“Senza cure per la salute mentale il carcere può essere una polveriera” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 giugno 2021 Lo ha detto la ministra della Giustizia Marta Cartabia durante la seconda conferenza “Per una salute mentale di comunità”. “Considero la tutela della salute mentale in carcere una priorità assoluta, per questo stiamo prendendo provvedimenti urgentissimi”. Lo ha detto la ministra della Giustizia Marta Cartabia durante la seconda conferenza “Per una salute mentale di comunità”. “71 persone sono in carcere, ma dovrebbe essere nelle Rems” - “Oggi abbiamo un problema urgentissimo - ha sottolineato la guardasigilli - e assai grave che è stato portato anche all’attenzione della Corte europea dei diritti dell’uomo: 71 persone che si trovano in carcere mentre dovrebbero essere ricoverate nelle Rems”. Parliamo delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza. Tema affrontato anche dalla recente relazione annuale al Parlamento del Garante nazionale delle persone private della libertà. “Stiamo prendendo provvedimenti urgentissimi - ha annunciato la ministra Cartabia - perché questa situazione è semplicemente inaccettabile e richiede un intervento indifferibile”. In che modo? La guardasigilli, durante la conferenza sulla salute psichica - ha osservato: “Il problema della salute mentale in carcere richiede interventi a vari livelli, ci sono i malati che devono essere seguiti nelle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, e ci sono i detenuti con disturbi tali da non richiedere il ricovero, ma ugualmente col diritto di ricevere l’assistenza necessaria, di nuovo: per il bene del singolo e di tutta la comunità carceraria”. La ministra ha anche sottolineato come la pandemia ha amplificato il disagio psichico che si è imposto con tutta la sua urgenza. “E in molti settori - ha proseguito la guardasigilli - compresi quelli di mia più diretta competenza, è ormai chiara la necessità di provvedimenti non più rinviabili”. Nel 2021 ci sono già stati 26 suicidi tra detenuti e 4 tra il personale - Ha anche ricordato che durante quest’anno, il 2021, ci sono già stati 26 suicidi tra i detenuti e 4 del personale. “E troppo numerosi - ha aggiunto - sono gli episodi di aggressione al personale che lavora nelle carceri. Dove manca la cura della salute mentale il carcere diventa una polveriera”. Ha ribadito quanto sia importante la cura del disagio psichico, perché è a tutela dei detenuti e di chi presta il suo servizio lavorativo in carcere. “Il carcere è una comunità - ha osservato la ministra Cartabia - una comunità stretta e chiusa dove i problemi di salute psichica latenti vengono all’evidenza e portano gravi disagi e rischi per tutti”. L’invito della ministra alle autorità sanitarie affinché “assicurino una adeguata assistenza ai detenuti” - Per questo, nel contempo, la guardasigilli si rivolge alle autorità sanitarie, ad oggi le sole competenti per la cura della salute mentale in carcere, affinché “assicurino una adeguata assistenza ai detenuti, perché prestino attenzione a cosa accade al di là delle mura”. La cura della salute mentale in carcere è un argomento spinoso. Nel tempo si sono succedute varie proposte di riforma dell’ordinamento penitenziario, spesso finite nel dimenticatoio a causa di un iter legislativo troppo farraginoso e concluse, poi, con riforme talora insoddisfacenti. Basti pensare alla riforma dell’ordinamento penitenziario ai tempi del ministro della giustizia Orlando. Alla fine è stata approvata a metà, escludendo anche la questione psichiatrica carceraria. Eppure, anche la Corte Europea di Strasburgo, ha in più occasioni, affermato - come recita la sentenza del 6 settembre 2016, n. 73548/13, W.D. c. Belgium - la necessità di fornire adeguata tutela a soggetti reclusi portatori di accentuata vulnerabilità, affermando che anche l’allocazione in reparto psichiatrico carcerario può dar luogo a trattamento degradante quando le terapie non risultino appropriate e la detenzione si prolunghi per un periodo di tempo significativo. Le articolazioni psichiatriche sono in poche carceri - Ci sono le articolazioni psichiatriche, ma in poche carceri, per curare i detenuti con problemi di salute mentale. E poi c’è il problema delle Rems. Il Garante nazionale è stato chiaro sul punto. Durante la sua presentazione della relazione annuale, ha osservato che non si risolve la questione con un discorso “edilizio”, ma di ridare vigore alla condivisione di riflessioni, che coinvolgano la Magistratura di cognizione, sulla necessità, la fisionomia e la finalità di tale misura. Le Rems, infatti, sono nate proprio per essere l’estrema ratio. Ma il ricorso a tale misura è in aumento, oltre al fatto che - rivela il Garante - c’è un progetto terapeutico riabilitativo individuale soltanto per il 43 percento delle persone internate con misura definitiva in queste strutture. Caso Rems, si muove Cartabia: “Via dal carcere 71 persone” di Fulvio Fulvi Avvenire, 26 giugno 2021 Su tutto il territorio nazionale sono presenti solo trenta “Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza” (Rems) per un totale di 709 posti a disposizione di detenuti affetti da malattie psichiche. Ma con la pandemia da Covid-19 la domanda di ricoveri nelle strutture che hanno preso il posto degli ospedali psichiatrici giudiziari, chiusi definitivamente nel 2015, è sempre crescente. “La domanda è di molto superiore alla capacità di accoglienza e 71 persone si trovano in cella anziché in Rems: questo è inaccettabile” ha detto la ministra della Giustizia, Marta Cartabia, dal palco della Conferenza nazionale sulla salute mentale di comunità in svolgimento a Roma. Un’emergenza a cui far fronte in tempi brevi, “una priorità assoluta a garanzia di tutti perché” ha proseguito l’esponente del governo “dove manca la cura della salute mentale le carceri diventano una polveriera”. “Il carcere è una comunità astratta e chiusa - ha spiegato Cartabia - dove i problemi di salute psichica latenti vengono all’evidenza e portano gravi disagi e rischi per tutti”. Il ministro si è rivolto quindi alle autorità sanitarie “oggi le sole competenti in materia” affinché assicurino “un’adeguata assistenza ai detenuti e prestino attenzione a cosa accade aldilà delle mura”. E ha chiesto quindi, soprattutto alle Regioni che hanno la più diretta responsabilità per la cura delle persone “se si può fare uno sforzo del tutto particolare in questo frangente”. Sulla gestione delle Rems la Corte costituzionale ha disposto proprio giovedì scorso un’istruttoria secondo la quale i Ministeri della Giustizia e della Salute, ma anche la Conferenza delle Regioni e l’Ufficio Parlamentare di bilancio, dovranno fornire entro 90 giorni informazioni in merito “alle difficoltà nell’applicazione concreta delle misure di sicurezza nei confronti degli autori di reato infermi di mente e socialmente pericolosi”. “Lavoreremo tutti velocemente e assiduamente” ha sottolineato Cartabia. “All’ordinanza della Consulta daremo seguito immediatamente con l’istituzione di un Osservatorio di monitoraggio su cui siamo in attesa della nomina dei rappresentanti delle Regioni” ha annunciato il ministro della Salute, Roberto Speranza. Il quale ha garantito anche un impegno sul fronte delle risorse, la prima delle quali - ha precisato - è quella culturale con la quale migliorare la qualità dell’assistenza, rafforzare il processo formativo e le buone pratiche nell’ambito di un sistema integrato con le aziende del Servizio sanitario nazionale”. Ed è necessario pure aumentare i finanziamenti dedicati al progetto. Speranza è poi intervenuto contro l’abolizione della contenzione nei luoghi di cura: “Mai più pazienti psichiatrici legati” ha sottolineato. Alla Conferenza sulla salute mentale di comunità sono arrivati anche i messaggi del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che chiede di “tutelare i più fragili”, e di Papa Francesco, da cui arriva l’invito a “superare lo stigma” che ancora pesa sulla malattia mentale, “contro la mentalità dello scarto secondo cui si prestano cure e attenzioni maggiori a chi apporta vantaggi produttivi alla società dimenticando che quanti soffrono fanno risplendere, nelle loro esistenze e ferite, la bellezza insopprimibile della dignità umana”. Il Capo dello Stato, in particolare, ha sottolineato che “l’Italia è stata pioniera in tema ponendo le basi per il superamento di limiti e barriere nella tutela delle persone con malattie psichiche”. Il riferimento è alla legge 180, detta “legge Basaglia”, approvata nel 1978. Bene i colloqui in presenza, ma manteniamo anche quelli video di Domenico Forgione Il Dubbio, 26 giugno 2021 La lettera di Domenico Forgione, l’uomo rimasto in carcere 7 mesi per scambio di persona. Gentile direttore, è stato accolto molto positivamente l’annuncio del ministro della Giustizia Marta Cartabia sulla ripresa dei colloqui in presenza nelle carceri. Come si ricorderà, la sospensione a marzo 2020 aveva scatenato le proteste e le rivolte culminate con i morti di Modena, feriti e pestaggi in diversi penitenziari. Per attenuare l’isolamento dei detenuti, in una fase caratterizzata inoltre dall’interruzione di ogni attività all’interno delle carceri (lezioni scolastiche, palestra, celebrazioni sacre, ingresso di volontari), il governo dispose l’aumento delle telefonate a casa e introdusse le videochiamate, sostitutive dei colloqui visivi, sebbene in numero variabile da penitenziario a penitenziario. Ad ogni modo, la soluzione contribuì a rasserenare gli animi e, cosa più importante, a garantire quel “diritto all’affettività”, in senso ampio, che va riconosciuto al detenuto quale tutela della sua dignità di essere umano. Una giustizia giusta è infatti incompatibile con la concezione della pena in senso esclusivamente afflittivo, tipica invece della “vendetta pubblica”. La sentenza 26/1999 della Corte Costituzionale ha stabilito una volta per tutte che “l’esecuzione della pena e la rieducazione che ne è finalità - nel rispetto delle irrinunciabili esigenze di ordine e disciplina - non possono mai consistere in “trattamenti penitenziari” che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro libertà”. La detenzione non annulla la titolarità dei diritti del detenuto, tra i quali vi è il diritto al mantenimento delle relazioni affettive con il proprio nucleo familiare. D’altro canto, l’articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, richiamato dall’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, afferma che “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o punizioni crudeli, inumani o degradanti”. Inumana e degradante è la condizione di chi, già privato della libertà personale, non può avere alcun tipo di contatto con le persone care. Ecco perché sarebbe auspicabile non abbandonare del tutto l’esperienza nata da una situazione di emergenza che si è rivelata tanto utile quanto umana. Non tutti i familiari di un detenuto hanno la possibilità di svolgere i colloqui in presenza, soprattutto se il penitenziario dista centinaia e centinaia di chilometri dal luogo di residenza. Ciò accade ai coniugi anziani (nelle carceri ci sono molti detenuti ultrasettantenni) con problemi di salute che rendono complicato un eventuale viaggio, in presenza di bambini molto piccoli o di familiari con disabilità, ma anche in realtà di disagio economico: non tutti possono permettersi i costi della trasferta e, a volte, del pernottamento. Mantenendo entrambe le opzioni, una alternativa dell’altra, chi non avesse la possibilità di svolgere i colloqui visivi potrebbe continuare a vedere il volto dei congiunti attraverso il display di un telefonino. Sembra poco, ma non lo è: né per i detenuti, né per i suoi familiari. La sentenza su Crespi: una pagina perfetta di diritto costituzionale di Andrea Pugiotto Il Riformista, 26 giugno 2021 Il provvisorio differimento della pena non solo ha il merito di rimettere transitoriamente sui binari un convoglio deragliato, ma ha il valore esemplare di un atto di giustizia giusta. Adesso dovrà decidere il Quirinale sulla domanda di clemenza fatta dalla moglie. 1. Bene ha fatto questo giornale (Il Riformista, 24 giugno) a mettere in giusta evidenza il provvedimento con cui il Tribunale di sorveglianza di Milano ha concesso al regista Ambrogio Crespi il provvisorio differimento dell’esecuzione della pena. E non solo perché si tratta di una vicenda giudiziaria quantomeno controversa. Crespi è stato condannato nel marzo scorso in via definitiva per il volatile reato di concorso esterno in scambio elettorale-politico mafioso. Da libero (perché scarcerato nel 2013 per assenza di esigenze cautelari), si è costituito spontaneamente in carcere per scontare una pena a 6 anni di detenzione, vissuta come iniqua sulla base di un’innocenza sempre rivendicata in giudizio. I molti aspetti opachi dell’intera vicenda processuale (passata al setaccio nel libro di Marco Del Freo, Il caso Crespi), unitamente alla biografia del condannato che è l’antitesi del reato attribuitogli, hanno alimentato consapevoli e allarmate preoccupazioni. Per impulso di Nessuno Tocchi Caino - affidabile sensore nel riconoscere casi di malagiustizia - è nato un apposito comitato per “raccontare una storia diversa: quella della certezza del diritto, della speranza e della nonviolenza”, facendo “parlare i fatti, le carte del processo, che si incaricheranno di gridare l’innocenza” di Crespi. Sul piano giuridico, l’azione del comitato mira alla grazia presidenziale o, in subordine, alla revisione del processo, anche attraverso il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo. L’obiettivo finale è la rimozione di “una pena - che ai sensi della Costituzione dovrebbe essere volta alla riabilitazione - nei confronti di una persona come Ambrogio che ha riabilitato persone e non richiede di essere riabilitata”, come ha scritto il Presidente del comitato, Andrea Nicolosi (Il Riformista, 26 marzo). 2. La decisione dei giudici milanesi va ben oltre il caso Crespi. Ha certo il merito di rimettere transitoriamente sui giusti binari un convoglio deragliato. Ma - per spessore argomentativo - assume il valore esemplare di un atto di giustizia, giusta perché costituzionalmente orientata. Il provvedimento si muove entro un perimetro preciso. C’è una domanda di grazia, presentata dalla moglie di Crespi. Il codice penale prevede, in questi casi, la possibilità di differire l’esecuzione della pena per non più di 6 mesi da quando la condanna è divenuta irrevocabile, a evitare l’inutile restrizione in carcere di un condannato che potrebbe beneficiare della clemenza presidenziale. Il tribunale di sorveglianza è chiamato, per questo, a formulare una prognosi sulla “non manifesta infondatezza” delle ragioni addotte a supporto della grazia, al fine di decidere sul differimento facoltativo della pena. Entro questi limiti di oggetto, i giudici milanesi scrivono una pagina da manuale di diritto penale costituzionale. 3. Ciò è vero, innanzitutto, per l’interpretazione dello scopo della pena che - costituzionalmente - deve tendere alla rieducazione del condannato. Originariamente equivocata (perché intesa quale emenda interiore). A lungo marginalizzata a vantaggio di altre funzioni della pena (dissuasione, prevenzione, difesa sociale). Poi circoscritta alla sola fase terminale della vicenda punitiva (cioè l’esecuzione penitenziaria). Oggi, grazie a una consolidata giurisprudenza costituzionale, il primato della pena quale trattamento risocializzante a struttura emancipante è assunto a “punto cardine” dell’intera vicenda punitiva, “da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue” (sent. n. 313/1990). Il suo espresso riconoscimento testuale fonda “il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena” (sent. n. 149/2018): dunque, nemmeno la sua natura intrinsecamente retributiva può azzerarne lo scopo dichiarato in Costituzione. Di ciò il tribunale di sorveglianza mostra piena consapevolezza. In linea con le osservazioni della difesa di Crespi, riconosce “già esaurita la finalità di risocializzazione e reinserimento sociale della pena rispetto al condannato”. Lo attesta la sua vita successiva all’avvenuta scarcerazione nel 2013, caratterizzata da un impegno professionale e umano “profuso nella difesa della legalità e anche nella lotta alla criminalità, ivi compresa quella mafiosa”. Ne è prova la sua produzione cinematografica, pluripremiata e riconosciuta quale efficace vettore educativo per le nuove generazioni. Tutto ciò - scrivono i giudici - “appare un elemento che può delinearsi come “eccezionale” nella valutazione del soggetto e delle ripercussioni di una pena detentiva applicata a distanza di molti anni, proprio per un reato riconducibile alla criminalità mafiosa”. L’uomo che dovrebbe scontare la sua pena è oramai l’opposto dell’uomo del reato. Non si tratta di un giudizio prognostico condotto con lo psicoscopio: il giudice non è un palombaro dell’anima. Semmai, è chiamato a capitalizzare fatti concludenti esteriori che attestano un avvenuto reinserimento sociale, secondo una corretta visione secolarizzata del finalismo penale, aliena da ogni forma di emenda morale o di conversione interiore. 4. Evitare l’incompatibilità tra la situazione specifica di un singolo condannato e i principi costituzionali di rieducazione e umanizzazione della pena: a questo serve la grazia. La sua titolarità presidenziale, il suo procedimento, i relativi meccanismi di controllo sono stati tracciati dalla Corte costituzionale - nella sent. n. 200/2006 - proprio a partire da questo vincolo di scopo. Come sostiene la difesa di Crespi, l’atto di clemenza è “mezzo di riparazione in senso equitativo e di rimedio alle possibili incoerenze del sistema” quando, dandosi applicazione a una condanna ritualmente disposta, la pena “si tradurrebbe in una illegittima duplicazione del percorso di riabilitazione e in un trattamento inumano e degradante”. Sono osservazioni che il Tribunale di sorveglianza condivide, ritenendole pertinenti al caso di Ambrogio Crespi: difficile è “conciliare il condannato per concorso esterno in associazione mafiosa di ieri con l’uomo di oggi”; comprensibile è “il conseguente disorientamento che anche pubblicamente ha generato la sua incarcerazione”. E tutto ciò conferma la plausibilità della richiesta di clemenza individuale. Qui, interlocutore privilegiato del provvedimento è il Quirinale. Crespi resterà libero fino al 9 settembre 2021. Se entro quella data non interverrà la grazia presidenziale, dovrà rientrare in carcere a scontare una pena oramai priva della sua finalità costituzionalmente necessaria. In passato, le grazie si contavano a migliaia: è una bulimia demenziale che la sent. n. 200/2006 ha censurato, in ragione della straordinarietà del potere presidenziale, da esercitarsi con misura. Ma la misura non è necessariamente quella del contagocce. Ad oggi, il Presidente Mattarella ne ha concesse solo 26: c’è dunque un ampio margine per l’esercizio di un potere di clemenza altrimenti quiescente e irrilevante. Il caso Crespi gliene offre l’opportunità. 5. La vicenda in esame, infine, chiama in causa anche il regime ostativo penitenziario: il reato per cui è stato condannato, infatti, è incluso nella blacklist dell’art. 4-bis, comma 1, ord. penit., e Crespi - professandosi innocente - non ha mai collaborato utilmente con la giustizia, benché secondo le autorità investigative potrebbe ancora fornire un supporto conoscitivo utile. Tecnicamente, ciò non preclude né pregiudica l’esito della domanda di grazia, né rileva ai fini del differimento della pena. E tuttavia il provvedimento del tribunale di sorveglianza di Milano contiene utili elementi di riflessione su come valutare il silenzio dell’imputato prima, del reo poi. Nel caso specifico, si prefigura la ricorrenza dell’ipotesi di una collaborazione impossibile, per la non organicità di Crespi al sodalizio criminale e perché i comportamenti a lui addebitati sono stati interamente accertati. Più in generale, dalla sua condotta complessiva possono inferirsi “elementi positivi attestanti una intervenuta dissociazione dai contesti criminali al quale si ascrive il reato”, tale da ritenere “l’insussistenza nell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata ed escludere la possibilità di un loro ripristino”. L’osservazione del condannato durante il periodo di detenzione, unitamente a quanto riferito dalle Direzioni Antimafia, nazionale e distrettuale, e dalla Questura, ne confermano l’assenza di pericolosità sociale. Anche qui il caso Crespi mostra tutta la sua esemplarità, confermando quanto la Corte costituzionale ripete - all’unisono con la Corte di Strasburgo - a un legislatore malato di ipoacusia: ci può essere ravvedimento senza collaborazione, e il silenzio non necessariamente è sempre omertoso. È quanto invece esclude a priori la presunzione assoluta che regge il regime ostativo. Così però il principio per cui nessuno può essere costretto ad accusarsi (nemo tenetur se detegere) non solo si capovolge nel suo opposto (carceratus tenetur alios detegere), “ma rischia di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati” (sent. n. 253/2019). 