Carceri, quasi il 40% dei detenuti è tossicodipendente Quotidiano di Sicilia, 25 giugno 2021 Restano drammatici i dati sugli ingressi e le presenze di detenuti definiti “tossicodipendenti”: lo sono il 38,60% di coloro che entrano in carcere, mentre al 31 dicembre 2020 erano presenti nelle carceri italiane 14.148 detenuti “certificati”, il 26,5% del totale. Questa presenza, che resta ai livelli della Fini-Giovanardi (27,57% nel 2007), è alimentata dal continuo ingresso in carcere di persone “tossicodipendenti”, in aumento costante da oltre 5 anni. È uno dei dati de “Il Libro Bianco sulle droghe”, giunto alla dodicesima edizione, un rapporto indipendente sugli effetti e i danni del Testo Unico sulle droghe promosso da La Società della Ragione insieme a Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca, Associazione Luca Coscioni, ArcI, LILA e Legacoopsociali con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica Cgil, Gruppo Abele, Itardd e Itanpud. Ogni anno viene presentato in occasione del 26 giugno nell’ambito della campagna internazionale di mobilitazione Support! don’t Punish. Il rapporto, oltre a contenere i dati (2020) relativi agli effetti della war on drugs sul sistema penale e penitenziario italiano, presenta una serie di riflessioni sul sistema internazionale di controllo delle droghe, a 60 anni dalla firma della prima convenzione Unica sugli stupefacenti, e sulla Conferenza nazionale sulle tossicodipendenze mai convocata da 12 anni. Un detenuto su tre in carcere per reati connessi allo spaccio dire.it, 25 giugno 2021 Le droghe incidono anche sulle carceri. Nell’anno passato 10.852 dei 35.280 ingressi in carcere sono stati causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo unico. Si tratta del 30,8% degli ingressi in carcere. Seppur diminuiti in numeri assoluti, effetto evidente del lockdown, sono oramai lontani gli effetti della sentenza Torreggiani della Cedu e dell’adozione di politiche deflattive della popolazione detenuta. È quanto emerge dal Libro Bianco sulle droghe “War on Drugs. 60 anni di #epicfail” presentato alla Camera dei Deputati. Il Libro bianco sulle droghe - Insomma, sui 53.364 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2020 ben 12.143 lo erano a causa del solo art. 73 del Testo unico (sostanzialmente per detenzione di droga a fini di spaccio). Altri 5.616 in associazione con l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), solo 938 esclusivamente per l’art. 74. Il Libro Bianco sulle droghe, giunto alla dodicesima edizione, è un rapporto indipendente sugli effetti e i danni del Testo Unico sulle droghe. Il 26 giugno la Giornata mondiale sulle droghe - È promosso da La Società della Ragione insieme a Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca, Associazione Luca Coscioni, Arci, Lila e Legacoopsociali con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica Cgil, Gruppo Abele, Itardd e Itanpud. Ogni anno il Libro Bianco sulle droghe viene presentato in occasione del 26 giugno, Giornata mondiale sulle Droghe. Il rapporto contiene i dati (2020) relativi agli effetti della war on drugs sul sistema penale e penitenziario italiano. Dibattito sul modo di affrontare le droghe - Inoltre presenta un focus sul sistema delle convenzioni internazionali a 60 anni dalla Convenzione Unica del 1961. E un approfondimento sulla Conferenza nazionale sulle droghe che manca da 12 anni. Inoltre come ogni edizione contiene riflessioni e approfondimenti sul sistema dei servizi, sulla riduzione del danno e sulle prospettive di riforma delle politiche sulle droghe a livello nazionale ed internazionale. Nel volume si trovano quindi spunti e riflessioni rispetto alla riforma delle politiche sulle droghe in ambito nazionale ed internazionale. E approfondimenti specifici sul dibattito pubblico intorno alla docu-serie Sanpa, sull’uso medico delle sostanze psicoattive, sulla giurisprudenza e sul dibattito parlamentare sulla lieve entità dei reati sulle droghe sulla riforma dei servizi, in un’ottica di decriminalizzazione dell’uso delle sostanze e sulla convocazione della Conferenza Nazionale sulle dipendenze che manca da troppi anni. L’intervento del Ministro Cartabia sul tema del sovraffollamento carcerario dirittoegiustizia.it, 25 giugno 2021 Il Ministro Cartabia ha risposto al question time svoltosi l’altro ieri alla Camera rispondendo all’interrogazione parlamentare relativa al problema del sovraffollamento delle carceri. Rispondendo all’interrogazione parlamentare sul problema del sovraffollamento carcerario, il Ministro Cartabia ha sottolineato come il tema sia molto sentito dal Dicastero e sia già stato “affrontato anche altre volte in quanto indispensabile per assicurare condizioni di vita accettabili negli istituti penitenziari”. Il Ministro ha apprezzato il lavoro svolto dal mondo penitenziario, talvolta in condizioni difficili, ed ha voluto specificare che “il Dap (Dipartimento di amministrazione penitenziaria) ha già intrapreso un reclutamento di personale attraverso procedure concorsuali per porre rimedio alle ben conosciute scoperture di organico, oltre all’acquisto di altre dotazioni necessarie a partire da quelle tecniche”. Il Guardasigilli ha poi puntualizzato che “il sovraffollamento per la sua risoluzione richiede una pluralità di interventi a cominciare dal problema delle strutture detentive e degli immobili: nell’ambito delle pianificazioni del Recovery, molti sono gli interventi diretti a migliorare gli ambienti, sia per ampliare gli spazi disponibili, sia per realizzare ambienti dedicati al trattamento. Si tratta di un investimento per complessivi 132,9 milioni di euro per gli anni dal 2022 al 2026, da destinare alla costruzione e al miglioramento di 8 padiglioni e alla ristrutturazione di istituti penitenziari per adulti e minori”. Riguardo alla questione del trasferimento dei detenuti nel paese di provenienza “negli ultimi anni, il Ministero della Giustizia ha fortemente intensificato le negoziazioni in materia di cooperazione internazionale in materia penale, con significativa attenzione verso gli accordi bilaterali sul trasferimento delle persone condannate”. Sebastiano Ardita: “Il 41bis ha delle falle, servirebbe un’ulteriore stretta” di Clemente Pistilli La Notizia, 25 giugno 2021 Il consigliere del Csm ascoltato in Commissione Antimafia. “Allentare le misure sarebbe un errore”. Altro che tortura. Per evitare che le mafie continuino a stritolare il Paese, il 41bis avrebbe bisogno di un’ulteriore stretta e così l’intero circuito dell’alta sicurezza. Vi sono ancora delle falle e sono un pericolo per l’Italia e un inaccettabile regalo ai boss. A sostenerlo, davanti alla Commissione parlamentare antimafia, è stato un magistrato che ha una lunga esperienza in materia, l’ex direttore dell’ufficio detenuti del Dap e attuale componente del Csm, Sebastiano Ardita. L’ex direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria è stato audito dal Comitato XXI sul regime carcerario del 41bis dell’ordinamento penitenziario e sulle modalità di esecuzione della pena intramuraria in alta sicurezza. L’audizione è stata secretata, ma La Notizia è in grado di rivelare il contenuto dell’intervento del magistrato, che sembra smontare notevolmente le polemiche sorte a livello nazionale e internazionale sul carcere duro, sollevate spesso da chi ignora o fa finta di ignorare la specificità italiana in materia di criminalità organizzata. Ardita ha sottolineato che vi sono ancora criticità, tanto nel 41bis quanto nell’alta sicurezza, che va rivista la cosiddetta sorveglianza dinamica e ha fatto anche un excursus sulle modifiche introdotte nelle carceri nel corso degli anni, davanti al vero e proprio assalto sferrato allo Stato da parte dei clan, partendo dalla cosiddetta strategia stragista dei corleonesi. Il confronto tra il magistrato e il Comitato è stato di circa un’ora e l’Antimafia ha già programmato una nuova audizione a Palazzo San Macuto. Partendo dal principio sancito dall’articolo 27 della Costituzione, per cui “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”, senza tenere conto della particolarità dei mafiosi irriducibili e di cosa le mafie abbiano rappresentato e continuino a rappresentare in Italia, c’è chi ha parla di una tortura legalizzata con il 41bis, definito nel caso di Bernardo Provenzano una vergogna incostituzionale e in quello di Raffaele Cutolo di accanimento. Una norma introdotta nel giugno 1992, dopo le sanguinose stragi di Cosa Nostra, e dopo 30 anni di nuovo sotto attacco. Senza considerare che interrompere i contatti tra i mafiosi finiti in carcere e quelli ancora a piede libero è fondamentale. Ma le critiche verso tale regime sono state anche di carattere internazionale. Nel 2000 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato infatti l’Italia per aver sottoposto i detenuti del carcere dell’isola di Pianosa a trattamenti inumani e degradanti e non aver condotto indagini penali efficaci ai fini dell’individuazione dei responsabili di tali condotte. Sono state mosse critiche dal Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani e degradanti delle Nazioni Unite, dopo diverse visite effettuate presso gli istituti penitenziari italiani, sostenendo che il 41bis comporta il rischio di esporre i detenuti a lunghi periodi di isolamento, con il pericolo di arrecare loro un grave danno a livello socio-psicologico. E vi sono state anche pronunce della Corte Costituzionale volte a modificare il regime penitenziario speciale e renderlo compatibile con la normativa internazionale di tutela dei diritti umani. Per Ardita, con un’esperienza di nove anni al timone di un ufficio delicatissimo dell’Amministrazione penitenziaria, la realtà è un’altra e per contrastare efficacemente la mafia è necessaria un’ulteriore stretta. Giustizia, gli emendamenti blindati da tutto il governo di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 25 giugno 2021 Processo penale. Le proposte di modifica al disegno di legge Bonafede firmate da Cartabia riscrivono da capo il provvedimento. Per superare le divisioni della maggioranza, tra Salvini che chiama Forza Italia in piazza sui referendum e M5S che fa muro sulla prescrizione, la ministra le porterà la prossima settimana in Consiglio dei ministri come fossero un provvedimento nuovo. “Gli emendamenti del governo al disegno di legge Bonafede sul processo penale in pratica scrivono un testo nuovo. Quella della giustizia è una delle riforme più importanti e più attese per il nostro paese, come ha confermato pochi giorni la stessa presidente della Commissione europea in visita a Roma. E allora come si poteva pensare di non farla passare per il Consiglio dei ministri?”. Le voci di dentro del ministero di Marta Cartabia offrono una spiegazione semplice alla decisione per niente consueta - e non prevista in nessuno dei vari cronoprogrammi sull’attuazione del Piano nazionale di riprese e resilienza che circolano da mesi tra palazzo Chigi e il parlamento - di far approvare dal Consiglio dei ministri gli emendamenti sulla prescrizione, le limitazioni al processo di appello, l’udienza filtro e tutti le altre modifiche al processo penale ancora dibattute nella maggioranza. Quando Draghi l’ha fatto cadere mercoledì in conferenza stampa - “la riforma della giustizia dovrebbe andare a giorni in Consiglio dei ministri” - non tutti avevano capito il senso, visto che i disegni di legge sono già alla camera da mesi. Ma Cartabia ha deciso di far approvare ai colleghi ministri il testo dei suoi emendamenti, e quindi anche la mediazione sulla prescrizione, come se si trattasse di un nuovo provvedimento. Ottenendo un timbro ufficiale con il quale inchiodare la maggioranza al sostegno parlamentare. La ministra lo farà “presto, prestissimo” ha ripetuto ieri, ma non è ancora certo che sia la prossima settimana. Riassumere le mediazioni attorno al tavolo di palazzo Chigi presenta per Cartabia un doppio e speculare vantaggio. Da un lato tiene fuori l’ala sostanzialista del movimento 5 Stelle, rappresentata dall’ex ministro Bonafede che ha già subito un colpo con gli emendamenti governativi al processo civile (che in questo caso nessuno ha pensato di far passare per il Consiglio dei ministri). Con Patuanelli, D’Incà e il nuovo Di Maio “garantista”, Cartabia e Draghi hanno meno difficoltà a trovare un accorso. D’altra parte il passaggio serve anche a vincolare la Lega. Salvini non è in Consiglio dei ministri ma è in ogni altro luogo a fare propaganda per i referendum che - anche se non intervengono direttamente sui punti delle riforme in programma - di fatto si pongono in contraddizione con gli equilibri faticosamente costruiti da Cartabia. E attirano Forza Italia su un terreno di scontro con gli alleati di governo. Ieri a problema si è aggiunto problema, vista la partecipazione di mezza maggioranza (no Pd, M5S e Leu) e di Fratelli d’Italia all’iniziativa dell’Unione camere penali a sostegno della proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere. Dimenticata in parlamento fino a che Salvini non ha spostato i sei referendum radicali, tra i quali ce n’è uno di simile impatto. In piazza c’era certo Salvini, ma ache il sottosegretario alla giustizia (di Forza Italia) Sisto. Vidimati che saranno dal Consiglio dei ministri, gli emendamenti del governo al processo penale potranno difficilmente essere messi in discussione. Anche se rimarranno formalmente esposti ai subemendamenti e al lungo iter in commissione che andrà avanti tutto luglio. Nessun dubbio che l’attuale lodo Conte sulla prescrizione, ultima trincea dei 5 Stelle, sarà cambiato. Non nel senso più coraggioso della prescrizione processuale pure ipotizzato dalla commissione Lattanzi, ma in modo simile a quello proposto dal Pd e da Leu che prevede una “improcedibilità” in caso di durata abnorme del processo. Soluzione che pure la commissione Lattanzi aveva criticato dal punto di vista tecnico. Ma, come dice un deputato dem che segue il dossier, “prima della purezza tecnica adesso ci sono le ragioni della politica”. “Penale e Csm entro luglio” Cartabia sblocca la riforma di Errico Novi Il Dubbio, 25 giugno 2021 Il passaggio a Palazzo Chigi disarma le resistenze 5S sulla prescrizione. Nell’audizione alla Camera, attacchi a Lattanzi dagli ex del Movimento. “A brevissimo”. Marta Cartabia ha ribadito anche ieri che i suoi emendamenti al ddl penale sono pronti e saranno votati in Consiglio dei ministri di qui a poche ore. La scelta “solenne” studiata con Mario Draghi per vincere le ritrosie dei 5S sulla prescrizione fa parte di un piano studiato per sbloccare l’intera riforma della giustizia “prima dell’estate”, come assicura la guardasigilli. Vuol dire prima della pausa agostana: dopo le modifiche al ddl penale, Cartabia assicura che depositerà alla Camera anche quelle sul Csm. La riforma delle toghe seguirà a ruota il penale ma imporrà un ritmo serrato all’intera azione di via Arenula. Sergio Mattarella ha ricordato l’urgenza di approvare il ddl sul Csm entro la primavera del 2022, quando dovranno tenersi le elezioni per Palazzo dei Marescialli. Una risposta arriva da Giorgio Lattanzi. È anche lo straordinario scienziato del diritto a cui Marta Cartabia ha chiesto di proporre modifiche al ddl penale a spiegare la svolta sulla riforma. La relazione prodotta dagli esperti e corredata da puntuali ipotesi di emendamento “ha un carattere sistematico, non settoriale e slegato”, fa notare l’ex presidente della Consulta. La “lectio” in cui Lattanzi ha nobilitato l’audizione di ieri davanti alla commissione Giustizia della Camera chiarisce perché non è poi così curioso che gli emendamenti scritti da Cartabia sulla base di quella relazione andranno - “a brevissimo”, come ribadito dalla guardasigilli - in Consiglio dei ministri. Il motivo del passaggio solenne a Palazzo Chigi riguarda sì l’enfasi necessaria per dissuadere i 5 stelle dal loro no a oltranza sulla prescrizione, ma è anche in quella definizione di Lattanzi: è un lavoro “sistematico” appunto. Non una revisione parcellizzata ma quasi una nuova riforma. Da sottoporre ai ministri come se fosse un ddl. Le parole pronunciate dal presidente della commissione di studio ricordano anche la portata dell’impegno riformatore assunto da Cartabia. Grazie alla “forzatura” sugli emendamenti al penale, la guardasigilli confida di ottenere l’ok in commissione alla riforma almeno per luglio. Superata quella fase, confida, in Aula si andrà in discesa. E forse è così. Ma sempre “prima dell’estate”, ha ribadito ieri Cartabia in un convegno all’università Roma Tre, arriveranno a Montecitorio anche gli emendamenti governativi alla riforma del Csm. “Prima dell’estate” è una crasi che vuol dire “prima della pausa agostana”. E incardinare le modifiche alla riforma delle toghe vuol dire mettere sui binari un altro convoglio, che non potrà viaggiare lento, seppure dovrà per forza venire dopo il penale. Nel caso del ddl sul Csm, l’urgenza non ha a che vedere direttamente con le richieste Ue a garanzia del Piano d Ripresa (“abbattere la durata del processo del 40% nel civile e del 25% nel penale”, come ripetuto sempre ieri dalla ministra). La riforma dell’ordinamento giudiziario è però un indiretto pungolo per quel penale complicato dalla ritrosie dei Cinque Stelle. Il testo sul Csm va approvato in via definitiva, almeno per la parte relativa alla delega, entro la primavera 2022, quando si dovranno eleggere i togati del nuovo plenum. