Carcere, la buona proposta della “messa alla prova” di Tiziana Maiolo Il Riformista, 23 giugno 2021 Secondo i dati diffusi da Mauro Palma, tra i condannati circa la metà deve scontare una pena inferiore ai tre anni. Per loro potrebbe valere l’istituto su cui sta lavorando la commissione Lattanzi. Se proprio il carcere deve esistere, se proprio si pensa di ricostruire il patto spezzato con la comunità riducendo in cattività il protagonista di quella rottura, si dia almeno dignità alle condizioni di vita dei prigionieri. E ancora non ci siamo, nonostante la presenza al governo di una ministra come Maria Cartabia, dotata di una sensibilità particolare e anche della conoscenza diretta degli istituti penitenziari, visitati durante la sua permanenza alla Corte Costituzionale. Nel corso della relazione presentata al Parlamento da Mauro Palma, che delle carceri e di tutte le altre istituzioni totali è il garante, due giorni fa alla presenza della stessa guardasigilli, e sui giornali di ieri, è passata quasi inosservata l’unica vera notizia: le prigioni italiane sono ancora in grave crisi di sovraffollamento, poco o nulla sembra cambiato dopo l’intervallo che ha obbligato le istituzioni a sfoltirle un po’ per evitare una strage da Covid. I numeri ci dicono poco, in realtà, e poco ci consolano. Intanto perché se lo spazio sufficiente a dare dignità alla detenzione è di 47.000 posti e ce ne mettiamo 53.000, vuol dire che ce ne sono già 6.000 in eccesso. Ma poi, e soprattutto, perché, se da gennaio di quest’anno fino a oggi il ritmo di crescita è tornato a essere quello di prima dell’emergenza sanitaria, vuol dire che non è cambiata la mentalità, che non sono cambiate le abitudini di chi assume la decisione di privare una persona della sua libertà. La custodia cautelare, prima di tutto. Siamo fermi, nella sostanza, alla riforma de11996 e alle tre condizioni che ne determinano la possibilità, il pericolo di fuga, di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove. Ma soprattutto siamo fermi all’interpretazione largamente estensiva che ne danno i magistrati nell’applicarla. Ricordo bene la discussione che una Commissione giustizia di deputati molto preparati (e molto rimpianti) aveva svolto con puntualità. Mai si sarebbe immaginato che un pubblico ministero, venticinque anni dopo, avrebbe ritenuto di dover mandare in carcere per pericolo di fuga i tre dirigenti della funivia che porta al Mottarone, eventuali responsabili di un reato colposo. Quali erano gli indizi che provavano che i tre stesso scappando? Un programma di fuga carpito da un’intercettazione, una visita a un’agenzia di viaggi? Domande concrete senza risposta. E per fortuna che a Verbania c’era anche una giudice che usava la propria testa al posto del consueto copia-e-incolla. I detenuti in carcere in attesa di processo sono oltre il 30%, un dato che non si alleggerisce mai. E stiamo parlando presunti innocenti, la metà dei quali avrà poi una sentenza di assoluzione. Il referendum del Partito radicale e della Lega, che interviene sul punto della ripetizione di reati “della stessa specie”, qualora determinasse una modifica legislativa potrebbe avere un effetto parzialmente deflattivo. Ma se i pubblici ministeri e i giudici troppo spesso loro amici capissero che quel che è successo durante l’emergenza Covid, con le sospensioni della pena e arresti e detenzione domiciliare, non hanno determinato nessuna conseguenza negativa e potrebbero diventare realtà ordinaria, non solo diminuirebbe il sovraffollamento, ma tutti noi vivremmo in una società più civile e più vicina a quella di uno Stato di diritto. Secondo i dati diffusi da Mauro Palma, tra i condannati reclusi, circa la metà, cioè 26.000, deve scontare una pena inferiore a tre anni, e di questi circa 7.000 sono stati condannati ameno di tre anni di carcere. È possibile che non esista la possibilità di una sanzione alternativa? La commissione Lattanzi, istituita dalla ministra Cartabia, propone l’estensione ai reati puniti con il carcere fino a dieci anni l’applicazione dell’istituto della “messa alla prova”. È una buona proposta, e speriamo che venga trasformata presto in emendamento e che non trovi ostacoli alla sua approvazione. Ma il “populismo giudiziario” di quelli che vogliono chiudere le celle e buttare le chiavi è sempre in agguato. Parliamo di politici, ma anche di giornalisti. Difficile dimenticare quel che successe un anno fa, quando l’allora capo del Dap Francesco Basentini fu strattonato a costretto alle dimissioni per aver inviato una circolare di tipo umanitario perché i direttori delle carceri segnalassero i detenuti anziani e malati a rischio contagio da Covid. I suoi successori (la Circolare fu subito ritirata) Dino Petralia e Francesco Tartaglia, pm “antimafia”, paiono molto più muscolari di Basentini. E sono ancora lì. La neo-ministra non ha pensato di sostituirli con qualche vero riformatore. Ce ne sono, garantiamo. La metà dei detenuti ha pene fino a 3 anni: inutile accanimento su reati di droga di Angela Stella Il Riformista, 23 giugno 2021 Ieri il Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha presentato alla Camera dei Deputati la Relazione al Parlamento 2021. Ecco alcuni dei principali dati del documento. “Per quanto riguarda i migranti: i rimpatri nel 2020 sono stati 3.351. Si deve tenere conto del periodo di lockdown e quindi di chiusura delle frontiere. Tuttavia, si conferma la scarsa efficacia dei Centri di permanenza per i rimpatri, con solo il 50,88% delle persone in essi trattenute effettivamente rimpatriati. Un dato questo che pone seri interrogativi circa la legittimità di un trattenimento finalizzato a un obiettivo che si sa in circa nella metà dei casi non raggiungibile. La percentuale di rimpatri negli anni è stata la seguente: 50% nel 2011, 2012 e 2013; 55% per nel 2014; 52% nel 2015; 44% nel 2016; 59% nel 2017; 43% nel 2018; 49% nel 2019; 50% nel 2020. Per quanto concerne l’area penale: se il 2020 era iniziato con 60.971 presenze negli Istituti penitenziari, il 2021 è iniziato con 53.329. La popolazione detenuta, quindi, ha avuto una flessione. La decrescita ovviamente è dipesa dai minori ingressi dalla libertà e dal maggiore ricorso alla detenzione domiciliare (principalmente dovuta a maggiore attività della magistratura di sorveglianza, piuttosto che all’efficacia dei provvedimenti governativi adottati). Colpisce la pur limitata ripresa della crescita dei numeri che determina l’attuale registrazione di 53.661 (al 7 giugno 2021) persone. La capienza è di 50.781 posti, di cui effettivamente disponibili 47.445. Due cenni sulla durata delle pene che possono essere utili al dibattito attuale: 26.385 devono rimanere in carcere per meno di tre anni (di questi, 7.123 hanno avuto una pena inflitta inferiore ai tre anni). Gli ergastolani sono 1.779 di cui ostativi 1.259; la liberazione condizionale di cui molto si dibatte è stata data a un ergastolano (ovviamente non ostativo) nel 2019, a quattro nel 2020, a nessuno nel 2021. Vi sono complessivamente 34 sezioni per la tutela della salute mentale, numero ben insufficiente, mentre le Rems ospitavano al 15 aprile 577 persone di cui 325 in misura di sicurezza definitiva. Il disagio può essere letto con il tasso dei suicidi che nel 2020 ha toccato l’1,11 per mille (62 in totale) mentre nel 2019 era stato lo 0,91 (55 in totale). Complessivamente il sistema penitenziario ha retto all’impatto del contagio, rispetto al rischio potenziale di un ambiente chiuso”. Quasi cento persone in carcere attendono di andare in una Rems di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 giugno 2021 C’è un aumento del numero delle persone in attesa di collocazione presso le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Secondo i dati rilevati dal 2019 al 2021, si è passati da un totale, su base nazionale di 603 a 715, alla fine del 2020, per giungere a 770 attuali. Di questi, 98, al mese di febbraio 2021, sono coloro che attendono l’invio in una Rems rimanendo in carcere, in uno stato di detenzione illegittima. È un dato cristallizzato dalla relazione annuale del Garante nazionale delle persone private della libertà. Ma il Garante lancia l’allarme: all’orizzonte c’è il rischio che come risposta a questo problema reale (al quale si aggiunge il problema dei detenuti psichiatrici in carcere), ci sia la volontà di una rivisitazione della funzione originaria e propria delle Rems che contempla la prospettiva di aumentarne dimensioni e numeri. “Si riproporrebbe - si legge nella relazione - una logica di istituzionalizzazione di carattere neo- manicomiale, quantunque in strutture di dimensione ridotta e territorialmente diffuse”. Il Garante non nega che esista un elemento di grave problematicità nella predisposizione degli strumenti idonei ad assicurare la risposta ai bisogni di assistenza e di sostegno di queste persone, il cui numero aumenta proporzionalmente alla tendenza progressiva di definire come “disturbi psichiatrici”, disagi che discendono, invece, “da condizioni pregresse di fragilità sociale - si legge nella relazione del Garante nazionale - o da situazioni di deprivazione materiale che si acuiscono con l’ingresso nel sistema penitenziario”. Fenomeno che si riproduce anche nelle “Articolazioni per la tutela della salute mentale” di cui, sottolinea sempre la relazione del Garante, peraltro, sono dotati soltanto alcuni degli Istituti penitenziari sul territorio nazionale. Articolazioni che non sono sufficienti a rendere adeguata risposta a tali bisogni, né per la capienza, né per la loro connotazione spesso sbilanciata sul piano penitenziario, né per la loro organizzazione. “Una situazione critica, determinata anche da lacune normative, a cui - si legge nella relazione del Garante - ha posto in parte rimedio soltanto l’intervento della Corte costituzionale, con cui si è affermata la possibilità di concedere la detenzione domiciliare “umanitaria” prevista dall’articolo 47ter dell’Ordinamento penitenziario, anche per i casi di malattia psichica”. Diverse sono le opzioni per risolvere queste problematicità, senza però snaturare le funzioni delle Rems. Ad esempio, il Garante nazionale propone la necessità di valutare in maniera differenziata e graduale lo stato di sofferenza della persona, approntando presidi sanitari territoriali che meglio possano soddisfare le sue esigenze di cura per garantire, al contempo, il diritto del singolo alla tutela della propria salute e il diritto della collettività alla propria sicurezza. Una valutazione che, a parere del Garante nazionale, inciderebbe in maniera positiva sulla necessaria riduzione delle misure di sicurezza provvisorie, il cui numero evidenzia un rapporto ancora acerbo della Magistratura con la nuova configurazione del sistema dopo la chiusura degli Opg. Una difficoltà che, come abbiamo visto con i dati iniziali, ha determinato liste di attesa per l’inserimento nelle Rems e che si riflette anche all’interno delle carceri Perché migliaia di persone sono in carcere anche se potrebbero uscire con misure alternative? di Tommaso Coluzzi fanpage.it, 23 giugno 2021 Secondo il Garante delle persone private della libertà personale molti detenuti che potrebbero usufruire di misure alternative al carcere “spesso perché privi di fissa dimora”. Circa un terzo dei 53mila detenuti che sono in carcere in Italia hanno un residuo di pena inferiore ai tre anni. Nella sua relazione annuale, Palma richiama all’attenzione del Parlamento il tema dei luoghi della privazione della libertà che “non sono altro, ma ci appartengono”. Ieri il Garante delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ha presentato la sua relazione annuale alla Camera dei deputati. Tra i tanti numeri elencati e i pensieri espressi, ce ne sono alcuni che più di altri fanno riflettere: “Il tempo dell’esecuzione non sia mera sottrazione di tempo vitale con carattere deterrente o retributivo - ha ricordato Palma - o ancor meno tempo ‘vuoto’, ma tempo da spendere in un concreto indirizzo verso tale finalità”. Il Garante dei detenuti ha richiamato l’attenzione sul fatto che “il mondo dei luoghi della privazione della libertà non è luogo ‘altro’, ci appartiene”, insistendo che muri e cancelli “mai devono costituire una separazione sociale e concettuale e diminuire il riconoscimento della specifica vulnerabilità che li abita”. Secondo i numeri illustrati da Palma nella sua relazione attualmente nelle carceri italiane ci sono 53.661 detenuti, contro i 47.445 posti disponibili. Due aspetti vanno considerati, scrive il Garante: “Innanzitutto la presenza di più di un terzo di persone detenute che hanno una previsione di rimanere in carcere per meno di tre anni”, ovvero più di quindicimila persone, e “ben 1.212 sono quelle che sono state condannate a una pena inferiore a un anno”. Secondo Palma tutto questo dà “un’immagine plastica della fragilità sociale che connota gran parte della popolazione detenuta, perché indica coloro che non accedono a misure che il nostro ordinamento prevede, spesso anche perché privi di fissa dimora”. Per questo motivo, secondo quanto spiegato dal Garante, i detenuti restano in carcere anche quando avrebbero diritto a misure alternative. Spesso perché non saprebbero dove andare. “Non solo - ha continuato Palma - così rendono soltanto enunciativa la finalità tendenziale alla rieducazione, perché nessun progetto può essere attuato per periodi così brevi e spesso il tempo della detenzione diviene così soltanto tempo di vita sottratto, peraltro destinato a ripetersi sequenzialmente”. La reazione del presidente della Camera, Roberto Fico, dopo l’illustrazione della relazione del Garante dei detenuti, è stata subito netta: “Resto convinto dell’esigenza di apprestare soluzioni strutturali al problema del sovraffollamento carcerario che attualmente si configura per i detenuti come una pena aggiuntiva rispetto a quella cui sono stati condannati - ha spiegato il pentastellato - Credo che il Parlamento debba valutare con attenzione, per un verso, interventi legislativi che consentano la riduzione della popolazione carceraria, favorendo in particolare il ricorso a misure alternative”. Secondo Fico la pandemia di Covid ha confermato “le gravissime carenze strutturali, igieniche, organizzative del sistema penitenziario italiano, non compatibili con la dignità della persona e il fine rieducativo della pena”. Il presidente della Camera si è concentrato soprattutto sui detenuti più giovani, spiegando di aver dato vita in questa legislatura ad un’iniziativa specifica “con la realizzazione di un programma di sviluppo dell’insegnamento dell’educazione alla cittadinanza e della conoscenza della Costituzione nelle carceri minorili e nelle scuole”. In carcere ci si suicida di più di David Allegranti La Nazione, 23 giugno 2021 Nel 2015, a fronte di una presenza media della popolazione detenuta pari a 52.966 persone, ci furono 39 suicidi (0,74 ogni mille detenuti). Nel 2020 ci sono stati 62 suicidi - di questi, 21 in attesa del primo giudizio - a fronte di 55.455 persone detenute (tasso di incidenza 1,11). Nel 2021 finora 19. In carcere ci si suicida sempre di più, dicono i dati del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria degli ultimi cinque anni. Nel 2015, a fronte di una presenza media della popolazione detenuta pari a 52.966 persone, ci furono 39 suicidi (0,74 ogni mille detenuti). Nel 2016 il tasso di incidenza è rimasto lo stesso, poi è aumentato nel 2017 (0,88), ma il balzo c’è stato nel 2018 con 64 suicidi per 58.372 persone detenute (1,1 tasso di incidenza dei suicidi). Nel 2020 ci sono stati 62 suicidi - di questi, 21 in attesa del primo giudizio - a fronte di 55.455 persone detenute (tasso di incidenza 1,11). L’età media delle persone detenute che si sono suicidate è di 39 anni (le persone più giovani, suicidatesi nella Casa circondariale di Benevento, Brescia Canton Mombello e Como, avevano anni 23; quella più anziana suicidatasi nella Casa circondariale di Lecce aveva 84 anni). Gli istituti penitenziari con il più alto numero di suicidi sono la casa circondariale di Como (3) e quella di Roma Rebibbia. Nel 2021, al 3 maggio, ci sono stati 19 suicidi. Età media: 44 anni. “Non posso non sottolineare la rilevanza del numero dei suicidi, accentuato anche nel periodo di difficoltà soggettiva che ha caratterizzato gli scorsi mesi: il tasso dei suicidi ha toccato nel 2020 l’1,11 per mille (62 in totale) delle presenze medie, mentre nel 2019 era stato lo 0,91 (55 in totale). A questi è doveroso aggiungere il numero di suicidi nel personale di Polizia penitenziaria: sei nell’ultimo anno”, dice il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale nella sua relazione annuale. “Osservandone l’andamento nell’ultimo decennio, vediamo come dopo i livelli raggiunti tra il 2010 e il 2012 il tasso di suicidi registra un sensibile calo tra il 2013 