un’operazione che, se espressa in tutto il suo potenziale, è in grado cambiare gli equilibri. Non fra i partiti, non è questa la pretesa: i 6 promotori dicono di voler lanciare “un appello alla politica e alla società civile ad aderire a questo percorso per far nascere insieme un grande movimento di opinione trasversale”, che “sia sganciato dalla convenienza quotidiana dei partiti”, appunto. Gli equilibri da cambiare sono quelli oggi sbilenchi fra politica e giornali, politica e magistratura: in ultima analisi, fra politica e sentire diffuso. Il ritorno dei partiti nel loro ruolo passa attraverso il garantismo: questo è sicuro. Come dice da qualche lustro Luciano Violante, sono i partiti che devono essere in grado di valutare se un’indagine può stroncare o no una carriera politica, e devono smetterla di affidare il compito ai magistrati. È l’approdo decisivo per ricostruire una vera democrazia in Italia. Non basterà certo un portale e 6 coraggiosi che si associano, ma se non si comincia mai si finisce. Baby gang sempre più giovani e violente. La mappa, i reati e il ruolo delle famiglie Di Andrea Priante Corriere del Veneto, 27 giugno 2021 Senza studi e lavoro cercano nel branco orgoglio e violenza. Secondo l’Osservatorio nazionale sull’adolescenza, il 6,5 per cento dei minorenni fa parte di una banda, il 16 per cento ha commesso atti vandalici, mentre tre ragazzi su dieci hanno partecipato a una rissa. Un fenomeno, quello delle baby-gang, che in Veneto ha subito un’escalation negli ultimi anni, con un’ulteriore impennata durante la pandemia. “Episodi che, spesso, sono figli del disagio causato dall’emergenza sanitaria nelle fasce più giovani della popolazione, con i ragazzi costretti per mesi a casa da scuola e da attività positive come lo sport” ha spiegato l’assessore alla Sicurezza di Verona, Marco Padovani. Secondo l’Osservatorio nazionale sull’adolescenza, il 6,5 per cento dei minorenni fa parte di una banda, il 16 per cento ha commesso atti vandalici, mentre tre ragazzi su dieci hanno partecipato a una rissa. Un fenomeno, quello delle baby-gang, che in Veneto ha subito un’escalation negli ultimi anni, con un’ulteriore impennata durante la pandemia. “Episodi che, spesso, sono figli del disagio causato dall’emergenza sanitaria nelle fasce più giovani della popolazione, con i ragazzi costretti per mesi a casa da scuola e da attività positive come lo sport” ha spiegato poche settimane fa l’assessore alla Sicurezza di Verona, Marco Padovani, intervenendo di fronte alla Commissione consiliare per la sicurezza. Nella città di Giulietta e Romeo si respira aria di emergenza, le bande giovanili imperversano nei quartieri a ridosso del centro ma anche nei paesini di periferia, spacciando droga, minacciando e rapinando coetanei. Al punto che la polizia locale ha dovuto correre ai ripari organizzando dei servizi mirati, che in quattro mesi hanno portato all’identificazione di 299 minorenni e decine di sequestri di sostanze stupefacenti. A Verona alcune “gang” ricordano quelle dei latinos, con tanto di segni distintivi, ad esempio indossano delle tute di una precisa griffe. Si sono perfino dati dei nomi: c’è la “QBR” - forse una contrazione di “Quei Bravi Ragazzi”, il leggendario film di mafia diretto da Martin Scorsese - dove militano prevalentemente giovani di seconda o terza generazione con le famiglie originarie dei Paesi dell’Est o dei Balcani; e c’è l’”USK”, un tributo alla cultura hip-hop, composto da africani di seconda o terza generazione. Anche il prefetto di Verona, Donato Cafagna, ai consiglieri comunali ha confermato che a influire è stata anche “la sospensione dell’attività scolastica in presenza e dei centri di aggregazione giovanili dove c’erano regole da rispettare”. Non è una buona notizia, ora che l’anno scolastico è finito. L’allarme più recente riguarda il lago di Garda, dove nei giorni scorsi un 23enne è annegato sotto gli occhi dei turisti: mentre intervenivano i soccorsi, una ventina di ragazzini si è scatenata sulla spiaggia. Non solo hanno rubato lo zaino della vittima ma hanno anche fatto sparire i portafogli dei villeggianti che stavano tentando di salvarlo. Hanno tra i 16 e i 20 anni e, in realtà, sono un esercito composto da “pendolari” del crimine. Lo conferma anche Giovanni Dal Cero, il sindaco di Castelnuovo: “Arrivano dalla Lombardia e si dirigono alla spiaggia libera che è ormai il loro territorio: minacciano i bagnanti, aizzano contro i cani e lanciano sabbia fino a quando la gente non va via. Nel fine settimana arrivano anche in trecento, si danno appuntamento in chat e poi tornano a casa con l’ultimo treno”. Prima di indagare il fenomeno, è bene darne una definizione precisa, considerato che spesso il termine è abusato o confuso con bullismo o disagio minorile. Per baby-gang si intende un gruppo composto da minorenni (anche di 11 o 12 anni) o da ragazzi poco più che diciottenni che si aggregano in un territorio preciso diventando “visibili” e venendo percepiti come causa di insicurezza per i loro comportamenti aggressivi. Spesso riescono a darsi un’organizzazione ben precisa. Un’inchiesta della squadra mobile di Venezia originata da una serie di aggressioni a negozianti bengalesi avvenute alcuni anni fa a Marghera, portò ad arresti e denunce di giovanissimi, quasi tutti italiani. Per mesi gli investigatori hanno studiato la banda, composta da una trentina di adolescenti tra i 12 e i 18 anni. Dalla relazione consegnata alla procura, si scopre che la “gang” aveva una struttura quasi militaresca: c’era il “sovrintendente”, che teneva d’occhio l’evolversi della situazione ed eventualmente dava l’allarme, e l’”attendente”, quello cioè che si limitava ad assistere alle aggressioni. Oltre al comandante, ovviamente, che era un ragazzotto di 17 anni con precedenti per danneggiamento, furto e rapina a mano armata. Al suo fianco, una squadra di picchiatori. La Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza di recente si è concentrata proprio sul fenomeno baby-gang. Dal dossier emerge, ad esempio, la preoccupazione per la nascita di bande giovanili composte da cinesi che stanno prendendo forza anche a Padova e Venezia: “Si connotano per la spiccata propensione all’uso della violenza (…). I locali pubblici quali internet-point, karaoke-center e night club sono spesso utilizzati come basi logistiche (…). Tra gli altri interessi criminali si evidenziano la gestione del gioco d’azzardo, lo sfruttamento della prostituzione di giovani connazionali e lo spaccio di stupefacenti come ketamina, ecstasy, shaboo e cocaina”. Se si esclude l’eccezionalità delle gang orientali, a Venezia l’elemento etnico “non sembra costituire un fattore aggregante”. L’ingresso di giovani elementi provenienti dai Paesi dell’Est (anche di seconda generazione) e da giovani di etnia rom o sinti, ha tuttavia influito “sulla qualità degli atti compiuti”: le condotte - ha rilevato il prefetto Vittorio Zappalorto, parlandone alla Commissione - “si sono fatte via-via più gravi, affiancando ai reati contro il patrimonio anche reati contro la persona”. La relazione parlamentare conferma come, specie nel Veneto orientale, a partire dalla seconda metà del 2018 si stia assistendo “a un significativo aumento di episodi di violenza compiuti da bande di giovani”. Difficile tracciare un preciso identikit: si tratta di “minori appartenenti a tutte le classi sociali, accomunati da una situazione di abbandono e di trascuratezza da parte delle famiglie”. Altra costante “destinata a incidere sull’aggressività delle condotte, è rappresentata dal rilevante consumo di stupefacenti accompagnato da abuso di alcolici”. Di certo, c’è che nel capoluogo la situazione è preoccupante perché agiscono “in branco, il più delle volte motivati da futili e abietti motivi”. Per questo, le contromisure non si sono fatte attendere e Zappalorto ha ricordato l’attivazione di iniziative in sinergia con forze dell’ordine, scuole e famiglie. “Questa importante attività di rete - annotano i parlamentari - ha consentito di ottenere positivi risultati, consegnando all’autorità giudiziaria gran parte dei responsabili”. Gli investigatori fanno ciò che possono per mettere un freno al dilagare delle bande: arresti e denunce di minorenni sono all’ordine del giorno anche in Veneto. I dati elaborati dal Dipartimento per la Giustizia minorile e di comunità del ministero sono impressionanti. I minorenni fermati, accompagnati o arrestati in flagranza di reato vengono portati nei Centri di prima accoglienza (Cpa), dove rimangono fino all’udienza di convalida, per un tempo massimo di novantasei ore. L’unico Cpa del Veneto si trova a Treviso dove nei primi cinque mesi di quest’anno si sono già registrati quattordici ingressi. E sempre a Treviso ha sede il carcere minorile (Ipm), nel quale i ragazzi finiscono in custodia cautelare o scontano la pena detentiva: sedici gli ingressi, solo quest’anno, e al 15 di maggio erano presenti tredici detenuti: quattro tra i 18 e 20 anni, otto tra i 16 e i 17 anni, e un quindicenne. Sono “dentro” per tentato omicidio, aggressione, spaccio di droga. Esistono poi diverse comunità sparse per la regione, dove i giovani finiti nei guai con la giustizia hanno maggior libertà di movimento e vengono trasferiti dopo il processo, per scontare la “messa alla prova”: il 15 maggio le strutture venete ne ospitavano sessantuno. “Forse in carcere trovano finalmente quelle regole che nessun familiare impone loro”, riflette un assistente sociale.”Ci troviamo di fronte a gruppi di ragazzini che non hanno paura di niente e non rispettano le più elementari regole di civiltà” assicura Alessandra Bocchi, legale che tutela i familiari di Ahmed Fdil, un senzatetto che un paio d’anni fa, nel Veronese, fu arso vivo da due bulletti di 13 e 17 anni che da tempo lo tormentavano “per noia”. Lo pensa anche l’avvocato Valentina Calzavara, che ha difeso molti minorenni incappati in inchieste giudiziarie. “Quelli delle baby-gang, quasi sempre sono ragazzi che non studiano e non lavorano, col benestare dei genitori. Parlo con loro e mi sorprendo a scoprire la totale assenza di progetti per il futuro: sono adolescenti che hanno smesso di sognare, o forse non l’hanno mai fatto”. Giovani senza ambizioni, se non quella di proiettare sugli altri un’immagine di invincibilità. “Ricordo un cliente di 17 anni, che faceva parte di un gruppo accusato di spaccio di droga, rapine, rissa e lesioni. Alla fine dell’udienza gli dissi che la sua posizione processuale era critica, probabilmente peggiore di quella di tutti i suoi amici. Non disse nulla ma sorrise con uno sguardo gonfio di orgoglio...”. Il ruolo della famiglia, può essere determinante nel trasformare dei bulletti in veri e propri criminali. “Spesso mamme e papà minimizzano - conclude Calzavara - sostenendo che in fondo è stata solo una bravata. Sono gli stessi genitori che poi si premurano di far avere sigarette e abiti firmati al figlio anche quando si trova in comunità. Li giustificano in tutto ciò che fanno. E forse sono quelli, gli unici ragazzi davvero irrecuperabili”. Ustica, da Draghi dopo 41 anni vogliamo l’ultima parte della verità di Daria Bonfietti* Il Manifesto, 27 giugno 2021 Il 27 giugno 1980 il DC9 Itavia fu abbattuto e sprofondato nel mar Tirreno. L’evento fu compreso subito: lo dice il documento sopravvissuto del tracciato radar: una chiara manovra d’attacco. Io credo che ricordando il 27 giugno, la strage di Ustica, proprio a 41 dalla tragica vicenda si debba chiedere la definitiva verità, quella verità che è stata fatta sprofondare. Come il DC9 Itavia che abbattuto, è sprofondato nel mar Tirreno. Oggi dopo tutte le indagini effettuate possiamo ben dire che l’evento è stato “seguito” e compreso nell’immediatezza. Basta ricordare il tracciato radar, con una evidente manovra d’attacco al DC9, unico documento sopravvissuto alla distruzione totale di ogni documentazione. Ma in qualche luogo fu presa la decisione che i cittadini non dovevano sapere e i parenti delle vittime rimasero soli nel loro dolore. Si disse che l’aereo era caduto per un cedimento strutturale, la tragica ovvietà che gli aerei cadono, si fece fallire la compagnia Itavia, proprietaria del velivolo, le indagini passate da Palermo alla Procura di Roma persero determinazione e mordente, i governi e il parlamento rimasero silenziosi e indifferenti aspettando una verità che però nessuno cercava. Solo voci isolate di giornalisti e poi poco alla volta negli anni l’impegno di politici e intellettuali, attorno all’ex presidente della Corte Costituzionale Bonifacio, e ancora la presa di coscienza dei parenti con la nascita dell’associazione. Si creò una grande mobilitazione dal basso della società civile che riportò all’attenzione la tragedia. Voglio solo citare che il film “Il Muro di Gomma” di Marco Risi con l’interpretazione di Corso Salani e le musiche di De Gregori arrivò al Festival di Venezia nel 1990. Al culmine di questo impegno civile il Sen. Gualtieri presidente della Commissione Stragi poteva affermare nell’aprile 1992: “Quando è stato chiesto sono venute le risposte dovute…Quando il parlamento, con la nomina di questa commissione, ha preteso le risposte dovute, ecco che la magistratura si è riattivata, le inchieste sono ripartite, gli approfondimenti tecnici sono stati fatti e sono venute meno le protezioni e le impunità fino ad allora garantite”. Ma poi sono passati ancora anni, questa volta di lavoro di inchiesta e peritale molto accurato, che ha permesso al giudice Priore di darci nel 1999, con la sua