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stato chiaro, infatti, nel ricordare che il prossimo Consiglio superiore andrà scelto con regole diverse da quelle che hanno prodotto la “correntocrazia”. Non si discute. La tempistica della giustizia non rispetterà dunque in modo svizzero la tabella del Recovery, ma neppure sta per materializzarsi un clamoroso ritardo: c’è solo uno slittamento di alcuni mesi. Oltretutto la ministra ricorda il concorso previsto a metà luglio per assumere altri 310 magistrati, l’ulteriore bando per le toghe in autunno e l’assunzione, “sia pur a tempo determinato”, dei “16.500 giovani giuristi” che irrobustiranno l’ufficio del processo. Si aggiungono interventi normativi su “giustizia tributaria, crisi d’impresa e magistratura onoraria”. Quest’ultimo dossier è tra i più impegnativi. Ne ha parlato ieri anche il magistrato a cui Cartabia ha affidato la specifica commissione di studio, Claudio Castelli: il presidente della Corte d’appello di Brescia ha spiegato che i lavori del suo gruppo di esperti procedono “serrati e spediti”, e che la proroga al 21 luglio appena stabilita è necessaria per “approfondire trattamento e previdenza della magistratura onoraria attraverso una indispensabile interlocuzione con Inps e ministero del Lavoro”. Sono in gioco miliardi, e le coperture vanno misurate con precisione. Andrebbe ricordato come in tre anni la legislatura non abbia avuto la produttività mostrata in questi tre mesi dall’attuale governo. Che certo, ha confermato alcune esasperazioni efficientiste sulla riforma del processo civile, la più avanzata in Parlamento (è al Senato) ma anche la più criticata dall’avvocatura. Sul penale, il sottosegretario Francesco Paolo Sisto ha detto, in videocall con l’audizione di Lattanzi, che la proposta emendativa del presidente emerito contiene “una rivoluzione copernicana, che attua finalmente il codice Pisapia- Vassalli”. Nell’incontro di ieri in commissione Giustizia, le stilettate sono venute più da un ex grillino come Andrea Colletti che dai deputati del Movimento: a riprova di quanto la rigidità di Giuseppe Conte e Alfonso Bonafede sulla prescrizione derivi soprattutto dal timore di vedersi “lapidati” dai fuoriusciti. Lattanzi, per la cronaca, ha replicato con assoluta pacatezza (“sono visioni diverse, non ho nulla da dire”) alle insistenze con cui Colletti chiedeva “di mettere alla prova la riforma della prescrizione” prima di cambiarla. Cartabia dovrebbe proporre in Consiglio dei ministri il combinato fra la legge Bonafede, che resterà in vigore, e l’”ipotesi B” di Lattanzi, declinata secondo l’impostazione dem, sulla “prescrizione processuale”, che estingue il giudizio in appello se i tempi di fase sono sforati. Il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa definisce “una schifezza” l’ostinazione del M5S sul “fine processo mai”. Il capogruppo dem Alfredo Bazoli gli ribatte che “si rema tutti nella stessa direzione”. In realtà la soluzione proposta dal Pd concede ai grillini un argine alle prescrizioni determinate dalla tardiva emersione dell’ipotesi di reato: il punto di forza politico della proposta è quello. D’altra parte il peso del fronte garantista è sempre più forte e non può essere ignorato negli equilibri di maggioranza: nei prossimi giorni proprio Costa, insieme con esponenti di quasi tutti i partiti incluso il Pd, lancerà un nuovo portale web, presuntoinnocente.com, che punta a essere l’architrave di un’aggregazione politica favorevole alla svolta nella giustizia. E solo per avere idea della prateria a disposizione per un simile schieramento, la deputata di Coraggio Italia Manuela Gagliardi ieri ha ricordato che alla Camera giace pure la legge dei penalisti sulla “separazione delle carriere”. E vero che c’è il referendum, ma se fosse possibile, i deputati manderebbero la legislatura ai supplementari. Processo penale, com’è la prescrizione che mette d’accordo PD e M5S? di Carlo Terzano policymakermag.it, 25 giugno 2021 La riforma della giustizia sarà alla base del PNRR, per questo la maggioranza deve trovare entro l’estate un accordo sulla nuova prescrizione. Ridisegnare l’istituto giuridico della prescrizione (una cesoia che interviene se lo Stato impiega troppo tempo ad arrivare a sentenza, ledendo i principi del giusto processo), non sarà facile. Perché dietro la prescrizione si annidano anni e anni di storie e malversazioni politiche, di fuga dalla giustizia e di interventi ad hoc per favorire questo o quel personaggio. Per questo, il Movimento 5 Stelle ha fatto della riforma, in peius (per l’imputato), della prescrizione un suo cavallo di battaglia e non si lascerà convincere facilmente ad abbandonare quanto previsto dalla norma che porta il nome dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Ridisegnare l’istituto giuridico della prescrizione, però, sarà necessario, perché i partiti sono quotidianamente tallonati dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, che ha ricevuto mandato dal presidente del Consiglio Mario Draghi di agire e in fretta, visto che la riforma del settore è alla base del PNRR. Insomma, la dobbiamo all’Europa per dimostrare la serietà delle nostre intenzioni. Ci sarebbe però ormai un accordo tra PD e pentastellati su una bozza che parte proprio dal testo elaborato da Bonafede, prevedendo che la prescrizione si fermi dopo il primo grado, con l’introduzione però di un altro timer: quello della prescrizione processuale, legata alla durata del dibattimento. La giustizia avrà due anni per il processo di appello e un anno per quello in Cassazione. Ma, soprattutto, i magistrati potranno contare su strade diverse a seconda che l’imputato venga assolto oppure venga condannato. Nel primo caso, per l’assolto, se il tempo concesso per chiudere la fase processuale viene superato, scatta l’improcedibilità e il processo si chiude. Se invece l’imputato è stato condannato, ma la fase processuale ha superato i limiti stabiliti dalla legge, allora c’è uno sconto di pena, novella presa in prestito dal modello tedesco. Oppure, sempre per i condannati, potrebbe essere previsto un termine più lungo per giungere comunque alla sentenza, che però, una volta superato, vedrebbe scattare l’improcedibilità. Adesso le differenze maggiori nei termini si hanno tra chi ha già subito condanne, per i quali ricorrere all’intervento della prescrizione è quasi impossibile e chi ha la fedina penale intonsa, che con bravi avvocati può facilmente sperare nelle cesoie del processo estinto per decorrenza dei termini (all’istituto, comunque, l’interessato che vuole ottenere la piena assoluzione può sempre decidere di rinunciarvi). Resta da vedere, invece, se questa differenza di trattamento tra chi in primo grado è stato assolto e chi è condannato passi il vaglio di costituzionalità, dato che, sulla carta, la legge dovrebbe essere uguale per tutti. Bazoli: “La prescrizione del processo è il giusto compromesso con Bonafede” di Liana Milella La Repubblica, 25 giugno 2021 Per il capogruppo del Pd in commissione Giustizia non si può perdere “l’occasione unica di riformare il processo penale”. “Un compromesso accettabile tra la prescrizione di Bonafede e i processi infiniti”. Alfredo Bazoli, capogruppo del Pd in commissione Giustizia alla Camera, definisce così con Repubblica l’accordo in itinere sulla prescrizione. Sulla prescrizione vede un compromesso possibile? “Il Pd ha molta fiducia nella mediazione finale di Marta Cartabia. Le proposte fatte dalla commissione Lattanzi per noi sono entrambe percorribili. Ma il Pd ha presentato da tempo degli emendamenti che offrono una soluzione parzialmente diversa e che valutiamo come un buon punto di mediazione”. Già, lei sta parlando del compromesso sul piatto tra la prescrizione di Bonafede e la vostra. Quali sarebbero i vantaggi? “L’ipotesi del Pd prevede una prescrizione processuale un po’ semplificata perché si applicherebbe solo ai gradi di Appello e di Cassazione dopo che la prescrizione dei singoli reati si è fermata con il primo grado”. Quindi la legge Bonafede, in questo modo, non verrebbe buttata del tutto nel cestino, ma verrebbe salvata. È così? “Si, certo, verrebbe salvata, ma verrebbero eliminati i rischi, che anche noi avevamo denunciato, di processi infiniti”. In che modo? “È semplice. La prescrizione del reato si ferma con la sentenza di primo grado. Poi, nei gradi successivi, scatta una prescrizione processuale: l’Appello può durare al massimo due anni e la Cassazione un anno. Se si superano questi tempi ci sarà una riduzione della pena o il reato stesso diventerà improcedibile”. Nelle trattative segrete tra via Arenula e il M5S proprio quest’ultimo è il punto in discussione. Analizziamo cosa succede in Appello e nell’ultimo grado giudizio. “In Appello, se si superano i due anni, il processo per l’imputato assolto in primo grado si chiuderà lì in quanto non sarà più procedibile. Se invece l’imputato era stato condannato in primo grado ci sarà uno sconto di pena”. Le indiscrezioni dicono che fin qui M5S sarebbe favorevole. Ma non accetta assolutamente quella che chiama “denegata giustizia”, e cioè il fatto di chiudere il processo con la prescrizione senza giungere a una sentenza. Per il Pd come se ne può uscire? “La via d’uscita è un’ulteriore termine, più lungo del primo - per intenderci non solo due anni per l’Appello e uno per la Cassazione - in modo da cercare di chiudere comunque il processo. Ma, se anche questo termine non dovesse essere rispettato, allora non c’è che la via dell’improcedibilità”. Politicamente è possibile che M5S accetti il compromesso? “Me lo auguro, perché sarebbe comunque una proposta che non butta al macero la prescrizione di Bonafede, però evita i rischi dei processi infiniti”. Scusi, ma per capirci: da una parte ci sono i processi infiniti e dall’altra la denegata giustizia. È mai possibile che non ci possa essere un punto d’incontro? “Il punto è nella riduzione dei tempi dei processi che la coraggiosa proposta fatta dalla commissione Lattanzi ha già messo sul tavolo”. Però al centrodestra, vedi la reazione di Enrico Costa di Azione, questa soluzione dello sconto di pena non piace affatto al punto da definirla una “schifezza”. “Faccio notare che il sistema è in vigore in Paesi dove la giustizia funziona bene come in Germania. E non a caso viene portata ad esempio dalla commissione Lattanzi”. Quindi lei pensa che si arrivi a chiudere? “Questa è un’occasione imperdibile per riformare il processo penale e tutti dobbiamo aiutare governo e Parlamento ad arrivare fino in fondo”. Altro che referendum, l’Anm pensi alla crisi della categoria di Paolo Itri Il Riformista, 25 giugno 2021 Il recente intervento del presidente Giuseppe Santalucia davanti al parlamentino dell’Anm sui quesiti referendari suscita non lievi perplessità, apparendo quanto meno inopportuno. Santalucia, nell’annunciare una “ferma reazione”, ha dichiarato che il fatto di portare avanti il tema referendario “fa intendere la volontà di chiamare il popolo ad una valutazione di gradimento della magistratura, quasi a voler formalizzare e cristallizzare i risultati dei vari sondaggi di opinione che danno in discesa l’apprezzamento della magistratura”. Egli paventa, in sostanza, che attraverso l’uso del referendum si vogliano processare i giudici. Non è ben chiaro a quale titolo il rappresentante di un’associazione privata, rappresentativa degli interessi sindacali di una categoria professionale quali sono appunto i magistrati, invece di fare una seria autocritica sulle ragioni dell’attuale grave crisi di credibilità dell’istituzione di cui fa parte, pretenda di stigmatizzare il legittimo esercizio di uno strumento di democrazia diretta, accusando in sostanza di populismo le forze politiche che hanno promosso i referendum. Premessa l’assoluta legittimità del giudizio che i cittadini esprimeranno sui quesiti referendari, qualunque possa essere il loro esito, non possiamo tuttavia esimerci dal formulare una opinione negativa su quasi tutti i quesiti stessi. Il primo quesito riguarda la responsabilità civile “diretta” dei magistrati. La norma vigente già prevede che, seppure il cittadino danneggiato non possa chiamare direttamente in causa il magistrato, egli possa tuttavia rivolgersi allo Stato (soggetto peraltro ben più solvibile del singolo magistrato) il quale poi si rivarrà (in parte) sul magistrato stesso. I proponenti chiedono invece di introdurre la possibilità per il cittadino di chiedere il risarcimento dei danni direttamente al magistrato. Non possiamo che esprimere contrarietà rispetto a tale ipotesi, non certo per ragioni corporative, ma semplicemente perché ciò che conta, dinanzi a un eventuale errore grave del magistrato, è che egli ne risponda disciplinarmente e anche economicamente, ma sempre e solo nei confronti dello Stato. L’azione risarcitoria “diretta”, invece, rischia di condizionare gravemente la decisione del giudice, a fronte della non piacevole prospettiva di eventuali future azioni intentate da una delle parti in causa, magari ispirate da finalità solo strumentali o ritorsive. Il secondo quesito è quello sulla separazione delle carriere: la conseguenza dell’eventuale approvazione del referendum sarebbe che il magistrato, una volta scelta la funzione giudicante o quella requirente, non potrebbe più passare dall’una all’altra. L’argomento è complesso e divisivo, ma va detto che ci troviamo di fronte a un falso problema: gli esperti di ordinamento giudiziario sanno bene che la separazione delle carriere, di fatto, già esiste da tempo, e questo grazie a una serie di “paletti” non solo territoriali che già adesso rendono estremamente improbabile che chi abbia fatto il pm possa decidere di passare nei ranghi della magistratura giudicante (e viceversa). Il terzo quesito riguarda invece la custodia cautelare: i promotori chiedono che venga abrogata la norma del codice che prevede l’applicazione della custodia cautelare in carcere in caso di pericolo di reiterazione del reato. Tale quesito, se passasse, potrebbe segnare un pericoloso arretramento nell’attività di contrasto alla criminalità. Per chiarire la questione, basti un semplice esempio. Tizio, pluripregiudicato, viene identificato come autore di una rapina in banca grazie alle telecamere installate presso l’istituto di credito. Vistosi scoperto, decide di presentarsi in caserma e di confessare il delitto. Nel caso di specie non ci sarebbe il pericolo di fuga, perché il rapinatore si è costituito spontaneamente. Non ci sarebbe nemmeno il pericolo di inquinamento delle prove, perché ha confessato. Se dovesse passare il referendum, nonostante l’indubbio pericolo di reiterazione del reato, nelle more del processo egli verrebbe lasciato in libertà, con la concreta possibilità, quindi, che possa rapinare un’altra banca. Quarto quesito: oggi un magistrato che vuole candidarsi al Csm deve raccogliere dalle 25 alle 50 firme di altrettanti elettori iscritti a una corrente. Attraverso il quesito si intende abrogare questo vincolo delle firme e dunque l’obbligo, di fatto, per un candidato di iscriversi a una corrente. I promotori del referendum sottovalutano, però, la pervasività delle correnti e la loro capacità di controllare i voti degli elettori, indipendentemente dal fatto che il candidato risulti o meno apparentato a questa o quella corrente. L’unica soluzione per contrastare la deriva clientelare resta il sorteggio temperato: si estragga a sorte una platea di candidati in possesso di determinati requisiti minimi (professionali e di anzianità) nella quale gli elettori potranno scegliere con il loro voto colui che meglio esprime la loro sensibilità sui delicati temi della giurisdizione e dell’autogoverno. Ermini: “Il Parlamento deve fare la riforma o è inutile che la politica si lamenti delle toghe” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 25 giugno 2021 Il vicepresidente del Csm David Ermini: ci siamo accorti tardi della sfiducia della gente nei confronti dei magistrati. “La delegittimazione della magistratura crea effetti gravissimi, perché significa delegittimare uno dei cardini della democrazia liberale”, dice David Ermini, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Sarà, ma sono stati comportamenti degli stessi magistrati e dell’organo di autogoverno che lei ora rappresenta a provocare questa