6. Grazie al provvedimento del tribunale di sorveglianza di Milano, impariamo così che è l’art. 27, comma 3, Cost. a imporre una individualizzazione della punizione finanche al punto di rinunciare alla sua esecuzione, laddove ne ricorrano le condizioni e l’ordinamento preveda istituti a ciò finalizzati (liberazione condizionale, il differimento della pena, la sua estinzione totale o parziale per grazia ricevuta). È una lettura da suggerire ai troppi che, in nome di una fraintesa certezza della pena, invocano una reclusione fino all’ultimo giorno dentro una cella di cui andrebbe buttata via la chiave. Scoprirebbero così che la teologia della maledizione perenne, del “fine pena mai”, del “devi marcire in galera”, è straniera al disegno costituzionale dei delitti e delle pene. Caso Crespi, rivoluzione del Tribunale di sorveglianza: “Il carcere non serve a punire” di Tiziana Maiolo Il Riformista, 26 giugno 2021 Al centro il processo di rieducazione e di cambiamento. Non vorrei mettere in difficoltà la Presidente Rosanna Calzolari e le tre colleghe (Benedetta Rossi, Letizia Marazzi, Benedetta Faraglia) del Tribunale di sorveglianza di Milano che hanno concesso il differimento della pena a Ambrogio Crespi. Non vorrei che queste giudici si sentissero tirate per la giacchetta se dico che la loro ordinanza, che recepisce largamente gli argomenti di un’altra donna, l’avvocato difensore di Crespi, Simona Giannetti, mette al centro della funzione della pena non la vendetta e la punizione, ma il processo di rieducazione e di cambiamento del condannato. E in un certo senso dimostra anche la scarsa utilità del carcere per il reinserimento nella società e per la ricucitura dello strappo attuato con la trasgressione, con il reato. Una rivoluzione copernicana. Si può dire? Nel caso di Ambrogio Crespi poi c’era ben poco da rimediare, non avendo lui commesso il reato di concorso esterno in associazione mafiosa per il quale è stato condannato in via definitiva a sei anni di reclusione. Il regista aveva semplicemente partecipato a una campagna elettorale della Regione Lombardia a sostegno del consigliere Domenico Zambetti, poi eletto e nominato assessore. Ricerca di preferenze (ma quando si deciderà il Parlamento ad abolirle?) nel modo tradizionale di tutti i partiti. Con qualche frequentazione di troppo, cosa che tra l’altro, oltre a danneggiare Crespi, rovinerà completamente la vita di Zambetti, portandolo a pesanti crisi esistenziali, e determinerà anche la caduta dell’ultima Giunta Formigoni. Con le mafie e con i boss nessuno dei due accusati e ora condannati aveva niente a che fare. Ma i concorsi esterni non si negano a nessuno, e la storia di Ambrogio Crespi è talmente esemplare e simbolica dell’irrazionalità paranoica dell’amministrazione della giustizia, che andrebbe raccontata e spiegata nelle scuole. Non è stato il carcere ad aver rieducato Ambrogio Crespi, ma è suo il merito di aver “usato” la prigionia e l’ingiustizia per diventare maestro di Stato di diritto e di lotta alla mafia con la cultura e con le regole. Tutta la sua attività di artista e di vero divulgatore della cultura della legalità, come ricordato nell’ordinanza, ne ha fatto una persona addirittura incompatibile con lo stato di detenzione. Del resto la sua custodia cautelare non è durata a lungo, e il gip lo aveva scarcerato su richiesta dello stesso pm. Ma ancora permangono nei suoi confronti molti sospetti, determinati dal fatto di essersi lui sempre dichiarato non colpevole del reato che gli viene attribuito. Retropensieri che sempre riguardano chi non si assoggetta alla forza dello Stato che, se ti ha catturato, ti vuole, quasi per necessità, colpevole e genuflesso, meglio se “pentito”, cioè reo confesso e delatore. Nel caso di Crespi lo si deduce in modo evidente dalle stesse relazioni della Direzione nazionale antimafia, della Dda di Milano e della Divisione Anticrimine della Questura di Milano. Pareri necessari (anche se non vincolanti, in teoria) dopo il decreto di un anno fa arrivato a correggere la circolare umanitaria (oltre che sensata) del Presidente del Dap Francesco Basentini, poi costretto alle dimissioni da una furibonda campagna mediatica contro “le scarcerazioni dei boss”. Che erano stati solo cinque, in realtà, e avevano semplicemente goduto per un breve periodo, in quanto anziani e malati, proprio del differimento della pena. E le giudici del tribunale di sorveglianza di Milano che si erano pronunciate su quei casi, insultate da quelli del “buttiamo la chiave”, erano state costrette a ricorrere al Csm con una pratica di autotutela. Ambrogio Crespi non solo in tutti questi anni, a partire dal 2013 quando è stato scarcerato fino a quando si è costituito, l’11 marzo scorso, dopo la sentenza definitiva della Cassazione, ha mantenuto il comportamento di un bravo cittadino che lavora ed è attaccato alla famiglia, ma ha fatto molto di più, con la sua attività culturale si è addirittura sostituito a quel mancato educatore che è il carcere. L’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Milano elenca le sue opere, i successi, i premi. I pareri delle istituzioni “antimafia” e della stessa questura di Milano sono positivi: non risulta che in tutti questi anni vissuti da uomo libero il regista milanese abbia mai avuto cattive frequentazioni o sia stato in qualche modo contiguo a organizzazioni mafiose. Però. L’elenco dei “però”, assunti anche dalla giudice di sorveglianza che per prima ha esaminato e poi respinto la richiesta di differimento pena, è lì a dimostrare la strettoia culturale che passa dal “fine colpa mai” fino ad arrivare al “fine pena mai”. Scrive la Dna il 21 marzo scorso che Crespi “non ha collaborato in nessun modo con la giustizia” e che “potrebbe fornire ancora un supporto conoscitivo utile”. Ma soprattutto che “la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora, pur non più assoluta, non è certo superabile in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo e nemmeno in ragione di una sola dichiarata dissociazione…”. Se questo è il ragionamento, se questa è la cultura di chi deve dare suggerimenti ai tribunali di sorveglianza, alcuni articoli della Costituzione come il 27 o il 111 sul giusto processo sono già cancellati. E se a questo aggiungiamo il fatto (non mi stancherò mai di ricordarlo) che la Presidenza del Dap, voluta dall’ex ministro Bonafede e mantenuta da Marta Cartabia, è nelle mani di due magistrati “antimafia”, è apparentemente inutile parlare di rieducazione e reinserimento nel contesto sociale del condannato. Pare quasi che sia più educativo denunciare i propri amici che dichiararsi innocente. Per fortuna in Italia non esistono solo i pubblici ministeri e non decidono solo quelli che si proclamano “antimafia” (come se -repetita juvant - fosse compito dei magistrati lottare contro i fenomeni sociali), ci sono anche i tribunali di sorveglianza. Quello di Milano presieduto da Rosanna Calzolari ha proprio operato una rivoluzione copernicana. Ha spostato dal centro dell’universo giudiziario la pena e vi ha messo la rieducazione. Ha esaminato con attenzione gli argomenti usati dal difensore che, insieme a una serie di associazioni di altro valore morale e sociale, ha presentato al Presidente della repubblica la domanda di grazia per Ambrogio Crespi, e li ha considerati fondati. Dando un giudizio positivo sul, come di dice, “fumus di non manifesta infondatezza”. Perché non ci sono ombre, nella vita di questo condannato. Perché ha usato la sua professionalità, le sue capacità, la sua intera vita, in questi anni, al servizio di “denuncia sociale” e “impegno civile”. E per “la difficoltà di collegare il condannato per concorso esterno in associazione mafiosa di ieri… con l’uomo di oggi, divenuto un simbolo positivo anche della lotta alla mafia”. Poteva mancare la tiratina di orecchie ai colleghi “antimafia”? Non è mancata. Infatti “le stesse Dna e Dda non hanno portato elementi di contenuto rispetto alla generica affermazione che il condannato potrebbe ancora fornire un supporto conoscitivo utile”. Infatti non hanno potuto esimersi dal constatare “… l’assenza di elementi attestanti, nell’attualità, la pericolosità del soggetto e collegamenti dello stesso con la criminalità organizzata”. Benissimo, possiamo concludere. Abbiamo un condannato che non solo è innocente (solo chi è accecato dal pregiudizio non lo vedrebbe), ma è un artista di grande successo soprattutto per opere tematiche sulla giustizia, ed è anche uno che fa pubblica propaganda per la lotta contro il potere mafioso. Abbiamo poi una brava e tenace avvocata e un tribunale di sorveglianza composto da quattro magistrate attente e che non si fanno intimidire dai colleghi molto apprezzati dalla stampa. È sufficiente questa rivoluzione copernicana al femminile? Speriamo. “Umiliato e isolato: così Battisti subisce una vendetta di Stato” di Valentina Stella Il Dubbio, 26 giugno 2021 Enza Bruno Bossio in visita nel carcere dove è detenuto: “Una delle ragioni del suo digiuno è che viene tenuto nell’alta sicurezza 2, dove ci sono solo jihadisti”. “Cesare Battisti è in sciopero della fame dal 2 giugno, sta molto male fisicamente e psicologicamente, e a mala pena si regge in piedi. Le motivazioni per cui lo fa sono molto serie e giustificate”. A riferirlo al Dubbio è stata l’onorevole del Pd Enza Bruno Bossio che ieri mattina, nell’ambito dell’attività ispettiva propria di un parlamentare all’interno degli istituti di pena, ha visitato il carcere di Rossano, in provincia di Cosenza, dove ha anche incontrato l’ex terrorista dei Pac e ne ha verificato le condizioni di salute e detenzione. “Una delle ragioni del digiuno, che ormai dura da 24 giorni, è che l’uomo viene tenuto nell’alta sicurezza 2, dove ci sono solo terroristi jihadisti, e un solo italiano ma che comunque ha aderito all’Islam. La loro socializzazione esclude automaticamente Battisti. Non è una questione di razzismo, come hanno scritto su Libero, ma di aggregazione. Lui è sostanzialmente isolato e non è in grado di avere una socialità. Ha con sé dei libri e da poco gli è stato dato un computer ma che non si può ricaricare in cella per problemi di voltaggio. L’ora d’aria la fa in una specie di quadrato sostanzialmente un po’ più grande della cella piccolissima dove vive. Non ha ricevuto neanche la visita del cappellano, pur avendola richiesta a suo dire. A ciò si aggiunge il fatto che i parenti sono lontani e hanno difficoltà a raggiungerlo lì”. Battisti vorrebbe sapere inoltre, prosegue Bossio, “quali sono le motivazioni per cui il Dap lo ha assegnato all’alta sicurezza 2, considerato che esse sono state secretate e non sono state comunicate mai nemmeno al suo avvocato. Nei suoi confronti non si sta applicando la legge. Si badi bene: lui non rifiuta il carcere, ha commesso dei crimini di cui si è assunto la responsabilità. Ma pretende una carcerazione dignitosa e legale. Questa è la battaglia che sta facendo e la porterà avanti fino a quando lo Stato non gli darà una risposta. Lo sciopero della fame non vuole essere un ricatto ma una richiesta di chiarezza. È legittimo quello che sta subendo o qualcuno vuole farlo “marcire” in carcere? Esiste, come mi ha detto, un “regime speciale Battisti”? Io voglio sostenerlo in questa sua battaglia. Mi impegnerò, anche attraverso una interrogazione, perché si conoscano le motivazioni fino ad ora ignote del trasferimento. L’Italia con Cesare Battisti può dimostrare di essere uno Stato di Diritto. C’è invece la preoccupazione che nei suoi confronti lo Stato sia vendicativo e non lo può essere nei confronti di nessuno. Non lo è stato nei confronti di Brusca, non capisco perché dovrebbe esserlo nei confronti di Battisti”. Insieme all’onorevole Bossio c’era anche l’avvocato Adriano D’Amico, in rappresentanza del Comitato di Solidarietà Internazionale a Cesare Battisti: “Battisti sta subendo una vera e propria vendetta. È di fatto in un regime ostativo e temo seriamente per la sua vita. Eppure una ordinanza della Corte di Appello di Milano ha stabilito che Battisti deve scontare la sua pena in un regime ordinario di detenzione con diritto ai benefici, non essendogli applicabile l’articolo 4bis”. Qualche giorno fa Battisti, difeso dall’avvocato Davide Steccanella, in una lettera aveva spiegato ai suoi familiari le ragioni sottese al digiuno: “Il 2 giugno ho iniziato uno sciopero della fame, sapendo che non sarei tornato indietro, perciò cosciente di recarvi un grande dolore. Ma avendo la certezza che voi converreste con me che questo era l’atto più degno che potessi fare per evitare di morire in ginocchio, dopo essere stato spremuto e usato per ogni scopo ignobile del potere. Sarebbe così tradire i valori di un passato in cui ho creduto, fino alla deriva armata. Non mi sono mai sentito un criminale allora, né mi sento di esserlo oggi pur nella consapevolezza di aver sbagliato. Seguivo, come tanti altri, dei valori fondamentali di diritto per la persona, non posso permettermi di tradirli sulla linea di arrivo. Ecco perché vi chiedo un’ultima volta di aiutarmi ad essere me stesso e di perdonarmi per il dolore che vi reco”. L’uomo aveva indirizzato una lettera anche alla ministra Cartabia: “nel rispetto delle leggi e della Costituzione chiedo di essere ascoltato almeno una volta senza il filtro o l’ostruzione derivante dall’immagine del “mostro”. Senza attizzare polemiche, provocare ingiurie o suscitare sentimenti deplorevoli, da ovunque essi vengano. Invito solo a concentrarsi sulle garanzie, i diritti e i doveri propri di una democrazia repubblicana della quale lo Stato è garante. Le leggi esistono per essere applicate, indifferentemente dalla personalità o il carattere politico culturale dell’individuo che le ha infrante. Non è umano né legalmente accettabile continuare a trattarmi da nemico in un Paese che non è in guerra; è trascorso mezzo secolo!”. Proprio la ministra Cartabia, senza mai citare il nome di Battisti, rispondendo domenica scorsa alla sollecitazione di Benedetta Tobagi nel corso del dialogo su “Un punto di giustizia” a Taobuk di Taormina, aveva detto: “Ho già da tempo chiesto di fare delle verifiche sulle condizioni e la situazione complessiva dell’esecuzione della pena in quella situazione. Come deve esserlo di fronte a tutte le persone che hanno una certa età, una certa storia, condizioni di salute e quant’altro”. Battisti prenda esempio da Pannella: una battaglia non violenta non può essere fino alla morte di Sergio D’Elia Il Riformista, 26 giugno 2021 Ho deciso di aderire allo sciopero della fame a staffetta per Cesare Battisti promosso da Folsom Prison Blues e coordinato da Umberto Baccolo ed Elisa Torresin. Sperando - forse, contro ogni speranza - che lui cambi il segno e il senso della sua lotta. Un digiuno - per motivi politici o per motivi di salute - non può essere fatto contro qualcuno o contro qualcosa, meno che mai può essere “fino alla morte”. Quindi, aderisco per chiedere a Cesare Battisti di convertirlo in sciopero “fino alla vita”, la sua vita, la vita dei suoi carcerieri, in poche parole, la vita del diritto. Braccato in giro per il mondo come la più grave minaccia alla pace e alla sicurezza del nostro paese. Catturato come un criminale di guerra in uno dei paradisi penali per i veri criminali di guerra. Deportato in Italia in spregio a regole e convenzioni sui diritti umani. Esposto alla gogna e al pubblico ludibrio nel passaggio coatto sotto le forche caudine di Via Arenula e del Viminale. Sottoposto al regime di isolamento in un carcere sperduto e privato dei significativi contatti umani che le Regole di Mandela considerano essenziali per evitare la tortura dei detenenti e la pazzia del detenuto. Alla fine, tolto dall’isolamento e messo in socialità - ironia della sorte o legge del contrappasso - insieme a detenuti per terrorismo di matrice islamica. Cesare Battisti è il “tipo d’autore” perfetto per un processo in contumacia che continua anche quando la contumacia è finita. È un caso emblematico di uso integrale e spietato del “diritto penale del nemico” che ha segnato il regime di emergenza che, al di là di ogni emergenza, vige in Italia da quasi mezzo secolo. Ma, di fronte a tanta ingiustizia e inimicizia, la risposta non può essere di segno uguale e contrario: la lotta “fino alla morte” contro la morte per pena; l’arma di un corpo morto scagliato contro il nemico che lo ha sequestrato e deprivato dei più elementari sensi umani. Il carcere è strutturalmente un luogo di pena, dolore, deprivazione. Non può essere migliorato. A voler essere umani va solo abolito. Ciò nonostante, anche - innanzitutto - in carcere, di fronte ai “cattivi” è giusto diventare “buoni”. Capire che, nel dare corpo alle idee di giustizia, di pace e di libertà, occorre operare prefigurando nell’oggi il domani che vuoi realizzare. Capire che i mezzi devono essere coerenti coi fini, che il corpo occorre darlo alla felicità, al dialogo, all’amore, alla gente e al diritto, non immolarlo, il corpo altrui e il proprio, sull’altare di un’etica del sacrificio e della morte, liberatrice e redentrice. Fare lo sciopero della fame “fino alla morte” è l’opposto della nonviolenza, è la continuazione della violenza con altri mezzi. Non v’è coerenza, non vedo coraggio. L’unica coerenza che occorre osservare in sé ed esigere dagli altri non è quella di chi non cambia mai idea, sentimenti, comportamenti. È quella che crei e t’imponi tra mezzi e fini. L’unico coraggio che bisogna avere nella vita non è quello di combattere fino alla morte, ma quello di amare fino alla vita… anche del tuo nemico. Così Marco Pannella interpretava lo sciopero della fame: un atto d’amore, unilaterale, gratuito, nei confronti dell’avversario, del potere dal quale esigere il rispetto, non della tua volontà, ma delle sue stesse leggi. Questa è la nonviolenza che ho capito: la forza sottile e invisibile, tagliente come la luce di un laser e dura come un filo d’acciaio, che distingue e tiene insieme, che rispetta e lega le persone più diverse. La nonviolenza è la forza del cambiamento, della coscienza, del dialogo, dell’amore, non è mai “contro” qualcosa o qualcuno, ma sempre “per” e “con”. Quando - nel mondo che ti circonda e nel tuo mondo interiore - sembrano prevalere disperazione, indifferenza e rassegnazione, è allora che devi essere tu stesso speranza e perciò creare, anticipare la fine dell’isolamento, essere la realtà diversa che vuoi per te e per le persone che ami e ti amano. Su questo, Ambrogio Crespi ha realizzato un’opera straordinaria, “Spes contra Spem - Liberi dentro”, che racconta il mondo carcerario dove vige ancora l’isolamento e il “fine pena mai”, il 41 bis e l’ergastolo “ostativo”. Le storie dei condannati a vita testimoniano che il carcere può annientare ma anche rigenerare, può essere un luogo e un tempo in cui ci si può perdere per sempre, ma anche il luogo e il tempo in cui è possibile ritrovarsi per sempre, rinascere a nuova vita. Sul senso - creativo, il contrario di mortifero; religioso, l’opposto di diabolico - del digiuno, Mariateresa Di Lascia ha scritto parole bellissime che, Cesare, ti regalo. “Non si può usare in politica uno strumento come il digiuno senza avere amore per l’avversario, senza avere la consapevolezza che la crescita, se ci sarà, avverrà dentro e fuori di noi… Il successo di un digiuno in terapia come in politica è legato alla capacità di liberare la parte migliore di sé, di perdonare e di perdonarsi, di percepirsi come protagonista autentico della propria vita, in una parola: di amare”. Mettere anima nel diritto penale. Cartabia è all’altezza della sfida di Franco Corleone Il Riformista, 26 giugno 2021 Ho incontrato la ministra insieme al deputato Riccardo Magi. Le abbiamo parlato della pdl sulle droghe, per evitare carcerazioni immotivate, di quella per restituire il potere di clemenza al Parlamento. E di come un codice orientato all’inclusione non va considerato un’utopia. Lunedì scorso sono rientrato nella sede del Ministero della Giustizia in via Arenula per un incontro concesso dalla ministra Marta Cartabia a Riccardo Magi, deputato di Più Europa, presentatore delle proposte più significative elaborate dalla associazione La Società della Ragione il quale, con grande sensibilità, ha voluto che lo accompagnassi. L’incontro si è svolto nella grande stanza dei ministri, caratterizzata da una penombra che contrasta con una visione della giustizia luminosa e trasparente e da affreschi alle pareti frutto del realismo del regime. È ancora presente la scrivania di Togliatti recuperata da Diliberto quando era ministro come cimelio storico; chissà se il cinismo del Migliore ispirò la decisione di licenziare Alessandro Margara da Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. In questa stanza per cinque anni mi confrontai da sottosegretario con i tre ministri, Flick prima e poi Diliberto e Fassino. Anni straordinari soprattutto per l’iniziale tensione riformatrice e per l’eccezionale livello dei responsabili delle direzioni generali e dei loro collaboratori. Ricordo per primo Loris D’Ambrosio, mitico Capo di gabinetto e poi cito a caso Giorgio Lattanzi, Vladimiro Zagrebelsky, Emilio Lupo, Luigi Scotti, Franco Ippolito, Luigi Marini, il mio capo segreteria Giuseppe Cascini, Domenico Carcano, Giorgio Fibelbo e il capo del Dap prima di Margara, Michele Coiro, autorevole personalità di giurista e garantista. Magi ha esordito con un apprezzamento per le parole usate dalla ministra in occasione della presentazione della Relazione annuale del Garante nazionale delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, in favore delle misure alternative e di preoccupazione per il rinnovato sovraffollamento carcerario. A tale riguardo abbiamo messo in luce la causa di questa condizione: l’art. 73 della legge antidroga che, per piccolo spaccio e detenzione di sostanze illegali, provoca l’ingresso e la permanenza in carcere di oltre il 30% dei detenuti ai quali vanno aggiunti altrettanti soggetti qualificati come tossicodipendenti. In totale oltre il 50% dei ristretti lo sono per una sola legge