L’allarme di Cartabia e Palma: “Il sovraffollamento torna protagonista, siamo preoccupati” di Liana Milella La Repubblica, 22 giugno 2021 Alla Camera il Garante nazionale dei detenuti dice al governo che la pandemia è alle spalle, ma i problemi restano. Fico: “Il Parlamento lavori sulle misure alternative”. La Guardasigilli: “Riprenderanno i colloqui in presenza”. L’angoscia della pandemia che ha attraversato e sconvolto anche le carceri italiane è alle spalle. Ma il sovraffollamento “torna a destare preoccupazione, e ne siamo consapevoli”, dice la ministra della Giustizia Marta Cartabia. Che annuncia però la prossima ripresa dei colloqui in presenza per i detenuti. Il presidente della Camera Roberto Fico insite sulle misure alternative. E Mauro Palma, il Garante nazionale dei detenuti, tiene la sua relazione annuale e riparte da quel caos che aveva paragonato l’anno scorso, in pieno Covid, “alla sfera che improvvisamente piombava in una sala di prove di orchestra in un noto film di Fellini”. Le carceri riducono sensibilmente “i loro ospiti”, come li chiama Palma, da 60.971 dell’inizio 2020 si arriva ai 53.329 di un anno dopo. Anche se proprio i numeri già aumentano, 53.661 detenuti al 7 giugno, a fronte di 50.781 posti sulla carta che poi effettivamente diventano 47.445. Un sovraffollamento che ovviamente preoccupa. Come ha preoccupato il numero dei morti per via del Covid, 15 detenuti e 13 agenti di polizia penitenziaria. Ma non è dei soli numeri che Palma vuole parlare, ma del fatto che il carcere “non è un luogo ‘altro’, perché ci appartiene, e quei muri e quei cancelli indicano soltanto una separazione temporale dovuta a esigenze di tipo diverso, che possono aver determinato la restrizione della libertà”. Ma, dice subito il Garante, “mai devono costituire una separazione sociale e concettuale e diminuire il riconoscimento della specifica vulnerabilità che li abita”. A dirlo è la Costituzione. Nella quale si può leggere anche “l’assolutezza del diritto alla tutela della dignità di ogni persona, quantunque ristretta, e della sua intangibilità fisica e psichica”. I numeri in carcere - Il calo dei detenuti, secondo Palma, “è ovviamente dipeso dai minori ingressi dalla libertà nel periodo di chiusura sociale per il rischio di contagio e dal maggiore ricorso alla detenzione domiciliare”. Un merito che comunque va ascritto più alla magistratura di sorveglianza “piuttosto che all’efficacia dei timidi provvedimenti governativi adottati”. Palma sottolinea che “un terzo delle persone detenute dovranno rimanere in carcere per meno di tre anni. E ben 1.212 sono i condannati a una pena inferiore a un anno”. Rieducazione? Un’illusione, perché proprio i numeri, secondo Palma, danno “un’immagine plastica della fragilità sociale che connota gran parte della popolazione detenuta, dove coloro che non accedono a misure che il nostro ordinamento prevede spesso sono privi di una fissa dimora”. E qui il Garante apre il capitolo dei suicidi in carcere, 62 nel 2020, 55 nel 2019, a cui vanno aggiunti i sei tra il personale di polizia penitenziaria. Richiamo di Fico alle Camere - Il presidente della Camera Roberto Fico gli dà man forte quando dice di essere convinto che siano necessarie “soluzioni strutturali al problema del sovraffollamento carcerario che attualmente si configura per i detenuti come una pena aggiuntiva rispetto a quella cui sono stati condannati”. Secondo Fico è indispensabile che “il Parlamento valuti con attenzione interventi legislativi che consentano la riduzione della popolazione carceraria, favorendo in particolare il ricorso a misure alternative”. Ma è altresì “assicurare la possibilità di svolgere in carcere le attività finalizzate al recupero e al reinserimento sociale del condannato, imposte dal valore rieducativo previsto dalla Costituzione”. Le raccomandazioni di Cartabia - Dalla ministra della Giustizia, innanzitutto, parole di stima per il lavoro del Garante, “una vedetta che punta il suo sguardo lontano e aiuta a far emergere preventivamente i problemi che insorgono nel carcere, problemi individuali e problemi generali, problemi di una singola realtà o di tutta la galassia del carcere”. Un dialogo che, dice Cartabia, “è di grande aiuto e supporto per intercettare per tempo le esigenze che emergono e individuare, tra i molti bisogni, le priorità”. Cartabia torna alla pandemia e ai suoi effetti sul carcere, “un luogo di comunità, dove le condizioni di vita di uno si ripercuotono su quelle di tutti, e viceversa”. La ministra fotografa la realtà del carcere in tempi di Covid, dove “le paure, le ansie per il contagio e le privazioni dalle relazioni significative sono state vissute ancor più intensamente, più drammaticamente, che nel resto della società. L’isolamento e il distacco dai famigliari e dalle persone care si è fatto quasi insostenibile”. Palma, i diritti costituzionali garantiti - Palma parla a lungo dei diritti costituzionali di chi è recluso. Come dimostrano le dure polemiche sulle decisioni della Consulta sull’ergastolo ostativo e sulla liberazione condizionale. Quest’ultima, per la cronaca, è stata data a un solo ergastolano, “ovviamente non ostativo” precisa Palma, nel 2019, a quattro nel 2020, a nessuno nel 2021. Numeri risibili, quindi. Tenendo conto che in Italia oggi ci sono 1.801 ergastolani, di cui 1.259 ostativi. E Palma ribadisce che il tempo della detenzione non dev’essere solo un “tempo vuoto”, ma “da spendere” per far tornare il detenuto alla vita di fuori. E questo vale anche per i migranti e per chi vive nelle Rems, cioè le altre realtà che il Garante Palma osserva per essere certo che anche lì i diritti vengano rispettati. Perché il migrante “ha il diritto a che tale privazione della libertà sia giustificata da una percorribile ipotesi di rimpatrio”. Analogamente “la persona ospitata in un servizio psichiatrico di diagnosi e cura, la quale è spesso di fatto privata della libertà, ha diritto a vedere inserita questa sua peculiare situazione nel contesto di un piano trattamentale che sia effettivamente orientato al massimo recupero dell’autodeterminazione”. Contro la logica del “buttare la chiave” - Palma, come ha già fatto tante volte da quando ricopre il ruolo di Garante, mette in guarda da un sentire diffuso, “il residuo popolare di desiderio di vendetta che ragiona come se ogni pena detentiva possa essere illimitata nel tempo, senza porsi il problema del domani e del fuori, ipotizzando una perpetuità dell’oggi e del dentro”. E fa un esempio: “Non posso tacere la drammaticità e la responsabilità di tutti noi relativamente al suicidio recente di un giovane straniero irregolare che, oggetto di violenta aggressione per strada, avvenuta forse proprio a