delegittimazione... “È vero, e uno degli errori che abbiamo commesso è stato accorgersi troppo tardi di quanto stava montando nell’opinione pubblica la sfiducia verso la categoria; senza distinzioni, che pure esistono, tra i pm che fanno le indagini, i giudici che emettono le sentenze, il Csm e l’Associazione magistrati. Ma tant’è. Con il caso Palamara c’è esplosa tra le mani una bomba, ma la miccia era accesa da molto tempo, e dopo la deflagrazione ci siamo trovati a dover difendere un’istituzione e correggere le storture”. Non sarebbe stato meglio sciogliere subito il Csm evitando lo stillicidio delle dimissioni e dei successivi scandali, dalle chat dello stesso Palamara fino al caso Amara-Storari-Davigo? “Con quale risultato? Sarebbe stato eletto un nuovo Csm con le vecchie regole e gli stessi meccanismi, congelando e riproponendo la situazione che ha prodotto la crisi in cui ci siamo trovati. Invece abbiamo avviato un periodo di transizione che è servito alla magistratura per rimettersi in discussione, anche qui dentro. La svolta può arrivare da due fronti: da un lato il cambiamento morale e culturale, dall’altro le riforme; noi abbiamo imboccato la prima strada, la seconda tocca al Parlamento”. Che cosa avete fatto in concreto, per il cambiamento morale e culturale? “Abbiamo cercato di compiere scelte al di fuori del sistema delle correnti e del carrierismo, promuovendo una mentalità che non sia ancorata solo alle domande per avere posti diversi da quello in cui si lavora e ad ottenere per forza incarichi direttivi o di rilievo. Abbiamo fatto nomine importanti seguendo criteri nuovi, celebrato procedimenti disciplinari e di incompatibilità ambientale più numerosi che in passato, insieme a tante altre attività poco note all’esterno ma fondamentali per il lavoro degli uffici giudiziari”. Però avete pure subito bocciature dalla giustizia amministrativa per nomine di peso, come quella del procuratore di Roma, che hanno contribuito ad offuscare l’immagine del Consiglio. “Sulla vicenda di Roma attendiamo l’esito di tutti i ricorsi ancora in atto, poi torneremo a valutare la situazione. In generale io non mi permetto di sindacare le decisioni del Tar e del Consiglio di Stato, però credo che tra le riforme costituzionali sarebbe opportuno inserire l’affidamento a un’Alta corte sia del procedimento disciplinare che di quello sulle impugnazioni dei nostri provvedimenti. Bisogna salvaguardare la discrezionalità delle scelte dell’organo di autogoverno fatte tenendo conto dei contesti ambientali anche con riferimento alle peculiarità dell’ufficio. Se ne fanno anche di sbagliate, ci mancherebbe, ma ne rivendico la discrezionalità. Faccio anche notare che seguendo le indicazioni del Tar avremmo dovuto nominare a capo dell’ufficio gip di Bari il dottor De Benedictis, giudice recentemente arrestato per gravi accuse. Ciò non per responsabilità del giudice amministrativo, ma perché non dispone di tutte le informazioni in possesso solo del Consiglio”. Sul caso Palamara c’è chi pensa che la sua radiazione con un processo-lampo sia stato un modo per fingere di risolvere il problema, senza procedere oltre. “Non è vero. A quel processo non ho partecipato e non posso parlarne, ma ce ne sono in corso molti altri, così come le procedure per incompatibilità ambientale. Del resto la giustizia disciplinare dei magistrati è l’unica totalmente trasparente, le udienze si svolgono in diretta radiofonica salvo casi particolari, quale altra categoria si muove con queste regole? In ogni caso, ripeto, le degenerazioni delle correnti e del carrierismo sono esplose in questa consiliatura ma vengono da lontano. Per questo dico che noi siamo un Consiglio di transizione in attesa delle riforme, che però spettano al Parlamento”. Qual è a suo parere la più urgente? “Quella del Csm è improcrastinabile, tra un anno bisognerà rinnovarlo e sarebbe impensabile andare al voto senza cambiare la legge elettorale che è la principale causa dei condizionamenti correntizi. La ministra Cartabia sta facendo un grande lavoro in questo campo, la commissione da lei nominata ha fatto le sue proposte e ora vediamo che cosa uscirà, così come sulle riforme del processo penale e civile. C’è l’impegno a concludere l’iter entro la fine dell’anno, e dev’essere rispettato”. Lei, come i suoi predecessori, è stato eletto vicepresidente dal “sistema delle correnti”. Spera di essere l’ultimo scelto con quel metodo? “Premesso che è la stessa Costituzione a prevedere che la scelta del vicepresidente sia frutto di un accordo tra magistratura e politica, visto che dev’essere nominato un “laico” eletto dal Parlamento dalla maggioranza dei componenti togati eletti dai magistrati, condivido l’ipotesi di modificare la Costituzione affidando la scelta al capo dello Stato che presiede il Csm, purché avvenga tra i consiglieri individuati dal Parlamento”. Ha fiducia che il Parlamento faccia le necessarie riforme sulla giustizia? “Deve farle, altrimenti è inutile lamentarsi della crisi di credibilità della magistratura. Le riforme rappresentano l’altra strada obbligata per restituire ai cittadini un po’ di fiducia nell’istituzione. Faccio un appello al Parlamento perché segua la via indicata dal presidente Mattarella e dalla ministra Cartabia, mettendo da parte le divisioni e trovando le intese necessarie a riforme condivise. La giustizia non dovrebbe essere più argomento da campagna elettorale”. Pare che stia per avvenire il contrario, con la campagna referendaria promossa da Lega e radicali. Lei è favorevole o contrario? “Ritengo che un lavoro parlamentare fatto con la seria intenzione di varare buone riforme sia più rapido ed efficace del percorso referendario, che inevitabilmente dividerebbe il Paese. Se c’è la volontà le soluzioni condivise si trovano, anche sui temi più divisivi”. Separazione delle carriere, alla manifestazione dei penalisti c’erano tutti tranne Pd e M5S di Giulia Merlo Il Domani, 25 giugno 2021 In piazza Cavour a Roma c’erano Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Italia Viva e Azione. Salvini: Noi alimenteremo questa fiammella per la separazione delle carriere, se arrivano un milione di firme per i referendum questo aiuterà il parlamento che deve fare le riforme”. Doveva essere la manifestazione dei penalisti dell’Unione camere penali italiane, che hanno proclamato due giorni di astensione dalle udienze, per chiedere al governo la separazione delle carriere tra magistratura giudicante e requirente. È diventata una sfilata di leader politici soprattutto del centrodestra, senza distinzione tra maggioranza e opposizione. Determinante è stata la discesa in piazza del leader della Lega, Matteo Salvini, impegnatissimo a lanciare la raccolta firme per il referendum sulla giustizia e deciso a riconquistare il suo terreno naturale d’iniziativa che è la piazza. Complice il fatto che tra i quesiti referendari ci sia anche la separazione delle carriere, Salvini non ha resistito al bagno di folla davanti alla corte di Cassazione a Roma, dove i penalisti guidati dal presidente Giandomenico Caiazza hanno dato vita all’astensione nazionale dalle udienze e ribadito la necessità di separare giudici e pm, sulla scia anche dei fatti di Verbania e della funivia del Mottarone. “Non saltiamo al collo, come ha detto il presidente dell’Anm, di una magistratura agonizzante, vogliamo una magistratura forte. La magistratura è forte quando è credibile - è stato il ragionamento di Caiazza in apertura di manifestazione - Ai cittadini interessa solo che il giudice sia indipendente dalla politica, dalle forze economiche e sociali e soprattutto dagli uffici di procura”. Tre strade diverse - Nella piazza, in realtà, si sono incontrati idealmente tre diversi percorsi che puntano a introdurre la separazione delle carriere. Il primo è quello dei penalisti, che hanno depositato lo scorso anno una proposta di legge costituzionale, con 75 mila firme e che ora è arenata in parlamento “Bisogna che riprenda il suo percorso”, ha chiesto Caiazza. Si tratta della proposta più radicale perché introdurre una vera e propria separazione delle carriere richiede una modifica costituzionale agli articoli sulle prerogative della magistratura. Il secondo percorso, invece, è quello promosso da Salvini e dal partito radicale con il loro referendum, che però è un referendum che punta a modificare una legge ordinaria e a separare non le carriere appunto, ma le funzioni. Un passo che sarebbe comunque significativo ma non impatterebbe sulla struttura dell’ordine giudiziario. Infine, il terzo è quello promosso da Fratelli d’Italia, presente in piazza come unica forza di opposizione al governo e che nel suo pacchetto di emendamenti al ddl sull’ordinamento giudiziario ha proposto la separazione delle carriere, scegliendo appunto la via dell’aula. Chi c’era e chi no - Così la manifestazione dei penalisti è stata invasa dalla politica e gli avvocati hanno concesso il microfono a chiunque volesse parlare. “Noi alimenteremo questa fiammella per la separazione delle carriere, se arrivano un milione di firme per i referendum questo aiuterà il parlamento che deve fare le riforme”, ha ripetuto Salvini, spiegando il perché del suo appoggio (che ormai è quasi un’intestazione) al referendum del partito radicale e ribadendo che non è un attacco alla ministra della Giustizia Marta Cartabia. Poi spiega a modo suo il perché della necessità di separare le carriere: “Se uno ha indossato tutta la vita la maglia della Lazio o della Roma non è che un bel giorno si mette ad arbitrare”, ha detto riferendosi al ruolo dell’accusa e del giudice. Oltre alla Lega di Matteo Salvini, in piazza si è ricomposto l’antico tridente di centrodestra. C’era Forza Italia addirittura con il sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, che ha detto che “Il Governo nei confronti del referendum è rispettoso: il percorso delle riforme è quello principale, e a questo si affiancano le iniziative di democrazia diretta che non lo disturbano, ma anzi possono essere utili per accelerarlo”. Non è però entrato nel merito del tema della manifestazione, pur spiegando che la bozza del governo sull’ordinamento giudiziario fa qualche passo nella direzione della separazione delle carriere, riducendo il numero di volte in cui il pm può andare a fare il giudice e viceversa. Ma c’era anche Fratelli d’Italia, con il senatore Alberto Balboni, che è anche vicepresidente della commissione Giustizia. FdI ha annunciato che sul referendum della Lega rimarrà a guardare ma Balboni ha detto chiaramente che “La separazione delle carriere è il presupposto necessario per il giusto processo” e che “Siamo da sempre al fianco dell’avvocatura e degli avvocati penalisti in questa battaglia di civiltà”. Sul fronte centrista, invece, c’era ovviamente Enrico Costa di Azione, avvocato e storico paladino della lotta per la separazione delle carriere, che si è presentato insieme al suo leader, Carlo Calenda. Lui, in piena campagna elettorale per il Campidoglio non ha disdegnato il passaggio di piazza e ha chiarito che “Noi non siamo favorevoli al referendum per questa ragione, anche se condividiamo i quesiti, ma quando diventa un rumore di sottofondo non è un metodo che porta alla riforma della giustizia”. Eppure, ha aggiunto che, se il governo non riuscirà ad approvare la riforma, l’appoggio al referendum sarà inevitabile. Immancabile, infine, anche Italia Viva. Il partito di Matteo Renzi ha da sempre un legame stretto con i penalisti e in piazza Cavour era presente Maria Elena Boschi, insieme a Lucia Annibali, Michele Anzaldi, Luciano Nobili, Raffaella Paita e Catello Vitiello: “Italia viva è accanto ai penalisti, perché non solo condividiamo la battaglia per la separazione delle carriere, ma pensiamo che sia urgente una riforma complessiva della giustizia”, ha detto. “Durante il precedente governo siamo stati un argine per evitare che si smontassero i principi costituzionali: per noi giustizialismo e garantismo non sono due facce della stessa medaglia”. Le assenze - A mancare, invece, Partito democratico e Movimento 5 Stelle. I due partiti, pur su posizioni non convergenti su prescrizione e altri temi di giustizia, hanno scelto entrambi la via della prudenza sul tema della separazione delle carriere. Il Movimento 5 Stelle è da sempre contrario, il Pd invece contiene anime diverse ma in questa fase politica ha scelto di orientarsi in direzione di Via Arenula e di non agitare la piazza per forzarne le scelte. Tuttavia, una manifestazione di categoria che negli anni scorsi avrebbe attirato in piazza solo un pubblico settoriale oggi è riuscita ad allineare buona parte dell’attuale perimetro parlamentare. Un risultato che dimostra come la giustizia sia oggi il tema più polarizzante e anche divisivo dentro la maggioranza. Giustizia, nasce “Presunto innocente”, il nuovo sito che unisce i garantisti di Liana Milella La Repubblica, 25 giugno 2021 Sarà online da lunedì, alla vigilia della discussione sulla riforma del processo penale. Ospiterà anche i contributi dei cittadini che vorranno raccontare le loro storie e denunciare le loro esperienze, positive o negative con la macchina della giustizia. Si chiamerà proprio così, “presunto innocente.com”. Un sito trasversale ai partiti che porterà avanti l’offensiva dei garantisti sulla giustizia. Tant’è che il nuovo sito - che sarà già online da lunedì della prossima settimana - vede tra i promotori Enrico Costa di Azione, Giusi Bartolozzi di Forza Italia, Guido Crosetto fondatore con Giorgia Meloni di FdI, Roberto Giachetti di Italia viva, il dem lucano Gianni Pittella, il giornalista Alessandro Barbano. In coincidenza con le prossime settimane che vedranno i passi avanti della riforma penale, l’idea dei promotori del sito è soprattutto quello di raccontare cosa succede di positivo ma anche di negativo nel mondo della giustizia e ospitare voci anche contrapposte per creare un movimento d’opinione trasversale che vada oltre lo scontro tra i partiti. Lo slogan del sito sarà riassunto nella battuta “stai attento perché potrebbe capitare anche a te” per mettere in evidenza che i temi della giustizia non riguardano solo gli addetti ai lavori oppure chi viene coinvolto in un processo, ma tutti quanti. Il sito verrà presentato lunedì alla Camera alle 16 con una conferenza stampa e sarà immediatamente operativo. Sarà possibile trovare una nutrita rassegna stampa sull’attuale dibattito sulla giustizia, tutte le sentenze di assoluzione prodotte dal disciplinare del Csm nei confronti di altrettanti magistrati messi sotto inchiesta, le statistiche sulla giustizia, gli attuali provvedimenti in discussione alla Camera. Ma la parte preponderante del sito sarà lasciata ai cittadini che vorranno raccontare le loro storie e denunciare ovviamente le loro esperienze, positive o negative che siano, quando hanno avuto a che fare con la macchina della giustizia. Quando l’antimafia soffoca le aziende: Clp, l’azienda commissariata che rischia di collassare di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 25 giugno 2021 L’informazione antimafia interdittiva, contenuta nel decreto del 10 settembre 2013 del Prefetto di Napoli, sta provocando non pochi problemi alla Clp, società del trasporto pubblico che con i suoi autobus collega Napoli a numerose località della Campania e di altre regioni. Il provvedimento prefettizio in piedi da quasi dieci anni si rese necessario a causa di alcuni “tentativi di infiltrazione mafiosa da parte della criminalità organizzata e tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi della stessa”. La vicenda, come detto, risale al 2013, e riguardò solo un ex socio con ricadute dirette, che si ripercuotono tuttora, su tutta l’azienda. La “Clp Sviluppo Industriale Spa” (circa 500 dipendenti) ha come socio unico la “G & FRE Società per azioni”. L’amministratore unico è Francesco Viale. Dall’azienda segnalano un paradosso: gli interessi e le attività degli ex soci di Clp sono stati lasciati impregiudicati. Tanto che questi nel frattempo sono diventati titolari di altre imprese di trasporto concorrenti proprio di Clp. Per cui, è proprio il caso di dirlo, c’è chi viaggia zavorrato e chi senza il peso di alcun provvedimento. “Tutti i dipendenti Clp - dice l’avvocato Luigi De Martino - stanno vivendo un’esperienza paradossale unica nel suo genere. L’azienda nel 2012 ha ricevuto dalla Regione Campania l’intero pacchetto di autolinee, impianti e personale della fallita Acms di Caserta. Siamo condizionati in tutto e per tutto dagli impedimenti che impone la legislazione in materia di interdittive, l’impossibilità di poter esprimere tutte le potenzialità di un imprenditore e dei suoi collaboratori, che si esternano con la partecipazione a gare pubbliche, marketing di settore e protocolli d’intesa operativi con i 130 Comuni serviti dai nostri autobus”. Dal 2015 la gestione societaria è riunita in