e per una questione non criminale ma sociale. Magi ha fortemente sottolineato che è in discussione presso la Commissione Giustizia della Camera la proposta di rendere il comma relativo ai fatti di lieve entità come articolo autonomo per evitare arresti e detenzioni ingiustificate. A confortare questa visione abbiamo consegnato alla ministra, in anteprima, una copia del XII Libro Bianco sugli effetti della legge Iervolino- Vassalli (non più Fini-Giovanardi proprio grazie alla decisione della Consulta del 2014, la sentenza 32 di cui giudice relatore e redattore fu proprio Marta Cartabia) sulla giustizia e sul carcere. Abbiamo anche rimarcato che presso la Commissione Giustizia al Senato è iniziata la discussione sul disegno di legge votato dal Consiglio regionale della Toscana e inviato al Parlamento per garantire il diritto costituzionale alla affettività in carcere, auspicando una azione di persuasione per giungere a un risultato di civiltà e umanità. Certamente l’annuncio che presto si tornerà ai colloqui con le famiglie in presenza e senza le barriere di plexiglas è cosa buona, ma non basta tornare a prima della pandemia. Occorre garantire l’applicazione del Regolamento del 2000 e condizioni igienico-sanitarie tali da assicurare dignità ai detenuti e spazi per studio, lavoro e cultura che offrano chance per il loro reinserimento sociale. L’impegno per luoghi di abitazione, progetti di housing sociale e occasioni di lavoro vero deve coinvolgere istituzioni locali, volontariato e magistratura di sorveglianza. Non è intelligente tenere in carcere fino all’ultimo giorno le persone senza sperimentare la prova della libertà. Abbiamo segnalato la proposta per la modifica dell’articolo 79 della Costituzione per un nuovo statuto di amnistia e indulto che consenta al Parlamento, a determinate condizioni, di esercitare il potere di clemenza. Infine ho ricordato che la chiusura degli Opg impone una riforma del doppio binario del Codice Rocco per respingere le nostalgie del manicomio. Sullo sfondo è rimasta la questione dell’ergastolo ostativo: in merito, ho informato la ministra che a giorni sarà stampato il volume “Contro gli ergastoli” curato da Andrea Pugiotto, Stefano Anastasia e da me, con prefazione di Valerio Onida, per la collana della Società della Ragione edita da Ediesse/Futura. Mi è venuto spontaneo ricordare che il nodo della giustizia non è riducibile a interventi organizzativi, seppure indispensabili. C’è bisogno soprattutto di un supplemento d’anima per ricostruire un patto di convivenza e di riconciliazione nella società disgregata. Per questo l’obiettivo di un nuovo codice repubblicano per un diritto penale minimo e mite, capace di superare il Codice Rocco dopo novanta anni di vigenza, non può essere confinato nel regno dell’utopia. Abbiamo capito che la ministra Cartabia ha l’assillo di chiudere la partita dei sei provvedimenti in cantiere. Noi ci auguriamo che cessi presto il cicaleccio e la lite tra comari e che si chiuda una partita tutta di schieramento e di potere. Così si potrà parlare finalmente dei valori di fondo e della Costituzione. È stato un colloquio intenso, piacevole e con un carattere simpatetico. Uscendo, Riccardo Magi e io ci siamo guardati e ci siamo detti che per un’ora la buona politica era tornata a vivere. Sarebbe un delitto sprecare questa occasione. Ci auguriamo che i partiti orientati a ricreare un clima di inclusione sociale dove nessuno è mai perduto per sempre, abbiano consapevolezza della sfida e ne siano all’altezza. Come lo è la ministra. Penale, civile e Csm: tutti gli ostacoli alle tre riforme della giustizia di Giulia Merlo Il Domani, 26 giugno 2021 Il penale è bloccato dalla politica, il civile invece vede l’opposizione soprattutto dei gli avvocati, la riforma del Csm è vista con sospetto dalla magistratura, soprattutto dopo la presentazione del referendum di Lega e partito radicale. Le tre maxi riforme della giustizia - ddl penale; civile e dell’ordinamento giudiziario - sono uno dei pilastri del Pnrr, ovvero il lasciapassare dell’Italia per incassare i fondi del Recovery. Il documento approvato a livello europeo contiene una road-map precisa per l’approvazione dei tre testi di riforma, che hanno l’obiettivo di velocizzare e rendere più efficiente la giustizia italiana. Il progetto è ambizioso e il presidente del Consiglio Mario Draghi ne ha affidato la realizzazione alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che però si è presto scontrata con gli ostacoli che fino ad oggi hanno impedito l’approvazione di riforme organiche: la litigiosità della componente politica e la crisi di quella tecnica, in particolare della magistratura. Tuttavia i tempi sono fissati e sono categorici: entro fine 2021 vanno approvate le leggi di delega al governo, entro il 2022 i decreti ed entro il 2023 eventuali ulteriori regolamenti. La prima scadenza è ormai vicina, ma l’iter dei ddl è ancora accidentato. Tuttavia il governo non può farsi distrarre nè allungare i tempi, dunque a via Arenula nessuno ha dubbi sul fatto che, se la “strategia Cartabia” dei piccoli passi concertati non funzionasse, interverrà direttamente Draghi per ultimare la sintesi. Ddl penale - Il ddl penale ha come ostacolo maggiore quello opposto dalla politica, perché contiene la modifica alla prescrizione. Il testo base, attualmente in commissione Giustizia alla Camera, è stato redatto nel precedente governo, i partiti hanno presentato i loro emendamenti e anche la commissione di esperti nominata dalla ministra e presieduta da Giorgio Lattanzi ha presentato le sue conclusioni. È atteso entro la settimana prossima il maxi emendamento del governo, che dovrebbe essere una sintesi che raccolga gli spunti del lavoro in commissione e degli emendamenti parlamentari. Approvato quello, il testo poi approderà in Aula. La ministra sperava di riuscire già a farlo a fine giugno, ma ora la scadenza è slittata a luglio. Il partito che ha sollevato dubbi maggiori è il Movimento 5 Stelle, che non vuole arretrare sulla prescrizione targata Alfonso Bonafede, che attualmente prevede lo stop al decorso della prescrizione dopo il primo grado. L’unica mediazione (elaborata con il Pd e Leu alla fine del Conte 2) che sarebbe disposto ad accettare è che si dividano i binari tra assolti e condannati: per i primi la prescrizione tornerebbe a decorrere dopo l’assoluzione in primo grado. La commissione Lattanzi, invece, ha elaborato due proposte. La prima prevede che la prescrizione si sospenda per due anni in seguito alla sentenza di primo grado e per un anno in seguito a quella di appello. La seconda invece, prevede che, dopo 4 anni dall’esercizio dell’azione penale senza che si sia giunti alla sentenza di primo grado, l’azione penale diventi improcedibile. Lo stesso avviene in caso di mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di tre anni dalla presentazione dell’atto di appello e in caso di mancata definizione del giudizio di cassazione entro il termine di due anni. Anche il Pd, che è il principale alleato dei 5 Stelle, ha presentato un emendamento che cancella la prescrizione di Bonafede e introduce una prescrizione processuale, che scatti dunque per fasi processuali e in particolare dopo due anni di giudizio d’appello. La riforma del processo penale, tuttavia, punta ad essere una riforma di sistema, come ha spiegato Lattanzi in commissione Giustizia. Vale a dire che la riforma della prescrizione è solo un tassello, ma la velocizzazione dei processi si ottiene attraverso una serie di modifiche che riguardano i riti alternativi, la modifica del regime delle impugnazioni e la digitalizzazione. Ddl Civile - La riforma del civile è quella il cui iter è attualmente il più avanzato. I partiti hanno presentato i loro emendamenti, la commissione di esperti presieduta da Francesco Luiso ha depositato la sua relazione e la ministra ha anche depositato in commissione al Senato i suoi 24 emendamenti al testo base, frutto della sintesi tra emendamenti parlamentari e relazione. La riforma, il cui obiettivo è l’abbattimento del 40 per cento del tempo di definizione dei processi civili, secondo l’impegno assunto dal Governo con l’Ue con il Pnrr, tocca in particolare: la valorizzazione delle Adr (giustizia alternativa come la mediazione); la semplificazione del procedimento civile, anche stabilizzando le innovazioni tecnologiche; rafforzare il processo esecutivo; semplificazione del rito lavoro; introduzione di un rito unico per il procedimento minorile. Se dal punto di vista politico il ddl civile non ha creato particolari problemi, tanto che il Movimento 5 Stelle ha chiesto alla ministra di anteporlo al ddl penale proprio perché di più facile approvazione, le critiche sono arrivate dagli operatori del diritto. Molto negativo è stato il giudizio degli avvocati: la presidente facente funzioni del Consiglio nazionale forense, Maria Masi, ha parlato di una riforma che “disattende le aspettative legittime dell’avvocatura”, avendo detto alla ministra nelle varie interlocuzioni che “una riforma della giustizia non poteva esaurirsi in una modifica delle norme di rito soprattutto se non in grado di garantire migliore e maggiore efficienza al processo. È inaccettabile una riduzione dei tempi del processo se va a danno delle garanzie di difesa e del potere dispositivo delle parti, configurando regimi di preclusioni, sanzioni e filtri che non possono trovare giustificazione alcuna soprattutto se proposti in un’ottica di miglioramento”. Anche l’Unione nazionale camere civili ha espresso ferma contrarietà agli emendamenti perché la disciplina delle preclusioni moltiplicherà il numero dei processi; il potenziamento delle ADR riguarda soltanto la mediazione, mentre la negoziazione assistita viene fortemente depotenziata; l’arbitrato non riceve alcuna agevolazione fiscale. Ddl ordinamento giudiziario - La riforma dell’ordinamento giudiziario, che comprende la revisione della legge elettorale del Consiglio superiore della magistratura, è l’altro scoglio difficile da superare sia sul piano politico che interno alla magistratura. Il lavoro della commissione di esperti presieduta da Massimo Luciani è concluso e il governo ha presentato anche il suo pacchetto di emendamenti al testo base. La riforma prevede una riforma della legge elettorale, modificando il meccanismo dei collegi di voto, l’introduzione di limiti alle porte girevoli dei magistrati in politica e un limite alla possibilità di pm e giudici di cambiare ruolo. Tuttavia, a rendere più complicato il tutto è stata la presentazione dei referendum sulla giustizia promossi dal partito radicale e dalla Lega. Quattro dei sei quesiti riguardano proprio l’ordinamento giudiziario: la responsabilità civile dei magistrati; la separazione delle carriere; lo stop alle firme per candidarsi al Csm e il voto dei laici nei consigli giudiziari. Il tema rimane fortemente controverso, soprattutto dentro la magistratura, che tuttavia in questa fase si è opposta al referendum ma non si è ancora pronunciata chiaramente sulla riforma a cui sta lavorando il parlamento. Quanto ai tempi, la ministra punta ad approvare il tutto entro luglio in commissione e poi portarla in aula alla Camera. 127 magistrati scrivono a Cartabia: ecco dieci riforme del penale a costo zero di Giulia Merlo Il Domani, 26 giugno 2021 Ma l’iniziativa non sarebbe piaciuta all’Associazione nazionale magistrati, che al momento della pubblicazione aveva espresso parere favorevole verso la relazione degli esperti sulla riforma del ddl penale. La lettera è stata inviata alla ministra della Giustizia Marta Cartabia nei giorni scorsi e porta alla firma di 127 magistrati, anche se altri si stanno aggiungendo in queste ore. Contiene dieci proposte di riforma del penale, che vorrebbero essere - nell’intenzione degli scriventi - uno strumento in più per integrare la riforma a cui il governo sta lavorando. L’iniziativa, nata inizialmente nelle chat vicine al gruppo di Articolo 101, si è poi spostata nelle mailing list dei magistrati ed è stata appoggiata da nomi di toghe anche esterne alle correnti, con adesioni individuali. Nel testo si legge che “siamo un gruppo di magistrati che lavorano ogni giorno, tra mille difficoltà, negli uffici giudiziari; lo facciamo in silenzio, con “disciplina e onore”, nella consapevolezza di rappresentare, per i tanti cittadini che si rivolgono a noi, l’Istituzione statale alla quale si chiede di riparare torti”. Per questo “ci sentiamo in dovere di suggerire 10 interventi legislativi, a costo zero, che consentirebbero, a nostro avviso, di accelerare non poco i processi penali”. La missiva contiene un giudizio anche sul lavoro della commissione Lattanzi, che ha elaborato il parere sul ddl penale e che è stato positivamente accolto dall’Associazione nazionale magistrati. “Pur apprezzando alcune proposte che sono state formulate, temiamo che, dopo le tante riforme di questi anni, anche quella legata al riconoscimento delle risorse economiche del “Recovery fund” possa costituire l’ennesima “occasione mancata” per incidere in maniera davvero efficace”. Le dieci proposte Ecco dunque le dieci proposte che vengono definite “a costo zero”, ovvero che non comportano alcun costo per l’amministrazione della giustizia. 1) razionalizzare il sistema delle notifiche (prevedendo la domiciliazione ex lege dell’imputato presso il difensore di fiducia, come nel processo civile); 2) introdurre l’archiviazione dei procedimenti a carico degli irreperibili (stabilendo che il PM possa esercitare l’azione penale soltanto qualora sussistano le condizioni per procedere in assenza); 3) prevedere la possibilità di emettere sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 cpp, in tutti i casi in cui il gup ritenga improbabile che l’imputato, in caso di rinvio a giudizio, possa essere condannato; 4) prevedere il giudizio abbreviato come giudizio “ordinario” (e che il dibattimento debba essere richiesto dall’imputato personalmente o dal difensore munito di procura speciale); 5) prevedere che il patteggiamento possa essere chiesto senza limiti di penae di tempo (anche nel corso del dibattimento, in modo da limitare i casi in cui il giudice deve motivare la sentenza di primo grado e l’imputato possa proporre appello); 6) introdurre la possibilità per il giudice della cognizione di condannare l’imputato ad eseguire lavori di pubblica utilità o alla detenzione domiciliare (senza dover aspettare che lo faccia il magistrato di sorveglianza); 7) prevedere che per proporre opposizione alla richiesta di archiviazione debba essere pagata una marca da bollo e, soprattutto, che il Gip - in caso di rigetto - possa condannare l’opponente al pagamento di un’ammenda, specie nei casi di abuso del diritto; 8) prevedere l’abolizione del divieto di “reformatio in peius” in materia di impugnazioni; 9) stabilire che, qualora si decida di abolire la disciplina recentemente introdotta (c.d. “riforma Bonafede”), il termine ordinario minimo per la prescrizione dei reati sia fissato in 10 anni; 10) depenalizzare la maggior parte delle contravvenzioni (come, ad esempio, quelle relative al codice della strada) e introdurre soglie di punibilità per i reati contro il patrimonio, prevedendo che tali condotte siano trasformate in illeciti amministrativi. Le reazioni - Senza entrare nel merito delle singole proposte, sul fronte della politica interna alla categoria l’iniziativa non è stata ovunque gradita. In particolare, la giunta dell’Anm non avrebbe apprezzato il fatto che un gruppo di toghe si sia autonomamente rivolto al Ministero, nonostante l’interlocuzione con Cartabia sia da tempo avviata proprio con l’associazione magistrati, che dovrebbe essere organo di rappresentanza sindacale delle toghe. Il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, infatti, aveva condiviso l’impostazione di lavoro della commissione Lattanzi e mandato segnali di distensione al governo proprio sul ddl penale. Perché servono i referendum sulla giustizia: si è sgretolato il patto sociale di Giuseppe Rossodivita Il Riformista, 26 giugno 2021 Il 22 giugno l’assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa, grazie alla tenacia di Matteo Angioli, del Sen. Roberto Rampi (Pd) e di Andrè Gattolin - vicepresidente del Consiglio Generale il primo e consiglieri generali del Partito Radicale gli ultimi due - ha approvato una risoluzione che cristallizza il “diritto alla conoscenza” come diritto umano fondamentale. Una delle due battaglie alle quali Marco Pannella ha dedicato gli ultimi anni della sua vita. L’altra era quella, più antica, per ottenere una “giustizia giusta”. Cosa c’entra il diritto alla conoscenza con i referendum sulla giustizia promossi dal Partito Radicale e dalla Lega? C’entra eccome. Per gli addetti ai lavori il sistema di (auto)governo della magistratura era faccenda nota. La politica sapeva come funzionava (e funziona) e ha cercato, per timore e per convenienza, con alterne fortune, di entrarci in contatto, di ricavarsi strapuntini di impunità o occasioni di aggressione all’avversario di turno. Il quarto potere, quello dei media, tanto ne conosceva i meccanismi che lo ha sostenuto e fatto crescere nel tempo, nascondendolo agli occhi dell’opinione pubblica, anche in questo caso per timore, per ricavarsi strapuntini di impunità o di privilegi sul versante delle inchieste da sparare in prima pagina con il mostro di turno. La magistratura non allineata pure ne era perfettamente a conoscenza, così come l’avvocatura, ma di rivolte non se ne sono viste in tanti anni, meglio conviverci, fare spallucce, bofonchiare qualcosa, purché sottovoce e farsi amico qualche potente, tanto questo è il paese di “io speriamo che me la cavo”. Ebbri di questo immenso potere di condizionamento di tutta la vita democratica del Paese, i nostri hanno commesso un errore, come tutti gli errori determinati dalla eccessiva consapevolezza di sé stessi. Quando sono uscite le chat e le intercettazioni di Luca Palamara, i tenutari del potere dentro la magistratura hanno pensato di agire more solito: un paio di importanti giornali nazionali amici pronti a mettere all’angolo “il cattivo” di turno eletto a capro espiatorio di tutti i peccati; i Tg della concessionaria del servizio pubblico in ordinata scia; un paio di processi disciplinari lampo per Anm e Csm, senza dar la parola a 133 testi chiesti dalla difesa con conseguente espulsione “della causa di tutti mali” da Anm e Csm. Partita chiusa e si torna a fare come prima senza doverne mai rispondere a chicchessia. Qualcosa è andato storto, però, perché se da un lato era evidente a tutti che Palamara non è che chattava o parlava da solo, dall’altro è stata anche evidente l’opera di copertura ed insabbiamento delle responsabilità di una intera categoria: la classe dirigente interna alla magistratura, con i suoi metodi di selezione. Ed è la classe dirigente più potente del Paese. Fatto di tanta imbarazzante evidenza che è deflagrato non appena Palamara ha annunciato, dalla sede del Partito Radicale, di volersi mettere a disposizione per raccontare come sono andate le cose per tanti anni, nelle segrete stanze (e nei sottoscala) del Csm e dell’Anm. E i racconti del libro Il Sistema - al di là delle singole vicende e dei personaggi coinvolti che il grande pubblico neanche conosce - hanno profondamente indignato l’opinione pubblica. Una parte della stampa ha capito che dietro l’inaspettato successo editoriale - un libro che il Segretario del Pr Maurizio Turco ha definito uno strumento di lotta politica - c’era e c’è la volontà dell’opinione pubblica di conoscere e di sapere come funziona quel mondo dal quale escono indagini e sentenze che possono distruggere la vita delle persone, di conoscere quel mondo che, da tangentopoli in poi, gli era stato raccontato come un mondo di eroi senza macchia e senza paura, che a colpi di inchieste e di arresti, stava “smontando” l’Italia (Governi, Regioni, Comuni) dell’illegalità e dell’immoralità. Si è aperto così un varco di conoscenza e di indignazione che ha scompaginato vecchi equilibri determinando, a valanga, altri racconti: quello di Storari e quello di Davigo, quello del senatore Morra e quello di Ardita e via elencando. E il potere della conoscenza, quando viene consentita, si è dimostrato quello di una bomba atomica, che ha portato ai minimi termini la credibilità dell’intero sistema della giustizia italiana. Lo stesso Salvini, pronto ad intercettare gli umori dell’opinione pubblica, ha scritto sui suoi social, insieme a Giulia Bongiorno, che il racconto di Palamara ha consentito alla gente e alla Lega di rendersi conto dell’urgenza delle riforme. Ed è un dato di fatto che un anno fa i referendum non sarebbe stato possibile convocarli: non c’erano le condizioni e la stessa Lega, un anno fa, non ci sarebbe stata. Oggi si registra invece una amplissima convergenza di forze politiche e sociali. Ed è per questo che oggi la classe dirigente dell’autogoverno della magistratura è terrorizzata dai referendum: ha ragione, ha fallito e farebbe bene a farsi da parte lasciando spazio alle nuove leve, nell’interesse del Paese e della Giustizia. La ministra Marta Cartabia è lacerata dalla domanda che gli viene posta più frequentemente di questi tempi: “Ministra, come facciamo a tornare ad avere fiducia nella Giustizia in Italia?”