causa della sua specifica fragilità, ha trovato nella risposta nostra, istituzionale, solo l’accento sulla sua posizione irregolare e il destino di una privazione della libertà, in un confinamento in un centro per il rimpatrio”. I suggerimenti al governo - Non a caso, Palma parte dalle parole usate nelle norme. E fa due esempi, quando si parla di “locale idoneo” dove una persona può essere trattenuta, o attenuazioni quale “ove possibile” nel riferirsi “alla garanzia di condizioni materiali di detenzione rispettose della dignità personale vorremmo appartenessero al passato”. Se le leggi sono scritte così, è evidente che poi i diritti vanno a farsi benedire. Da Palma arrivano suggerimenti al governo per detenuti e migranti. Innanzitutto la richiesta di “una norma non timorosa che effettivamente risponda allo spirito e alla lettera della pronuncia della Corte costituzionale rispetto all’ostatività per il fine pena mai”. Per la salute mentale di persone che hanno commesso reati, “il pieno riconoscimento anche nel codice penale di pari possibilità per l’infermità fisica e per quella psichica, unite a un concetto di presa in carico di tali persone che non neghi quanto il dibattito in ambito psichiatrico ha positivamente prodotto nel nostro Paese”. Per i migranti, “il necessario riconoscimento del loro percorso di vita, di studi, di appartenenza al nostro Paese, che diminuisca la frammentarietà del loro sentirsi parte alla nostra comunità nazionale”. Riforma e referendum: il doppio passo per superare la centralità del carcere di Errico Novi Il Dubbio, 22 giugno 2021 “Misure alternative per le pene brevi”, assicura Cartabia. Che seguirà le indicazioni di Lattanzi su sanzioni pecuniarie sostitutive e messa alla prova. Tutto sta a capire se si eviterà di sprecare un’altra occasione. Dopo la sentenza Torreggiani l’Italia si impegnò a umanizzare la condizione dei detenuti senza dar seguito agli annunci. La pronuncia emessa nel 2014 dalla Corte costituzionale in materia di “droghe leggere” provocò una deflazione illusoria e solo temporanea nelle carceri. Ieri però sono arrivati un allarme e un segnale importanti. Il primo è nella Relazione di Mauro Palma, presidente dell’Autorità garante dei detenuti, che ha certificato la risalita del sovraffollamento (come riferito nel dettaglio in altro servizio del giornale, ndr) e “la necessità di interventi che riducano la pressione”. Alle parole con cui Palma spegne l’illusione di carceri svuotate dall’emergenza sanitaria, la guardasigilli Marta Cartabia non solo fa eco (“il sovraffollamento torna a destare preoccupazione) ma risponde anche con una promessa: si impegna a fronteggiare la deriva “su una pluralità di fronti”. Non fa particolari annunci, se non uno generico: “Le misure alternative per pene detentive brevissime possono essere un terreno di elezione per proseguire su una strada che il nostro ordinamento sperimenta da tempo”. Il riferimento è alle misure ipotizzate nel ddl penale. Più precisamente, alle proposte avanzate dalla commissione Lattanzi e che la ministra si prepara a fare proprie. Si tratta di misure di grande interesse, a cui la relazione degli “esperti” individuati da Cartabia dedica l’intero quarto capitolo. Su tutte, si segnala la “commisurazione” delle sanzioni pecuniarie alle oggettive possibilità economiche del condannato, combinata con gli interventi sull’articolo 9 del ddl Bonafede, grazie ai quali quelle sanzioni sarebbero più spesso adottate in sostituzione del carcere. È una riforma che l’accademia penalistica invoca da anni e che oltre a velocizzare la “macchina processuale”, aiuterebbe a decongestionare gli istituti. A evitare che vi finisca chi non può accedere a pene pecuniarie alternative alla detenzione semplicemente perché quelle pene sono insostenibili alla luce delle condizioni di reddito. Cartabia non entra nello specifico di tali ipotesi, nella propria “replica” a Palma. Non si sofferma sulla proposta, avanzata sempre da Lattanzi, di estendere in modo significativo le archiviazioni “per particolare tenuità del fatto” e la sospensione della pena con messa alla prova. Lattanzi suggerisce di allargare quest’ultimo istituto a un numero di fattispecie assai più ampio di quanto avvenga oggi, anche a reati punibili con pene massime fino a 10 anni (cosa che ora avviene solo in casi rari, come per la ricettazione). La svolta è contenuta nei piani preparatori della “riforma Cartabia”. Cioè di quel restyling del ddl penale che la guardasigilli si prepara ad attuare attraverso i propri emendamenti. Colpisce il fatto che se ne parli poco. Come se una pur indiretta riforma del carcere debba farsi strada con circospezione, senza particolare enfasi, per scampare alla censura dei partiti e dell’opinione pubblica “giustizialisti”. D’altra parte, Cartabia è chiarissima quando svolge un’altra riflessione: “Arriveranno anche interventi sull’architettura penitenziaria con i fondi del Recovery, interventi che dovrebbero migliorare le condizioni di vita per tutti, ma che”, avverte, “evidentemente richiedono tempo”. Il messaggio è chiaro: intanto che le risorse europee saranno disponibili e i luoghi trattamentali fisicamente ampliati, non si può pensare di tenere i reclusi come sardine. La ministra confida nelle riforme. Ma la civiltà dell’esecuzione penale potrebbe beneficiare, almeno un po’, anche di un’eventuale vittoria del referendum di radicali e Lega sulla custodia cautelare. Il quesito, se approvato, escluderebbe il carcere preventivo adottato in virtù del solo rischio che l’indagato reiteri lo specifico reato addebitatogli dall’accusa. Gli esperti assicurano che il numero dei detenuti in attesa di giudizio calerebbe di molto. Sarà interessante verificare la capacità di Salvini nel difendere, da leader di un partito devoto alla “certezza della pena”, la battaglia avviata col Partito Radicale. Lavorare per la dignità delle carceri è in ogni caso sempre difficile. Cartabia ricorda quanto sia necessario, alla causa, il Garante dei detenuti: “È come una vedetta” che “aiuta a far emergere preventivamente i problemi del carcere”. E ancora: “Da quando anche in Italia, come in altri Paesi, è stata introdotta questa figura, tutta la nostra società ha compiuto un importante passo in avanti”, perché “con la presenza di un Garante, la città sa di poter guardare in ogni momento al di là di quegli alti muri di cinta che separano i penitenziari dalla vita comune”. Parole sacrosante. Ma ora dovrà essere innanzitutto il Parlamento a dare valore a quell’istituzione, che ha appena chiesto di evitare altri atti disumani nei confronti di chi si trova dietro le sbarre. “Il diritto delle persone ristrette a usare il tempo per il proprio