La “messa alla prova”: una prova anche (e soprattutto) per le istituzioni di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 24 giugno 2021 Un’opportunità per le persone imputate, un’ottima occasione per sgomberare i tribunali di fascicoli arretrati, un alleggerimento per il carcere, un impegno serio per il Terzo Settore. Da subito, dall’autunno del 2014 la nostra associazione si è impegnata con un progetto sperimentale rivolto alle persone “messe alla prova”, un progetto che poneva e pone tutt’oggi al centro con chiarezza e senza ambiguità un lavoro serio di riflessione su di sé e la condivisione inizialmente all’interno del gruppo ma poi anche - attraverso momenti di testimonianza e con la pubblicazione di una selezione di scritti - con il territorio e la cosiddetta “società civile”. Siamo partiti da precise e dichiarate competenze professionali e ad oggi abbiamo seguito più di 150 persone. La premessa solo per contestualizzare le brevi osservazioni che seguono. La “messa alla prova” è un istituto delicato che necessita di cura, attenzione e obiettivi un po’ più alti del semplice mandato riparatorio (o retributivo?) che sembra soddisfare il pensiero - a mio avviso - meno evoluto del “chi sbaglia paga”. I penalisti dicono che, non essendo una pena perché le persone sono semplicemente imputate, non vale il mandato costituzionale della rieducazione. E dunque? Nella nostra esperienza - siamo un gruppo di volontari con professionalità complementari, differenti età ed esperienze - abbiamo visto che, come ama ripetere uno di noi (il più saggio), basta grattare un po’ sotto la superficie e dietro reati di modesta pericolosità sociale, molto spesso si nascondono storie complesse di fatiche, solitudini e fallimenti. Di questa “mancanza” di cui parla anche Marco Bouchard chi si occupa? Chi si prende cura? Ma davvero pensiamo che si sistemi tutto facendo qualche ora di “lavori di pubblica utilità” in una parrocchia, in una cooperativa o in una associazione di volontariato o in un ufficio comunale? Quasi per una misteriosa contaminazione positiva? Noi lavoriamo con la metodologia autobiografica, seguiamo le persone con cura e attenzione, abbiamo testato un metodo che finora ci ha dato segnali molto positivi. Siamo consapevoli che non è il solo modo possibile, che - ahimé - non siamo in grado di fare miracoli, che questa esperienza non è poi sempre replicabile, che è necessario avere in mano le carte della competenza e, insieme, la scelta della gratuità perché i costi di un’attività simile sarebbero insostenibili per le istituzioni. Siamo certi che sicuramente esistano altre strade, altri percorsi, altre risposte. A condizione, però, che gli obiettivi siano chiari. Per chi deve essere un’opportunità la “messa alla prova”? Per le persone imputate o per le istituzioni? Ovviamente il risparmio di energie e risorse pubbliche è enorme. Alleggerimento della popolazione detenuta, niente processi; solo rapidissime udienze e la formalizzazione di una proposta costruita - in larga parte - insieme al Terzo Settore e agli Uffici di Esecuzione Penale Esterna che, tra l’altro, si sono ritrovati oggettivamente oberati di lavoro. A discapito di quella cura e di quell’accompagnamento di cui abbiamo beneficiato nei primissimi anni della probation. È una bellissima idea quella che vuole ridurre l’impatto del carcere sulle persone e sulla comunità ma francamente non può non essere riempita di contenuti e proposte formative. Se davvero si vuole aprire una nuova strada per la giustizia penale. Altrimenti rischia di ridurre tutto a una mera tabella di costi e di risparmi. Oggi, subito - alla luce della proposta di estensione della “messa alla prova” a reati punibili fino ai 10 anni di carcere - è il momento di porsi delle domande e soprattutto di cercare risposte valide. Gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna non contemplano funzionari di formazione pedagogica. Assistenti sociali (quasi sempre troppo pochi per il carico di lavoro), qualche ora dello psicologo ma niente da fare per la “rieducazione”. Nemmeno per le persone condannate che stanno scontando una pena all’esterno che avrebbero probabilmente più e meglio delle persone recluse, la possibilità di lavorare sui propri comportamenti e sulle scelte illegali. Il nulla. Ieri sera, riflettendo con il gruppo di persone “messe alla prova” sui reati commessi, una giovane donna ha detto “conosco il perché ma so che ci devo ancora lavorare molto”. Sì benissimo ma lavorare come? Con chi? Da sola? Questa è la domanda nevralgica per il legislatore innanzitutto, ma poi anche per le Istituzioni che hanno il compito di occuparsi della pena: esiste un’idea, una fiducia nella rieducazione? Un pensiero pensato magari da pedagogisti, da professionisti e studiosi dell’educazione degli adulti? Crediamo davvero che le persone possano modificare i propri comportamenti? E, se sì, come? *Esperta in scrittura autobiografica, responsabile del progetto MAP di “Verso Itaca APS” La pandemia e l’inadeguatezza degli spazi in carcere e nelle Rsa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 giugno 2021 “Una delle criticità che la pandemia ha fatto emergere in tutta la sua complessità, riguarda proprio gli ambienti. Le strutture si sono spesso rivelate inadeguate. L’esigenza dell’isolamento delle persone positive o in quarantena, si è scontrata con la densità delle presenze. Gli edifici costruiti attorno all’unico fattore del posto letto hanno mostrato tutta la loro inadeguatezza e fragilità, nelle carceri come nelle Residenze sanitarie assistenziali (Rsa)”. Parliamo di un passaggio fondamentale cristallizzato nella relazione annuale del Garante nazionale delle persone private della libertà. Riguarda il capitolo dedicato alla parola “struttura”. Riguarda il carcere, i centri di accoglienza, gli hotspot, ma riguardano anche le Rsa. Con l’emergenza sanitaria, si legge nella relazione, altri ambienti si sono chiusi. Nelle strutture residenziali, infatti, dimensionate sulla base della capacità di ospitalità in termini di posti letto, le persone si sono ritrovate non solo chiuse al mondo esterno, ma anche isolate dall’interno: ristrette nelle loro stanze, spesso multiple, da cui non potevano uscire. “Stanze tutte uguali - si legge nella relazione del Garante - con gli stessi letti, i medesimi comodini, qualche armadietto a muro per tenere le proprie cose, stanze che ricordano quelle degli ospedali destinate però, queste ultime, a soggiorni temporanei e brevi”. I pochi ambienti comuni, essenzialmente la mensa e un unico salone, non sono praticabili perché insufficienti per le esigenze di stanziamento. “Sono rimasti allora i corridoi dei reparti, unici luoghi accessibili, in cui le persone sostano fuori dalla porta della stanza, seduti sulle sedie o sulle carrozzine, senza nulla da fare, nessuno con cui parlare, niente da aspettare”, sottolinea la relazione. La pandemia, così come altri luoghi dove, di fatto, la libertà viene privata, ha fatto emergere alcune contraddizioni nelle Rsa. Per questo il Garante nazionale Mauro Palma, durante la presentazione della relazione annuale al Parlamento, ha condiviso tre o quattro osservazioni per formulare una richiesta al Legislatore. La prima riguarda l’arretratezza dei dati disponibili - gli ultimi forniti dall’Istituto di statistica sono del 2018. La seconda riguarda la classificazione delle strutture per disabili che scompaiono quando le persone compiono il sessantacinquesimo anno di età, poiché da quel momento le residenze sono classificate “per anziani” e l’analisi specifica dei bisogni e dell’adeguatezza delle risposte alle relative specificità spariscono. La terza riguarda la disomogeneità territoriale: il numero di posti letto disponibili in tutto il Sud è all’incirca la metà di quello relativo alla sola Lombardia. “È doverosa - ha osservato il Garante Mauro Palma - una complessiva riflessione sul sistema in sé delle residenze sanitarie assistenziali che sono nella maggior parte dei casi strutture private accreditate; nonché sui criteri di accreditamento che proprio perché calibrati sull’organizzazione a stanze e relativo numero di letti, a cui si aggiunge qualche ambiente comune, hanno finito col configurarsi nel periodo dell’impossibilità di attività comuni per il rischio di contagio, in qualcosa di simile a piccoli reparti ospedalieri, dove il letto diveniva il “luogo” della giornata, peraltro trascorsa in assenza di figure esterne”. Molte volte il Garante nazionale ha sollecitato la loro controllata apertura in sicurezza e troppo spesso le indicazioni in tal senso date dal ministero della Salute risultano tuttora disattese regionalmente perché affidate alla discrezionalità del gestore della struttura. Con danni importanti di regresso cognitivo nel caso di utenti con specifiche disabilità. Da qui la duplice proposta: dell’avvio di una riflessione ampia sulla risposta istituzionale alle fragilità dovute all’età, alle disabilità, più in generale ai particolari bisogni specifici, che riconfiguri l’attuale modello; e, parallelamente l’istituzione di un registro nazionale effettivo che possa dare con continuità un quadro delle situazioni e indichi come e dove intervenire, supportando, controllando, rivedendo ove necessario, convenzioni anche talvolta di antica tradizione. Detenute con figli in carcere. Agia: “Sbloccare subito 4,5 milioni di euro per case famiglia” Ristretti Orizzonti, 24 giugno 2021 L’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza ha scritto al Ministero della giustizia e a quello dell’economia e delle finanze per sollecitare l’adozione del decreto attuativo previsto dalla legge di bilancio. Sbloccare quanto prima 4,5 milioni di euro per accogliere i genitori detenuti con bambini in case famiglia protette e in case alloggio. È la richiesta avanzata oggi, con una nota, dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, Carla Garlatti, al Ministero della giustizia e al Ministero dell’economia e finanze. I due ministeri avrebbero dovuto adottare un decreto entro due mesi dall’entrata in vigore della legge 30 dicembre 2020, n. 178 (legge di bilancio 2021) per poter utilizzare a tale scopo 1,5 milioni di euro per ogni annualità fino al 2023. “Ad oggi il provvedimento, necessario a finanziare la predisposizione di case famiglia protette, non risulta ancora approvato” evidenzia Carla Garlatti. “Occorre procedere alla sua adozione quanto prima, per evitare l’ingresso in strutture penitenziarie a bambini piccoli, che hanno diritto a non essere vittime dello stato di detenzione dei loro genitori”. Dai dati del Ministero della giustizia aggiornati al 31 maggio scorso risultano presenti nelle strutture detentive italiane 17 detenute madri, con un totale di 20 figli minorenni al seguito. Si tratta di bambini e ragazzi che vivono in istituti di detenzione di Campania, Emilia Romagna, Lazio, Lombardia, Piemonte, Puglia e Veneto. “È un dato comunque preoccupante. Gli istituti penitenziari, seppure a custodia attenuata per detenute madri come gli Icam, non sono luoghi per bambini e non sono idonei ad assicurare un equilibrato sviluppo psicofisico. Si tratta, a volte, di bambini piccolissimi e, quindi, in condizione di estrema vulnerabilità” sottolinea Carla Garlatti. La droga rovina vite anche dietro le sbarre di Lucio Boldrin* Avvenire, 24 giugno 2021 Poco più di un mese fa il segretario di un sindacato di Polizia penitenziaria ha detto che il 40% dei detenuti fa utilizzo di droghe o di sostanze che alterano il normale stato psichico. Non sono in possesso di dati che possano confermare o smentire la sua affermazione/denuncia, ma non sono rimasto sorpreso. Come accade “fuori”, infatti, anche “dentro” lo spaccio serve, oltre che all’evidente guadagno economico, a mantenere il potere su altre persone. E in molti casi i lauti incassi servono per mantenere in piedi quel sistema di “welfare” garantito ai familiari dei detenuti appartenenti ai clan. Sempre secondo lo stesso sindacato di Polizia penitenziaria, il 35% degli ingressi in carcere è dovuto alla droga. E, con la droga che in vari modi entra nelle celle, si rovinano ancora di più le vite di migliaia di persone in tutte le carceri. La situazione induce a pensare che serva un intervento legislativo in grado di limitare l’accesso dei tossicodipendenti agli istituti penitenziari, prevedendo per loro un percorso diverso dalla detenzione carceraria. Parliamo, insomma, delle “famose” forme alternative di espiazione della pena: se ne parla da anni, ma poco si fa. Per i tossicodipendenti occorrerebbe prevedere seri percorsi di recupero all’interno di apposite comunità, dove scontare la pena e rinascere dall’inferno delle droghe. Dall’altra parte, tuttavia, serve rigore assoluto nel controllo e nel contrasto dell’introduzione di sostanze stupefacenti nelle carceri. Lo Stato ha il dovere di impedire ai criminali di esercitare il loro potere anche dopo gli arresti. Secondo gli ultimi riscontri, le Regioni più interessate a questo fenomeno sono la Campania, la Sicilia, il Lazio, la Puglia e la Lombardia, ma il problema ha assunto rilevanza in tutti gli istituti della penisola. I grandi trafficanti, quelli che fanno i milioni commerciando il loro veleno dentro e fuori dalle carceri, non fanno uso di droghe. In genere vivono da nababbi, insensibili alla sofferenza e morte di tante persone a causa della droga. E quei pochi che cadono nella rete della giustizia, esercitano il loro strapotere anche nelle carceri. Sono dei Mangiafuoco che manovrano i drogati come fossero marionette, mentre questi ultimi appaiono ai miei occhi come novelli Pinocchio e Lucignolo. Che non diventeranno mai persone, se nessuno li aiuterà a tagliare i fili della droga. Ogni giorno in carcere vedo ragazzi spegnersi nei sentimenti, nella speranza... e nella rabbia. Lo confesso: guardando negli occhi questi giovani e giovanissimi, che vedo e amo come figli, avverto tutta la mia impotenza. *Cappellano Casa circondariale maschile “Nuovo Complesso” di Rebibbia Cesare Battisti, contro di lui uno stato vendicativo. Ma la Costituzione? di Roberto Giachetti Il Riformista, 24 giugno 2021 Qui non si deve discutere se sia un criminale e di quale entità. La giustizia italiana lo ha già stabilito. Qui si discute dei confini umani e giuridici che lo Stato, in ossequio al suo ruolo, deve sempre elevare per affermare la sua primazia. Caro direttore, la mia storia personale e politica mi consente, senza troppi giri di parole, di definire la vicenda di Cesare Battisti, alla luce di quanto sta avvenendo nella gestione della sua detenzione, emblematica e rappresentativa di uno Stato che deliberatamente rinuncia all’applicazione delle garanzie costituzionali dovute a tutti i detenuti a