. Per Piero Calamandrei, il giudice era colui che nell’unica trattoria del paese, siede da solo all’ultimo tavolo, con sua unica commensale la sua indipendenza. Quanto è distante questa figura anelata da Calamandrei con lo spettacolo penoso che finalmente l’opinione pubblica ha potuto conoscere? Il patto sociale sulla giustizia è venuto meno, si è sgretolato. Perché mai il cittadino messo sotto processo dallo Stato dovrebbe accettare sentenze pronunciate da persone a cui non viene più riconosciuta quella autorevolezza del giudice austero e rigoroso di Calamandrei o del giudice che soffre il potere di togliere la libertà di Sciascia, piuttosto che goderne ed abusarne? Se c’è una cosa che gli italiani non perdonano è quella di essere giudicati da chierici che predicano bene e razzolano male, almeno quanto quelli che condannano riservandosi per loro solo autoassoluzioni. Cosa c’entrano i referendum con queste riflessioni? Cosa c’entra l’abrogazione di quelle norme che impediscono di citare a giudizio il giudice in caso di danni cagionati nell’esercizio delle funzioni o l’abrogazione delle norme che consentono ai pm di diventare giudici e viceversa nello sviluppo della loro carriera, o ancora di quelle norme che impediscono agli avvocati di partecipare alla valutazione della professionalità dei magistrati in quei mini Csm che sono i Consigli giudiziari, solo per fare tre esempi: cosa c’entrano con quanto abbiamo appena visto? Sono riforme sufficienti, quelle proposte con i sei quesiti referendari, per rimettere in ordine un sistema impazzito, dove l’unica parola che conta è potere, dove non c’è traccia di responsabilità, di qualsiasi specie e natura, civile, professionale, disciplinare? Ovvio che no, non sono riforme sufficienti, non possono essere altro che l’inizio di un percorso riformatore di un sistema che ha consentito abusi e soprusi senza controlli e contrappesi. È un sistema, che anche a livello Costituzionale non ha retto al trascorrere del tempo e alla trasformazione profonda della società: i tempi di Calamandrei sono lontani e sono lontani anche i modelli di giudici a cui i nostri padri costituenti si riferivano. Ed è per questo che i sei referendum sulla giustizia sono l’occasione per ricostruire il patto sociale su cui si fonda l’amministrazione della giustizia. La politica ha fallito, non è stata capace e non ha avuto la forza di evitare quel degrado che per la prima volta è stato fatto conoscere. Ora i cittadini pretendono di dire la propria, di decidere direttamente, non solo sull’abrogazione di quelle norme indicate nei quesiti, ma evidentemente pretendono di indicare una direzione di marcia che alla politica converrà seguire. Come si ricostruisce la fiducia dei cittadini nella giustizia? Dandogli ascolto senza tradire la loro volontà. Per questo i referendum, in questo momento storico, sono un’occasione irripetibile, sono l’occasione per restituire ai cittadini parola, voce e fiducia nei confronti della giustizia. “Imprenditori assolti ma perseguitati dallo Stato: una legge per dire basta” di Simona Musco Il Dubbio, 26 giugno 2021 Il caso Cavallotti arriva alla Camera: Forza Italia propone un fondo per le vittime dell’antimafia. Il tema delle misure di prevenzione entra in Parlamento, per la prima volta, dal punto di vista delle vittime dei sequestri ingiusti. Che “strappano” un impegno alla politica: modificare il codice antimafia e istituire un fondo per le aziende dissequestrate. Tutto è accaduto alla Camera, presso il gruppo di Forza Italia, dove, alla presenza di diversi parlamentari e del sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, Pietro Cavallotti, vittima di sequestro ingiusto da parte dello Stato, ha raccontato la sua storia. Sisto si è impegnato a rivedere i rapporti tra il processo penale e il processo di prevenzione, “perché è inammissibile che nel 2021 una persona assolta con sentenza definitiva perché non ha commesso nessun reato si ritrovi, per lo stesso motivo, con i beni confiscati”, ha sottolineato l’imprenditore. L’idea è quella di estendere le garanzie del contraddittorio e dell’onere della prova al processo di prevenzione. Altro punto su cui è stata manifestata disponibilità al confronto è quello di costituire un fondo per le aziende dissequestrate, proposta contenuta in un emendamento della deputata Matilde Siracusano al Decreto Ristori, che ha superato il vaglio di ammissibilità e che dovrà essere valutato dalle Commissioni, per l’istituzione di un fondo di 10 milioni di euro destinato alle aziende dissequestrate. “La storia giudiziaria della famiglia Cavallotti non è degna di un Paese civile - ha commentato Siracusano -. Un’azienda sequestrata a seguito dell’accusa di associazione mafiosa poi risultata del tutto infondata ma con un’impresa ormai destinata al fallimento per mano dello Stato. Oltre al danno la beffa: nonostante l’assoluzione questa famiglia ha continuato a subire l’accanimento giudiziario con la confisca dell’azienda”. Ora, per la prima volta nella storia, c’è la possibilità che lo Stato si impegni a riconoscere il dovere di risarcire le vittime delle misure di prevenzione. Siracusano ha anche presentato un disegno di legge di revisione complessiva delle misure di prevenzione, a partire dai presupposti, dal procedimento e dal ruolo dell’amministratore giudiziario, idea che riprende molti dei punti già contenuti in una precedente proposta di legge del Partito Radicale. Cavallotti ha raccontato la sua storia, una storia che gli stessi parlamentari hanno ascoltato con stupore: l’azienda di famiglia, la Euroimpianti plus srl, è stata tenuta sotto sigilli dallo Stato per otto anni, durante i quali, sotto amministrazione giudiziaria, ha subito danni - certificati dal commercialista Giovanni Allotta - per oltre 11 milioni di euro. Nel 2011, nonostante il definitivo proscioglimento dal concorso esterno, il sequestro è tramutato in confisca da un collegio presieduto da Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, radiata dalla magistratura, condannata a 8 anni e mezzo per l’illecita gestione dei beni confiscati alle cosche. Motivo? Vengono considerati indizi di pericolosità quegli stessi elementi che i giudici penali avevano ritenuto incapaci di provare l’accusa di mafia. Lo Stato riconosce l’errore solo nel 2019, certificando la provenienza lecita di quei beni. Dopo il dissequestro dei beni, la procura si è appellata, ma nelle more dell’appello è arrivata un’istanza di fallimento da parte di Eni, che è creditrice di circa 80mila euro di carburante non pagato dall’amministratore giudiziario. “Passeremo dalla sezione misure di prevenzione alla sezione fallimentare - continua Cavallotti -, questo è l’epilogo della vicenda. Quindi, materialmente, non avremo alcunché, perché le nostre cose passeranno al curatore fallimentare che è un altro amministratore giudiziario. E questa è la storia delle aziende dissequestrate. Ma sono cose che si devono sapere: non è possibile che non ne parli nessuno. Lo Stato distrugge persone che non c’entrano nulla, sequestra, dissequestra, ma poi non aiuta le vittime, mentre nel frattempo le aziende falliscono per debiti accumulati dall’amministrazione giudiziaria. Parliamo di mancati pagamenti di Iva, fornitori, erario, banche… Peccato, però, che le aziende possono essere dissequestrate e in quel caso tocca al proprietario accollarsi i debiti maturati con gli interessi. L’amministrazione giudiziaria va fatta nell’ottica che quell’azienda possa anche essere dissequestrata. Ma ciò non avviene”. Il risultato è che lievitano i compensi per gli amministratori giudiziari, mentre rimangono a bocca asciutta Stato, fornitori e dipendenti. “La verità è che la legge antimafia è stata appaltata ai magistrati e il Parlamento approva cose di cui nemmeno capisce il funzionamento. E ne ho avuto la conferma - aggiunge Cavallotti -. Ma non si possono dare deleghe in bianco ai magistrati, bisogna legiferare con equilibrio”. All’incontro era presente anche la senatrice Gabriella Giammanco che, dal canto suo, si è impegnata a presentare la pdl di Siracusano al Senato. “Mai era successo, prima d’ora, che il Parlamento sentisse l’opinione di un imprenditore destinatario di un provvedimento di sequestro. Eravamo banditi dal mondo - conclude Cavallotti. In qualche modo siamo stati “riabilitati”. Sono consapevole che le cose non cambieranno subito, ma è un passo importante, anche a livello simbolico”. All’incontro era presente anche il deputato forzista dell’Ars Mario Caputo, che ha presentato un disegno di legge voto per l’istituzione di un fondo di solidarietà per le imprese sequestrate alla criminalità organizzata e in seguito dissequestrate. “Vogliamo garantire un sostegno concreto a chi ha subito procedimenti giudiziari poi risolti in un dissequestro delle attività - ha dichiarato nei giorni scorsi -. Ricordo che il 70% di tali imprese a livello nazionale, ha sede in Sicilia. Dunque si tratterebbe di una boccata d’ossigeno per il territorio, che permetta una ripresa, che a cascata coinvolgerebbe tutto l’indotto regionale. Con la discussione di tale disegno di legge voto, vogliamo sollecitare il Parlamento nazionale affinché prenda una netta e definitiva posizione in merito alla delicata vicenda”. Più tempo per la riforma della magistratura onoraria: “Status quo inaccettabile” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2021 I lavori della Commissione ministeriale sono stati prorogati al prossimo 21 luglio. Presto in Cdm gli emendamenti la riforma del processo penale. Prima dell’estate la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario. Si allungano i tempi della Commissione ministeriale sulla magistratura onoraria. È stato infatti prorogato al prossimo 21 luglio il termine dei lavori a causa della “necessità di approfondire a livello tecnico trattamento e prospettive previdenziali del personale con una indispensabile interlocuzione con Inps e Ministero del Lavoro”. La Commissione, con una nota firmata dal Presidente Claudio Castelli, rende noto che è comunque in corso “una interlocuzione con tutte le (numerose) associazioni sindacali e culturali di categoria”. E che i lavori procedono “serrati e spediti e sono già approdati ad ipotesi di lavoro in fase di verifica”. Infine, la Commissione auspica di non utilizzare “tutto il tempo della proroga giungendo al risultato richiesto prima della nuova scadenza”. A stretto giro la replica della Consulta della magistratura onoraria che in una lettera indirizzata alla Ministra Cartabia sottolinea le “gravissime problematiche che gravano su oltre 4.700 suoi componenti, divenute drammatiche a seguito della pandemia”. La Consulta ricorda che la Commissione sta ormai lavorando dal 7 maggio scorso e che la notizia del differimento dei lavori ha provocato “sconcerto in tutta la categoria”. In particolare preoccupa la possibilità di una “proroga dello stato attuale di servizio, a cottimo e senza tutele”. Secondo le toghe infatti non si comprendono le ragioni del rinvio considerato che la sentenza UX della Cgue, per un verso, quelle della Corte Costituzionale n. 267/2020 e n. 41/2021, per l’altro, hanno reso ormai “acclarata” la condizione giuridica dei magistrati onorari. Ragion per cui viene chiesto un “intervento di urgenza” per evitare di arrivare impreparati alla scadenza di agosto che se non scongiurata porterà ad uno scenario “fortemente lesivo dei diritti fondamentali dei magistrati onorari e dei cittadini, utenti del servizio giustizia, ciò sia nel caso di proroga dell’entrata in vigore della c.d. riforma Orlando sia in caso di sua entrata in vigore”. Secondo gli onorari infatti non c’è spazio per una proroga della entrata in vigore del regime previsto dal Dlgs. 116/2017, “a meno di incorrere nella procedura di infrazione”. “Analogamente e paradossalmente - aggiungono - l’entrata in vigore del Dlgs 116/2017, senza la pronta riforma su cui sta lavorando la Commissione ministeriale, darà comunque adito a responsabilità erariale di chi non ha inteso l’urgenza di provvedere per evitare la perdita dei fondi del Recovery Plan”. Inoltre, prosegue la lettera firmata da Maria Flora Di Giovanni, presidente Unagipa, il reclutamento di giovani risorse per l’Ufficio per il processo, con un investimento di oltre 2 miliardi nel PNRR, “risulterà completamente vano se contemporaneamente si elimina o riduce l’apporto di chi è abilitato da anni, accanto alla magistratura professionale, a decidere”. Mentre il mantenimento dello status quo, sia per effetto della proroga dell’entrata in vigore del Dlgs 116/2017 sia con la sua piena attuazione, “comporterà il perdurare della situazione di irregolarità previdenziale, contributiva e assistenziale dei magistrati onorari in servizio”, qualificabili come “lavoratori” per il diritto dell’Unione, ingenerando un “incontenibile florilegio di controversie giudiziarie ed astensioni”. Sul fonte delle altre riforme, nella giornata di ieri, intervenendo al convegno “Giovani per la Giustizia” all’Università Roma tre, la Ministra ha reso noto che “A breve, a brevissimo, ci saranno gli emendamenti alla riforma del processo penale”. “Poi - ha aggiunto - seguiranno quelli su riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario, prima dell’estate”. La giustizia degli stregoni di Riccardo Lo Verso Il Foglio, 26 giugno 2021 Perché i pubblici ministeri possono indagare chiunque e dovunque, partendo dal solo sospetto che ci sia un reato, figuriamoci quando il corpo reato sarebbe stato conservato in un cassetto. Il condizionale è più che mai d’obbligo in virtù del principio di non colpevolezza fino a sentenza definitiva che vale per tutti. Inclusi magistrati, pm ed ex pm in servizio televisivo permanente ed effettivo. Possono indagare chiunque e dovunque, partendo dal più insignificante dei sospetti. Basta un refolo di vento per scatenare una tempesta mediatico-giudiziaria. Nel circolo vizioso e tautologico della giustizia succede che il fatto provi il reato e il reato sia l’unica spiegazione plausibile del fatto. Il dogma dell’obbligatorietà dell’azione penale ha reso illimitato il potere dei pubblici ministeri. Alcune prove contrarie vengono tenute nei cassetti, altre e fantomatiche sono confezionate per il circo mediatico. I pm sono diventati ingranaggi di una macchina onnivora che ingurgita tutto ciò che fa audience. Dai sospetti alle suggestioni il passo è breve. Dalle suggestioni ai poteri sovrannaturali anche. Come bramini i pm si muovono nei palinsesti televisivi, moderni templi della stregoneria. Prendi un pubblico ministero. Piazzalo davanti a una telecamera. Fai partire la diretta e lascia che parli a ruota libera. Nessuno saprà alimentare meglio di un pm il sacro fuoco dell’interesse mediatico. Nelle ultime settimane è comparsa sulla scena Maria Angioni. Mattino, pomeriggio, sera, notte. Un magistrato ubiquo, onnipresente per la verità. Lo zapping compulsivo non cambia la sostanza delle cose. Lei c’è, sempre e comunque. Oggi è un “anonimo” giudice del lavoro a Sassari, ma nel suo curriculum c’è un passato da pubblico ministero. Ed è l’unica cosa che conta per essere invitata in tv a sbandierare verità senza una prova. Non un pm qualunque, ma il primo, negli anni di servizio alla Procura di Marsala, che indagò sulla misteriosa scomparsa di Denise Pipitone, la bimba di Mazara del Vallo di cui si sono perse le tracce, ma per fortuna non la memoria, da diciassette anni. Angioni passa da un canale a un altro, da una rete a un’altra. Si è attrezzata con cuffia e microfono, basta una linea internet veloce e il gioco è fatto. A chi ha i capelli bianchi ricorda gli inviati di “Tutto il calcio minuto per minuto”. L’unica differenza è che non è collegata da uno stadio ma dal salotto di casa. Sullo sfondo i quadri alle pareti, il divano, i mobili: un ambiente rassicurante, fa da contraltare ad un racconto destabilizzante. È stato un crescendo, il suo. All’iniziò parlava di stranezze nelle indagini. Di verbali striminziti, di gente non tenuta sotto torchio a dovere, di spioni che si prendevano gioco della magistratura. E cioè di lei, perché suo era il coordinamento delle indagini nelle fasi iniziali. Avete presente quei giorni in cui il caso o si risolve subito o non si risolve più? Ecco, di questi giorni si parla. Ad un certo punto Angioni ha detto di essere stata stoppata nell’accertamento della verità. Che qualcuno, addirittura in divisa, la interruppe mentre raccogliere informazioni da una persona, bruciando una pista serissima per trovare la bambina. Aveva la sensazione di essere pedinata mentre ordinava di piazzare microspie nei luoghi sensibili di un lembo di Sicilia ancora scosso dall’assenza di Denise. Pedinata da altri investigatori. Una telecamera che aveva ordinato di accendere fu spenta senza che il pm ne fosse al corrente. Un carabiniere dovette desistere dal piazzare una cimice, il cui ritorno di ascolto avrebbe potuto essere decisivo. In soldoni, un colossale depistaggio ha impedito di trovare Denise Pipitone e ha protetto colui o coloro che la rapirono una mattina di quasi fine estate mentre giocava sotto casa. Così viene spiegato all’opinione pubblica diciassette anni dopo e in concomitanza, con una coincidenza temporale quanto meno strana, con il riaccendersi delle telecamere sul caso. Una perquisizione, questa sì vera, eseguita su disposizione della Procura di Marsala in una casa disabitata e in un garage ha scatenato il putiferio. Si cercavano tracce del passaggio di Denise tra quelle mura e dentro un pozzo, circostanza che mette i brividi. Nessun esito, ma da allora le telecamere sono perennemente accese. Ebbe paura per se stessa, la Angioni, stritolata nei mesi che chiudevano il 2004 da qualcosa più grande di lei, che sfuggiva al suo controllo. Qualcosa che zittiva le bocche dei testimoni, che avevano visto e taciuto sulla sorte della piccola Denise. Poco importa che il direttore d’orchestra fosse lei, era lì per lì per essere trasferita al tribunale di Cagliari. Si lasciò alle spalle l’esperienza alla Procura di Marsala e la Sicilia, ma non le ricerche di Denise. Maria Angioni ha continuato a seguire il caso con indagini parallele. Tra un processo e un altro, tra scartoffie civilistiche e contenzioso di lavoro, si è messa a fare la smanettona - è sempre lei a raccontarlo - con un paio di amiche su internet. Se ci sia dell’altro non è dato sapere. Di sicuro ha compulsato fonti aperte sui motori di ricerca, studiato profili social, cercato volti somiglianti a quello di Denise Pipitone che nel frattempo, nella comune speranza che sia viva, è diventata donna. Ed ecco la sensazionale comunicazione in diretta. Denise è viva, abita in Europa, è benestante e si è costruita una famiglia. Adesso è madre di una bambina. Fermate le rotative. Lanci di agenzia, titoloni in prima pagina. Qualcuno verifica, per fortuna non tutti si iscrivono al circo mediatico del “basta che sia probabile per essere vero”: colei che dovrebbe essere Denise ha 26 anni, dunque più grande, è tunisina, vive a Nizza ed è in qualche modo legata al contesto familiare dell’ex marito di Piera Maggio, la mamma di Denise. “Non sono io”, ha tagliato corto la donna scovata tramite il sul profilo social. Capitolo chiuso? Beh no, perché Angioni rilancia. Il suo racconto è adrenalinico. Da qualche altra parte sul web c’è una ragazza che “o è Denise o è sua sorella gemella”, dice Angioni. Così sembra a lei e alle sue amiche. Quale sia il metodo scientifico di comparazione non è dato sapere. Le prove non servono, basta l’idea “che Denise sia viva perché non ci sono elementi che provino che sia morta”. E mentre Angioni pronuncia queste parole in sovrimpressione spunta la scritta, come un mantello da vestale che tutto avvolge: “La verità dell’ex pm”. E chi la scalfisce una verità che proviene da chi è unto con il crisma dell’infallibilità della magistratura. Tutto questo ribollire di allusioni e suggestioni, di rivelazioni un tanto al chilo ha dato vita a un paradosso. Il pm che conduceva le indagini, cioè Angioni, dice che le indagini, dunque le sue, erano fatte male perché qualcuno depistava gli investigatori, sempre coordinati dall’ex pm che, dopo 17 anni, riferisce di saper dov’è Denise. Viene convocata dai pubblici ministeri, quelli di oggi, che hanno riaperto il fascicolo. Dal confronto con i colleghi Angioni esce indagata con l’accusa di avere reso false dichiarazioni all’autorità giudiziaria. L’ex pm non si mostra preoccupata e aggiunge il tassello mancante, quello che d’ora in poi reggerà l’architrave della sua narrazione: “Quando ho parlato ho dato fastidio a qualcuno. Me lo aspettavo perfettamente”. È lecito attendersi giorni caldissimi, tenendo conto che da indagata l’ex pm avrà diritto di accedere ad alcuni atti con cui puntellare nuove rivelazioni da rilanciare urbi et orbi in televisione. In principio c’era l’obbligatorietà dell’azione penale. Un modo per mascherare e giustificare lo strapotere concesso ai pubblici ministeri. Il fatto che la prova, codice alla mano, si debba formare in dibattimento alimenta l’illusione della parità fra accusa e difesa. Nessuno aveva messo in conto un’altra obbligatorietà, quella dei pm di apparire in televisione. Prima era una moda, ora è un’esigenza dei palinsesti. E così i pubblici ministeri sono diventati opinionisti, fissi o estemporanei, perché la loro presenza conferisce autorevolezza al contenitore ancor prima che al contenuto. C’è la corsa a garantirsi gli ospiti più illustri. L’elenco è lungo. C’è Alfonso Sabella, un tempo cacciatore di latitanti all’antimafia di Palermo quando il capo era Giancarlo Caselli. I suoi meriti sul capo sono inequivocabili. Ha arrestato gente come Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella, poi ha creduto di potere dare un contributo alla politica con la parentesi da assessore alla Legalità nella Roma del sindaco Ignazio Marino, quando si iniziava a parlare di Mafia Capitale. Ora lavora al tribunale di Napoli, o