e il 2016 per poi ricominciare bruscamente a salire nel 2017 fino a raggiungere il suo massimo nel 2020”, aggiunge l’associazione Antigone nel suo ultimo rapporto sullo stato di salute del sistema carcerario italiano. “Sebbene non si possa delineare una netta correlazione tra il numero di suicidi e le condizioni di detenzione delle carceri italiane, guardando tali dati non può non notarsi come la tendenza a crescere e diminuire del tasso di suicidi rifletta il generale clima penitenziario del periodo. Negli anni a ridosso della sentenza Torreggiani, vediamo infatti come insieme alla riduzione del tasso di sovraffollamento e quindi al raggiungimento di più dignitose condizioni di detenzione, anche il tasso di suicidi fosse notevolmente calato. Quando nel 2017 gli effetti della riforma hanno cominciato a perdere la loro iniziale portata, il tasso di suicidi è invece tornato malauguratamente a salire superando anche i livelli raggiunti prima del 2013”. I dati sul 2020 confermano tale tendenza, dice Antigone: “Nell’anno passato, il tasso è continuato a crescere arrivando a raggiungere 11 suicidi ogni 10.000 persone mediamente presenti: erano quasi vent’anni che non si registrava un numero così alto. Sicuramente il 2020 non è stato un anno come gli altri, soprattutto all’interno degli istituti di pena. Nonostante la riduzione della popolazione detenuta, disposta in via straordinaria per arginare la diffusione del virus, altri fattori hanno contribuito a rendere più difficile del solito la vita in carcere. Fra questi, in primis, il distacco ancora più netto con il mondo esterno e i contatti ancora più rari con i propri cari, entrambi fonte di un grande sentimento di marginalizzazione già di per sé dilagante nella vita da reclusi”. Dunque, risulta “assai difficile interpretare come una semplice coincidenza l’aumento del tasso di suicidi proprio in un anno di grande sofferenza e solitudine come quello appena concluso”. Eppure qualche pm per mesi ci ha spiegato che in carcere si sta meglio che fuori. La riforma della giustizia e la solitudine della ministra di Leonardo Petrocelli Gazzetta del Mezzogiorno, 23 giugno 2021 La premessa non è un mistero: ce la chiede l’Europa per accedere ai fondi del Recovery. E quindi bisogna fare presto. Esistono due condizioni in cui è molto facile sentirsi soli: nel silenzio di una stanza o nel frastuono assordante di una qualche bolgia dantesca. La seconda è peggiore della prima perché dà l’impressione che tutti partecipino alla sorte comune mentre in realtà si è immersi solo in un caos di monadi, ognuna per sé e Dio, se esiste, per tutti. Deve sentirsi pressappoco così il Guardasigilli Marta Cartabia nella via crucis che accompagna la nascita della tanto sospirata riforma della Giustizia. La premessa non è un mistero: ce la chiede l’Europa per accedere ai fondi del Recovery. E quindi bisogna fare presto. Ma la chiede, per una volta, anche la realtà dei fatti, ferita a morte da processi interminabili, pene mai certe, giudici screditati e scandali che si susseguono incessanti. Quindi bisogna farla pure bene. Presto e bene, da manuale una pessima combinazione di intenti. Non bastasse il peso ciclopico della faccenda, ecco andare in scena il caravanserraglio italiano in tutto il suo chiassoso splendore. Lega e Radicali hanno deciso di prendere a frustate la situazione con una sorta di gatto a sei code, quanti sono i quesiti referendari promossi dai due movimenti. Non un attacco frontale alla riforma, certo, come gli interessati sottolineano in modo inesausto da settimane, ma una bella mina antiuomo piazzata lungo il percorso che proprio a quella riforma porta. Uno strappo, una spallata che chiama a raccolta le masse invocando, di fatto, la bocciatura popolare delle toghe. Nell’era di Palamara e compagni, praticamente un gol a porta vuota. L’Associazione nazionale magistrati l’ha ben compreso ma invece di giocarsela di fino ha sparato a palle quadre accusando Lega e Radicali di voler sottoporre al pubblico linciaggio un’istituzione che dovrebbe essere sempre sottratta all’ira delle masse. Una mossa saggia? No, pessima. Perché quella che nasce come autodifesa legittima diventa immediatamente autotutela di casta e, per giunta, di una casta la cui reputazione è ai minimi storici. Ha ragione chi giudica la sortita dell’Anm come il più grande spot per il referendum che potesse andare in scena. Se la chiamata alle armi dei referendari è un gol a porta vuota, questo è un autogol in rovesciata all’incrocio dei pali. Roba da cineteca delle papere. Intanto, però, un altro pozzo è stato avvelenato. Basta? No di certo. Perché se questa battaglia ha dei perimetri circoscritti, la contesa capitale è invece larga, larghissima. Lo ha messo bene a fuoco lo scrittore ed ex magistrato Gianrico Carofiglio in una recente intervista alla Gazzetta individuando nel conservatorismo delle corporazioni e nei veti incrociati dei partiti il vero nemico allo sviluppo di una buona riforma. Se condiamo l’insalata anche con una congiuntura storica in cui al governo c’è di tutto di più, dai giustizialisti incalliti a pretoriani del garantismo, ecco che il piatto non può che finire di traverso. C’è addirittura chi dice che l’esecutivo Draghi potrebbe spaccarsi proprio sulla giustizia. Difficile, se non impossibile. Così come è impossibile che una qualche riforma non vada in porto. I soldi in ballo sono troppo preziosi per tutti. Il risultato, quindi, rischia di essere quello di un modesto compromesso all’italiana, con una bianca verniciatura delle periferie mentre qui bisognerebbe buttare giù i palazzi e ricostruirli. Eccola, dunque, la solitudine di Marta Cartabia impegnata, in modo fin troppo prudente, a portare la croce scansando le macerie al suolo e le bombe che piovono dal cielo della politica e delle corporazioni. Ed è una solitudine beffarda perché la bolgia, qui, è piena di applausi scroscianti, di complimenti, di inchini deferenti. Quando si tratta di buttare la palla in tribuna non c’è nessuno che esiti ad affidarsi a lei: “Abbiamo fiducia nella ministra”. Che, a volte, suona un po’ come l’avere fiducia nella magistratura. Frasi fatte a favor di telecamera. Dietro le quinte, invece, impera il caos. C’è chi grida e c’è chi è solo. Prescrizione, se Cartabia diventa l’argine alla Repubblica giustizialista di Paolo Delgado Il Dubbio, 23 giugno 2021 Non solo il M5S di Conte, anche il Pd e la Lega sono tentati dalla linea dura sulla giustizia. Senza contare le posizioni di Fratelli d’Italia. Il nuovo M5S di Giuseppe Conte sarà diverso (Grillo permettendo) dall’originale in molti aspetti. Ma anche se Grillo non permettesse la trasformazione è già avvenuta e del dna del vecchio M5S si è perso anche il ricordo. Però una linea di continuità ci vuole. Un elemento, fosse pure uno solo, capace di tranquillizzare i militanti in crisi d’identità. Conte lo ha già selezionato e indicato e la sua opzione era tanto prevedibile quanto prevista. La giustizia, o meglio il giustizialismo. Su tutto si può transigere ma non sul ritorno della prescrizione abolita da Alfonso Bonafede. Passino l’europeismo per chi era antieuropeo, la fine del blocco dei licenziamenti per chi aveva abolito la povertà, gli accordi politici da scandalizzare un doroteo. Ma la prescrizione, quella no. Meglio la crisi di governo, il default e fosse pure l’apocalisse. Nulla di nuovo. Nulla di stupefacente. Conviene ricordare che il governo Conte, difeso per mesi con la scimitarra tra i denti al grido di “Giuseppe o morte” cadde non per la spallata di Renzi, come da vulgata bugiarda, ma perché il M5S preferì sacrificare il governo e il premier pur di impedire che il medesimo Bonafede fosse sfiduciato nell’aula del Senato. È probabile che Conte, in cuor suo, sia poco convinto e che si adegui malvolentieri, come a malincuore accettò di sloggiare da palazzo Chigi per far scudo all’allora guardasigilli. Ma per adeguarsi si adegua, consapevole com’è che per i 5S quell’elemento è l’ultima e non sacrificabile ridotta della propria identità, la prova della loro stessa esistenza. Il segnale è indirizzato anche al Pd. Quando arriverà il momento di concordare almeno alcuni punti essenziali per dar vita a una coalizione non limitata alla necessità di fermare la destra, Conte tratterà su quasi tutto. Ma sulla giustizia Letta dovrà procedere con la cautela di chi passeggia in mezzo alle sabbie mobili, e del resto una parte essenziale dello stesso Pd, in materia, non è su posizioni troppo diverse da quelle dei 5S. La coalizione che ne nascerà sarà giustizialista e il massimo che il Pd potrà fare sarà temperare quel giustizialismo. Il problema è che sul fronte opposto le cose non stanno diversamente. Certo Fi, dopo aver per decenni sbandierato il garantismo a uso privato, è probabilmente approdata ormai su posizioni sinceramente antigiustizialiste per tutti e questo è vero anche per una parte della Lega. Ma per un’altra parte della Lega, probabilmente maggioritaria soprattutto alla base, è vero il contrario, per non parlare di FdI che non intende certo farsi strappare il primato delle politiche repressive dagli ultimi arrivati di Grillo. La conclusione è ovvia: nel prossimo Parlamento, e già in questo, i poli principali saranno entrambi giustizialisti e anzi impegnati a cercare di strapparsi consensi mostrandosi più intransigenti degli altri. Insomma, un incrocio tra la Repubblica di Bonafede e quella di Javert. Alle posizioni garantiste o anche solo un tantinello più illuminate verrà riservato più o meno il diritto di tribuna. La principale resistenza a questa tendenza, che in ultima analisi è il cuore stesso di quello che viene comunemente definito “populismo” perché solletica gli istinti peggiori dell’elettorato, è sin qui arrivata quasi solo dalle istituzioni. È stato un presidente della Repubblica a impedire che un magistrato come Nicola Gratteri si ritrovasse ministro della Giustizia insediato non dai 5S ma dal “garantista” Renzi. È stata la Corte costituzionale a insorgere contro quell’aberrazione anti costituzionale che è l’ergastolo ostativo. Anche nel caso degli arresti di Parigi per crimini con i capelli bianchissimi la posizione della ministra della Giustizia ed ex presidente della Consulta Marta Cartabia è stata ben diversa dalla sgangherata truculenza mostrata dal predecessore Bonafede e dall’allora ministro dell’Interno Salvini al momento dell’arresto di Cesare Battiti. E lo steso capo dello Stato Mattarella è ben distante da quel giustizialismo populista. Lo scontro sul giustizialismo ci sarà, ed è inevitabile che quel nodo arrivi prima o poi al pettine. Ma potrebbe non essere tra le fazioni politiche bensì tra il populismo dei partiti le istituzioni repubblicane, o meglio, tra la fame di consenso facile delle forze politiche e la Costituzione. Il “metodo Cartabia” si infrange sulla prescrizione di Giulia Merlo Il Domani, 23 giugno 2021 Il Movimento 5 Stelle ha ribadito l’intoccabilità della riforma Bonafede, complicando ancora l’iter del ddl penale, di cui il Ministero non ha ancora presentato gli emendamenti. Ma rischia di trovarsi in minoranza. Il paletto del Movimento 5 Stelle è stato fissato e ribadito: la prescrizione targata Bonafede non si tocca, l’unico elemento accettabile su cui si può discutere è la modifica - concordata già nel governo Conte 2 - di far “ripartire” la prescrizione per gli assolti in primo grado, dividendo il loro percorso dai condannati. Si tratta di uno stop brusco che fa preoccupare il ministero della Giustizia e che rischia di riportare indietro una trattativa che dovrebbe essere invece già in dirittura di conclusione. L’esecutivo Draghi e soprattutto il mandato di Marta Cartabia erano cominciati con tutt’altri patti: tutti i partiti della maggioranza avevano accettato la condizione di modificare la prescrizione, al momento dell’insediamento con la ministra. L’accordo, però, era che qualsiasi modifica si sarebbe decisa insieme: così i grillini si impegnavano a concedere spazi agli alleati, mentre il centrodestra ritirava gli emendamenti già presentati e che servivano a dare la spallata al governo Conte 2. Oggi, invece, i Cinque stelle minacciano di sfilarsi, nonostante i numerosi colloqui con la ministra e soprattutto un lavoro già in fase molto avanzata in commissione. La relazione presentata dagli esperti presieduti da Giorgio Lattanzi contiene due proposte di modifica, mentre molte altre sono arrivate dai gruppi politici e ora Cartabia dovrebbe fare sintesi e presentare il maxi-emendamento del governo al ddl penale, che dovrebbe contenere una mediazione complessiva sul testo e gradita a tutti. Di più, l’emendamento del ministero dovrebbe arrivare a giorni, come a giorni è attesa l’audizione di Lattanzi in commissione Giustizia proprio a chiarire i contenuti della sua relazione. Invece, il metodo Cartabia, che consiste in piccoli passi di avvicinamento e confronti pazienti con tutti i gruppi, sembra essersi infranto contro il no del grillini, ormai sbandati rispetto alla leadership interna il cui riflesso sarebbe quello di arroccarsi intorno a una delle loro storiche bandiere. Il rischio, tuttavia, è che se i grillini tentano la prova di forza si trovino in minoranza. Se durante il Conte 2, quando era stata trovata la mediazione delle diverse corsie per assolti e condannati in primo grado, la maggioranza si fondava su di loro, nel governo Draghi non è più così. Ora le forze politiche che hanno dato il sostegno al governo sono di più e soprattutto in buona parte considerano la riforma Bonafede un errore. Addirittura, soprattutto una parte del centrodestra vorrebbe abrogarla in toto. Anche il Partito democratico punta a riformarla in modo sostanziale e i suoi emendamenti puntano a superare anche la mediazione del Conte 2 per introdurre una prescrizione processuale che scatti per fasi. Risultato: se il metodo Cartabia fallisse, potrebbe intervenire lo stesso Mario Draghi che sulla riforma della giustizia basa parte del piano di Recovery e i grillini si troverebbero in una situazione di oggettiva difficoltà politica. L’unica certezza in questa fase così magmatica è che il ddl penale slitterà almeno di qualche settimana, quando invece la roadmap lo collocava in aula per fine giugno. Una scadenza che sembra improbabile possa essere rispettata, anche perché Cartabia proverà fino all’ultimo a includere i grillini nel percorso di riforma. Probabile, dunque, che “passi avanti” il ddl civile a cui si è al lavoro al Senato, che pure ha sollevato critiche sul fronte tecnico da parte sia degli avvocati civilisti che dei magistrati. Riforma della giustizia: io dico no a barattare le garanzie con la velocità di Giorgio Spangher* Il Riformista, 23 giugno 2021 Bene le misure alternative al carcere, ma i limiti all’appello proposti dalla commissione Lattanzi negano un percorso garantito a chi non si avvale delle possibilità sanzionatorie miti. Non è chiaro quale sarà l’approdo della riforma della giustizia penale che attende gli emendamenti del Governo al disegno di legge A.C. 2435 e i conseguenti sub-emendamenti alla proposta Lattanzi. Molto probabilmente l’impianto non sarà smontata non è difficile, allora, sviluppare alcune riflessioni generali di sistema, governato sulla cosiddetta “Giustizia 25%” in riferimento ai tempi di riduzione del giudizio penale. Prima di entrare nel merito del tema che qui si intende sviluppare, vediamo brevemente il contesto che ha condotto ad una macchina della giustizia intasata. Siamo nel 1930: Alfredo Rocco e Vincenzo Manzini pongono mano alla riforma della giustizia penale, modificando sia il codice di procedura penale del 1913, sia quello penale del 1865, nella consapevolezza delle forti interazioni dei due modelli, ispirati entrambi ad una logica “autoritaria”, se non inquisitoria, secondo l’ideologia dell’epoca. Seguì, di lì a poco, la riforma della giustizia minorile. Identica fu la scelta anni dopo della riforma della giustizia civile. Nel tempo, abbiamo assistito ad ulteriori mutamenti, che hanno finito con l’affidare al processo penale una funzione in qualche modo impropria, ossia di lotta e contrasto ai fenomeni criminali. Si inizia con la legislazione dell’emergenza terroristica e si prosegue con quella nei confronti della criminalità. A questo dato si è accompagnata una dilatazione sempre più ampia dell’area del penalmente rilevante e un progressivo ampliamento delle ipotesi incriminatrici inevitabilmente incanalate nella nuova “procedura”. In questo contesto, l’esigenza di mantenere in equilibrio il sistema, al di là di altre considerazioni politiche - più o meno strumentali - era affidata all’amnistia ed all’indulto, che però al momento, dopo la riforma costituzionale del 1992, sono diventati istituti politicamente del tutto impraticabili. Tutto ciò ha fatto sì che gli ingranaggi della “macchina” della giustizia, i quali devono