futuro” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 giugno 2021 Nella sua relazione al Parlamento il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, ha evidenziato le criticità emerse durante lo scorso anno, molte delle quali legate alla pandemia. “Il luogo della privazione della libertà non è un luogo altro, ci appartiene”, afferma il Garante nazionale delle persone private della libertà Mauro Palma durante la presentazione della relazione annuale al Parlamento. Tante sono le criticità emerse, dovute in parte dalla pandemia, che riguardano le carceri, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), le residenze sanitarie assistenziali (Rsa), i luoghi di custodia delle Forze di Polizia, i Centri di trattenimento per il rimpatrio (Cpr) e Hotspot di prima accoglienza di migranti. L’azione fondamentale del Garante - Per il Garante nazionale, il filo che tiene unite situazioni fra loro così diverse è il rischio di una minore effettività dei diritti delle persone ristrette. Proprio per questo è necessaria l’azione di un Garante, che entri, veda, esamini la situazione e intervenga per cooperare al superamento delle criticità riscontrate, prevenendo il loro riproporsi. Un punto centrale dell’intervento del Presidente Palma è l’individuazione quale diritto soggettivo di ogni persona privata della libertà il reale perseguimento dell’obiettivo in base al quale la sua situazione di restrizione si è determinata. Un diritto che si accompagna alla necessità che il tempo di collocazione in strutture privative della libertà non sia soltanto tempo sottratto alla vita. Per esempio, in ambito penale, la finalità rieducativa che la Costituzione assegna alle pene non costituisce soltanto una indicazione per le politiche penali: è un vero e proprio diritto della persona in esecuzione penale, in particolare se detenuta, che deve vedere il tempo che le è sottratto come tempo non vuoto, ma finalizzato a quell’obiettivo che la Costituzione indica. Occorrono azioni per il superamento della condizione di disagio psichiatrico - Analogamente, la persona temporaneamente ristretta in una struttura per un trattamento psichiatrico non volontario deve vedere azioni effettive tese al superamento di tale condizione e al suo inserimento all’interno di una complessiva presa in carico del proprio caso. Nel caso dei Centri per il rimpatrio (Cpr), le persone migranti irregolari hanno il diritto di un impiego significativo del loro tempo, anche se sono in attesa di un rimpatrio. Sulla detenzione in carcere c’è ancora molto da fare per dare significato al tempo di chi è recluso. Per questo è necessario un vero e proprio cambio di prospettiva. “Occorre - ha detto il Presidente Palma - porsi con forza il problema del domani e del fuori superando una visione solo concentrata sull’oggi e sul dentro”. Particolare attenzione alle residenze per anziani e disabili - Riguardo all’ambito della salute, una particolare attenzione è stata rivolta alle residenze per persone anziane o disabili, che in Italia portano a un totale di più di 360 mila posti letto (nel 2020 circa 33 mila posti letto per disabili sotto i 65 anni, 312 mila per anziani, includendo i disabili con più di 65 anni, quasi 19 mila per persone con problemi di salute mentale). Strutture che rischiano - e la pandemia lo ha messo in evidenza - di diventare luoghi di internamento, in cui le persone sono private della loro autodeterminazione. Per questo, il Garante ha sollecitato un ripensamento complessivo del sistema, che ponga al centro la massima possibilità di espressione vitale di ogni persona, valorizzando ogni residuo di autonomia. Immigrazione: va ripensato il modello dei Cpr - Rispetto al complesso tema delle migrazioni irregolari, la richiesta del Garante al Parlamento è di trovare la capacità di affrontarlo in modo meno contingente ed emergenziale, ripensando il modello stesso del Cpr, invece di inseguire quotidiane carenze. Proprio sulle condizioni attuali dei Cpr il Garante nazionale ha ricevuto i primi reclami da parte delle persone ristrette: una possibilità introdotta con l’ultimo decreto in materia di sicurezza della fine del 2020. La necessità di trasparenza per le azioni degli operatori - Un altro tema, verso il quale è sempre viva l’attenzione del Garante nazionale, è quello dell’accountability di chi opera nei luoghi di privazione della libertà: la necessità di trasparenza e di rispondere in modo documentato della propria azione. In alcuni casi il Garante ha ritenuto essenziale sollecitare le Procure a indagare su quanto riferito da più fonti e talvolta verificato direttamente anche attraverso l’analisi della documentazione scritta o video. Il doveroso riconoscimento di chi opera in situazioni difficili - Se è doveroso riconoscere l’opera positiva d’indagine compiuta dall’apposito Nucleo investigativo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, è altrettanto necessario ribadire che proprio il potenziamento di tale capacità, unito a una impostazione più solida della formazione della Polizia penitenziaria e alla assoluta non interferenza con l’azione della magistratura garantiscono il doveroso riconoscimento verso chi opera in situazioni spesso difficili con un delicato compito e non può vedere la propria funzione riassunta dai pochi casi di coloro che offendono i valori fondanti di tale funzione. In conclusione, nella sua azione di vigilanza, il presidente Palma spiega che lo sguardo del Garante non può fermarsi alla mera analisi della legalità formale dei singoli provvedimenti adottati, ma deve guardare alla legittimità sostanziale di ciò che essi determinano. “Il caso del giovane straniero irregolare oggetto di violenta aggressione per strada che ha trovato come unica risposta istituzionale il perseguimento della sua posizione di irregolarità amministrativa e quindi il confinamento in un Centro in vista di un rimpatrio non può non interrogarci”, conclude il Garante. In cella 1.212 persone con meno di un anno da scontare e aumentano i suicidi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 giugno 2021 Un terzo dei detenuti hanno una previsione di rimanere in carcere per meno di tre anni: 2.149 per una pena da 1 a 2 anni e 3.757 per una pena da 2 a 3 anni. Ben 1.212 detenuti, sono coloro che sono stati condannati a una pena inferiore a un anno. Un dato interessante e drammatico nel contempo quello evidenziato dal Garante nazionale durante la presentazione in palamento della relazione annuale. Interessante, perché sconfessa ancora una volta il luogo comune sul fatto “che in carcere non ci va più nessuno”. Drammatico, perché parliamo chiaramente di soggetti vulnerabili e senza taluna protezione da parte del nostro welfare.Il presidente Mauro