un comitato esecutivo con due amministratori straordinari nominati dal Prefetto di Napoli. Lo sconforto per tale situazione non è poco e potrebbe trasformarsi in rabbia. “Qualsiasi iniziativa - prosegue De Martino è condivisa con i componenti del comitato esecutivo, professionisti prestati ad un’opera che è remunerata dalla stessa società, ma che umilia chi lavora onestamente, con dedizione e con passione, a partire dall’amministratore Viale fino ad arrivare all’ultimo dipendente”. All’origine dell’interdittiva vi furono alcune intercettazioni che coinvolsero Carlo Esposito (all’epoca titolare della società), il quale ebbe contatti con personaggi poco raccomandabili. Le intercettazioni, il cui contenuto - riferiscono i legali di Clp - non è conosciuto dall’azienda, riguardavano alcuni affari conclusi in Toscana da Esposito. Su questi fatti si è tra l’altro pronunciata la Corte di Cassazione. La Suprema corte non rilevò reati legati alla camorra. Ma questo è un aspetto collaterale. Il punto principale riguarda la prolungata provvisorietà dell’interdittiva antimafia abbattutasi su Clp e qualcuno vede in questo un disegno ben preciso. Quello, cioè, di indebolire una realtà aziendale che continua a muoversi sulle proprie gambe, nonostante le traversie affrontate. La Clp ha chiesto alla Prefettura di Napoli di esprimersi di nuovo per aggiornare i suoi orientamenti. L’auspicio dei vertici dell’azienda è che la revoca dell’interdittiva arrivi quanto prima. Il management è in possesso del requisito dell’onorabilità, unitamente ad una nuova governance monitorata e ai provvedimenti assunti in difesa della legalità. Significherebbe scrollarsi di dosso un fardello pesante e riappropriarsi di una reputazione offuscata per troppo tempo. Il calvario dell’imprenditore Mazzei: 10 anni sotto processo da innocente di Monica Musso Il Dubbio, 25 giugno 2021 L’uomo è stato assolto martedì sera dalla Corte d’appello di Catanzaro dopo essere stato condannato in primo grado a due anni di reclusione con sospensione della pena. Dieci anni prima di essere riconosciuto innocente. È quanto accaduto a Luigi Mazzei, imprenditore calabrese assolto martedì sera dalla Corte d’appello di Catanzaro dopo essere stato condannato in primo grado a due anni di reclusione con sospensione della pena e la non menzione per bancarotta fraudolenta patrimoniale, mentre era stato assolto per altri due capi di accusa per bancarotta fraudolenta. Mazzei era stato arrestato il 30 giugno 2011 per bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale, false fatturazioni, truffa ai danni dello Stato, falso ideologico, evasione fiscale, esportazione di capitali all’estero. Nell’inchiesta, coordinata dalla Procura di Lamezia Terme e condotta dalla Guardia di finanza, erano coinvolte a vario titolo altre 9 persone. Mazzei era stato arrestato mentre si trovava in barca, il 30 giugno 2011. Tre le aziende sequestrate: la Cofain di Falerna, fallita nel settembre del 2010 per quasi 100 mila euro, la Inveco con sede a Roma e filiale a San Ferdinando, a Gioia Tauro, e la Temesa Hotel & Resort proprietaria del Temesa Village, sul litorale lametino. L’ipotesi era che i finanziamenti pubblici ottenuti nel 2006 attraverso la legge 488/ 92 sugli incentivi all’industria dal ministero dell’Economia e il Por Calabria dalla Regione - 7 milioni ottenuti sui 18,6 milioni richiesti - fossero stati concessi grazie a fatturazioni falsificate con sistemi definiti “sofisticati” dal procuratore lametino Salvatore Vitello e dal sostituto Luigi Maffia, che avevano ottenuto i domiciliari per Mazzei, considerato a capo di tutta l’operazione. Il 13 settembre 2017, a conclusione del processo di primo grado, Mazzei fu condannato dal Tribunale di Lamezia in qualità di amministratore della Cofain, azienda che si occupava della produzione di serramenti, pannelli fotovoltaici ed edilizia, per la sola bancarotta fraudolenta, per aver distratto dalla società, quando era già in dissesto, fondi per 69.029 euro destinandoli alla Forest, una delle sue partecipate. Per il tribunale non era stata provata la restituzione del denaro da parte della Forest alla Cofain come sostenuto dal consulente dell’imputato e da Mazzei. Il 23 gennaio 2018 gli avvocati Francesco Gambardella e Paolo Carnuccio, difensori dell’imprenditore, hanno presentato appello sostenendo, dimostrando che da parte di Mazzei non c’era stata volontà di dissipare fondi della Cofain e che il finanziamento alla Forest non era un espediente. “Sono stato protagonista di una vicenda dolorosa, che, se da un punto di vista giudiziario si è conclusa in una bolla di sapone, ha avuto, per quanto mi riguarda personalmente, sia da un punto di vista umano che economico costi elevatissimi”, ha commentato Mazzei. “Ero un fruitore di finanziamenti agevolati, probabilmente uno dei pochi che ne era riuscito a fare corretto utilizzo. È proprio su questo, a mio avviso, che ci fu nei miei confronti del fumus. Così il mio nome e la mia credibilità vennero offuscati e le mie aziende, che avevano creato posti di lavoro e indotto, generando un importante gettito fiscale nei confronti dello Stato che in questo modo si era ripreso i fondi che aveva loro elargito, andarono in sofferenza fino al fallimento e alla chiusura - ha sottolineato. Oggi è stata riconosciuta l’assoluta legalità della mia condotta. Ma il corso della mia vita ha subito pesanti condizionamenti. La mia è una storia, come quelli di tanti altri, di ingiusta giustizia che ho deciso di raccontare in tutti i risvolti in un libro di prossima pubblicazione”. A Mazzei è arrivata la solidarietà del leader della Lega Matteo Salvini: “Nove anni e otto mesi di calvario, per poi uscire pulito perché il fatto non sussiste - ha commentato -. È la clamorosa vicenda dell’imprenditore Luigi Mazzei, arrestato nel 2011: l’ennesimo esempio di malagiustizia. Anche per questo vogliamo cambiare la giustizia, anche con i referendum”. Ambrogio Crespi fuori dal carcere. Per buone ragioni di Adriano Sofri Il Foglio, 25 giugno 2021 Il regista e militante radicale è stato rimesso in libertà, in attesa della decisione sulla domanda di grazia. L’ottimo motivo del tribunale: nella “valutazione del soggetto” si è tenuto conto della sua attività di diffusione di messaggi di legalità e lotta alla criminalità. Non sono solo contento, come qualunque persona appena normale, che Ambrogio Crespi, regista di “Spes contra spem” e militante radicale, sia uscito di galera. Sono confortato dalle ragioni di fondo che hanno persuaso il Tribunale di sorveglianza milanese a liberarlo, differendone la pena residua “fino a settembre”, in attesa della decisione sulla domanda di grazia. Il tribunale ha raccolto scrupolosamente tutti gli elementi a sostegno della decisione: il lungo tempo, otto anni, trascorso dai fatti che gli costarono la condanna, e riempito da un’attività fervida immune da qualunque trasgressione e anzi dedita all’impegno nonviolento contro le mafie, il giudizio favorevole della Procura e il parere dei responsabili della direzione antimafia nazionale e lombarda. Ha scritto, il tribunale, che Crespi “ha indirizzato le proprie capacità professionali verso produzioni pubblicamente riconosciute come di alto valore culturale, di denuncia sociale e impegno civile, ed efficaci strumenti di diffusione di messaggi di legalità e di lotta alla criminalità… Tale impegno, che lo ha portato ad essere identificato come esempio positivo dal pubblico e da chi gli ha conferito vari riconoscimenti, appare un elemento che può delinearsi come “eccezionale” nella valutazione del soggetto e delle ripercussioni di una pena detentiva applicata, a distanza di molti anni, proprio per un reato riconducibile alla criminalità mafiosa”. Tutto ben detto: ora sta a Crespi, a Sergio D’Elia e alle persone di buona e sensata volontà far tesoro dell’eccezionalità per suscitare la ragionevolezza. Per far sperare chi vive in disgrazia. Caso Persichetti, procura e riesame non pervenuti di Frank Cimini Il Riformista, 25 giugno 2021 Dopo il sequestro dell’archivio storico di Paolo Persichetti dove tra l’altro ci sono le carte per un nuovo libro sul caso Moro sembra esserci un gioco delle parti tra il Tribunale del Riesame e la procura. A fronte dell’istanza di dissequestro presentata dall’avvocato Francesco Romeo i giudici non hanno fissato la data dell’udienza perché la procura di Roma non ha depositato atti a supporto del sequestro e delle accuse di associazione sovversiva finalizzata al terrorismo e favoreggiamento di latitanti, reati per i quali Persichetti appare come l’unico indagato. Insomma chi indaga e chi dovrebbe controllare il lavoro degli inquirenti prendono tempo senza che Persichetti possa avere la possibilità non solo di ribattere alle accuse ma di cercare di riavere a disposizione il principale strumento del suo lavoro di storico. Il procuratore Michele Prestipino, la cui nomina è stata considerata irregolare dal Tribunale amministrativo regionale e dal Consiglio di Stato, e il sostituto Eugenio Albamonte ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati hanno scelto la linea del silenzio, di mantenere le carte coperte puntando sul disinteresse quasi generale per la vicenda appena scalfito a quanto pare dall’appello con 500 firme a tutela della ricerca storica indipendente. Insomma nulla è possibile sapere di questa fantomatica associazione sovversiva che opererebbe secondo le motivazioni scritte nel decreto di perquisizione da almeno sei anni, divulgando molto presunti atti segreti prodotti e/o elaborati dalla commissione parlamentare di inchiesta sul caso Moro. Una commissione che non è stata ricostituita in questa legislatura ma che continua a pendere con una spada di Damocle sulla vita politica e giudiziaria del paese, nonostante le sue teorie dietrologiche e complottarde non abbiano trovato alcun riscontro, a cominciare dalle tonnellate di atti processuali dove persino “pentiti” e “dissociati” affermino che dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse e non pezzi di servizi segreti di mezzo mondo. Persichetti con la sua attività e i suoi libri ha contribuito enormemente a confutare i dietrologi che però continuano a riscuotere le simpatie delle alte cariche dello Stato perché il più attivo a dire che bisogna ancora cercare “la verità” è il presidente della Repubblica il quale come capo supremo del Csm avrebbe ben diverse e altre trame di cui occuparsi. A iniziare dalla famosa loggia Ungheria di cui i giornali hanno smesso praticamente di scrivere. La sensazione è che la magistratura e la politica in questo unite nella lotta abbiano un interesse spasmodico a convincere della caratteristica ancora “calda” dell’argomento anni ‘70, con l’attenzione rivolta soprattutto a Parigi chiamata a decidere sull’estradizione di nove rifugiati, “la banda dei nonni” per fatti di 40 anni fa. Anzi 50 considerando che ieri nella capitale francese c’è stata l’udienza per Giorgio Pietrostefani, condannato per il delitto Calabresi, 17 maggio 1972. Rems, i 14 quesiti della Consulta sulle difficoltà di accesso di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 giugno 2021 La Corte ha disposto un’istruttoria, sulla questione sollevata dal giudice di sorveglianza di Tivoli, con domande ai ministeri della Giustizia e della Salute, alla Conferenza delle Regioni e all’Ufficio parlamentare di bilancio. La Corte costituzionale ha depositato una ordinanza in merito alla questione sollevata dal giudice di sorveglianza di Tivoli sulle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Ha disposto una istruttoria sulle difficoltà dell’applicazione di tali misure, indirizzando un pacchetto di quattordici domande ai ministeri della Giustizia e della Salute, la Conferenza delle Regioni e l’Ufficio parlamentare di bilancio. La Consulta chiede di chiarire se esistano forme di coordinamento - Nei 14 punti elencati nell’ordinanza si chiede, fra l’altro, di chiarire se esistano, allo stato, forme di coordinamento tra il ministero della Giustizia, il ministero della Salute, le Asl e i Dipartimenti di salute mentale volte ad assicurare la pronta ed effettiva esecuzione, su scala regionale o nazionale, dei ricoveri nelle Rems; se sia prevista la possibilità dell’esercizio di poteri sostitutivi del governo nel caso di riscontrata incapacità di assicurare la tempestiva esecuzione di tali provvedimenti nel territorio di specifiche Regioni e se le difficoltà riscontrate siano dovute a ostacoli applicativi, all’inadeguatezza delle risorse finanziarie o ad altre ragioni. Il Gip di Tivoli ha sollevato la legittimità costituzionale della disciplina sulle Rems - L’intervento della Corte è stato sollecitato da un Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Tivoli, che aveva disposto il ricovero di un imputato in una residenza per l’esecuzione di una misura di sicurezza. A distanza di quasi un anno dal provvedimento, la misura era rimasta ineseguita a causa della carenza di posti disponibili nelle Rems della Regione Lazio. Il giudice aveva allora sollevato questione di legittimità costituzionale della disciplina sulle Rems, che affida ai sistemi sanitari regionali una competenza esclusiva nella gestione delle misure di sicurezza privative della libertà personale disposte dal giudice penale. Secondo il giudice, questa disciplina, sollevando il ministro della Giustizia da ogni responsabilità in materia, contrasta in particolare con la sua competenza costituzionale in materia di “organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”, prevista dall’articolo 110 della Costituzione. La Corte vuole acquisire informazioni sul funzionamento delle Rems - La Corte costituzionale ha quindi ritenuto necessario acquisire, ai fini della decisione, una serie di informazioni concernenti il funzionamento concreto del sistema delle Rems, introdotto a partire dal 2012 in sostituzione di quello degli Opg. La questione non è di poco conto. Qui è in gioco lo scopo per il quale sono nate le Rems. Il Gip di Tivoli reclama il ripristino della competenza al ministero della Giustizia - Ricordiamo che il Gip di Tivoli, attraverso l’ordinanza, reclama dunque il ripristino della competenza in capo al ministro della Giustizia in relazione all’esecuzione della misura di sicurezza detentiva, nel caso di specie provvisoria, per malati psichiatrici autori di reato. Di fatto mette così in discussione il principio cardine che supera la logica manicomiale: ovvero l’esclusiva gestione sanitaria delle Rems, affidate esclusivamente alla sanità pubblica regionale, senza alcun potere decisionale o organizzativo del ministero della Giustizia; le ridotte dimensioni per evitare l’”effetto-manicomio”: la capienza massima di ogni Rems non deve superiore ai 20 posti. La Corte costituzionale ha disposto che venga depositata una relazione entro 90 giorni - Una dimensione assimilabile a quella delle comunità terapeutiche, ma superiore a quella dei Servizi psichiatrici di Diagnosi e Cura (Spdc) ospedalieri. La Consulta, però, prima di decidere, ha deciso di vederci chiaro. Per questo ha disposto che, “entro novanta giorni dalla comunicazione della presente ordinanza, il ministro della Giustizia, il ministro della Salute e il presidente della Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, (…) il presidente dell’Ufficio parlamentare di bilancio (…) depositino una relazione, per quanto di rispettiva competenza”, in merito ai quesiti posti. Misure di sicurezza nelle Rems, prima di decidere la Consulta dispone una istruttoria di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 giugno 2021 I ministeri della Giustizia e Salute, la Conferenza delle Regioni e l’Ufficio parlamentare di bilancio dovranno fornire informazioni in relazione alle difficoltà registrate nell’applicazione concreta delle misure. Come funziona nel dettaglio il meccanismo attuativo del ricovero nelle Rems? La Consulta prima di decidere su una ordinanza che ha sollevato questione di legittimità costituzionale sull’attuale assetto che di fatto esclude dal processo decisionale il Ministero della Giustizia, vuole vederci chiaro. La Corte ha così disposto che Via Arenula, il Ministero della Salute, la Conferenza delle Regioni e l’Ufficio parlamentare di bilancio forniscano una serie di informazioni sulle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (che hanno sostituito dal 2012 gli Ospedali psichiatrici giudiziari, OPG) in relazione alle difficoltà registrate nell’applicazione concreta delle misure di sicurezza nei confronti degli autori di reato infermi di mente e socialmente pericolosi. Con l’ordinanza n. 131 (redattore Francesco Viganò), depositata oggi, dunque, si concedono alle Amministrazioni 90 giorni per fornire le informazioni richieste, raggruppate in 14 punti. L’intervento della Corte è stato sollecitato da un Gip del Tribunale di Tivoli, che aveva disposto il ricovero di un imputato