integrarsi tra loro per assicurarne l’efficienza, si siano rivelati inadeguati. Come se ciò non bastasse, le modifiche sono state accompagnate dalla cosiddetta clausola d’invarianza finanziaria, essendo state approvate “a costo zero”. Su queste premesse, si sono delineate precise proposte di riforma da parte della Commissione presieduta dall’ex presidente della Corte costituzionale, Giorgio Lattanzi. Nella ritenuta impossibilità di intervenire, anche minimamente, sul sistema delle incriminazioni, la riforma proposta dalla Commissione punta ancora sul processo, attraverso una riduzione qualitativa e quantitativa del sistema sanzionatorio, favorendo le misure diverse dal carcere, tra cui: ampliamento delle “uscite laterali” (pagamenti per le contravvenzioni, archiviazioni meritate); sospensione dello sviluppo processuale (messa alla prova e condotte riparatorie, improcedibilità per irreperibilità); percorsi premiali allargati (patteggiamento, rito abbreviato e procedimento per decreto); esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto. Fin qui tutto bene, in quanto il ridefinito sistema sanzionatorio tende a superare la prospettiva punitiva incentrata sul carcere e sulle misure custodiali. La criticità subentra laddove si mette mano alle restanti segmentazioni processuali: la Commissione, infatti, nel ritenere che la riforma del sistema sanzionatorio (a cui va aggiunta la prescrizione nella fase delle indagini) non sia sufficiente a decongestionare i percorsi processuali successivi, cerca di perseguire l’obiettivo di una durata ragionevole del processo aprendo la strada ad una mirata selezione di accesso all’attività di controllo attraverso le impugnazioni. Il problema, tuttavia, è che all’imputato, che per le più svariate ragioni non ritenga di aderire alle “offerte” sanzionatorie miti, dovrebbe riconoscersi il diritto ad un pieno accertamento della responsabilità attraverso l’attuazione di percorsi garantiti. Ebbene, con la riforma strutturale del giudizio di secondo grado, a forte valenza ideologica, questo percorso garantito verrebbe meno. Si prevedono infatti modifiche all’appello, tra l’altro, sotto il profilo dell’accesso e dei suoi contenuti cognitivi e decisori; disincentivandolo, in caso di rito abbreviato, con una premialità in ingresso; prevedendo filtri alla sua proponibilità da parte del difensore dell’imputato assente; prospettando l’assegnazione del giudizio ad un giudice monocratico, salva la facoltà delle parti di chiedere, e del giudice di disporre d’ufficio, la rimessione alla composizione collegiale. Il quadro appena rappresentato, oltre al suo valore culturale e ideologico (negativo in sé), è accompagnato dal significativo mantenimento dell’attuale giudizio di primo grado, non certo a connotazione accusatoria. nonché dall’introduzione dei rinnovati filtri in precedenza citati e dalla disciplina della prescrizione governata dalla filosofia dei due orologi. In questo modo le varie opzioni processuali si collocano tra i paternalistici comportamenti per le riferite exit strategy e gli sviluppi della fase del giudizio di primo, ed ora anche di quella di secondo grado, quanto meno sofferta e problematica. Ancora una volta si chiede al processo - ed in particolare in questo caso all’appello - il sacrificio di farsi carico di una finalità che non gli è propria. *Professore emerito di Diritto Processuale Penale presso l’Università di Roma “La Sapienza” La Consulta: “No al carcere per i giornalisti, tranne che nei casi più gravi di diffamazione” di Liana Milella La Repubblica, 23 giugno 2021 Cade l’articolo 13 della legge sulla stampa del 1948 che finora faceva scattare la reclusione da uno a sei anni. La Corte sollecita il Parlamento, a fare “un complessivo intervento per bilanciare libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione”. Via il carcere per i giornalisti, ma anche per chiunque scriva sui social, tranne nei casi più gravi di diffamazione. È il verdetto della Consulta dopo quattro ore di camera di consiglio, relatore il giudice Francesco Viganò. Cade l’articolo 13 della legge sulla stampa del 1948 che finora faceva scattare, in caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa compiuta mediante l’attribuzione di un fatto determinato, la reclusione da uno a sei anni. Resta in piedi invece l’articolo 595 del codice penale che - scrive la Corte nel suo comunicato - prevede “per le ordinarie ipotesi di diffamazione la reclusione da sei mesi a tre anni oppure, in alternativa, il pagamento di una multa”. Proprio quest’ultima norma, per la Consulta, consente al giudice di sanzionare con la pena detentiva i soli casi di eccezionale gravità. La Corte, che accoglie i ricorsi dei tribunali di Bari e Salerno, scrive anche che “resta peraltro attuale la necessità di un complessivo intervento del legislatore, in grado di assicurare un più adeguato bilanciamento - che la Corte non ha gli strumenti per compiere - tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, anche alla luce dei pericoli sempre maggiori connessi all’evoluzione dei mezzi di comunicazione” che erano stati già evidenziati l’anno scorso. Quando, il 22 giugno, la Corte affidò al Parlamento 12 mesi di tempo per riscrivere le norme sulla diffamazione. Periodo inutile perché il Senato invece non ha deciso. Al suo posto, scaduto l’anno, la Corte ha deciso da sola. Giornalisti, basta carcere ma ancora querele di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 23 giugno 2021 Libertà di stampa. La Corte costituzionale accoglie l’impostazione della Corte europea. (Quasi) cancellata la detenzione in caso di diffamazione aggravata che restava nell’ordinamento da oltre 70 anni. I giudici delle leggi costretti a intervenire per l’inerzia del parlamento. Che resta tale anche per il problema delle querele temerarie. L’articolo della legge italiana che ancora prevede il carcere come pena per la diffamazione aggravata a mezzo stampa è incostituzionale. È un articolo - il 13 della legge sulla stampa del 1948 - che aveva oltre settant’anni, ieri la Corte costituzionale lo ha cancellato. L’ha fatto sulla spinta di una serie di sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno condannato il nostro paese per questa arcaica previsione, da Strasburgo giudicata niente di meno che una lesione della libertà di espressione. La Corte costituzionale ha deciso ieri (presidente Coraggio, relatore Viganò), ma in realtà aveva già deciso il 9 giugno del 2020 in una delle sempre più frequenti ordinanze di “incostituzionalità prospettata”, quando cioè aveva dato un anno di tempo al parlamento perché intervenisse con una nuova legge. Perché, disse allora la Corte, solo il legislatore può bilanciare i due principi in gioco, la “tutela della reputazione individuale” e la “libertà di manifestazione del pensiero, in particolare con riferimento all’attività giornalistica”. Ma il parlamento non è intervenuto. Anche se non mancano i disegni di legge sull’argomento. Prevedono la cancellazione del carcere per la diffamazione sia il disegno di legge presentato al senato da Caliendo di Forza Italia, sia due disegni di legge presentati alla camera da Verini del Pd e da Liuzzi dei 5 Stelle. Solo il primo è stato esaminato ma non è andato oltre la commissione del senato. E così è arrivata ieri la decisione “telefonata” della Consulta, il replay di quello che era già successo di fronte a un’identica inerzia del parlamento sul fine vita. La Corte ieri però si è limitata a dichiarare l’incostituzionalità della legge sulla stampa del ‘48 che prevede il carcere da uno a sei anni insieme a una multa pecuniaria nei casi di accertata diffamazione a mezzo stampa aggravata (lo è quando c’è l’attribuzione di un fatto determinato falso). Non ha invece raccolto la richiesta, che pure le arrivava dai tribunali che avevano sollevato la questione di costituzionalità (Salerno e Bari), di cancellare anche l’articolo 595 del codice penale, che prevede il carcere per la diffamazione semplice a mezzo stampa da sei mesi a tre anni ma in alternativa alla pena pecuniaria. Questo perché la Corte costituzionale ha deciso di accogliere l’impostazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, che facendo salvo il diritto degli stati di determinare le sanzioni penali ha ripetutamente stabilito che la previsione del carcere per i giornalisti si giustifica solo per fatti di particolare gravità che comportano la lesione concreta di diritti fondamentali o costituiscano incitamento alla violenza. Viceversa la minaccia della detenzione costituisce di per sé una coercizione della libertà di espressione, e di stampa, anche quando non dovesse essere materialmente eseguita. Come non lo fu nel caso pilota che ha inaugurato la giurisprudenza in materia della Corte Edu, quello che riguardò due giornalisti rumeni nel 1996. E non lo è stato nemmeno per i primi due casi che hanno comportato una condanna dell’Italia, entrambi del 2013, in cui Strasburgo ha dato ragione prima ad Antonio Ricci e poi a Maurizio Belbietro, condannati entrambi a 4 mesi di carcere per diffamazione. Alla detenzione, seppure domiciliare, è invece arrivato Alessandro Sallusti, condannato a un anno e due mesi nel 2012 - anche lui da direttore del Giornale come Belpietro e anche lui per aver diffamato un giudice - ma graziato dal presidente della Repubblica Napolitano dopo tre settimane. Anche Sallusti ha ottenuto nel 2019 la condanna dell’Italia per la sproporzione della pena. Soddisfazione hanno espresso sia la Federazione nazionale della stampa che l’Ordine nazionale dei giornalisti. Ma una volta cancellata o resa ancor più improbabile la prospettiva del carcere, per i giornalisti resta la ben più concreta minaccia delle querele temerarie. Anzi, la (semi) rimozione di un residuo antistorico dall’ordinamento come la pena della detenzione per i giornalisti, rischia di diventare l’alibi per le camere che hanno ampiamente dimostrato di non considerare una priorità la tutela della libertà di stampa. Camera e Senato già nella scorsa legislatura, malgrado ben quattro letture parlamentari, non riuscirono ad approvare una legge di sistema (riprodotta nella sostanza nel disegno di legge Verini). E in questa legislatura è arrivato in aula ma è fermo da oltre un anno, al senato, il disegno di legge del 5 Stelle Primo Di Nicola che punta a limitare le querele temerarie, stabilendo che chi agisce con malafede o colpa grave contro un giornalista deve essere condannato a risarcirlo per almeno il 25% della somma che gli aveva ingiustamente chiesto. Campania. In cella senza condanna: 4 detenuti su 10 in attesa di giudizio di Ciriaco M. Viggiano Il Riformista, 23 giugno 2021 Salute mentale e sovraffollamento: commentando la relazione annuale del Garante nazionale dei detenuti, Marta Cartabia non ha avuto esitazioni nell’indicare i principali problemi che affliggono i penitenziari italiani. Alla guardasigilli non saranno sfuggiti i dati sulla carcerazione preventiva che vedono la Campania al primo posto per numero assoluto di condannati non definitivi (1.233, pari al 18,8% del totale) e di reclusi in attesa del primo giudizio (1.252, cioè il 19,6% dell’intera popolazione carceraria). Numeri allarmanti che dimostrano come certa magistratura abusi delle misure cautelari e come, nella nostra regione come nel resto del Paese, dilaghi quella cultura giustizialista che vede nel carcere la principale - se non l’unica - risposta al fenomeno criminale. A sollevare la questione è stato il deputato Enrico Costa che ha invitato Cartabia ad affrontare il problema del sovraffollamento “partendo dal 30,5% di presunti innocenti”: su un totale di 53.660 detenuti, nelle carceri italiane se ne contano 16.362 in attesa di giudizio di cui 8.501 in attesa del primo giudizio. In proporzione, come dicevamo, la Campania fa segnare dati ancora più allarmanti se si pensa che, al 31 maggio scorso, addirittura il 37,9% dei 6.554 detenuti ospitati nelle 15 carceri regionali è composto da presunti innocenti. Peggio fanno solo Friuli Venezia Giulia e Sicilia, dove i detenuti in attesa di giudizio costituiscono rispettivamente il 41,2 e il 38,1% dell’intera popolazione carceraria. Se invece analizziamo i valori assoluti, la Campania è saldamente al comando della poco lusinghiera classifica sia dei detenuti in attesa di primo giudizio sia dei condannati non definitivi, seguita da Sicilia e Lombardia. “Si ha l’impressione che, sul territorio regionale, si faccia un uso sopra la media della custodia cautelare in carcere - osserva Vincenzo Maiello, punto di riferimento dell’avvocatura partenopea e docente di Diritto penale all’università Federico II - Questo è l’indizio di un uso forse non particolarmente sorvegliato delle norme in materia di misura cautelare che, in ragione della loro natura eccezionale, dovrebbero soggiacere a un regime stretta interpretazione e di rigorosa applicazione”. Secondo il professore Maiello, inoltre, “il problema è soprattutto culturale: il legislatore è già intervenuto e ha fornito indicazioni inequivoche sul carattere di extrema ratio del ricorso al carcere come presidio cautelare. Spetta alla giurisprudenza uniformarsi. Lo sta già facendo la Cassazione che ha impresso una svolta intrisa di sensibilità garantistica agli orientamenti ermeneutici in materia. Tuttavia, nella prassi della giurisprudenza di merito, permangono impostazioni non sempre vicine al valore della presunzione d’innocenza e al principio del minimo sacrificio necessario della libertà personale”. Il tema dell’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva, però, s’intreccia anche con quello del disagio psichico e della dipendenza dalla droga. Si stima che circa 450 persone afflitte da simili problemi si trovino attualmente nelle carceri campane sulla base di denunce presentate dai familiari. Proprio così: “spedire” dietro le sbarre un proprio figlio o fratello tossicodipendente o affetto da disturbi psichici rappresenta talvolta un disperato tentativo di cura e di cambiamento. “Ma per quelle persone - sottolinea Samuele Ciambriello, garante regionale dei detenuti - la detenzione rappresenta un problema in più. Attenzione, dunque, alla custodia cautelare che spesso non costituisce la risposta più appropriata a problematiche di natura psicologia ed emotiva”. Ovviamente, l’abuso della carcerazione preventiva incide negativamente sulla qualità della vita all’interno del carcere. Se si arresta con troppa nonchalance, non bisogna meravigliarsi del fatto che, in alcune celle di Poggioreale, siano stipati fino a 14 detenuti e che non tutti possano partecipare alle attività trattamentali previste. A spiegarlo è Antonio Fullone, dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria campana: “Se la carcerazione preventiva fosse l’eccezione, la vita in carcere sarebbe più sostenibile perché le celle non sarebbero sovraffollate e l’attività di rieducazione e risocializzazione, riservata ai soli condannati in via definitiva, risulterebbe molto più efficace”. Come se ne esce, dunque? “Con un’ampia riflessione sulla detenzione - conclude Fullone - ma soprattutto cominciando a considerare il carcere come extrema ratio in coerenza con la Costituzione e i valori che ispirano il nostro ordinamento giuridico”. Umbria. Stefano Anastasìa ha finito il suo mandato di Garante regionale dei detenuti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 giugno 2021 Mercoledì scorso ha trasmesso la relazione annuale sull’attività del suo ufficio. Domenica scorsa, Stefano Anastasìa ha terminato il mandato da garante delle persone private della libertà nella regione Umbria. Mercoledì scorso ha trasmesso agli organi regionali la relazione annuale sull’attività del suo ufficio. L’ultimo suo atto è la sottoscrizione del nuovo Protocollo per l’istruzione universitaria negli Istituti penitenziari dell’Umbria da parte del Rettore dell’Università di Perugia, Maurizio Oliviero, del Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, Pierpaolo D’Andria e della Direttrice generale di Adisu, Maria Trani. Diverse le criticità, ma nel contempo anche aspetti positivi. Tra le criticità emerse nella relazione, degna di nota è la segnalazione dell’uso della forza e trattamenti farmacologici coattivi. Nello specifico, si fa riferimento ad un episodio che ha coinvolto un detenuto del carcere di Terni definito “in stato di agitazione psicomotoria”, nei cui confronti sarebbero state attuate misure di contenimento sproporzionate rispetto all’obiettivo perseguito (manovre di contenimento fisico per consentire la somministrazione di un farmaco sedativo intramuscolo). In occasione della visita in Istituto dal Garante nazionale e del Garante ragionale, il 16 settembre 2020, da principio si nega la configurabilità di un Tso illegittimo, poiché non si tratta di una ipotesi di trattamento effettuato su paziente affetto da patologia psichica, ma