favore di un metodo punitivo diremmo ad personam che lo pone, a mio giudizio, al di fuori delle prerogative spettanti nell’esercizio delle sue funzioni. Riepilogando in breve una vicenda ormai nota Battisti, dopo aver scontato i 6 mesi di isolamento previsti dalla legge, da giugno 2019 avrebbe dovuto essere detenuto in regime ordinario. In realtà da quel momento ad oggi il detenuto è rimasto prima nel carcere di Oristano in regime di alta sorveglianza, di fatto ristretto per oltre un anno in isolamento, per poi venir trasferito successivamente nel carcere di Rossano Calabro, dove si trova tutt’ora, assegnato alla sezione riservata agli accusati di terrorismo islamico; in tale sezione “speciale” la presenza di soli detenuti di fede integralista islamica, ancora una volta, pone di fatto Battisti in una condizione di isolamento. Dal 2 giugno di quest’anno Battisti ha iniziato uno sciopero della fame per chiedere il rispetto della dignità dei detenuti e l’applicazione dei diritti inviolabili e inalienabili degli stessi. Queste poche righe per riassumere in breve un isolamento senza soluzione di continuità da due anni, a riprova che mai come in questo caso, fatti e norme alla mano, pur nel marasma delle falle della giustizia italiana che ben conosciamo, qui non vi sia spazio per opinioni di parte ma si deve, al contrario, restare saldamente ancorati ai precetti costituzionali e all’impostazione garantista su cui questi sono improntati. Oui non si discute e non si deve discutere se Battisti sia un criminale, di quale entità, e quanto a lungo debba scontare una pena; lo Stato italiano lo ha già stabilito e ha già, condannandolo e traducendolo in carcere, esercitato pienamente questa funzione. Qui si discute, invece, dei confini, morali e giuridici, che lo Stato, in ossequio al suo ruolo, deve sempre elevare proprio per affermare la sua primazia rispetto a chi si è macchiato anche dei crimini più efferati. Nel momento in cui la giustizia viene esercitata artatamente per sbilanciare questo rapporto tra istituzione e reo, nel momento in cui lo stato lede la dignità del detenuto Battisti stracciando di fatto le basilari garanzie alla dignità dell’individuo che valgono dunque anche per lui, nel momento in cui la vicenda detentiva di Battisti ci restituisce la violazione di queste norme fondamentali, che Stato è questo se non uno Stato vendicatore che di fatto sembra ripagare con la stessa moneta un uomo che per anni se n’è fatto beffe, fuggendo e nascondendosi dalle proprie responsabilità? Quali possono quindi essere, se non questi, i motivi per cui per il detenuto Cesare Battisti cessano di valere i principi previsti dalla Costituzione a tutela della dignità e dei diritti di chi è rinchiuso in un carcere? A me pare di poter dire con pochi dubbi che questa vicenda sconti, e ce lo dicono i fatti, una gestione politica che ha sotterrato, anche mediaticamente, e di fatto li ha resi quasi accessori, i principi fondamentali di una giustizia che è giusta solo se esercitata nel rispetto della legge in tutte le sue forme, dall’applicazione della pena alla funzione riabilitativa del carcere. Non posso quindi non evidenziare che quello che sta accadendo a Battisti non sarebbe stato accettabile con il governo precedente, in cui la chiara matrice giustizialista fu sublimata dalle immagini del Battisti “trofeo” sventolato a favore di telecamera dall’allora ministro della giustizia Bonafede e dell’Interno Salvini, figuriamoci con l’attuale governo. Non possiamo permetterci di fare i garantisti a corrente alternata, perché di fatto è un ossimoro giuridico e dobbiamo riaffermarlo sempre con forza e in continuazione. Vale e deve valere per Battisti quello che vale per tutti i detenuti, perché - giova sempre ribadirlo - il grado di civiltà giuridica di uno Stato si misura soprattutto nella capacità che esso ha di garantire il rispetto dei diritti individuali, anche nei confronti di coloro che si sono macchiati dei più atroci delitti e si concretizza nell’aderenza a quei valori sanciti dalla nostra Costituzione, escludendo pene che consistano in trattamenti inumani e degradanti perché la finalità da perseguire è la rieducazione e il reinserimento, non la punizione. Uno Stato che voglia e possa definirsi “di diritto” non può e non deve cercare vendetta. E non può certamente tollerare violazioni così palesi delle proprie regole fondanti. Lo Stato ha il dovere e l’obbligo, giuridico e morale, di assicurare una corretta esecuzione della pena. E noi, come soggetti istituzionali, ma prima ancora cittadini, se questo non avviene, di denunciarlo e chiederne conto. La giustizia di Eschilo di Benedetta Tobagi La Repubblica, 24 giugno 2021 La ministra Cartabia ha manifestato più volte l’intenzione di valorizzare i percorsi di giustizia riparativa, che sarà anche uno dei temi della prossima riforma. Da ultimo, ne ha parlato al festival Taobuk di Taormina, a partire dallo splendido testo delle Eumenidi di Eschilo. La giustizia riparativa però resta un oggetto sconosciuto ai più; spesso viene schiacciata sull’idea di perdono, o s’immagina che mascheri forme di indulgenza eccessiva verso i criminali. Venticinque secoli fa, Eschilo concludeva una saga cruenta di vendette famigliari portando in scena il passaggio epocale dalla logica della vendetta a un’idea di giustizia dominata dal logos, insieme parola e ragione, incardinata sul processo, ma senza cancellarla totalmente. La dea Atena riconosce la potenza e l’importanza delle Erinni, divinità arcaiche della vendetta e del senso di colpa, trasformandole in creature benevole (“eumenidi”, appunto). Il genio di Eschilo simbolizza come la giustizia conservi in sé il seme della vendetta, iscritto nella natura retributiva della pena: è annidata nell’uomo a tale profondità che non si può pensare di sradicarla del tutto, occorre riconoscerla e “addomesticarla”, per scongiurare il rischio che il rigetto per le decisioni, spesso controverse e comunque difficili, del diritto e dei tribunali spacchi di nuovo la comunità. La tragedia coglie un’altra verità generale: la giustizia, fenomeno umano di complessità abissale, si evolve inglobando tracce e residui più o meno evidenti degli stadi precedenti. Assomiglia (non a caso) alla struttura stratificata del cervello umano, in cui il primitivo substrato rettiliano coesiste con le sublimi altezze della corteccia prefrontale. In quest’ottica evolutiva, la giustizia riparativa rappresenta una fase e un orizzonte di novità. Maturata negli Usa a metà degli anni Settanta, approdata in Italia trent’anni dopo, offre un paradigma diverso rispetto al sistema attuale, che espunge il più possibile il “lato umano” dalla giustizia. Propone infatti un modello d’intervento complesso sui conflitti sociali generati dai reati, per promuovere una riparazione dei loro effetti perversi sugli individui, sui rapporti e sul corpo sociale, attraverso strumenti diversi che coinvolgono sia i singoli, sia la comunità. Guarda al futuro, e fa “respirare” i problemi della giustizia, riconnettendoli alla vita delle persone, valorizzando i vissuti (in primo luogo quelli delle vittime), come rabbia, paura, umiliazione, per superare insieme le ferite, materiali e simboliche lasciate dal delitto. Negli spazi della giustizia riparativa si può vedere il mondo “con gli occhi del nemico”, per dirla con David Grossman: un’esperienza trasformativa, forse il modo più potente per ridurre (se non sradicare) la conflittualità alla radice. Gli incontri possono coinvolgere anche il reo, se la vittima vuole, ma non è obbligatorio, talvolta nemmeno opportuno. Esiste la possibilità di mediazione “aspecifica”, in cui si incontra una persona che ha compiuto reato analogo a quello subito. La vittima può chiedere perché, ottenere ascolto e riconoscimento, intendere meglio l’accaduto, specchiarsi nella sofferenza di altri (ricordo la “rivoluzione” nel mondo interiore della figlia di un assassinato nell’incontrare il dolore della figlia di un ergastolano, pure lei di fatto orfana), recuperare un senso di integrità e dignità, trovare pace, dentro di sé e con gli altri. Il reo è invece accompagnato verso la piena assunzione di responsabilità, perché comprendere fino in fondo l’impatto e la gravità del proprio agire è la premessa necessaria a qualunque cambiamento autentico: un aspetto funzionale a un’esecuzione della pena che tenda davvero al recupero dei condannati. Dopo guerre civili o nelle transizioni di regime, come in Sudafrica, la giustizia riparativa opera tramite istituti (le commissioni “Verità e Riconciliazione”) alternativi ad amnistie e processi. In situazioni ordinarie, invece, non sostituisce il normale corso della giustizia penale, ma può completarlo e integrarlo. Diverso il caso della giustizia civile e minorile, in cui le forme di mediazione e conciliazione possono configurare una via alternativa al giudizio, con potente valenza pedagogica e di recupero per i ragazzi. Nel solco di Atena, la giustizia riparativa riconosce il potere delle pulsioni di pancia (senza indulgervi) e promuove strumenti per gestirle e superarle. Può aprire la via a una giustizia più umana ed efficace, e insieme a una società meno spaventata, lacerata e rancorosa. Giustizia, le verità rovesciate di Gian Carlo Caselli Corriere della Sera, 24 giugno 2021 Sulle parole una quantità di equivoci: il garantismo se non è veicolo di eguaglianza non è, anzi degrada le garanzie a strumento di sopraffazione e privilegio. Angelo Panebianco, sul Corriere del 22 giugno, ha stigmatizzato come difetti della cultura politica italiana la “distorsione continua del senso delle parole” e la “identificazione della verità con l’utilità”. Vorrei ricollegare le sue giuste considerazioni al dibattito sulla giustizia. Anche su questo versante la posizione culturale prevalente è quella che considera la giustizia come sinonimo di convenienza (“è giusto non ciò che rispetta le regole ma ciò che conviene”). Circa 30 anni fa la stagione di Mani pulite e delle inchieste sui rapporti fra mafia e politica segnò - per il nostro Paese - un forte recupero di legalità. Per un po’ di tempo sembrò che potesse prevalere quell’Italia che le regole le vuole applicare in maniera eguale per tutti e non soltanto enunciarle. E si innescò un sentimento di aspettativa fiduciosa nella giustizia e nei giudici (talora sopra misura, come quando ci furono toni da tifo calcistico...). Questa “luna di miele” è durata poco, perché la novità di una magistratura che - sia pure con tutti i suoi limiti - cercava finalmente di applicare la legge anche ai “potenti” non poteva lasciare costoro indifferenti. E difatti i “potenti” (soprattutto i nuovi) hanno reagito con vigore, senza risparmio di mezzi ed energie. Ed ecco lo scatenarsi, ormai da decenni, di una crociata anti giudiziaria senza eguali nelle democrazie occidentali. Perché non soltanto in Italia ci sono stati personaggi pubblici inquisiti, ma solo in Italia è accaduto che l’esercizio dell’azione penale nei confronti di imputati “eccellenti” abbia determinato la contestazione in radice del processo e la delegittimazione pregiudiziale dei giudici (spesso indicati tout court come avversari politici). Con il dilagare dell’idea, terribilmente italiana, di una giustizia à la carte valida per gli altri ma mai per sé. E con l’”utilità” imposta come metro di valutazione, sostituendo - con effetti culturali (e talora pratici) devastanti - i tradizionali criteri di correttezza e rigore. La direzione delle indagini e dei processi, non il metodo, è diventata la chiave di lettura della professionalità e della serietà degli inquirenti e dei giudici. Col risultato che il recupero di legalità in atto agli inizi degli anni Novanta è stato costretto a percorrere strade sempre più impervie. Mentre per corrotti e collusi si determinava il vantaggio di una minor fatica nel ricostruire le fortificazioni sbrecciate dalle inchieste. Quanto alla distorsione delle parole, esemplare è stato l’uso del termine “giustizialismo”. Un tempo nei vocabolari la parola era unicamente riferita alla politica dell’argentino Peron, mentre era del tutto sconosciuta nel lessico giudiziario. Cominciò a farne parte quando, con una cinica furbata, qualcuno pensò di escogitare un modo per suggerire callidamente l’idea di un uso scorretto della giustizia, costringendo il dibattito a partire da una sorta di verità rovesciata, con una specie di cartellino rosso da brandire in prevenzione contro chiunque non fosse d’accordo con certe idee. Distorcendo nel contempo anche la parola “garantismo”: applicata ad un garantismo “strumentale”, che vorrebbe disarmare la magistratura di fronte al potere economico e politico; nonché ad un garantismo “selettivo”, che gradua le regole in base allo “status” dell’imputato. Mentre il garantismo se non è veicolo di eguaglianza non è, anzi degrada le garanzie a strumento di sopraffazione e privilegio. Come nel caso (frequente) della confusione tra assoluzione e prescrizione, comoda per non dover ammettere le responsabilità di certi politici. Processo penale, la prescrizione riparte tra appello e Cassazione di Liana Milella La Repubblica, 24 giugno 2021 La riforma della giustizia verso il cdm, Cartabia ha il testo pronto cerca l’accordo con i 5S. Il destino dell’imputato assolto distinto da chi subisce una condanna. Sulla prescrizione, tra Cartabia e Bonafede, un accordo si sta profilando come possibile. Può reggere su un compromesso: in bilico tra la norma dell’ex Guardasigilli di M5S, che vedeva la prescrizione bloccata dopo il primo grado, e che non verrebbe buttata nel cestino per salvare “l’onore” politico dei grillini, e una formula suggerita dal Pd, la prescrizione “processuale”, che si consumerebbe tra il processo di appello e quello in Cassazione. Distinguendo il destino dell’imputato assolto da quello che ha già subito una condanna in primo grado. Al momento siamo fermi all’ultimo scoglio, e cioè decidere cosa succede per chi viene condannato. M5S pone un paletto rigido, dice no a chiudere il processo accettando solo uno sconto di pena, come prevede anche il modello tedesco. Perché si andrebbe a quella “denegata giustizia” da cui ha messo in guardia il (forse) neo leader di M5S Giuseppe Conte. Prima di entrare nel merito tecnico della proposta sulla prescrizione, fermiamoci allo scenario politico. Il premier Draghi vuole chiudere sulla giustizia e arrivare a un risultato concreto già per fine luglio. Gli emendamenti di Cartabia sul civile sono già stati depositati al Senato, adesso bisogna chiudere sul penale e sul Csm. Il premier e la Guardasigilli decidono che sarà il consiglio dei ministri la sede della “sintesi politica”. Lì dev’essere messa quella che, in via Arenula, chiamano la “bollinatura” del