meglio come lui stesso dice è stato “spedito” in Campania perché fuori dalle logiche del sistema di Luca Palamara che controlla nomi e nomine. Altro ospite fisso è Luigi De Magistris che in tv viene chiamato più per il suo passato da pm in Calabria che come sindaco di Napoli. Anche lui ripete spesso di essere stato fatto fuori dalla magistratura. Fino a quando indagava su Silvio Berlusconi era osannato, poi mise il naso nella sinistra e arrivarono i guai. C’è Antonio Ingroia, ex pm e ideologo della trattativa Stato-mafia, un biglietto da visita sempre attuale anche ora che fa l’avvocato dopo avere tentato la scalata politica collezionando percentuali da zero virgola. Un pm è per sempre. Il mantello di sacralità è un dono eterno. Anzi, da ex pm la loro voce diventa più autorevole perché, il caso Angioni fa scuola, si può sempre dire che uomini misteriosi hanno ostacolato la verità, salvo scoprire che a volte capita che siano gli stessi pm ad occultare le possibili prove contrarie. E cioè che qualcuno è stato processato pur in presenza di elementi che avrebbero potuto e dovuto alimentare il dubbio che fosse vittima piuttosto che carnefice. Così sostengono ad esempio a Brescia, dove la Procura ha messo sotto inchiesta due magistrati di Milano, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro. È un rivolo che rischia di diventare un fiume quello che nasce dall’accusa, crollata al processo, rivolta a Eni e Shell di aver pagato una maxi tangente da un miliardo e 92 milioni di dollari per ottenere nel 2011 una concessione esplorativa di idrocarburi al largo del Delta del fiume Niger. I quindici imputati sono stati tutti assolti nei mesi scorsi, così come le società. Quella tangente non è mai esistita. Detto così rientrerebbe nella casistica, sempre più ampia, dei roboanti processi che finiscono in macerie dopo che il tritacarne ha rovinato vite e reputazioni. Però c’è un però. De Pasquale e Spadaro sono indagati con l’ipotesi di rifiuto di atti d’ufficio per aver omesso di depositare nel fascicolo del processo documenti che sarebbero stati elementi di prova favorevoli agli imputati. Un altro collega, sempre pubblico ministero, Paolo Storari, (il magistrato che ha consegnato i verbali resi dell’avocato siciliano Piero Amara a Piercamillo Davigo, allora al Csm) aveva inviato a De Pasquale e Spadaro materiale che dimostrerebbe che un ex manager “licenziato” dalla compagnia petrolifera italiana aveva “costruito” prove in realtà false per “gettare fango” sui vertici del gruppo di San Donato per poi ricattarli. Materiale che i due pubblici ministeri non hanno messo a disposizione delle difese e del Tribunale durante il processo pur avendo consapevolezza, questa è l’ipotesi, delle false accuse mosse. E così l’inchiesta nata con l’obiettivo di svelare il più grande caso di corruzione internazionale della storia rischia di trasformarsi in uno dei più gravi scandali della storia della magistratura italiana. Nulla la messa alla prova del minore disposta senza il contraddittorio tra le parti di Camilla Insardà Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2021 Nota a Corte di Cassazione, II sez. penale, sentenza del 26 aprile 2021 n. 15588. Prima di procedere ad un’analisi più approfondita dei temi trattati dalla sentenza n. 15588/2021 della Corte di Cassazione, con la quale è stato ordinato l’annullamento senza rinvio di un’ordinanza del Tribunale per i minorenni di Bologna, con cui era stata concessa la sospensione del procedimento per messa alla prova, sulla sola base di dichiarazioni informali rilasciate ai Servizi Sociali e senza il parere del P.M. sull’adeguatezza del progetto di intervento, è bene offrire un quadro generale dell’istituto. Si tratta di una misura alternativa al processo, prevista e disciplinata dal Decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988 n. 448, recante l’“Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni”, più precisamente dagli articoli 28 e 29. Dalla lettera della prima norma citata si evince che la messa alla prova rappresenta la trasposizione dell’istituto anglosassone della probation nel settore minorile. Com’è noto, nei Paesi di Common Law è prevista la possibilità di sospendere l’esecuzione di una sentenza di condanna, sottoponendo il responsabile ad un periodo di prova, sotto la supervisione delle autorità competenti, al termine del quale, in caso di giudizio positivo, verrà deliberata l’assoluzione. Secondo la più recente definizione contenuta nella raccomandazione R(2010)1 del Comitato dei Ministri degli Stati Membri sulle “Regole del Consiglio d’Europa in materia di probation”, affermano testualmente che essa “descrive l’esecuzione in area penale esterna di sanzioni e misure, definite dalla legge ed imposte ad un autore di reato. Comprende una serie di attività ed interventi, tra cui il controllo, il consiglio e l’assistenza, mirati al reinserimento sociale dell’autore, ed anche a contribuire alla sicurezza pubblica”. Venendo all’articolo 28 del cosiddetto Codice del processo minorile 448/1988, esso stabilisce che, qualora reputi necessario valutare la personalità del minore, il giudice possa sospendere con ordinanza il procedimento, per un periodo non superiore ad uno o a tre anni a seconda dei casi, durante il quale viene sospeso anche il decorso dei termini di prescrizione. Sempre con ordinanza, prosegue il comma II, il minore viene affidato ai Servizi Sociali dell’Amministrazione della Giustizia, i quali, anche in collaborazione con i Servizi Locali, elaborano un programma finalizzato al reinserimento sociali dell’imputato, sottoposto alla loro osservazione. Il progetto di “responsabilizzazione” elaborato dai Servizi sociali deve avere un preciso contenuto, in particolare, deve implicare il coinvolgimento del minore e della sua famiglia, indicare gli impegni assunti e le modalità di concreto svolgimento degli stessi. Come previsto dallo stesso articolo 28, il giudice può impartire ulteriori prescrizioni di carattere riparatorio e/o conciliativo. Tuttavia, come ha fatto presente la V Sezione della Cassazione con decisione n. 7429/2014, tale facoltà incontra un limite tale per cui “è illegittimo il provvedimento con cui il giudice, senza la consultazione delle parti e del servizio minorile competente, imponga prescrizioni ulteriori rispetto a quelle stabilite nel progetto di intervento”. Come previsto dall’articolo 29, terminato positivamente il periodo di prova e fissata una nuova udienza, il giudice dichiara con sentenza l’estinzione del reato, in caso contrario di esito negativo, provvede ai sensi dell’articolo 32 o fissa l’udienza dibattimentale ex articolo 33. In linea generale, trattandosi di uno strumento volto alla rapida fuoriuscita del minore dal circuito penale, essenzialmente fondato sulla valutazione della personalità del minore e su una prognosi di concreto successo, l’applicazione della m.a.p. non è limitata dalla gravità del reato commesso, tanto più che con sentenza 412/1990, la Corte Costituzionale ha fornito un’interpretazione costituzionalmente orientata, per cui la m.a.p. del minore risulta astrattamente applicabile anche nell’ipotesi di reati punibili con l’ergastolo. “Astrattamente” perché la concessione del beneficio resta comunque affidata al discrezionale e prudente apprezzamento del giudice minorile, chiamato a valutare le concrete possibilità di positivo sviluppo della personalità del ragazzo, di rieducazione e di reinserimento nel tessuto sociale. Nel richiamare la propria consolidata giurisprudenza - in particolare, la sentenza 26156/2019 - a proposito del potere di valutazione della personalità del minore, la Cassazione ha sottolineato che l’esercizio di tale potere discrezionale “deve essere sorretto da congrua e logica motivazione, che evidenzi l’esistenza di elementi idonei ad un favorevole giudizio prognostico”. In quest’ottica, la gravità dell’illecito commesso, la condotta precedente e successiva alla commissione del reato, il contesto socio-familiare, diventano tutti elementi che verranno tenuti in considerazione ai fini della concessione o meno della messa alla prova del minore. La misura ex articolo 28 può essere chiesta una volta terminate le indagini preliminari, cioè dopo l’esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero, con conseguente formulazione di un’imputazione. Ritenendo del tutto irragionevole l’esclusione della concessione della m.a.p. in caso di giudizio abbreviato o immediato, con sentenza 125/1995, la Consulta ha dichiarato incostituzionale il comma IV dell’articolo in esame, per cui oggi è possibile chiedere ed ottenere il beneficio in qualsiasi momento, sino alla chiusura della fase dibattimentale, restando quale unica ipotesi di esclusione quella in cui sussistano tutti gli elementi per un immediato proscioglimento, ai sensi dell’articolo 425 del Codice di Procedura Penale. Infine, la messa alla prova può essere concessa anche all’imputato divenuto maggiorenne nel corso del processo. Venendo ora al tema delle impugnazioni, ai sensi del comma III dell’articolo 28, il P.M., l’imputato e il suo difensore possono proporre ricorso per Cassazione avverso l’ordinanza con la quale viene disposta la sospensione del processo con messa alla prova. Nella fattispecie in esame, il Pubblico Ministero ha presentato ricorso per Cassazione lamentando, innanzitutto il vizio di motivazione e l’erronea applicazione di legge, in quanto il Tribunale ha concesso il beneficio della m.a.p. sulla sola base di dichiarazioni rilasciate informalmente dagli imputati agli operatori sociali, in assenza di qualunque garanzia difensiva, in secondo luogo, deducendo la nullità del provvedimento per violazione del contraddittorio, non avendo rilasciato il suo necessario parere sull’adeguatezza del progetto di intervento, all’esito dell’esame dei minori. Ritenuto prevalente questo secondo motivo, dopo aver citato la granitica giurisprudenza sul punto, la Cassazione ha affermato che “il provvedimento di sospensione del processo e messa alla prova dell’imputato minorenne disposto senza che sul progetto di intervento elaborato dai servizi minorili sia stato consentito il contraddittorio tra le parti comporta una nullità di ordine generale sotto il profilo della violazione dei poteri del Pubblico Ministero di iniziativa nell’esercizio, o quanto meno nella prosecuzione, dell’azione penale, atteso che l’esito favorevole della prova comporta l’estinzione del reato”. Si tratta, cioè, di un caso di nullità assoluta ex articolo 178, comma I, lett. b) del Codice di procedura penale, come tale insanabile e rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, ai sensi del successivo articolo 179. Passando poi all’analisi della prima censura, ritenuta comunque assorbita dall’altra, il Collegio ha ribadito quanto sostenuto dalle decisioni di altre Sezioni, anch’esse citate nella sentenza in commento, ossia che ai fini della concessione della messa alla prova è necessario che il giudicante esprima il suo discrezionale apprezzamento sulla personalità del minore e sulle sue concrete possibilità di reinserimento nel tessuto sociale. Nello specifico caso sottoposto all’attenzione della Cassazione, il Tribunale minorile bolognese ha concesso la m.a.p. senza effettuare l’esame dei quattro imputati, tutti presenti in udienza, ma fondando la propria decisione solamente sulle affermazioni da loro rilasciate ai Servizi Sociali, in sede di ascolto indiretto. Benché ai fini dell’ammissione alla m.a.p. sia richiesto comunque l’accertamento in fatto di una responsabilità del minore, una sua confessione non costituisce requisito irrinunciabile. Contrariamente alla passata giurisprudenza di merito che considerava il beneficio incompatibile con una mancata ammissione degli addebiti, più di recente, con la citata sentenza 40512/2017, la Cassazione ha riconosciuto che essa costituisce soltanto un indizio di ravvedimento, utile ai fini della prognosi positiva di rieducazione e di risocializzazione del minore. Giunta a tali conclusioni, la Seconda Sezione della Corte di Cassazione, con sentenza del 26 aprile 2021 n. 15588, ha disposto l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza del 2020 del Tribunale per i minorenni di Bologna. Torino. Umiliati e intimiditi: così si vive nel Cpr dove era rinchiuso Moussa Balde di Giulio Cavalli Il Riformista, 26 giugno 2021 La Procura di Torino ha aperto un fascicolo per indagare sulla morte di Moussa Balde, il 23enne originario della Guinea trovato morto impiccato nel centro di permanenza per il rimpatrio di corso Brunelleschi dove si trovava rinchiuso. Così, con il nome e il cognome, forse rischiate di non ricordarvelo perché i nomi stranieri faticano a fissarsi nella memoria e aleggiano leggeri come se fossero un inciampo avvenuto nella cronaca, Balde era quel ragazzo accerchiato e preso a bastonate, calci e pugni a Ventimiglia mentre chiedeva l’elemosina che fu registrato in un video. Dopo la sua morte (che abbiamo raccontato qui su Il Riformista) si sono affrettati tutti a dirci che no, che il problema non era che fosse rinchiuso nel Cpr di Torino e che anzi forse avesse addirittura rubato un cellulare, come se l’eventuale furto di un oggetto qualsiasi potesse giustificare un pestaggio a sangue. Ma il punto è un altro: dopo il suicidio di Balde nel Centro di permanenza per il rimpatrio di Torino qualcuno avrebbe potuto almeno sperare, al di là dell’indagine della magistratura, che almeno si rispettassero i diritti civili di base e invece la situazione rimane una giungla di violenza. Dall’area Rossa del Centro alcuni ragazzi detenuti stanno comunicando con alcuni volontari all’esterno raccontando di essere in sette in una stanza, con un bagno senza finestre e con una porta rotta. Le ore d’aria (per questi che non sono reclusi nonostante siano trattai illegalmente da reclusi) sono passate sotto la stretta vigilanza della polizia che li circonda. Chi non ha amici e parenti che possano portare dei vestiti puliti deve farseli passare dal Centro che distribuisce i cambi una volta alla settimana, spesso sporchi. Ci sono perquisizioni in continuazione e le umiliazioni e le intimidazioni sono continue e costanti. Ci sarebbe una direttrice, a dire la verità, ma le poche volte che si fa federe è inavvicinabile e accompagnata dalla scorta, come se camminasse tra delinquenti che invece hanno l’unica colpa di non avere i documenti a posto. Poi ci sono le udienze (accade a Torino come in tutto il resto d’Italia): giudici che non ascoltano i detenuti, non li fanno nemmeno parlare perché spesso l’interprete egiziano risulta incomprensibile e alla fine delle udienze l’unico risultato è un allungamento delle pene detentive, senza nessun ruolo degli avvocati. Scrive l’associazione No Cpr Torino: “Per esempio, A., di origine marocchina, portato a Torino dal Cpr di Caltanissetta, fra due settimane finisce i tre mesi di detenzione. Ha visto la sua avvocata solo una volta, ovvero quando gli ha fatto firmare il modulo per il gratuito patrocinio. È a rischio di espulsione perché ora la frontiera è aperta, ma l’unica notizia che ha avuto rispetto alla sua situazione è stata la singola telefonata della legale per informarlo che aveva mandato il suo nominativo al consolato senza avere risposta. Un altro recluso marocchino è in sciopero della fame da quattro giorni proprio per la paura della deportazione. Continuano le resistenze ai tamponi, che aprono le procedure alle deportazioni stesse; due ragazzi tunisini, intimati a fare l’esame. si sono rifiutati di farlo proprio per non essere rimpatriati. Hanno paura di essere prelevati con la forza, e la notte non dormono, determinati a non farsi portare via”. Succede addirittura che quando si accende un litigio uno dei reclusi venga portato in isolamento e nella stanza vengano spostati gli stessi suoi litiganti. Dalle testimonianze risulta che il 24 giugno un ragazzo sia caduto provocandosi un trauma alle costole ma nessuno gli ha prestato le cure. Accade così, fino allo stremo, fino alla disperazione, fino a un suicidio di cui tutti si sentono sorpresi. Accade così quando muoiono i neri: muoiono ma non cambia niente, non se ne accorge nessuno. Lecce. Casa circondariale senza acqua da due giorni, i detenuti invocano aiuto di Gabriele De Giorgi lecceprima.it, 26 giugno 2021 Il sovraccarico di consumo elettrico ha causato blackout in vari punti della città, ma a Borgo San Nicola le conseguenze, per due giorni, sono state molto pesanti. Nel carcere di Borgo San Nicola, a Lecce, è stata registrata una prolungata assenza di acqua e una limitata disponibilità di energia elettrica. La tensione è salita alle stelle e solo nelle ultimissime ore il problema pare essere stato avviato a risoluzione, come ha dichiarato la garante delle persone private della libertà del Comune di Lecce. Maria Mancarella, che si è recata nella casa circondariale dove ha incontrato la neo direttrice, Valetina Meo Evoli, e il dirigente Pasquale Somma, potendo ricostruire l’accaduto. I guai sono iniziati già da martedì dopo un primo blackout della rete elettrica. Da allora la situazione, all’interno dei blocchi, è progressivamente peggiorata, causando frustrazione e rabbia mentre le temperature, elevate anche di notte, non hanno concesso tregua, essendo i bracci e le celle già di per sé privi di condizionamento di aria. Il giorno dopo, infatti, a distribuzione della corrente elettrica è stata interrotta, a causa di un guasto, in tutta la zona del territorio comunale nella quale si trova il penitenziario. Il limitato soccorso fornito dal generatore interno è durato un giorno perché nella mattinata di ieri, giovedì, è andato in blocco, probabilmente per un sovraccarico. Si è deciso dunque di reperire una secondo generatore ma intorno alle 20 l’erogazione di energia sarebbe stata interrotta dal gestore nazionale nella sola area del carcere determinando l’interruzione definitiva della fornitura di acqua: le vasche di accumulo, infatti, si erano intanto svuotate. Forte si è levata la richiesta di aiuto: senza l’energia elettrica è impossibile fare una doccia e conservare gli alimenti. “Acqua” è stata l’invocazione che si sente ripetutamente in un video girato ieri sera all’esterno del penitenziario leccese e diffuso attraverso i social, con il rumore di sottofondo di stoviglie e arredi battuti con le mani tipico delle proteste dei detenuti. In una sezione in particolare il malcontento sarebbe degenerato per poi rientrare nei ranghi. Anche l’associazione Antigone, informata della situazione di criticità, si è mossa per sollecitare il ripristino di condizioni di agibilità della vita carceraria, nel rispetto dei fondamentali diritti umani. La referente pugliese, Maria Pia Scarciglia, ha avuto un colloquio con la neo direttrice del carcere, ricevendo alcune rassicurazioni: è stato fatto un incontro con le delegazioni di di tutte le sezioni del carcere e sono state distribuite bottigliette e taniche di acqua. “Certamente non posso che esprimere la mia soddisfazione per la soluzione del grave problema - ha poi commentato la garante - ma nello stesso tempo far sentire la mia vicinanza ai detenuti e alle detenute per i gravi disagi affrontati che vanno purtroppo ad aggiungersi ai tanti problemi da cui è afflitto un carcere ormai vecchio strutturalmente, gravemente sovraffollato e con carenze di tipo sanitario ormai croniche come Borgo San Nicola. Continuerò a monitorare la situazione e darne comunicazione ai tanti familiari che in queste ore mi hanno contattato attraverso tutti i canali a mia disposizione”. Lecce. Detenuti senza luce ed acqua: carcere vecchio e carente di Maria Mancarella* salentolive24.com, 26 giugno 2021 Appresa la notizia della grave situazione determinata nel carcere di Borgo San Nicola dall’interruzione dell’erogazione della corrente elettrica per un grave guasto verificatosi in tutta l’area, in mattinata sono andata a fare una visita di verifica. Dagli incontri avuti con il dirigente Pasquale Somma, che sostituisce il Comandante, e con la direttrice, Valentina Meo Evoli, ho potuto appurare che al momento la situazione sembra essere tornata alla normalità e nel contempo mi è stato possibile ricostruire gli avvenimenti degli ultimi giorni. Il tutto è cominciato mercoledì: a causa di un guasto, preceduto da un breve black out verificatosi martedì, Enel ha interrotto l’erogazione della luce elettrica non solo nel carcere ma in tutta la zona. L’emergenza generata dalla mancanza della luce è stata in un primo momento affrontata attraverso il ricorso al generatore che purtroppo, probabilmente a causa del sovraccarico, si è bloccato nella mattinata di giovedì. Nel pomeriggio la direzione ha provveduto all’affitto di un generatore di supporto per consentire la riparazione di quello in dotazione al carcere. Alle 18 la situazione sembrava risolta. Intorno alle 20 Enel interrompe improvvisamente l’erogazione, questa volta solo nell’area del carcere, generando una situazione gravissima poiché, nel frattempo, le vasche di accumulo dell’acqua non più alimentate si erano completamente svuotate determinando l’interruzione dell’erogazione dell’acqua stessa. La Direzione si riserva di verificare le responsabilità di questa interruzione. La preoccupazione e il grave disagio generato hanno dato vita a proteste da parte di detenuti in alcune sezioni, appena contenute dall’intervento degli agenti che, utilizzando l’acqua degli idranti, hanno riempito alcuni secchi da utilizzare per le emergenze. Oggi, sin dalla prima mattina la direttrice e il comandante hanno incontrato le delegazioni di detenuti di tutte le sezioni per dar loro