in una residenza per l’esecuzione di una misura di sicurezza. A distanza di quasi un anno dal provvedimento, la misura era rimasta ineseguita a causa della carenza di posti disponibili nelle REMS della Regione Lazio. Il giudice ha dunque sollevato questione di legittimità costituzionale della disciplina sulle REMS, che affida ai sistemi sanitari regionali una competenza esclusiva nella gestione delle misure di sicurezza privative della libertà personale disposte dal giudice penale. Secondo il giudice, questa disciplina, sollevando il ministro della Giustizia da ogni responsabilità in materia, contrasta in particolare con la sua competenza costituzionale in materia di “organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”, prevista dall’articolo 110 della Costituzione. La Corte costituzionale ha dunque ritenuto necessario acquisire, ai fini della decisione, una serie di informazioni concernenti il funzionamento concreto del sistema. Nei 14 punti elencati nell’ordinanza si chiede, fra l’altro, di chiarire se esistano, allo stato, forme di coordinamento tra il ministero della Giustizia, il ministero della Salute, le ASL e i Dipartimenti di salute mentale volte ad assicurare la pronta ed effettiva esecuzione, su scala regionale o nazionale, dei ricoveri nelle REMS; se sia prevista la possibilità dell’esercizio di poteri sostitutivi del Governo nel caso di riscontrata incapacità di assicurare la tempestiva esecuzione di tali provvedimenti nel territorio di specifiche Regioni e se le difficoltà riscontrate siano dovute a ostacoli applicativi, all’inadeguatezza delle risorse finanziarie o ad altre ragioni. Ma anche quante e quali siano, attualmente, le residenze attive sul territorio di ciascuna Regione e quanti pazienti siano effettivamente ospitati in ciascuna di esse. Quanti pazienti provenienti da Regioni diverse siano ospitati attualmente nelle REMS di ciascuna Regione, e come sia regolamentato il meccanismo di deroga al principio di territorialità dell’esecuzione della misura. Quante persone risultino attualmente collocate, in ciascuna Regione, nelle liste d’attesa e quanto sia il tempo medio di permanenza in tali liste. Quante siano, su scala nazionale, le persone destinatarie di un provvedimento di assegnazione a una REMS ancora non eseguito, adottato in via definitiva o provvisoria dal giudice. Ma anche quali siano, ovvero siano stati nel caso di persone definitivamente prosciolte per infermità di mente, i titoli di reato contestati. Quante di tali persone risultino allo stato collocate in una struttura penitenziaria sulla base di ordinanze di custodia cautelare, ovvero in reparti ospedalieri di medicina psichiatrica sulla base di ordinanze di custodia cautelare in luogo di cura, o ancora siano sottoposte medio tempore alla misura di sicurezza della libertà vigilata, come nel caso oggetto del giudizio a quo. E ancora: quali siano le principali difficoltà di funzionamento dei luoghi di cura per la salute mentale esterni alle REMS per gli imputati e le persone prosciolte in via definitiva che siano risultati affetti da infermità mentale; quali specifiche competenze esercitino, in particolare, il ministro della Giustizia e il ministro della Salute rispetto a tale obiettivo; se il ricovero nelle REMS, ove disposto dal giudice, nonché gli altri trattamenti per la salute mentale disposti sulla base di un provvedimento di libertà vigilata rientrino nei livelli essenziali di assistenza (LEA) che le Regioni sono tenute a garantire; se sia attualmente effettuato dal Governo uno specifico monitoraggio sulla tempestiva esecuzione dei provvedimenti di applicazione delle misure di sicurezza in esame. E infine se siano allo studio progetti di riforma legislativa, regolamentare od organizzativa per alle predette difficoltà e rendere complessivamente più efficiente il sistema. Anticipata la decorrenza dell’affidamento solo se il precedente percorso terapeutico era limitante di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 25 giugno 2021 Il riconoscimento ai fini della pena del periodo del trattamento volontario intrapreso prima della condanna si basa su limitazioni della libertà. L’affidamento in prova speciale consente di anticipare l’inizio dell’esecuzione della pena - rispetto alla data del verbale di affidamento del giudice di sorveglianza - ma solo se in precedenza il condannato si era sottoposto a un trattamento terapeutico di disintossicazione che prevedesse misure limitative della libertà personale. E come spiega la sentenza n. 24681/2021, non equivale ad alcuna forma di restrizione personale la circostanza che tale trattamento precedente comportasse incontri cadenzati, psicoterapia o esami clinici. Secondo la difesa andava invece dato rilievo al positivo atteggiamento del soggetto alcolista consistito nell’essersi adeguato al rispetto degli impegni cadenzati dalla struttura cui si era rivolto e che lo seguiva prima di eseguire la condanna nella forma alternativa dell’affidamento in prova previsto per chi ha dipendenze. Quindi la pena detentiva - convertita in affidamento - conseguente alla condanna per il reato in materia di stupefacenti andava considerata in parte espiata col precedente volontario percorso di recupero. La norma al centro dell’interpretazione della sentenza di legittimità è l’articolo 94 del Dpr 309/1990 e in particolare il comma che recita: “L’esecuzione della pena si considera iniziata dalla data del verbale di affidamento, tuttavia qualora il programma terapeutico al momento della decisione risulti già positivamente in corso, il tribunale, tenuto conto della durata delle limitazioni alle quali l’interessato si è spontaneamente sottoposto e del suo comportamento, può determinare una diversa, più favorevole data di decorrenza dell’esecuzione”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Scontro tra giudice e procura sulle violenze in carcere di Nello Trocchia Il Domani, 25 giugno 2021 Il 6 aprile 2020, nel carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere, un gruppo di agenti penitenziari, provenienti da altri istituti di pena, ha picchiato brutalmente i detenuti. Fatti che vengono citati in un procedimento giudiziario riguardante violenze perpetrate da 4 detenuti contro i poliziotti. La giudice, respingendo le misure cautelari richieste a carico di quattro cittadini stranieri, aggiunge un particolare riferendosi agli “asseriti maltrattamenti subiti”, quelli commessi dalla Polizia penitenziaria precedenti alle violenze dei detenuti: “Profilo rispetto al quale, peraltro, non sono stati fatti approfondimenti di tipo investigativo”. Il 6 aprile, nel carcere “Francesco Uccella” di Santa Maria Capua Vetere, un gruppo di agenti penitenziari, provenienti da altri istituti di pena, ha picchiato brutalmente i detenuti. Domani ha raccontato quanto accaduto, rivelato la presenza di video a riscontro, i “non ricordo” dei vertici del Dap, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. L’indagine in corso riguarda un centinaio di soggetti. La vicenda non ha avuto ancora un esito disciplinare o giudiziario, né attraverso l’esecuzione di misure personali né attraverso la notifica di un avviso di conclusione delle indagini, ma intanto trova un riferimento nelle carte di un’inchiesta che riguarda le violenze commesse, successivamente ai fatti del 6, da alcuni detenuti contro alcuni agenti della polizia penitenziaria che nulla c’entravano con quel pestaggio. E su queste violenze commesse da alcuni reclusi si consuma uno scontro tra procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, la stessa che indaga sul pestaggio del 6 aprile, e il giudice per le indagini preliminari. Emerge dall’ordinanza del tribunale del riesame di Napoli che ha accolto il ricorso della procura e ordinato l’esecuzione delle misure cautelari bocciate dal primo giudice. I fatti si sono svolti il 12 giugno dello scorso anno e vedono protagonisti quattro cittadini stranieri, detenuti nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. Minaccia a pubblico ufficiale, incendio, danneggiamento, lesioni personali sono i reati contestati, a vario titolo, a Houssin Mouamir, Mohamed Chiri, Beladim Mahdi per i quali la procura ha chiesto la misura cautelare in carcere. La pubblica accusa ha poi chiesto per un altro detenuto Dimitar Dimitrov gli arresti domiciliari per fatti avvenuti il 13 giugno, il giorno dopo. I maltrattamenti - La giudice Rosaria Dello Stritto, nonostante le violenze commesse dai soggetti indagati contro i poliziotti penitenziari, lo scorso ottobre, respinge la richiesta della procura con una motivazione che fa riferimento anche ai pestaggi subiti dai detenuti precedentemente. “Dalle risultanze investigative è emerso che gli indagati si sono determinati a commettere i fatti contestati in ragione del loro stato detentivo, ovvero per protestare a fronte di asseriti maltrattamenti patiti in precedenza a opera degli agenti di polizia penitenziaria”, scrive nell’ottobre scorso. E in riferimento agli “asseriti maltrattamenti subiti”, scrive: “profilo rispetto al quale, peraltro, non sono stati fatti approfondimenti di tipo investigativo”. La giudice, insomma, bacchetta la procura che non avrebbe svolto indagini sui fatti del 6 aprile, ma non è così. L’indagine c’è, ma è in un altro procedimento penale, precisa la procura negli atti. Per bocciare la richiesta di misure cautelari, la giudice prosegue con un’analisi del contesto. “Deve aggiungersi, come è noto, che dette condotte si inseriscono in un contesto storico-temporale caratterizzato da un clima di particolare tensione negli istituti penitenziari, in ragione della difficoltà di gestire in detti ambienti le problematiche connesse alla diffusione epidemiologica del Covid 19”. La conclusione della giudice è quindi che il carcere non arginerebbe il pericolo di recidiva, ma “lo amplificherebbe”, e anche i domiciliari sono inapplicabili perché a casa “non avrebbero ragioni per reiterare le condotte”. Ma la pubblica accusa presenta ricorso al riesame. Condotte ingiustificate - “La fondatezza di eventuali maltrattamenti subiti non giustificherebbe le gravissime condotte poste in essere dagli indagati che non si limitavano a una mera protesta, bensì sfociavano in gravissimi atti di violenza ai danni di agenti penitenziari, senza distinzione alcuna di persona, tant’è che ne veniva investito per lo più personale operante temporaneamente distaccato da altro istituto carcerario, quello di Benevento, che nulla avrebbe in ogni caso avuto a che fare con i paventati maltrattamenti”, scrive il riesame riportando il ricorso della procura, guidata da Maria Antonietta Troncone. Riesame che ha accolto il ricorso della procura con un’ordinanza depositata, una settimana fa. I fatti, i profili dei soggetti, gli atti di violenza commessi impongono “massima riprovazione sul piano del disvalore penale dei fatti in contestazione”, si legge nel provvedimento del riesame, firmato dai giudici Pietro Carola, Mariaraffaella Caramiello, Elisabetta Catalanotti. Per i fatti contestati uno dei detenuti, Mohamed Chiri, già condannato per rapina e resistenza, in sede di interrogatorio, ha raccontato il clima molto teso di quei giorni, gli atti di autolesionismo di un altro recluso e la morte di un detenuto, vittima dei pestaggi del 6 aprile, pestaggi che avrebbe visto, ma non subito. “In sede di interrogatorio ho chiesto la revoca della misura visto che è trascorso, ormai, un anno da fatti, a mio avviso, il primo giudice aveva ragione perché queste vicende sono maturate in un contesto particolare”, dice l’avvocato Leonardo Pompili che difende Chiri. Sul punto relativo agli atti di autolesionismo, i giudici del riesame hanno chiarito che erano praticati solo per reiterare richieste di trasferimento prima di parlare di “azioni concertate e premeditate, realizzate con ferocia e inaudita violenza”. Così i quattro sono stati arrestati e, oggi, è prevista l’udienza preliminare. Per i fatti, invece, del 6 aprile, a cui si fa riferimento negli atti d’indagine, dopo la notifica del decreto di perquisizione a carico di 57 indagati, non ci sono stati nuovi sviluppi giudiziari, ma l’inchiesta prosegue. Reggio Emilia. Il carcere reggiano è covid-free dopo 217 contagiati su 330 detenuti di Manuela Catellani reggionline.com, 25 giugno 2021 Oggi il carcere di Reggio è Covid Free, ma a febbraio, quando la variante inglese ha superato le mura della casa circondariale, la situazione era diventata critica. Il focolaio è arrivato a contare fino a 217 positivi sui 330 detenuti. In 17 sono stati ricoverati in ospedale, due in terapia intensiva. Gli altri sono stati gestiti all’interno della struttura. Per questo la celebrazione del 204° anniversario della fondazione del corpo di Polizia penitenziaria quest’anno ha assunto un significato importante. “Festa densa di significato - le parole di Lucia Monastero, direttrice del carcere reggiano - Abbiamo superato un periodo di grande criticità che ci aveva investito”. Secondo la direttrice Monastero oggi non ci sono problemi di organico: “In questo momento non parliamo di sovraffollamento perché in quei mesi sono state bloccate le assegnazioni agli ingressi. Adesso la popolazione sta tornando a crescere, ma siamo ancora a un livello numerico adeguato”. Il sindacato Sappe denuncia però le gravi carenze del personale, già provato dalla gestione della pandemia. “L’organico prevede 240 agenti, a oggi siamo 175 - dice il segretario provinciale Michele Malorni - A luglio terminerà il corso di formazione, è assolutamente necessario che il ministero della giustizia assegni a Reggio nuove unità”. Bergamo. Reinserimento sociale e lavoro, in carcere un corso in confezione tessile L’Eco di Bergamo, 25 giugno 2021 Un nuovo progetto di formazione, riabilitazione e reinserimento sociale nel carcere. Ha preso il via un importante progetto rivolto a favorire il reinserimento sociale dei detenuti e delle detenute di Bergamo che vede la collaborazione di Comune di Bergamo - Ambito Territoriale di Bergamo, Casa Circondariale di Bergamo Don Fausto Resmini, ABF - Azienda Bergamasca Formazione, Confindustria Bergamo e Soroptimist International Bergamo nel sostenere percorsi formativi innovativi centrati sul valore sociale del lavoro. In particolare, si tratta di un percorso formativo in confezione tessile suddiviso in un corso base, previsto tra giugno e luglio, e in uno avanzato da tenersi nell’autunno 2021. Il primo, già in corso, è rivolto a circa 10 detenuti presso la sede di ABF, e a 8/10 detenute impegnate nel nuovo laboratorio di confezione in corso di allestimento nel carcere, grazie al sostegno di Soroptimist. Tre gli obiettivi del percorso: l’acquisizione di competenze in previsione di un potenziale avvicinamento dei detenuti al mondo del lavoro, una volta scontata la pena; la possibilità di ricevere piccole commesse e lavorarle in carcere, grazie all’allestimento intra moenia del laboratorio di confezione tessile; la necessità di dare un senso alla pena attraverso la rieducazione e il successivo reinserimento nella società. Ricordiamo che in Italia circa il 70% delle persone che escono dal carcere a pena espiata recidivano contro il 19% delle persone che espiano la pena in misura alternativa al carcere. “Il lavoro rappresenta un mezzo di risocializzazione e una fonte di sostegno di grande importanza, oltre che uno strumento di riabilitazione per coloro che sono sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria che si dimostra fondamentale per scongiurare la recidiva - dichiara l’assessora alle Politiche sociali Marcella Messina. La cultura al lavoro è una leva fondamentale per il percorso di riabilitazione e va sostenuta con iniziative come questa che, in più, affermano e consolidano un modello di intervento integrato e multidisciplinare per l’inclusione sociale e lavorativa in cui diversi soggetti territoriali concorrono nel proporre un’offerta di servizi sinergici”. “Il lavoro è veicolo di risocializzazione, di salvaguardia della propria dignità ed è un elemento che consente realmente all’autore di reato di poter scegliere la strada della legalità - afferma la direttrice del Carcere di Bergamo Don Fausto Resmini Teresa Mazzotta. Il principio espresso dall’art. 27, comma 3, della Costituzione fa emergere l’esigenza di concentrare gli sforzi su un’azione di rete tra l’istituzione penitenziaria, il territorio e la magistratura di sorveglianza per il reinserimento della persona privata della libertà personale nella società. Per questo è indispensabile la mobilitazione congiunta e, ancor prima, destare l’interesse dell’opinione pubblica”. “La promozione di percorsi formativi efficaci che favoriscono l’avvicinamento al mondo del lavoro attraverso l’acquisizione di competenze certificate da Regione Lombardia rappresenta una grande opportunità non solo per le persone coinvolte, ma per l’intero sistema