Palma, relazionando al Parlamento, evidenza che va innanzitutto registrata positivamente la riduzione numerica delle presenze negli Istituti per adulti. La decrescita delle presenze dovuta ai minori ingressi per il periodo di lockdown - Il 2020 era iniziato con 60.971 presenze, mentre l’anno in corso è iniziato con 53.329. La decrescita ovviamente è dipesa dai minori ingressi dalla libertà nel periodo di chiusura sociale per il rischio di contagio e dal maggiore ricorso alla detenzione domiciliare. “Questa principalmente dovuta a una più direzionata attività della Magistratura di sorveglianza, piuttosto che all’efficacia dei timidi provvedimenti governativi adottati”, sottolinea Palma. Al Garante colpisce la pur limitata ripresa della crescita dei numeri negli ultimi mesi che determina l’attuale situazione di 53.661 persone e che, commisurata alla capienza effettiva di posti disponibili, limitata a 47.445 (anche se formalmente attestata a 50.781 posti regolamentari) indica la necessità di interventi che riducano la pressione che tali numeri determinano. Secondo Palma va innanzitutto evidenziato la presenza di più di un terzo di persone detenute che hanno una previsione di rimanere in carcere per meno di tre anni: 1.212 per una pena da 0 a 1 anno; 2.149 per una pena da 1 a 2 anni e 3.757 per una pena da 2 a 3 anni.”È un tema - sottolinea il Garante nazionale - che chiama alla responsabilità anche il territorio perché il carcere da solo non può rispondere ad altre carenze; ma è anche un tema che deve essere affrontato con urgenza perché l’assenza di progettualità apre spesso - troppo spesso - anche all’accumulo di tensioni interne che i numeri attuali degli eventi critici testimoniano e che ricadono sugli operatori penitenziari”. Aumentato il numero di suicidi - Il Garante ha anche sottolineato la rilevanza del numero dei suicidi, accentuato anche nel periodo di difficoltà soggettiva che ha caratterizzato gli scorsi mesi: il tasso dei suicidi ha toccato nel 2020 l’1,11 per mille (62 in totale) delle presenze medie, mentre nel 2019 era stato lo 0,91 (55 in totale). A questi, doverosamente, Mauro Palma aggiunge il numero di suicidi nel personale di Polizia penitenziaria: sei nell’ultimo anno. “Sull’ergastolo ostativo serve una norma coraggiosa” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 giugno 2021 Il Garante Mauro Palma nella sua relazione annuale presentata oggi alla Camera: “Rimane incomprensibile la paura che emerge in molte dichiarazioni, anche recenti, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale”. “Il legislatore odierno si trova di fronte a scelte difficili, ricostruttive” e vi sono alcuni temi “ineludibili” su cui il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà esprime, nella sua relazione annuale presentata oggi alla Camera, alcuni auspici: in particolare, Il Garante Mauro Palma richiama il “nodo” dell’ergastolo ostativo, sottolineando “il necessario confronto per la costruzione di una norma non timorosa che effettivamente risponda allo spirito e alla lettera della pronuncia della Corte costituzionale rispetto all’ostatività per il “fine pena mai”“. Per il Garante, “rimane incomprensibile la paura che emerge in molte dichiarazioni, anche recenti, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale in termini di rifiuto di una preclusione all’accesso alla liberazione condizionale per particolari autori di reato calmierata dall’unico parametro della collaborazione attiva. La valutazione del giudice attraverso una pluralità di indicatori - quantunque cogenti e non vaghi - è la migliore espressione della considerazione della finalità rieducativa e questo il Parlamento dovrà tenere ben presente in quest’anno che la Corte ha fissato perché normativamente si agisca sulla dichiarata incompatibilità costituzionale dell’attuale previsione normativa per l’accesso alla liberazione condizionale”. Nella relazione, il Garante ricorda che “a fronte delle attuali 1.801 persone che scontano la pena dell’ergastolo, di cui 1.259 in situazione cosiddetta “ostativa”, coloro che nell’ultimo triennio hanno avuto accesso alla liberazione condizionale sono stati complessivamente cinque, nessuno nei primi sei mesi di quest’anno”. Carceri, Cartabia: “Garante vedetta importante per tutta la società” gnewsonline.it, 22 giugno 2021 “Il Garante, come una vedetta - o se vogliamo riprendere l’immagine del viandante di Friedrich, guarda oltre le cortine di nebbia, punta il suo sguardo lontano e aiuta a far emergere preventivamente i problemi che insorgono nel carcere; problemi individuali e problemi generali, problemi di una singola realtà o di tutta la galassia del carcere: e li segnala alle autorità competenti” - con queste parole la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha esordito intervenendo alla presentazione della relazione annuale del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, illustrata dal presidente dell’Autorità, Mauro Palma. “Da quando anche in Italia - come in altri Paesi - è stata introdotta la figura del Garante dei detenuti, tutta la nostra società ha compiuto un importante passo in avanti” ha specificato la Guardasigilli - Con la presenza di questo tipo di figura, la città sa di poter guardare in ogni momento al di là di quegli alti muri di cinta che separano i penitenziari dalla vita comune. E chi vive e lavora al di là di quelle mura sa che ciò che lì accade non rimane nascosto”. L’introduzione di questa figura è infatti la risposta ai principi delle Nazioni unite, espressi sin dalla Risoluzione di Parigi del 1993 che richiede in ogni paese la creazione di National human rights institutions, “Istituzioni nazionali per la promozione e la protezione dei diritti umani”. Negli ambiti di sua competenza il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale costituisce la prima risposta italiana a quei principi. “Ma non dobbiamo dimenticare che il nostro paese è uno dei cinque paesi dell’unione europea - insieme a Malta, Romania, Repubblica Ceca e Estonia - che ancora non ha una National Human Rights Institution, come ha segnalato ripetutamente anche il direttore dell’Agenzia dei diritti fondamentali dell’Unione europea, da ultimo nella relazione relativa al 2020 - ha specificato la ministra. Tra le principali problematiche da risolvere nelle carceri la ministra ha voluto affrontare quella della salvaguardia della salute mentale e del sovraffollamento negli istituti carcerari: “Una delle priorità su cui concentrarsi urgentemente è quella della cura delle malattie psichiatriche, dentro e fuori dal carcere, in particolare attraverso le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, le cosiddette Rems: posso già confermare che oltre al