semplicemente della somministrazione di un calmante in una situazione di agitazione psicomotoria. Al termine di un lungo confronto con il personale sanitario si arriva a configurare il trattamento subìto dal detenuto di cui trattasi come un Tso non formalizzato, rispetto al quale i Garanti suggeriscono l’opportunità, pur in situazioni di emergenza, di attivare la procedura prevista ex lege, in modo tale che tali pratiche emergano dalla clandestinità. Altra criticità degna di nota è il discorso dei trasferimenti dei detenuti da un carcere all’altro, ma in regioni diverse. La lontananza dai familiari e la insufficienza di lavoro e di percorsi di reinserimento sociale a fine pena rappresentano la base motivazionale delle frequentissime istanze di trasferimento da parte di detenute e detenuti ristretti nel carcere perugino e giunte a conoscenza del Garante. Nella relazione di Anastasìa si fa presente che la pandemia ha moltiplicato la sofferenza per le famiglie e i detenuti ristretti fuori dalle regioni di residenza, tanto più che i trasferimenti volontari sono stati bloccati, ma non quelli disciplinari o per sfollamento, e per lunghi periodi la chiusura dei confini regionali ha impedito anche l’unico colloquio mensile in presenza garantito dalla legislazione d’emergenza. Inoltre, evidenza l’ufficio del garante regionale, l’elusione del principio di territorializzazione della pena (artt. 42 OP e 83 RE) spesso si traduce anche in una compressione del diritto di difesa, il cui esercizio è reso più complicato quando l’avvocato ha la sede di attività in luogo differente da quello di detenzione del suo assistito, come molto spesso accade. Non a caso, il garante Anastasìa, raccomanda all’amministrazione penitenziaria (Dap) il contenimento del sistema penitenziario umbro nelle sue dimensioni, già di molto superiori alle necessità del territorio, anche al fine di evitare ulteriori violazioni del principio di territorializzazione della pena. Cuneo. L’ex sindaco Valmaggia scelto come Garante comunale dei detenuti di Lorenzo Boratto La Stampa, 23 giugno 2021 L’ex sindaco di Cuneo ed ex assessore regionale Alberto Valmaggia (insegnate del Virginio del capoluogo) è il nuovo Garante dei detenuti del Cerialdo. È stato scelto tra altre sette candidature arrivate nelle scorse settimane in municipio. Sostituisce Mario Tretola, che si era dimesso dopo la nomina a presidente regionale delle Acli. Ieri (martedì 22 giugno) al carcere di Cuneo si è svolta anche la festa della polizia penitenziaria per il 204 esimo anno dalla fondazione. A margine della festa è stato reso noto che da domani il carcere di Alba (il cui direttore Giuseppina Piscioneri guida a scavalco anche Saluzzo) diventerà una “Casa lavoro” per una trentina di internati, cioè chi ha già scontato la pena ma è sottoposto comunque a misure di sicurezza perché ritenuto socialmente pericoloso. La notizia era attesa da tempo: in Piemonte esiste una sola “Casa lavoro”, a Biella, che è in fase di chiusura. Ad Alba i primi 12 internati arriveranno proprio domani. Alla cerimonia al Cerialdo era presente anche il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano, che spiega: “Il Piemonte è l’unica regione in Italia dove per 13 carceri in 12 città ci sono tutti i garanti cittadini, selezionati da amministrazioni di ogni colore politico. Positivo che chiuda la Casa lavoro di Biella: le inadeguatezze strutturali erano evidenti. La sfida di Alba si misurerà sulla capacità del territorio e degli enti locali di rendere effettiva la possibilità di recupero e reinserimento sociale degli internati”. Alba (Cn). Il carcere di diventerà una “casa lavoro”, presto al via i lavori lavocedialba.it, 23 giugno 2021 Potrà ospitare una trentina di persone, in trasferimento da Biella. Sarà l’unica realtà del Piemonte e una delle poche del Nord Italia. Sono solo 10, allo stato attuale, i detenuti nella Casa di reclusione “Giuseppe Montalto” di Alba. A breve saranno trasferiti in altre strutture detentive, come già accaduto per l’altra trentina di condannati che fino a poco tempo erano ospiti della struttura langarola, dove in autunno partiranno i lavori per dare seguito alla sua conversione, firmata e approvata in via definitiva nei giorni scorsi, in Casa Lavoro. Qui verranno inserite circa 30 persone, ora ospitate nella Casa circondariale di Biella. Quella di Alba sarà l’unica struttura del Piemonte adibita a questo, e una delle pochissime del Nord Italia. Vi troveranno posto soggetti che hanno finito di scontare il proprio debito con la giustizia, ma che vengono ritenute socialmente pericolose o comunque non rimettibili in libertà. Si tratta di un’ulteriore misura restrittiva rivolta a persone con problemi psichiatrici, soprattutto. Queste persone verranno coinvolte in progetti di inclusione sociale, culturale e lavorativa, coinvolgendo le istituzioni (Amministrazioni comunali, Azienda sanitaria locale, Consorzio socio-assistenziale), il terzo settore (cooperative, volontariato, associazionismo) e il mondo delle imprese profit. L’importo complessivo dei lavori, al via nei prossimi mesi, ammonta a 4.586.124,42 euro. L’intervento sarà eseguito in due fasi: la prima sul corpo attualmente chiuso per poterlo riconsegnare all’uso di destinazione in via prioritaria, la seconda sulla parte oggi operativa - a eccezione della caserma agenti e del reparto semiliberi - meno degradata e che necessita di un intervento meno importante, anche dal punto di vista finanziario. Il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano: “Si è finalmente a una svolta. Sono soddisfatto, era una cosa che attendevo da tempo. Ora è necessario che la Regione faccia la sua parte, provvedendo a dare assistenza medica e psichiatrica agli ospiti che presto verranno trasferiti ad Alba”. Novara. “Fondamentale progettare il futuro del carcere” lavocedinovara.com, 23 giugno 2021 Il vicepresidente della Commissione Sanità e consigliere del regionale del Pd, Domenico Rossi, ha visitato la casa circondariale con il garante regionale dei detenuti Bruno Mellano e il garante comunale don Dino Campiotti. “Ho avuto l’ennesima conferma della complessità dell’ambiente carcerario e di quanto sia necessario confrontarsi con chi conosce a fondo le dinamiche che lo regolano per riuscire ad intervenire sulle condizioni di vita dei detenuti, ma anche per migliorare la qualità del lavoro e la sicurezza delle molte figure professionali che operano nei penitenziari”. Lo afferma il vicepresidente della Commissione Sanità e consigliere del regionale del Pd, Domenico Rossi, al termine della visita della casa circondariale di Novara, sbaato 19 giugno, insieme al garante regionale dei detenuti Bruno Mellano e al garante comunale don Dino Campiotti. La visita anche l’occasione per un confronto con la direttrice Maria Vittoria Manenti e i sui collaboratori: “Ci sono questioni che vanno risolte a livello di sistema paese - dichiara il consigliere - a partire dallo stanziamento di maggiori risorse per assumere più personale con funzioni socio-educative, psicologiche e di mediazione culturale. Questo migliorerebbe le condizioni di lavoro di chi già opera, spesso in condizioni di forte stress, e permetterebbe di offrire un servizio migliore anche nei confronti dei detenuti. Abbiamo degli esempi virtuosi a livello nazionale - come ad esempio Bollate - che devono diventare normalità. Ma servono risorse, progettualità e un forte scambio con il mondo esterno”. Altre questioni riguardano, invece, la realtà novarese: “Non è più rinviabile, ad esempio, l’assunzione di una terza figura educativa, prevista in organico da tempo, considerato che al momento sono solo due per un totale di circa 170 detenuti”. Rossi ha visitato anche l’infermeria del carcere. “Il primo dato rilevante è che nel carcere di Novara si è registrato un unico caso di Covid, subito isolato e che la campagna vaccinale al momento ha coperto il 75% della polizia penitenziaria e oltre il 60% dei detenuti a testimonianza di un servizio che offre delle garanzie anche se proprio gli operatori hanno segnalato la necessità di figure professionali specifiche come chirurghi, ortopedici e urologi. Un’istanza che porterò all’attenzione sia di Asl che dell’ordine dei medici chiedendo di sensibilizzare i colleghi a tal proposito”. “Per quanto riguarda le dotazioni sanitarie interne al carcere, inoltre, come suggerito a più riprese dal garante regionale sarebbe opportuna una riqualificazione della ormai dismessa sezione femminile - prosegue il consigliere -. Occorrono in fondi necessari per trasformare un edificio al momento abbandonato in una struttura sanitaria moderna e funzionale”. Rossi ha è stato poi nelle zone detentive, gli spazi dedicati alle aule e alla tipografia, ha voluto riportare la segnalazione dei sindacati rispetto alla situazione del quarto piano della caserma agenti che necessiterebbe di interventi di sistemazione. “Mi auguro - conclude Rossi - che ci sia la giusta attenzione da parte delle istituzioni preposte sulla situazione di Novara dove nel giro di pochi anni tutti i principali referenti interni alla struttura cambieranno per diverse ragioni: un nuovo direttore, un nuovo commissario e anche nuovi educatori. Credo sia fondamentale pensare a come progettare il futuro senza perdere di vista l’importante lavoro svolto in questi anni”. Bari. Progetto di Intesa Sanpaolo per il reinserimento dei giovani detenuti di Christian Rocca linkiesta.it, 23 giugno 2021 La banca ha inaugurato insieme alla cooperativa Semi di Vita di Bari un’iniziativa per sostenere il percorso di formazione e inserimento lavorativo di circa 20 ragazzi che si trovano presso l’Istituto Penale per Minorenni Fornelli, dando a loro una opportunità di riscatto sociale. Reinserire nella società i ragazzi detenuti che rischiano spesso di rimanerne ai margini e riconquistare la dignità sociale e culturale attraverso il lavoro. È questo il senso del progetto presentato da Intesa Sanpaolo e dalla cooperativa sociale Semi di Vita di Bari chiamato “(ri) Abilita, agricoltura sociale per l’inserimento lavorativo di giovani dell’area penale”. Una opportunità di formazione e di inserimento lavorativo in agricoltura sociale per ragazzi detenuti presso l’Istituto Penale per Minorenni Fornelli di Bari e giovani sottoposti a misure alternative alla detenzione presso Comunità educative del territorio. Secondo uno studio effettuato dal Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (DAP), la percentuale dei recidivi fra coloro che scontano una pena in carcere è del 68%, valore che scende al 19% nel caso di coloro che scontano una pena alternativa, a conferma del fatto che i detenuti che hanno avviato esperienze di lavoro registrano una sensibile riduzione del tasso di recidiva. Ed è proprio in questo settore che il Progetto (ri) Abilita si inserisce. “Con il progetto (ri) Abilita sviluppato a Bari, Intesa Sanpaolo conferma il proprio impegno in termini di responsabilità sociale e interviene su importanti nodi strutturali della missione Inclusione e Coesione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, promuovendo il lavoro come forza riabilitante per giovani in condizioni di fragilità, realizzando una vera e propria scommessa educativa e facilitando la rigenerazione di beni comuni. Sosteniamo l’azione del Terzo Settore in un importante territorio del Sud Italia, all’interno di un percorso che abbiamo intrapreso da tempo e che ci vede operare al fianco delle migliori realtà del Paese in ambito sociale” ha dichiarato Elena Jacobs, Responsabile Valorizzazione del Sociale e Relazioni con le Università di Intesa Sanpaolo. “Dare una possibilità a giovani dell’area penale di potersi riscattare attraverso il lavoro è per noi una missione molto importante. Avere Intesa Sanpaolo come partner a sostegno del progetto con le azioni previste da (ri) Abilita ha dato alla nostra cooperativa la possibilità di accelerare i processi di inserimento lavorativo sui terreni confiscati alla criminalità organizzata. Una chance importante per il territorio e la comunità per cui operiamo, volta a lasciare il mondo migliore di come l’abbiamo trovato” ha commentato Angelo Santoro, Presidente Cooperativa Sociale Semi di Vita. Nello specifico i ragazzi verranno inseriti all’interno dei progetti di agricoltura sociale della Cooperativa Semi di Vita, tra i quali: “La Fattoria dei Primi”, un’iniziativa avviata su un terreno di 26 ettari confiscati alla criminalità organizzata a Valenzano nella città Metropolitana di Bari e aggiudicato nel 2018 dal Comune alla Cooperativa e nell’orto sociale nel quartiere periferico di Bari Japigia, che Semi di Vita ha avviato nel 2014 realizzando opportunità di rinascita comunitaria in un’area particolarmente complessa della città. Prenderanno inoltre parte al progetto “Cardoncelleria Fornelli”, supportato dal Ministero della Giustizia, che prevede entro il 2021 la realizzazione di una serra di 330 mq per la coltivazione di funghi cardoncelli e di un laboratorio di confezionamento di 70 mq all’interno dell’Istituto Penale per Minorenni Fornelli di Bari. Presso la Cardoncelleria, Semi di Vita darà vita alla produzione coinvolgendo direttamente i giovani detenuti in un programma formativo che prevede l’acquisizione di nozioni teoriche e pratiche in campo agricolo, economico e di gestione aziendale. (ri) Abilita si innesta così all’interno di queste tre importanti esperienze e iniziative sociali, grazie alle quali i ragazzi coinvolti trovano un contesto in cui apprendere le basi per un mestiere del futuro e occasioni per un pieno reinserimento nella comunità. La partnership tra Intesa Sanpaolo e la Cooperativa Semi di Vita viene inoltre ulteriormente consolidata dalla sinergia tra diverse funzioni della Banca, che oltre alla co-progettazione e al sostegno economico, mettono a disposizione dei giovani beneficiari il proprio know-how con una proposta di moduli formativi di alfabetizzazione economico-finanziaria realizzati attraverso l’associazione di volontariato Vobis, costituita da ex-dipendenti bancari con l’obiettivo di offrire la propria professionalità per far diventare il credito un “diritto di molti”, e la messa a disposizione di For Funding, la piattaforma di crowdfunding di Intesa Sanpaolo, per il reperimento di risorse utili alla realizzazione di importanti filoni progettuali di Semi di Vita o per un sostegno nel portare avanti le attività quotidiane. Proprio una campagna di raccolta fondi, che si chiuderà il 30 giugno, è stata avviata in seguito al furto del trattore acquistato di recente dalla Cooperativa e ha consentito in pochi giorni la raccolta di oltre 32mila euro, grazie a una risposta tempestiva della Comunità e di numerosi sostenitori che hanno offerto il proprio supporto da tutta Italia. Treviso. Formazione in carcere: 5 detenuti ottengono l’attestato di “addetto ai ponteggi” di Isabella Loschi oggitreviso.it, 23 giugno 2021 La Casa circondariale di Santa Bona ha offerto ad alcuni ospiti la possibilità di partecipare al corso della scuola Edile di Treviso. La formazione come primo strumento di riabilitazione. Sono cinque i detenuti della Casa Circondariale di Santa Bona che hanno partecipato al corso del Centro di formazione professionale Edile di Treviso e ottenuto l’attestato di addetti ai ponteggi. Il carcere di Santa Bona in collaborazione con la scuola Edile di Treviso ha offerto ad alcuni ospiti della struttura la possibilità di partecipare al “Corso per lavoratori e preposti addetti al montaggio/smontaggio/trasformazione di ponteggi”. Una attività che rientra nel programma di reinserimento nella società a fine pena, ma che ha anche un obiettivo a breve termine: montare i ponteggi utili per ridipingere alcune facciate della struttura detentiva. “Se è vero, come è vero - commenta il direttore della casa circondariale di Treviso, lberto Quagliotto - che il periodo della carcerazione deve essere un momento della vita cui si deve dare un significato, pur nella durezza che comporta la privazione della libertà, è altrettanto vero che lo strumento per eccellenza per conseguire tale obiettivo è la formazione. Formazione orientata al lavoro. In tal senso la collaborazione con la realtà della Scuola Edile è una risorsa cui attingere a piene mani, ed è espressione non solo di una azione didattica, ma anche di una vera e propria consapevolezza del valore etico che ogni azione formativa sottende in carcere”. I cinque i detenuti che hanno partecipato al corso come addetti al montaggio, smontaggio e trasformazione dei ponteggi, formandosi sia sul lato teorico sia sul lato pratico ora, oltre ad avere uno strumento utile per essere reinseriti nel mondo del lavoro, potranno mettere a frutto le loro nuove competenze all’interno dello stesso carcere. Il corso ha avuto una durata di 30 ore che sono state suddivise in sei giornate comprese tra il 31 