testo. Su cui tutti i partner della maggioranza, M5S compreso, apporranno la firma. “Siamo in dirittura d’arrivo” dice Cartabia a chi la incrocia in Transatlantico. E in effetti è così. La riforma penale è pronta. Superati gli scogli sul processo d’appello, che non vedrà un’eccessiva stretta, e sulle priorità dell’azione penale, che resteranno in mano alle toghe e non al Parlamento, eccoci alla prescrizione. Vediamo i dettagli della proposta lanciata dal Pd per tendere un ramoscello d’ulivo al M5S. La prescrizione si ferma dopo il primo grado. Proprio come nella legge di Bonafede. Ma poi il meccanismo cambia. Scatta una prescrizione processuale, legata alla durata del dibattimento. Saranno previsti dei “termini di fase”, due anni per il processo di appello e un anno per quello in Cassazione. Con uno sviluppo diverso a seconda che l’imputato venga assolto oppure venga condannato. Nel primo caso, per l’assolto, se il tempo concesso per chiudere la fase processuale viene superato, scatta l’improcedibilità, il processo si chiude. Se invece l’imputato è stato condannato, ma la fase processuale ha superato i limiti stabiliti dalla legge, allora c’è uno sconto di pena, proprio come avviene nel modello tedesco. Sempre per i condannati, potrebbe essere previsto un termine più lungo per giungere comunque alla sentenza, che però, una volta superato, vedrebbe scattare comunque l’improcedibilità. Ed è qui che, nelle trattative riservatissime in corso, Bonafede e i suoi mettono tuttora dei paletti rigidi perché la filosofia della prescrizione bloccata dell’ex ministro della Giustizia è quella che chi ha commesso un reato deve arrivare a una condanna e non deve essere “graziato” dalla prescrizione. Ma per evitare una trattativa infinita e giungere, per fine luglio, almeno al via libera della commissione Giustizia della Camera, Draghi e Cartabia hanno deciso che il passaggio dal consiglio dei ministri avvenga subito. Il presidente della commissione Mario Pierantoni, di M5S, ha già chiesto al presidente della Camera Roberto Fico di prevedere un nuovo appuntamento in aula rispetto al 28 giugno. E sarà luglio il mese caldo per il processo penale almeno in commissione. L’approdo in aula finirà a settembre. Ddl penale, sfida finale in Consiglio dei ministri di Errico Novi Il Dubbio, 24 giugno 2021 Guardasigilli fiduciosa: “Siamo in dirittura d’arrivo”. Così le scelte sul processo diventano decisive per il futuro governo. Non c’era altra scelta: portare in Consiglio dei ministri gli emendamenti governativi al ddl penale oppure restare nella palude dell’irrisolto per tutta l’estate. Alla fine Marta Cartabia e Mario Draghi hanno preferito vivere. Anzi, evitare di convivere all’infinito coi veti del Movimento 5 Stelle sulla prescrizione. Hanno deciso di discutere del processo penale nel luogo che rappresenta l’attuale maggioranza al più alto livello: il Consiglio dei ministri, appunto. Così ieri alla Camera la guardasigilli, dopo il question time, ha confermato quanto il premier aveva anticipato lunedì con un filo di mistero: “A breve” gli emendamenti al penale saranno discussi con gli altri ministri. E alla domanda se sia riuscita a trovare una mediazione, Cartabia ha risposto con ottimismo: “Sì, sicuramente: siamo davvero in dirittura d’arrivo”. La scelta è impegnativa. Inedita, o quasi. In Consiglio dei ministri ci vanno di solito i disegni di legge, non gli emendamenti ai testi già incardinati in Parlamento. Ma appunto, Cartabia e Draghi non potevano far altro. Hanno condiviso l’idea, inconsueta ma necessaria. Lo hanno fatto in base a una logica chiarissima. Innanzitutto, completare con le necessarie modifiche la riforma penale è obiettivo che riguarda in termini strutturali l’intera fase politica in corso. Non approvare quel ddl vorrebbe dire essere messi in mora dall’Unione europea, che ha chiesto interventi radicali sulla giustizia a garanzia del Recovery fund. Non si può temporeggiare: il testo sul penale va approvato, e per farlo vanno discusse e votate in tempi brevi le modifiche necessarie, incluse quelle ipotizzate a via Arenula. Dopodiché, è noto come il Movimento 5 Stelle non accetti modifiche alla legge Bonafede sulla prescrizione. Più precisamente, i pentastellati sono disposti a tollerare solo la rimodulazione prevista dal “lodo Conte bis”, che distingue la posizione di chi è assolto in primo grado. È il nodo prescrizione a tenere bloccato il ddl. La settimana scorsa il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni, deputato 5S, aveva comunicato a Roberto Fico che la riforma sarebbe arrivata in Aula ben oltre la data fissata, il 28 giugno. L’esame degli emendamenti non è ancora partito proprio a causa dello stallo politico sulla prescrizione, che ha impedito a Cartabia di depositare le proposte studiate al ministero. Ma non si poteva andare avanti per molto. L’addio alla prescrizione di Bonafede è considerato necessario dalla guardasigilli. Ed è ormai scritto in quegli emendamenti governativi che stanno per essere discussi con gli altri ministri. Una volta che a Palazzo Chigi, seppur a maggioranza, si sarà deliberato sulle proposte di via Arenula, sarà chiaro che un ulteriore ostruzionismo politico dei 5 stelle equivarrebbe a una manovra contro l’intero governo. Con tutto ciò che ne può conseguire per l’attuazione de Piano di ripresa e l’uso dei fondi europei. La mossa di Cartabia sembra insomma destinata a sbloccare la partita. Oggi è in calendario un’anteprima: nella commissione Giustizia sarà audito Giorgio Lattanzi, presidente emerito della Consulta (come Cartabia) e alla guida della commissione a cui la guardasigilli ha chiesto di avanzare proposte sul ddl penale. Lattanzi illustrerà di nuovo la sua ampia relazione, che aveva già discusso il mese scorso con i partiti. Tra i 5 stelle c’è chi, come Perantoni, legge il passaggio in chiave positiva: “Con l’audizione di Lattanzi”, fa notare il presidente della commissione, “si chiude l’istruttoria sulla riforma. Come annunciato dalla ministra Cartabia, sono in arrivo anche gli emendamenti del governo: il percorso delle riforme prosegue nonostante i protagonismi referendari e un certo disfattismo. Noi abbiamo scelto di lavorare senza pregiudizi in commissione e fare la nostra parte di parlamentari”. Pare il preludio a Ddl civile, no anche dal “Patto per l’avvocatura” - Il paradosso e che ora rischia di diventare più complicato il percorso del ddl sul processo civile, all’esame del Senato e sul quale Cartabia ha depositato i propri emendamenti la settimana scorsa. Restano nodi di cui soprattutto il mondo forense, Cnf e Unione Camere civili in testa, continua a chiedere la revisione. Ieri è toccato al “Patto per l’avvocatura”, schieramento associativo di cui fa parte Movimento forense, rinnovare le critiche, su due aspetti in particolare. “Al netto dell’apprezzabile rafforzamento degli incentivi per gli strumenti di giustizia complementare, non possono essere condivise molte delle proposte governative, che, ripercorrendo una tecnica legislativa non più accettabile, denotano l’evidente finalità di disseminare, ovunque nel giudizio, inutili barriere all’esercizio della difesa soltanto per le parti e i loro avvocati, ben guardandosi dal prevedere termini perentori per i magistrati”. E ancora, secondo il “Patto per l’avvocatura”, “risulta addirittura aberrante l’intenzione di ampliare l’ambito di applicazione dell’articolo 96 c. p. c., imponendo significative sanzioni economiche a chi abbia avuto perfino l’ardire di resistere in giudizio “senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione”: siamo ormai al vero e proprio processo alle intenzioni, di per sé intollerabile - diremmo: inconcepibile in uno Stato di diritto”. E “se queste sono le fondamenta della riforma in atto”, conclude il documento, “l’Avvocatura non potrà rimanere inerte di fronte allo smantellamento scientifico del giudizio civile in nome della celerità fine a se stessa”. Rilievi di merito, non totem ideologici. Difficile che il governo possa evitare di discuterne. Referendum sulla giustizia, Salvini con Udc e Forza Italia: prove di federazione di Liana Milella La Repubblica, 24 giugno 2021 In Senato tutto il centrodestra unito con Cesa e De Poli, Bernini e Ronzulli, per l’appuntamento della raccolta delle firme che parte il 2 luglio. Salvini attacca ancora i magistrati. Giulia Bongiorno nega che tutto ciò danneggi la riforma Cartabia. Domani sciopero degli avvocati delle Camere penali per la separazione delle carriere. Foto di famiglia sulla giustizia. Di tutto il centrodestra unito. Salvini e Bongiorno, l’Udc con Cesa e De Poli, Forza Italia con Bernini e Ronzulli. Tutti al Senato in conferenza stampa per annunciare il “grande evento” che parte il 2 luglio, la raccolta di firme sui sei referendum radical-leghisti. Dalla separazione delle carriere dei giudici, alla stretta sulla custodia cautelare, alla cancellazione della legge Severino. Il leader della Lega è convinto che gli italiani correranno ai gazebo contro i magistrati. E la Guardasigilli Cartabia che, giusto nella stessa settimana, porta a palazzo Chigi la sua riforma penale? Per Giulia Bongiorno, la nota penalista che è anche responsabile Giustizia del Carroccio, non ci sono problemi. Nessuna contraddizione. I referendum non sono pensati per essere una spina nel fianco di Cartabia. Sarebbero, invece, lo strumento per dimostrare che “serve un cambiamento più profondo sulla giustizia”. Che passa, appunto, per una mobilitazione di popolo. Se ci sarà, ovviamente. Perché già adesso Piercamillo Davigo dice che “i referendum non passeranno” e ironizza su Salvini, l’uomo delle manette, che poi sottoscrive un referendum sulla custodia cautelare voluto dai radicali che è una sorta di “libera tutti”, a cominciare proprio dagli immigrati che delinquono. Ma tant’è. Al Senato, dove la Lega promuove l’ennesimo appuntamento per sponsorizzare i referendum, l’attrazione politica è un’altra. Il fatto che, uno accanto all’altro, nella foto di famiglia, ci sono proprio i partiti del centrodestra, quell’area che Salvini vuole riunificare sotto il suo vessillo. La giustizia, da questo punto di vista, è la materia giusta. E lo è pure la campagna per i referendum che vedrà i gazebo comparire in piazza dal 2 luglio. C’è una grande mobilitazione dei Radicali, ma anche della Lega che, come dice la Bongiorno, vuole dimostrare la sua teoria del “cambiamento profondo necessario per la giustizia”, che certo non può materializzarsi negli emendamenti alla riforma penale, che approda in consiglio dei ministri la prossima settimana per una “bollinatura” politica che non ammetterà poi altri distinguo soprattutto da parte del M5S. Salvini è scatenato, parla di referendum “per la libertà, e non di partito”. Chiaramente vuole sfruttare l’argomento per fare le prime prove tecniche di alleanza con gli altri partiti del centrodestra. Questo è evidente al Senato, quando Lega e Udc organizzano la conferenza stampa, e al tavolo arrivano, accanto a Lorenzo Cesa e Antonio De Poli, anche la capogruppo di Forza Italia Anna Maria Bernini e Licia Ronzulli. È la “foto di famiglia” che serve dopo gli incontri con Berlusconi. Salvini è duro contro i magistrati. Come sempre. Polemizza ancora con l’Anm del presidente Giuseppe Santalucia che ha “osato” annunciare sabato la “ferma reazione” dei giudici contro i referendum. “Minacciare una forte reazione di fronte alla volontà popolare mi sembra improprio in un paese libero, civile e democratico. Forse è la reazione di qualcuno che ha paura di perdere poteri e privilegi” dice Salvini. E la Bongiorno ritorna al giudice Giovanni Falcone quando dice che “i nostri referendum non sono contro i magistrati, Falcone era a favore della separazione delle carriere. Noi siamo contro quel piccolo insieme di magistrati che vogliono fare scambi di favori, siamo contro i magistrati trafficoni, non contro la maggioranza che lavora bene”. E poi ecco l’atout a Cartabia, già fatto tante volte dalla stessa Bongiorno, che nei prossimi giorni vedrà la ministra per un faccia a faccia, perché “noi siamo sostenitori della sua riforma”. Ma poi serve dell’altro per cambiare la giustizia. Già, siamo in politica e bisogna stare alle formule della politica, anche se sono chiaramente contraddittorie. Perché Salvini sostiene la riforma Cartabia, che prevede una carriera unica dei magistrati e la possibilità di passaggi per ben due volte da giudice a pm, ma poi nelle stesse ore lancia in grande stile e scommette politicamente sulla separazione delle carriere. È stata la grande scommessa persa da Berlusconi, che mille volte ha raccontato la storiella dei giudici e dei pm che s’incontrano al bar, familiarizzano, mentre il pm va con il cappello in mano dal giudice per ottenere la conferma delle sue richieste. Ma adesso Salvini ha anche un altro alleato sulla separazione delle carriere, il presidente delle Camere penali Gian Domenico Caiazza, autore di una proposta di legge popolare sulla separazione delle carriere che è già alla Camera dall’inizio della legislatura, ma langue nella commissione Affari costituzionali. Ieri Salvini e Caiazza si sono incontrati. E certo hanno parlato dello sciopero degli avvocati che, da domani, paralizzerà ancora una volta i tribunali per due giorni. Sciopero contro la sostituzione del gip del caso Montarone, ma soprattutto per rilanciare proprio la separazione delle carriere. Manifestazione in piazza Cavour, dove ci saranno anche Carlo Calenda con Enrico Costa, e ancora strali contro la magistratura. Le toghe scrivono a Cartabia: “Ecco le nostre idee per riformare la giustizia” La Notizia, 24 giugno 2021 La lettera di 127 magistrati con 10 proposte “a costo zero”. Una lettera aperta alla ministra della Giustizia Marta Cartabia, per sottoporre alla sua attenzione 10 proposte di riforma “a costo zero” sul processo penale, toccando anche i “nodi” della prescrizione, delle impugnazioni e delle depenalizzazioni. A firmarla sono 127 magistrati in servizio in tutta Italia: l’iniziativa ha preso corpo attraverso un dibattito sulle mailing list delle toghe. “Siamo un gruppo di magistrati che lavorano ogni giorno, tra mille difficoltà, negli uffici giudiziari - si legge nel documento trasmesso alla Guardasigilli - lo facciamo in silenzio, con “disciplina e onore”, nella consapevolezza di rappresentare, per i tanti cittadini che si rivolgono a noi, l’Istituzione statale alla quale si chiede di riparare torti. Sappiamo che non spetta a noi il compito di legiferare, ma, in qualità di operatori del diritto, ci sentiamo in dovere di suggerire 10 interventi legislativi, a costo zero, che consentirebbero, a nostro avviso, di accelerare non poco i processi penali”. In particolare, dopo la