coordinamento interministeriale, sono ripresi i tavoli di lavoro con Agenas, l’agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, e un altro sulla sanità penitenziaria presso la Conferenza Stato regioni. Ci sono problemi di lungo periodo e ci sono urgenze indifferibili, sulle quali tutte le autorità competenti sono state sensibilizzate per approntare risposte immediate”, ha aggiunto. “Il sovraffollamento che torna a destare preoccupazione. Ne siamo consapevoli, come ho già avuto io stessa di sottolineare in altra occasione pochi giorni fa. E sono perfettamente consapevole anche delle pesanti conseguenze che il sovraffollamento ha su ogni aspetto della vita all’interno degli istituti, sia per la popolazione detenuta, sia per il personale penitenziario, che per gli altri operatori. Miglioramenti potranno arrivare dagli interventi previsti sul fronte dell’edilizia e dell’architettura penitenziaria, con i fondi del Recovery plan: si prevedono ristrutturazioni e nuove costruzioni, con un ampliamento dei posti accompagnati dalla creazione di più ampi spazi per aree da destinare al trattamento. Interventi che dovrebbero migliorare le condizioni di vita per tutti”. Tracciando un bilancio del difficile anno trascorso poi la ministra ripercorrendo le parole del Garante, ha voluto sottolineare come il sistema penitenziario abbia retto nella gestione della pandemia, sia pur con momenti drammatici e di forte tensione. “Così con sollievo oggi registriamo come la vaccinazione anti Covid abbia raggiunto gran parte della popolazione detenuta, compresi i minorenni. E, naturalmente, la maggior parte anche degli agenti della polizia penitenziaria. Ora occorre riprendere tutte le attività anche dentro il carcere come, del resto, la vita sta riprendendo in tutto il paese: dall’istruzione, la formazione, alle attività culturali, teatrali, sportive, seguendo il ritmo delle aperture, e senza abbandonare le necessarie precauzioni, che la condizione che stiamo ancora attraversando richiede. Sull’argomento la Guardasigilli ha poi voluto comunicare che presto una circolare del Dap ufficializzerà la ripresa dei colloqui in presenza. “Nel fine settimana, infatti, il Comitato tecnico scientifico ci ha fatto avere il suo parere favorevole, per cui - pur conservando le necessarie cautele e la doverosa prudenza - confidiamo di poter permettere presto a padri, madri detenute di poter rivedere figli, fratelli, genitori, con cui in questo lunghissimo anno hanno potuto parlare solo a distanza”. In chiusura la ministra ha voluto ricordare come “Curare la vita che avviene “dentro” le carceri italiane equivalga a “curare” la vita della società intera. “C’è un riverbero positivo per tutti, anzitutto in termini di maggiore sicurezza, quando la vita dentro il carcere è ricca di proposte e di percorsi di rieducazione e reinserimento. È ormai un dato pacificamente acquisito da molti studi fatti sul campo come il tasso di recidiva si abbassi drasticamente, quando il detenuto può seguire adeguati percorsi di reinserimento. E su questo fronte, non si deve mai smettere di migliorare e di esplorare nuove strade, come avviene in molte realtà italiane”. E a tale proposito proprio in queste ore, alcuni dirigenti dell’amministrazione penitenziaria italiana sono stati chiamati in una missione in Messico da parte dell’Unodc - l’agenzia dell’Onu per il contrasto alle droghe e il crimine - nell’ambito di un progetto di formazione rivolto al personale che lavora nelle carceri per sostenere programmi di reinserimento dei detenuti e soprattutto lavori di pubblica utilità. Un progetto che potrebbe presto estendersi anche ad altri paesi del centro e sud America. Cartabia: “Ok del Cts alla ripresa dei colloqui, in epoca Covid isolamento quasi insostenibile” di Nicoletta Cottone Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2021 Il sovraffollamento nelle carceri italiane torna a preoccupare: presenti 53.661 detenuti con una capienza di soli 47.445 posti. “Le paure, le ansie per il contagio e le privazioni dalle relazioni significative in carcere sono state vissute ancor più intensamente, più drammaticamente, che nel resto della società. L’isolamento e il distacco dai famigliari e dalle persone care si è fatto quasi insostenibile”. Lo ha detto la ministra della Giustizia Marta Cartabia, intervenendo alla presentazione della Relazione del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Il garante dei detenuti è come una vedetta - “Da quando anche in Italia - come in altri Paesi - è stata introdotta la figura del garante dei detenuti, tutta la nostra società ha compiuto un importante passo in avanti. Con la presenza di un garante, la città sa di poter guardare in ogni momento al di là di quegli alti muri di cinta che separano i penitenziari dalla vita comune. E chi vive e lavora al di là di quelle mura sa che ciò che lì accade non rimane nascosto”, ha sottolineato la ministra Cartabia. Il Garante, ha evidenziato la ministra, è “come una vedetta” che “aiuta a far emergere preventivamente i problemi che insorgono nel carcere; problemi individuali e problemi generali, problemi di una singola realtà o di tutta la galassia del carcere: e li segnala alle autorità competenti”. Cartabia: “Sulla ripresa dei colloqui in presenza c’è l’ok del Cts” - La ministra Cartabia ha anticipato che arriverà presto una circolare del Dap che “ufficializzerà la ripresa dei colloqui in presenza. Nel fine settimana, infatti, il Comitato tecnico scientifico ci ha fatto avere il suo parere favorevole, per cui - pur conservando le necessarie cautele e la doverosa prudenza - confidiamo di poter permettere presto a padri, madri detenute di poter rivedere figli, fratelli, genitori, con cui in questo lunghissimo anno hanno potuto parlare solo a distanza. Considero questo un grande passo in avanti verso un ritorno alla normalità anche all’interno degli istituti penitenziari. Come progressivamente sta avvenendo per tutto il Paese. Perché - non dobbiamo mai scordarlo - c’è un pezzo d’Italia che vive al di là di quei cancelli”. Preoccupazione per il sovraffollamento: i detenuti sono 53.661 - Il sovraffollamento nelle carceri italiane “torna a destare preoccupazione. Ne siamo consapevoli”, ha evidenziato Marta Cartabia. Nelle carceri italiane sono attualmente presenti 53.661 detenuti, una presenza che “commisurata alla capienza effettiva di posti disponibili, limitata a 47.445 (anche se formalmente attestata a 50.781 posti regolamentari) indica la necessità di interventi che riducano la pressione”, ha sottolineato il Garante delle persone private della libertà personale Mauro Palma, nella Relazione annuale al Parlamento. Sono 1.801 i condannati all’ergastolo. Più di un terzo