Sentenza ordinanza, la prima verità: il DC9 è stato abbattuto all’interno di un episodio di guerra aerea. Poi è venuta la stagione dei processi, certamente non sulle cause della strage i vertici dell’aeronautica sono stati assolti in sede penale dall’imputazione di altro tradimento per fatti avvenuti dopo il 27 giugno, per non aver informato il governo, degli elementi in loro possesso e per aver sostenuto ufficialmente la tesi del cedimento strutturale. I tribunali civili in via definitiva hanno condannato invece il Ministro dei Trasporti per non aver tutelato la vita dei cittadini e il Ministero della Difesa per aver ostacolato l’accertamento della verità sulla tragedia. Mentre i Ministeri sono stati condannati anche a risarcire la società Itavia fatta fallire per la falsità del cedimento strutturale. Ma nel 2007 il presidente emerito Cossiga afferma in interviste pubbliche e poi davanti ai magistrati che il DC9 è stato abbattuto da aerei francesi che avevano come obiettivo il leader libico Gheddafi e si aprono nuove indagini - finalmente per avere un quadro definitivo e sapere chi ha sparato il missile - quelle di cui oggi dobbiamo chiedere le conclusioni. Lo facciamo con forza in questo anniversario consapevoli però che il grande ostacolo davanti ai giudici è la scarsa collaborazione internazionale. Proprio quei Paesi amici e alleati che pur avevano aerei in volo nei pressi del DC9, non forniscono adeguate informazioni e non rispondono appropriatamente alle rogatorie internazionali. E ancora una volta è la politica, l’azione della diplomazia che bisogna chiamare in causa. Il presidente del Consiglio Draghi deve formulare una precisa richiesta di impegno per la messa a disposizione di tutta la documentazione necessaria e proprio rimanendo al bisogno di documentazione, il presidente Draghi si deve anche attivare perché in Italia si dia effettiva attuazione alla Direttiva Renzi, direttiva per la declassifica e per il versamento straordinario di tutti i documenti riguardanti le Stragi all’Archivio centrale dello Stato. Uno sforzo determinato per la documentazione, sia per la verità definitiva sulla morte di 81 cittadini innocenti, sia per la Storia stessa del nostro Paese. È il grande impegno che chiedo al Presidente Draghi in questo 41 anniversario della strage di Ustica. *Presidente Associazione Parenti Vittime Strage di Ustica Sulmona (Aq). In partenza la “Carovana dei Diritti”, prime tappe al carcere e all’ospedale di Giulia Antenucci abruzzolive.it, 27 giugno 2021 “Abbiamo scelto la Carovana dei Diritti”, si legge nel comunicato dei sindacati, “per praticare un nuovo modello di azione sindacale che si richiama alla formula di “Sindacato di Strada” e che vuole dare il senso della vicinanza della nostra organizzazione alle cittadine e i cittadini, attraverso un percorso in movimento. La Carovana dei diritti vuole essere un momento di ascolto e di condivisione “con le nostre comunità”, spiegano, “un momento di confronto anche con le istituzioni locali per capire quale modello di sviluppo costruire insieme. Un modello che parta dai diritti e dal senso di appartenenza ad un territorio, dalla salvaguardia e conservazione ambientale, dal senso di giustizia sociale e di equità. Un modello utile a ricostruire un legame solidaristico tra le persone. Il sindacato deve essere un soggetto attivo e deve rappresentare un luogo aperto di discussione e di incontro, propositivo e di prospettiva. Il cambiamento passa anche dalla capacità di rappresentare i bisogni, di farli emergere da un oblio costruito sulla retorica, di rappresentarli e soddisfarli”. “Ascolteremo tutte le voci e condivideremo con loro le nostre idee, raccogliendo le varie necessità che vengono espresse dalle diverse comunità. Saremo a fianco di tutte e tutti, nessuno escluso: casa per casa, azienda per azienda, strada per strada”, continuano. Lunedì, dalle 10 alle 11, il primo appuntamento con assemblee all’esterno delle strutture della Casa di Reclusione di Sulmona e a seguire, dalle 11.30 alle 12.30, all’Ospedale dell’Annunziata. “Nei giorni prossimi attraverseremo le zone più interne”, concludono, “nei diversi luoghi del lavoro e del non lavoro, delle cure e dell’istruzione, dell’aggregazione, della cultura e della ricostruzione”. Crotone. Visita del Garante regionale per monitorare gli istituti penitenziari Gazzetta del Sud, 27 giugno 2021 L’avv. Agostino Siviglia, accompagnato dal Garante Comunale, avv. Federico Ferraro, si è confrontato anche con il sindaco Vincenzo Voce. Il Garante Regionale dei detenuti, avv. Agostino Siviglia, giovedì si è recato nella città di Crotone, accompagnato dal Garante Comunale dei detenuti, avv. Federico Ferraro. Il Garante Siviglia, nella prima parte della mattinata, è stato accolto dal sindaco di Crotone, ing. Vincenzo Voce, e nel colloquio istituzionale si è avuto modo di tracciare i profili inerenti le problematiche del mondo carcere e anche dei vari luoghi di restrizione della libertà personale: le Rems, le camere di sicurezza, il C.a.r.a. La disanima delle varie situazioni ha consentito di aggiornare il primo cittadino sugli sviluppi futuri e sui recenti interventi ministeriali su temi come la ripresa dei colloqui tra detenuti e familiari a pieno regime. L’insorgenza del Covid-19, come evento imprevisto e imprevedibile, ha amplificato le criticità del sistema penitenziario e ha costretto tutti a un vero e proprio fermo di alcune attività e modifica degli assetti ordinari. Nonostante ciò la popolazione detenuta calabrese, e in particolare a Crotone, ha mantenuto sempre un atteggiamento responsabile e collaborativo, volto alla cooperazione nella soluzione delle criticità pandemiche. Al termine della visita di cortesia in Comune, il Garante Regionale, accompagnato dal Garante Comunale, si è recato presso l’Istituto penitenziario di Crotone per una visita ispettiva, alla luce del monitoraggio Covid-19 avviato da tempo nei 12 istituti penitenziari della Calabria. La visita ha consentito anche un incontro diretto con la popolazione detenuta a Crotone nelle sezioni media sicurezza e un sopralluogo nelle celle e negli altri ambienti penitenziari. Importante è stata, infine, interfacciarsi con la direzione sanitaria penitenziaria con cui sono già da tempo avviate interlocuzioni e un monitoraggio periodico che coinvolgono anche il Garante comunale Ferraro. Vercelli. “Liberare lo sguardo”, il progetto cinematografico rivolto ai detenuti tgvercelli.it, 27 giugno 2021 Lunedì 28 giugno alle 11.30 nella Sala Convegni della Fondazione CRV verrà presentato il progetto Liberare lo sguardo, un percorso di formazione e di promozione della cultura cinematografica dedicato alla Casa Circondariale di Vercelli. Si partirà con la visione del docu-film di Wim Wenders del 2018 Papa Francesco. Un uomo di Parola. Il progetto in questione nasce dalla volontà di investire in un’iniziativa di cultura, bellezza e rieducazione di una fascia considerata debole della società come quella dei detenuti, in totale continuità con le attività già messe in campo dal territorio e, nello specifico, dalle case circondariali molto attente alla promozione culturale e da iniziative attente alle persone detenute. Il percorso formativo, promosso dall’associazione Officina Cultura e Territorio, costituirà occasione di approfondimento e comprensione del linguaggio cinematografico, ma sarà soprattutto opportunità di incontro e di lavoro di team per le persone detenute che vorranno partecipare al percorso. “La cinematografia - spiegano gli organizzatori - rappresenterà un efficace strumento formativo, nello stesso modo dei percorsi educativi già attivati dall’istituto. Il modello del progetto, una volta consolidato, potrà essere facilmente applicato ad altre carceri e realtà del territorio”. Il progetto di Officina Cultura e Territorio è stato realizzato in collaborazione con Fondazione CRT, Fondazione Cassa di Risparmio di Vercelli, Fondazione CRC, Banca Alpi Marittime, Associazione Amicorti, Ausilia Onlus, Casa Tecnica e Stile, MG Project, Patrimonio Immobiliare Srl, La Sesia. Pavia. Infermeria del carcere rimessa a nuovo grazie a due detenuti La Provincia Pavese, 27 giugno 2021 L’infermeria del carcere si rinnova grazie al lavoro di due detenuti. Da anni gli ambulatori non erano mai stati ristrutturati. Così la direttrice della casa circondariale, Stefania Mussio, ha deciso di dare la possibilità a due ospiti della struttura di rimboccarsi le maniche e dare il loro contributo. R.R. e G.P. si sono messi all’opera lo scorso febbraio e con un accurato lavoro durato mesi hanno riqualificato l’intero settore, rendendolo dignitoso e ordinato, con la supervisione e il coordinamento degli operatori di Polizia Penitenziaria. Molto soddisfatto anche il Dirigente sanitario, Gianni Belfiore: “Questo rinnovo, iniziato a metà febbraio e vissuto da tutto il carcere con curiosità e sincero interesse, ha portato a un totale rinnovo dei locali, con un apprezzabile miglioramento. Un segno importante e concreto della considerazione verso l’area sanitaria e del lavoro, spesso complesso, che si svolge in essa da parte della attuale direzione della casa circondariale di Voghera”. Il medico che dal 2015 frequenta il carcere iriense come dottore del Ser.D. e da circa un anno ha assunto anche il ruolo dirigente sanitario, ha notato come il cambiamento in questi ultimi mesi “darà sicuramente nuovo impulso alla rivalutazione dell’attività”. “L’attesa”, di Giuliana Nuvoli di Maria Milvia Morciano L’Osservatore Romano, 27 giugno 2021 I racconti sul tema dell’attesa nati da un laboratorio di Giuliana Nuvoli nel carcere di Opera. Giuliana Nuvoli, professoressa emerita di Letteratura italiana alla Statale di Milano e critica letteraria, ha tenuto un laboratorio di scrittura creativa nel carcere di Opera in collaborazione con gli studenti dell’università. Il risultato è stato un libro di ventinove racconti, L’attesa (Edizioni Stampa 2009), pubblicato nel 2019. “Fin dall’inizio del laboratorio, il libro è stato pensato come un coro di voci tutte alla pari” racconta Nuvoli. - “Il percorso intrapreso si è rivelato armonioso: tutto è cominciato nel rispetto delle regole di distanza, dal momento che molti tra gli studenti erano ragazze, mentre i detenuti erano tutti uomini, alcuni condannati a pene detentive di 30-35 anni. In teoria avrebbero potuto esserci molti problemi. Nel tempo, però, tra loro si è creato un dialogo che alla fine si è trasformato anche in una vicinanza fisica assolutamente straordinaria e, ripeto, rispettosa”. Il tema scelto è stato quello dell’attesa. “Tutti gli esseri umani sono in attesa. In attesa di finire la vita o delle cose che accadono; in attesa di quello che è lontano o sta per accadere, del bene, del male”. Un sentimento che accomuna i giovani studenti, impazienti di scoprire la vita, e i detenuti, che nella detenzione coltivano la speranza. I racconti sono stati pubblicati con i nomi in ordine alfabetico, senza alcuna distinzione e, nonostante le differenze, disegnano una comune radice: la vita porta in direzioni diverse, si può essere liberi o rinchiusi, ma alla fine le persone sono accomunate da più di quanto non si creda. C’erano ragazzi e ragazze, detenuti giovani e adulti, provenienti da ogni parte del Mediterraneo e del mondo, e tutti hanno interagito insieme in armonia. Tra le maglie dei racconti emerge sempre un pezzo della loro storia personale. “Ovviamente negli scritti degli “studenti ristretti” la componente autobiografica è più forte, perché il loro orizzonte rimane chiuso. Sanno di dover stare nel carcere per un determinato tempo. Per loro l’io riempiva quasi tutto lo spazio presente e futuro”. Sono stati totalmente liberi di esprimersi come individui. Esisteva una sola regola: non fare cenno ai loro reati, né alla pena comminata. “I pochi giovanissimi tremavano, fragili, di speranza - scrive Nuvoli nell’introduzione - i più, adulti, parlavano come chiusi in una corazza. Per tutti, però, vi era la stessa luce, in fondo: la famiglia. Madri, mogli, figli”. Per gli studenti della Statale la cosa è stata invece un po’ diversa. A 19-26 anni ci si immagina il futuro con più libertà “con più possibilità di quanto ovviamente non si possa fare chiusi tra quattro mura, ma la componente autobiografica è presente, potente, in tutti i racconti”. Eppure i tempi che viviamo non sono facili neppure per loro: l’incertezza sempre latente, la precarietà, la possibilità di non poter immaginare un futuro, di crearsi una famiglia li fa sentire in gabbia. “In realtà - osserva Nuvoli - non esiste un solo individuo a questo mondo, ieri come oggi, che possa dire di non sentirsi prigioniero di una gabbia più o meno visibile, di non essere condizionato dalle regole, dai pregiudizi, dagli obblighi e dai doveri, dalla necessità di patteggiamenti”. Una percezione che nel tempo di pandemia ha riguardato tutti. Siamo stati quasi nella stessa situazione, tutti un po’ rinchiusi. E per questo motivo sembra che questo libro abbia guardato lontano, catturando nell’aria il presagio di qualcosa che già c’era. “L’importante è pensare che le gabbie abbiano pareti di cristallo e permettano di guardare fuori, che non abbiano pareti di piombo. Sentirsi completamente liberi è una presunzione, una follia, paragonabile alla hybris, all’arroganza di Ulisse che, secondo Dante, precipita nel gorgo e muore quando passa le antiche e invalicabili Colonne d’Ercole. La vera libertà ce la portiamo dentro. La vita è fatta di affetti ed emozioni e questi non hanno gabbie. Dovremmo