maggio e il 10 giugno. Si è cominciato con una prima parte dedicata alla legislazione in materia di prevenzione e alle statistiche degli infortuni, per poi proseguire il corso con aspetti più tecnici, approfondendo la lettura dei progetti, dei piani di montaggio, le buone prassi da seguire e le norme per lavorare in sicurezza. Dopo un’infarinatura teorica, si è passati alla pratica con quasi la metà del corso dedicata al montaggio dei ponteggi e alcune esercitazioni. Il tutto si è concluso con una prova di verifica finale, superata con successo da tutti. Bergamo. Con “Cavalli in Carcere” una seconda opportunità non solo per i detenuti di Francesca Manca* Corriere della Sera, 23 giugno 2021 Sfrattata in aprile dalla Casa circondariale di Bollate, l’associazione trasloca a Bergamo. Volontari e equini saranno ospitati dal Centro Ippico La Rosa Bianca di Giuseppe Sanna. Il progetto educativo nato nel 2007 dietro le sbarre sarà riproposto per il territorio. La posta elettronica certificata (Pec) arriva in silenzio, ma il suo contenuto può, in certe occasioni, essere deflagrante come lo scoppio di una mina. A fine aprile Claudio Villa, presidente dell’Associazione Salto Oltre il Muro (Asom) riceve una Pec dall’attuale direzione del carcere di Bollate e dal relativo Provveditorato nella quale si chiede lo sfratto e lo sgombero immediato della scuderia chiudendo così il progetto “Cavalli in Carcere” attivo da 14 anni. Tempo concesso: quindici giorni. Motivazione: struttura pericolante, inagibile e pericolosa per l’incolumità delle persone. La perizia: un elenco di poche righe divise in quattro punti. Asom era presente nel carcere di Bollate dal 2007 su richiesta dell’allora direttore Lucia Castellano, per dare una seconda opportunità ai detenuti e ai cavalli arrivati da situazioni di sequestro o maltrattamento. Negli anni la scuderia, costruita con materiale di recupero dai detenuti che la frequentavano, ha ospitato fino a 40 cavalli. Ancora oggi Asom è l’unica realtà in Europa all’interno di un carcere che si avvale della collaborazione dei cavalli per la riabilitazione sociale dei detenuti attraverso la creazione di una relazione empatica e di cura tra detenuto e cavallo. Il progetto va incontro alla funzione rieducativa della pena e è orientato a promuovere il reinserimento dei detenuti come cittadini liberi e attivi nella vita civile e nella legalità. Questo progetto è in grado altresì di condividere gli obiettivi in materia di tutela degli animali e del loro benessere. Negli anni centinaia di detenuti hanno frequentato il corso “Conoscere il cavallo” sperimentando sul campo il grande potenziale riabilitativo di un animale di 500 chili che ti permette l’avvicinamento e una relazione solo in seguito a un comportamento basato sull’attenzione e sul rispetto. I progetti proposti sono stati seguiti da psicologi e educatori del carcere, alcuni sono stati condotti anche in collaborazione con l’Università Statale di Milano e con l’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano. La scuderia ha ospitato convegni dedicati alla giustizia riparativa, varie associazioni coinvolte negli interventi assistiti con gli animali, diversi istituti scolastici e associazioni che si occupano di adolescenti a rischio. L’obiettivo di tutti i progetti è stato sempre quello di creare un ponte tra i detenuti e gli utenti esterni, cercando di abbattere il muro del pregiudizio attraverso l’interazione reciproca durante le attività proposte. La scuderia ha anche ospitato professionisti che hanno dedicato il loro tempo all’istruzione dei detenuti su temi specifici riguardanti la gestione del cavallo e che in alcuni casi si è rivelata un’occasione di lavoro una volta scontata la pena detentiva. La chiusura del progetto “Cavalli in Carcere” induce a pensare che forse non sia stata compresa l’importanza del potenziale rieducativo del cavallo, animale che agisce in profondità sull’animo umano e che crea una vera motivazione per un cambiamento emotivo ed attitudinale. Tuttavia si dice che per ogni fine ci sia sempre un nuovo inizio e allora… ecco che anche una buona notizia è arrivata a ridosso di quella appena descritta: nel giro di pochi giorni infatti tanto l’associazione quanto i cavalli hanno trovato una nuova casa. E questo è successo per merito di Giuseppe Sanna, persona schiva che antepone i fatti alle parole e che ha una lunga esperienza nel settore penitenziario: grazie a lui abbiamo avuto la possibilità di trasferirci, insieme con i nostri cavalli, vicino a Bergamo presso il Centro Ippico La Rosa Bianca. E ora potremo riproporre in quel posto il progetto che Asom ha promosso per tanti anni all’interno del carcere di Bollate. Sarà una nuova esperienza per tutti. Per noi, per i cavalli e per i detenuti: almeno per quelli che, potendo uscire grazie all’articolo 21 dell’ordinamento penitenziario, potranno continuare a trovare la loro seconda opportunità nella nuova sede di Asom. *Volontaria Asom Viterbo. Inaugurato il giardino della solidarietà, Cartabia: “Rieducazione essenziale” di Raul Leoni gnewsonline.it, 23 giugno 2021 La ministra della Giustizia Marta Cartabia ha inaugurato a Viterbo il “Giardino della Solidarietà”, il parco realizzato nel quartiere di Riello, attorno al Palazzo di Giustizia, e curato dai detenuti del locale istituto penitenziario e dagli studenti dell’Università della Tuscia. L’idea nasce da un accordo siglato tra azienda agraria dell’Unitus, Tribunale e Procura, Università della Tuscia, Casa circondariale, Ordine degli avvocati e alcune aziende private. Si tratta del primo progetto del genere in Italia a vantaggio del verde urbano, del contrasto ai cambiamenti climatici e della qualità dell’aria con importanti finalità formative. Selezionate e inserite oltre 800 piante dai colori accesi in grado di richiamare l’attenzione dei passanti, il progetto vanta importanti doti educative per gli studenti e una spinta al reinserimento sociale per i detenuti che ne aiutano la cura. Ad accompagnare la ministra Maria Rosaria Covelli, già presidente del Tribunale di Viterbo, da poco chiamata a dirigere l’Ispettorato Generale del Ministero della Giustizia che così ha commentato: “La collaborazione sinergica ai fini della realizzazione di un progetto comune e condiviso non solo tra istituzioni del territorio ma anche, e direi soprattutto, tra soggetti pubblici e soggetti privati è una delle peculiarità di questa iniziativa e credo abbia anche contribuito al rapporto di fiducia e di affidamento che fonda la credibilità della Amministrazione della Giustizia”. A visitare il nuovo spazio verde anche il procuratore capo Paolo Auriemma, il sindaco di Viterbo Giovanni Arena, il rettore dell’Università della Tuscia Stefano Ubertini e molte altre autorità. Nel ‘Giardino della solidarietà’, realizzato grazie all’impegno di studenti e detenuti, “Vedo rispecchiato quel volto costituzionale della pena che è stato richiamato in tante sentenze della Corte Costituzionale a partire dalla interpretazione di quella articolo 27 che mira alla rieducazione e reinserimento sociale di tutti”, ha sottolineato la Guardasigilli. “I magistrati italiani sono oltre 10 mila - ha detto la ministra - e non mi stancherò di ricordare come la stragrande maggioranza sia protagonista di storie positive, di serietà, di operosità di dedizione”. E proprio per questo un’iniziativa come quella di Viterbo merita di essere conosciuta: “Il Giardino della Solidarietà è uno splendido esempio visibile di questa operosità che deve venire alla luce”. Marta Cartabia ha poi messo in evidenza i frutti che una giustizia efficiente, che assicura tempi certi e risposte efficaci, possa portare all’intera società civile. E ha sottolineato l’avvio di due delle riforme inserite nel piano del Recovery, quella del processo civile - ora all’esame del Senato - e quella dell’Ufficio del Processo, già sperimentata in diverse realtà giudiziarie. Richiamando gli effetti propri della cura applicata al Giardino della Solidarietà, la ministra ha altresì chiarito che iniziative come questa - un progetto fondato sull’educazione e sulla rieducazione - contribuiscono alla realizzazione di un importante principio costituzionale. In particolare attraverso il dettato dell’articolo 27, l’espiazione della pena che mira al reinserimento: “Non dimentichiamoci che ogni detenuto che riesce a reinserirsi, soprattutto con il lavoro sorretto da un’adeguata formazione, è un detenuto che più difficilmente tornerà a delinquere”. Omofobia e legge Zan, l’affondo del Vaticano adesso divide la Curia di Paolo Rodari La Repubblica, 23 giugno 2021 La nota contro la legge sull’omofobia consegnata dalla Segreteria di Stato all’Italia ha irritato l’ala bergogliana. Dietro la mossa le pressioni della Cei, che vuole esentare le scuole cattoliche dalla giornata anti-discriminazione. È stata una giornata di grande tensione quella vissuta ieri in Vaticano. La Nota Verbale consegnata dalla Segreteria di Stato all’Italia contro la legge Zan ha provocato lo smarrimento di diversi prelati che temono l’effetto boomerang di questa iniziativa diplomatica inaspettata e certamente inusuale. La seconda sezione della Segreteria guidata dall’arcivescovo Paul Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati, ha portato avanti un’azione che rinverdisce la vecchia stagione dell’interventismo politico d’Oltretevere scontentando la parte più bergogliana della Curia romana. Francesco da tempo ha delegato alla Segreteria questi temi, senza seguirne poi tutti i dettagli. Tanto che oggi non può che osservare in silenzio ciò che accade, consapevole delle perplessità di molti ma insieme, nonostante le divisioni interne alla Curia, cercando di evitare strappi: “C’è la preoccupazione della Santa Sede e di ciascuno di noi”, ha detto non a caso il cardinale Kevin Joseph Farrell. Le differenze di vedute sono molteplici sulla sponda vaticana dove poche settimane fa lo stesso vescovo di Roma aveva fatto capire, facendo scrivere dal cardinale Ladaria ai vescovi americani schierati contro l’eucaristia a Joe Biden, quale fosse la sua linea su questi temi delicati: sì al dialogo, no a uscite pubbliche a rischio di strumentalizzazioni politiche. Non solo, fu nel 2016, sul volo Juarez-Roma, che il Papa disse a proposito del ddl sulle unioni civili: “Io non mi immischio”, precisando che dei temi nazionali deve occuparsi la Cei. Al contrario la nota sul ddl alza i toni evocando, cosa mai avvenuta prima, la violazione del Concordato. La missiva vaticana è stata consegnata da Gallagher giovedì scorso a margine di una conferenza stampa in via della Conciliazione all’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede Pietro Sebastiani. Lo scopo di chi ha redatto il testo, in parte uscito sul Corriere della Sera, non è tanto quello di una riscrittura del ddl all’esame del Parlamento, quanto di una sua correzione in alcuni punti giudicati incongrui. “Con la nota verbale - scrive l’Osservatore Romano - si auspica una diversa modulazione del disegno di legge”, ma nessuno chiede “un blocco” dello stesso. In sostanza, come spiega anche Vatican News, alcuni contenuti del ddl “riducono la libertà garantita alla Chiesa” in tema di organizzazione, di pubblico esercizio di culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale. Nel documento la Santa Sede rileva come il ddl rischi di interferire con il diritto dei cattolici alla “piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, come previsto dall’articolo 2 del testo del Concordato. Sull’iniziativa vaticana ci sono state pressioni anche da parte della Conferenza episcopale italiana. La Cei per settimane ha chiesto chiarimenti all’Italia senza ottenere risposta in particolare in merito al nodo delle scuole private. Sono state chieste delucidazioni sulla parte del ddl che non esenta queste scuole dall’organizzare attività in occasione della Giornata nazionale contro l’omofobia. Per la Chiesa sarebbe soprattutto questa parte a minare la libertà di pensiero dei cattolici. Di qui la richiesta di aiuto alla Santa Sede e la conseguente azione diplomatica che auspicava una modifica ma non immaginava portasse al trambusto di queste ore. Da più parti ci sono forti pressioni sul Papa, soprattutto nel mondo ecclesiale, perché faccia sentire con più veemenza la propria voce in favore della dottrina cattolica su temi eticamente sensibili. L’ala più conservatrice della Chiesa ha chiesto prese di posizioni forti sul tema dell’omosessualità. Ma, spiega un prelato vaticano, “un conto è ricordare ciò che la dottrina della Chiesa pensa sia giusto, un altro è fare uscite del genere che mostrano una pochezza di strategia e una debole comprensione del tessuto italiano”. E ancora: “Cosa pensavano di ottenere? L’effetto, purtroppo, temo possa essere un’accelerazione del ddl Zan senza che venga lasciato a tutti il tempo necessario per riflettere”. Ddl Zan, se risorgono gli storici steccati di Stefano Folli La Repubblica, 23 giugno 2021 L’iniziativa del Vaticano, imprevista e senza precedenti, muove le acque della politica. Nessuno era preparato alla sorpresa, nemmeno chi da destra contesta da tempo il disegno di legge Zan. Nessuno era ed è pronto a riaprire il capitolo dei rapporti tra Stato e Chiesa: quegli “storici steccati” abbattuti ormai tanto tempo fa e si pensava per sempre. Per cui non stupisce che nelle reazioni prevalga la cautela. Annunciare un “vulnus” al Concordato del 1984 è una mossa grave che può preludere a una fase di tensioni dai contorni ancora imprecisati. Oppure può trattarsi solo di un gesto dimostrativo (“sintomo di debolezza” dice l’esperto Margiotta Broglio) destinato a rientrare in breve tempo. In ogni caso è comprensibile che la prudenza s’imponga, in attesa di capire cosa il Vaticano esattamente vuole e perché ha usato l’artiglieria pesante per avanzare le sue richieste. Di sicuro un passo del genere non proviene da un funzionario, sia pure di rango elevato. Dietro le quinte s’indovina o si suppone la mano del Papa. E quindi, a maggior ragione, gli interrogativi si moltiplicano. È anche per questo che il termine “ingerenza” ieri è stato usato con il contagocce. A destra (Lega, Forza Italia, Fratelli d’Italia) si preferisce incassare il dividendo politico della giornata: ostili al ddl Zan, disposti al massimo a discutere robuste correzioni, l’intervento del Vaticano giunge a proposito per corroborare le tesi di chi ha puntato i piedi in Parlamento. Italia Viva si pone a metà strada tra favorevoli e contrari e sembra credere che il sasso nello stagno sia in grado di favorire la mediazione che fino a ieri è stata impossibile. A sinistra, dove l’impaccio è evidente, ci si sforza di non parlare di “ingerenza” per non aggravare la situazione. Tra l’altro la Chiesa di Papa Francesco è stata presentata per anni come un modello progressista, quasi che le ingerenze potessero venire solo da un pontefice “reazionario”. Viceversa, come si è detto, è la prima volta che si chiama in causa il Concordato. Il Vaticano, s’intende, parla ai cattolici e nella maggioranza che sostiene Draghi ci sono varie sensibilità: il Pd è un partito di “cattolici adulti”, per usare la vecchia definizione di Romano Prodi, con l’ambizione di unire insieme lo spirito religioso e la laicità. In concreto, il Pd sostiene il ddl Zan e al tempo stesso non vuole incrinare i rapporti con la Santa Sede progressista del Papa argentino. Ecco perché Enrico Letta si muove con circospezione: non intende stravolgere la legge contestata, né tanto meno rinunciarvi, ma non può ignorare il richiamo vaticano. Quindi è disponibile ad affrontare i “nodi giuridici”, ossia le questioni concordatarie, senza tuttavia intaccare la sostanza della norma. Per capire se tutto questo basterà occorre attendere il risultato dei contatti diplomatici in corso. Ci si muove su un terreno inesplorato. E infatti c’è chi (i radicali di Cappato e Della Vedova di +Europa) tende a rifiutare i compromessi. Di fronte all’alternativa se affossare il ddl Zan o denunciare il Concordato, qualcuno sceglierebbe la seconda opzione. Il che accenderebbe una guerra di religione sul Tevere che pochi desiderano. Meno che mai a Palazzo Chigi: Draghi sarà oggi in Parlamento, consapevole che il tema è incandescente e va riportato sotto controllo con un esercizio di buon senso. Sarebbe paradossale, e peraltro inverosimile, se la stabilità del governo fosse messa a rischio dal rapporto col Vaticano. Ddl Zan, anche Letta apre alla mediazione di Carlo Lania Il Manifesto, 23 giugno 2021 Il segretario dem: “Disponibili al confronto”. Ma il partito difende la legge contro l’omofobia. Per il ddl Zan oggi potrebbe essere una giornata decisiva. La legge contro l’omofobia è un’iniziativa parlamentare e in quanto tale non riguarda il governo, ma dopo l’intervento della Santa Sede che vede in alcuni articoli del testo una violazione del