delle persone detenute - ha ricordato Palma - hanno una previsione di rimanere in carcere per meno di tre anni e sono 1.212 quelle che sono state condannate a una pena inferiore a un anno. Fico: “La pandemia ha confermato le carenze strutturali e organizzative” - “La pandemia - ha sottolineato il presidente della Camera Roberto Fico - ha confermato le gravissime carenze strutturali, igieniche, organizzative del sistema penitenziario italiano, non compatibili con la dignità della persona e il fine rieducativo della pena. In particolare, è emersa drammaticamente l’assenza, in istituti sovraffollati, di spazi minimi per rispettare le regole rigorose poste a tutela della salute pubblica”. In carcere morte per Covid 28 persone, di cui 13 operatori - “Complessivamente - si legge nella relazione al Parlamento - il sistema penitenziario ha retto all’impatto del contagio, rispetto al rischio potenziale di un ambiente chiuso, anche a causa del numero molto basso di persone che hanno manifestato sintomi. Ha, comunque, visto 15 decessi per Covid-19 di persone detenute e 13 tra gli operatori, tutti appartenenti alla Polizia penitenziaria”. Sessantadue i suicidi - Elevato il numero dei suicidi dietro le sbarre. “Non posso non sottolineare - ha scritto Palma nella relazione - la rilevanza del numero dei suicidi, accentuato anche nel periodo di difficoltà soggettiva che ha caratterizzato gli scorsi mesi: il tasso dei suicidi ha toccato nel 2020 l’1,11 per mille - 62 in totale - delle presenze medie, mentre nel 2019 era stato lo 0,91 (55 in totale). A questi è doveroso aggiungere il numero di suicidi nel personale di Polizia penitenziaria: sei nell’ultimo anno”. I suicidi tra i detenuti erano stati 64 nel 2018 e 50 nel 2017. Oltre mille carcerati iscritti all’università, 854 le persone analfabete - Secondo il garante “una immagine plastica della fragilità sociale che connota gran parte della popolazione detenuta, perché indica coloro che non accedono a misure che il nostro ordinamento prevede, spesso anche perché privi di fissa dimora”. Il dato positivo è la presenza in carcere di 1.034 persone iscritte all’università, quello negativo sono 854 persone analfabete e 6.052 che non hanno la licenza media inferiore. La finalità rieducativa del carcere non deve essere solo una dichiarazione di intenti - “Il mondo dei luoghi della privazione della libertà non è luogo ‘altro’: ci appartiene”, ha sottolineato il Garante Mauro Palma nella Relazione annuale al Parlamento. “E quei muri e quei cancelli - sottolinea - indicano soltanto una separazione temporale dovuta a esigenze di tipo diverso, che possono aver determinato la restrizione della libertà”. “Mai devono costituire una separazione sociale e concettuale e diminuire il riconoscimento della specifica vulnerabilità che li abita”, ha detto Palma richiamando gli articoli 2 e 3 della Costituzione, “baluardo di ogni previsione normativa specifica”. Il Garante ha ricordato che “la finalità tendenzialmente rieducativa di ogni sanzione penale è spesso oggetto di affermazioni e dichiarazioni d’intenti”, ma - secondo il Garante - “si tratta troppo spesso di una indicazione convegnistica”. Il Garante dei diritti dei detenuti ha raccontato al Parlamento il suo straordinario lavoro di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 22 giugno 2021 È stata presentata ieri mattina in diretta su Rai 3 la relazione annuale al Parlamento del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, presieduto da Mauro Palma. Lo straordinario lavoro del Garante, dal quale giorno dopo giorno chi opera in questo ambito è abituato a farsi accompagnare, si delinea ogni anno con organicità e compiutezza quando arriva il momento della relazione. Una parola, questa, che non rende conto fino in fondo di cosa fa il Garante nel riferire al Parlamento. Una relazione è una descrizione, una nota informativa di qualcosa che è accaduto o di un oggetto di studio. Ma il Garante non si limita a raccontare le carceri, i centri per migranti, le caserme o gli altri luoghi di privazione della libertà. Non si limita a elencare numeri e informazioni, a descrivere quantitativamente e qualitativamente il proprio oggetto di riferimento. Ha piuttosto rispetto a esso - non un oggetto qualsiasi, ma il luogo dove più si esercita la forza dell’autorità e dove più si mette alla prova lo stato di diritto - la capacità di proporne una lettura globale, di inquadrarlo nel complesso dell’organizzazione sociale, di proporne una linea di indirizzo, di chiamarci tutti a sentire la privazione della libertà come qualcosa che ci riguarda. “Non posso tacere”, scrive Palma, “la drammaticità e la responsabilità di tutti noi relativamente al suicidio recente di un giovane straniero irregolare che, oggetto di violenta aggressione per strada, avvenuta forse proprio a causa della sua specifica fragilità, ha trovato nella risposta nostra, istituzionale, solo l’accento sulla sua posizione irregolare e il destino di una privazione della libertà, in un confinamento in un Centro per il rimpatrio in cui il rapporto tra la sua situazione individuale, anche sulla base di quanto subito, e la rilevanza della previsione normativa per la sua irregolarità è stato sproporzionatamente accentuato su quest’ultimo aspetto. Fino a non essere riusciti a evitare un tragico epilogo”. Siamo tutti chiamati a farcene carico. Dalle nostre diverse prospettive e dalle nostre diverse posizioni, nessuno di noi ha impedito che si potesse affermare quella cultura implicita o esplicita che ha condotto alla morte di Moussa Balde, ragazzo di 23 anni proveniente dalla Guinea e impiccatosi il mese scorso nel Cpr di Torino, dove era stato messo in isolamento come unica risposta al brutale pestaggio a sprangate subìto a Ventimiglia da parte di tre uomini italiani sotto gli occhi di tutti in pieno centro. Guardando all’area penale, il Garante racconta numeri alla mano la lunghezza delle pene inflitte e delle pene residue dei condannati detenuti nelle carceri italiane. Ben 1.212 persone sono state condannate a una pena inferiore a un anno, ben 7.118 a una pena inferiore a tre. Persone che potrebbero usufruire di una misura alternativa al carcere, il quale invece continua a essere visto come la sola risposta punitiva possibile per troppe situazioni. Anche su questo il Garante ci chiama in causa: “è un tema che chiama alla responsabilità anche il territorio perché il carcere da solo non può rispondere ad altre carenze” afferma. Infatti “tali numeri danno una immagine plastica della fragilità sociale che connota gran parte della popolazione detenuta, perché indica coloro che non accedono a misure che il nostro ordinamento prevede, spesso anche perché privi di fissa