relazione della Commissione Lattanzi, incaricata dalla ministra di studiare soluzioni per la riforma del processo penale, i 127 magistrati, “pur apprezzando alcune proposte che sono state formulate”, affermano di temere “che, dopo le tante riforme di questi anni, anche quella legata al riconoscimento delle risorse economiche del “Recovery fund” possa costituire l’ennesima “occasione mancata” per incidere in maniera davvero efficace e significativa su quelle norme dei nostri codici di rito che rallentano in maniera del tutto ingiustificata i processi penali, frustrando le istanze di giustizia dei cittadini”. Inoltre, si legge ancora nel documento, “siamo convinti che, a seguito dei recenti scandali che, pur non riguardando la stragrande maggioranza di noi, hanno gettato discredito sull’intera magistratura, occorre ricostruire un rapporto di fiducia con i cittadini che parta dalla risoluzione dei loro problemi reali”. Per questo, con le 10 proposte avanzate alla titolare del dicastero di via Arenula, i 127 magistrati firmatari del documento chiedono di “razionalizzare il sistema delle notifiche (prevedendo la domiciliazione ex lege dell’imputato presso il difensore di fiducia, come nel processo civile”, “introdurre l’archiviazione dei procedimenti a carico degli irreperibili (stabilendo che il pm possa esercitare l’azione penale soltanto qualora sussistano le condizioni per procedere in assenza), “prevedere la possibilità di emettere sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 cpp, in tutti i casi in cui il gup ritenga improbabile che l’imputato, in caso di rinvio a giudizio, possa essere condannato”, “prevedere il giudizio abbreviato come giudizio “ordinario” (e che il dibattimento debba essere richiesto dall’imputato personalmente o dal difensore munito di procura speciale” e che “il patteggiamento possa essere chiesto senza limiti di pena e di tempo (anche nel corso del dibattimento, in modo da limitare i casi in cui il giudice deve motivare la sentenza di primo grado e l’imputato possa proporre appello)”. Processi più veloci contro la gogna mediatica di Anna Maria Greco Il Giornale, 24 giugno 2021 Nel ddl c’è la nullità degli atti se il procedimento non inizia entro 3 mesi dall’arresto. Basta ai processi che cominciano in piazza: immediata iscrizione nel registro degli indagati dell’accusato e processo entro 90 giorni dall’esecuzione di una misura cautelare. Nessun rinvio, pena la sanzione della nullità degli atti. Il disegno di legge è stato presentato ieri e il primo firmatario Luigi Vitali, senatore di Forza Italia ed ex sottosegretario alla Giustizia, lo illustra in una conferenza stampa a Palazzo Madama. “Vista la necessità di una riforma del processo penale - dice - e considerata la lunga tempistica dei processi, basterebbe modificare qualche norma per risolvere l’annosa questione che attanaglia la maggioranza di governo. Bisogna porre fine a processi mediatici che consegnano all’opinione pubblica un imputato già colpevole. È all’iscrizione della notizia di reato che può iniziare il calvario, perché la rete di garanzia a tutela dell’indagato è praticamente cancellata da un processo mediatico. Il primo giudizio avviene nella pubblica piazza”. Invece, per rispettare il principio della ragionevole durata del processo, il ddl prevede l’apertura del dibattimento entro 30 giorni dalla richiesta e la celebrazione nei tempi previsti, ma non rispettati, dall’articolo 477 del Codice di procedura penale. “Torniamo allo spirito del Codice dell”89, che poi è stato stravolto”. L’iniziativa coincide con la presentazione dei referendum sulla giustizia di Lega e Radicali, ma Vitali precisa: “Siamo favorevoli e li appoggiamo. Uno dei quesiti riguarda proprio la questione della custodia cautelare di cui ci occupiamo nel nostro ddl”. La presidente dei senatori azzurri, Anna Maria Bernini, ringrazia il ministro Guardasigilli Marta Cartabia per “l’ottimo lavoro sulla riforma della giustizia”, però aggiunge che “alcuni aspetti tecnici vanno chiariti e per questo Fi presenta una sua proposta di riforma, una risposta semplice a un problema complesso, con poche modifiche ad alcuni articoli si attua una rivoluzione”. Il ddl firmato da Vitali e altri azzurri, da Giacomo Caliendo a Franco Dal Mas, Nazario Pagano e Massimo Mallegni, ma anche dal senatore di Fdi Alberto Balboni, punta dunque a ridurre drasticamente i tempi del processo. Una delle proposte è quella di rendere obbligatorio per il Pm, a pena di nullità assoluta, iscrivere entro 24 ore nell’apposito registro ogni notizia di reato. “Questa proposta - dice Caliendo - è un ulteriore tassello della politica di Fi a tutela dei cittadini. Non sono norme contro la magistratura ma per garantire la funzionalità del processo e limitare il corto circuito tra giustizia e media nei processi. Queste norme si inseriscono in quel sistema di garanzie che dobbiamo costruire”. Sarà proprio lui a chiedere la calendarizzazione al più presto del ddl in Commissione giustizia. “Il punto più delicato della riforma - interviene Dal Mas - riguarda la fase delle indagini, dove si mettono a rischio la dignità, la riservatezza e la sicurezza delle persone. La vera separazione delle carriere dovrebbe riguardare la stampa e i pm”. Altro che attentato alla Costituzione: la voce “politica” dell’Anm arricchisce la democrazia di Edmondo Bruti Liberati* Il Dubbio, 24 giugno 2021 “Sciogliete l’Anm (come Mussolini) oppure lasciate che faccia politica”. Questa l’efficace sintesi nel titolo dell’articolo del direttore Varì del 22 giugno, che pone la questione in termini chiarissimi: “È ingenuo pensare che il potere giudiziario e la gestione della giurisdizione possano prescindere dal contesto politico in cui sono immersi”. Non è questione nuova, infatti. In Italia l’associazionismo dei magistrati ha una lunga storia poiché risale al 1909 la fondazione dell’Agmi, Associazione generale fra i magistrati italiani. Nello statuto provvisorio dell’Agmi si proclama: “È escluso ogni carattere e fine politico”. Ma il Ministro della giustizia dell’epoca, Vittorio Emanuele Orlando, non vede di buon occhio l’iniziativa e in una intervista propone, con preveggenza, il tema della “politicizzazione”: “Una delle funzioni essenziali del fenomeno associativo sta nella combattività delle associazioni stesse…Sotto questo aspetto, ella già intende come sia indifferente la considerazione che una eventuale associazione fra magistrati si dichiari (e come potrebbe essere diversamente?!) apolitica. Lasciamo anche stare che tutte le associazioni fra funzionari cominciano col porre detta affermazione, ma poi nella loro effettiva attività difficilmente vi si mantengono fedeli”. Ieri una acuta analisi di un grande giurista. Oggi una argomentata posizione critica espressa dal Presidente dell’Anm sui referendum provoca reazioni scomposte. L’onorevole Salvini e il partito Radicale invocano nientemeno che l’intervento del Presidente della Repubblica a “difesa della Costituzione”, dimenticandone due fondamentali principi: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (art. 21); “i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale” (art. 18). Altri politici ed ex politici hanno invocato direttamente lo “scioglimento dell’Anm”. L’associazionismo dei magistrati non solo si fonda su un diritto fondamentale di libertà dei magistrati, ma è stato anche incoraggiato come elemento di crescita della coscienza professionale già in un testo adottato a livello Onu nel 1985. Da ultimo il 6 novembre 2020 è stato pubblicato il parere n. 23 (2020) del CCJE, Consiglio Consultivo dei Giudici Europei, su “Il ruolo delle associazioni dei magistrati a sostegno dell’indipendenza della giustizia” che indica come obbiettivi dell’associazionismo il “promuovere e difendere l’indipendenza dei giudici e lo Stato di diritto e proteggere statuto e condizioni adeguate di lavoro dei giudici” (il testo integrale in versione italiana è pubblicato online su “Questione giustizia” il 27 novembre 2020). A parte il profilo più strettamente sindacale sulle condizioni di lavoro, la difesa dell’indipendenza e soprattutto la promozione dello Stato di diritto proiettano l’azione associativa a pieno titolo nella politica, certo la politica della giustizia. Dopo la caduta del muro di Berlino con riferimento ai Paesi dell’Europa dell’est e come reazione alle associazioni “ufficiali”, “di regime” dei magistrati, si è molto insistito da parte del Consiglio d’Europa sul concetto di libere associazioni, aprendo la strada ad una molteplicità di associazioni nell’ambito di uno stesso Paese e dunque al pluralismo ideologico. In molti paesi, Francia, Spagna, Belgio, Polonia e Germania, da anni sono attive diverse associazioni di magistrati. E non è un caso che l’irrigidimento autoritario che vi è stato in Polonia e in Ungheria ha provocato interventi limitativi delle libere associazioni di magistrati. La peculiarità italiana non è l’esistenza di una pluralità di associazioni di magistrati, le cosiddette “correnti”, ma il fatto che l’Italia sia oggi uno dei pochi paesi in Europa ad avere un’Associazione nazionale di magistrati, che in sostanza è una federazione di diverse associazioni. I referendum sulla giustizia (o meglio alcuni) pongono questioni rilevanti sul sistema giudiziario del nostro paese e in una sana democrazia si deve auspicare che il dibattito si misuri anche con le osservazioni dell’Anm. Osservazioni di merito e non contrapposizione politica tout court. L’Anm rivendicò di aver osservato questo confine nella Relazione di apertura al Congresso Nazionale di Venezia del 2004, nel momento della più forte critica alla “riforma Castelli” e forse fu proprio questo rigore che valse alle posizioni dell’Anm un ampio consenso tra i giuristi. Ora il presidente Santalucia propone “una ferma reazione” a fronte di una situazione nella quale “rischia di prendere quota la propensione a valutare in termini di inadeguata timidezza, se non di inaccettabile gattopardismo, l’atteggiamento riformatore che non mostra i muscoli del radicalismo ideologizzante, che non si fa percepire come disposto ad abbattere vecchi steccati, che poi il più delle volte sono presidi di diretta connessione costituzionale”. Il “giuridichese” non è dei più scorrevoli, ma il senso è chiaro: il dibattito in corso su riforme delicate e importanti, che devono maturare sulla sintesi tra posizioni legittimamente diverse, richiede dialogo e confronto, anziché contrapposizioni frontali. Credo sia interesse generale che anche l’Anm si esprima approfonditamente sui contenuti. È anzitutto necessario un contributo di informazione sui singoli quesiti, alcuni di ben difficile lettura nella formulazione e nel risultato che si vorrebbe raggiungere. Il quesito presentato come “Stop alla legge Severino” potrebbe portare alla caduta di ogni preclusione per la eleggibilità anche di condannati definitivi per gravi reati. Scelta tutta politica sulla quale una associazione di magistrati non ha titolo per intervenire, ma ha titolo per chiarire le conseguenze. È apparentemente semplice e suggestivo nella presentazione quello sulla carcerazione preventiva: il carcere come extrema ratio. Ma occorre siano chiare le conseguenze dell’abrogazione di poche righe dell’articolo 274 del codice di procedura penale, se vi è “solo” il “concreto e attuale pericolo che questi commetta” delitti “della stessa specie di quello per cui si procede” non sarà più consentita la custodia cautelare dell’indagato, in carcere e neppure agli arresti domiciliari. Pensiamo all’arresto in flagranza di un soggetto con diversi precedenti specifici e con non poche probabilità che prosegua nella sua attività criminosa. Il Gip convalida l’arresto e dispone l’immediata scarcerazione, non essendovi questioni di inquinamento delle prove o di pericolo di fuga per un soggetto che non avrebbe la possibilità e nemmeno la convenienza di darsi alla latitanza. Il popolo sovrano deciderà, ma deve essere chiaro su che cosa decide. E poi sistema elettorale del Csm, separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati, ruolo degli avvocati nei Consigli giudiziari. Tutte questioni di “politica giudiziaria”, e in un mondo razionale sarebbe auspicabile avere tante voci e tra queste anche quella dell’Anm. Altro che “attentato alla Costituzione”. *Ex procuratore capo di Milano La sentenza della Consulta sul carcere ai giornalisti mostra che serve una riforma di Giulia Merlo Il Domani, 24 giugno 2021 La pronuncia ha dichiarato incostituzionale l’articolo 13 della legge sulla stampa del 1948 che faceva scattare obbligatoriamente la reclusione da uno a sei anni nel caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato. “Oggi resta la possibilità di condanna alla reclusione per diffamazione a mezzo stampa od attribuzione di un fatto determinato. Ma il giudice può orientarsi verso la sola pena pecuniaria”, spiega la penalista Giovanna Corrias Lucente, con una lunga esperienza professionale nel settore. Servirebbe un ripensamento globale della materia, ma la sentenza della Corte costituzionale rischia di essere l’alibi per l’inerzia del parlamento, che già avrebbe dovuto intervenire. L’intervento della Corte costituzionale sulla prigione per i giornalisti riapre un capitolo mai affrontato a livello parlamentare, nonostante gli stessi giudici della Consulta avessero sollecitato un intervento del legislatore. La pronuncia ha dichiarato incostituzionale l’articolo 13 della legge sulla stampa del 1948 che faceva scattare obbligatoriamente la reclusione da uno a sei anni nel caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato. Rimane invece in piedi il terzo comma dell’articolo 595 del Codice penale sulla diffamazione, che prevede la reclusione da sei mesi a tre anni o la multa nel caso in cui l’offesa sia arrecata a mezzo stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità. “Quest’ultima norma consente infatti al giudice di sanzionare con la pena detentiva i soli casi di eccezionale gravità”, si legge nel comunicato stampa della Consulta, che depositerà il testo della sentenza nelle prossime settimane. Cosa succede ora - La decisione, dunque, fa sì che l’ipotesi del carcere per i giornalisti in caso di diffamazione a mezzo stampa venga relegato a casi di “eccezionale gravità” e sempre sulla base della valutazione di un giudice, dunque senza l’automatismo previsto dall’articolo 13 della legge sulla stampa, e riallinea la normativa italiana alla giurisprudenza europea in materia. L’iniziativa della Corte, tuttavia, è stata caratterizzata da enorme cautela ed è avvenuta solo dopo aver preso atto dell’inerzia del parlamento, che pure era già stato sollecitato a porre rimedio in via legislativa all’incostituzionalità