territoriale” “aggiunge Erminio Salcuni, direttore di ABF Il Soroptimist International Club Bergamo continua a sostenere la Casa Circondariale di Bergamo dopo l’esperienza vissuta nel 2019 con l’allestimento del laboratorio Hair Stylist dove si è tenuto un corso per parrucchiera che riprenderà il prossimo settembre. “Aderendo a questo progetto, il Club ha assunto l’impegno di attrezzare il neonato laboratorio di cucito con l’acquisto delle attrezzature per 7 postazioni di cucito più due da stiro e tutti gli accessori necessari. Confartigianato Imprese Bergamo ha espresso l’intenzione di contribuire all’acquisto degli accessori mentre la socia del Club Bergamo Fernanda Maggioni (Azienda Agatex) ha donato 4 rulli di tessuto per camicie e del filo da cucire in diversi colori - racconta la presidente del Soroptimist International Club Bergamo Ivana Suardi -. La Mission della nostra Associazione prevede il sostegno alle donne fragili e in questo caso anche agli uomini ristretti. Tutto questo rientra nel progetto nazionale “Si sostiene in Carcere” che ha coinvolto dal 2019 più di cinquanta Club Italiani”. “Grazie a un’azione corale - sottolinea Chiara Ferraris, presidente del Gruppo Tessili e Moda di Confindustria Bergamo - è stato possibile mettere a punto una proposta di grande serietà, fortemente condivisa da tutti i soggetti in campo, che mette al centro il lavoro e il suo significato sociale. Abbiamo dato il nostro apporto a questo progetto fin dalle primissime fasi, sia in termini di competenze, sia favorendo la donazione dei materiali da parte delle nostre aziende. L’obiettivo è ora dare sempre più corpo a questa esperienza, favorendo concrete opportunità di reinserimento”. Cagliari. Teatro in carcere, 20 detenuti sul palcoscenico a Uta ansa.it, 25 giugno 2021 Progetto nazionale, in scena Arcipelaghi di Maria Giacobbe. Venti detenuti, quattro nazionalità di provenienza (Algeria, Italia, Nigeria, Venezuela), due laboratori. E poi tutti sul palco, mercoledì 30 giugno al carcere di Uta, per mettere in scena “Arcipelaghi”, tratto dal romanzo della scrittrice nuorese Maria Giacobbe. Dietro, un anno di prove in cui, divisi per classi, hanno seguito con grande attenzione e disciplina i corsi organizzati e tenuti dal Cada Die Teatro. “È un momento che sia noi che i ragazzi aspettavamo da tanto - spiega l’attore Pierpaolo Piludu, ideatore del progetto assieme ad Alessandro Mascia - Sarebbero dovuti andare in scena l’anno scorso, ma per i noti motivi legati alla pandemia abbiamo dovuto posticipare. Si sono preparati con dedizione, hanno studiato durante i laboratori, ma anche da soli, quando poi tornavano nelle loro celle”. L’idea messa a punto dai due artisti del Cada Die è parte del programma nazionale “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere con la cultura e la bellezza” (terza edizione), promosso da Acri (Associazione di Fondazioni e di Casse di Risparmio) e sostenuto da 10 Fondazioni bancarie, tra cui la Fondazione di Sardegna. Approfittando di uno spazio musicale e di una piccola falegnameria a disposizione dei detenuti sono nati anche due laboratori: uno col percussionista Giorgio Del Rio e l’altro di scenografia con Marilena Pittiu. “Questa bellissima e terribile storia è una riflessione profonda sia sui temi della violenza, della vendetta e della pena, che sulle debolezze e difficoltà che possono spingere qualsiasi essere umano a compiere azioni delittuose. È un invito a metterci nei panni di tutti i protagonisti della storia facendoci riflettere sul dolore che ogni nostro comportamento può determinare in altri esseri umani”, ha spiegato Piludu. Anche il direttore dell’istituto di Uta, Marco Porcu appoggia il progetto: “Al termine di un lungo periodo reso difficile dalle inevitabili restrizioni in tutti gli Istituti Penitenziari derivanti dal Covid, esprimo grande soddisfazione e gratitudine per la realizzazione dello spettacolo. Il laboratorio teatrale è sempre accolto con entusiasmo dai ristretti”. Termini Imerese (Pa). Nasce “Spazio lib(e)ro”, la nuova biblioteca del carcere madoniepress.it, 25 giugno 2021 Un luogo di incontro che diviene contesto di scambio e confronto, polo attorno al quale tutte le attività culturali e interculturali dell’Istituto. Venerdì 25 giugno 2021, alle ore 15,30 verrà inaugurata Spazio lib(e)ro, la nuova biblioteca tra le mura del carcere di Termini Imerese. “Sarà un luogo di incontro che diviene contesto di scambio e confronto, polo attorno al quale tutte le attività culturali e interculturali dell’Istituto potranno ruotare”, sostiene Carmen Rosselli - direttrice della Casa Circondariale Antonino Burrafato che insieme a Patrizia Graziano, dirigente dell’Istituto di Istruzione Superiore G. Ugdulena di Termini Imerese hanno fortemente voluto questo luogo. “Oggi più di prima - sostiene Patrizia Graziano - la nuova biblioteca diviene simbolo di ripartenza dopo le dure restrizioni dovute all’emergenza sanitaria in corso”. “Ma insieme alla direttrice della Casa circondariale e alla preside della scuola, una squadra tutta al femminile ha lavorato con tenacia e determinazione affinché la cultura potesse essere divulgata nel migliore dei modi - esordisce la capo area delle attività rieducative, Giuseppina Pastorello - A partire dalla comandante di reparto che dirige il servizio di sicurezza del carcere, Maria Pia Campanale per finire alle insegnanti Valentina Rinaldo e Silvana Moscato responsabili della biblioteca: una sensibilità, dunque, quella femminile, che ha permesso di realizzare un progetto che all’inizio presentava diverse difficoltà”. “È uno spazio realizzato grazie all’intesa tra il Miur attraverso il Centro Provinciale Istruzione Adulti (Cpia Palermo 2) operante all’interno della Casa circondariale, e il Ministero della Giustizia - dice Valentina Rinaldo - è il frutto di un lungo lavoro di ristrutturazione, grazie all’impegno e alla dedizione dei detenuti. Sono stati riportati alla luce soffitti storici e cornici in pietra nascosti da anni di intonaco; le sbarre sono state coperte da tende colorate e le poltrone hanno sostituito gli sgabelli di legno. Il patrimonio librario grazie alla generosa donazione di editori siciliani si è arricchito di pregevoli volumi fino a contarne quattromila”. A questo proposito un particolare ringraziamento va ad Antonio Sellerio che ha impreziosito la biblioteca con 300 libri della collana Memoria, alle Edizioni Arianna con un altro centinaio e soprattutto a tutte quelle persone, coordinate dai volontari Carmen Lo Presti e Nino Balsamo, che hanno sposato l’iniziativa donando sia libri che denaro con il quale lo Spazio Lib(e)ro ha preso via via forma. “Insieme ai detenuti, abbiamo riorganizzato il patrimonio librario esistente e quello di nuova acquisizione - racconta Giovanni Fasola - insegnante della sezione carceraria dello Stenio e volontario che ha curato la catalogazione della biblioteca. I detenuti stanno imparando con me il mestiere di bibliotecario in modo da gestire in autonomia questo spazio che già sentono proprio; mentre montavamo le librerie, uno di loro ha scelto dei versi di Hikmet da dedicare alla moglie”. “Ma a conclusione dei lavori adesso la sfida, forse la più importante, è quella di accompagnare i detenuti alla pratica della lettura come occasione di rigenerazione e divertissement di pascaliana memoria - afferma Valeria Monti, curatrice dei laboratori di lettura ad alta voce -. Laboratori che hanno già portato risultati incoraggianti a giudicare dalle continue richieste arrivate al servizio di prestito bibliotecario anche durante i lavori in corso”. Un lavoro corale, dunque, che verrà presentato venerdì pomeriggio, davanti a una rappresentanza istituzionale, purtroppo in forma ristretta viste le azioni di contenimento causa Covid. Per l’occasione i detenuti si cimenteranno nella lettura ad alta voce di brani scelti, proprio a sancire un nuovo inizio della biblioteca. A conclusione poi, nei prossimi giorni, l’Accordo di Rete tra Spazio lib(e)ro, la biblioteca Liciniana del Comune di Termini Imerese e la biblioteca dell’Istituto Ugdulena dello stesso territorio: “L’Accordo è espressione di fattiva e proficua collaborazione tra le istituzioni scolastiche, penitenziaria e comunale e rappresenta una valida opportunità di scambio, apertura nel processo di integrazione sociale e territoriale” commenta la direttrice della Biblioteca Liciniana, Claudia Raimondo. Alessandria. L’omaggio dei detenuti all’Alighieri di Marina Lomunno La Voce e il Tempo, 25 giugno 2021 La “Commedia” del Sommo Poeta come allegoria della vita carceraria, un viaggio nelle fiamme dell’Inferno con il peso della propria pena da cui, se non ti penti, rimarrai inchiodato per sempre. Ma se ritorni in te stesso, aiutato dall’incontro con educatori, agenti, magistrati, garanti, cappellani, volontari puoi salire al Purgatorio e perché no, anche in Paradiso. È assolutamente da visitare la mostra “Nel mezzo del cammin di nostra vita...” allestita dal 21 giugno al 12 luglio nelle vetrine dell’Urp del Consiglio regionale del Piemonte di via Arsenale 14/G, a Torino, perché tutti possiamo trovare nei quadri in esposizione un pezzo delle nostre reclusioni interiori anche se siamo “liberi”. Ispirata alle illustrazioni dell’incisore francese Gustave Dorè per la “Divina Commedia” nell’Ottocento, l’esposizione è realizzata dai detenuti della Casa di reclusione San Michele di Alessandria e promossa dall’Assemblea regionale su proposta del garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà del Piemonte. “Nel 700° anniversario della morte di Dante” spiega il garante Bruno Mellano “è particolarmente significativo che siano le persone recluse a immedesimarsi nei personaggi dei gironi danteschi e a utilizzare la chiave della cultura ‘alta’ per parlare delle miserie umane, proprie di chi vive recluso nelle patrie galere, per raccontarsi e riaffermare la propria dignità personale attraverso disegni, incisioni e stampe xilografi che. Sono loro i dannati che diventano i protagonisti della ‘Commedia’ raccontandosi anche con ironia e riflettendo sul loro vissuto”. Un lavoro d’eccezione in sedici pannelli, frutto dell’impegno congiunto dei volontari dell’Associazione “Ics ets” di Alessandria nell’ambito del progetto “Artiviamoci” e dei volontari dell’Associazione “Passo dopo passo”. I volontari della Onlus Ics, 60 professionisti in pensione coordinati dal presidente Piero Sacchi, architetto e scenografo che dal 2010 si dedica alla formazione dei reclusi, “creando un ponte tra apprendisti liberi e ristretti” e realizzando con gli altri volontari, (architetti, docenti, pittori ecc.) opere che sono state esposte ad Alessandria, ad esempio nell’ospedale, nell’intento di creare un legame fra la cittadinanza e il mondo penitenziario. “Un gruppo con professionalità artistiche che ha messo a disposizione un volontariato di qualità che contribuisce a portare all’interno del grigiore del carcere la bellezza” prosegue Mellano “e mettendo in pratica attraverso l’arte l’articolo 27 della nostra Costituzione che recita ‘che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato’”. E così ecco Caronte che traghetta i condannati nelle sezioni, o Virgilio che si ferma a colloquio con i detenuti, o la Selva oscura dove si ritrovano i reclusi quando “nel mezzo del cammin di nostra vita” inciampi e vieni separato dai tuoi cari e dalla visione del cielo che puoi solo immaginare dalle sbarre di una cella. Gli scatti dei pannelli sono dei fotografi Monica Dorato, Bruno Appiani e Valter Ravera: giovedì 24 giugno alle 11, in piazza San Carlo, in occasione della festa patronale di san Giovanni a Torino, l’iniziativa viene presentata nello Spazio Incontri di “Portici di carta”: con Bruno Mellano intervengono il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Pierpaolo D’Andria, la garante dei detenuti di Alessandria Alice Bonivardo e gli animatori di “Artiviamoci”. Ddl Zan, il Vaticano non trova sponde. E spera che (alla fine) il governo possa mediare di Massimo Franco Corriere della Sera, 25 giugno 2021 Il cardinale Pietro Parolin: “Concordo con Draghi, lo Stato italiano è laico. Se il Papa era stato informato? Lo facciamo sempre”. “Mario Draghi non poteva che dire quanto ha detto in Parlamento. Sa che il Vaticano vuole una mediazione, e credo sia la stessa intenzione del governo...”. Il messaggio che arriva dai vertici della Santa Sede è di chi ritiene di avere compiuto una mossa obbligata, e di avere ricevuto una risposta. E adesso si prepara a una trattativa lunga e difficile, avendo di fronte non Palazzo Chigi ma un Parlamento percorso da fremiti ideologici che al momento sembrano non dare spazio al dialogo; e soprattutto mostrano uno schieramento che va dal M5S al Pd, aggrappato in apparenza alla bandiera della legge Zan sull’omofobia così com’è, quasi fosse una sorta di confine invalicabile tra progresso e reazione. L’imbarazzo delle gerarchie ecclesiastiche - L’ostacolo più serio sono “le due tifoserie che si combattono a colpi di ideologia”, impedendo qualunque passo avanti. Il primo effetto è che si incrina la collaborazione stretta, perfino la subalternità della Chiesa cattolica allo Stato italiano nei mesi della pandemia. E la paura è che questo faccia riemergere un fronte ostile al Concordato. Il paradosso politico è che a difendere il Vaticano sono Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia: partiti considerati non in sintonia con l’attuale pontificato su temi dirimenti come l’immigrazione, il sovranismo, e il modo di intendere l’identità e i valori cristiani. L’imbarazzo delle gerarchie ecclesiastiche è palpabile. Da leader come Matteo Salvini “ci divide un alfabeto culturale diverso”, spiega un alto prelato. Il problema è che il lessico della Santa Sede fatica a fare breccia nell’intero arco politico. La pressione dei vescovi - Colpisce la mancanza di partiti considerati sponde affidabili. “Al massimo ci sono individui in grado di dare voce alle nostre ragioni”, si spiega. “Ma sono troppi e insieme troppo deboli”. Trasuda l’irritazione nei riguardi del vertice del Pd, oscillante tra aperture e chiusure: viene ritenuto condizionato dalla componente ex comunista e vittima di una “deriva radicale”. Quanto al grillismo, l’atteggiamento è stato sempre di profonda diffidenza: sebbene sia emersa a intermittenza la tentazione di utilizzare esponenti che ricoprono ruoli istituzionali. Ma la questione è drammatizzata dalle divisioni che attraversano lo stesso mondo cattolico. Intorno alla nota ufficiale consegnata il 17 giugno all’ambasciatore italiano presso la Santa Sede, Pietro Sebastiani, fioriscono le voci più curiose: indiscrezioni che segnalano confusione e tensioni nelle gerarchie ecclesiastiche. Ma il fatto che sia stata la Santa Sede a compiere il passo ribadisce un principio: è il Vaticano come Stato a chiedere il rispetto del Concordato con l’Italia. I vescovi hanno un ruolo diverso: anche se la pressione è arrivata da lì. Il modo in cui ieri il cardinale Pietro Parolin, “primo ministro” di Francesco, ha rivendicato con Vatican News l’iniziativa, conferma la divisione dei compiti con una Cei accusata di eccessiva timidezza. Il disagio - L’idea di un Papa defilato, quasi neutrale, è goffa e strumentale; e riceve smentite a tutto tondo. “Il principio è che di tutto quello che si fa si informano sempre i superiori”, ha detto Parolin. E a ribadire al Messaggero la sintonia sull’iniziativa tra Francesco e il segretario di Stato è anche Giovanbattista Re, decano del Collegio cardinalizio. L’obiettivo primario è disarmare chi parla di ingerenza: si vedrà con quale esito. Parolin afferma di concordare “pienamente con il presidente Draghi sulla laicità dello Stato e sulla sovranità del Parlamento italiano. Per questo si è scelto lo strumento della Nota verbale, che è il mezzo proprio del dialogo nelle relazioni internazionali”. Aggiunge che si trattava di “un documento interno, scambiato tra amministrazioni governative per via diplomatica”. Sono toni difensivi che tradiscono un disagio. Cercano di giustificare una mossa che, sebbene definita un “mezzo proprio”, rimarca l’assenza di dialogo tra le due sponde del Tevere e la preoccupazione per il testo del deputato del Pd, Alessandro Zan, in discussione in Parlamento. Il timore per la magistratura - Difensivo è anche il modo in cui Parolin assicura di non voler chiedere “in alcun modo di bloccare la legge”; e di essere “contro qualsiasi atteggiamento o gesto di intolleranza o di odio verso le persone a motivo del loro orientamento sessuale”. Il tema, semmai, è come la legge può essere interpretata, con il rischio di “spostare al momento giudiziario la definizione di ciò che è reato e ciò che non lo è”. Traduzione: il Vaticano teme che la magistratura possa usare la legge contro i sacerdoti, e “rendere punibile ogni possibile distinzione tra uomo e donna”. Per questo si chiede che venga cambiata in alcuni punti “prima che sia troppo tardi” e si imputi alla Santa Sede “un colpevole silenzio”. Da chi? Evidentemente, dall’interno dello stesso mondo cattolico. La parolina magica è “modulazione”. Ma trasferirla in un testo che radicalizza e agita il Parlamento non sarà facile: a meno che alla fine il governo o qualcun altro, con gradualità e cautela, abbandoni la sua “terzietà” e offra un consiglio per uscire da una situazione al momento senza sbocchi. Legge Zan, Flick: “Quella norma può essere criticata ma non da un altro Stato” di Liana Milella La Repubblica, 25 giugno 2021 Il presidente emerito della Corte costituzionale: “Il provvedimento è migliorabile, anche se riempie un vuoto rispetto alla Costituzione. Ora il dibattito in Parlamento sarà inasprito e non mi sembra proprio ce ne fosse bisogno”. Professor Flick ha letto la nota del segretario di Stato Vaticano Parolin? La giudica come una marcia indietro? “Non userei quest’espressione a proposito del rapporto tra due entità sovrane come lo Stato italiano e la Chiesa cattolica...”