imparare a pensare a relazioni più leggere, non condizionate dall’economia, dal denaro, dal successo, dai bisogni materiali. La vita è bella se si prende così, come viene”, aggiunge la professoressa. Un altro punto di contatto tra tutti gli autori dei racconti è “la voglia di futuro, di camminare col corpo teso in avanti e lasciarsi indietro rabbia e paura. In realtà, in ognuno di loro c’è il bisogno di essere amati”, si legge nella quarta di copertina del libro. “Esiste una virtù primaria comune a tutti, laici e credenti, cattolici e non, che è una virtù civile: il perdono. Se ci si lascia trattenere a terra dalla zavorra della rabbia, della paura, dai sentimenti di vendetta, non ci si libera. Se non impariamo a buttarci dietro le spalle tutto il dolore che ci possono aver procurato, le angherie e le offese, non abbiamo scampo, non viviamo”. Nel celebre monologo del terzo atto, Amleto dice che “la coscienza fa vili” e impedisce di tentare di sfuggire ai mali andando incontro alla morte, forse anche scegliendo il suicidio. La paura di ciò che attende al di là della vita rende sopportabile il male quotidiano. “In queste parole - prosegue Nuvoli - manca la speranza, che è quella che spinge a vivere. Elpis o Spes, come la chiamavano i greci e i romani, nell’iconografia antica è raffigurata come una fanciulla che avanza verso il futuro in punta di piedi. La speranza è l’unica a rimanere in fondo al vaso di Pandora, quando tutti i mali sono usciti”. D’altra parte la speranza è per i cristiani una virtù teologale, ricordata di continuo da Papa Francesco che la definisce “un’ancora che noi abbiamo dall’altra parte: noi, aggrappati alla corda, ci sosteniamo” e che chiama “la più piccola virtù ma la più forte”. La speranza - conclude Giuliana Nuvoli - “tiene in vita nell’attesa, ma nulla è possibile se non scendiamo a patti con noi stessi. È tutto questo è possibile solo se impariamo a perdonare gli altri e noi stessi”. Se il Male è il prezzo della nostra libertà di Javier Cercas La Repubblica, 27 giugno 2021 Dall’Inferno di Dante a Sartre, da Adolf Eichmann a Ingmar Bergman. Il grande scrittore ragiona su delitto, castigo e senso di colpa. È impossibile pensare a Dante senza pensare al problema del Male; inversamente, è impossibile pensare al problema del Male senza pensare a Dante, almeno senza pensare alla Divina Commedia, almeno senza pensare all’Inferno, che può e forse deve essere letto come una vasta meditazione sul Male, come un’intricata e visionaria enciclopedia metaforica delle diverse forme in cui il Male si incarna negli esseri umani. Tuttavia, cos’è davvero il Male, o ciò che chiamiamo il Male oggi, settecento anni dopo la morte di Dante? E qual è il rapporto che il Male intrattiene oggi con la letteratura, o con l’arte in generale? Non credo che nemmeno a Roma, così vicino al Vaticano, ci sia bisogno di evocare Lucifero per definire ciò che è il Male; e non è più alla nostra portata immaginarlo come fa Dante alla fine dell’Inferno, al centro stesso della Terra, nel punto più lontano da Dio, sprofondato tra il ghiaccio e le ombre, come una creatura orripilante dotata di sei smisurate ali di pipistrello e di tre teste con le fauci che divorano tre peccatori famosi, tre malvagi senza remissione: Giuda, che tradì Cristo, e Bruto e Cassio, che tradirono Cesare. No, per noi, per la nostra povera immaginazione senza Dio né Diavolo, senza Inferno né Purgatorio né Paradiso, il Male è qualcosa di più pedestre, di più comune, qualcosa che fa parte del dramma più intimo e quotidiano degli esseri umani, che è il dramma della libertà: il Male è, semplicemente, il prezzo della libertà. Non siamo liberi di non essere liberi, scrisse in una frase famosa Jean-Paul Sartre. Il che significa che, perfino quando non scegliamo, scegliamo; significa pure che possiamo scegliere il bene, ma possiamo anche scegliere il male. Georges Bataille, che tante volte polemizzò con Sartre, andò ancora più in là: non soltanto il male è sempre alla nostra portata e siamo sempre liberi di sceglierlo; il male abita dentro ogni essere umano, fa parte di noi. “La parte maledetta”, chiamò quella zona dell’essere umano Bataille, che nel 1929 scrisse: “C’è in ogni uomo un animale rinchiuso in una prigione come un forzato e c’è una porta, e se si socchiude quella porta l’animale si getta al di fuori come il forzato che cerca l’uscita; allora provvisoriamente l’uomo cade morto e la bestia si comporta da bestia”. Questa assidua familiarità con il male spiega il fatto che, nel 1963, a proposito del processo a Eichmann a Gerusalemme, con un’espressione non meno famosa, Hannah Arendt parlasse della Banalità del male. Ciò che Arendt voleva dire in quel libro che tanto scandalo suscitò all’epoca non è, tuttavia, che il male sia banale; ciò che voleva dire è che coloro che commettono il male sono spesso persone banali, a cominciare da Adolf Eichmann, il protagonista del suo libro, uno dei più grandi criminali della storia dell’umanità, architetto della cosiddetta Soluzione Finale, un uomo insignificante che, a quanto conclude la stessa Arendt, “non era un mostro, ma era davvero difficile sospettare che fosse un pagliaccio”. Detto ciò, la domanda quasi si impone: perché il male continua ad affascinarci, sia nella realtà sia nella finzione? Com’è possibile che, soprattutto nella finzione, ci sentiamo più attratti dai criminali che dalle brave persone? Sarà vero che, come diceva André Gide, non si può fare buona letteratura con i buoni sentimenti o, come diceva il grande poeta catalano Gabriel Ferrater, è impossibile parlare della felicità senza fare una faccia da idiota? Fatto sta che il Riccardo III di Shakespeare è forse la più grande canaglia della letteratura universale, ma ci sono passaggi di quella tragedia crudele in cui ci si sorprende a mettersi dalla sua parte, a solidarizzare con quella belva spaventosa, così come in Delitto e Castigo si solidarizza con lo studente Raskol’nikov nonostante si sappia che ha ucciso Aliona Ivanovna, una vecchia e repellente usuraia. Ma torniamo per un momento alla realtà; torniamo, anche, ad Adolf Eichmann. Poco tempo fa ho visto un documentario sul suo processo a Gerusalemme, quello su cui Hannah Arendt scrisse il suo libro. Si intitola Uno specialista, è opera di Rony Brauman ed Eyal Sivan ed è stato realizzato con le immagini riprese da Leo Hurwitz durante il processo. Verso la fine del dibattimento il pubblico ministero chiede a Eichmann se si sente colpevole dell’assassinio di milioni di ebrei. “Dal punto di vista umano, sì” risponde Eichmann. “Perché sono colpevole di avere organizzato le deportazioni.” Poi aggiunge: “Però i rimorsi sono inutili, non faranno resuscitare i morti. I rimorsi non hanno nessun senso. I rimorsi vanno bene per i bambini. Ciò che importa è trovare il modo di evitare questi avvenimenti nel futuro”. Quando ho sentito Eichmann pronunciare queste parole ho avuto un soprassalto: soltanto pochi giorni prima avevo sentito dire qualcosa di simile da Ingmar Bergman, il grande cineasta svedese. Era successo sempre in un documentario, stavolta intitolato L’isola di Bergman, opera di Marie Nyveröd. Lì, un Bergman crepuscolare parla a rotta di collo di tutto o di quasi tutto, e a un certo punto l’intervistatrice menziona i nove figli avuti nei suoi diversi matrimoni, e gli domanda: “Non hai rimorsi per averli abbandonati?”. Bergman risponde quasi senza pensarci, come se avesse riflettuto spesso sulla faccenda. “Li avevo” riconosce. “Avevo dei rimorsi; fino a quando ho scoperto che avere dei rimorsi per una cosa così seria come abbandonare i tuoi figli è puro teatro, è un modo di vivere con una sofferenza che non è paragonabile alla sofferenza che hai causato”. Queste parole di Bergman mi hanno commosso quando le ho ascoltate. Ho ricordato Spinoza, il quale afferma che il rimorso è uno dei due peggiori nemici del genere umano (l’altro, secondo lui, è l’odio), una passione ripugnante e triste che alla lunga ci distrugge, e mi sono detto che quella di Bergman era la risposta di un uomo libero, coraggioso e onesto, che conosce gli esseri umani e sa che è indegno aggiungere al peccato di aver commesso un errore il peccato di soffrire per averlo commesso… Però adesso, ascoltando anche Eichmann esprimere il suo rifiuto del rimorso per il male causato ad altri, mi sono chiesto: com’è possibile non provare dispiacere per aver provocato la morte di milioni di persone? Salvaguardando per un momento l’enorme distanza tra l’errore di Bergman e quello di Eichmann, mi sono chiesto se il loro comune rifiuto del pentimento unisse in qualche modo il genio del bene e il genio del male, e mi sono chiesto in che modo lo facesse. Mi sono chiesto: può esistere qualche vincolo rilevante tra la visione del mondo di un uomo che si è dedicato a creare e quella di un altro che si è dedicato a distruggere, quella di un uomo che ha illuminato il mondo e ha lasciato dietro di sé una scia di bellezza e di irresolubili complessità e quella di un altro che ha oscurato il mondo e che ha lasciato al suo passaggio una scia di semplicità letale e di inconcepibile distruzione? E mi sono anche chiesto: uno stesso precetto etico può essere onesto e coraggioso sulle labbra di una persona e abietto e codardo sulle labbra di un’altra? La risposta a questi perturbanti interrogativi è arrivata subito, nello stesso documentario su Eichmann, quando, poco dopo avere accettato di essere colpevole dello sterminio degli ebrei, l’ex gerarca nazista l’ha negato, recuperando la sua linea di difesa essenziale durante tutto il processo: considerava l’accaduto con gli ebrei un fatto mostruoso, ma lui aveva potuto soltanto agire come aveva agito, perché era soltanto un tecnico ed era obbligato dal suo giuramento di obbedienza a fare ciò che aveva fatto; pertanto, dentro di sé si sentiva “libero da ogni responsabilità”. La prima differenza tra Bergman e Eichmann sta, ovviamente, nella dimensione dei loro errori; neanche la seconda è banale: Bergman accetta del tutto la propria responsabilità; Eichmann, soltanto in apparenza: in realtà la rifiuta. Accettare il dramma della libertà assumendo la responsabilità del male commesso, essendone consapevole, costituisce forse il primo passo per poterlo combattere: nonostante il male da lui commesso sia infinitamente minore di quello di Eichmann, Bergman lo fa; Eichmann, invece, no. Pascal osservò che esistono soltanto due tipi di uomini: gli uni, giusti che si credono peccatori; gli altri, peccatori che si credono giusti. Bergman forse era un peccatore, ma non si credeva un giusto. Questa è forse una condizione indispensabile per essere un giusto. Le diversità rigenerano la democrazia di Maurizio Molinari La Repubblica, 27 giugno 2021 Dagli Stati Uniti in Israele, fino allo scontro in Italia sul ddl Zan e in Europa sulla legge Orbàn. La battaglia sui diritti Lgbt in Ungheria e la contemporanea disputa sul ddl Zan fra Italia e Vaticano portano l’Unione Europea a confrontarsi con la sfida che già distingue Stati Uniti e Israele: i sistemi democratici hanno bisogno di valorizzare le proprie diversità per rigenerarsi e rafforzarsi. Negli Stati Uniti l’elezione alla presidenza di Joe Biden è stata il frutto di una coalizione elettorale guidata da una schiacciante maggioranza di donne, minoranze e giovani che si riflette nella composizione della sua amministrazione: fra i primi cento incarichi per importanza 57 sono donne e 39 non-bianchi. È il risultato di un cammino che ha visto l’America nel 2008 eleggere in Barack Obama il primo presidente afroamericano, nel 2011 approvare con la Corte Suprema le unioni civili per i gay, nel 2017 unirsi dietro il movimento #Metoo in difesa dei diritti delle donne e nella campagna elettorale del 2020 reagire all’uccisione di George Floyd a Minneapolis con una grande mobilitazione antirazzista. Ciò significa che l’humus di diversità espressa dall’amministrazione Biden viene da lontano ed è questa idea diffusa del diritto alla identità differente che ha portato alla sconfitta dei repubblicani di Donald Trump, la cui maggiore debolezza - come osserva il columnist del Washington Post EJ Dionne - è stata di essere soprattutto un partito di uomini bianchi. Quando Karine Jean-Pierre si presenta dunque ai giornalisti nella Brady’s Room della Casa Bianca come la prima portavoce presidenziale al tempo stesso donna, gay e afroamericana incarna un’idea di democrazia delle diversità che punta a includere ogni tassello della società nazionale. Trovando nel mosaico identitario una formidabile ricetta capace di rivaleggiare - e sconfiggere nelle urne - il populismo che invece si nutre di scontento sociale e protesta contro le istituzioni rappresentative. Nulla da sorprendersi dunque se Biden e Kamala Harris - la prima donna nera divenuta vicepresidente - accelerano in questa direzione: dichiarando “Juneteenth” festa nazionale il 19 giugno per ricordare come nel 1865 vide la liberazione degli ultimi schiavi dopo la Guerra Civile come anche promettendo di raddoppiare il numero delle donne afroamericane fra i giudici di appello. Il nuovo governo di Israele, da poco insediato, va nella stessa direzione perché include ebrei ortodossi e musulmani fondamentalisti, politici israelo-etiopi e israelo-moldavi, un ministro apertamente gay e più in generale componenti con le origini in Asia, Africa, Europa e America. Per non parlare delle 9 donne su 27 ministri, un premier ultranazionalista, un ministro degli Esteri centrista, i leader della sinistra storica e il primo partito