della legge del 1948. “Oggi resta la possibilità di condanna alla reclusione ai sensi dell’articolo 595 comma tre, per diffamazione a mezzo stampa od attribuzione di un fatto determinato. Tuttavia la previsione è di una sanzione alternativa e dunque il giudice può orientarsi verso la sola pena pecuniaria”, spiega la penalista Giovanna Corrias Lucente, con una lunga esperienza professionale nel settore. Tuttavia, la decisione della Consulta rende attuale la necessità di un intervento sistematico in materia che nasca da un’assunzione di responsabilità da parte del legislatore. La dichiarazione di incostituzionalità dell’articolo 13 della legge sulla stampa, infatti, mette in luce altre storture presenti nell’ordinamento. Un intervento sistematico - “Serve un ripensamento globale della materia: è stato dichiarato incostituzionale l’articolo 13, ma si trascura che il codice penale prevede pene fino a tre anni per reati che riguardano la violazione della riservatezza”, dice Corrias Lucente. Non solo: i reati che tutelano la violazione della riservatezza sono perseguibili d’ufficio, il che significa che l’ordinamento gli attribuisce maggiore pericolosità, mentre la diffamazione rimane perseguibile solo a querela e quindi solo dopo l’iniziativa di chi si è sentito danneggiato. “Ora, infatti, la violazione della riservatezza è punita più gravemente del danno all’onore e alla reputazione”, spiega Corrias Lucente, evidenziando come reati di inferiore gravità risultino adesso maggiormente sanzionati rispetto alla diffamazione a mezzo stampa. Ora che la Consulta ha risolto lo storico dibattito, utilizzando la dichiarazione di incostituzionalità per ridurre a soli casi eccezionali l’ipotesi della pena detentiva per i giornalisti, il rischio è che questo diventi un ulteriore alibi per l’inerzia del parlamento. Le camere, infatti, hanno ciclicamente tentato senza successo di mettere mano in modo sistematico alla questione della libertà di stampa. I precedenti - Nella passata legislatura a provarci era stato il Partito democratico, con un disegno di legge a prima firma di Walter Verini che doveva riformare diffamazione a mezzo stampa abolendo il carcere per i giornalisti e introdurre nuove previsioni contro le querele temerarie, utilizzate come strumento intimidatorio per condizionare il lavoro giornalistico. Il testo, tuttavia, si è arenato dopo ben quattro letture. In questa legislatura, invece, a tentare una riforma che però riguarda solo le querele temerarie è il senatore e giornalista del Movimento 5 Stelle Primo Di Nicola. Il suo disegno di legge punta a introdurre un deterrente contro questo strumento utilizzato per intimidire i giornalisti, stabilendo che chi agisce contro un giornalista in malafede o con colpa grave deve essere condannato a risarcirlo con una somma che sia almeno il 25 per cento di quella ingiustamente chiesta a titolo di risarcimento del danno. Il ddl, però, è fermo al Senato da gennaio 2020 e non è nemmeno calendarizzato. Diffamazione, carcere solo nei casi più gravi: ma quali sono? di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2021 Per la Corte costituzionale l’obbligo di reclusione per i giornalisti è incostituzionale, salvo casi di una certa gravità. La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’articolo 13 della legge stampa che prevede obbligatoriamente la reclusione da uno a sei anni, oltre al pagamento di una multa. La notizia è tratta dal comunicato stampa della Corte. In attesa che sia depositata la motivazione, alcune osservazioni possono essere svolte già ora. I giudici avevano davanti due questioni. Una affermava la illegittimità tout court della pena detentiva per la diffamazione e chiedeva, quindi, l’incostituzionalità dell’art. 595 c.p., che prevede la pena alternativa della reclusione e della multa. L’altra contestava che per ogni diffamazione a mezzo stampa con attribuzione di un fatto determinato dovesse essere prevista la reclusione, e quindi sosteneva l’incostituzionalità dell’art. 13 legge stampa, che in caso di condanna la imponeva senza eccezioni. La Corte ha optato per la seconda soluzione, con ciò aderendo, almeno nell’impostazione, all’indirizzo fatto proprio dalla Corte Europea, secondo cui la minaccia del carcere per la diffamazione non viola il diritto alla libertà di manifestazione del pensiero, se è prevista nei casi più gravi. Questa soluzione sancisce anzitutto il fallimento del legislatore, che era stato chiamato dalla Corte, un anno fa, a intervenire sul punto e che tuttavia non è riuscito a por mano alla disciplina, non avendo avuto né tempo né voglia di discutere e approvare un disegno di legge che, tra luci ed ombre, aveva se non altro il pregio di affrontare la materia nel suo complesso. Si tratta, tra l’altro, di una débâcle occorsa in un campo privo di mine ideologiche, come ad esempio quelli dell’aiuto al suicidio o dell’ergastolo ostativo, in cui pure la Corte ha espressamente indicato al Parlamento la necessità di un miglior orientamento costituzionale. Pure qui, ove esisteva un generale consenso circa la esigenza di una modifica e del suo verso, l’inerzia ha avuto la meglio. Ciò induce a riflettere circa l’opportunità dell’utilizzo di un simile strumento, di recente usato dalla Corte per spingere il legislatore a occuparsi di un tema, quando in presenza di un problema di costituzionalità, il mero intervento ablativo dei giudici rischierebbe di creare un vuoto normativo. Ma forse solo uno shock di questo genere è in grado di svegliare il Parlamento dal suo torpore. In secondo luogo, va detto che dal punto di vista degli effetti sulle concrete decisioni dei tribunali nazionali, questa sentenza avrà effetti minimi. Già ieri - e in verità da molto tempo - grazie ad un giudizio particolarmente generoso nel bilanciamento tra attenuanti e aggravanti, anche per la diffamazione a mezzo stampa con l’attribuzione di un fatto determinato (di cui all’art. 13 legge stampa), veniva applicata la tariffa penale dell’art. 595 c.p., che prevede la pena alternativa, detentiva e pecuniaria, preferendo costantemente la seconda alla prima. Un effetto positivo, però, questa sentenza l’avrà di certo: quello di parificare a livello sanzionatorio l’offesa resa dalla stampa e dagli altri mezzi di pubblicità, come internet e televisione. Una parificazione che, come accennato, era già nei fatti, ma che non ci sembra sbagliato stia anche sulla “carta” dell’ordinamento. Ultimo punto: nel comunicato si precisa che è stato ritenuto compatibile con la Costituzione l’art. 595 c.p., che consente al giudice di sanzionare con la pena detentiva i soli casi di eccezionale gravità. Come anticipato, l’architettura sembra, astratto, corrispondere a quella suggerita dalla CEDU. Tuttavia, anche prima di poter leggere la motivazione, tra le due impostazioni sembra esservi una differenza sostanziale. La giurisprudenza europea indicava come casi di particolare gravità quelli di incitamento all’odio e istigazione alla violenza, menzionandoli come esempio di un elenco in teoria aperto, che però non gemmava mai altre ipotesi. Nel nostro ordinamento tali fattispecie sono già previste da autonomi reati e aggravanti, non oggetto del giudizio di costituzionalità. Sicché, se non abbiamo male inteso le parole del comunicato, sembra esserci spazio nel sistema per ipotesi di diffamazione, di una certa gravità, che meritano la sanzione detentiva, al di là dell’hate speech. Auspichiamo che la Corte nella motivazione spieghi con chiarezza quali sono questi casi. Per parte nostra ci permettiamo un suggerimento: inserire in questo catalogo le diffamazioni, o peggio ancora le campagne stampa, commesse con l’intenzione di nuocere alla reputazione altrui. Si tratta, ad esempio, delle offese portate citando fatti conosciuti come falsi, oppure gli insulti gratuiti. Far riferimento a questo insieme di condotte avrebbe due pregi: da un lato garantire una certa qual tassatività, dall’altro aderire all’impostazione, soprattutto europea, in base alla quale il giornalista, all’idea di compiere un errore nella verifica delle fonti, non deve essere terrorizzato da conseguenze sanzionatorie che rischiano di rovinarlo. Verrebbe, quindi, marcata la differenza tra sbagliare ed esercitare il potere dell’informazione per distruggere la reputazione. A maggior ragione oggi, quando le notizie si cristallizzano in rete e rischiano di perseguitare senza tregua. Allontanamento del cittadino Ue solo per il suo concreto agire di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2021 Ma il trattenimento deve essere proporzionato. Il diritto a un nuovo soggiorno è subordinato legittimamente alla concreta esecuzione dell’ordine non essendo sufficiente la partenza volontaria. La Corte Ue con due pronunce contemporanee precisa i limiti alla libertà di circolazione e soggiorno dei cittadini degli Stati membri all’interno del territorio dell’Unione europea. Con una conferma la legittimità di un ordine di allontanamento emesso da uno degli Stati europei, per motivi di sicurezza e di ordine pubblico, nei confronti di un cittadino Ue. Con l’altra afferma la necessità che il cittadino Ue colpito dal provvedimento di allontanamento ponga fine al proprio soggiorno, in maniera effettiva e reale, se vuole godere di un nuovo diritto di soggiorno legittimo nello Stato Ue che lo ha precedentemente allontanato. La sentenza sulla causa C-718/19 afferma in primis la legittimità di una misura di allontanamento applicata contro un cittadino comunitario. Ma La Cgue precisa il provvedimento deve fondarsi su un personale e concreto comportamento del cittadino Ue. Cioè deve sussistere un modus operandi della persona sottoposta che costituisca un pericolo o un danno per la garanzia della sicurezza e il mantenimento dell’ordine pubblico all’interno del Paese ospitante. Oltre al comportamento tenuto dal cittadino Ue alla base della legittimità dell’ordine di allontanamento vi è anche il criterio della proporzionalità della misura adottata. La valutazione di tali elementi costituendo un giudizio di fatto è ovviamente affidata al giudice nazionale dello Stato ospitante. Le misure di esecuzione di una decisione di allontanamento di un cittadino dell’Unione possono colpire anche i suoi familiari e vanno valutate con attenzione in quanto costituiscono pesanti restrizioni al diritto di circolazione e di soggiorno. Perciò i cittadini Ue non possono essere sottoposti a regimi più gravosi di quelli che si applicano agli stranieri cittadini di Paesi terzi. Da ciò deriva che, tenuto conto dei meccanismi di cooperazione esistenti tra gli Stati membri, il trattenimento del cittadino Ue non può essere più limitante di quanto stabilito per i soggiornanti extracomunitari, nel caso in cui non si ottemperi all’ordine o vi siano difficoltà pratiche specifiche da superare per potervi adempiere. Da tutto ciò la Corte Ue conclude che il trattenimento di otto mesi previsto dal diritto belga è sproporzionato rispetto a quanto necessario per assicurare un’efficace politica di allontanamento di un cittadino di uno Stato membro. La sentenza sulla causa C- 719/19 affronta invece la questione del riottenimento di un diritto di soggiorno da parte del cittadino Ue che sia stato allontanato dallo Stato membro ospitante. E chiarisce che deve trattarsi a tutti gli effetti di un “nuovo” soggiorno quindi l’allontanamento deve essersi concretamente realizzato e il nuovo diritto non può porsi in continuità col precedente soggiorno. Per questo secondo la Cgue va affermato che il cittadino allontanato deve poter essere riammesso a soggiornare nello Stato membro che lo ha allontanato. Ma l’allontanamento comminato deve essere stato eseguito in modo concreto ed effettivo. Allontanamento che non si realizza per il solo fatto che il cittadino Ue sia partito dallo Stato che gli ha comminato la misura. E neanche se la partenza volontaria avviene nel termine impartito dal provvedimento: il medesimo cittadino dell’Unione non beneficia più di un diritto di soggiorno temporaneo e se ne deve allontanare ciò che non coincide col fatto di aver lasciato fisicamente il territorio dove è valido l’ordine. Quindi - in occasione del ritorno - il soggiorno del cittadino Ue, precedentemente allontanato, non deve essere in realtà la continuazione del suo precedente soggiorno nello stesso territorio. Spetta al giudice del rinvio verificare se ciò avvenga nei casi concreti posti alla sua attenzione al fine di accertare che il cittadino Ue allontanato abbia effettivamente posto fine al suo soggiorno temporaneo. Se ciò non si verifica lo Stato membro ospitante che ha emesso la misura “espulsiva” non è tenuto ad adottare un nuovo provvedimento di allontanamento sulla base dei medesimi fatti contro il cittadino Ue, ma può basarsi su quest’ultimo provvedimento al fine di obbligarlo a lasciare il suo territorio. Taranto. Un anno da scontare: gli negano il permesso di lavoro e lui rifiuta terapie salvavita di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 giugno 2021 Attualmente è in detenzione domiciliare per scontare una pena di un anno e 4 mesi di reclusione, il reato per il quale è stato condannato è quello di calunnia che avrebbe commesso nel 2011. Ha chiesto il permesso di poter lavorare visto che la famiglia non riesce a sostenersi, ma il tribunale di sorveglianza di Taranto gliel’ha rigettata. Per questo ha deciso, come forma di protesta pacifica, di interrompere la sua terapia insulinica ed inalatoria ai polmoni fino a quando non sarà ascoltato. Si chiama Salvatore Micelli ed è di Taranto. La sua è una vicenda giudiziaria costellata da 10 assoluzioni nei suoi confronti, ricorsi vinti al Tar e diverse cause civili vinte intentate contro di lui. Dal suo punto di vista, ha subito pressioni e accanimenti giudiziari, perché aveva denunciato il sistema degli appalti a Taranto. Tanto da subire anche gogne pubbliche su facebook, creandogli problemi psichici che inevitabilmente si ripercuotono sulla salute fisica: subisce quasi una ischemia, gli esplode il diabete di cui soffriva leggermente fin da piccolo, toccando picchi di quasi 600 come glicemia. Una vicissitudine che ha raccontato dettagliatamente a Maurizio Turco, segretario del Partito Radicale. Ma la denuncia di Micelli verte soprattutto sul rigetto dei benefici, in maniera particolare il permesso di lavoro, nonostante la pena breve da scontare. Il 28 ottobre 2020 il Tribunale di Sorveglianza di Taranto deve esprimersi sulla sua richiesta di affidamento ai servizi sociali per una condanna definitiva del 2018 per il reato di calunnia, condanna ad 1 e 4 mesi di reclusione. L’istanza di affidamento gli sarà rigettata: il 4 novembre 2020, Micelli si consegna ai carabinieri di Taranto per procedere