Concordato, la palla passa inevitabilmente a Palazzo Chigi. “È un tema importante”, dice in serata Mario Draghi. “Domani (oggi, ndr) sarò tutto il giorno in parlamento, me lo chiederanno e risponderò in modo più strutturato di quanto potrei fare oggi”. Inizialmente la presenza del premier alle camere era prevista per spiegare, come accade sempre, i temi del consiglio europeo di domani e venerdì, fortemente voluto proprio da Draghi per discutere di immigrazione con i partner europei. L’intervento, del tutto inusuale, del Vaticano ha cambiato però le carte in tavola, tanto da costringere il premier a prendere la parola su uno dei temi più caldi che dividono la sua maggioranza. Un’eventuale condivisione da parte di Palazzo Chigi delle preoccupazioni espresse il 17 giugno scorso da monsignor Richard Gallagher, il diplomatico vaticano che tiene i rapporti con gli Stati, potrebbe allora segnare davvero il destino della legge. L’iniziativa vaticana, giudicata da alcuni come un’ingerenza negli affari interni dell’Italia, ha intanto avuto l’effetto di riaccendere nel Pd le divisioni già esistenti sulla legge. Che le osservazioni fatte Oltretevere abbiano lasciato il segno lo si capisce fin dal mattino, quando Enrico Letta, parlando alla radio, pronuncia parole che vengono lette come un’apertura alla possibilità di modificare il ddl. “Noi siamo sempre stati favorevoli a norme forti contro l’omotransfobia e siamo sempre aperti al confronto”, dice il segretario. “Guarderemo con il massimo spirito di apertura ai nodi giuridici, pur mantenendo da parte nostra il favore sull’impianto”. Poi il segretario telefona al ministro degli Esteri Di Maio per avere maggiori delucidazioni sulla nota vaticana, ma intanto il cambio di atteggiamento non è passato inosservato. Tradotte, le parole di Letta potrebbero significare il via libera a un tavolo politico chiesto più volte dalla Lega e da Italia viva per aprire un confronto interno alla maggioranza sulla legge allo scopo di arrivare a un testo condiviso da tutti. Proposta che significherebbe anche accettare l’idea di un ritorno del ddl alla Camera, ipotesi sempre respinta oltre che da LeU, M5S e Autonomie, da sempre favorevoli alla ddl Zan, anche dal Pd. Basti ricordare che non più tardi di due mesi fa, nel corso di assemblea virtuale con i senatori dem convocata proprio per discutere del ddl contro l’omofobia, Letta aveva pregato quanto nutrivano ancora dei dubbi a non esitare più e a votare la legge, definita una “norma di civiltà”. La nuova presa di posizione spinge ora il partito a uscire allo scoperto. “Il ddl Zan è una proposta di legge equilibrata che tutela la vita delle persone. E quando si tutela la vita delle persone si migliora un Paese intero. Il servizio Studi del Senato ha confermato ce il testo non limita in alcun modo la libertà di espressione, tanto meno quella religiosa”, si legge in una nota scritta Marco Furlan, Maria Pia Pizzolante e Nicola Oddati della direzione nazionale del partito. Va giù duro anche il dem Alessandro Zan, che al testo contro l’omofobia ha dato il suo nome e che è stato il relatore della legge alla Camera, dove è stata approvata il 4 novembre 2020: “Tutte le critiche sono legittime - dice il deputato - ma è grave quando uno Stato estero contesta una legge che non è in vigore ma che è in iter”. Chi, ovviamente, non perde l’occasione per bloccare la legge è la Lega approfittando dell’opportunità offerta dal vaticano è ovviamente Matteo Salvini: “Io sono pronto a incontrare Letta anche domani per garantire diritti e punire discriminazioni e violenze, senza cedere a ideologie o censure e senza invadere il campo di famiglie e scuole”, dice il leader della lega. A dir poco allarmata per l’intervento del Vaticano, definito “un attacco alla nostra Costituzione”, è invece Arcigay. “Il tentativo esplicito e brutale - ha commentato il segretario Gabriele Piazzoni - è quello di sottrarre al parlamento il dibattito sulla legge e trasformare la questione in una crisi diplomatica, mettendola nelle mani del governo Draghi per far sì che tutto venga congelato”. Serve un’alleanza di esperti contro le pseudoscienze di Paolo Tozzi Corriere della Sera, 23 giugno 2021 La politica avalla l’utilizzo di soldi pubblici a favore di una setta esoterica, minando la salute mentale del Paese. Ma la comunità scientifica fatica a parlare con una voce sola: è arrivato il momento di ripensare seriamente il ruolo politico della conoscenza. Alcune settimane fa Carlo Rovelli richiamava l’attenzione su quanto sta capitando a Sylvie Coyaud, giornalista scientifica finita a processo perché smascherava la pseudoscienza. Un caso simile a quello che ha coinvolto il fisico inglese Simon Singh e che, dopo tanto penare, ha portato ad una riforma della cosiddetta “libel law”. In seguito a questo, scrivevo di una vera e propria invasione delle pseudoscienze, e di una minaccia per la democrazia, ben conscio che questo mio allarme potesse suonare esagerato a molti. Poi, il Senato della Repubblica approva il DDL 988, che la Senatrice Elena Cattaneo aveva inutilmente cercato di fermare gia un anno fa, e che ha stigmatizzato con un indignato e sconcertante intervento qualche giorno fa. Nei giorni immediatamente successivi, ho potuto notare che diversi colleghi hanno condiviso questa notizia sgomenti: la politica che avalla l’utilizzo di soldi pubblici a favore di una setta esoterica con marchio registrato, minando la salute mentale del Paese. Come temevo, questo episodio sta avendo come risultato quello di essere uno spot pubblicitario per questa “truffa scientifica”, come la definisce senza mezzi termini Elena Cattaneo. Da parte mia, mi sono chiesto pero quanto sia opportuno prendersela con questa specifica setta esoterica, o con il relatore di maggioranza del ddl 988 (il Senatore Taricco), e mi sono risposto che no, questo avrebbe portato ad una immeritata e dannosissima visibilità per queste pratiche. Che, di fatto, indipendentemente dal tenore del dibattito pubblico, vengono percepite sullo stesso piano della conoscenza condivisa, e vengono confuse con il diritto sacrosanto, di credere in cio? che più? ci piace. Piuttosto, mi sono chiesto perché noi appartenenti alla comunità scientifica non riusciamo a parlare con una sola voce. L’indignazione della Senatrice Elena Cattaneo, l’ironia del Presidente dall’Accademia dei Lincei Giorgio Parisi (perché non seppellire sottoterra i nani da giardino?), non servono se non a dipingere una situazione di conflitto scienza contro pseudoscienza, che di fatto non esiste, come non esiste un dibattito Terra sferica contro Terra piatta. Esistono solo i terrapiattisti quello sì, ma non il dibattito, semplicemente perché oggi ogni bambino delle elementari può dimostrare con un semplice esperimento che la Terra è sferica. Una riflessione interessante in questo ambito e? quella di Ettore Siniscalchi, che individua, secondo me correttamente, l’incapacità della comunità scientifica di comunicare in modo “politico” la complessità di alcuni temi. Ovvero, viene percepito che “i tecnici” si inalberano per difendere la razionalità, e non per tradurre in pensiero democratico e pratica politica la conoscenza di cui sono esperti, come invece dovrebbe essere. Siniscalchi poi sbaglia completamente quando ridimensiona l’impatto che una confusione di piani tra scienza e pseudoscienza può? avere sulla società, e, inconsapevolmente, contribuisce a diffondere l’idea che le organizzazioni dietro a queste pratiche siano sostanzialmente innocue, mancando di cogliere le aberrazioni e le istanze fortemente antidemocratiche che ne stanno alla base. Una delle funzioni della democrazia è proprio quella di fare attenzione a questi “dettagli di grandissima importanza”, come viene illustrato in modo molto chiaro dall’editoriale di Paolo Mieli comparso recentemente su questo giornale. Quello che manca, invece, e? la voce di una comunità scientifica, autorevole e puntuale, che abbia un suo posto e un suo ruolo molto chiaro all’interno della società civile. Questo, noi scienziati, in questo momento non siamo capaci di farlo. Purtroppo dobbiamo constatare che la comunità scientifica fa fatica a pensarsi come un corpo indipendente dalla politica, a cui la politica deve confrontarsi per poter prendere decisioni informate per il bene della società civile. La voce dei singoli non basta e non deve sostituirsi a quella di una comunità: quello che dice la scienza puo? essere diverso da quello che dicono i singoli scienziati, perché il senso e la forza della scienza è proprio nella sua coralità e nell’essere una comunità che si confronta continuamente. Questo in fondo è il vero problema, e non la presenza di ciarlatani che ci saranno sempre, e avranno sempre chi li ascolta. Perché la scienza non ha soluzioni miracolose. Mentre le pseudoscienze rassicurano e promettono salvezze miracolose, all’interno di un sistema omologante e settario che le protegge da ogni obiezione. Ma il prezzo che si paga per le pseudoscienze non è solo il prezzo (maggiorato) del prodotto-truffa, ma è la fiducia nella stessa società civile, con conseguenze drammatiche per il cittadino che diventa sempre piu? isolato e sconnesso dalle competenze, fino a diventare il consumatore ideale di un mercato (merceologico e ideologico) dove non c’è più nessun controllo della qualità. I segnali ci sono tutti: è arrivato il momento di ripensare seriamente il ruolo politico della conoscenza. Migranti, l’Ue rinvia l’intesa all’autunno. Resta il nodo sui ricollocamenti di Claudio Tito La Repubblica, 23 giugno 2021 Un passo avanti ma anche uno indietro. Per ora sull’emergenza migranti l’Europa non riesce ad uscire dallo stallo che la accompagna da diverso tempo. Anche in vista del Consiglio europeo di domani, infatti, la bozza di documento finale non assume ancora una linea definitiva e soprattutto concludente. In particolare rispetto alle urgenze che attanagliano da anni Paesi di confine come l’Italia. Il governo italiano ha di certo ottenuto che l’Ue prendesse coscienza di quel che sta accadendo ai limiti meridionali dell’Unione. E per la prima volta in maniera esplicita - almeno nella dichiarazione ancora in fase di preparazione - si accoglie la necessità che gli accordi con i Paesi da cui partono i migranti debbano essere siglati non dai singoli Stati europei ma dall’Unione stessa. La “dimensione esterna”, una sorta di accettazione che il cosiddetto “Modello Turchia” può essere utilizzato anche in altre occasioni e in altre contesti. Il passo indietro, però, riguarda i tempi. Perché tutto questo viene rinviato al prossimo autunno. Quando, cioè, l’emergenza migranti avrà esaurito buona parte dei suoi effetti estivi. Perché come noto il flusso più consistente si registra con il bel tempo e con il mare calmo. “Saranno intensificati i partenariati e la cooperazione - si legge nel documento - come parte integrante dell’azione esterna dell’Unione europea”. Ma il comma successivo prevede, appunto, l’invito alla Commissione e all’Alto Rappresentante (il ministro degli Esteri dell’Unione) “a presentare piani d’azione per i Paesi di origine e transito nell’autunno del 2021”. Il punto rimane, dunque, sempre lo stesso. I 27 non riescono per ora ad assumere una linea comune sulla gestione della migrazione e sui cosiddetti ricollocamenti. Ossia sulla possibilità di distribuire sull’intero territorio europeo gli extracomunitari che sbarcano nei Paesi di primo approdo. Un altro punto che il governo italiano può segnare riguarda la Libia. L’Ue conferma esplicitamente “l’impegno a favore del processo di stabilizzazione della Libia sotto gli auspici delle Nazioni Unite”. In effetti, un percorso che renda definitivamente pacifica la situazione in quel Paese è fondamentale per l’Italia. Perché da lì partono la gran parte dei clandestini diretti nel nostro Paese. E solo un governo stabile è in grado di controllare le coste e, eventualmente, di gestire i fondi che Bruxelles potrebbe mettere a disposizione. Entro l’anno si dovrebbero svolgere le elezioni, la vera cartina al tornasole per dare solidità a un’area spaccata almeno in due dopo la morte di Gheddafi. Anzi, fino ad ora gli alleati europei hanno utilizzato la confusione che regna a Tripoli proprio come scusa per non adottare il modello turco. L’Ue, con la spinta decisiva della Germania, ha infatti stanziato 6 miliardi ad Ankara per controllare la rotta balcanica. Ma si tratta di una strada percorribile solo con una struttura statale solida. Resta il fatto che il capitolo 4 del documento finale è tutto dedicato proprio alla Turchia con termini molto più imperativi. Il Consiglio invita infatti la Commissione “a presentare senza indugio una proposta per la prosecuzione del finanziamento dei rifugiati siriani e delle comunità di accoglienza in Turchia, Giordania e Libano”. Insomma, al momento una soluzione definitiva non appare. Ma proprio la conferma dei fondi ad Ankara, potrebbe essere lo spunto per la Germania per accettare un’intesa a tre con Italia e Francia. Un’ipotesi che accompagnerà in parallelo i lavori del vertice di domani e dopodomani. Sui migranti non c’è l’effetto Draghi: gli sbarchi restano un problema tutto italiano di Gaia Zini Il Domani, 23 giugno 2021 La sintonia è grande tra il premier Mario Draghi e la cancelliera tedesca Angela Merkel, ma non al punto da rimettere in discussione il punto fermo della politica migratoria europea dell’ultimo decennio: gli sbarchi sono un problema italiano, non europeo. Nel 2021 finora sono arrivati sulle coste italiane 19.119 persone, contro le 6.184 del 2020 e le 2.390 del 2019, alcune hanno diritto d’asilo, altre sono migranti economici che vanno incontro all’ipotesi di rimpatrio. Ma mentre i centri di accoglienza a Lampedusa o Pantelleria tornano a essere saturi come prima della crisi da Covid, dagli altri paesi europei non arriverà alcun vero aiuto. “Ci vuole tempo, si sta discutendo”, ammette Draghi. “Noi e l’Italia abbiamo caratteristiche diverse, al Germania è oggetto dei movimenti secondari, l’Italia è un paese di primo approdo”, è l’anodina dichiarazione descrittiva della cancelliera Merkel. Sui ricollocamenti, cioè la presa in carico delle persone che chiedono asilo e la loro gestione successiva, non si fa alcun passo avanti. La sintesi di un alto diplomatico italiano che conosce la politica europea è questa: “L’effetto Draghi si vede in tutti i campi tranne che in quello migranti, su quel fronte non c’è reputazione europea che tenga, nessuno vuole farsi carico di problemi che sono percepiti come soltanto italiani”. La cooperazione si svolge su tutti i fronti del problema migratorio tranne quello di interesse dell’Italia, cioè gli sbarchi via mare. Sia Draghi che Merkel promettono maggior impegno diplomatico ed economico nel Nord Africa, in Libia in particolare, ma anche in Tunisia, e poi nel Sahel, nelle zone cruciali di partenza e di transito del flusso che poi è impossibile fermare sulle coste libiche. Non manca poi l’auspicio di creare canali di ingresso legali che sostituiscano quelli illegali, che è la formula di rito per invocare corridoi umanitari che non sono mai andati oltre una dimensione simbolica. La partita che interessa alla Germania è soltanto quella del rinnovo dell’accordo tra Unione europea e Turchia che ferma il flusso di migranti che arrivano via terra, dalla Siria e non solo, e dunque possono raggiungere la Germania (mentre quelli che sbarcano in Italia faticano molto di più). “La Turchia ha tutti i diritti di essere aiutata perché gestisce 3 milioni di rifugiati, siamo tutti d’accordo”, scandisce la cancelliera Merkel, Draghi la supporta. L’accordo del 2016 fortemente voluto dalla Germania è in scadenza, la Turchia ha incassato oltre 7 miliardi di euro per fare da tappo e fermare all’origine la rotta balcanica che è un grosso problema politico per molti paesi, a cominciare dalla Germania. In teoria la Turchia avrebbe anche dovuto ospitare migranti che, arrivati nell’Ue senza avere i requisiti per l’asilo, venivano rimpatriati nel paese, ma in cinque anni appena 2140 persone hanno seguito il flusso inverso della migrazione, dalla Grecia alla Turchia. In compenso il numero di accessi è crollato: dalle rotte turche arrivavano 861.360 persone nel 2015, dopo l’accordo sono scese a 36.310. C’è qualche aumento soltanto quando, come a marzo 2020, Ankara incoraggia i migranti a partire per tenere sotto pressione Bruxelles. Il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas chiede un aggiornamento del patto, Angela Merkel presenta come un’ovvietà il rinnovo, non obietta il premier Draghi, che pure aveva dato del “dittatore” a Recep Tayyp Erdogan quando aveva umiliato la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (sedia negata, in quanto donna in un paese islamico, nella visita ufficiale di aprile ad Ankara). La visita a Berlino, comunque, è costruita per