. E perché? A leggerla pare proprio una lettera di scuse... “Ho difficoltà, non essendo né un diplomatico, né un esperto di relazioni internazionali, a qualificare quel documento in questo modo. Certamente segnala una volontà di superare il contrasto che si è creato. E ciò è positivo. Rimane però la perplessità di fronte a un’iniziativa di intervento nei lavori parlamentari e nella loro sovranità attraverso suggerimenti e un’anticipazione di preoccupazioni come quelli contenuti nella nota verbale”. Sarà una reazione alla ferma risposta del premier Draghi che ha ribadito non solo la laicità dello Stato italiano, ma anche la piena libertà di legiferare del nostro Parlamento... “Rimane comunque, al di là della buona volontà del gesto del segretario di Stato, e della bontà di alcune sue osservazioni nel merito, la forte perplessità di fronte a un’iniziativa di questo genere. In sostanza, qualsiasi parlamentare, studioso, cittadino, poteva e può esprimere le sue critiche e le sue valutazioni politiche. Ma non mi pare che le possa invece allo stesso modo esprimere un’entità sovrana nel dialogo ufficiale con una sua pari”. In realtà, mentre si scusa, Parolin insiste e dice addirittura che nell’iter della legge non è stata affrontata la relazione con il Vaticano cui l’Italia è legata dal Concordato. È un ulteriore rimprovero alle nostre Camere? “Come cittadino italiano, come cattolico, e come studioso di diritto costituzionale devo dire che qui il Concordato non c’entra. Ci vedo piuttosto un messaggio politico sulla cui opportunità non spetta a me pronunziarmi. Rilevo solo che un primo effetto di questo intervento è stata la spinta all’accelerazione per portare subito la legge Zan in aula al Senato”. Il presidente Fico dice che le Camere non possono accettare “ingerenze”. Secondo lei dopo questo plateale intervento del Vaticano il dibattito in Parlamento sarà libero o sarà pesantemente condizionato? “Non drammatizziamo. Ma certamente sarà ulteriormente inasprito, e non mi sembra proprio che ce ne fosse bisogno”. Nel testo della legge Zan lei vede le ragioni, citate dal Vaticano, che possono spiegare questa levata di scudi? “Non entro nel merito dei contenuti. Ma da esperto di diritto penale rilevo che il primo requisito di una legge è la chiarezza e la comprensibilità. L’aver affiancato al concetto del sesso biologico altre tre categorie (il genere, l’identità di genere, l’orientamento sessuale) rende difficilmente comprensibile il significato del sesso come ostacolo all’eguaglianza”. Sta dicendo che anche lei critica la legge Zan? “Certo. L’ho criticata e tuttora la critico, pur ribadendo la necessità e il valore di essa nel riempire un vuoto rispetto all’articolo 3 della Costituzione. Lo faccio perché questa legge dovrebbe limitarsi a proporre il sesso in ogni sua espressione e manifestazione al pari della religione e della razza, che non sono certo frammentate in tanti pezzi quando la Costituzione li richiama”. Perché se lei boccia la legge Zan, nello stesso tempo, è contro l’intervento della Chiesa? “Perché, le ripeto, io come cittadino italiano posso e ho il diritto e forse anche il dovere di esprimere una mia valutazione politica. Ma la Santa sede non lo può fare”. Loro però dicono che era una nota diplomatica non destinata a diventare pubblica. “Peggio ancora. Io preferisco la trasparenza e la pubblicità dei lavori parlamentari”. Resta il fatto che lei, in più di un’occasione, ha criticato questa legge proprio come adesso fa la Chiesa. Loro, come dicono, perché temono di non poter svolgere la loro missione. Ma lei? “Per il rispetto di alcune regole fondamentali del diritto penale e costituzionale, prima fra tutte la chiarezza e la comprensibilità del comando contenuto nella legge”. Scusi, ma la legge è chiarissima, si limita ad estendere le norme della Mancino. “Non è così, lo farebbe se richiamasse il sesso negli stessi termini efficaci e onnicomprensivi con cui la Mancino definisce la razza e la religione affidando al giudice l’interpretazione del concetto. Invece la Zan moltiplica gli elementi del reato con una terminologia difficilmente comprensibile o non conosciuta. Ma non basta”. Cos’altro non le va a genio? “Il fatto che venga sostituita una garanzia costituzionale e consolidata per cui la manifestazione del pensiero in quanto tale è e dev’essere libera, con una garanzia prevista da una legge ordinaria come la Zan. Quest’ultima può essere cambiata in qualsiasi momento a differenza di quella costituzionale che sarebbe ben più difficile modificare”. Se il Vaticano le chiedesse di far parte di una commissione mista per lavorare su questi temi lei accetterebbe? “Io non mi occupo mai di ciò che potrà capitare in futuro”. L’Europa ha bisogno dei corridoi umanitari per i migranti di Mario Giro Il Domani, 25 giugno 2021 Si conclude oggi il consiglio europeo dedicato, tra le altre cose, al tema delle migrazioni. Il premier Mario Draghi ha rimesso sul tavolo la questione di cui si discute da anni: la necessità di un meccanismo di distribuzione solidale dei profughi che giungono via mare o per altre vie. L’idea costantemente ripetuta è che coloro che sbarcano in Italia cercano in realtà l’Europa e non il nostro paese in particolare. Tuttavia cambiare le regole di Dublino (quel trattato che lega indissolubilmente il profugo con il primo paese di arrivo) si è finora avverata un’impresa impossibile così come ogni tentativo di giungere a una solidarietà concreta, sia automatica che volontaria. I governi europei - non importa di quale colore - sono bloccati, congelati dalla paura di contravvenire allo spirito del tempo rappresentato dall’ossessione migratoria e dall’idea che ognuno deve fare da sé. Inutile invocare lo spirito unitario con cui l’Europa è nata: sul tema migratorio gli stati membri rimangono ingessati per paura delle urne. Destra e sinistra europee sono accomunate da un unico pensiero fisso: l’Europa non può permettersi di accogliere altri rifugiati. I global compact dell’Onu su rifugiati e migranti hanno scatenato polemiche a non finire senza riuscire a sbloccare la situazione. Eppure i dati parlano chiaro: non solo l’economia europea ha bisogno di manodopera, specializzata e non, ma l’inverno demografico del continente rende sempre più urgente porvi rimedio. L’Italia è un esempio: secondi i dati dell’istituto Cattaneo, dal 2036 dovremo andarci a cercare gli immigrati fuori Europa pena il crollo della nostra economia perché per 5 pensionati ci sarà solo un lavoratore. La cosa più sorprendente è che non è vero che la società europea non ne vuole più sapere di migranti e profughi. Tre anni fa l’esperimento dei corridoi umanitari introdotti dalla Comunità di Sant’Egidio assieme alle chiese valdese e protestanti e alla Caritas, ha dimostrato che le offerte di accoglienza e integrazione sono numerose da parte di famiglie e collettività. Ora il progetto è diventato una best practice europea ed è stato replicato in Francia e in Belgio. L’idea dei promotori è che non occorra chiedere ai governi e alle istituzioni di procedere all’accoglienza e all’integrazione ma piuttosto alla società stessa, bilanciando gli arrivi sulla base dell’offerta che si crea liberamente. In questa maniera si è dimostrato che si può accogliere e integrare senza problemi perché è la società stessa a occuparsene. Associazioni, famiglie, gruppi di cittadini, mettono a disposizione quello che hanno e laddove l’offerta è consona i promotori le “abbinano” una domanda cioè una famiglia siriana in fuga, una donna somala con figli e così via. È il principio dell’adozione: quello dei corridoi umanitari è un modello adottivo, liberamente scelto nel quale i governi si limitano a fare i controlli di sicurezza, rafforzati per l’occasione. Tutto viene fatto secondo le norme vigenti. I promotori scelgono sul terreno (i campi profughi ad esempio) i rifugiati in base alla vulnerabilità e confezionano un programma di integrazione completo (apprendimento della lingua, scuole per i piccoli, lavoro e casa per tutti) sulla base delle offerte che ricevono. Lo stato non paga nulla: fanno tutto le persone che si offrono di accogliere. Questo è importante perché è vera sussidiarietà e dimostra che, se le cose si fanno per bene, nessuno ha più paura. Si può auspicare che il Consiglio adotti tale modello per tutta l’Ue: nella libertà si trova spazio per tutti. Esportare il “modello Turchia”. Così Bruxelles prova a fermare i migranti di Carlo Lania Il Manifesto, 25 giugno 2021 Ad Ankara 3,5 miliardi per un nuovo accordo. 2,2 a Giordania e Libano. È bastata una manciata di minuti, dieci per la precisione, ai leader europei per approvare le parti riguardanti l’immigrazione del documento che oggi chiuderà a Bruxelles il Consiglio europeo. Tutti si sono detti d’accordo nell’intervenire nei Paesi di origine e di transito per cercare di arginare i flussi di quanti cercano di arrivare in Europa e per questo è stato data mandato alla Commissione europea di mettere a punto un piano di interventi finanziari da presentare entro il prossimo mese di novembre. È il via libera a quella che a Bruxelles chiamano la dimensione esterna dell’immigrazione. Erano tre anni, dal mese di giugno del 2018, che un vertice dei capi di Stato e di governo non discuteva di immigrazione. Eppure, nonostante le pressioni fatte nelle scorse settimane da Mario Draghi, ieri l’argomento è stato affrontato e liquidato in tutta fretta, velocità facilitata dal fatto che gli argomenti più spinosi, ma anche più importanti per i Paesi come l’Italia che affacciano sul Mediterraneo come il ricollocamento dei migranti tra gli Stati membri, non sono stati neanche sfiorati, tanto da non figurare neppure nel documento finale. Bruxelles punta dunque a intensificare i partenariati e le cooperazioni: “L’approccio sarà pragmatico, flessibile e su misura”, è scritto nel documento preparato dal presidente Charles Michel, e per questo i 27 invitano la Commissione “a fare il miglior uso possibile” di almeno il 10% del fondo Ndici, lo strumento di vicinato, cooperazione allo sviluppo e cooperazione internazionale. Si tratta di 8 miliardi di euro da distribuire tra i Paesi maggiormente coinvolti dal passaggio dei flussi. Infine il Consiglio ha “condannato e respinto ogni tentativo di Paesi terzi di strumentalizzare i migrati a fini politici”. Si tratta di un riferimento rivolto soprattutto alla Turchia, ma è chiaro che Bruxelles punta a riallacciare un dialogo con Ankara dopo le tensioni dei mesi scorsi per arrivare a una riedizione dell’accordo siglato nel 2016 (cifre ufficiali ancora non se ne fanno ma ci sarebbero 3,5 miliardi di euro già pronti). Senza perdere molto tempo, perché l’annunciato ritiro delle truppe Nato e Usa dall’Afghanistan, e la conseguente riconquista del Paese da parte dei talebani, rischia di intensificare nuove partenze che, senza la collaborazione della Turchia, finirebbero col riversarsi sulla rotta balcanica fino a raggiungere il cuore dell’Europa. E finanziamenti per 2,2 miliardi di euro sarebbero già stati stanziati per Giordania e Libano, due tra i Paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati siriani. Diverso il discorso per la Libia. La possibilità di arrivare con Tripoli a un accordo simile a quello raggiunto con la Turchia è resa difficile, se non impossibile, dalla poca affidabilità dell’attuale governo e dalla presenza nel Paese di soldati e mercenari stranieri. La speranza è che le elezioni previste a dicembre possano cambiare la situazione favorendo una maggiore stabilizzazione del Paese nordafricano magari, come auspicato da Draghi, sotto l’egida delle Nazioni unite. Nel frattempo è probabile che si continuerà con i finanziamenti dell’Italia alla cosiddetta Guardia costiera libica. La “War on Drugs” ha provocato più danni delle sostanze stesse” redattoresociale.it, 25 giugno 2021 Libro Bianco sulle droghe. Nuova edizione dello studio promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca, Associazione Luca Coscioni, Arci, Lila e Legacoopsociali. Il 35% dei detenuti è in carcere per la legge sulle droghe e quasi il 40% di chi entra usa droghe, “dato ai massimi storici dalla Fini-Giovanardi”. Presentata ieri mattina la nuova edizione del Libro Bianco sulle droghe, il rapporto indipendente sugli effetti e i danni del Testo Unico sulle sostanze stupefacenti. Giunto alla dodicesima edizione, il Libro Bianco è promosso da La Società della Ragione insieme a Forum Droghe, Antigone, Cgil, Cnca, Associazione Luca Coscioni, Arci, Lila e Legacoopsociali con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica Cgil, Gruppo Abele, Itardd e Itanpud. Ogni anno viene presentato in occasione del 26 giugno, nell’ambito della campagna internazionale di mobilitazione Support! don’t Punish. Il rapporto oltre a contenere i dati (2020) relativi agli effetti della war on drugs sul sistema penale e penitenziario italiano presenta una serie di riflessioni sul sistema internazionale di controllo delle droghe, a 60 anni dalla firma della prima convenzione Unica sugli stupefacenti, e sulla Conferenza nazionale sulle tossicodipendenze mai convocata da 12 anni. Inoltre come ogni edizione contiene riflessioni e approfondimenti sul sistema dei servizi, sulla riduzione del danno e sulle prospettive di riforma delle politiche sulle droghe a livello nazionale ed internazionale. Quest’anno il Libro Bianco pone grande attenzione all’anniversario dei 60 anni dalla firma della convenzione unica sulle droghe del 1961. “Il 30 marzo 1961 a New York infatti gli Stati, firmando la Convenzione Unica sugli stupefacenti, si diedero fra gli altri l’obiettivo di eliminare le produzioni illegali di oppio entro il 1984 e quelle di cannabis e coca entro il 1989 - ricordano i promotori del Rapporto -. 37 anni dopo, nel 1998, di fronte al fallimento se ne diedero un altro: un mondo senza droghe entro 10 anni. Nel frattempo, l’uso di sostanze illegali è aumentato a velocità doppia rispetto alla popolazione mondiale e produzione e narcotraffico sono completamente fuori controllo. 