con l’ordine di esecuzione e la sua traduzione nel carcere di Taranto. Lascerà a casa una compagna e un figlio di 11 mesi, tanto da perdersi il suo primo compleanno. Con i suoi legali depositano istanza di fungibilità della pena per decurtare la detenzione subita. La pena residua scende a 12 mesi. Depositano istanza di concessione benefici 199 e 137/ 20 (svuotacarceri covid). Saranno tutte rigettate per pericolo di reiterazione del reato. Ricordiamo che è quello di calunnia. Farà reclamo e in data 12 aprile il Tribunale di Sorveglianza con diverso magistrato accoglie il loro reclamo: il 20 aprile Micelli fa finalmente ritorno a casa in detenzione domiciliare. Il 13 aprile invece la Cassazione annulla l’ordinanza di rigetto dell’affidamento ai servizi sociali. A marzo depositano ricorso per revisione processuale condanna presso la Corte d’Appello di Potenza, ancora in attesa dell’esito. Una vicenda che ha comunicato, tramite missiva di lunedì scorso, al Tribunale di Sorveglianza di Taranto e per conoscenza al Garante Regionale dei Detenuti e al ministero della Giustizia. Non usufruendo dei benefici rigettati, Micelli convive con il proprio figlio minore, di mesi 18, e la sua compagna che rappresenta l’unica fonte di reddito e di entrata economica familiare. Con un solo stipendio, non riescono a sostenersi. Quello che chiede Micelli è aver l’autorizzazione di poter lavorare. Anche perché, attualmente, come scrive nero su bianco nella missiva rivolta alle autorità competenti, ricopre la carica lavorativa di socio-lavoratore della cooperativa Indaco Service con mansione dirigenziale. Potrebbe lavorare, ma il magistrato di sorveglianza ha rigettato la sua richiesta. Per questo, Micelli, ha deciso di sospendere la terapia insulinica salvavita e terapia inalatoria per i polmoni, assumendosi ogni conseguenza del caso. Velletri (Rm). Sovraffollamento e carenza di personale: sit-in davanti al carcere Il Messaggero, 24 giugno 2021 Si terranno questa mattina dalle 10 alle 13 dei sit-in davanti ad alcuni istituti carcerai della Regione Lazio. I sit- In si svolgeranno in un solo istituto per provincia, a Viterbo e Latina. Proprio nel capoluogo arriverà anche il personale del carcere di Velletri. Sarà presente, tra l’altro, anche il Segretario Generale Fns Cisl Latina, Salvatore Polverino. I motivi del sit-in sono noti da tempo: sovraffollamento dei detenuti, carenza del personale di Polizia Penitenziaria, interventi per impedire aggressioni da parte detenuti psichiatrici a danno del personale, richiesta di implementazione di posti disponibili Rems, rinnovo contrattuale e richieste per migliorare le condizioni lavorative del personale e dei luoghi di lavoro. Una protesta che segue quella di una settimana fa nel carcere di Velletri, dove un detenuto Italiano di anni 24 ha aggredito un assistente della polizia penitenziaria. “Il personale di polizia penitenziaria quotidianamente deve trovarsi a fronteggiare detenuti di questo tipo, non si può più andare avanti così perché il personale è stremato e non ha competenza su detenuti con patologie psichiatriche”, aveva affermato Massimo Costantino, segretario generale Cisl Fns Lazio secondo il quale “occorre intervenire e modificare la legge sulle Rems perché, cosi come scritta, a rischiare sono solo il personale di Polizia Penitenziaria e i dirigenti, appare urgente, quindi, determinare protocolli d’intesa, specifici poi nelle diverse realtà, con le Regioni appunto al fine di gestire questa tipologia di detenuti”. Ecco il motivo per cui la Fns Cisl oggi effettuerà in ambito territoriale dei sit-in davanti ad alcuni istituti della Regione Lazio. Per la Fns Cisl Lazio “occorrono maggiori garanzie a tutela del personale per salvaguardare l’incolumità di chi espleta lavoro nelle carceri ed interventi per impedire aggressioni da parte detenuti psichiatrici a danno del personale - richiesta implementazione posti disponibili c/o le Rems - rinnovo contrattuale-richieste per migliorare le condizioni lavorative del personale e dei luoghi di lavoro”, ha concluso Costantini. Parma. Il nostro pane “libero e solidale” di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 24 giugno 2021 Detenuti condannati all’ergastolo preparano le focacce per le mense Caritas della città. Hanno studiato per acquisire la qualifica di panettiere e hanno deciso di donare il frutto del loro lavoro alle mense dei poveri ed alle associazioni di volontariato di Parma. È la significativa scelta di quattordici detenuti della sezione di alta sicurezza “Uno” che hanno dato vita al progetto “Pane libero & solidale”. L’iniziativa è il frutto della collaborazione fra la Mensa di padre Lino, gestita dai frati minori, la Caritas diocesana e il Consorzio europeo per la formazione e l’addestramento dei lavoratori (Cefal), l’ente di formazione del Movimento cristiano lavoratori. Il lavoro del fornaio, dunque, come mezzo per dimenticare la strada del crimine, per stabilire un ponte con la società, valorizzare il lavoro come elemento fondamentale del trattamento rieducativo e, non ultimo, come strumento volto a creare un utile cittadino e valorizzare il carcere quale risorsa del territorio. Ne è convinto Giuseppe La Pietra, coordinatore del progetto, secondo cui va innanzitutto sottolineato che i protagonisti di questa bella storia sono tutti condannati all’ergastolo ostativo, con fine pena fissata al 31 dicembre 9999, i cosiddetti “uomini ombra”. Senza mettere in discussione la definitività della pena, l’esperienza di Pane libero & solidale immagina un patto educativo anche con chi ha compiuto i crimini più gravi, che permetta, a condizioni chiare, se rispettate, la possibilità di riconsiderare le modalità della pena stessa, riaprendo la porta alla speranza. E al cambiamento in meglio della persona. “Progetti come questi rientrano in quei percorsi educativi e personali che costituiscono parte integrante dell’iter detentivo di ciascuno, ma rappresentano anche un momento di riflessione individuale”. La scelta del pane, spiega il volontario, non è casuale: “È l’alimento della condivisione. Rappresenta la necessità dei detenuti di relazionarsi in qualche modo con il resto della città, di compiere un gesto di solidarietà nei confronti di tante persone bisognose. Le due mense che gestiamo, infatti, sono frequentate quotidianamente da cinquecento persone. Le stesse che usufruiscono di pasti caldi e che consumano le focacce preparate dai fornai”. Pane libero & solidale è iniziato in occasione del Giubileo della misericordia e si è interrotto solo a causa della pandemia ma, anche durante il periodo più critico della diffusione del covid, la comunicazione tra le parti non si è mai interrotta. “Prevale nei detenuti e nei poveri dei nostri centri di accoglienza un senso di gratitudine”, riprende La Pietra. “Gli uni ringraziano gli altri: i primi perché, grazie alla loro attività, si sentono di nuovo accolti nella società ed avviano il processo di riscatto e di reinserimento. Il tutto a titolo gratuito. I secondi perché possono mettere insieme pranzo e cena. Per gli uomini segnati da storie di dolore, scelte sbagliate, ciò rappresenta un’opportunità per rinnovare motivazioni ed energie; per i ristretti e per quanti transitano e sostano nelle nostre mense è un’occasione per far lievitare nuovi orizzonti da cui ripartire. Per tutti, è l’opportunità di guardare in modo diverso, libero e solidale, il mondo del carcere e i suoi abitanti”. La meta è anche quella di migliorare la qualità della vita all’interno del carcere, di portare la città dentro il carcere, far prendere coscienza di questa realtà, per creare partecipazione e, al tempo stesso, portare il carcere nella città. Nei giorni scorsi gli ospiti-panificatori hanno ricevuto la visita del vescovo di Parma, Enrico Solmi, accompagnato dal cappellano padre Felice D’Addario, dal team del Cefal, e dalla direttrice della Caritas diocesana Maria Cecilia Scaffardi. “Quelle prodotte da questi ragazzi sono “particole particolari”“ ha detto il presule, riferendosi all’ostificio messo in piedi dai ragazzi annesso al forno. “È il frutto di un’idea di comunione tra due realtà: i detenuti da una parte e i fedeli che frequentano le nostre parrocchie e partecipano alle celebrazioni eucaristiche”. Insomma un’iniziativa che induce alla reciprocità. “In questo dare e ricevere, e riscoprendo nell’altro il dono di Cristo, penso ci sia la radice dell’atteggiamento del volontariato cristiano” rileva La Pietra, confermando la regola che se un detenuto percepisce che qualcuno gli vuole bene, si sente perdonato e si predispone all’assunzione di responsabilità del male fatto agli altri. In quel caso chi ha sbagliato può intraprendere davvero il percorso della misura alternativa al carcere nella quale la società deve credere. Milano. Un campo di Libera nei luoghi della legalità ritrovata di Roberta Rampini Il Giorno, 24 giugno 2021 I 12 volontari da 19 a 30 anni per 4 giorni lavoreranno nel nido del carcere di Bollate Alza la posta in gioco l’asilo nido Biobab, aperto nel 2016 dalla cooperativa Stripes all’interno del carcere di Bollate. Esempio virtuoso di integrazione tra carcere e comunità esterna, aperto ai figli di detenuti, agenti di polizia penitenziaria e famiglie del territorio, a luglio ospiterà il campo di impegno e formazione “Oltre Milano” del progetto “E!State Liberi” organizzato dall’associazione Libera. Un appuntamento estivo con campi di volontariato in Italia per valorizzare il riutilizzo sociale dei beni confiscati alle mafie e per trasmettere i valori della legalità e dell’antimafia. Ma quest’estate Libera Milano e le cooperative Stripes e Il Grillo parlante hanno organizzato un nuovo campo sul territorio per raccontare luoghi e impegno verso i temi della legalità. Si parte dalla Bottega del grillo, il bene confiscato a Garbagnate Milanese gestito dalla coop Il Grillo parlante, poi i volontari andranno alla scoperta dell’asilo nido del Biobab e chiuderanno a “La Tela”, l’Osteria sociale del Buon essere che ha preso vita in un bene confiscato a Rescaldina. “Dal 15 al 18 luglio avremo quattro giorni di impegno e formazione - spiega Lucilla Angelucci del Coordinamento di Libera Milano. Occasione per approfondire la conoscenza delle mafie al nord, ascoltare testimonianze di memoria, scoprire i beni confiscati del territorio e progetti sociali”. I dodici volontari dai 19 ai 30 anni conosceranno e lavoreranno anche nel centro per l’infanzia e le famiglie all’interno del carcere e verranno coinvolti nella realizzazione del “Giardino della legalità” dove i bambini ospiti del servizio per l’infanzia potranno giocare e divertirsi. “È la prima volta che partecipiamo a un campo di Libera - spiega Dafne Guida, presidente della cooperativa. Per Stripes la legalità ha rappresentato da sempre un principio irrinunciabile nell’azione della cooperativa e valore fondamentale su cui si fondano le nostre proposte educative. Vogliamo andare oltre questi tempi difficili della pandemia insieme ai giovani in un’esperienza di memoria e impegno”. Milano. “Gli occhi grandi color di foglia”, i detenuti si raccontano sulle note di De André di Barbara Benedettelli legnanonews.com, 24 giugno 2021 A Parabiago i detenuti si raccontano sulle note della musica di Fabrizio De André. In occasione della Giornata mondiale contro l’abuso e il traffico degli stupefacenti che si celebra ogni anno il 26 giugno, l’amministrazione ha organizzato per giovedì 24 “Gli occhi grandi color di foglia”, serata ad ingresso gratuito - ma prenotazione obbligatoria sul sito www.eventiparabiago.it - che dalle 20.30 porterà al campo sportivo Rancilio la musica del cantautore genovese e le testimonianze di persone detenute al carcere di Opera che, attraverso un percorso di consapevolezza, hanno ormai abbandonato il contesto criminale. La serata prende il nome da un verso di “Via del Campo”, una delle prime e più note canzoni di De André. Una bambina e una prostituta vivono entrambe in Via del Campo, tanto vicine l’una all’altra da far germogliare fiori, illusioni e speranze d’amore in chi va a trovarle. La prossimità fra l’una e l’altra c’è, ma per coglierla occorrono occhi grandi color di foglia, capaci di accettare parentele nascoste fra personaggi apparentemente incompatibili. Scritta in collaborazione con Enzo Jannacci, “Via del campo” invita al dialogo con ciò che a una prima lettura sembra distante e privo di valore, ma in verità richiama all’importanza della comunicazione con le proprie parti dimenticate o negate, cioè con quegli errori, fragilità, insicurezze o, come dice la canzone, con quel letame da cui possono nascere progetti e riconoscimento reciproco fra persone diverse. “Le storie di vita di queste persone, la cui caduta nell’abisso ha portato con sé altre esistenze innocenti - spiega l’assessore alla cultura Barbara Benedettelli - così raccontate agiscono da vero e proprio deterrente soprattutto per i giovani che si affacciano alla vita. Allo stesso tempo il loro importante percorso di rinascita fatto con il Gruppo della Trasgressione e i familiari delle Vittime, lascia sperare che nulla è mai perduto. Che c’è sempre, anche nella vita più disperata, il modo e il momento di trovare luce”. L’iniziativa è curata dal Gruppo della Trasgressione, ovvero un gruppo di detenuti che, dopo anni di lavoro sui propri errori, partecipa oggi a progetti in favore del bene collettivo che in passato aveva offeso. Alcuni musicisti che accompagneranno i racconti dei detenuti, sono professionisti che hanno suonato realmente con Fabrizio De André: Juri Aparo, che dal 2005 incrocia le canzoni di De André con i temi e la ricerca del Gruppo della Trasgressione che opera a Milano dentro e fuori dal carcere e di cui è il coordinatore, Giancarlo Parisi, poli-strumentista che con i suoi flauti, sax e fiati etnici ha partecipato a molti dei tour di Fabrizio de André ed è oggi leader di diverse iniziative collegate al mondo del cantautore di Genova, e Tonino Scala, musicista eclettico e compositore, conoscitore come pochi altri delle canzoni italiane dagli ‘60 a oggi e in particolare della musica d’autore. “Siamo davvero lieti di ospitare un evento così particolare e vero - commenta il sindaco Raffaele Cucchi. Quando le persone raccontano la propria storia è sempre un arricchimento per ciascuno, soprattutto quando si parla di inciampi ed errori che fanno pensare e interrogano su come spendere la propria vita. Ma c’è anche a tema l’idea del pentimento, del perdono e del riscatto. Esempi che potrebbero far riflettere tutti, anche attraverso le canzoni sempre attuali di De André”. Monza. “Il Giardino delle ortiche”, i racconti dei detenuti diventano un libro di Annamaria Colombo Il Cittadino, 24 giugno 2021 Lunedì 