dimora. Non solo, ma rendono soltanto enunciativa la finalità tendenziale alla rieducazione perché nessun progetto può essere attuato per periodi così brevi e spesso il tempo della detenzione diviene così soltanto tempo di vita sottratto, peraltro destinato a ripetersi sequenzialmente”. Il carcere non è un mondo a sé, così come ovviamente non lo sono i centri per migranti e le altre aree di privazione della libertà. Là dove una pubblica autorità, che ci rappresenta tutti, tiene in custodia qualcuno, ecco che siamo chiamati a farcene carico, a contribuire a un modello di società inclusivo, rispettoso della dignità della persona, dove la privazione della libertà non sia mai cifra oscura ma sempre aperta al controllo sociale. Il Garante ha un’idea chiara di cosa deve essere la pena e quale debba essere la sua finalità. Non si limita a descrivere, ma orienta il proprio lavoro verso una direzione. La stessa che ritroviamo nella Costituzione e nelle Convenzioni internazionali. Oggi l’ha raccontata al Parlamento con magistrale chiarezza. Il Parlamento può ancora dimostrare in tanti modi di saperlo ascoltare e di non cedere alle sirene più populiste ascoltate in questi anni. Auspichiamo davvero che lo faccia. *Coordinatrice associazione Antigone Dei delitti, delle antipatie e delle pene di Sergio Segio Vita, 22 giugno 2021 Viviamo in un Paese dove la reticenza e la dimenticanza sono la regola, una delle poche che unisce ceti sociali e orientamenti politici diversi. L’unica memoria - lunga e accanitamente inossidabile, oltre che falsata - a essere promossa e coltivata è quella relativa agli anni Settanta del secolo scorso e, in particolare, di quell’insieme di vicende impropriamente riassunte nella definizione “anni di piombo”. Una memoria a senso unico dalla quale non è consentito derogare o dissentire, proponendo e argomentando chiavi di lettura o ricostruzioni diverse e alternative a quelle dominanti, come nel caso di Paolo Persichetti, ex detenuto politico per le vicende delle Brigate Rosse, ora perquisito e perseguito in ragione delle sue posizioni, ricerche e pubblicazioni storiche. Quanto quella regola sia cogente e intramontabile ce lo confermano, da ultimo, tre vicende relative allo stato della giustizia e alla amministrazione delle pene in Italia, solo apparentemente slegate. 1) Lo sciopero della fame in corso da parte del detenuto Cesare Battisti. 2) Il referendum sulla giustizia co-promosso da Partito Radicale e Lega. 3) L’archiviazione dell’inchiesta sulla strage di detenuti avvenuta a Modena durante e dopo i disordini dell’8 e 9 marzo 2020. L’isolamento e l’antipatia come supplementi di pena - Il detenuto politico Cesare Battisti è in sciopero della fame per protestare contro l’isolamento di fatto in cui è tenuto da 27 mesi, “dei quali gli ultimi otto senza mai espormi alla luce solare diretta”, scrive. La sezione di alta sicurezza (AS2) di Rossano Calabro, dove si trova dopo l’iniziale periodo trascorso nel carcere sardo di Oristano, “è una tomba, lo sanno tutti. È l’unico reparto sprovvisto persino di mattonelle e servizi igienici decenti, dove nessun operatore sociale mette piede. Il famigerato portone “Antro Isis” è tabù perfino per il cappellano, che finora ha regolarmente ignorato le mie richieste di colloquio. Qui tutto è predisposto per tenere a bada dei ferventi musulmani, ai quali, se pure in condizioni esecrabili, è stato concesso il diritto di pregare insieme”. Lo sciopero e le sparute notizie sulla stampa hanno provocato qualche reazione e anche indotto qualche rara manifestazione di solidarietà. A loro modo assai eloquenti, dato che vi è stato persino chi, pur promuovendo appelli e iniziative, ha tenuto a premettere di avere Battisti in somma antipatia. Aspetto, peraltro, richiamato di frequente allorché si parli o si scriva dell’ex militante dei Proletari armati per il comunismo. Lo ha fatto, ad esempio, anche Michele Serra scrivendone su “la Repubblica”, sia pur entro un ragionamento e un giudizio critico - a seguire quello più netto e precedente di Mattia Feltri - riguardo le condizioni di carcerazione cui viene costretto l’anziano militante, a dispetto dei regolamenti e di ogni logica che non sia quella simbolica e vendicativa. Un altro giornalista, Vittorio Pezzuto, di area liberale e radicale, per denunciare quella che definisce “una vendetta che il nostro ordinamento giudiziario non prevede” e per chiedere che “s’interrompa il livore contro l’assassino” non trova incoerente e fomentante esattamente quel livore aprire il suo articolo con questo incipit: “Cesare Battisti è un uomo vigliacco, tra i più detestabili”. Beninteso, ogni individuale simpatia o antipatia verso chiunque da parte di chiunque è prerogativa soggettiva indiscutibile, non fosse che, nello specifico, rivela una incapacità di comprensione dell’evidenza: vale a dire che quello pazientemente e sapientemente montato lungo almeno un decennio contro Battisti dagli apparati politico-giudiziari-mediatici italiani è un caso da manuale di costruzione bipartisan del mostro, di character assassination, pensato come tappa finale di una resa dei conti con il pugno di scampati alle ondate repressive degli anni Ottanta. A quella costruzione hanno, con zelo ed efficacia, partecipato persino eminenti figure intellettuali ed editorialisti di prima pagina normalmente di ben altro livello, come Antonio Tabucchi, Claudio Magris o Alberto Asor Rosa, che si sono esercitati nell’arte troppo facile dell’insulto, naturalmente condito da dotti riferimenti, e di una animosità, se non maramalda, resa più incomprensibile dal tempo trascorso dai fatti. “Le Brigate Rosse - questi pezzenti della politica”, inveiva Magris in prima pagina del Corriere della Sera, probabilmente senza sospettare che da quei brigatisti poteva essere inteso come complimento, poiché essere pezzenti tra pezzenti, stare al capo opposto delle élites, era storicamente un irrinunciabile carattere programmatico, quando non biografico, in tutte le rivoluzioni proletarie, anche in quelle immaginarie o sedicenti. Asor Rosa arrivava ad attaccare il “suo” quotidiano, “il manifesto”, accusandolo di aver ospitato (addirittura dare parola ai mostri!) un’intervista a Battisti, usando questi raffinati toni: “L’intervista conferma, ma anche ribadisce e aggrava, quel che già sapevamo, e cioè che Battisti è un miserabile, uno che per salvarsi di fronte a un pubblico ignaro è disposto a versare fiumi di fango su di noi e sulla nostra storia, un mentitore e un vigliacco”. E ancora: “Passiamo il nostro tempo da quindici anni a questa parte a sostenere l’azione della magistratura contro i mascalzoni, i ladri, i depravati sessuali che oggi sono al potere nel nostro paese, e dobbiamo leggere proprio sul manifesto e assistere inerti alle accuse infamanti che questo mentecatto-delinquente riversa su di essa?”