conto della situazione, spiegare i diversi passaggi e comunicare che Enel si era impegnata a risolvere il problema nella mattinata. È stato anche comunicato loro che, per un paio di giorni nelle ore del passeggio, l’erogazione dell’acqua sarà sospesa per dar modo alle vasche svuotate di riempirsi nuovamente. La direzione ha, inoltre, acquistato scorte di acqua in bottiglia per venire incontro a tutte le esigenze. Alle 13 di oggi il problema sembra risolto, i lavori terminati e l’erogazione dell’energia elettrica tornata alla normalità. Certamente non posso che esprimere la mia soddisfazione per la soluzione del grave problema, ma nello stesso tempo far sentire la mia vicinanza ai detenuti e alle detenute per i gravi disagi affrontati che vanno purtroppo ad aggiungersi ai tanti problemi da cui è afflitto un carcere ormai vecchio strutturalmente, gravemente sovraffollato e con carenze di tipo sanitario ormai croniche come Borgo San Nicola. Continuerò a monitorare la situazione e darne comunicazione ai tanti familiari che in queste ore mi hanno contattato attraverso tutti i canali a mia disposizione. *Garante dei diritti dei detenuti Pescara. Progetto “Lo sport generAttore di comunità”, consegna degli attestati a 50 detenuti viverepescara.it, 26 giugno 2021 Sono 50 i detenuti del carcere di Pescara che hanno ricevuto gli attestati di partecipazione al progetto “Lo sport generAttore di comunità” - un percorso voluto dal Ministero dell’Interno, patrocinato dal Comune di Pescara e realizzato sul territorio grazie alla partnership con l’Us Acli - finalizzato al miglioramento delle condizioni di vita dei soggetti in esecuzione e, nel contempo, a fornire loro gli strumenti di reinserimento sociale e lavorativo. Gli ospiti della casa circondariale San Donato hanno preso parte a due corsi di formazione su temi e argomenti legati allo sport: a) Operatore ludico-sportivo b) Operatore di fumetto sportivo; infine, è stato anche organizzato un premio letterario, sempre sui temi dello sport. “Voglio ringraziare per la disponibilità e per avere condiviso il progetto - ha detto il consigliere comunale e Presidente dell’U.s. Acli Abruzzo-Pescara, Adamo Scurti - la direttrice della casa circondariale Lucia Di Feliciantonio. Il lavoro delle educatrici interne alla struttura è stato fondamentale perché ha risposto perfettamente all’obiettivo di dare un’opportunità a quelle persone che hanno subito delle condanne ma che dobbiamo in tutti i modi sostenere per favorirne il reinserimento nella società. Con questi corsi abbiamo permesso loro di acquisire competenze che spero possano spendere una volta tornati in libertà”. Il percorso di “Generattore”, partito nel 2019 e poi bloccato dall’emergenza sanitaria, è ripreso negli ultimi mesi dello scorso anno; è stato già reso noto che proseguirà, visti gli ottimi riscontri ottenuti. Secondo le linee stabilite dal Ministero degli Interni i principali obiettivi dell’intervento sono i seguenti: · garantire il miglioramento delle condizioni psico-fisiche dei detenuti; · favorire il percorso rieducativo e il reinserimento sociale dei soggetti in esecuzione di pena; · contribuire alla strutturazione di attività sportive nelle carceri; · promuovere lo sviluppo di un rapporto solidale e sinergico tra istituto penitenziario e territorio di riferimento; · trasformare le buone prassi in modelli di intervento per renderle trasferibili. Adamo Scurti ha voluto ringraziare gli istruttori esterni alla struttura carceraria: Angela ed Emanuela Trivarelli, Guido Babuscio, Antonio Vinci, Giuseppe Gozzo, Beniamino Cardines, Tania Tacconella, Antonio Di Cecco e Giacomo Fortuna. Alla consegna degli attestati, oltre allo stesso Adamo Scurti, sarà presente anche il sindaco Carlo Masci. Belluno. Astucci per occhiali made in carcere: rientrano le lavorazioni che erano state delocalizzate di Alessia Forzin Corriere delle Alpi, 26 giugno 2021 Stipendio, Tfr e malattie pagate: una quarantina di detenuti sforna sette milioni di pezzi all’anno. Il progetto curato dalla cooperativa Sviluppo & Lavoro, commesse dalle imprese del territorio. Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Il principio, sancito dalla Costituzione, si è trasformato nella casa circondariale di Belluno in un laboratorio che dà lavoro a una quarantina di detenuti. Nella “fabbrica”, allestita nei locali della struttura carceraria cittadina, i detenuti confezionano astucci per occhiali, panni per pulire le lenti, effettuano assemblaggi di componenti plastici. Un lavoro vero e proprio, con orari e stipendio, che permette ai detenuti di costruirsi una seconda occasione attraverso un’occupazione che li impegna quotidianamente. Di recente il progetto, che è portato avanti dalla cooperativa Sviluppo & Lavoro, è stato segnalato fra i venti candidati al premio nazionale Angelo Ferro per l’innovazione dell’economia sociale e, pur non risultando nella cinquina premiata, ne è stato riconosciuto il valore durante la cerimonia conclusiva. La genesi - Il progetto è iniziato nel 2015, racconta il presidente della cooperativa, Gianfranco Borgato: “Siamo partiti ristrutturando i locali all’interno della casa circondariale per adibirli a laboratorio”, spiega. “Sono stati gli stessi detenuti ad occuparsi di questa attività”. Una volta allestite le stanze, si è deciso di “riempirle” con un progetto che ha portato a creare una vera e propria fabbrica in carcere. “I detenuti effettuano lavori di assemblaggio di componenti plastiche, realizzano astucci per occhiali, confezionano i panni per pulire le lenti”, continua Borgato. Lavorazioni semplici, ma che richiedono attenzione e manualità. “Per questa attività prendono uno stipendio, hanno il Tfr, la malattia pagata. È come essere in azienda”. Delocalizzazione in casa - Sono una quarantina i carcerati che aderiscono al progetto, e che effettuano le lavorazioni per conto di aziende del territorio. E sono due i reparti attrezzati nella casa circondariale dove lavorano i detenuti, con macchinari specifici come le stampatrici, necessarie per confezionare i panni per le lenti degli occhiali. Lo scorso anno sono stati prodotti circa settemila pezzi, con una produzione che è rientrata in Veneto dalla Romania, dove era stata delocalizzata. Seconda occasione - I lavoratori vengono seguiti da personale specializzato della cooperativa e da Borgato stesso, e la scelta di aderire o meno al progetto è volontaria. “C’è grande entusiasmo da parte dei ragazzi”, segnala Borgato. “Il lavoro per loro è la vita, e oltre ad essere un modo per occupare le giornate, è anche un primo passo per il reinserimento nel tessuto sociale e produttivo”. “Lavorando, i ragazzi hanno dei ritmi assimilabili a quelli di una vita normale”, prosegue il presidente della cooperativa. “E possono costruirsi una seconda o una terza occasione”. Qualcuno, infatti, trova un impiego una volta scontata la pena, proprio grazie alla professionalità acquisita in carcere. Ma l’attività di Sviluppo & Lavoro non si ferma qui. La cooperativa si occupa anche delle persone sottoposte a misure alternative (come la semilibertà) impiegandole in un’azienda a Paludi, in Alpago, che opera nel campo dell’edilizia. “Siamo sempre pronti a sviluppare i progetti che portiamo avanti nella casa circondariale con il supporto della direzione”, conclude Borgato. “Se ci sarà modo di ampliare l’iniziativa, ci attiveremo”. Pavia. I detenuti addestratori cinofili: i cani entrano in carcere di Eleonora Lanzetti Corriere della Sera, 26 giugno 2021 Succede nella Casa circondariale di Torre del Gallo, che ospita 720 detenuti. I cani arrivano dal canile di Voghera: sono i protagonisti del progetto “Qua la zampa”. Risollevarsi da un passato difficile e provare a costruire un futuro migliore insieme. Il percorso di reinserimento dopo la condanna al carcere, passa attraverso le cure amorevoli riservate agli amici a quattro zampe. Sono entrati nelle case di riposo per anziani, nelle corsie degli ospedali, e ora anche nei penitenziari. Arrivano dal canile di Voghera i cani protagonisti del progetto “Qua la zampa”, reso possibile grazie alla sinergia tra il direttore del carcere di Pavia Stefania D’Agostino, il direttore generale di Ats Mara Azzi e l’ex garante provinciale dei detenuti Vanna Jahier, in collaborazione con la Scuola Cinofila “Il Biancospino” di Casteggio. Nella Casa circondariale di Torre del Gallo, che ospita 720 detenuti suddivisi in due padiglioni, è stata costruita anche un’area esterna recintata, con due accoglienti box, uno spazio per lo sgambamento e le attività educative degli animali. Saranno i detenuti stessi a prendersi cura dei cani e ad addestrarli per ottenere il patentino di educatore cinofilo usufruendo di una borsa lavoro. Il progetto è finanziato da Fondazione Banca del Monte di Pavia e Fondazione Ubi di Milano e promosso dall’Associazione di volontariato Amici della mongolfiera di Pavia, che da anni collabora con la casa circondariale Torre del Gallo, attivando laboratori interculturali e servizi di assistenza per detenuti stranieri. Diventerà un rapporto simbiotico e salvifico per entrambi: i cani, sin dai primi giorni, si sono affidati alle cure dei loro nuovi addestratori che così inizieranno anche un percorso su loro stessi per superare le difficoltà sapendo di avere un’opportunità fuori, quando avranno finito di scontare la pena. Al tempo stesso, i cani che in canile hanno rapporti spersonalizzanti, possono avere ora un padrone al quale legarsi. Insomma, con questo progetto si favorisce il benessere del detenuto e dell’animale. E, nel caso in cui il detenuto durante la sua vita prima della carcerazione abbia avuto un cane, potrà portarlo con sé all’interno della casa circondariale. “Il nostro obiettivo è quello di restituire alla società una persona cambiata dalla detenzione, dopo un percorso riabilitativo - spiega il direttore del carcere di Pavia, Stefania D’Agostino. L’amore per gli animali è trasversale e questi cani hanno alle spalle storie difficili di abbandono e solitudine. In qualche modo, simili a quelle dei loro nuovi addestratori. Il percorso sarà positivo sia per i detenuti che per gli animali stessi”. Gli istruttori della scuola cinofila sono responsabili del percorso educativo che prevede un impegno quotidiano da parte dei detenuti nella cura e nell’educazione dei cani, mentre le cure veterinarie sono garantite dall’Area Veterinaria di Ats Pavia guidata dalla dottoressa Gabriella Gagnone. Attualmente sono tre i detenuti che si occupano quotidianamente dei cani e che frequentano regolarmente il corso di educatore cinofilo. “I cani vengono di fatto adottati dai detenuti che si occuperanno di loro. Prendersi cura di questi animali dal passato spesso difficile, significherà conquistare la loro fiducia, diventarne un punto di riferimento - spiega il direttore generale di Ats, Mara Azzi. Per i detenuti, questa scuola è un impegno che li aiuta a migliorarsi e offre una nuova prospettiva al periodo che dovranno trascorrere in carcere. Consentirà loro di recuperare un ruolo sociale una volta rilasciati e di imparare un mestiere che potranno svolgere in futuro”. Napoli. Cultura e recupero detenuti, Fico inaugura progetto Pozzuoli ansa.it, 26 giugno 2021 Il presidente della Camera, Roberto Fico, ha inaugurato ieri a Pozzuoli il progetto “Puteoli Sacra” che apre al pubblico il tempio-duomo, la cattedrale di San Procolo martire al Rione Terra, il museo diocesano e gli ipogei diocesani. Il progetto punta sull’inclusione sociale e sarà gestito dalla fondazione Regina Pacis con giovani e donne a rischio emarginazione, in partenariato con gli istituti penitenziari di Nisida e Pozzuoli. “Il Rione Terra è un luogo sacro, carico di storia e di cultura - ha detto Fico - e riuscire a coniugare la ripresa del Rione Terra con l’attività della diocesi per gli istituti di Nisida e di Pozzuoli, in un percorso di recupero dei giovani è un progetto molto all’avanguardia su cui si deve investire. Sarà un fiore all’occhiello per la regione e per il nostro paese. Sul recovery vengono messi 7 miliardi di euro circa per turismo e cultura. Accedere a questi fondi, metterli a disposizione dei nostri ragazzi, perché questi sono i nostri ragazzi, anche in funzione di un recupero sociale - ha concluso - dà un significato e un senso a tutto”. Numerose le autorità istituzionali presenti alla cerimonia che si è aperta con il taglio simbolico di una catena, a significare “che bisogna abbattere tutti i pregiudizi ed offrire solidarietà ed accoglienza” ha detto il vescovo di Pozzuoli, Gennaro Pascarella. “L’avvio del progetto - ha concluso il sindaco, Vincenzo Figliolia - è un’altra sfida che raccogliamo in attesa della riapertura completa del Rione Terra e soprattutto di Procida capitale della cultura 2022. Si aprono importanti prospettive per tutti i nostri giovani e per il nostro territorio”. Bari. Detenuti impegnati in un Premio letterario: così la città ricorda Stefano Fumarulo borderline24.com, 26 giugno 2021 Sabato 26 giugno alle ore 18.30 nel Giardino della Scuola Primaria “Giovanni Falcone”, nel quartiere Catino a Bari, il Presidente della Regione Puglia Michele Emiliano parteciperà alla premiazione dei vincitori del “Premio Letterario Fumarulo”, promosso dall’Associazione “Giovanni Falcone” di Bari. Il Premio è rivolto ai detenuti delle case circondariali di Puglia e Basilicata e dedicato alla memoria del dirigente regionale Stefano Fumarulo. Seguirà un’esibizione musicale del gruppo Alioune Ndiaye, dell’Associazione “Ghetto Out - Casa Sankara Centro Fumarulo”. Il Premio Letterario Fumarulo ha una doppia valenza: festeggiare i 25 anni dell’associazione Giovanni Falcone e soprattutto celebrare la memoria di Stefano Fumarulo, il dirigente regionale scomparso prematuramente nell’aprile del 2017. Fumarulo ha sempre dedicato la sua vita alla lotta alla criminalità, oltre ad aver lottato a fianco delle persone più deboli contro il caporalato e ogni tipo di mafia, sia personalmente che in qualità di dirigente regionale, unendo professionalità e rigore tecnico. Proprio per questo motivo si è imposto come modello di virtù etica e sociale, di legalità e solidarietà, e soprattutto come modello per le nuove generazioni e per chi vuole cambiare la rotta della propria vita. A lui è dunque dedicato il Premio Letterario, che vede coinvolti i detenuti delle carceri di Puglia e Basilicata. Consci dell’importanza della cultura quale strumento per sconvolgere alla radice l’essenza della nostra società, i membri dell’Associazione “Giovanni Falcone” hanno voluto rendere protagonisti proprio coloro che, imparando dai propri errori, cercano una rinascita e chiedono a gran voce una seconda possibilità. La scrittura diventa così strumento di redenzione, un mezzo per comunicare se stessi e la voglia di riscatto, al di là di ogni forma di pregiudizio. Una porta sulla loro vita e sulla loro interiorità, alla ricerca di una nuova possibilità. I detenuti hanno infatti partecipato attivamente al concorso presentando dei componimenti poetici e narrativi. Questi sono stati valutati da una commissione ad hoc che ha valutato e nominato i vincitori. Il Premio Letterario ha ottenuto il Patrocinio Morale della Presidenza della Regione Puglia, della Regione Puglia, del Comune di Bari, della Casa Circondariale di Bari, del Provveditorato di Puglia e Basilicata, del Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Puglia, dell’Associazione Nazionale Magistrati, della Fondazione Falcone, di Libera e le associazioni Gens Nova e Antigone. Firenze. “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia”, presentazione del libro di Bortolato e Vigna di Maurizio Costanzo La Nazione, 26 giugno 2021 Villa Bardini, incontro il 28 giugno alle 18.30. Il principio della finalità rieducativa della pena, fissato nella Costituzione dall’articolo 27, contrasta fortemente con la situazione autentica delle prigioni italiane. Lo racconta e lo documenta con drammatica oggettività il libro “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia” (Editori Laterza) scritto dal giornalista del Corriere della sera Edoardo Vigna e dal Presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze Marcello Bortolato che viene presentato lunedì 28 giugno alle 18.30 a Villa Bardini, Costa san Giorgio, 2, alla presenza del Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura David Ermini. Oltre agli autori, intervengono l’editorialista de La Nazione e scrittore David Allegranti e lo scrittore Marco Vichi. Modera la direttrice de La Nazione Agnese Pini. Introducono l’incontro i presidenti di Fondazione CR Firenze Luigi Salvadori e di Fondazione Parchi Monumentali Bardini e Peyron Jacopo Speranza. Il volume descrive la quotidianità, i limiti, i problemi e le prospettive possibili del mondo carcerario con l’obiettivo di arrivare al pubblico di non addetti ai lavori. Il cittadino comune, spiegano gli autori, non sa cosa sia davvero il carcere in Italia e non si rende conto di come sia interesse concreto della collettività - oltre che un obbligo costituzionale - tentare di recuperare i detenuti ad un’onesta vita esterna. Un’azione svolta durante la detenzione con gli strumenti definiti dalla legge: dal lavoro all’istruzione e al teatro, attraverso anche i benefici e le misure alternative. Da qui la scelta di un linguaggio piano e nient’affatto tecnico, che parte dagli stessi luoghi comuni che ormai sembrano essersi consolidati nella società (“Buttiamo via la chiave, dentro si vive meglio che fuori, etc.”) ma che, come quasi sempre accade ai pregiudizi, non corrispondono alla verità dei fatti. I dati dimostrano che in Italia la recidiva degli ex detenuti è record (sette su dieci tornano a delinquere) ma la percentuale precipita all’ 1% per l’esigua minoranza di chi in carcere ha potuto lavorare. Evidentemente c’è bisogno di andare esattamente in direzione contraria alla “Vendetta pubblica”. “Il tema trattato da Bortolato e Vigna - dichiarano i Presidenti di Fondazione CR Firenze Luigi Salvadori e di Fondazione Parchi Monumentali Bardini e Peyron Jacopo Speranza - è certamente tra quelli più vivaci in questo particolare momento storico. Fondazione CR Firenze interviene da anni e con progetti mirati in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, sostenendo quelle associazioni e quegli operatori altamente qualificati che svolgono proprio attività integrate di mediazione, riparazione e formazione. Crediamo fortemente che questa sia la strada da percorrere come del resto è indicato nel libro. La presenza di un’alta personalità come il Vicepresidente del Csm David Ermini è un invito a tutti noi nel proseguire in questo impegno nel rispetto della legalità e della solidarietà”. Psichiatria. Speranza: “Stop in tre anni alla contenzione meccanica” di Andrea Capocci Il Manifesto, 26 giugno 2021 Al via la seconda Conferenza Nazionale sulla salute mentale. Al centro del dibattito il rilancio della sanità territoriale, ma nel Pnrr di disagio psichico non si parla. A vent’anni dalla prima edizione si è aperta ieri a Roma la seconda Conferenza nazionale sulla salute mentale, intitolata Per una salute mentale di comunità. Anche questo campo subisce le debolezze della sanità territoriale, che troppo spesso portano a prendersene cura troppo tardi e in luoghi inadatti. “Il disagio mentale nasce nei luoghi di vita e di lavoro delle persone, si cura nelle comunità in cui vivono le persone e con l’apporto delle comunità stesse” ha detto il ministro della salute Roberto Speranza in apertura della conferenza. “Coloro che in questi anni hanno sperimentato periodi di sofferenza mentale ma non sempre hanno trovato servizi adeguati ai loro bisogni, sono stati accolti in strutture a volte poco accessibili e non sempre hanno potuto contare su un vero e proprio progetto terapeutico riabilitativo”. Speranza ha ammesso le criticità dell’approccio italiano alla salute mentale, le “ampie disuguaglianze” e la “carenza di risorse professionali ed economiche”. La parola usata più spesso è “comunità”: la stessa delle quasi 1.300 “case della comunità”, asse portante della futura medicina di territorio secondo il Pnrr appena promosso dall’Ue. Ma di salute mentale, nel Pnrr, si parla poco o nulla. Lo aveva evidenziato più volte, nelle scorse settimane, lo stesso Coordinamento nazionale che ha preparato i lavori, che aveva formulato proposte operative e organizzative che avrebbero richiesto un budget di due miliardi di euro, meno dell’1% dell’intero Pnrr. Alla conferenza Speranza ha annunciato anche un’importante novità, riguardante il sistema della “contenzione fisica” che porta ancora molti pazienti psichiatrici a essere legati ai letti per ore e talvolta giorni. “Nei giorni scorsi - ha detto il ministro - il gabinetto del ministero ha inoltrato alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome, la bozza di documento e lo schema di Accordo per il Superamento della contenzione meccanica nei luoghi di cura della salute mentale”. Una decisione che non può essere rimandata, ha detto il ministro, dopo la bocciatura della pratica coercitiva da parte della Consulta nazionale di bioetica e del Consiglio delle Nazioni Unite sui Diritti Umani. “Riconosciamo l’obiettivo di promuoverne il suo definitivo superamento in tutti i luoghi della salute mentale, entro il triennio 2021-23”, ha detto Speranza. Secondo la legge “Basaglia” del 1978, la pratica avrebbe dovuto essere “ridotta ai casi assolutamente eccezionali”. Secondo alcune stime, vi ricorrono molte strutture psichiatriche e soprattutto geriatriche, dove un terzo degli ospiti viene legato. È invece “un evento sempre più raro, breve, volto