5 luglio la presentazione, nella Casa Circondariale di Monza, dell’antologia “Il Giardino delle ortiche”, i testi e i temi trattati nell’inserto “Oltre i confini” che viene pubblicato con il Cittadino. Un’antologia di racconti, di storie di vita narrate da persone recluse. È “Il giardino delle ortiche”, a cura di Antonetta Carrabs, frutto del lavoro della redazione Oltre i Confini - Beyond Borders, nata nella casa circondariale Sanquirico nell’estate 2018 in collaborazione con il Cittadino che lo pubblica a cadenza bimestrale con il giornale in edicola e digitale. L’opera, realizzata grazie all’associazione umanitaria Zeroconfini Onlus, sarà presentata lunedì 5 luglio alle ore 9.30 nell’area verde della struttura penitenziaria. All’incontro saranno presenti, oltre alla curatrice Antonetta Carrabs, anche il direttore della Casa Circondariale Sanquirico Maria Pitaniello, il direttore de il Cittadino Monza Brianza Cristiano Puglisi e il direttore del Cpia Monza e Brianza Claudio Meneghini. “Questo libro - spiega Antonetta Carrabs, presidente Zeroconfini Onlus - racconta il nostro altrove. Non vuole essere un riassunto di esistenze perdute, ma la narrazione delle nostre storie di vita che risuonano qui dentro come uno sciame sismico e ci fanno rumoreggiare la testa come un alveare. Sono racconti nomadi di persone recluse meritevoli di essere raccontati e immortalati su una bobina di carta. In questo nostro triste presente viviamo a contatto con persone di etnie diverse e provenienti da mondi lontani che ci portano a scoprire realtà che appartengono a diverse latitudini e longitudini. Scrivere è diventato per noi un bisogno primario ci aiuta a traghettare verso la vita libera forse con una maggiore consapevolezza di tutti quei valori che avevamo perduto e che oggi abbiamo ritrovato”. Ai lettori de il Cittadino i “racconti nomadi” contenuti nell’antologia sono cosa nota, pubblicati in questi anni tra le pagine del giornale con inserti di otto pagine. Una iniziativa sostenuta dall’allora direttore Claudio Colombo e curata in redazione dal giornalista Roberto Magnani. “La parola, la poesia e la narrazione hanno avuto un ruolo auto-educativo e terapeutico -riprende Carrabs - e hanno consentito una sorta di emancipazione anche in una situazione difficile come quella del carcere. Hanno aiutato gli animi a riconciliarsi preparandoli alla riappacificazione con quel mondo dal quale sono stati momentaneamente allontanati. Questa esperienza ha svolto un’importante funzione di democratizzazione e di sensibilizzazione, favorendo il consolidamento di un gruppo che è riuscito a traghettare, fuori dalle mura, la propria realtà umanizzata fatta di persone che vivono in attesa di riconquistare la propria libertà, una libertà che descrivono come un dono prezioso”. Il progetto ha goduto della disponibilità e del supporto del direttore della Casa Circondariale Sanquirico Maria Pitaniello, convinta che “la scrittura abbia una valenza terapeutica autentica e rappresenti un ponte tra chi scrive e l’esterno che permette di conoscere e farsi conoscere”. “Un ringraziamento - sottolinea Carrabs - va anche al direttore del Cittadino di Monza e Brianza Cristiano Puglisi convinto che “dagli errori non siamo immuni” e che sia proprio questo lo spirito con cui affrontare i testi che troverete all’interno di questo volume. Testi che sono fatti per essere letti con gli occhi ma prima di tutto vanno affrontati con il cuore. E grazie anche a Claudio Meneghini, direttore del Cpia Monza e Brianza, che affida “alla scuola in carcere un compito importante nella formazione e riabilitazione del detenuto attraverso la pratica della scrittura che in questo volume assume anche la forma della scrittura poetica”. Pistoia. “Stabat mater”, il cortometraggio sui detenuti tra tragedia e speranza di Maria Brucale Il Riformista, 24 giugno 2021 Cristo, “U figghio ‘e Dio, u figghiu ‘e Maria, u pazzu, Gesù u pazzu”, è finito in carcere, destinato all’atroce supplizio. Tutta la sua opera è stata vana, come una Babele rasa al suolo. A nulla servirono “i passi sulle maree, i sandali ansanti e polverosi per le strade, il vino, i pani, i pesci moltiplicati”. E ora, come può il suo sguardo scendere fino ai luoghi di privazione, nelle carceri, “cimiteri silenziosi, corpi senza nessuna pietà, senza una umana compassione”? In cui i ristretti giacciono negli abissi marini delle stanze spiate, nel sonno della coscienza e delle anime trasformate in manichini. Il corto Stabat mater ha la regia di Giuseppe Tesi e ne esprime la forza del pensiero, il disincanto non rassegnato davanti alla natura dell’uomo, la profonda comprensione delle trame del sentire, delle fragilità, delle pulsioni, del nichilismo, dell’aspirazione al riscatto ed al recupero, della ricerca mai paga di opportunità. È interpretato da Melania Giglio e da Giuseppe Sartori, i protagonisti, che rendono pulsanti, sugli schemi della tragedia greca, i bellissimi versi in prosa, liberamente tratti da un testo di Grazia Frisina, e dai detenuti diversi per età, per etnia, per confessione religiosa, a rappresentare la vocazione del progetto di riunire in una concezione religiosa di sapore pannelliano dove “religo” è, appunto, unione, compenetrazione. La fotografia diretta da Riccardo De Felice e le musiche originali di Marco Baraldi accendono la trama di suggestioni intimistiche e calzanti e accompagnano in un cammino che attraversa senza perdersi i sentieri più bui dell’uomo, nelle sue tribolazioni, nelle sue cadute. Un canto di dolore e di resurrezione laica raccolto da una madre universale che porta in sé lo strazio della perdita, lo smarrimento delle coscienze, la miseria dell’uomo, la potenza salvifica dell’amore che nella morte recupera il senso della vita. Un esercizio di libertà per i detenuti di Pistoia, per tutti i reclusi dei quali il regista disvela il bisogno struggente di partecipare, di raccontare, di emozionarsi, di sperare. La violenza si esprime come negazione della ragione, furia insensata, deprivazione, in un non luogo che pretende che l’uomo cessi di essere per diventare; che deresponsabilizza per rieducare; che deprime per punire; che spegne per controllare; che annichilisce per contenere; che pretende di restituire alla vita libera risanate persone cui ha negato proprio l’essenza di vita, la coscienza di relazione, la sostanza di pensiero, la costruzione del giorno e del suo divenire, la prospettiva. “Allora è morto, è morto davvero? Ora è giunta la notizia della sua morte. Inchiodato al palo della sua colpa assediato da una muta di lupi, crocifisso. Con scandalo era venuto a questo mondo. Il bagliore di un risveglio diceva di essere. Il battesimo di ribellione”. “Di te ridono tutti, o principe pagliaccio, Dio, uomo, fantoccio”. La carne esangue di un figlio che è figlio di ognuno è portata di peso fuori da quelle mura in cui il pianto non fa rumore da una madre che si fa carico della insopportabile fatica dell’addio nel dilaniante orrore della separazione e la restituisce alla terra in un ultimo gesto di pietà. La misericordia si cala sulle spoglie mortali vestendo di polvere quel corpo nudo, intatto nella sua bellezza, impeto straziante di infinito, anelito di ristoro di una dignità privata e mutilata. L’umanità tutta è ferita ma mai sconfitta. Torna a esprimersi scomposta e imperiosa e invoca, pretende attenzione. Si fa canto e danza, richiesta di aiuto, preghiera, inno alla speranza, attesa di futuro. Firenze. La street art entra nel carcere quinewsfirenze.it, 24 giugno 2021 Sta per essere terminato il grande murale intitolato “La scritta che buca” dipinto dall’artista Nico Lopez Bruchi insieme ai detenuti del Gozzini. Un murale per la Casa circondariale Mario Gozzini, si intitola “La scritta che buca” e sarà inaugurato nelle prossime settimane. Il progetto della cooperativa Cat, cofinanziato dalla Fondazione Cr Firenze e dal Comune, ha visto protagonisti l’artista Nico Lopez Bruchi e i detenuti del Gozzini che hanno dipinto non solo un murale sui 100 metri della facciata principale esterna ma anche gli spazi interni che ospitano la didattica. Al Gozzini i lavori erano cominciati alla fine del mese di novembre. “Sono particolarmente felice di questa nuova opera d’arte urbana, che arricchisce la nostra città - ha dichiarato l’assessore Guccione - perché costruita a partire da una coprogettazione fra collettivo Edf crew e detenuti. Un’opera che, immaginando un percorso di redenzione ricco di simboli come il viaggio, la meta e l’equilibrio, sottolinea il valore sociale e educativo dell’arte”. Ddl Zan, Draghi difende il parlamento: “È libero di legiferare” di Carlo Lania Il Manifesto, 24 giugno 2021 Il premier risponde alla nota del Vaticano: “Siamo uno Stato laico, no confessionale”. Sono bastati due minuti e poche parole a Mario Draghi per replicare all’attacco portato dal Vaticano al ddl Zan: “Il nostro è uno Stato laico, non uno Stato confessionale”, ricorda il premier parlando nel pomeriggio al Senato. Un modo per ribadire l’autonomia del parlamento che deve essere “libero di discutere e legiferare” anche perché, spiega, “il nostro ordinamento contiene tutte le garanzie per assicurare che le leggi rispettino i principi costituzionali e gli impegni internazionali, tra cui il Concordato con la Chiesa”. Concetti che dovrebbero essere scontati, ma che Draghi utilizza per mettere i puntini sulle “i” garantendo - a chi Oltretevere si è detto preoccupato che la legge contro l’omofobia possa limitare la libertà d’espressione - che non esiste nessun pericolo in tal senso. E non solo perché tra i compiti delle commissioni parlamentari c’è anche quello di verificare la costituzionalità delle leggi che vengono discusse, ma anche perché esiste un successivo controllo da parte della Consulta. “Voglio infine precisare una cosa che si ritrova in una sentenza della Corte costituzionale del 1989 - è la conclusione del premier: la laicità non è indifferenza dello Stato rispetto al fenomeno religioso, la laicità è tutela del pluralismo e delle diversità culturali”. Nei programmi l’intervento di ieri in parlamento sarebbe dovuto servire al premier per illustrare i contenuti del consiglio europeo che si apre oggi a Bruxelles. E per buona parte del tempo è di questo che si è parlato, di immigrazione, politica estera e clima. Il riferimento al ddl Zan arriva solo nella replica finale. Draghi sceglie di affrontare la questione a Palazzo Madama e non alla Camera, dove si è recato al mattino, perché è lì che la legge è ferma da mesi, bloccata dall’ostruzionismo della Lega. Un intervento studiato e limato fin da martedì mattina, quando la nota ufficiale della Santa Sede, presentata ufficialmente il 17 giugno, sebbene con un insolito ritardo è diventata pubblica. Al mattino, anche il presidente della Camera Roberto Fico era intervenuto per respingere ogni “ingerenza”: “Il parlamento è sovrano”, aveva detto. “I parlamentari decidono in maniera indipendente. Il ddl Zan è già passato alla Camera, ora è al Senato e noi non accettiamo ingerenze”. Come due giorni fa la nota del Vaticano aveva dato forza agli oppositori della legge contro l’omofobia, le parole di Draghi ieri hanno avuto l’effetto di rendere più saldo il fronte dei sostenitori della legge: “Ci riconosciamo completamente nelle parole di Draghi in parlamento sulla laicità dello Stato e sul rispetto delle garanzie”, scrive su Twitter il segretario del Pd Enrico Letta. “La sottolineatura de presidente Draghi chiude una discussione ideologica: il parlamento è sovrano. Si vada avanti con il ddl Zan”, ribadisce il senatore dem Andrea Marcucci. E apprezzamento alle parole del premier arriva anche dalla senatrice di LeU Loredana De Petris, che ricorda un altro passaggio dell’intervento fatto al Senato: Draghi ha fatto benissimo a ricordare che è il parlamento e non il governo a dover decidere sul ddl Zan, che oltretutto è una legge di iniziativa parlamentare”. Un nuovo tentativo di sbloccare la legge si è avuto ieri sera durante la riunione dei capigruppo del Senato. Pd, LeU, Autonomie e M5S hanno chiesto di interrompere i lavori in commissione Giustizia e di portare il testo in aula senza relatore. Richiesta alla quale si associa anche Italia viva, sebbene nelle ultime settimane il partito di Renzi abbia più volte aperto all’ipotesi di un tavolo con la Lega per valutare eventuali modifiche al testo. Carroccio e Fratelli d’Italia si sono opposti chiedendo anzi di bloccare l’iter della legge in attesa che del parere della commissione Affari costituzionali. Alla fine niente accordo. La riunione dei capigruppo ha deciso di aggiornarsi al 6 luglio. In quella data l’Aula di Palazzo Madama sarà chiamata a votare sulla calendarizzazione richiesta dalle ex forze della maggioranza giallorossa che vogliono il ddl Zan in Aula nella settimana del 13 luglio. Il ddl Zan e l’incognita dei voti a scrutinio segreto. E Renzi avverte: “Attenti ai numeri” di Francesco Verderami Corriere della Sera, 24 giugno 2021 Il ddl Zan e l’incognita dei voti a scrutinio segreto. E Renzi avverte: “Attenti ai numeri”. Draghi ha appena terminato di parlare al Senato, quando Renzi commenta con alcuni esponenti di Italia viva il passaggio riservato dal premier al ddl Zan: “Il Vaticano ha commesso un errore, perché il testo di legge non viola il Concordato. Semmai viola le regole della matematica, perché al Senato non ci sono i numeri per approvarlo. Il rischio è che venga cassato a scrutinio segreto. E visto che di voti a scrutinio segreto ce ne saranno una ventina, immaginate cosa potrà combinargli Calderoli”. Se Renzi già scarica sulla Lega la responsabilità di un eventuale affossamento del provvedimento, è per allontanare da sé i sospetti che montano nel Pd: l’accusa di intendenza con Salvini, insieme al quale starebbe costruendo un accordo in vista della corsa al Colle. L’ex premier pare non curarsene, scaricando a sua volta sul Nazareno la colpa di un esito che dà (quasi) per scontato: “Questo è il risultato della politica degli influencer, che a forza di inseguire i like di Fedez finisce per smarrirsi”. E oplà. Si torna all’eterno derby tra Renzi e Letta, che pure non intende “indietreggiare” sul ddl Zan, nonostante tutto sembri congiurare contro: dalle bordate della Santa Sede verso cui mostra “rispetto”, fino ai malumori che covano nel suo partito. Perché nel Pd l’area cattolica ribolle, se è vero che un suo autorevole esponente definisce “un grave errore cercare di costruire il nostro profilo identitario su una bandierina ideologica grillina, senza curarsi nemmeno di parlarne con il Vaticano, con cui non si tengono più rapporti strutturali come un tempo. Così un tema laico di notevole rilevanza finisce per trasformarsi in uno stendardo del laicismo”. Le obiezioni tra i dem di ogni latitudine sono di merito ma anche di metodo, dato che la prova di forza - la volontà cioè di votare subito il provvedimento - sconta peraltro l’evanescenza del principale alleato: “Se Conte finora non si è esposto, è perché magari non vuole irritare suoi vecchi sponsor in Vaticano. Vedremo se sarà l’araba fenice che farà risorgere M5S. Al momento è solo cenere”. Insomma il Pd teme di combattere la “battaglia di civiltà” sul ddl Zan scoprendo di non avere con sé il blocco riformista, se è vero che persino Calenda è rimasto coperto. Certo ha poca rilevanza parlamentare, ma come racconta Costa il testo non persuade il leader di Azione: “La tutela dell’identità di genere, lui dice, è un principio che può scardinare certi meccanismi di legge. E non solo. Per esempio, se un uomo si sente donna può chiedere di candidarsi nelle quote rosa? O di iscriversi ad una gara sportiva femminile? Eppoi, politicamente, non è facile trovare un compromesso: se ti siedi a discuterne con i cardinali non ne esci più. È un ginepraio. A quel punto che fai, ti alzi e li mandi a quel paese?”