arabo-israeliano in una coalizione di governo. Come riassume Alan Dershowitz, giurista liberal di Harvard, “sfido chiunque a trovare una democrazia parlamentare con una coalizione di governo più diversa”. Anche Israele ha fatto emergere le proprie diversità unendosi contro un leader nazionale conservatore - Benjamin Netanyahu è stato al governo per 12 anni consecutivi - e le similitudini con gli Stati Uniti non finiscono qui perché nello Stato ebraico solo il 44 per cento degli abitanti è bianco mentre negli Usa il 48 per cento delle nuove nascite avviene in famiglie ispaniche. Ovvero, si tratta di due nazioni costruite da immigrati che vedono le rispettive democrazie rigenerarsi esaltando le diversità - politiche, etniche e di genere - delle rispettive collettività. Gli Stati europei hanno popolazioni etnicamente più compatte e dunque arrivano con un certo ritardo alla sfida della ridefinizione dell’identità nazionale dovuta all’impatto demografico delle minoranze. Da qui la novità del fattore Lgbt che invece sembra far breccia con più efficacia con il risultato di portare anche il Vecchio Continente davanti alla sfida politica delle diversità. A ben vedere per l’Ue la data di inizio di questa battaglia è il 2017 con la decisione della Corte europea dei Diritti Umani di definire “discriminatoria” la legge russa del 2013 contro la raffigurazione pubblica di comportamenti e valori Lgbt, definendola “discriminatoria” e sfidando il Cremlino nell’aggiungere che “incoraggia l’omofobia”. La legge ungherese ora difesa a spada tratta dal primo ministro ungherese Viktor Orbàn ha caratteristiche simili e lo scontro che ha innescato in seno all’ultimo Consiglio europeo indica proprio nei diritti Lgbt il test della diversità per gli Stati dell’Unione, con le democrazie occidentali determinate nel considerarli diritti civili a differenza di alcuni Paesi dell’Est, guidati da Ungheria e Polonia. Quando il ministro della Giustizia magiaro, Judit Varga, si spinge fino ad accusare il premier olandese Mark Rutte di “essere uscito dal cerchio delle persone civilizzate” a causa della sua difesa dei diritti Lgbt, emerge con chiarezza un approccio illiberale alle diversità - non solo di genere - con cui l’Europa deve fare i conti. Da qui la domanda se l’Ue, dopo aver assistito in gran parte passivamente alle profonde trasformazioni americane innescate dall’elezione di Obama e dalla mobilitazione per il #Metoo, non stia trovando sul terreno dei diritti Lgbt la propria strada verso un approccio più inclusivo al diritto alle diversità. Ed è un interrogativo che si rafforza davanti alle evidenti divisioni che il ddl Zan innesca nel nostro Parlamento, nella Chiesa italiana e in Vaticano. Rinnovando così l’idea che una democrazia si consolida in maniera direttamente proporzionale al numero dei diritti che riesce a identificare, codificare, proteggere e far coesistere fra i propri cittadini. Aumentandone di conseguenza espressione e rappresentanza a dispetto di ogni distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali. Come recita l’articolo 3 della Costituzione repubblicana. La deriva della politica verso il bullismo di Luca Ricolfi Il Messaggero, 27 giugno 2021 Quando, nel 1957, il grande politologo americano Anthony Downs pubblica “La teoria economica della democrazia”, il gioco della competizione politica è ancora pulito. Per lui la differenza chiave fra destra e sinistra, o fra conservatori e progressisti, è che gli uni vogliono meno intervento pubblico nell’economia, gli altri ne vogliono di più. La destra vede l’espansione dello Stato (e delle tasse) come un’ingerenza, che limita la libertà economica, la sinistra vede l’espansione dello Stato (e della spesa pubblica) come uno strumento di redistribuzione della ricchezza, che promuove l’eguaglianza. Il gioco è pulito perché le due parti competono alla pari. Libertà ed eguaglianza, infatti, non sono l’una un valore e l’altra un disvalore, ma sono semplicemente due ideali distinti in competizione fra loro. Ciò produce una conseguenza logica fondamentale: il rispetto dell’avversario politico. Questo tipo di situazione è interessante perché in essa coesistono due elementi apparentemente inconciliabili: la credenza nei propri valori, e il riconoscimento della legittimità dei valori altrui. Non è questo il luogo per stabilire quale sia il momento storico in cui il gioco si è rotto, ma credo non possano esservi dubbi sul fatto che oggi, nella maggior parte delle società occidentali, la competizione politica non funziona più secondo lo schema di Downs. Oggi la sinistra non si sente come la rappresentante di determinati ideali, contrapposti a ideali diversi dai propri, ma come la depositaria esclusiva del bene. Di qui il suo peculiare rapporto con l’avversario, che non viene più percepito come il difensore di ideali distinti da quelli progressisti, ma come il difensore di disvalori, o ideali negativi. Dunque, come l’incarnazione del male. Detto ancora più crudamente, e con specifico riferimento alla società italiana: la sinistra pensa di rappresentare “la parte migliore del Paese”, contrapposta alla “parte peggiore del Paese”, rappresentata dalla destra. Come è stato possibile? È abbastanza semplice. La mossa chiave che ha permesso di cambiare radicalmente il gioco della politica è stata quella di autodefinirsi come anti-qualcosa. Da un certo punto, che collocherei negli anni ‘80, nel mondo progressista al posto degli antichi valori e simboli - l’uguaglianza, la classe operaia, i deboli - hanno progressivamente preso piede due totem definiti negativamente: l’anti-razzismo e l’anti-discriminazione. Essere di sinistra ha significato sempre di meno occuparsi delle difficoltà degli strati bassi, e sempre di più percepirsi come nemici irriducibili dei due (presunti) vizi capitali del nostro tempo: il razzismo e la discriminazione. Il primo, esercitato contro gli immigrati, il secondo contro le cosiddette minoranze Lgbt+ (per chi non fosse familiare con l’acronimo: Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali, eccetera). Ed ecco fatto: il gioco, che almeno fino agli anni ‘70 era rimasto pulito, ora è sporco. Perché se io mi autodefinisco come anti-qualcosa di negativo, allora è automatico che il mio avversario politico sia a favore di quel negativo contro cui io mi batto. È un problema logico, più volte messo in luce dal grande filosofo Alain Finkielkraut: l’ideologia anti-razzista crea un’anomalia nella competizione politica, perché se il mio avversario si autodefinisce anti-razzista, io che la penso diversamente da lui divento anti-antirazzista, dunque razzista. E come tale impresentabile, oggetto di riprovazione e disprezzo. Lo stesso, identico, cortocircuito logico si presenta con il problema delle minoranze Lgbt+: se i progressisti ne difendono le battaglie, chi quelle battaglie non condivide, o contrasta, passa automaticamente nella schiera degli omofobi, accusato di odio verso le minoranze sessuali e di genere (con curioso slittamento della lingua, visto che “fobia” in greco significa paura, non certo odio). Di qui, infine, il disprezzo dell’avversario politico, che diventa il nemico, che attenta alla causa del bene. Ecco perché il gioco, oggi, è truccato, non solo in Italia. Chiunque si intesti una causa ovvia, sia essa la lotta contro la mafia, il salvataggio del pianeta, il contrasto del razzismo, e la trasformi in un appello, una petizione, un simbolo, un meme, un messaggio pubblico, si sente autorizzato a pretendere che anche gli altri aderiscano alla sua causa, la sostengano, prendano posizione pubblicamente a suo favore. Chi non lo fa, sia esso un personaggio famoso che non firma, un calciatore che non si inginocchia, un disegnatore che si permette una vignetta irriverente, passa ipso facto nel novero degli incivili, su cui l’establishment degli illuminati si sente in diritto di riversare quotidianamente il proprio disprezzo. Può accadere così che chi ha delle critiche verso il disegno di legge Zan sia bollato come omofobo e odiatore delle minoranze. Che chi dissente sulle politiche di accoglienza sia tacciato di razzismo e disumanità. E può accadere persino che il segretario di un partito che si crede progressista si permetta di redarguire in tv sei calciatori che hanno osato non inginocchiarsi a comando, facendo mancare il proprio sostegno ad una delle tante sigle che si contendono le decine di cause giuste che competono fra loro per l’attenzione dei media e degli elettori. Eppure dovrebbe essere chiaro. L’ostentazione della propria adesione a una causa ovvia, accompagnata dalla lapidazione morale di chi sceglie di non aderirvi, non è un modo sano di condurre la lotta politica. Perché la politica - quella vera, non quella degenerata dei nostri giorni - è innanzitutto libertà di espressione, e rispetto della diversità di opinioni, sentimenti, modi di vita. Il resto è bullismo. Bullismo etico, se volete. Ma sempre bullismo, ossia sopraffazione da parte di chi si sente il più forte. “Trasformare la solidarietà in progetto politico: ecco cosa ci ha insegnato la pandemia” di Giuliano Battiston L’Espresso, 27 giugno 2021 Aiutarsi vicendevolmente è molto importante, vale ovunque, vale in un grande Paese come l’Italia. Se ci si aiuta vicendevolmente si vive meglio, si sta meglio. Ma da grandi questo si dimentica. Vivere insieme significa che ognuno ha bisogno degli altri e quindi aiutarsi rende migliore la vita di tutti quanti”. Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante una recente visita a una scuola elementare di Roma. Tra i “grandi”, qualcuno non se lo dimentica. Vale per i promotori del Recovery Planet, un piano alternativo al Recovery Plan governativo “che contrappone il prendersi cura alla predazione, la cooperazione solidale alla solitudine competitiva, il noi all’io”. Un piano “scritto a mille mani”, esito di un processo durato quasi un anno, grazie alla partecipazione diretta di centinaia di associazioni e cittadini, dalla Casa internazionale delle donne di Roma al Centro Studi Sereno Regis di Torino, da Fairwatch al Forum siciliano dei movimenti per l’acqua e i Beni Comuni. Un lungo itinerario di democrazia partecipata che alla triade “competizione, concorrenza, produttività” oppone “cura, cooperazione, uguaglianza”. Per quanto drammaticamente dolorose, “le lezioni della pandemia non vanno sprecate”, sostengono i promotori della Società della cura. Partono da un assunto simile le autrici e gli autori del “Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza” (edizioni Alegre, traduzione di Marïe Mose e Gaia Benzi). Cinque accademici e attivisti da Grecia, Australia, Stati Uniti, Regno Unito, riuniti nel collettivo The Care/La cura, per i quali “l’esperienza del lockdown ci ha dato effimeri indizi di quello che potrebbe essere un mondo migliore”, con le pratiche diffuse di mutuo soccorso, condivisione, riconoscimento del lavoro di cura e di tutte le altre attività essenziali ma disconosciute nel corso della storia, associate alla femminilità, derubricate ad attività improduttive. I danni dell’incuria, il capitalismo neoliberista che vede il cittadino ideale come “autonomo, indipendente, resiliente, autosufficiente”, vanno sostituiti con il riconoscimento che “siamo plasmati dalle nostre interdipendenze”. E che abbiamo urgentemente bisogno “di politiche che mettano la cura al primo posto”. La cura intesa come “la nostra abilità, individuale e collettiva, di porre le condizioni politiche, sociali, materiali ed emotive affinché la maggior parte delle persone e creature viventi del pianeta possa prosperare insieme al pianeta stesso”. Per farlo serve una infrastruttura della condivisione, una comunità di cura “promiscua e indiscriminata”, al di là delle strutture di parentela e statuali, verso un cosmopolitismo radicale che trasformi l’idea di cittadinanza e appartenenza. Accompagnando il passaggio dal “vecchio, keynesiano modello di stato sociale” allo stato di cura universale. Possibile solo con una visione ibrida. “Femminista, queer, antirazzista ed ecosocialista”. La base unificante per le riflessioni “ambientaliste, femministe, classiste, neourbane e neorurali”, “la più rilevante sintesi di idee che si sia vista dopo l’Illuminismo” è l’ecologia sociale. Se ne dice convinto Murray Bookchin, operaio metalmeccanico, sindacalista, fondatore dello Institute for Social Ecology e attivista della New Left americana in un testo del 1989, oggi un classico, appena tradotto: “Per una società ecologica” (eleuthera, traduzione di Roberto Ambrosoli). Per Bookchin occorre “ricondurre la società all’interno di un quadro di riferimento ecologico”, perché “la maggior parte dei nostri problemi ecologici ha le sue radici in problemi sociali”. Serve un nuovo equilibrio “basato sulla libertà dal dominio e dalla gerarchia, perché è dal dominio tra gli esseri umani che nasce l’idea del dominio sulla natura”. Smarcandosi dal “dualismo che divide nettamente la società dalla natura” così come “dal rozzo riduzionismo che dissolve la società nella natura”, Bookchin dimostra come la natura si dispieghi lentamente nella società. La storia naturale “è un’evoluzione cumulativa verso forme e relazioni sempre più differenziate e complesse”. Segnata da svolte cruciali durante le quali possiamo indirizzarci verso una società ecologica e razionale o verso una società antiecologica e irrazionale. Come quella capitalistica. I tentativi di realizzare un capitalismo verde o ecologico, sostiene Bookchin, “sono condannati all’insuccesso: il capitalismo