sottolineare le affinità tra Italia e Germania molto più che per far emergere le differenze. Draghi non ha bisogno di costruirsi una reputazione europea, come di solito capita ai premier italiani freschi di nomina, ma deve persuadere anche i più scettici (come il presidente del parlamento tedesco Wolfgang Schauble) che sarà in grado di far rispettare all’Italia gli impegni presi in cambio degli oltre 200 miliardi del Recovery Plan. Draghi promette quindi le riforme, consapevole che la formula “riforme strutturali” è logora le rilancia come “riforme di sistema” e poi professa grande sintonia con la Germania anche sulla politica internazionale, la collocazione atlantica, i rapporti con gli Stati Uniti e la Cina. Per la verità le posizioni di Germania e Italia verso Cina e Stati Uniti sono parecchio diverse. Draghi si è schierato senza esitare sulle posizioni dell’amministrazione Biden, che considera Pechino un rivale strategico e l’adesione dell’Italia al progetto della Nuova via della seta nel 2019 un errore. La Germania, invece, ha approfittato del periodo di transizione tra Donald Trump e Joe Biden a fine 2020 per accelerare la firma di un accordo commerciale tra Ue e Cina che Pechino considera un grande successo diplomatico, ancor prima che economico. E ancora ieri sul Financial Times Armin Laschet, al momento il successore designato di Angela Merkel per i cristianodemocratici alle elezioni di settembre, denunciava “i rischi di una nuova guerra fredda con la Cina”, che è certo un rivale strategico ma anche “un partner, soprattutto in battaglie difficili come quella sul clima”. Poiché Draghi conosce perfettamente questa diversità di vedute tra Berlino e Washington, la sua proclamazione di sintonia era un chiaro messaggio alla élite tedesca ostile all’Italia sulla politica fiscale e incline ai rapporti con la Cina per esigenze di business: avete bisogno dell’Italia come cuscinetto per evitare l’ostilità dell’America di Biden, quindi non è nel vostro interesse indebolirla con attacchi preventivi su Recovery Plan e debito. Questo credito, però, si può riscuotere soltanto sul campo della politica economica, non su quello dei migranti. Per sancire la sintonia strategica non c’è niente di meglio che trovare un nemico comune: alla domanda di un giornalista, Draghi risponde che certo, anche lui supporterà la richiesta di spostare la finale degli europei dalla Londra minacciata dalla variante Delta a un paese più sicuro. E più europeo. Libro Bianco & Droghe, non cambierà nulla? di Franco Corleone Il Manifesto, 23 giugno 2021 Domani a mezzogiorno presenteremo alla Camera dei Deputati il dodicesimo Libro Bianco che chiude una fase di tre anni di riflessioni intense e disincantate (presentazione on line il 25 giugno ore 10 www.fuoriluogo.it/librobianco2021). Dalla Guerra dei trent’anni iniziata nel 1990, con la legge Iervolino-Vassalli voluta caparbiamente da Bettino Craxi, alla tragedia della pandemia e dei suoi effetti sul carcere, tra emergenza sanitaria e ideologia securitaria. Il capitolo centrale è rappresentato da una discussione a più voci sulla Conferenza nazionale che in maniera non ancora definita è stata preannunciata dalla ministra Dadone; purtroppo, le anticipazioni del programma sono assai deludenti per i contenuti e per le modalità poco trasparenti della preparazione con consultazioni a senso unico. Dopo venti anni, purtroppo non sappiamo se avremo una sede di confronto tra operatori dei servizi pubblici e privati, scienziati, movimenti di consumatori, con l’ambizione di superare arretramenti culturali assai preoccupanti e di aprirsi al cambiamento che si sta imponendo in tutto il mondo. Veniamo però al clou del Libro Bianco con la presentazione dei dati sugli effetti voluti, come diciamo da un po’ di tempo, e non più collaterali, della legislazione antidroga sulla giustizia e sul carcere. Anche quest’anno le tabelle sono accecanti. Nonostante il numero dei detenuti entrati in carcere e il numero di quelli presenti siano diminuiti, la percentuale relativa alla violazione dell’art. 73 e ai soggetti qualificati come tossicodipendenti rimangono stabili se non addirittura in aumento. Il 2020 è stato l’anno del lockdown e del crollo delle attività di polizia e giudiziarie, ma la guerra ai “drogati” non si è fermata e vengono confermati i dati drammatici degli anni precedenti: oltre un terzo delle presenze in carcere sono per violazione della legge sulla droga, che ha trasformato una serie di sostanze naturali in merci proibite e oggetto di traffico e affari criminali. Ci domandiamo come sia possibile che di fronte a una evidenza dei numeri schiacciante, qualcuno ancora parli di sovraffollamento senza indicarne le cause. Infatti, la parola discontinuità è stata cancellata dal dizionario della politica. Ci aspetteremmo dalla ministra Cartabia non solo uno stile diverso, ma anche la determinazione per aggredire i problemi strutturali che incidono su carcere e giustizia. Andrebbe messo subito all’ordine del giorno il cambiamento del Dpr 309/90. La proposta è depositata alla Camera e al Senato da più legislature: occorrerebbe percorrere la strada della decriminalizzazione completa del consumo di tutte le sostanze, della legalizzazione della cannabis e della valorizzazione delle buone prassi della riduzione del danno. Si potrebbe così ipotizzare la liberazione di ventimila detenuti colpiti da un reato senza vittima e si consentirebbe una grande opera di ristrutturazione delle carceri per adeguarle alle norme del Regolamento del 2000: garantire condizioni igieniche e sanitarie accettabili, spazi adeguati per lo studio e per le attività funzionali al reinserimento sociale. Troppo ci si è affidati alle sentenze della Corte costituzionale e della Cassazione, mentre la politica si dimostra assente. Se non ci fosse il coraggio per aggredire questo bubbone, almeno si dovrebbe approvare subito la proposta Magi in discussione alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati sulla riforma della norma sui fatti di lieve entità previsti dall’articolo 73, quinto comma e sulla coltivazione domestica di cannabis. Se no, la parola passerà alla disobbedienza civile e a una Conferenza alternativa. Sabato 26 giugno, nell’ambito della campagna Support! Don’t punish ci sarà un webinar di approfondimento su un’altra grande questione: le sanzioni amministrative per il consumo di droghe. Info fuoriluogo.it/sanzioniamministrative Libia, Turchia e gli umani costi collaterali. Fino a quando fingeremo? di Marco Tarquinio Avvenire, 23 giugno 2021 Roma e Berlino sono d’accordo su parecchie cose: dalla lotta al Covid e alle sue conseguenze socioeconomiche a cruciali dettagli degli Europei di calcio. Mario Draghi e Angela Merkel lo hanno confermato ieri, al termine del loro vertice bilaterale in vista del prossimo Consiglio Ue. E questa è una buona notizia per i due Paesi fratelli, per l’Europa e per un bel pezzo di mondo. Non per tutto il mondo e non per tutti. E questo può anche apparire scontato: Italia e Germania qualche avversario ce l’hanno, eccome. Ma c’è qualcosa che scontato non è nello scontento per le convergenze italo-tedesche. È un’assenza, il vuoto scavato dal dolore di tante persone che non hanno voce. Quel dolore non ha trovato eco, neppure piccola, nelle parole di due grandi e apprezzati leader dell’Unione. Il pensiero va in particolare ai profughi (una percentuale minima dei profughi del mondo) che sono inchiodati ai confini d’Europa, in Turchia e in Libia, o appena dentro quei confini, nei ‘campi’ di Grecia che hanno cancelli d’entrata ma non di uscita. A Roma e a Berlino sta bene rinegoziare un patto anti-migrazioni da Oriente con la Turchia di Erdogan, “dittatore” (Draghi dixit) e protagonista del più misogino degli sgarbi protocollari riservato alla presidente con passaporto tedesco della Commissione Ue. Sta bene, dunque, a entrambi continuare a pagare (miliardi e miliardi di euro, sinora) per avere la sicurezza del ‘congelamento’ di là dall’Egeo e del Bosforo delle persone in fuga che fino in Asia Minore sono arrivate. In massima parte, rifugiati dalla Siria, famiglie intere, che in molti casi vorrebbero chiedere accoglienza e protezione nella Ue e, per le regole che noi stessi abbiamo scritto, dovrebbero riceverle. È una delle pagine più tristi e dure della politica europea di questi anni. Pesante come quella scritta, a lacrime e sangue, nei campi di detenzione libici. Anche nei campi finanziati dalla Ue e di cui è responsabile il governo di Tripoli e che, perciò, non dovrebbero essere ‘lager’ come troppi altri centri di reclusione su quella sponda sud del Mediterraneo. Proprio alla vigilia del vertice Merkel-Draghi, portavoce Onu hanno denunciato nuove violenze in un campo pagato dalla Ue, stavolta su ragazze minorenni. L’agenzia Ap è riuscita anche a raccogliere e rilanciare strazianti dettagli dalla voce di una delle giovanissime vittime di stupro. Ma nessuno ha fatto domande ai leader andando al cuore della questione dell’”esternalizzazione delle frontiere” costi quel costi in termini di umani ‘danni collaterali’. E nessuno ha dato risposte. Fino a quando si potrà continuare a tacere? Fino a quando a fingere di non sapere chi e che cosa viene pagato per la tranquillità falsa e senza coscienza d’Europa? Troppa violenza nei Centri libici, Medici senza frontiere non può restare Il Domani, 23 giugno 2021 Beatrice Lau, capomissione di Msf in Libia: “I continui e violenti incidenti di migranti e rifugiati, nonché il rischio per la sicurezza del nostro personale, hanno raggiunto un livello che non siamo più in grado di accettare. Fino a quando la violenza non cesserà e le condizioni non miglioreranno, Msf non potrà più fornire assistenza medico-umanitaria in queste strutture”. Pestaggi, fame, e disperazione nei centri libici, al punto che Medici senza frontiere non può più restare per prestare assistenza medica. La Ong ha annunciato la sospensione delle attività nei centri di detenzione di Al-Mabani e Abu Salim a Tripoli: “Non è una decisione facile da prendere perché significa che non saremo presenti lì dove sappiamo che le persone soffrono quotidianamente” ha detto Beatrice Lau, capomissione di MSF in Libia. “I continui e violenti incidenti che causano gravi danni a migranti e rifugiati, nonché il rischio per la sicurezza del nostro personale, hanno raggiunto un livello che non siamo più in grado di accettare. Fino a quando la violenza non cesserà e le condizioni non miglioreranno, Msf non potrà più fornire assistenza medico-umanitaria in queste strutture”. Abusi e violenze - Da febbraio di quest’anno, maltrattamenti, abusi e violenze contro le persone detenute in questi centri di detenzione racconta sono aumentati costantemente. Nell’arco di una sola settimana, le équipe di Msf hanno assistito in prima persona e ricevuto segnalazioni di almeno tre incidenti violenti che hanno provocato gravi danni fisici e psicologici. Il 17 giugno, durante una visita al centro di detenzione di Al-Mabani, dove si stima che almeno 2.000 persone siano detenute in celle gravemente sovraffollate, le équipe di Maf hanno assistito ad atti di violenza perpetrati da parte degli addetti alla sicurezza, inclusa l’indiscriminata violenza contro alcune persone colpite mentre lasciavano le loro celle per essere visitate dagli operatori sanitari di Msf. I minori - Il team di Msf ha ricevuto segnalazioni di tensioni crescenti la notte precedente, culminata in una violenza di massa, in seguito alla quale sia i migranti e i rifugiati che gli addetti alla sicurezza hanno riportato diverse ferite. Msf ha trattato 19 pazienti con lesioni da pestaggio, incluse fratture, ferite da taglio, abrasioni e traumi da corpo contundente. In seguito alle ferite riportate alle caviglie, un minore non accompagnato non è più in grado di camminare. Altri hanno raccontato di averi ricevuto abusi fisici e verbali da parte degli addetti alla sicurezza dei centri. Aumentano i migranti - Il crescere dei casi di violenza dall’inizio del 2021 va di pari passo con il significativo aumento del numero di migranti, richiedenti asilo e rifugiati intercettati nel Mediterraneo, costretti a ritornare in Libia e rinchiusi nei centri di detenzione dalla Guardia costiera libica, finanziata dall’UE. Dal 19 giugno, oltre 14.000 persone sono state intercettate e costrette a ritornare in Libia, superando il numero totale di ritorni forzati dell’intero 2020. Questi numeri hanno portato a un grave sovraffollamento e un deterioramento delle già disperate condizioni di vita. La fame - Migranti e rifugiati ricevono quantità insufficienti di cibo: uno o due minimi pasti al giorno, di solito un pezzo di pane e formaggio o un piatto di pasta da condividere con gli altri. I medici di Msf hanno osservato come a volte le persone usino farmaci per gestire la fame. La mancanza di cibo nutriente ha causato problemi anche alle donne che non riescono a produrre latte materno a sufficienza per allattare i propri figli. Una donna ha raccontato al team di Msf di essere così disperata da aver provato a dare la sua razione di cibo solido alla figlia di soli 5 giorni per evitare che morisse di fame. In queste condizioni disumane, le tensioni sfociano spesso in episodi di violenza tra gli addetti alla sicurezza dei centri e le persone detenute arbitrariamente al loro interno. L’appello - Msf chiede ancora una volta la fine delle violenze nei centri di detenzione di Al-Mabani e Abu Salim e il suo appello a porre fine alla detenzione arbitraria utilizzata da lungo tempo in Libia e all’evacuazione immediata dal paese di migranti, richiedenti asilo e rifugiati esposti a condizioni che mettono a rischio le loro vite, anche nei centri di detenzione. “I nostri colleghi hanno visto e ascoltato testimonianze di uomini, donne e bambini vulnerabili, già detenuti in condizioni disperate, soggetti a ulteriori abusi e a rischi potenzialmente letali” ha aggiunto Ellen van der Velden, responsabile delle operazioni di MSF in Libia. “Nessuna persona intercettata in mare dalla Guardia costiera libica, finanziata dall’UE, dovrebbe essere costretta a tornare nei centri di detenzione in Libia. Si deve porre fine alla violenza nei centri di detenzione e procedere con l’evacuazione di tutte le persone costrette a viverci in condizioni disumane”. Spagna. Indulto agli indipendentisti della Catalogna, Sanchez cerca la concordia di Elena Marisol Brandolini Il Domani, 23 giugno 2021 Il governo spagnolo ha approvato la misura di indulto per i leader indipendentisti catalani, in carcere da oltre tre anni e mezzo, condannati nel 2019 dal Tribunal Supremo a pene comprese tra i 9 e i 13 anni di reclusione. Sánchez ha parlato degli indulti come di un primo passo per ricostruire la concordia e ha riconosciuto che i leader in carcere hanno dietro di loro migliaia di persone. Ma è difficile capire quale sarà il passo successivo. L’indipendentismo accoglie la misura di grazia con sollievo, ma anche con diffidenza. Insiste che questo primo passo non risolve il conflitto catalano e rivendica l’amnistia per tutti quelli sotto giudizio per l’autunno catalano e l’esercizio del diritto all’autodeterminazione per decidere il futuro della Catalogna. Il governo spagnolo ha approvato la misura di indulto per i leader indipendentisti catalani, in carcere da oltre tre anni e mezzo, condannati nel 2019 dal Tribunal Supremo a pene comprese tra i 9 e i 13 anni di reclusione, per un reato di sedizione relativo alla celebrazione del referendum e alla dichiarazione unilaterale d’indipendenza nell’autunno del 2017. Una scelta non facile per il governo di coalizione progressista, con la destra mobilitata a minacciare ricorsi, parte del partito socialista non favorevole e, secondo i sondaggi, l’opposizione della maggioranza della popolazione catalana e spagnola. Il presidente Pedro Sánchez sembra però disposto ad affrontare il rischio che questa comporta, per aprire il cammino “alla riconciliazione e all’incontro”. E, al contempo, puntellare definitivamente la sua maggioranza per affrontare con relativa tranquillità il resto della legislatura, contando sulla ripresa post-Covid. L’indipendentismo accoglie la misura di grazia con sollievo per le persone in carcere che usciranno presto in libertà, ma anche con diffidenza. Insiste che questo primo passo non risolve il conflitto catalano e rivendica l’amnistia per tutti quelli sotto giudizio per l’autunno catalano e l’esercizio del diritto all’autodeterminazione per decidere il futuro della Catalogna. Il provvedimento di indulto approvato ha carattere individuale, parziale e reversibile. Alcuni degli indipendentisti in carcere infatti sono stati condannati anche per distrazione di risorse pubbliche e la grazia è concessa per entrambi i reati per quanto riguarda la privazione di libertà, mentre viene mantenuta l’inabilitazione dagli incarichi