. In appena ventiquattro ore una delicatissima questione che aveva investito il governo per via della nota inviata dalla Santa Sede, è tornata ad essere una materia squisitamente parlamentare. “Draghi è stato abilissimo”, sorride Lupi: “Meno male che non è un politico”. In effetti ieri il premier, dopo aver consultato alcuni costituzionalisti, al Senato ha prima ribadito i principi dello “Stato laico”, riconoscendo alle Camere la “libertà di legiferare”. Poi ha delimitato i confini delle leggi, ricordando i controlli dello stesso Parlamento e della Consulta a “garanzia” dei dettami costituzionali e degli impegni internazionali, “tra i quali c’è il Concordato”. Così per un verso ha rassicurato il Vaticano, con cui c’era stata un’interlocuzione precedente all’invio formale della nota. Per l’altro ha messo al riparo il suo gabinetto dalle tensioni parlamentari. Il sei luglio infatti il Senato voterà se calendarizzare per la settimana successiva l’esame in Aula del ddl Zan, come hanno chiesto M5S e Pd. Ma siccome il provvedimento è di natura parlamentare, qualsiasi sarà la soluzione non inciderà sugli equilibri di governo. Per i partiti il caso è aperto, e bisognerà capire se il Pd - alla vigilia delle votazioni a scrutinio segreto - cercherà un’estrema mediazione che rimanderebbe il testo alla Camera. Per Palazzo Chigi invece il caso è chiuso. E l’ha chiuso Draghi. L’altro ieri, mentre infuriava la polemica, un suo ministro aveva ricevuto uno stringato messaggio: “Tenersene fuori”. È chiaro a cosa si riferisse, ma non è noto chi glielo abbia mandato. Draghi: sull’immigrazione trattativa lunga, non aspettiamoci risultati trionfali di Andrea Colombo Il Manifesto, 24 giugno 2021 Il premier in vista del Consiglio europeo. Per Draghi l’ottimismo è un obbligo, ed è lui stesso a ironizzare sul tema nella lunghissima replica al Senato, prima del voto sulle mozioni in vista del Consiglio europeo: “Lei vede di solito il bicchiere mezzo vuoto, io mezzo pieno anche per interesse costituito”, afferma rivolto al senatore Crucioli, al quale risponde direttamente, puntigliosamente, in questa fluviale replica il cui scopo è in tutta evidenza dimostrare considerazione per un parlamento che, nei fatti, rischia invece di essere spogliato ulteriormente delle sue prerogative da un governo commissariale qual è quello di Draghi. Ottimista e fiducioso, sì, ma sempre con i piedi ben piantati per terra. Il tema principale del Consiglio sarà l’immigrazione. L’Italia è il Paese più direttamente coinvolto e quello che ha chiesto e ottenuto la messa all’odg del tema per la prima volta dal 2018. Draghi rivendica la rapidità con cui la Ue ha risposto positivamente alla sua richiesta e ci vede un segnale positivo. La sua, giura, “non è la rivendicazione di un merito ma il marcare una sensibilità diversa, capire che certi problemi possono risolversi insieme”. Ma il premier non si fa illusioni e non vuole che se ne facciano i parlamentari. Quella sensibilità diversa ancora non c’è, o almeno non in misura sufficiente: “Non aspettiamoci risultati trionfali. La trattativa è lunga. Dobbiamo essere persistenti e incisivi”. Sul nodo centrale, cioè il peso che grava essenzialmente sui “Paesi di prima accoglienza”, dunque sul trattato di Dublino, la strada è in salita: “Il tema è divisivo”, riconosce il premier. E le regole europee impongono l’unanimità. Certo, si potrebbe eliminare quell’obbligo che è un cappio. Peccato che “anche per cambiare la regola dell’unanimità ci voglia l’unanimità”. E comunque per fare passi avanti ci vorranno mesi. In autunno ci sono le elezioni in Germania, in primavera in Francia, la faccenda in campagna elettorale pesa. Se ne comincerà a riparlare all’inizio dell’anno prossimo e per stringere anche solo un po’ ci vorranno mesi. Non è solo questione di quell’inamovibile trattato. Il Consiglio confermerà il rinnovo dell’accordo con la Turchia: 6 miliardi sborsati per fermare i flussi verso la Germania. Per i Paesi africani, primo fra tutti la Libia da cui partono i migranti che arrivano in Italia, ci vorrà più tempo e al momento anche i fondi scarseggiano: un paio di miliardi che però dovrebbero gonfiarsi di qui a ottobre. Il punto è che Erdogan è sì “un dittatore”, come da sbotto di Draghi qualche mese fa, però almeno in Turchia si sa chi ha in mano il timone. In Libia e nei Paesi africani no e questo rende tutto più complicato. Ma anche qui Draghi vede il bicchiere mezzo pieno: “Non è che in Libia l’Italia non abbia carte da giocare”. Egitto. Regeni, l’ultima bugia del Cairo sul “teste Gamma” keniano di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 24 giugno 2021 Inviata una finta smentita sull’uomo che accusò un ufficiale egiziano del pestaggio di Giulio. L’ultima manovra egiziana sul caso Regeni contiene una bugia e un’irrituale “difesa d’ufficio” dei quattro ufficiali della National security agency accusati del sequestro, delle percosse e dell’omicidio del ricercatore torturato e ucciso al Cairo tra la fine di gennaio e il 3 febbraio 2016. La scorsa settimana il procuratore generale della Repubblica araba Hamada Al Sawi ha incontrato l’ambasciatore italiano Giampaolo Cantini per consegnargli due documenti: un memorandum che contesta la ricostruzione della Procura di Roma condivisa dal giudice che ha ordinato il rinvio a giudizio degli imputati, e la risposta del Kenya a una rogatoria dell’Egitto. Secondo il comunicato ufficiale emesso al Cairo, questo secondo atto “riporta la smentita di quanto era stato sostenuto circa un agente di polizia keniano che avrebbe sentito un ufficiale di polizia egiziano, durante una riunione nella capitale del Kenya, che asseriva di aver avuto un ruolo nel rapimento e nell’aggressione di Regeni in Egitto”. Dunque si tratterebbe di una sconfessione delle dichiarazioni del teste Gamma (sigla di copertura attribuita dagli inquirenti italiana), il quale ha raccontato di aver ascoltato nell’agosto del 2017, in un ristorante di Nairobi, un egiziano poi qualificatosi come il maggiore Magdi Sharif (l’unico imputato che risponde anche di omicidio) confessare a un collega keniano di avere fermato e anche picchiato Giulio la sera del 25 gennaio 2016. Tuttavia dalla lettura del documento si scopre che le autorità di Nairobi non hanno smentito niente. Nella risposta inviata al Cairo, infatti, è scritto: “Risulta impossibile provvedere all’esecuzione della richiesta di assistenza, in quanto gli elementi riportati non sono sufficienti per identificare l’ufficiale di polizia keniano oggetto della richiesta”. Lo scambio di informazioni tra i due Paesi africani sembra basarsi su un equivoco, da capire se involontario o meno: l’Egitto aveva chiesto al Kenya notizie sul poliziotto interrogato dai magistrati italiani, e il Kenya ha replicato che a loro non risultava nulla, quindi erano necessari ulteriori dati che solo l’Italia poteva fornire. Ma i magistrati romani non hanno mai affermato che il loro testimone fosse un poliziotto, qualifica che invece si riferisce all’uomo al quale Sharif avrebbe confessato il sequestro di Regeni. Di più: a maggio 2019 l’Italia ha inviato una rogatoria in Kenya per verificare se c’erano elementi della presenza del maggiore Sharif in quello Stato nell’estate 2017, e altre informazioni utili proprio a identificare il poliziotto suo interlocutore. In oltre due anni, però, non è arrivata alcuna risposta. Insieme alla falsa notizia della smentita keniana, l’Egitto ha anche inviato un lungo memorandum nel quale si contraddicono quasi punto per punto gli elementi d’accusa raccolti contro i quattro imputati. Per concludere che “la Procura generale egiziana ritiene i sospetti delle autorità investigative italiane il risultato di conclusioni scorrette, esagerate e logicamente inaccettabili, contrarie alle regole penali internazionali compresa la presunzione d’innocenza e la necessità di fornire prove inconfutabili contro gli indagati per processarli”. Il procuratore Al Sawi ha chiesto all’ambasciatore Cantini di trasmettere il documento al tribunale che dovrà processare i funzionari egiziani, ma attraverso i ministeri degli Esteri e della Giustizia il memorandum è arrivato ieri mattina in Procura, dove il capo dell’ufficio Michele Prestipino e il sostituto procuratore Sergio Colaiocco dovranno decidere come trattare questo atipico atto difensivo, che non proviene dagli avvocati bensì da un organo con cui c’è stata una lunga interlocuzione investigativa, prima che le strade si dividessero definitivamente con l’incriminazione dei quattro imputati. Sulla Libia solo una grande sceneggiata di Alberto Negri Il Manifesto, 24 giugno 2021 La Libia è un capitolo particolare della attuale guerra fredda, lo specchio deformante di una politica internazionale che riflette e genera mostri. A Berlino è andata in scena ieri una grande e sanguinosa fiction. Di cui è un frammento reale anche una parte della storia del manifesto. Che trae le sue lontane origini proprio dalla Libia, quando nel 1951 Valentino Parlato fu cacciato a Tripoli dagli inglesi, all’età di vent’anni, a causa della sua militanza comunista quando ormai il Paese africano non era più la nostra “quarta sponda” ma ricadeva sotto il protettorato britannico. E che cosa ci sarebbe oggi di più comunista e di giusto che chiedere il ritiro delle truppe e dei mercenari stranieri dalla Libia come è stato fatto ieri alla conferenza di Berlino? Sarebbe una seconda o terza decolonizzazione dopo i raid francesi, statunitensi e britannici del 2011 per far fuori Gheddafi. Ma come vanno davvero le cose? Il ministro tedesco Heiko Maas ha dichiarato a Berlino davanti al segretario di Stato Usa Antony Blinken (atteso a Roma lunedì per la conferenza sull’Isis) e ai russi: “Oggi vogliamo mettere i presupposti per andare avanti nel percorso iniziato, bisogna rendere operativa l’uscita delle forze politiche straniere e che questo deve iniziare ad accadere”. “Forze politiche”, dice Maas: i militanti jihadisti e i droni di Erdogan in Tripolitania sono forze politiche? Sono forse “forze politiche” gli aerei degli Emirati e i mercenari russi e gli egiziani che supportano Haftar in Cirenaica. È evidente che in Libia facciamo finta di che cosa stiamo parlando e che in Europa non abbiamo neppure il coraggio di nominare le cose quelle che sono. Ma che cosa è accaduto davvero a Berlino? Nulla di che. Erdogan resta in Tripolitania, i mercenari russi della Wagner mantengono la loro linea Maginot nella Sirte, insieme al generale Khalifa Haftar, agli Emirati e all’Egitto, che una base in Libia - come del resto anche Mosca - la vorrebbe davvero. Si chiama “profondità strategica” e nessuno vuole concederla a un altro, qui, sulle sponde del Nordafrica, come nel lontano Afghanistan. La realtà è che in Libia tutto rischia di saltare per gli interessi contrapposti tra i libici e le potenze internazionali. A partire dalla data delle elezioni del 24 dicembre. Le elezioni di dicembre in Libia sono a rischio per il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, che in un video inviato alla conferenza di Libia ha sollecitato “misure stringenti” per arrivare a questo obiettivo. Guterres ha invitato in special modo a “chiarire presupposti costituzionali” e a emanare le leggi necessarie per arrivare alle urne. Il segretario dell’Onu ha inoltre ribadito che le truppe straniere debbano lasciare il paese e ha annunciato l’invio di osservatori per assicurare il rispetto della tregua. Sono belle e alate parole quelle del capo del Palazzo di Vetro. Ci crederemmo pure. Se non ci fossero in gioco le vite dei migranti, dei libici e dei poveri del mondo, la Libia sarebbe un risiko per intrattenere e trastullare le ambizioni di grandi e medie potenze. Invece è una tragedia dove centinaia di migliaia di persone sono detenute in campi di concentramento e lanciate in mare sui barconi. Il presidente americano Biden, insieme ai maggiordomi europei, quando parla di diritti umani è sempre pronto a rivendicarli contro Russia, Bielorussia, Iran e Cina, mai contro i suoi alleati egiziani, israeliani e turchi. Meno che mai per quella Libia dove i rifugiati, trattati come merci, arrivano a frotte dall’Africa del Sahel e più lontano ancora. Eppure gli Usa, dal Medio Oriente all’Africa, hanno bombardato in questi decenni a tutto spiano lasciando stati inceneriti come moncherini e popoli senza futuro. La conferenza di Berlino sulla Libia è stata l’apoteosi di questa ipocrisia occidentale. Nessuno, né a Est né a Ovest, se ne vuole andare dalla Libia se non con qualche contropartita importante. Non se ne va Erdogan, premiato adesso dall’Unione europea, con un aumento di contributi (da sei a otto miliardi di euro), come guardiano dei profughi dal Medio Oriente; non se ne va la Russia che ha investito su Haftar ma punterebbe pure su Seif Islam, il figlio di Gheddafi, di cui è stato amico e socio in affari l’attuale premier di Tripoli Dbeibah. Per non parlare dell’Egitto di Al Sisi che nessuno ha il coraggio di nominare come dittatore e macellaio della gioventù egiziana, come se Regeni e Zaki fossero ormai da archiviare tra gli incidenti della storia. Fenomenale è poi la scena italo-libica. Il presidente libico Menfi l’altro giorno è venuto a Roma ricevuto per venti minuti da Draghi. Menfi era infuriato perché una Ong italiana ha convocato a Roma un dialogo tra le tribù del Fezzan - zona di grande interesse per la Francia - e ha attaccato non solo la Farnesina, che si è prontamente sfilata, ma soprattutto la ministra degli esteri libica Najla el-Mangoush - in quota Cirenaica - che aveva dato il suo parere favorevole. Vedete bene in che mani siamo.