può essere “persuaso” a porre un freno al suo sviluppo”, alla sua furia competitiva, accumulativa ed espansiva, “come un essere umano può essere “persuaso” a smettere di respirare”. L’unica alternativa possibile “è distruggerlo”, rimpiazzandolo con una “società ecologica fondata su relazioni non gerarchiche, su eco-tecnologie come l’energia solare e su comunità decentralizzate”, come nel municipalismo libertario. Il ridimensionamento delle grandi città in comunità a misura umana “non è il sogno romantico di un solitario amante della natura, né un remoto ideale anarchico. È un obiettivo indispensabile per una società ecologicamente stabile”, che alimenti i valori della complementarietà, del mutuo appoggio, del senso del limite. Anche per Alberto Magnaghi, architetto urbanista, professore emerito all’università di Firenze, “una conversione ecologica non è praticabile in una società che non ha coscienza di luogo e abitanti consapevoli”. È una delle tesi de “Il principio territoriale” (Bollati Boringhieri), in cui l’autore invoca “il ritorno alla cura sapiente, creativa, corale” del territorio “da parte di abitanti organizzati in forme comunitarie di autogoverno”. Se la pandemia è una “conseguenza eco-catastrofica provocata sulla biosfera dall’antropocene nel suo delirio entropico”, bisogna diffidare della “possibile deriva tecnocratica, tecnologica e centralistica della difesa della natura e della conversione ecologica”. E ritrovare invece “la misura dell’insediamento urbano”, attraverso un eco-territorialismo. Attingendo alle intuizioni di chi ha riconosciuto la superiorità del principio territoriale su quello funzionale. Come Murray Bookchin, appunto. Ma soprattutto Pëtr Kropotkin. Se oggi nei laboratori di Princeton, Harvard, Oxford o Cambridge schiere di economisti, sociologi, psicologici e biologi studiano la cooperazione animale e il valore del mutuo appoggio è grazie a questo pensatore e agitatore che da paggio di camera dello zar Alessandro II è diventato padre fondatore dell’anarchismo, ricercato dalla polizia russa, incarcerato nella prigione francese di Clairvaux insieme a Louise Michel, “figura mitica della Comune di Parigi” come ricorda Giacomo Borella, curatore e traduttore (per la prima volta dall’edizione originale inglese) de “Il mutuo appoggio: un fattore dell’evoluzione” (Eleuthera). Kropotkin redige questo libro profetico a Bromley, a sud di Londra, dopo decenni di militanza, viaggi, fughe e arresti. Lo fa con un obiettivo polemico, correttivo: riequilibrare una visione parziale e distorta del darwinismo. Per Kropotkin gli innumerevoli seguaci di Darwin hanno elevato “la lotta “spietata” per il vantaggio personale a livello di un principio biologico”. Tra loro anche un interprete autorevole come Huxley, che nel 1888 pubblica “La lotta per l’esistenza nella società umana”. “Un’interpretazione molto errata dei fatti della natura” a cui Kropotkin replica con otto articoli pubblicati tra il 1890 e il 1896 sulla rivista londinese The Nineteenth Century, raccolti e integrati nel 1902 nel volume “Mutual Aid: A Factor of Evolution”, quello appena uscito in italiano. A Bromley, Kropotkin sistematizza gli appunti di viaggio di quando, neanche trentenne, faceva ricerca sulle orme di Alexander von Humboldt. In Siberia orientale e Manciuria meridionale, in “cinquantamila miglia su carri, su piroscafi, in barca, ma soprattutto a cavallo” anche a quaranta o sessanta gradi sotto lo zero, aveva raccolto una documentazione titanica. Insettti sociali, api, formiche, locuste, farfalle del genere Vanessa, coleotteri del genere Cicindela, cicale, granchi di terra, termiti, uccelli, aquile, mammiferi, primati. “Non ho potuto trovare, sebbene la cercassi con impazienza, quell’aspra lotta per i mezzi di sussistenza tra animali appartenenti alla stessa specie che la maggior parte dei darwinisti (ma non sempre lo stesso Darwin) considerava la caratteristica dominante della lotta per la vita e il principale fattore dell’evoluzione”. Non solo il mutuo appoggio è una legge della vita animale tanto quanto la lotta reciproca, riassume Kropotkin, ma “come fattore di evoluzione ha probabilmente un’importanza molto maggiore”. A interessargli è soprattutto la società degli uomini. I modi e le forme della sua organizzazione. Studia la storia e le istituzioni di mutuo appoggio - la tribù, la comunità di villaggio, le gilde, la città medievale - e si convince, nota Borella, che si possa evitare la degenerazione delle istituzioni da vitali a oppressive solo rispettando il valore ecologico della misura, il radicamento territoriale. Valeva in passato, vale ancora oggi, scrive il pensatore russo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento: “Il bisogno di mutuo appoggio e di aiuto reciproco si afferma di nuovo, anche nella nostra società moderna, e rivendica il suo diritto di essere, come è sempre stato, la guida principale verso ogni futuro progresso”. Perché sul fine vita deve decidere il popolo di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 27 giugno 2021 La volontà di una persona di porre fine alla propria vita e di non provvedervi da sola con il suicidio, ma di chiedere l’intervento e l’aiuto di altre persone era contrastata dal testo originario del codice penale (1930) con due diverse ipotesi di reato. Si tratta da un lato del delitto di omicidio del consenziente e dall’altro di quello di aiuto al suicidio. La portata di questa sola seconda ipotesi è stata ristretta dalla Corte costituzionale con la sentenza del 2019, che ha escluso la punibilità di chi aiuta altri a morire, quando si tratti di persona capace di prendere decisioni libere e consapevoli, affetta da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, e tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale. In questo modo la Corte ha considerato la condizione in cui si trovava Fabiano Antoniani (Dj Fabo), che nel 2017 Marco Cappato aveva accompagnato a morire in Svizzera. La sentenza è intervenuta dopo che, un anno prima, la Corte aveva avvisato il Parlamento che la norma, così come era, contrastava il principio costituzionale di ragionevolezza, alla luce della legislazione che riconosce il diritto a rifiutare le cure, anche quando ne derivi la morte del paziente, in vicende su cui incidono valori quali la dignità della persona e il suo diritto alla autodeterminazione, il Parlamento non era stato in grado di modificare la norma incriminatrice eliminandone la incostituzionalità. Ed era stato quindi necessario l’intervento della Corte costituzionale, la quale aveva sì dichiarato la parziale incostituzionalità della norma, ma aveva anche segnalato la necessità di un intervento legislativo per disciplinare i tanti aspetti della materia che esulano dall’area di competenza della Corte. Anche questa volta, dopo quasi due anni, il Parlamento non ha saputo svolgere il suo dovere di legislatore. A causa dell’assenza del Parlamento, le vicende gravi e dolorose in cui persone sono portate a chiedere di morire piuttosto che sopportare la vita cui sono costrette, sono da un lato oggetto del nuovo testo della legge penale derivante dalla sentenza della Corte costituzionale, ma dall’altro praticamente non risolvibili secondo quanto consentito dalla legge. Gli ospedali pubblici cui quei pazienti si rivolgono, come indicato dalla Corte costituzionale, per ottenere prima di tutto che venga accertato che il loro stato corrisponde a quello che la Corte costituzionale ha considerato, per stabilire la non punibilità di chi aiuti quelle persone a suicidarsi, non sono disposti a provvedere. Essi avanzano argomenti che rifondano sulla mancanza della legge specifica che ne preveda le modalità. Nemmeno i governi che si sono succeduti hanno provveduto dando disposizioni esecutive della sentenza della Corte costituzionale. I giudici cui quelle persone si rivolgono hanno fino ad ora dato risposte diverse. L’incertezza è grande e aggiunge pena a pena. È vero che Marco Cappato è stato assolto nel processo milanese cui la sentenza della Corte costituzionale si è riferita e anche in altri processi successivi, ma Parlamento e governo, con la loro inerzia di fatto mantengono la incostituzionalità che la Corte costituzionale ha dichiarato. E in questa situazione di blocco del funzionamento istituzionale del sistema democratico di garanzia dei diritti fondamentali delle persone, che la Associazione Luca Coscioni, proseguendo l’azione di resistenza civile di Marco Cappato, ha lanciato la raccolta delle firme necessarie per un referendum popolare, che, intervenendo sul codice penale risolva le questioni che sono ancora aperte. Perché la sentenza della Corte costituzionale, pur salutata come un passo avanti verso il rispetto dell’autonomia delle persone, ha ancora limiti importanti, che derivano anche dal fatto che essa si è riferita alla sola ipotesi di suicidio assistito, senza considerare quella confinante dell’omicidio del consenziente. La differenza può essere marginale e irrilevante quanto ai valori e libertà in gioco, legata come è a dettagli esecutivi: l’aiuto al suicidio, diversamente dall’omicidio del consenziente, richiede che ratto finale (come bere il veleno mortale, schiacciare coni denti il pulsante che attiva l’introduzione della sostanza venefica) venga compiuto da chi vuole morire e non dal terzo che lo assiste. Ma quando è accertata la consapevolezza e la libertà di chi ha deciso di morire, la differenza non ha rilievo rispetto alla autonomia della persona nel decidere come e quando morire. Vi è una forte dose di ipocrisia nel distinguere le due ipotesi. A ciò si aggiunge che la Corte costituzionale, anche perla specificità della vicenda umana e processuale che l’ha portata a intervenire sulla norma penale, è intervenuta in un modo che meriterebbe ripensamento o piuttosto sviluppo. Se la Corte mantenesse l’argomentare che l’ha portata a ritagliare in stretti limiti l’area fattuale in cui lo Statori - spetta l’autonomia della persona, l’ammissibilità del referendum potrebbe essere a rischio. Ma nel frattempo è intervenuta una limpida sentenza della Corte costituzionale tedesca, che ha considerato centrale il tema riguardante la “qualità” della decisione di morire, la cui maturità, consapevolezza e libertà sono non solo necessarie, ma anche alla fine sufficienti. Poiché lo Stato è tenuto a mettere in opera ogni mezzo per escludere vizi di quella drammatica decisione, offrendo anche alternative utili come trattamenti palliativi o altri interventi, ma non spetta allo Stato sostituirsi alla persona nel valutarne le ragioni e ancor meno nel decidere in quali situazioni rispettare la volontà della persona e in quali no. La sentenza della Corte tedesca non può essere ignorata in Italia: il tema dei diritti fondamentali delle persone è universale e la circolazione degli argomenti è tanto più importante nell’area d’Europa. I quesiti che con il referendum si pongono al voto popolare tendono al superamento della attuale incostituzionale limitazione della autonomia delle persone. Nella paralisi del Parlamento, l’intervento diretto del popolo è la soluzione considerata dalla Costituzione. Psichiatria, il grande dilemma tra cura ed esclusione sociale di Dario Stefano Dell’Aquila Il Manifesto, 27 giugno 2021 Alla Conferenza nazionale sulla salute mentale i buoni propositi di Speranza sulla carenza dei servizi territoriali. Il nodo dei fondi. Si è chiusa la seconda Conferenza nazionale per Salute mentale, “Per una salute mentale di comunità”, promossa dal ministero della Salute. Ben vent’anni dopo dalla prima che fu promossa, nel gennaio del 2001, dall’allora ministro Umberto Veronesi, e da un governo che di lì a poco avrebbe terminato il suo mandato. La Conferenza è stata aperta dal ministro Roberto Speranza con un intervento molto strutturato, quasi conclusivo. Il ministro ha ricordato le criticità, “le ampie diseguaglianze che ancora persistono fra regioni e all’interno delle regioni stesse nell’accesso alle cure, nell’offerta assistenziale, nelle risorse disponibili, nel ricorso ai Trattamenti Sanitari Obbligatori” e la carenza di risorse professionali ed economiche. Speranza ha evidenziato la necessità di rafforzare la cultura dell’assistenza territoriale e la presa in carico integrata dei sofferenti “evitando - per quanto possibile - di allontanare i pazienti in strutture che rischiano di escluderli dalla società”. Un segnale importante, non solo sul piano simbolico, è stato l’annuncio di un documento che sarà presentato in sede di Conferenza Stato- Regioni per il superamento della contenzione meccanica nei luoghi di cura della salute mentale. L’indicazione delle priorità è chiara, meno definita la quantificazione di nuove risorse che secondo il ministero potrebbero essere individuate in tre modi: a) vincolare quota parte dei fondi 2021 delle Regioni al perseguimento degli obiettivi di carattere prioritario e di rilievo nazionale, b) utilizzo dei fondi dell’edilizia sanitaria per la riqualificazione di quelle strutture territoriali dedicate alla salute mentale, c) negoziazione dell’utilizzo dei fondi strutturali che potrebbero essere destinati alla salute mentale delle sette regioni del sud. Sullo sfondo il possibile utilizzo delle risorse del Pnrr. Come ha poi specificato Nerina Dirindin, consulente del ministro Speranza, nella giornata conclusiva, il tema centrale non è solo quello della carenza delle risorse, ma quello di “ripensarle e riallocarle” in termini economici e culturali. Il superamento della logica di “prestazioni” a