pubblici. Perciò, usciranno tutti già di galera nelle prossime ore. Gli indulti saranno reversibili, perché condizionati alla non reiterazione del reato per un periodo di tempo. La Costituzione regola la misura di grazia stabilendo che non possa essere concessa in termini generali, che non debba questionare la sentenza del tribunale giudicante, ma che comporti la riduzione delle pene per ragioni di utilità pubblica, che in questo caso il governo individua nel recupero della concordia. “È una scelta che la costituzione spagnola contempla, perciò è una decisione giuridicamente impeccabile. Da un punto di vista politico è un’opzione del presidente del governo di coalizione che presenta i suoi rischi, perché può riuscire bene o male, è una scommessa”, sostiene il cattedratico di diritto costituzionale alla Universidad de Sevilla Javier Pérez Royo. “Con un indulto si accetta che la sentenza dettata da un tribunale è definitiva. È una misura di grazia, che il re adotta su proposta del governo, è un procedimento amministrativo, in questo caso sono nove procedimenti amministrativi. La ricerca della concordia può essere discutibile politicamente, ma non giuridicamente”, precisa il giurista andaluso. Nove indulti per nove leader politici in carcere che perciò verranno liberati: l’ex-vicepresidente del governo catalano Oriol Junqueras, gli ex-consiglieri del governo Dolors Bassa, Quim Forn, Raül Romeva, Josep Rull, Jordi Turull, l’ex-presidente del parlamento catalano Carme Forcadell e i leader dell’associazionismo indipendentista Jordi Sánchez e Jordi Cuixart. Il governo spagnolo sta anche discutendo la riforma del delitto di sedizione nel Codice penale. Podemos l’aveva sostenuta come corsia preferenziale per risolvere la situazione dei prigionieri e forse anche degli esiliati, considerando che la sua approvazione avrebbe rafforzato la misura di grazia. “Penso che il delitto di sedizione dovrebbe sparire - reagisce Pérez Royo -. È un reato del secolo XIX, non è necessario per la protezione della società spagnola. Ma credo che se ne imporrà la riforma con una riduzione sostanziale della pena”. Il Tribunal Supremo, chiamato a esprimere un parere non vincolante sugli indulti, tra le ragioni poste a giustificare la sua contrarietà alla loro concessione, ha obiettato che in questo modo si darebbe luogo a un auto-indulto: “Il Supremo ha sostenuto che poiché la misura riguarda persone di un partito che fa parte della maggiornaza di governo, com’è il caso di Esquerra Republicana, allora il governo starebbe auto-indultandosi. Ma questa è un’opinione puramente politica e non ha nulla a che vedere con quella che dev’essere l’attuazione di un tribunale di giustizia”. Prima ancora della loro approvazione, le destre hanno iniziato a fare fuoco e fiamme contro l’ipotesi della concessione della grazia, convocando una manifestazione a Madrid lo scorso 13 giugno nella Plaza del Colón, come nel 2019. Dopo la vittoria di Isabel Díaz Ayuso a Madrid, il Partido Popular ha l’impressione di poter tornare al governo del paese, con i sondaggi in poppa. José Luis Rodríguez Zapatero, da poco arrivato al palazzo della Moncloa, nel giugno del 2006 annunciò l’apertura di un dialogo con la banda terrorista Eta per una soluzione pacifica del conflitto basco. Alla notizia, il PP promise un’opposizione dura, riempiendo più volte le piazze contro quello che definiva un cedimento dello Stato al terrorismo. Quando i catalani approvarono la riforma del nuovo Estatut col referendum del 2006, il PP annunciò la raccolta di firme in tutti i municipi per ricorrerlo davanti al Tribunal Constitucional. Nel 2010, la sentenza del TC, che ritagliava la costituzione catalana nelle sue parti più innovative, scatenò la nascita di un nuovo movimento di massa per l’indipendenza della Catalogna, che attraverso il cosiddetto procés, arrivò fino ai fatti dell’autunno 2017. Quindici anni dopo, il PP ripercorre lo stesso programma di opposizione: dichiara che ricorrerà gli indulti e inizia una raccolta di firme contro la misura di grazia, anche se con molta meno forza rispetto al 2006. E va in piazza assieme a Vox e Ciudadanos contro il governo, di nuovo a Madrid in Plaza del Colón, in una foto simile a quella del 2019 che portò Sánchez a convocare nuove elezioni, dopo aver vinto la mozione di sfiducia contro il popolare Mariano Rajoy. La differenza, rispetto ad allora, è che 15 anni fa la destra, nelle sue diverse anime, era diluita nel PP; oggi, invece, è tutta spostata sul versante più estremo. E la Plaza del Colón, assai più vuota di quella di due anni fa, appare egemonizzata dall’estrema destra spagnola. Anche Vox e Ciudadanos annunciano ricorsi contro il provvedimento di grazia. “Ma Vox non può ricorrere gli indulti, perché l’indulto non ha nulla a che vedere con la sentenza. Chi è legittimato a opporsi a una misura di grazia?”, s’interroga il costituzionalista: solo chi ne risulti direttamente danneggiato, perciò difficilmente sarà accettato il ricorso di un partito. L’indipendentismo si divide tra chi ha poca o nulla fiducia sul fatto che la concessione degli indulti prefiguri l’apertura di un percorso per la soluzione del conflitto catalano e chi, come il presidente della Generalitat, il repubblicano Pere Aragonès, la considera un primo passo per l’avvio di un dialogo col governo spagnolo e quindi di un negoziato tra le parti. Tutti, però negano che questa sia la soluzione e rivendicano l’amnistia e il diritto all’autodeterminazione. “Personalmente credo che andrebbe fatta l’amnistia - conclude Pérez Royo -. L’amnistia è una legge e non è proibita nella Costituzione. Cancella la pena come se non ci fosse stato alcun reato”. Sánchez ha parlato degli indulti come di un primo passo per ricostruire la concordia e ha riconosciuto che i leader in carcere hanno dietro di loro migliaia di persone. Ma è difficile capire quale sarà il passo successivo. Un problema che dovrà trovare soluzione è certamente quello riferito agli esiliati a Bruxelles, tra i quali c’è l’ex-presidente del governo catalano Carles Puigdemont. È di queste ultime ore, l’approvazione di una risoluzione da parte del Consiglio d’Europa, in cui si richiede la libertà dei leader indipendentisti in carcere e il ritiro degli ordini di estradizione nei confronti di quelli in esilio. “Luca ucciso da un poliziotto in Uruguay. Verità sulla sua morte” di Carlo Lania Il Manifesto, 23 giugno 2021 Trentasette minuti di agonia, quasi metà dei quali trascorsi steso a terra con il gomito di un poliziotto che gli faceva pressione sul collo rendendogli difficile, se non impossibile, respirare. Una vicenda simile a quella di George Floyd, l’afroamericano ucciso da un poliziotto a Minneapolis, ma se possibile ancora più atroce visto il tempo, lunghissimo, durante il quale quello che avrebbe dovuto essere un fermo di polizia si è trasformato in una vicenda mortale. La vittima si chiamava Luca Ventre, 35 anni, originario della provincia di Potenza. È morto il primo gennaio scorso nel perimetro dell’ambasciata italiana di Montevideo dopo essere stato fermato da un poliziotto uruguaiano chiamato dalla personale di sicurezza mentre scavalcava il muro di cinta della sede diplomatica. Quella di Ventre è una famiglia di imprenditori - la madre di Luca è stata presidente della camera di commercio Italia-Uruguay - e l’uomo si trovava nel Paese per motivi di lavoro. Quel giorno di gennaio si era recato all’ambasciata per chiedere la copia di alcuni documenti. “Sul nostro connazionale è stato applicato quello che possiamo definire “codice George Floyd”“, ha detto ieri l’ex senatore Luigi Manconi, presidente dell’associazione A buon diritto che ha denunciato la vicenda in una conferenza stampa alla quale ha partecipato anche Fabrizio Ventre, fratello di Luca. “Un nostro connazionale è stato ucciso presumibilmente da un poliziotto di uno Stato straniero: la nostra dignità nazionale chiede che si faccia giustizia su questa vicenda”. Molte le ombre che fin dall’inizio hanno circondato la morte di Luca e reso più difficile l’accertamento della verità. Una perizia eseguita in Uruguay ha infatti assolto il poliziotto da ogni responsabilità attribuendo il decesso a una “sindrome da delirio eccitato, avvenuta per un’aritmia prodotta da uno stato adrenergico scatenato dall’eccitazione e per alterazione dei livelli di potassio”. Una situazione che sarebbe stata aggravata “dall’assunzione di droghe stimolanti come la cocaina”. Solo le indagini condotte dalla famiglia Ventre hanno permesso di stabilire come sono andate veramente le cose. Il padre e il fratello di Luca sono riusciti a recuperare i filmati delle telecamere di sicurezza dell’ambasciata e degli hotel della zona che hanno fornito una dinamica diversa dei fatti. Fotogrammi nei quali si vede Luca bloccato a terra dagli agenti uno dei quali preme con il gomito sul suo collo. “No me muevo, no me muevo” sono le uniche parole che l’italiano riesce a pronunciare. L’inchiesta condotta dal sostituto procuratore Sergio Colaiocco della procura di Roma ha permesso poi di fare ulteriori e importanti passi in avanti. Una seconda autopsia eseguita in Italia contesta i risultati raggiunti in Uruguay individuando elementi “compatibili con un’azione costrittiva del collo esercitata con notevole forza che deve aver impedito per un certo tempo la normale penetrazione dell’aria”. Il risultato di simili manovre è stata un’asfissia “riconducibile - afferma ancora la perizia - alle prolungate manovre costrittive esercitate con notevole forza sul collo del soggetto”. Sulla base di questa perizia che procuratore Colaiocco ha iscritto il poliziotto uruguaiano nel registro degli indagati per il reato di omicidio preterintenzionale mentre la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha chiesto alla procura di perseguire penalmente il poliziotto. Purtroppo va registrato anche il silenzio che fin dall’inizio la Farnesina ha mantenuto sulla vicenda. “Ci saremmo aspettati una ferma condanna che non è arrivata - ha detto ieri Fabrizio Ventre - mentre il ministero degli Affari esteri ha a lungo sostenuto la tesi del malore nonostante avesse tutto il materiale necessario per capire che si era trattato di un omicidio”. Per il deputato di LeU Erasmo Palazzotto il caso Ventre “richiama una grande responsabilità del governo poiché la magistratura da sola in un contesto internazionale non può andare molto lontano”. Riccardo Magi (+Europa) ha sottolineato invece la necessità che la sicurezza delle ambasciate non sia affidata alla polizia locale: “L’Italia ha sedi diplomatiche in giro per il mondo - ha detto il deputato - e non solo è opportuno, ma doveroso e necessario che all’interno di queste sedi ci siano forze armate e forze dell’ordine italiane, i carabinieri ad esempio”. Egitto. Dieci anni di carcere all’influencer Haneen Hassam di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 23 giugno 2021 In Egitto, un video su TikTok può costare dieci anni di carcere. È successo a Haneen Hossam, una influencer di 20 anni che sulla piattaforma social aveva raggiunto i 900.000 follower prima di essere arrestata con l’accusa di “tratta di esseri umani”, “corruzione della vita familiare e istigazione alla dissolutezza”. È stata lei stessa ad annunciare la condanna con un video postato su Instagram: in lacrime, dice di “non aver fatto niente di male a nessuno” e invoca la clemenza del presidente Abdel Fattah Al-Sisi, che risulta anche taggato. Lui, sul suo profilo ufficiale, di follower ne ha 2,4 milioni. Tutto ha avuto inizio nel 2020 quando Hossam è stata arrestata per “atti contrari ai valori della famiglia e delle tradizioni”. Condannata a due anni di reclusione, la ragazza ha potuto lasciare il carcere dopo dieci mesi perché i suoi legali sono riusciti a ribaltare il verdetto in appello. Dopo poco tempo però, contro la studentessa iscritta alla Cairo University è stato aperto un nuovo processo, questa volta per “incitamento ad atti contrari ai principi e ai valori tradizionali egiziani, per spingere le giovani ragazze a guadagnare beni materiali”. In pratica induzione alla prostituzione. La prova portata dall’accusa è un video in cui Hossam incoraggia i suoi follower a iscriversi ad un’altra piattaforma social, Likee, spiegando come guadagnare denaro postando i video. Secondo difensori dei diritti umani egiziani, le autorità del Cairo stanno portando avanti una vera e propria persecuzione contro le donne influencer sui social network, adducendo generalmente come reato la violazione dei valori tradizionali. Quello di Hossam infatti non è un caso isolato: domenica il tribunale del Cairo ha condannato anche un’altra influencer egiziana, Mawada al-Adham, 23 anni. Lei di follower ne ha tre milioni su Tiktok e 1,4 su Instagram. Il giudice ha reputato “indecenti” i video in cui la giovane canta in playback canzoni pop e ha confermato la condanna a sei anni. Stessa sentenza a ottobre del 2020 è toccata anche a una mamma e una figlia divenute famose su TikTok, Sherifa Rafat e Nora Hisham, centomila followers in totale. Il giudice ha confermato l’accusa di “incitamento alla prostituzione” per via dei video ironici in cui le donne comparivano truccate e vestite con abiti eleganti e a volte appariscenti, per discutere dei più svariati argomenti. Afghanistan. Bambini detenuti e torturati per legami con gli insorti osservatoriodiritti.it, 23 giugno 2021 Centinaia di bambini sono attualmente detenuti per presunto coinvolgimento con i talebani, il gruppo armato estremista Stato islamico-provincia di Khorasan (noto anche come IS-KP) o altri gruppi armati, e sono spesso vittime di tortura in strutture gestite dalle forze di sicurezza del governo. La denuncia arriva dalla ong Human Rights Watch, che poco fa ha dichiarato: “Il governo dell’Afghanistan dovrebbe rilasciare i bambini detenuti per presunta associazione con gruppi di insorti armati e lavorare con le Nazioni Unite e i donatori per stabilire programmi per il loro reinserimento nella società”. In un rapporto preparato prima della sessione di alto livello del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sull’Afghanistan del 22 giugno 2021, l’organizzazione internazionale che opera in difesa dei diritti umani ha rilevato che i bambini sono spesso detenuti in strutture militari in violazione della legge afghana e “spesso firmano documenti involontariamente, comprese le confessioni, che non capiscono”. Sono accusati di “reati di terrorismo”, formulati in modo vago e possono essere condannati fino a 15 anni di carcere. Molti bambini in custodia sono detenuti unicamente a causa del presunto coinvolgimento dei loro genitori con gruppi di insorti. “Detenere e torturare bambini che sono già stati vittime di gruppi di insorti armati è disumano e controproducente”, ha affermato Jo Becker, direttrice della difesa dei diritti dei bambini per l’ong. “Invece di lasciare che questi bambini dimenticati languiscano in prigione, il governo afghano, le Nazioni Unite e i donatori dovrebbero stabilire immediatamente programmi per reintegrarli nella società”. La Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) ha scoperto che i bambini detenuti in Afghanistan per accuse relative alla guerra avevano maggiori probabilità degli adulti di denunciare la tortura. Quasi il 44% dei bambini intervistati nel 2019-2020 ha fornito resoconti credibili di torture o maltrattamenti, rispetto a circa il 32% di tutti i detenuti. Interviste casuali dell’Unama durante quel periodo hanno trovato bambini di 10 anni detenuti in strutture militari o di sicurezza. Durante il conflitto in Afghanistan, forze armate e gruppi hanno reclutato migliaia di bambini sia per ruoli di combattimento sia di supporto, in violazione del diritto internazionale. I talebani, l’IS-KP e altri gruppi armati hanno usato i bambini per compiere attacchi suicidi, piazzare ordigni esplosivi e partecipare alle ostilità. Anche le forze di sicurezza afghane hanno reclutato e utilizzato ragazze e ragazzi. A differenza di altri paesi colpiti dal conflitto, come la Repubblica Democratica del Congo, la Nigeria o il Sud Sudan, l’Afghanistan non ha programmi di reintegrazione per i bambini precedentemente associati a gruppi armati. Nel 2020, circa 5.000 prigionieri talebani sono stati rilasciati a seguito dei colloqui di pace in Afghanistan, ma nessuno era un bambino. Anche i bambini detenuti per motivi legati al conflitto sono stati esclusi dal rilascio dei prigionieri in risposta alla pandemia di Covid-19. “Questi bambini vengono dimenticati e la loro continua detenzione e abuso non scoraggerà la violenza futura”, ha detto Becker. “Le parti preoccupate per il futuro dell’Afghanistan dovrebbero dare la priorità al rilascio e al reinserimento dei bambini detenuti per presunta associazione con gruppi armati e garantire che la protezione dei bambini sia in cima all’agenda dei colloqui di pace”.