esclusivamente al recupero del dialogo e della dignità del paziente” secondo Claudio Mencacci, co-presidente della Società Italiana di Neuro-Psico-Farmacologia. La dignità, spiega, “si favorisce non solo eliminando le contenzioni, ma anche offrendo le condizioni per eliminarle, ovvero luoghi di accoglienza e di cura all’altezza”. Speranza ha reso merito alla campagna “… e tu slegalo subito”, promossa dalla psichiatra Giovanna Del Giudice, che già negli anni 70 collaborava con stesso Basaglia all’ospedale di Trieste. È lei che ha coordinato il documento ora sul tavolo delle regioni. “Su 320 servizi ospedalieri di salute mentale, in Italia ci sono 20 reparti che non “legano”, spiega Del Giudice. “Coprono una popolazione di 5 milioni di abitanti, e intere regioni come il Friuli-Venezia Giulia. Indicano una strada, dimostrano che della contenzione si può fare a meno”. La psichiatra torna sull’importanza della comunità. “Occorre una rete di servizi di salute mentale di prossimità a cui il malato si possa rivolgere rapidamente, all’inizio della crisi. E va superato il paradigma della pericolosità del malato mentale: non solo nei reparti in cui avviene la contenzione, il buco nero in cui finiscono i malati che non hanno trovato aiuto, ma nell’intero servizio a monte del ricovero”. La Conferenza ha visto anche assenze di peso, come quella della Società Italiana di Psichiatria che ha scelto di non esserci. Il suo presidente Massimo di Giannantonio ha parlato di gravi esclusioni e di scarsa apertura sul programma: “Non condivido la scelta di impedire la partecipazione del Coordinamento nazionale dei Direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale, né la decisione di non coinvolgere il mondo della ricerca e il ministero dell’Università e della Ricerca, principale garante e promotore dei percorsi formativi dei professionisti della salute mentale” ha protestato di Giannantonio. I pazienti “psichiatrici” e la loro cura di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 26 giugno 2021 Chi sono i pazienti “psichiatrici”, gli “schizofrenici” e i “bipolari”, portatori di un turbamento psichico destrutturante? La loro definizione dominante privilegia il fatto che non sono dentro il sistema sociale: né in termini di adesione, né in termini di contestazione. Sono percepiti come avulsi dall’interpretazione logica della vita, come mine vaganti. È vero che tendono a costruire una rappresentazione persecutoria della realtà, vivono in un mondo che si è presentato fin dall’inizio estraniante. Percepirlo ostile dà significato alla violenza dell’estraniazione subita. La parte più difensiva e normativa di noi, teme la violenza che li ha azzannati (e di cui essa è parte). Vede nell’aporia che essi incarnano una minaccia da tenere a bada e proietta in loro la propria ostilità contro ciò che sfugge al suo controllo. La cura diventa assistenza che li deve addomesticare, neutralizzarli o contenerli con la forza (“a fin di bene”) se non sono compiacenti. In realtà i “folli”, recintati senza via d’uscita in diagnosi psichiatriche sempre più codificate e sempre più alienanti (l’evanescenza della denominazione ossessiva diventata canone dell’esistenza), sono alla ricerca disperata di una rappresentazione logica della realtà, che possa colmare il vuoto di senso che minaccia la loro vita. Cercano di appropriarsi di ciò a cui si sentono più estranei, ma che appare loro il segreto inarrivabile dello stare in modo. Cadono in una trappola perché la logica separata dalla soggettività tende a diventare omogenea all’oggettività e l’oggettività pura è alienazione, autodistruzione della ragione. Si ribellano alla trama impersonale che li ingabbia, accettando la lacerazione della loro soggettività, a cui la ribellione li espone, perché così si sentono vivi. Il delirio è espressione del conflitto tra l’alienazione e la soggettivazione della loro esperienza. Nel punto in cui sembra avvicinarsi all’interpretazione, ne fugge, al tempo stesso, via. L’unico modo autentico di relazionarsi con la follia, senza ingabbiarla negli schemi assistenziali della psichiatria correttiva, è partire dalla sofferenza che, nonostante l’angoscia a volte devastante che l’accompagna, è soprattutto domanda di relazione, di vita. L’angoscia diventa spesso invasiva, destrutturante e l’uso accorto di farmaci può contenerla, alleviarla, renderla elaborabile. I farmaci non cancellano il delirio, ma attutendo l’angoscia lo rendono meno incandescente, più sintonico con la spontanea tendenza alla vita che viene dalla soggettività tormentata. Usare i farmaci in modo indiscriminato, massiccio, aggredendo insieme all’angoscia l’esperienza soggettiva, vivente nella maniera apparentemente bizzarra di relazione con il mondo, che è creduta un sintomo, induce catatonia affettiva. Le radici della sofferenza individuale sono nella relazione tra patrimonio genetico e ambiente affettivo, culturale e sociale. Il disagio del singolo è l’estrinsecazione nei soggetti più vulnerabili di un disagio collettivo. La psicoanalisi mette a fuoco l’ambiente affettivo dell’infanzia, perché è in questo spazio che l’esperienza gravemente ferita si è configurata in modo personale, umano. Del dolore nessuno possiede la chiave di “guarigione”. Se i soggetti “psichiatrici” guariscono ciò accade spontaneamente (Winnicott). La cura è un prendere cura della relazione che include una accurata ricerca epidemiologica, il supporto farmacologico e la ricerca transdisciplinare sulle correlazioni tra la soggettività e il suo substrato genetico/neurofisiologico. Il suo fondamento è l’umanizzazione della sofferenza: il lavoro di elaborazione che dà spazio e riconoscimento alla creatività soggettiva a cui danno accesso la cura psicoanalitica, la cura delle relazioni familiari, le esperienze di gruppo, il lavoro di integrazione socio-culturale nella comunità, l’espressione artistica dei vissuti. Un impegno importante di passioni e energie. Ddl Zan, sfida sul filo al Senato. Letta: “Subito in aula” di Giovanna Casadio La Repubblica, 26 giugno 2021 Sulla carta la maggioranza è di 168 voti a favore e 151 contrari. Italia Viva cerca un confronto con le destre. Berlusconi: “Non è una priorità”. Salvini si intesta la bandiera della trattativa sul ddl Zan. Ma nel Pd nessuno ci crede. Il leader leghista va per le spicce: “Se togliamo l’ideologia in una settimana si chiude tutto”, e dice che nell’sms inviato al segretario dem Enrico Letta propone anche di disincagliare la legge contro l’omofobia dalle secche. A patto ovviamente che si tolga la questione del gender, che non piace alla Chiesa. Letta declina e indica la strada maestra: “Io non ho mai rifiutato il confronto e non lo rifiuterò nemmeno questa volta. Ma la Lega non ha voglia di modificare e di migliorare il testo, vuole affossarlo. La cosa migliore è andare in aula e ognuno si assumerà la sua responsabilità”. La trattativa non decolla. E d’altra parte, a destra non tira buona aria per la legge contro l’omofobia. Silvio Berlusconi liquida la questione: “Il governo deve realizzare grandi riforme, non il ddl Zan”. Comunque la prova del nove del confronto sarà il tavolo dei capigruppo del Senato di mercoledì prossimo. Lo ha convocato Andrea Ostellari, il presidente leghista della commissione Giustizia, dove il ddl Zan si è impantanato tra ostruzionismo e audizioni infinite. Tutti i partiti hanno accettato l’invito. I giallo-rossi però chiariscono: andiamo a vedere le carte. E per evitare che sia solo melina, pongono una condizione: che sia confermato l’esame in aula della legge contro l’omofobia per il 13 luglio. Insistono sia la grillina Alessandra Maiorino che la dem Monica Cirinnà. Insomma non basta l’acqua sul fuoco gettata l’altro ieri dal segretario di Stato della Santa Sede, Pietro Parolin. Parolin ha invitato al dialogo, garantendo che il Vaticano non ha mai voluto bloccare la legge contro l’omofobia con quella nota diplomatica che si è abbattuta come una scure sulla laicità dello Stato italiano e sul suo Parlamento. Ma modifiche sono possibili? La Chiesa invoca in particolare la riscrittura dell’articolo 1 del ddl Zan in cui si parla di “identità di genere” e quindi della fluidità del passaggio da un sesso all’altro; dell’articolo 4 che affronta il tema della libertà d’espressione; dell’articolo 7 ovvero dell’istituzione di una giornata contro l’omotransfobia e delle iniziative di sensibilizzazione nelle scuole di ogni ordine e grado. Questo punto soprattutto metterebbe in discussione uno dei pilastri del Concordato, la libertà delle scuole cattoliche paritarie. I giallo-rossi fiutano la trappola della destra. E per chiarire che i sospetti sono fondati, il vice capogruppo dem a Palazzo Madama, Franco Mirabelli cita le parole del governatore del Friuli Venezia Giulia, il leghista Fedriga, secondo il quale il ddl non va corretto, ma rifatto. “Ringraziamo Fedriga per la semplicità e l’onestà con cui ha chiarito cosa vuole la Lega”, reagisce Mirabelli. Molto conta il pallottoliere di Palazzo Madama. Qui la differenza la fanno i renziani e la pattuglia dei dissidenti e ribelli trasversale ai gruppi. Italia Viva ha fatto sapere con Davide Faraone di puntare a un dialogo con le destre. Ma Ivan Scalfarotto, che nella scorsa legislatura presentò il ddl contro l’omofobia poi naufragato, ragiona: “Se i leghisti sono a favore delle leggi omofobe di Orban, come è pensabile una mediazione? La strada dell’aula è la scelta obbligata”. I 17 senatori di Iv, messi davanti a un “prendere o lasciare”, si orienteranno verso il ddl Zan (già dai renziani votato alla Camera)? I Dem scommettono di sì. Inoltre escludono defezioni nel gruppo del Pd, nonostante dubbi ci siano. Sulla carta quindi la maggioranza è di 168 voti a favore del ddl Zan e 151 sono i contrari. Una ventina di voti tuttavia potrebbero fare la differenza nello scrutinio segreto. In Forza Italia c’è una pattuglia liberal che potrebbe staccarsi. L’Europa dei diritti dimentica i migranti di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 26 giugno 2021 Contro la discriminazione delle persone Lgbtqi+ l’Unione ritrova la sua anima. Ma sull’accoglienza è la linea Orbán ad avere la meglio. La discussione di fondo sui “valori fondamentali” dell’Unione europea a proposito della legge ungherese, che rappresenta una “minaccia contro i diritti fondamentali, in particolare il principio di non-discriminazione a causa dell’orientamento sessuale”, come è scritto nella lettera firmata da 17 capi di stato e di governo (18 se si tiene conto della “favorevole neutralità” del Portogallo, che ha la presidenza del Consiglio Ue), “non è mai stata così profonda e onesta, almeno per quanto mi ricordi” ha commentato Angela Merkel, al suo ultimo vertice dei capi di stato e di governo e veterana dei summit. In primo piano, anche gli altri due primi ministri da più tempo in carica tra i 27: su fronti opposti, l’ungherese Viktor Orbán e l’olandese Mark Rutte, che ha invitato l’Ungheria a uscire dalla Ue se non è d’accordo con i suoi fondamenti. La spaccatura è tra l’ovest e il nord da un lato (tra i 17 ci sono tutti i paesi della “vecchia Europa” e dall’est hanno aderito solo Estonia e Lettonia) e la cosiddetta “nuova Europa” dall’altro. “Non è un problema Viktor Orbán - ha commentato Emmanuel Macron - ma il crescente anti-liberalismo di società che oggi sono attratte da modelli politici contrari ai nostri valori”: succede in Ungheria, in Polonia, ma anche altrove, “come arrivano a questo alcuni popoli?”. Per Macron siamo di fronte a “una forma di deriva”, che va contrastata ridando “contenuto, prospettiva, senso” alle forze democratiche. La Commissione, con una lettera inviata a Orbán dai commissari Didier Reynders (Giustizia) e Thierry Breton (Mercato interno), attende una risposta entro fine mese per poi, eventualmente, agire contro Budapest. Contro l’Ungheria è già stato utilizzato l’articolo 7, per il non rispetto dello stato di diritto (come contro la Polonia), c’è stato il riferimento alla “condizionalità” dei versamenti del Recovery Plan: ma entrambe queste iniziative sono di fatto spuntate, la prima per i tempi lunghi della procedura, che prevede alla fine un voto all’unanimità che non ci sarà (Polonia e Ungheria si tengono bordone), la seconda è stata annacquata e congelata in attesa del risultato del ricorso di Budapest e Varsavia alla Corte di Giustizia, che non prevede una sentenza prima di due anni. Le ultime minacce rischiano di fare la stessa fine (molti paesi, anche la Francia, non sono d’accordo nel “punire” finanziariamente l’Ungheria). La reazione della Ue, questa volta è stata importante e onesta, come dice Merkel. Segna anche l’esistenza di un’opinione pubblica europea, in un’Unione accusata di essere un non-stato senz’anima. Ma non è il primo scarto guidato da Orbán. Nel 2015, al momento della “crisi dei migranti” a causa della guerra in Siria, l’Ungheria era stata alla punta del rifiuto della solidarietà dell’accoglienza. Anche allora erano stati evocati i “valori”, ma senza grande forza. L’accoglienza della Germania, in quell’occasione, aveva salvato l’anima della Ue. Ma, con il passare del tempo, è purtroppo la “linea Orbán” che ha avuto la meglio. Al Consiglio europeo, ai paesi del sud (Italia, Grecia, Spagna) che chiedono di non essere lasciati soli, non solo l’est ha di nuovo alzato il muro del rifiuto di condividere il “fardello”. Anche i grandi paesi che sono già in campagna elettorale - Germania e Francia - hanno optato per la soluzione del denaro e del rafforzamento delle “difese”, nel bilancio Ue 2021-2027 ci sono 18 miliardi destinati al controllo delle frontiere esterne e al contenimento dell’immigrazione non voluta. La Commissione propone dei “canali legali” di entrata, ma la questione è a un punto morto. il patto globale per la migrazione, proposto dalla Commissione nel settembre 2020 resta nei cassetti, a parte l’accordo sull’Agenzia per l’asilo. Nessuno solleva il rispetto dei “valori”, quando l’International Rescue Committee parla di condizioni “orribili” di detenzione dei migranti in Libia o quando vengono rivelati i numeri dei morti nel Mediterraneo (più di 500 dall’inizio dell’anno). L’Europa fortezza si barrica dietro Frontex e ignora le inchieste che denunciano le pratiche dei respingimenti. La Ue punta a risolvere i problemi con i soldi, altri 3,5 miliardi alla Turchia con il rinnovo dell’accordo del 2016, perché si tenga gli esuli siriani, finanziamenti anche per Giordania e Libano, “formazione” per i guardiacoste libici. Ai paesi d’origine, reticenti a riprendersi i loro cittadini arrivati illegalmente nella Ue, per esempio la Tunisia, gli aiuti finanziari sono correlati a minacce sui visti, che saranno limitati se non accettano i ritorni forzati. In Danimarca, il governo a guida social-democratica, propone di “esternalizzare” verso paesi africani - nella lista ci sono Ruanda e Egitto - i richiedenti asilo e l’analisi delle richieste, per evitare arrivi precipitati sul territorio poi difficile da gestire. La Grecia costruisce muri. Immigrati, la Ue con la testa nella sabbia di Franco Venturini Corriere della Sera, 26 giugno 2021 Dopo anni di silenzio si è tornati a discutere di immigrazione, e questo è stato un successo italiano. Ma senza affrontare i veri nodi. Nel 2016, quando su richiesta tedesca la Ue approvò un ben pagato accordo con Erdogan per trattenere in territorio turco l’ondata dei rifugiati siriani, qualcuno parlò di scandalo e di immoralità politica. Ma il vero scandalo è oggi. Non perché al vertice europeo appena concluso l’accordo con Erdogan sia stato rinnovato (tre miliardi di euro fino al 2024), ma piuttosto perché gli sforzi di Mario Draghi non sono bastati a far diventare quello dei migranti un vero tema europeo, e le azioni future, o le sperabili solidarietà tra Paesi riceventi, restano affidate alla volontà dei governi senza ombra di oneri o di regole comuni. Il che, tradotto, significa che i Paesi di prima linea come l’Italia ma anche altri (si pensi alla Grecia) dovranno in linea di massima cavarsela da soli, salvo stimolare gesti “generosi” da parte di Paesi disposti ad attuare un più che parziale ricollocamento. E non si tratterà di gesti troppo solidali, perché tanto la Germania quanto la Francia saranno in campagna elettorale nei prossimi mesi. Certo, i Capi della Ue hanno affrontato l’argomento dopo anni di silenzio, e questo è stato un successo italiano. Ma discutere una riforma del protocollo di Dublino (il migrante resta dove arriva, cioè molto spesso da noi) è parsa una bestemmia, tutti sapevano che la questione sta mettendo a dura prova i decisori svedesi e danesi, tutti erano consapevoli che all’Est dei “nostri” migranti non vogliono sentir parlare, a tutti era chiaro che i palliativi tante volte indicati (accordi con i Paesi di origine, rafforzamento della vigilanza ai confini, lotta a tratta e contrabbando, preparazione di rapporti) sono appunto palliativi. Per fortuna aiuti specifici sono stati previsti per Libano e Giordania. E per la Libia si incrociano le dita, in attesa che molti afghani fuggano dal loro Paese abbandonato dalle armate occidentali. L’Europa infila la testa nella sabbia. Questo sì è uno scandalo. Droghe, i danni della pena di Marco Perduca e Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 26 giugno 2021 World Drug Report. Criminalizzare il consumo (che continua ad aumentare) è più dannoso delle sostanze. La metà dei detenuti per droga è “tossicodipendente”. In un Libro bianco la richiesta di una riforma. La giornata internazionale contro il narcotraffico viene celebrata dalle Nazioni unite con il World Drug Report. Per lanciare il documento la Direttrice dell’Unodc Ghada Waly ha sottolineato come “la pandemia ci abbia mostrato il ruolo vitale di informazioni scientifiche affidabili e il potere della comunità nell’influenzare le scelte sanitarie. Dobbiamo urgentemente sfruttare questo potenziale per affrontare il problema mondiale della droga”. Come a dire che finora né la scienza né la “comunità” avevano accompagnato le politiche globali in merito. Lo slogan per pubblicizzare il Rapporto è “Tutto quello che devi fare è #ShareFactsOnDrugs (condividere fatti sulle droghe) per #SaveLives (salvare vite)”. A parte questi inciampi nella comunicazione c’è il problema dei numeri. Secondo i dati del 2019, negli ultimi 12 mesi, 275 milioni di persone (5,5% del totale), ha fatto uso di droghe: 6 milioni in più dell’anno prima con un aumento del 58% dal 1998 e un ritmo più che doppio rispetto alla popolazione mondiale. 