favore di una costruzione di “percorsi” di inclusione, di prossimità e di comunità è fondamentale perché il sofferente psichico sia considerato una persona e non un oggetto da “mettere da qualche parte”. Se la conferenza del 2001 fu criticata per il mancato coinvolgimento degli operatori, questa ha sicuramente avuto l’intelligenza di una impostazione più partecipata, articolata in otto gruppi tematici in cui si sono susseguiti oltre un centinaio di contributi qualificati. Prevenzione, de-istituzionalizzazione, inclusione sociale, lavoro di equipe, percorsi di inserimento e buone pratiche, qualificazione dei servizi territoriali, rafforzamento del ruolo delle associazioni, perfezionamento del sistema informativo sulla salute mentale, attenzione ai migranti e alle persone prive della libertà personale, sono le parole chiave che hanno caratterizzato i lavori e che sono stati restituiti dai rapporteurs nella giornata conclusiva. Quale bilancio fare, dunque? I lavori della Conferenza sono stati di indubbio interesse e di elevato spessore culturale e teorico, ma resta aperta la questione di come rendere questa visione strategica “concreta” e “uniforme” nei territori, specie alla luce dell’autonomia delle Regioni in materia sanitaria. Due le questioni aperte più urgenti. In primo luogo, come segnalato dagli stessi documenti ufficiali vi è una notevole estensione di strutture residenziali che per molti pazienti “sembrano rappresentare delle “case per la vita” piuttosto che dei luoghi di riabilitazione” e che oscillano “ambiguamente tra trattamento e riabilitazione, da un lato e custodia dall’altro”. Il timore che la logica manicomiale riviva in nuove forme e in modo diffuso è dunque tutt’altro che infondato e strettamente legato alla capacità dei servizi territoriali di “presa in carico” del paziente. In secondo luogo, per centinaia di migliaia di utenti dei servizi parole come “presa in carico” e “inclusione”, sono la forma di un desiderio neppure intravisto. Valga su tutte la testimonianza di Maria Cristina Soldi, sorella di Andrea, morto asfissiato a Torino, nel 2015, durante un Tso effettuato da tre vigili e uno psichiatra, mentre inoffensivo era seduto su una panchina. Intervenendo in un gruppo di lavoro Maria Cristina, dopo aver ascoltato gli interventi sulle buone pratiche, con parole chiare, serene e consapevoli ha detto: “devo essere sincera, tutte cose che allargano il cuore (…) però per noi non c’è stato nulla di tutto questo (…) Noi siamo stati praticamente abbandonati, tutte cose che noi non abbiamo mai visto”. Resta dunque attuale più che mai, l’insegnamento di Basaglia, capire quali spazi di utopia sono realizzabili nel concreto perché “soltanto nella lotta noi possiamo pensare di cambiare qualcosa di reale, la lotta in cui uno possa vedere quello che è il futuro, ma il futuro reale di una situazione che cambia”. Un esercito di interinali, immigrati e senza diritti: ecco gli sfruttati della green economy di Tommaso Giagni L’Espresso, 27 giugno 2021 Il Trentino è in cima alla classifica del riciclo. Ma chi lo rende possibile sono lavoratori sottopagati e senza garanzie. Un simbolo del lavoro in Italia. “Le mansioni sono retribuite diversamente in base al colore della pelle”. Massaman è stato mandato via di colpo, dopo tredici anni di contratti di un mese, rinnovati volta per volta. Era maggio e Massaman è diventato un simbolo per chi lavorava con lui, la rassegnazione che faceva sopportare l’insopportabile è diventata altro. Da alcune settimane, così, un gruppo di operai della raccolta differenziata in Trentino dà battaglia. Si sono rivolti al sindacato, hanno fatto tre giornate di sciopero. Sono africani, in regola con i documenti e guadagnano poco più di 6 euro netti (8,77 lordi) all’ora per separare e imballare il materiale per il riciclo. Da anni il loro orizzonte è mensile come la durata del contratto. Non hanno tredicesima, non maturano scatti di anzianità. Chiedono una stabilizzazione, ma ha più senso parlare di dignità. “Quando esco per il turno non sono mai contento, nel cuore. Il fatto che non sono istruito, non vuol dire che non capisco. Siamo schiavi moderni”, dice Adama, maliano, figura chiave della lotta e delegato Usb. Eppure è anche merito suo e degli altri operai, se la Provincia di Trento può vantarsi di essere ai vertici delle classifiche nazionali della differenziata. Daniel Agostini, funzionario Usb che segue la vicenda, è sbalordito: “Mi sembra di vivere nell’Ottocento, quando i diritti non esistevano. Varcati i cancelli dell’azienda, si entra nel passato”. L’azienda è la Ricicla Trentino 2 Srl, che nella Provincia si occupa della separazione di plastica, metallo e vetro. Tra le pieghe della sostenibilità ambientale, del Green Deal, dello slancio ecologista verso il futuro, esistono ombre che ospitano i vecchi problemi del lavoro, neri come il carbone. Nel tedesco monatlich, mensile, Alessandro Manzoni individuava l’origine della parola “monatto”. Un lavoro legale e detestabile. “D’altronde la legge non sempre è giustizia”, dice Agostini. Questi lavoratori hanno un contratto a tempo indeterminato con un’agenzia interinale, Gi Group, e contratti mensili di missione con l’azienda. Se Ricicla Trentino lascia a casa il lavoratore, l’agenzia gli paga una sorta di disoccupazione. “Sì, per massimo otto mesi, a un massimo di 800 euro lordi”, dice Agostini: “L’agenzia dovrebbe ricollocarli altrove, ma non lo fa mai, non offre alternative”. Così RT ricorre sistematicamente a un bacino di manodopera a basso costo. Zona industriale di Lavis, all’ombra della Paganella, pochi chilometri a nord di Trento. In fabbrica, selezionare i materiali è un lavoro ripetitivo che pretende estrema attenzione. Turni di sette ore al giorno. Dai centri di raccolta sparsi per la provincia arrivano i rifiuti, che in seguito verranno spediti altrove per lo smaltimento. Dopo un lungo nastro di prima differenziazione, un macchinario incanala su nastri più piccoli, dove la precisione aumenta: il vetro blu va separato dal vetro verde, il nylon dal polipropilene. Agostini spiega che “il nastro viene accelerato, i materiali corrono anche a ottanta chilometri orari”, per chi viene considerato esperto. È il caso di Adama, addetto ad alluminio e tetrapak, con le cuffie per difendersi dal rumore delle lattine. Ha trentatré anni, dal Mali è arrivato in Algeria attraverso il deserto, poi in Libia. Era il 2010, ha lavorato come elettricista. Pochi mesi dopo è scoppiata la guerra, passare le frontiere è diventato proibitivo, restare impossibile, l’unica via di fuga era l’Italia. Sul barcone erano in trecento, tre i giorni che sono serviti a raggiungere Lampedusa. E lui riassume così il viaggio: “Se hai fortuna, vivi, se no muori”. Non è mai andato a scuola perché la famiglia non poteva permetterselo, quindi in Italia ha imparato a leggere e scrivere, su uno dei pochi mobili di casa c’è un manuale di italiano. Fawali separa le bottiglie su un altro nastro. “Sono cresciuto tra Mali e Guinea, poi sono andato dove potevo vivere meglio: in Libia”. Ha una postura che gli anni in fabbrica e i mesi da stagionale in Puglia e a Rosarno non hanno piegato. Ancora ricorda che sul barcone arrivato a Lampedusa erano 183 persone. In Trentino ha lavorato in una fabbrica di trattori, prima di essere mandato via per la crisi nel 2008. RT è stata un’opportunità: “Ho preso questo lavoro contento, perché nel settore non c’è crisi”. A tredici anni di distanza, con la famiglia lontana e a condizioni di lavoro indegne, lo spirito è ben altro. Quasi tutti hanno i figli in Africa con la moglie. Hosei ne ha uno, in Ghana, nato quando iniziò a lavorare qui, sedici anni fa. Lo vede solo durante le ferie, dall’ultima volta sono passati due anni, dice che si conoscono poco. Kanda da tredici anni lavora per RT e di figli in Mali ne ha cinque. Vorrebbe averli sempre con sé ma non li vede dall’ottobre prima della pandemia. Impossibile portarli in Italia, sarebbe un passo più lungo della gamba, queste condizioni tengono tutto nell’incertezza. “Anche volendo, non potrebbero: per il ricongiungimento va dimostrato di avere un lavoro stabile, una casa abbastanza grande e le capacità economiche per mantenere i familiari”, commenta Agostini. Già è un problema trovare casa per sé: affitti inaccessibili, proprietari che non vogliono inquilini neri o che chiedono garanzie più consistenti di un contratto mensile. Si finisce per dividere appartamenti piccoli e bui a Trento Nord, l’area urbana stigmatizzata dove gli affitti sono meno cari. Avrebbero un mese di ferie all’anno, ma non sempre vengono accordate dall’azienda. Alla richiesta di Adama, l’anno scorso, è stato risposto che troppi lavoratori erano via. “La dicitura “congruo preavviso” è talmente arbitraria che viene girata come si vuole”, dice Agostini. Ora che Adama ha maturato un altro mese di ferie, ne ha chiesti due di seguito. “Possono anche darglieli, ma il rischio è che al ritorno non gli ridiano subito il lavoro o che non venga ricollocato affatto”, prosegue Agostini. L’incertezza accompagna le loro vite. Così le relazioni familiari passano per il telefono e per i soldi inviati ogni mese, con la tagliola delle commissioni tra il cambio di valuta e il trasferimento di denaro, “nove euro su 100”, spiega Fawali. A insistere nell’ombra si scopre che le stesse mansioni vengono pagate in modo diverso, a seconda che a svolgerle sia un dipendente o un interinale. Cioè: a seconda del colore della pelle. RT dichiara, da visura camerale, sette dipendenti, “tutti italiani” spiega Agostini. “Ma a lavorare sono una quarantina, con gli interinali: che sono tutti africani, tutti lavoratori svantaggiati”. Una categoria, questa, appetibile per chi dà lavoro: prevede sgravi fiscali e permette di aggirare il tetto che limita il ricorso agli interinali. “Svantaggiato è chi è straniero, chi non ha un titolo di studio concorrenziale sul mercato, chi non conosce bene l’italiano”. Hosei è addetto al muletto e alla ruspa, in questi sedici anni ha visto via via gli italiani arrivati dopo, addetti a ruspa e muletto, venire strutturati mentre lui restava coi contratti mensili. Come per gli altri africani, il contratto firmato con Gi Group non era in doppia lingua perché non è obbligatorio che lo sia. “Un vuoto normativo, così hanno accettato condizioni indegne, Gi Group li ha fregati. Per esempio il contratto non riconosce che la missione sia a tempo indeterminato, benché il lavoro per l’azienda sia continuativo e per anni”, lamenta Agostini. Secondo Usb c’è ancora altro: “Una carenza di sicurezza”. Gli odori sono violenti, già solo all’esterno della fabbrica. Soprattutto, i lavoratori sono a contatto con polveri pericolose, per esempio quelle del vetro. Non è raro che sentano dolore tra le scapole e abbiano problemi respiratori. Prima del Covid-19 l’azienda li dotava di mascherine adeguate. “Ora che sul mercato è esplosa l’offerta, la mascherina è diventata l’FFP2. Economica e insufficiente. L’azienda ne fornisce circa otto al mese”, spiega Agostini. In più, gli operai dovrebbero avere qualcosa che protegga l’avambraccio dai pezzi di vetro e plastica che maneggiano sul nastro che corre. Invece RT fornisce solo i guanti, e loro si arrangiano indossando sugli avambracci calzini lunghi a cui tagliano le punte. L’attenzione alla sostenibilità può essere una retorica vuota, anche nel virtuosissimo Trentino. I lavoratori migranti non hanno intenzione di cedere all’ipocrisia e al ricatto: l’Italia è il posto dove vivono da anni e vogliono restarci. A condizioni finalmente dignitose, come quelle dei bianchi che nella stessa azienda svolgono le stesse mansioni. “Durante un presidio ai cancelli della fabbrica, un amministratore di RT si è avvicinato dicendo che se ai lavoratori non andava bene così, potevano andarsene”, racconta Agostini. L’assemblea sindacale del sabato, sul terrazzo in cima alla sede Usb di Trento, si chiude con l’esortazione in italiano a non mollare finché non si vincerà. È sabato e il prossimo turno inizia lunedì, coi materiali sul nastro a cinquanta, settanta, ottanta chilometri orari. È sabato ma i materiali sul nastro li accompagnano comunque, nella vita fuori dai cancelli, come spiega Adama: “Le cose continuano a girarti nella testa”. Migranti. Bracciante morto: vietato in Puglia il lavoro nei campi dalle 12 alle 16 di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 27 giugno 2021 Il provvedimento del governatore Michele Emiliano resterà in vigore fino al 31 agosto. Indagini per capire le condizioni di lavoro della vittima, che percepiva 6 euro all’ora. La morte di Camara Fantamadi, il bracciante originario del Mali stroncato da un malore dopo una giornata di fatica nei campi, forse non rimarrà senza seguito. Il governatore della Puglia Michele Emiliano ha emanato un’ordinanza che vieta sull’intero territorio regionale il lavoro agli addetti all’agricoltura nelle ore più calde della giornata, precisamente dalle 12 alle 16. Il tutto per evitare di esporre ai lavoratori a rischi per la loro salute. Poche ore prima un analogo provvedimento era stato già adottato dal sindaco di Brindisi territorio in cui Camara ha perso la vita. Oltre a ciò, la magistratura ha avviato accertamenti per conoscere l’esatta posizione lavorativa del bracciante maliano mentre i suoi colleghi hanno avviato una colletta per consentire il rimpatrio della salma nel Paese di origine. L’ordinanza prevede lo stop del lavoro sotto il sole “ogniqualvolta la mappa dell’Inail indicherà “rischio alto nel nostro territorio”, vale