60 anni di politiche proibizioniste non hanno avuto alcun effetto sui mercati illegali e sugli usi personali, mentre la ‘War on Drugs’ ha provocato più danni di quelli delle sostanze stesse, sia in termini sanitari che sociali, ambientali ed economici”. Nella prima parte del Libro Bianco si ricostruiscono le motivazioni geopolitiche alla base delle convenzioni e la loro evoluzione, affrontando infine il difficile problema della loro riformabilità. “Le ricadute di stigmatizzazione su milioni di giovani, l’ingolfamento del sistema giudiziario e le incarcerazioni di massa con l’esplosione delle prigioni finalmente hanno costretto a rettifiche di giudizio sulla war on drugs, con l’apertura di una interpretazione flessibile delle convenzioni”. Secondo il Libro Bianco, “dopo 60 anni di war on drugs e 31 di applicazione del Testo Unico sulle droghe Jervolino-Vassalli, i devastanti effetti penali (dell’art. 73 in particolare) sono sotto gli occhi di tutti. La legge sulle droghe continua a essere il principale veicolo di ingresso nel sistema della giustizia italiana e nelle carceri”. Dunque, “la legislazione sulle droghe e l’uso che ne viene fatto sono decisivi nella determinazione dei saldi della repressione penale: la decarcerizzazione passa attraverso la decriminalizzazione delle condotte legate alla circolazione delle sostanze stupefacenti così come le politiche di tolleranza zero e di controllo sociale coattivo si fondano sulla loro criminalizzazione. Basti pensare che in assenza di detenuti per art. 73. o di quelli dichiarati tossicodipendenti, non vi sarebbe il problema del sovraffollamento carcerario, come indicato dalle simulazioni prodotte. Dopo 31 anni di applicazione non possiamo più considerare questi come effetti collaterali della legislazione antidroga, ma come effetti evidentemente voluti”. Oltre il 30% dei detenuti entra in carcere per spaccio di droghe: 10.852 dei 35.280 ingressi in carcere nel 2020, infatti, sono stati causati da imputazioni o condanne sulla base dell’art. 73 del Testo unico (sostanzialmente per detenzione a fini di spaccio). Si tratta del 30,8% degli ingressi in carcere. Seppur diminuiti in numeri assoluti (gli ingressi in carcere, in calo dal 2018, sono scesi nell’ultimo anno di 10.921 unità (-23,6%). Gli ingressi ex art. 73 (Produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope) hanno fatto registrare una diminuzione di 2.825 unità, pari al -20,7%. In calo anche gli ingressi di soggetti tossicodipendenti, da 16.842 a 14.092: un calo nominale di 2.750, pari al -16,3%), effetto evidente del lockdown, sono oramai lontani gli effetti della sentenza Torreggiani della CEDU e dell’adozione di politiche deflattive della popolazione detenuta. Il 35% dei detenuti è in carcere per la legge sulle droghe: sui 53.364 detenuti presenti in carcere al 31 dicembre 2020 ben 12.143 lo erano a causa del solo art. 73 del Testo unico. Altri 5.616 in associazione con l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), solo 938 esclusivamente per l’art. 74. Secondo i dati riportati dal Libro Bianco, restano drammatici i dati sugli ingressi e le presenze di detenuti definiti “tossicodipendenti”: lo sono il 38,60% di coloro che entrano in carcere, mentre al 31/12/2020 erano presenti nelle carceri italiane 14.148 detenuti “certificati”, il 26,5% del totale. “Questa presenza, che resta ai livelli della Fini-Giovanardi (27,57% nel 2007), è alimentata dal continuo ingresso in carcere di persone ‘tossicodipendenti’, in aumento costante da oltre 5 anni”, si afferma. Francia. Il Comitato anti-tortura deplora le condizioni di detenzione coe.int, 25 giugno 2021 Il Comitato per la prevenzione della tortura (CPT) del Consiglio d’Europa, in un nuovo rapporto sulla sua visita periodica in Francia a dicembre 2019, ha espresso grande preoccupazione per le condizioni materiali di detenzione nelle strutture di polizia, il sovraffollamento delle carceri, le condizioni in cui i detenuti vengono trasferiti e curati in ospedale e la mancanza di posti letto psichiatrici per le persone in cura senza il loro consenso. Per quanto riguarda le strutture di polizia, sebbene la maggior parte di quelle interpellate non abbia segnalato alcun maltrattamento fisico, diverse persone hanno dichiarato di essere state deliberatamente colpite durante l’arresto o nelle sedi della polizia. Sono state segnalate inoltre accuse di insulti, anche di natura razzista e omofoba, nonché manacce con armi. Il CPT raccomanda di ricordare che l’uso della forza deve essere strettamente necessario e che occorre prendere delle misure per potenziare la lotta contro l’impunità. In generale, il CPT ha espresso grande preoccupazione per le condizioni materiali di detenzione in alcuni commissariati di polizia visitati. In relazione alle carceri, dal 1991 il CPT constata un sovraffollamento, con tassi di occupazione superiori al 200% in alcuni istituti. Al momento della visita, quasi 1.500 detenuti dormivano su materassi posati a terra. Il CPT chiede alle autorità francesi di prendere misure urgenti per assicurare che ogni detenuto disponga di un letto e di almeno 4 m² di spazio vitale in una cella collettiva, di adottare una strategia per ridurre la popolazione nelle carceri e di prevenire la violenza tra i detenuti. In ambito psichiatrico, il CPT ha visitato il Centro ospedaliero di Cadillac dove la maggior parte dei pazienti ascoltati dalla delegazione riteneva di ricevere un trattamento corretto da parte del personale sanitario, nonostante la percezione di una mancanza di tempo e disponibilità. Un ridotto numero di pazienti si è tuttavia lamentato per l’utilizzo di un linguaggio offensivo, nonché un uso eccessivo della forza, soprattutto durante l’applicazione di misure di contenzione o isolamento per la gestione dei pazienti in stato di agitazione. L’America violenta che “aiuta” Trump di Massimo Gaggi Corriere della Sera, 25 giugno 2021 Le tensioni razziali e gli incidenti che le seguono preoccupano anche l’elettorato dei democratici, più delle conseguenze della pandemia. Un mese fa, a Minneapolis per l’anniversario dell’uccisione di George Floyd, raccontai di una città, un tempo dinamica e vivace, ancora tramortita da quel dramma ma anche dalle devastazioni notturne seguite alle proteste diurne: centinaia di negozi e altri edifici saccheggiati o dati alle fiamme. Una metropoli ancora sospesa in un’atmosfera surreale tra celebrazioni svolte alla presenza di pochi attivisti - nessuna manifestazione di massa - e una polizia che, messa sotto accusa, interviene sempre meno lasciando spazio a una criminalità di nuovo in forte aumento ed evita di affacciarsi nelle strade che hanno visto Floyd soffocato dall’agente Derek Chauvin, ora condannato per omicidio. Minneapolis non è un caso isolato: da Chicago a Cleveland alla stessa New York omicidi e rapine sono in forte crescita ovunque in America (+30% i morti per arma da fuoco lo scorso anno, mentre questo primo scorcio del 2021 registra già un altro +24%). Chi fin da dicembre avvertiva i democratici che non prendendo sul serio l’emergenza criminalità rischiavano di perdere le prossime elezioni veniva zittito con un argomento duro (l’accusa di usare la stessa retorica allarmista di Trump) e uno morbido (un’onda criminale dovuta a tensioni e disagi da lockdown destinata a sgonfiarsi con la fine dell’emergenza coronavirus). Ora l’America esce dalla pandemia ma il criminale non arretra e il voto della progressista New York che premia, sia pure provvisoriamente, il candidato democratico law and order Eric Adams dimostra quanto era già trapelato dai sondaggi: la gente, spesso anche a sinistra, teme la violenza anche più delle difficoltà economiche post virus. Il presidente Biden corre ai ripari annunciando una serie di misure che, però, riguardano soprattutto la diffusione delle armi e il recupero sociale degli ex detenuti, mentre il tema cruciale è quello dell’atteggiamento da tenere nei confronti delle polizie. Ora molti commentatori di sinistra scoprono che i democratici rischiano di perdere le elezioni su questo. Il più esplicito è Tom Friedman che sul New York Times firma un editoriale intitolato: “Volete Trump rieletto? Smantellate la polizia”. Biden non ha intenzione di depotenziarla, ma deve vedersela con la sinistra del suo partito che ha idee opposte ed è già sul sentiero di guerra per l’accordo sulle infrastrutture negoziato coi repubblicani. Afghanistan. Fallimento afghano, quello che il ministro della Difesa non dice di Giuliano Battiston Il Manifesto, 25 giugno 2021 Se fosse stato a Lashkargah, Herat o in tante altre città che abbiamo visitato in questi anni, saprebbe che le parole pronunciate ieri nell’informativa al Senato sulla conclusione della missione militare risultano tragicamente vuote. La presenza delle truppe straniere ha alimentato la propaganda e il reclutamento dei Talebani. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini non deve aver mai messo piede a Lashkargah, il capoluogo della provincia meridionale dell’Helmand da cui siamo appena tornati e dove vent’anni di presenza militare internazionale si valutano in vite perdute. E temiamo non abbia mai messo piede neanche fuori dalla base militare di Herat, dove si è recato l’8 giugno “per l’ultimo ammaina bandiera del nostro contingente: un momento toccante e straordinario”. Se fosse stato a Lashkargah, Herat o in tante altre città che abbiamo visitato in questi anni, se avesse incontrato gli afghani e le afghane, saprebbe che le parole pronunciate ieri nell’informativa al Senato sulla conclusione della missione militare risultano tragicamente vuote, qui. E vuoto, nonostante la strategia retorica adottata, appare anche il bilancio fatto del “più importante impegno militare delle nostre Forze armate fuori dai confini nazionali dalla Seconda guerra mondiale”. Sul fronte militare, della guerra guerreggiata, il ministro Guerini sa che non c’è alcunché da rivendicare, alcun numero da sbandierare, a parte quegli “oltre 50.000 uomini e donne in uniforme che si sono avvicendati in questi lunghi anni”. La missione in Afghanistan è stata un fallimento. “Stabilità e controllo del territorio” non sono mai arrivati. Al contrario, la presenza delle truppe straniere ha alimentato la propaganda e il reclutamento dei Talebani. Oggi più forti che mai sul fronte di battaglia e al tavolo negoziale, dove continuano a sedersi, pur con il freno a mano, in attesa che i militari stranieri finiscano di ritirarsi. È vicino anche il ritiro completo degli italiani: “a oggi sono stati rimpatriati 280 nostri militari e sono già defluiti dal teatro operativo afghano più del 70 per cento dei mezzi e dei materiali verso l’Italia”, ha dichiarato Guerini. Alle prese con il disimpegno, senza poter annunciare “missione compiuta”, il ministro della Difesa Guerini nella sua informativa sposta il piano del discorso. Finisce per enfatizzare “la proficua cooperazione tra la componente civile del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale e quella militare della Difesa”. Elenca i “progetti di cooperazione civile e militare, per un corrispettivo di oltre 46 milioni di euro”. Loda il PRT, il Provincial Reconstruction Team a guida italiana, attivo fino al 2014. Per il ministro si è trattato di una risorsa fondamentale. Per le persone che abbiamo intervistato nelle province di Herat, Badghis, Farah per la ricerca Le truppe straniere agli occhi degli afghani (promossa dalla ong Intersos) è stato un errore. Promuovere insieme attività civili-militari, sovrapporre obiettivi di sicurezza e di ricostruzione ha provocato danni, messo in pericolo le organizzazioni umanitarie, ridotto la ricostruzione di lungo termine a un obiettivo di corto termine per la “conquista dei cuori e delle menti” degli afghani. Mai avvenuta. Guerini sostiene inoltre che “è stata una decisione non facile” quella del 15 aprile scorso, quando la Nato ha formalizzato l’impegno sul ritiro delle truppe. Come se la decisione non l’avesse già presa per tutti il presidente Usa Joe Biden, mantenendo l’accordo di Doha con i Talebani. Che oggi ci sia una “recrudescenza di violenza” era “prevedibile”, dice Guerini. Certo, la situazione è preoccupante, ma l’Italia non abbandona l’Afghanistan, garantisce il ministro. Che finisce con il chiedersi “cosa sarebbe stato l’Afghanistan senza questi venti anni di presenza e di lavoro fianco a fianco con i governanti e la popolazione”. Manca di domandarsi la cosa più importante: la guerra in Afghanistan andava davvero fatta? Iran. Lunedì l’esecuzione di un minorenne al momento del reato di Riccardo Noury Corriere della Sera, 25 giugno 2021 Le autorità iraniane hanno annunciato l’intenzione di mettere a morte, lunedì 28 giugno, un prigioniero condannato per un omicidio commesso quando aveva 17 anni. Hossein Shahbazi, attualmente ventenne, era stato arrestato il 30 dicembre 2018 e condannato a morte il 13 gennaio 2020 da un tribunale della provincia di Fars, al termine di un processo gravemente irregolare. Per i primi 11 giorni dopo l’arresto era stato trattenuto e interrogato in una stazione di polizia. In seguito, era stato trasferito in un carcere minorile. La madre, che era riuscita a visitarlo dopo una lunga attesa, lo aveva trovato visibilmente dimagrito e con segni di ferite sul volto. Nel confermare il verdetto, il 16 giugno 2020, la Corte suprema aveva ammesso che Shahbazi era minorenne al momento del reato ma aveva precisato che la sua crescita mentale e la sua maturità erano state accertate dall’Istituto di medicina legale. Va ricordato che nel diritto internazionale vige il divieto assoluto di mettere a morte rei minorenni. L’Iran continua a eseguire condanne a morte su scala massiccia: le esecuzioni sono state almeno 246 nel 2020 - tre delle quali nei confronti di minorenni al momento del reato - e sono già più di 100 dall’inizio del 2021. In assenza di dati ufficiali, si stima che siano decine i minorenni al momento del reato in attesa dell’esecuzione. Tra le sentenze che rischiano di essere eseguite vi è quella di Ahmadreza Djalali, il ricercatore iraniano che è anche cittadino svedese, condannato alla pena capitale nel 2017 per una falsa accusa di spionaggio. Le sue condizioni di salute sono critiche e gli viene costantemente impedito di contattare la moglie e i figli che vivono in Svezia. Djalali ha svolto un periodo di ricerca anche in Italia, presso l’Università del Piemonte Orientale. Stagna. La tragica e travolgente vita di McAfee, morto suicida in una cella di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 25 giugno 2021 Gli investimenti geniali, le droghe, la politica i guai con il fisco Usa... il creatore del primo antivirus informatico muore in un carcere spagnolo a 75 anni. “Voglio una vita spericolata, una vita come John MacAfee!” avrebbe cantato oggi Vasco Rossi, perché ogni epoca ha gli antieroi che si merita. Sempre meno scanzonati e romantici, poco artisti e molto imprenditori, ma con quella vena “maledetta” e quel tragico destino che si portano dietro. Un narcisismo masochista che accompagna come un demone un’esistenza vissuta al limite. In questo caso tra gli Stati Uniti, l’Europa, il centroamerica tra business estremi, investimenti folli, droghe, pistole, richieste di diritto d’asilo e fughe vertiginose ai quattri angoli del pianeta. È morto in un carcere spagnolo a 75 anni il creatore del primo antivirus informatico: si è impiccato nella sua cella della prigione di Sant Esteve de Sesrovires, a pochi chilometri da Barcellona. Era terrorizzato dall’estradizione negli Stati Uniti concessa da un tribunale catalano poche ore prima del suicidio. Negli Usa era accusato dalle procure di New York e del Tennessee di frode fiscale; avrebbe nascosto allo Stato decine di milioni di dollari, ville lussuose e yacht, tutti beni provenienti dagli investimenti in criptovalute, l’ultima funesta passione di MacAfee. Lo hanno arrestato nell’aeroporto del capoluogo catalano lo scorso ottobre mentre stava prendendo un volo per la Turchia. Nove mesi di detenzione in condizioni molto provanti, aveva denunciato in lacrime la moglie Janice: “Stava molto male, era depresso e deperito ma non ha ricevuto alcuna cura medica”. Nato in Gran Bretagna in un base militare statunitense da padre americano e madre inglese cresce in Virginia; adolescenza irrequieta innaffiata dall’alcool, le feste e la droga (viene arrestato ancora minorenne per possesso di marijuana). Laureato in matematica viene assunto da un college della Louisiana che lo sbatterà alla porta per la relazione con una sua studentessa. Comincia un cammino tortuoso, fatto di espedienti, lavoretti improvvisati ma anche di geniali intuizione sulle opportunità che offre al mercato la nascente rivoluzione tecnologica, si specializza nella creazione di software e nella messa a punto di sistemi operativi. Il successo lo incrocia negli anni 80 con un lavoro di programmatore per la Nasa dove tutti notano il suo fiuto particolare per il businnes digitale, dopo qualche tempo passa al la Xerox e poi alla Lockheed. Investe migliaia di dollari in società informatiche e in residenze di prestigio alle Haway, in New Mexico, in Texas. La svolta però arriva con la creazione del programma antivirus che porta il suo nome e che ancora oggi è il più diffuso nel mondo. Fino alla crisi finanziaria del 2008 con l’esplosione della bolla dei mutui subprime Usa il suo patrimonio personale lievita ed stimato oltre i cento milioni di dollari. Due anni dopo decide di diversificare le sue attività e si tuffa nella ricerca farmaceutica finanziando un laboratorio per lo sviluppo di nuovi antibiotici. La polizia sospetta che sia una copertura per la produzione di droghe sintetiche e fa irruzione senza trovare nulla. Quel tipo eccentrico è da tempo nel mirino delle autorità. Nel 2012 è addirittura sospettato dell’omicidio di Greg Faull, un suo vicino di casa in Belize con il quale aveva avuto diverse dispute. Ma anche in questo caso le accuse decadono. Poi ancora un arresto in Tennessee per guida in stato d’ebrezza e porto abusivo d’armi. C’è anche spazio per la politica: nel 2016 si candida alla Casa Bianca con il suo partito Cyber: “Se non ci fossi io, Trump sarebbe il vincitore”. La sua campagna è un prevedibile flop che però non spegne le velleità politiche: quattro anni dopo rispunta infatti tra le fila del partito libertario (conservatore in economia, progressista sui diritti civili) che lo sceglie come candidato alle presidenziali. La sua corsa però si interrompe prima del voto, lo scorso ottobre in Spagna dove nel frattempo aveva spostato la sua residenza ufficiale. Nove mesi dopo la drammatica scomparsa.