36 milioni di queste (13% del totale) ha sviluppato un uso problematico. Oltre 11 milioni si iniettano, di queste una metà convive con l’epatite C. Circa 200 milioni (4% del totale) hanno usato cannabis, un consumo aumentato di quasi il 18% negli ultimi 10 anni. Le stime parlano di 20 milioni di persone (0,4% del totale) che usano cocaina. Infine, anche qualche “buona notizia”: gli oppioidi farmaceutici (metadone e buprenorfina) usati per trattare le persone con disturbi da uso di oppiacei sono diventati più accessibili negli ultimi 20 anni. La quantità disponibile per fini medici è aumentata 6 volte, da 557 milioni di dosi giornaliere a 3.317 milioni indicando che “il trattamento farmacologico basato sulla scienza è più disponibile che in passato”. Ma anche qui si gioca un po’ (troppo) coi numeri. All’Onu, come in Italia, non ci si pone il problema di come utilizzare questi dati. Se neanche durante una paralisi mondiale durata mesi abbiamo registrato un contenimento del consumo di sostanze illecite, anzi notato un aumento in particolare per cannabis e sedativi, logica vorrebbe che ci si soffermasse sul perché certe abitudini siano dure a diminuire. Il rapporto con le sostanze “sotto controllo internazionale” è una caratteristica culturale globale. La cannabis si trova dappertutto indipendentemente dalle pene previste per il suo consumo. Non potendo limitarne l’accesso, l’Unodc denuncia l’aumento della percentuale di THC e il crollo della percezione del rischio negli adolescenti: -40% negli Usa e -25% in Europa in 25 anni, senza però ricordare l’Uruguay, dove in virtù della legalizzazione è aumentata la percezione del rischio e l’età media di primo consumo. In attesa della relazione governativa i dati del Libro Bianco sulle droghe - promosso dalla Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca, Associazione Luca Coscioni, Arci, Lila e Legacoopsociali - ci aiutano a comprendere meglio un fenomeno la cui criminalizzazione finisce per fare più danni delle sostanze stesse. Il 30% degli ingressi in carcere è dovuto al solo articolo 73 del Testo Unico sulle droghe e il 40% è qualificato come “tossicodipendente”. Il 35% dei detenuti resta in carcere per droghe. Si tratta di una percentuale quasi doppia rispetto a quella europea (18%) e mondiale (20%). Nonostante la propaganda di Salvini e Meloni, non è vero che gli spacciatori non finiscono in galera. È vero semmai il contrario, ci entrano praticamente solo loro, tant’è vero che 7 processi su 10 per droghe finiscono con una condanna, mentre solo 1 su 10 per reati contro il patrimonio o la persona. Questo in un paese con 235.174 processi per droghe che alimentano una catena repressiva efficientissima dalla perquisizione al carcere. Un dato positivo ci viene però dalla relazione della Direzione Centrale dei Servizi Antidroga: dopo 3 anni di aumento costante, le morti per overdose nel 2020 sono diminuite da 377 a 308. A conferma di quanto illustrato nel Libro Bianco dell’anno scorso rispetto alle capacità di autoregolazione dei consumatori italiani durante il lockdown. Malgrado il proibizionismo le persone hanno imparato a convivere con certe abitudini regolando i propri consumi e, in parte, anche i rischi e i danni che queste possono creare. Il Rapporto Mondiale sulle Droghe, come la Relazione al Parlamento, non dovrebbero essere considerati un mero adempimento burocratico bensì essere punti di partenza - insieme a ricerche accademiche e della Società Civile - per una valutazione e revisione più ampia di leggi e politiche sulle droghe. La Ministra delle politiche giovanili con delega sulle droghe Fabiana Dadone ha annunciato che convocherà la Conferenza nazionale sulle droghe, il luogo deputato a valutare l’impatto del Testo Unico e aggiornare, adeguare e aggiustare quel che non funziona. Non c’è che l’imbarazzo della scelta, a partire dal metodo con cui è iniziato il processo preparatorio. Droghe e carcere. Rapporto Emcdda aduc.it, 26 giugno 2021 Le conoscenze attuali e le sfide future sulla droga e sul carcere in Europa sono oggetto di un nuovo studio dell’Agenzia dell’UE per la droga (Oedt/Emcdda). Pubblicato alla vigilia della Giornata internazionale contro l’abuso e il traffico illegale di droga (26 giugno), il rapporto, “Prigione e droga in Europa: sfide attuali e future”, esamina una gamma di questioni in ambito carcerario, compreso l’uso di droghe e i danni, risposte sanitarie e sociali e offerta di farmaci. E mentre in diversi Paesi europei i servizi in carcere per le persone con problemi di droga sono aumentati, i trattamenti e assistenze disponibili sono limitati e devono essere ampliati. Ogni giorno, in Europa ci sono più di 856 000 persone in carcere. Questa persone è molto probabile che abbiano fatto uso di droghe, regolarmente o di avere problemi legati alla droga. Hanno anche tassi più elevati di infezione da HIV, virus dell’epatite B (HBV), dell’epatite C (HCV) e tubercolosi. Per coloro che si iniettano oppioidi, il rischio di morire per overdose aumenta notevolmente nel periodo iniziale dopo la detenzione. Dato che le persone in carcere provengono dalla comunità e alla fine vi ritornano, è probabile che gli interventi realizzati in questo contesto abbiano un impatto significativo sulla salute pubblica complessiva. Il direttore dell’Emcdda, Alexis Goosdeel: “È fondamentale avere una buona comprensione dei modelli e della prevalenza del consumo di droga tra la popolazione carceraria e identificare il tipo di risposte disponibili e che funzionano meglio. Spesso è in carcere che le persone che fanno uso di droghe accedono per la prima volta ai servizi sanitari e sociali. Questo rapporto mette in evidenza alcune delle sfide, ma anche le opportunità, che emergono in questo contesto per intervenire e fornire supporto per ridurre i danni correlati alla droga. Descrive inoltre come gli strumenti dell’Emcdda stiano aiutando a rafforzare il monitoraggio, scambiare le migliori pratiche e informare i Paesi nelle loro decisioni politiche e pianificazione dei servizi in merito”. L’importanza del contesto carcerario per affrontare i problemi della droga è sottolineata nella nuova strategia dell’UE in materia di droga 2021-2025, che ha come priorità strategica di rispondere alle esigenze sanitarie e sociali delle persone che fanno uso di droga in carcere e dopo la detenzione. L’Emcdda ha sviluppato un quadro metodologico per monitorare la droga in questo contesto, compresi strumenti come il questionario europeo sul consumo di droga tra le persone in carcere (EQDP). Basato su dati provenienti da 30 Paesi, il rapporto odierno presenta gli ultimi sviluppi nel campo della droga e del carcere, identificando le lacune nelle conoscenze e le implicazioni per la politica, la pratica e la ricerca. Risultati chiave - Le persone che fanno uso di droghe sono sovrarappresentate in carcere e la prevalenza di problemi legati alla droga in questa popolazione è sostanzialmente più alta che nella popolazione generale. Le donne in carcere sono particolarmente vulnerabili e a rischio di consumo problematico di droga. Sebbene molte persone smettano di usare droghe quando entrano in prigione, alcune continuano o iniziano a fare uso di droghe in questo contesto. Il consumo di droga all’interno del carcere è indicato da tutti gli 11 Paesi che riportano dati su questo argomento. L’uso di nuove sostanze psicoattive (NPS) in carcere ha rappresentato una sfida crescente negli ultimi anni, in particolare l’uso di cannabinoidi sintetici. Le nuove tecnologie sono sempre più utilizzate per fornire droga alle carceri (ad es. consegne tramite drone), ma vengono anche impiegate per limitare l’offerta (ad es. nuova tecnologia di scansione per esaminare il contenuto della posta). Le persone in carcere hanno una salute fisica e mentale e un benessere sociale più scarsi rispetto ai loro coetanei nella comunità e un’aspettativa di vita inferiore. Mentre le condizioni carcerarie possono influire negativamente sulla salute già compromessa delle persone che fanno uso di droghe, queste sono anche strutture che possono fornire servizi sanitari a coloro che prima erano difficili da raggiungere. La terapia sostitutiva con oppiacei (OST) è disponibile in carcere in 29 dei 30 Paesi ma, nella maggior parte di questi, la copertura è bassa. L’accesso ai test e alle cure per le malattie infettive è disponibile nella maggior parte dei Paesi, sebbene la copertura debba essere ampliata. In alcuni Paesi sono disponibili altri interventi di riduzione del danno (ad es. programmi con aghi e siringhe, naloxone da portare a casa al momento della scarcerazione). In molti Paesi europei sono state attuate alternative alle sanzioni coercitive. Deviare i delinquenti con un consumo problematico di droga verso la riabilitazione può avere una serie di effetti positivi (ad esempio, evitare gli effetti dannosi della detenzione e contribuire a ridurre i costi del sistema carcerario). Fornire equità e continuità delle cure, mentre le persone si spostano tra il carcere e la comunità, è la chiave per ottenere risultati terapeutici sostenibili ed efficaci; eppure questo non si ottiene nella maggior parte dei Paesi. È necessario intensificare gli interventi relativi alla droga nelle carceri, interventi che si sono dimostrati efficaci in altri contesti. Mentre la base di prove sta gradualmente aumentando, è necessaria una maggiore comparabilità dei dati tra i Paesi e ulteriori studi sui risultati degli interventi mirati alla riduzione della domanda e dell’offerta in carcere. Droghe. “Mi facevo per non pensare. Un giorno non mi sono più riconosciuta” redattoresociale.it, 26 giugno 2021 Annalisa, Luca e Masa sono tre ex consumatori di cocaina, usciti dal tunnel grazie ai gruppi della comunità La Rupe di Open Group di Bologna. Lanzarini (Policlinico): “In pronto soccorso arrivano 40enni che assumono sostanze per stordimento e sedazione”. “La prima volta che ho fatto uso di cocaina avevo 19 anni, ero in albergo. Avrei voluto che mio figlio più grande, che adesso ha 6 anni, non avesse mai conosciuto la versione tossica di me. Purtroppo, all’inizio la sostanza ti prende e ti piace, sennò non ci sarebbe tanta gente che ne fa uso. Mi sentivo importante, avevo accesso a un sacco di ragazze e locali, perché poi mi sono anche messo a venderla. Negli ultimi 3-4 anni, invece, posso descrivere l’utilizzo come un incubo vero e proprio. Quando ne facevo uso volevo stare solo, mi rinchiudevo nelle mie paranoie che, appena finiva la sostanza, aumentavano e mi spingevano a cercarne altra. Avevo già una famiglia e i problemi, anziché diminuire, aumentavano”. Luca è stato uno dei protagonisti del webinar “Oltre lo specchio. La cocaina tra mito e realtà”, organizzato dalla cooperativa Open Group. Oltre a Luca, c’erano anche le voci di Annalisa e Masa (nome di fantasia su richiesta dell’interessato): tre storie diverse che mostrano gli effetti che la cocaina può avere sulla vita delle persone. Persone che hanno preso coscienza del problema e deciso di affrontare un percorso terapeutico, prima rivolgendosi ai servizi dell’Ausl di Bologna, poi al gruppo Time Out della comunità La Rupe di Open Group, comunità d’accoglienza che si occupa delle persone con problemi di dipendenza. “La prima volta che l’ho provata ero terrorizzata, ma mi sono lasciata convincere - racconta Annalisa -. Perché l’ho fatto? Non lo so. Dopo 22 anni di lavoro dipendente ho fatto una scelta imprenditoriale. Ero già in una fase depressiva che non avevo riconosciuto. Poi ho comprato una libreria, ho avuto un problema familiare, e sono crollata. Mi sono rifugiata dentro una cosa che mi aiutava a non pensare. Quando mi facevo non pensavo, riuscivo a sopportare un peso che, da sola, non avrei potuto sopportare. Ma più ne fai uso, peggio è. Perché sì, non pensi più, ma non capisci nemmeno più nulla. Così, dopo 4 anni di utilizzo compulsivo non ti riconosci più. E il non riconoscersi diventa un problema non solo tuo, ma anche della tua famiglia, delle tue relazioni”. La storia di Masa è ancora diversa. “Ho iniziato a usare sostanze molto presto, sui 12-13 anni. Sono entrato nel mondo del crack, una delle estremità più pericolose della cocaina. Dopo meno di un anno ero dipendente da quasi 10 grammi al giorno e stavo malissimo. Un giorno, al Pronto soccorso mi hanno ricoverato d’urgenza, mi hanno fatto una coronarografia e hanno scoperto che avevo avuto un infarto. Non sono morto, ma ci sono andato molto vicino. Ero molto arrabbiato: non tanto per quello che avevo fatto, ma perché l’infarto mi stava dicendo che non avrei più potuto andare avanti drogandomi”. Nel 2019 sono stati 77 gli accessi per cocaina al Pronto Soccorso del Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna. Età media, 30 anni. Nel 2020 sono stati 54, età media 33 anni. Nel primo semestre del 2021 se ne sono già contati 31, età media 39 anni. “Si tratta di quella generazione di adulti che ha perso le redini della propria vita - ha spiegato, durante il webinar, Chiara Lanzarini, medico del Policlinico -. Quarantenni che fanno uso di droga non più in un contesto di socializzazione, ma in una sorta di ‘abbuffata’ di disperazione con abuso di sostanze”. Quanto alla percentuale di ricoveri, nel 2019 è stata del 3,8 per cento; nel 2020 del 17 per cento e nel 2021 del 16 per cento. “Arrivano pazienti più gravi, spesso non consumatori occasionali, ma consumatori problematici che in un contesto di disagio psichico, fisico, sociale, fanno assunzione più che altro a scopo di sedazione e stordimento. Gli accessi al Pronto soccorso non avvengono di notte o nel weekend, ma la mattina o nel primo pomeriggio: sono persone che assumono sostanze nelle ore diurne per cercare in qualche modo di arrivare a sera e superare il proprio disagio”. Luca è entrato nel gruppo di Time Out a settembre: “Credo sia una delle esperienze più utili mai fatte. Posso confrontarmi con i miei pari, persone che, quando parlo, mi capiscono perché hanno passato quello che ho passato io. Mi sento a mio agio: ci si confronta, ci si aiuta. La forza del gruppo diventa la tua. Quando vedo gli altri prolungare la loro astinenza, sto bene e cerco anche io di fare del mio meglio”. “Il mio percorso terapeutico è iniziato con grande titubanza - racconta Annalisa. Sì, all’inizio andavo al SerT, ma poi ricominciavo a farmi. Ho raccontato un sacco di bugie. Poi ho conosciuto Claudia e mi ha parlato di Time Out: il primo incontro ero agitata, nemmeno volevo andarci. Poi mi sono ricreduta: ho incontrato persone che mi capiscono perfettamente, mi sono sentita compresa e ho cominciato a raccontare tutto, con estrema sincerità. La terapia non serve solo a smettere di farsi, ma anche a capire perché si è arrivati sin lì. Io ho riscoperto la natura, ho adottato un cane. Da un anno sono rinata: devo ringraziare soprattutto il mio gruppo”. “Frequentavo le supervisioni con lo psichiatra - conclude Masa -, poi piano piano mi sono avvicinato a Time Out. Parlo molto al gruppo delle mie dipendenze, ma anche di sicurezza, scelta, libero arbitrio, possibilità. Ci vediamo una volta a settimana e, una volta al mese, un weekend. Sto vedendo grandi risultati: il mio equilibrio è in trasformazione. Uso ancora cannabis e alcol - quest’ultimo ho imparato a gestirlo in modo non compulsivo - ma mi sento in evoluzione. Alcune tappe le ho raggiunte, altre vanno consolidate, ad altre ancora devo arrivare. La cocaina? Con lei ho chiuso”. Egitto. Il tribunale di Al-Sisi? “Creato per reprimere” di Alessandra Fabbretti agenziadire.com, 26 giugno 2021 La denuncia dell’attivista Sayed Nasr, esponente di EgyptWide. Sabato a Bologna la conferenza “L’Egitto 10 anni dopo la rivoluzione”. “La condanna a quattro anni di carcere per il ricercatore egiziano Ahmed Samir Santawy era tristemente prevedibile: a memoria non ricordo un solo caso per la Corte suprema per la sicurezza dello Stato che non si sia concluso con una condanna. E le sentenze di questo tribunale non sono neanche appellabili: è stato istituito nel 2017 con decreto del presidente Abdel Fattah Al-Sisi proprio con lo scopo di prendere di mira attivisti e oppositori politici”. Così all’agenzia Dire Sayed Nasr, esponente di EgyptWide, una iniziativa nata in Italia da cittadini egiziani, italiani e italo-egiziani per monitorare la questione dei diritti umani in Egittoe in particolare i detenuti di coscienza. Tra questi, c’è anche il caso di Santawi, il ricercatore iscritto alla Central European University di Vienna arrestato al Cairo lo scorso febbraio e condannato per “pubblicazione di false notizie” per post su Facebook. Nel 2017, continua l’attivista, oltre a istituire la Corte suprema, “Al-Sisi ha fatto scattare anche lo Stato d’emergenza, che viene rinnovato regolarmente, un altro modo per mantenere il controllo sul dissenso” a partire dalla censura e dalla compressione di diritti e libertà fondamentali. Secondo Nasr, la vicenda di Ahmed Samir Santawi dimostra che il governo del Cairo cerca di imbavagliare non solo giornalisti, politici e attivisti ma anche studenti universitari, sia quelli “che studiano in Egitto che all’estero”. Una vicenda che ricorda il caso di Patrick Zaki, iscritto all’Università di Bologna e in carcere per “attentato alla stabilità dello Stato” dal febbraio del 2020. Proprio pensando a Zaki EgyptWide a marzo ha lanciato l’iniziativa “60mila Patrick”, per sensibilizzare sul problema dei detenuti di coscienza perché “quello che sta succedendo a Zaki è accaduto anche a Giulio Regeni, Rami Shaath e altre decine di migliaia di persone”. Quindici di queste storie sono state raccontate nel rapporto ‘Repression Mapped’ da cui secondo Nasr emergerebbe che “il regime applica modelli standard per reprimere i diritti”. Per discutere di questi temi, EgyptWide ha organizzato per oggi alle 17.30 presso il circolo Porta Pratello di Bologna la conferenza dal titolo “L’Egitto 10 anni dopo la rivoluzione”. “Vogliamo affrontare questi temi a partire dall’export italiano di armi con l’Egitto - dice Nasr - il cui volume è aumentato a un ritmo stabile nonostante le continue, drammatiche violazioni dei diritti umani e la mobilitazione di ampi settori della società civile attorno alla questione”. Di questo parlerà la professoressa Barbara Gallo, dell’Istituto di ricerche internazionali Archivio Disarmo (Iriad), che come spiega Nasr, “illustrerà l’esportazione di armi verso l’Egitto nonché l’operato dei movimenti di disarmo italiani nella denuncia di tale commercio”. Interverrà poi la senatrice Michaela Montevecchi sulle sue attività per fare da ponte tra società civile e istituzioni nel favorire la liberazione di Patrick Zaki; la ricercatrice e attivista Céline Lebrun, coordinatrice della Campagna internazionale Free Ramy Shaath, parlerà del caso di suo marito, in carcere da due anni. Infine illustrerà i casi di abuso dei diritti Kareem Taha, fondatore dell’ong con sede in Francia Egyptian Human Rights Forum. A moderare il panel sarà Laura Cappon, secondo Nasr “tra le voci più significative del giornalismo italiano nel seguire la situazione in Egitto durante e dopo la rivoluzione”. Iran. Tra i giovani che scappano dalla repressione di Gabriella Colarusso La Repubblica, 26 giugno 2021 Studenti, artisti, giovani imprenditori: dopo l’elezione del conservatore Raisi cresce la voglia di lasciare il Paese. Una fuga di cervelli che costa a Teheran 50 miliardi all’anno. “La paura è il primo livello. Poi vengono l’indignazione, la rabbia, la protesta. Ora siamo al livello 5: se qualcuno mi parla di politica dico: ok, next?”. Il giorno prima di compiere 30 anni Aniseh si è fatta un “regalo”, ha completato la procedura per chiedere il visto in Australia per “motivi di studio”. È laureata in economia, ha già fatto anche un master, lavora per una impresa online che verifica i marchi di fabbrica, ma ricominciare a studiare è la strada con più chance di riuscita per lasciare l’Iran. La incontriamo in un caffè di Teheran due giorni dopo il voto che ha portato alla presidenza Ebrahim Raisi, un religioso ultraconservatore di Mashhad che ha vinto in un’elezione “engineered”, dice lei, “ingegnerizzata” dalla Guida suprema e dal consiglio dei Guardiani “per fare in modo che non avesse sfidanti”. Avevamo fatto diversi tentativi di vederci, ogni volta era finita con lo stesso messaggio: “Scusa, ma meglio di no”: Aniseh non è un’attivista né fa parte dell’opposizione, ma come tutti a Teheran sa che incontrare giornalisti può essere un rischio. I reporter sono controllati, a quelli stranieri è consentito lavorare solo con agenzie che hanno il compito di limitare i contatti a quelli autorizzati dal governo. Quando la sera concede un margine di libertà, le conversazioni sono più schiette. “Mia sorella ha 4 anni più di me, lavora per una grande casa farmaceutica, ma anche lei ha chiesto un visto estero: non si fida, se anche faranno l’accordo con gli americani ha paura che finisca come con Trump. E con questo nuovo governo all’estero sarà più difficile negoziare”, racconta. Due anni fa aveva aperto un caffè con gli amici, c’erano un cortile interno per i dj set d librerie in condivisone. La pandemia li ha costretti a chiudere. La crisi economica scatenata dal ritorno delle sanzioni e dal malgoverno e corruzione ha piegato la classe creativa e tecnologica di Teheran. Le sanzioni rendono complicato fare ogni cosa, anche scaricare un software. La censura incombe su tutto. I vpn sono la porta di accesso al mondo, schermano la connessione e consentono di visitare siti e social filtrati, come Twitter, fino a quando il governo non decide di staccare la spina. È successo a novembre del 2019 quando sono scoppiate le proteste di piazza contro il carovita e il caro-carburante: per sei giorni l’Iran è rimasto isolato dalla Rete globale, la prima volta su una scala così ampia, i morti sono stati più di 300, secondo Amnesty International, e migliaia le persone arrestate. In quel momento Raisi era il capo della magistratura. “Penso che la situazione con lui peggiorerà. Sono conservatori e sanno di avere pochi voti. Non era ancora nemmeno stato eletto che già ci ammoniva a comportarci bene”, dice Aniseh. Bene vuol dire da hezbollahi, da veri “rivoluzionari”, nell’idea del nuovo presidente che si dice sia tra i candidati più quotati per succedere alla Guida suprema, Ali Khamenei. Recuperare i principi originari su cui si fonda la Repubblica islamica, la giustizia sociale e la rettitudine morale, è stato uno dei leitmotiv della sua campagna elettorale. L’Iran però oggi è un Paese diverso, “tra i più secolarizzati del Medio Oriente, con un alto tasso di alfabetizzazione e una società civile molto vivace”, riflette un funzionario europeo. “C’è una distanza sempre più marcata tra il sistema e il popolo”. A casa di Seyyed ci si arriva con 20 minuti di macchina a nord di Teheran. È un appartamento condiviso ma accogliente. La cena è persiana, la musica elettronica: Radiohead, poi Muse. “Io lavoro in teatro, la pandemia ha bloccato tutto. Siamo indietro di tre mesi con l’affitto. Molti amici sono partiti”, dice mentre trattiene il pianto. “Ma io faccio teatro classico, fuori dall’Iran non avrei lavoro. Si, è vero, la repressione pesa, mi piacerebbe uscire a farmi una birretta, ma il problema reale è il lavoro”. L’emigrazione è un tema politicamente sensibile in Iran. Il governo non dà numeri ufficiali, i dati che arrivano dall’estero sono raccolti grazie alle statistiche di immigrazione dei Paesi ospitanti. In uno studio pubblicato in primavera, i ricercatori del progetto “Iran 2040” dell’università di Stanford hanno stimato che nel 2020 nelle università estere si sono iscritti circa 130mila studenti di origine iraniana, la percentuale più alta degli ultimi anni. La fuga di cervelli costa all’Iran circa 50 miliardi di dollari all’anno, secondo le stime della Banca mondiale. Bahram Salavati, responsabile del centro per l’immigrazione dell’università Sharif di Teheran, contesta i numeri di Stanford. “Hanno commesso dei grossi errori nell’analisi, per esempio non considerando la differenza scientifica tra mobilità e immigrazione”, spiega. In base ai “nostri dati nel 2003 avevamo 17mila studenti all’estero, nel 2012 erano 50mila, nel 2019 il numero è rimasto quasi stabile, 56mila studenti all’estero nel 2020”. Eppure anche Salavati ammette che “oltre il 40% degli studenti desidera andarsene dall’Iran”, stessa percentuale tra medici, docenti universitari, startupper. Riuscirci è un’altra faccenda perché i visti sono rari e i costi per ottenerli molto alti. A Teheran ci sono diversi uffici di traduzione che servono per preparare i documenti da presentare alle ambasciate: gli appuntamenti vanno da due mesi in su, tante sono le richieste.