a dire quando le previsioni del tempo indicheranno ondate di caldo tali da rendere rischiose le condizioni di lavoro. Il provvedimento rimarrà in vigore fino al 31 agosto. “La vicenda di Camara Fantamadi - scrive Riccardo Rossi, sindaco di Brindisi in una nota - un ragazzo di 27 anni che dopo una giornata di lavoro nei campi di Brindisi, durante il ritorno in bici, è morto vittima del troppo caldo, ha colpito tutta la nostra comunità. Molti sono i lavoratori che sono morti negli anni a causa delle condizioni proibitive nelle campagne durante la stagione estiva. Per questo ho ritenuto corretto salvaguardare la salute dei lavoratori nelle giornate più calde, provvedendo ad emettere questa ordinanza. Il lavoro non può mai essere sfruttamento, deve essere rispettoso della dignità delle persone”. Altre amministrazioni, dopo quella brindisina, sarebbero intenzionate a firmare provvedimenti analoghi. La misura a protezione del lavoro adottata in tutta la Puglia non è in verità inedita: l’anno scorso, sempre in Puglia, era toccato al sindaco di Nardò, Pippi Mellone, firmare una limitazione analoga che vietava l’impiego di manodopera nei campi nelle ore più infuocate della giornata, sempre in concordanza con le indicazioni emanate dall’Inail sul rischio nei luoghi di lavoro. Anche a Nardò l’ordinanza è stata confermata per la stagione 2021. Intanto si cerca di fare luce sulle condizioni che hanno portato alla morte Camara Fantamadi. Il bracciante, residente a Eboli, ma chiamato in Puglia da un fratello in occasione della stagione agricola, lavorava a giornata per un compenso di 6 euro l’ora. Il giorno della sua morte, al mattino era già rimasto vittima di un malore; aveva poco più tardi chiesto di tornare in casa e aveva intrapreso il tragitto verso il suo domicilio provvisorio - distante 15 chilometri - in bicicletta. La temperatura, in quelle ore, era di circa 40 gradi. Durante questo percorso si è sentito male definitivamente ed è morto. Migranti. Non abbiamo ancora superato i “decreti sicurezza” di Salvini di Luca Attanasio Il Domani, 27 giugno 2021 I decreti Salvini sono vivi e vegeti. A quasi sette mesi dalla loro modifica strutturale a firma della ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, sono ancora serenamente applicati in numerose questure, come se non fosse esistito il Papeete e a dettare legge sulla questione migranti fosse ancora la creatura normativa più amata dall’ex titolare del Viminale. L’impietosa fotografia della mancata attuazione della riforma dei decreti sicurezza ce la fornisce un’azione di monitoraggio sul campo, chiamata Paradosso all’italiana. Quando il governo italiano boicotta sé stesso, curato dal Forum per cambiare l’ordine delle cose che ha scandagliato le prassi degli uffici immigrazione delle questure di 16 grandi città italiane e dimostrato la “totale disapplicazione della legge e l’emersione di gravi criticità procedurali”. L’indifferenza - Agitati come soluzione finale ai problemi di legalità del paese, con l’abrogazione della protezione umanitaria, le multe e le inibizioni alle Ong che soccorrono in mare e la diffusione di un’idea aggressiva nei confronti degli immigrati (che ha conseguenze dirette sulle scelte operative di questure e prefetture) i decreti sicurezza hanno in realtà fatto schizzare il tasso di irregolarità: già stimati in 562mila alla fine del 2018, gli irregolari, per effetto del primo decreto sicurezza dell’ottobre 2018, hanno superato i 610mila a fine 2019 (Dossier immigrazione 2020). Con effetti negativi sulla criminalità, come hanno spiegato Milena Gabanelli e Simona Ravizza lo scorso ottobre sul Corriere della Sera: “Secondo le ultime statistiche, quando uno straniero passa da regolare a irregolare, il rischio che commetta un reato aumenta tra le 10 e le 20 volte”. Sebbene moltissimi tra politici, parlamentari, organismi transnazionali e mondo dell’associazionismo ne chiedessero l’abrogazione totale, la riformulazione dei decreti Salvini a opera del secondo governo Conte, con la legge n. 173/20 (in vigore dallo scorso dicembre), è stata salutata come un passo in avanti. Ma, come dimostra il monitoraggio, il miglioramento è in moltissimi casi solo nel testo. “Ci sono due aspetti inquietanti che il dossier evidenzia - spiega il regista Andrea Segre, tra i promotori del Forum - da una parte siamo di fronte alla palese inapplicazione di una legge, un fatto gravissimo che sbugiarda la resistenza strutturale della macchina dello stato controllata da prefetti e questori nostalgici della misura precedente, che nei fatti si sono opposti alla protezione speciale, misura introdotta dal nuovo decreto. Dall’altra assistiamo a un progressivo sgretolamento della volontà politica che davanti alla mancata attuazione di una legge, si fa incerta se non indifferente”. Nulla di diverso - Nelle 16 città sotto osservazione (tra queste Reggio Calabria, Brindisi, Napoli, Roma, Firenze, Bologna, Trieste e Bolzano) sono state vagliate le prassi degli uffici immigrazione delle questure e delle commissioni territoriali per la protezione umanitaria, oltre che le posizioni assunte dai tribunali ordinari, in particolare per quanto attiene all’accesso alla protezione speciale prevista dalla nuova normativa. Il risultato preoccupa: migliaia di persone escluse dall’accoglienza legale a causa dei decreti sicurezza del 2018 - con effetto immediato in quel caso - continuano a galleggiare in un pericoloso limbo giuridico, tra irregolarità e invisibilità. Prassi illegittime, circolari contraddittorie, istanze non ricevute o non prese in esame, richieste da parte delle questure di documenti previsti dai vecchi decreti che la legge attuale non esige, documentazioni integrative dimenticate, ignoranza dei cambiamenti: un confuso patchwork che elude in modo evidente la legge. “Quando il decreto 130 è diventato legge per noi è stata una vera e propria liberazione - confessa Valeria Pecere, membro del direttivo del Forum e socia della cooperativa Solidarietà e Rinnovamento che gestisce due Sai (ex Sprar) a Brindisi e Ostuni - i richiedenti asilo potevano rientrare nei sistemi di accoglienza (per i decreti Salvini i richiedenti erano in grado di rientrare nel diritto alla protezione, e quindi nei centri di seconda accoglienza, solo se la loro richiesta fosse stata accettata, ndr) e veniva istituita la protezione speciale che sostituiva e ricalcava l’umanitaria abolita nel 2018. Ma ben presto ci siamo resi conto che le cose non cambiavano: le questure rimandano, lasciano passare mesi, e le richieste di protezione speciale che per la nuova legge dovevano passare per le questure e avere un iter più rapido, continuano a essere affidate alle commissioni che, a loro volta, tardano ulteriormente. Le cifre dei rientri nei Sas grazie alle protezioni speciali, a quanto ci risulta, sono irrisorie. Queste norme sono fintamente progressiste, piuttosto sembrano dei palliativi, degli slogan per dire che abbiamo superato il salvinismo, ma siamo ancora lì”. Sprofondare nell’invisibilità - Per molti immigrati l’ingresso o il ritorno alla regolarità è una specie di gioco dell’oca in cui arrivi a un passo dal traguardo ma ritorni sempre al punto di partenza. Un meccanismo che estenua chi ne è vittima e lo forza a scomparire nell’invisibilità. “Il mio caso è emblematico - spiega Mamadou Toure, maliano, mediatore interculturale e tesoriere della comunità africana di Brindisi - Io ho avuto un permesso umanitario che è scaduto nel 2019 e che, essendo stato abolito, non potevo rinnovare. Nel frattempo ho firmato un nuovo contratto e ho chiesto appuntamento in questura per ottenere, come da regola, il permesso per lavoro subordinato. Mi hanno dato prima un appuntamento dopo quattro mesi, poi dopo altri sei, nel frattempo il contratto di lavoro è scaduto. Il datore me lo avrebbero rinnovato ma, senza un permesso regolare, non poteva esserci alcun rinnovo. Poi, finalmente, la legge è cambiata e avrei potuto usufruire nuovamente della protezione speciale, ma, anche qui, lungaggini infinite, continui ostacoli, mancata conoscenza della nuova normativa, un concentrato di problemi insormontabili che mi ha portato a ottenere un permesso solo qualche giorno fa. Io però sono da sette anni in Italia, parlo correntemente la lingua, sono diplomato ragioniere e conosco a perfezione i meccanismi burocratici. Immaginate un immigrato solo, che non abbia neanche una delle mie abilità: sprofonda nell’invisibilità con tutti i problemi che comporta per l’intera società, non solo per lui”. Di male in peggio - A completare il quadro caotico una direttiva che contraddice la legge stessa. “La circolare numero 23186 del 19 marzo 2021, emanata dalla Direzione centrale dell’immigrazione del ministero dell’Interno - denuncia il senatore Gregorio De Falco, firmatario di un’interrogazione parlamentare sulla inapplicazione della Legge 173/20 - aggrava ancora di più le procedure per il permesso di soggiorno. Si afferma che le istanze per protezione speciale devono essere presentate personalmente dall’interessato nelle forme previste dalla legge (kit postale o direttamente all’ufficio immigrazione competente, ndr) e che, quindi, non possono essere considerate valide le istanze presentate tramite email, pec, ecc. Ma anche che la tipologia di permesso di protezione speciale non potrebbe essere richiesta direttamente al questore pena l’irricevibilità. Si gioca quindi a disorientare il richiedente aumentando burocrazie e ostacoli. Peraltro non si comprende perché debba essergli consentito, ancor più in fase di emergenza Covid-19, di presentare l’istanza solo di persona. C’è una preoccupante tendenza delle amministrazioni periferiche ad applicare la vecchia normativa, nonostante sia stata superata”. Rispetto al passato, in realtà, un cambiamento netto nella pratica c’è stato. Ma in peggio. Se prima alle navi delle Ong si inibiva l’attracco, adesso non gli si consente proprio di partire: come riporta l’Ispi, i sequestri o i fermi amministrativi hanno raggiunto il record di 8 proprio in queste settimane. Sulle missioni militari non abbiamo imparato niente dall’Afghanistan di Francesco Vignarca e Paolo Pezzati* Il Domani, 27 giugno 2021 Il ritiro dall’Afghanistan dopo 20 anni di nostra presenza militare, con risultati fallimentari sotto diversi punti di vista, doveva stimolare un dibattito sugli obiettivi e gli impatti delle missioni militari e del loro dispendioso impegno. La scorsa settimana il governo ha deliberato, senza troppe discussioni, gli impegni militari internazionali italiani per il 2021. In totale 40 missioni militari nel 2021: 38 già in atto in tre continenti e due nuove (nello Stretto di Hormuz e in Somalia). Una grande attenzione soprattutto all’area africana (17 missioni) e al quadrante mediorientale con il Golfo Persico in prima fila (9 missioni). Sono questi i primi scarni dettagli della deliberazione del consiglio dei ministri della scorsa settimana sulle missioni internazionali e iniziative di cooperazione allo sviluppo (che sono però del tutto residuali). Una decisione che per legge dovrebbe arrivare a inizio anno, ma che nel 2021 registra quasi un mese di ulteriore ritardo rispetto al 2020, anno in cui il parlamento ha potuto votare il proprio parere definitivo solo a dicembre (con il paradosso quindi di una decisione ampiamente “retroattiva”). Eppure il ritiro dall’Afghanistan dopo 20 anni di nostra presenza militare, con risultati fallimentari sotto diversi punti di vista, dovrebbe stimolare un dibattito ampio e importante sugli obiettivi e gli impatti delle missioni militari e del loro dispendioso impegno (quasi 1,5 miliardi stanziati). Forse un illusorio miraggio, che però impedisce una seria analisi non solo del dispiegamento militare ma anche degli interventi di cooperazione internazionale inseriti nel quadro del medesimo provvedimento (nominalmente circa il 20 per cento dei fondi, in realtà poco oltre il 10 per cento se andiamo a sottrarre i 120 milioni destinati proprio alle forze armate e di polizia afghane). La cooperazione internazionale - Su quest’ultimi, occorrerebbe un cambio di approccio: da qualche anno la gran parte dei fondi vengono destinati ad agenzie internazionali o multilaterali, tagliando fuori i soggetti di cooperazione della società civile italiane, la loro conoscenza della realtà sul campo e il sistema di rapporti costruiti con le comunità locali. Confermando l’impressione che si tratti solo di un tentativo di “indorare la pillola”, consentendo quindi l’approvazione senza troppe contestazioni dei ben più cospicui finanziamenti di natura militare. Negli ultimi anni gli interventi militari hanno avuto il focus in particolare del “Mediterraneo allargato”, al centro anche delle decisioni appena confermate in consiglio dei ministri. In tale prospettiva, il caso libico è quello più emblematico: dal 2017, anno dell’accordo siglato dal governo Gentiloni, l’Italia ha speso 755 milioni di euro tra missioni navali e missioni in Libia. La sensazione, da confermare una volta resi noti i dettagli del provvedimento dell’esecutivo, è che per il 2021 la cifra stanziata per il paese nord africano sia superiore ai 58 milioni spesi nel 2020. Le dichiarazioni del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, i viaggi del ministro degli Esteri Luigi Di Maio e di quella dell’Interno Luciana Lamorgese, spingono a ipotizzare che l’Italia voglia far seguire i fatti rispetto alle dichiarazioni di sostegno al (transitorio?) governo libico. I soldi alla Libia - Eppure sarebbe giunto il momento di invertire la rotta di queste decisioni, interrompendo per prima cosa il finanziamento diretto alla cosiddetta guardia costiera libica costantemente in aumento, fino a toccare nel 2020 i 10 milioni di euro. Tale sostegno è già previsto anche all’interno della missione bilaterale Supporto Libia, nella missione navale Mare Sicuro e nella missione navale europea Irini ma senza che ne sia definita precisamente la portata (e il costo). Non a caso da almeno due anni le organizzazioni della società civile chiedono l’istituzione di una Commissione di inchiesta, che indaghi sul reale impatto dei soldi spesi in Libia e sui naufragi nel Mediterraneo. Per ora i soli dati certi riguardano le persone intercettate e riportate in Libia: nel 2021 sono già oltre 14.000, numero superiore all’intero 2020, con un totale di più di 55.000 negli ultimi 4 anni. Persone purtroppo destinate e rientrare nel ciclo di abusi e torture sistematiche dalle quali stavano cercando di scappare. Anche i morti quest’anno sono di nuovo in crescita nella rotta del Mediterraneo centrale: quasi 700. Tra le 4 missioni navali attive nel Mediterraneo (oltre 540 milioni spesi) nessuna prevede compiti di ricerca e soccorso, una carenza inaccettabile. Si dovrebbe dunque dare seguito quantomeno alla proposta fatta dal segretario del Pd, Enrico Letta, rispetto alla missione Irini che dovrebbe “diventare la missione che consente di gestire il salvataggio in mare”. Non sarà facile che ciò avvenga, dato che la missione, nonostante i forti dubbi sulla sua efficacia, è stata appena rinnovata in sede europea e dunque servirebbe uno sforzo diplomatico deciso perché il tema possa venire riproposto prima della sua scadenza (marzo 2023). La domanda che invece permane è come la classe politica italiana e quella europea possano continuare a perpetuare lo schema (da loro impiantato) che legittima l’esistenza di una zona di ricerca e soccorso al largo della Libia (Sar) affidando ai libici competenze che non dovrebbero essergli affidate. Un tragico escamotage utile agli europei per non incorrere direttamente in accuse di respingimenti e di violazione del principio di non refoulement. La Libia, cosa da anni ben evidente, non è infatti un porto sicuro e non può costituire una soluzione per i salvataggi in mare. *Francesco Vignarca, coordinatore campagne Rete italiana pace e disarmo *Paolo Pezzati, coordinatore advocacy Aoi - Associazione delle ong Italiane Italia e Europa lasciano in Libia tutto com’è mentre violano i diritti umani di Vanessa Ricciardi Il Domani, 27 giugno 2021 Mentre l’Italia si prepara a prorogare le missioni in Libia e il Consiglio europeo si limita a rinnovare gli auspici per la stabilizzazione dell’area, Medici senza frontiere ha dovuto sospendere le sue operazioni Tripoli perché ormai le condizioni umanitarie sono insostenibili. “Vogliono rendere più digeribile la collaborazione con la Guardia costiera libica che intercetta i migranti e li porta nei centri di detenzione, dove le condizioni sono disumane” dice Marco Bertotto, responsabile Affari Umanitari della Ong. Il presidente del Consiglio Mario Draghi il giorno dopo l’annuncio di Msf è intervenuto alla Camera e al Senato in vista del Consiglio europeo dichiarando la sua soddisfazione per aver sollevato il tema migratorio in Europa, ma alla fine non si è raggiunto nulla. La maggiore cooperazione - Sui flussi l’Italia aveva detto di aspettarsi una maggiore cooperazione dell’Unione europea. Richieste disattese, visto il brevissimo passaggio delle conclusioni del Consiglio che si sono limitate a confermare “gli impegni” e “gli auspici”. Nel suo discorso, Draghi aveva fatto riferimento alla possibilità che sui diritti umani ci sia un maggiore intervento dell’Alto commissariato delle nazioni unite dell’Oim, così come il Consiglio. Ma Bertotto commenta: “È pazzesca la citazione dell’Unhcr e dell’Oim per ristabilire i diritti umani in Libia. Le stesse Nazioni unite hanno dichiarato di avere possibilità minime”. Le violenze - Martedì Medici senza frontiere ha annunciato che lascerà i centri di Al-Mabani e Abu Salim a Tripoli. Nei centri di detenzione libici oggi ci sono circa seimila persone “una delle cifre più alte raggiunte, persone tenute in condizioni di violenza e pericolo tale che ci hanno spinto a dichiarare l’impossibilità per Medici senza frontiere di continuare a lavorare in quei due centri”. Da febbraio di quest’anno, maltrattamenti, abusi e violenze sono aumentati costantemente. Le persone, detenute arbitrariamente, vengono lasciate morire di fame, in quattro per cella, dove sono costrette a dormire a turno: tutti non potrebbero avere lo spazio per stendersi. Anche le madri con i loro bambini vengono lasciati senza cibo. Il 17 giugno, durante una visita al centro di detenzione di Al-Mabani le équipe di Msf hanno visto che i detenuti venivano picchiati mentre lasciavano le loro celle per essere visitati dagli operatori sanitari, che si sono così trovati in uno stato di minaccia: “Abbiamo identificato una soglia oltre la quale non potevamo più rimanere per assistere impotenti” racconta a Domani Bertotto. I corridoi umanitari - La risposta a tutto, da qualche settimana a questa parte, sembrano essere i corridoi umanitari: “Dicono che il tema non è il soccorso in mare ma i corridoi umanitari. I corridoi sono giustissimi - replica Bertotto - ma finora hanno permesso l’evacuazione di poche centinaia di persone, e i nuovi sono ancora tutti da mettere in piedi, mentre da quando l’Italia nel 2017 ha firmato l’accordo bilaterale col la Libia ci sono state circa 65 mila persone intercettate in mare e portate nei centri di detenzione”. L’operatore di Medici senza frontiere non ha dubbi: “La priorità numero uno è impedire le partenze e mettere in pratica politiche di esternalizzazione per non fare arrivare i migranti, quella è l’unica linea su cui c’è un accordo” su tutte le altre “l’Europa ha fallito”. Anche qualora nei prossimi mesi si arrivasse a rafforzare i corridoi umanitari “non si possono giustificare 65 mila persone passate per i centri di detenzione libici. Con una mano sosteniamo i piccoli passi e con l’altra un’autostrada di abusi”, questa è “retorica che riempie i documenti ufficiali”. Portare avanti così la collaborazione con la Libia per Medici senza frontiere è impensabile: “Finora c’è stata una richiesta di supporto all’interruzione delle partenze in cambio di sostegno economico, non c’è alcuna forma di condizionalità”. In questo modo i trafficanti finora ne sono usciti rafforzati: “Non credo che queste cose saranno cambiate adesso”. I salvataggi - Sui salvataggi in mare Draghi e l’Europa hanno taciuto, ma si è espresso il parlamento. La risoluzione dopo le comunicazioni approvata alla Camera e al Senato e firmata da tutti i partiti che sostengono il governo, dalla Lega al Pd, fa riferimento al buon funzionamento dei dispositivi europei per i soccorsi in mare: “Ma non esistono - dice Bertotto - hanno cancellato tutto, se non i dispositivi di intercettazione aerea che dicono ai libici dove andare per i gommoni dei migranti: è proprio finzione”. Nelle premesse invece si trova un passaggio dove i parlamentari ritengono assodato che bisogna “assicurarsi che gli Stati di bandiera delle navi europee che effettuano operazioni di salvataggio in mare, collaborino all’individuazione di un porto di sbarco e si assumano la responsabilità dell’accoglienza delle persone soccorse, nel rispetto delle convenzioni internazionali sul diritto del mare”. Per Bertotto è “un accenno pericoloso non conforme alle norme internazionali, il richiamo agli stati di bandiera. Un modo di colpire l’attività di soccorso in mare: vogliono disincentivare gli stati di bandiera a supportare le Ong, con la minaccia di far gravare la responsabilità dei salvataggi” una posizione, ribadisce, “illegale”. La Geo Barents di Medici senza frontiere arrivata in mare poche settimane fa batte bandiera norvegese: “Per quale ragione la Francia o l’Olanda dovrebbero avere meno responsabilità? Questo è un tentativo indiretto di fare fuori le navi adducendo motivazioni che non hanno nessun fondamento legale. È assolutamente pretestuoso”. Di fronte alla risoluzione approvata da destra sinistra, conclude: “Questa è una constatazione amara. Forse non c’era modo di trovare una mediazione diversa, visto che ci sono partiti dalle posizioni diversificate, ma il fatto che abbiano firmato, e tutti siano d’accordo con le politiche di esternalizzazione e deterrenza, è assodato”. Caso Assange. Quando il silenzio diventa un omicidio di Vincenzo Vita Il Manifesto, 27 giugno 2021 Siamo di fronte, dunque, ad un caso amaro in sé, viste le precarie condizioni di salute di Assange, e per sé. Sembra, infatti, la prova tecnica di un nuovo regime nell’informazione. Lo scorso venerdì si è tenuto, presso il Senato della Repubblica, un convegno sul diritto alla conoscenza. Promosso dalla biblioteca del Senato medesimo diretta da Gianni Marilotti insieme all’associazione intitolata allo scomparso giornalista di inchiesta Mimmo Càndito (fu presidente dei Reporter senza frontiere dal 1999), il dibattito si è giustamente incentrato sulla tragica vicenda di Julian Assange. Il giornalista di origine australiana è il fondatore dell’agenzia WikiLeaks, oggi detenuto nel carcere speciale inglese di Belmarsh con il rischio solo rinviato dell’estradizione negli Stati Uniti. L’iniziativa ha rotto un po’ il velo di silenzio attorno ad una vicenda dai contorni pericolosi ed emblematici. Grazie all’impegno di Marinella Venegoni, la compagna di Càndito, di Gian Giacomo Migone con l’Indice libri del mese, della federazione della stampa con Giuseppe Giulietti, della fondazione Basso e dell’omologa intitolata a Paolo Murialdi, nonché di Critica liberale il sipario si è strappato. Tuttavia, come hanno sottolineato gli interventi di chi (Raffaele Fiengo, Enzo Marzo, Nello Rossi) ha condotto per anni lotte incisive per la libertà di informazione e la trasparenza degli apparati, c’è moltissimo da fare. Fondamentale la documentata comunicazione di Stefania Maurizi de il Fatto Quotidiano, cui si deve in Italia il mantenimento la luce accesa su di una vicenda abnorme. Come sono risultati inquietanti gli interventi del padre del whistleblower John Shipton (con una sobria drammaticità, antitetica rispetto all’imbarazzante televisione del dolore di tanti talk) e dell’avvocato australiano dell’imputato Greg Barnes. Già, l’imputazione. Si tratta di un reato previsto dall’Espionage Act statunitense del 1917, in base al quale la pena prevista - in caso di accoglimento dell’estradizione, visto che gli Stati uniti non demordono - arriva a 175 anni di carcere. Siamo di fronte, dunque, ad un caso amaro in sé, viste le precarie condizioni di salute di Assange, e per sé. Sembra, infatti, la prova tecnica di un nuovo regime nell’informazione. Qual è la questione, in sintesi? Mentre coloro che hanno promosso guerre sanguinose e terribili in Iraq o in Afghanistan o hanno controllato migliaia di cablogrammi e di telefonate con la National Security Agency (NSA) girano per il mondo con conferenze ben retribuite, l’eroe civile capace di illuminare la verità rischia di morire in prigione. Eppure, ora le cancellerie quasi si vergognano delle guerre di conquista volte ad esportare - per così dire - la democrazia. Visto che dall’Iraq distrutto è nato il terrore dell’Isis o di Al Qaida e che dal clamoroso insuccesso afghano ne hanno tratto vantaggio i talebani. Per non citare lo scandalo di Guantanamo, che è tuttora un buco nero del e nel mondo globale. Di tutto ciò non si sarebbe saputo pressoché nulla senza il coraggio di WikiLeaks supportato dalle fonti Edward Snowden ex tecnico della Central Intelligence Agency (CIA) in crisi di coscienza, e Chelsea Manning, il militare che ruppe il muro dell’omertà e ha tentato per tre volte di suicidarsi. Shakespeare ne avrebbe tratto uno dei suoi capolavori, essendovi in tali storie il racconto senza false retoriche del lato oscuro potere. Quest’ultimo si fonda sulla pratica (violenta) del segreto, perché la verità può essere eversiva. Ciò accade soprattutto quando vi sono misfatti di stato, azioni belliche contrarie ad ogni legge internazionale. Assange è sottoposto nella fortezza in cui è rinchiuso ad una vera e propria tortura, della stessa forma da lui denunciata con una controinformazione preziosa. Ha ricordato Migone, come aveva fatto del resto in vista delle elezioni americane Furio Colombo, che siamo al cospetto di un precedente insidioso. Non così accadde quando Daniel Ellsberg, il whistleblower dei Pentagon Papers (1967), disvelò le porcherie della guerra del Vietnam. Allora non si ebbero condanne, in virtù del principio fondamentale della libertà di informazione garantito dal primo emendamento della costituzione di Washington. Tant’è che il New York Times e il Post pubblicarono paginate e non vi fu censura, malgrado le pressioni del segretario della difesa McNamara. Basti, poi, leggere il duro documento stilato dallo Special Rapporteur on Torture delle Nazioni unite, Nils Melzer. Dove si stigmatizza pure il comportamento della Svezia, dove la drammaturgia cominciò, con accuse strumentali rivelatesi infondate. Perché il sipario si apra davvero, serve un atto formale, così come è accaduto in Gran Bretagna e in Australia su spinta di parlamentari di parti diverse. Una mozione delle camere rivolta al presidente del consiglio Draghi, affinché ponga il problema di Assange all’unione europea e a Joe Biden, è urgente e necessaria.