. Oggi forse questi linguaggi e queste esibizioni di hate speech non colpiscono più, abituati come purtroppo siamo diventati a frequentare i social media, ridotti a discarica verbale di bullismi contrapposti e narcisismi aggressivi, affollata palestra di disinformazione e di cattivi sentimenti. Ma è attraverso questi percorsi e processi, istruiti dall’alto, che la cultura della forca e della gogna diventa - è divenuta - la trama condivisa del sentimento e del discorso pubblico. Il potere dei simboli e il delitto politico - Non è dunque questione della personalità di Battisti, dei Battisti, ma delle sue obiettive responsabilità, per quanto a lungo negate, in questo caso non diverse da quelle di migliaia e migliaia di altri militanti dell’epoca, a loro volta in connessione con decine di migliaia di loro, di nostri, sodali. Il delitto è delitto, va bene, e il suo sortire da motivazioni politiche viene ormai comunemente considerata un’aggravante, perlomeno in Italia e in contrasto con la storia, ancor di più con quella patria della prima metà del Novecento. Ma aggravato o meno che sia, non può essere privato delle sue chiavi di lettura, vale a dire dei contesti, se lo si vuole non giustificare ma comprendere. Se lo si fa, e lo è fatto con determinazione, è stato solo per rendere plausibile la doppia operazione: mostrificare gli uni per assolvere gli altri, ovvero sé stessi, lo Stato delle stragi, i suoi registi e i suoi manovali. Quell’operazione ha come corollario finale la vendetta, la quale ha bisogno di simboli negativi per rendersi più accettabile socialmente e anzi per raccogliere e capitalizzare politicamente ampio consenso. O per dare l’esempio a futura memoria, come nel caso del brigatista Mario Moretti, tuttora incarcerato dopo più di quarant’anni, a eterno monito, in una paradossale nemesi storica per chi pretendeva di educarne cento colpendone uno. Come ha ben annotato ne La Stampa Mattia Feltri: “invocare un trattamento giusto e dignitoso per un uomo detestato da tutti immagino sia un pochino velleitario, perché si sa, la Costituzione comprende diritti da garantire a chiunque, ma noi preferiamo garantirli a chi ci sta simpatico”. O a chi sta o proviene dalla nostra stessa parte: criterio, anzi sentimento, che ha funzionato solo per i militanti delle destre armate e/o stragiste ma non per quelli del campo opposto, rinnegati quali “sedicenti rossi” dalle sinistre istituzionali e abbandonati da quelle extraparlamentari, a propria volta stigmatizzate o addirittura criminalizzate, comunque intimorite e a loro volta storicamente sconfitte e politicamente emarginate. Quella della costruzione del simbolo negativo, del mostro, peraltro, è storia vecchia, cominciata con Pietro Valpreda e piazza Fontana per divenire una delle tecniche principali, affinata scientificamente e lungamente collaudata negli anni della “madre di tutte le emergenze”, quella contro la lotta armata di sinistra di quasi mezzo secolo fa, in seguito riprodotta e stabilizzata nei decenni successivi per fenomeni diversi, a cominciare dalla corruzione e dalle mafie. Quella lunga stagione politica e giudiziaria è considerata una “eccellenza italiana”, divenuta modello per altri paesi, sempre e tuttora rivendicata dai suoi protagonisti. Naturalmente, avendone negate e occultate alcune parti poco presentabili ma invece fondanti, quali quella della tortura sugli arrestati. Alle radici dello scontro tra politica e magistratura - Da lì, da quella emergenza, originano i disequilibri istituzionali, le deleghe in bianco alla magistratura, le successive devastanti lotte di potere, la superfetazione di leggi e apparati di eccezione, il rapporto malato tra procure e media, il sostanzialismo giuridico, la trasformazione dell’imputato in nemico e dell’azione giudiziaria in lotta, l’uso abnorme dei reati associativi e la sapiente distillazione delle intercettazioni, il prolungamento all’infinito della carcerazione preventiva come arma di pressione e ricatto, l’invenzione del “concorso morale” e della “partecipazione esterna”, la costruzione e gestione del “pentito” quale architrave del processo, eccetera. Insomma, di tutti quei problemi che affliggono e avvelenano tuttora il sistema giustizia e che riverberano su quello penitenziario, su parte dei quali si propone ora di intervenire il referendum per il quale Lega e Partito Radicale stanno raccogliendo le firme. Che però evita accuratamente di risalire alle origini e alle cause della patologia degenerativa onde poterle riformare effettivamente nei modi giusti e nella misura dovuta, senza la quale anche questo passaggio rischia di diventare questione di schieramenti, di appartenenze, di tifoserie contrapposte, di lobby e di logge, ovvero di tutele di interessi particolari e di quel garantismo a senso unico e a uso delle classi dominanti nel quale le forze di centrodestra si esercitano con successo dagli anni Novanta del secolo scorso, avendo avuto la capacità di convincerne spesso anche quelle di centrosinistra. I sei quesiti referendari ora avanzati riguardano aspetti in gran parte relativi all’organizzazione giudiziaria: elezione del CSM, responsabilità diretta dei magistrati, meccanismo per la relativa valutazione professionale, separazione delle carriere, limiti al ricorso alla custodia cautelare, abrogazione della legge Severino. Neppure uno è dedicato “al nucleo duro della giustizia: i delitti e le pene”, da cui deriva la bulimia penale e l’ipertrofia penitenziaria, come ha ben osservato Andrea Pugiotto, professore ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Ferrara. Che ne ha anche messo in evidenza la spiegazione: “Riproporre il referendum sull’ergastolo (come i Radicali fecero nel 1981 e, mancando le firme necessarie, nel 2013), o formulare quesiti mirati su due leggi massimamente carcerogene (la Bossi-Fini in tema di immigrazione, la Fini-Giovanardi in materia di stupefacenti) non è un’opzione praticabile, se scegli di promuovere i referendum con Matteo Salvini”. La Fini-Giovanardi, in verità, è stata pur tardivamente cassata dalla Corte costituzionale nel 2014, ma, nel complesso, è l’originaria Iervolino-Vassalli che andrebbe radicalmente riformata, essendo da quarant’anni responsabile della gran parte degli ingressi annuali nelle celle e del loro sovraffollamento. Matteo Salvini è, in effetti, quello stesso leader politico che da ministro dell’Interno, congiuntamente con il collega alla Giustizia Alfonso Bonafede, partecipò a una sorta di spot pubblicitario del partito della gogna, prontamente diffuso a reti e social unificati, nel quale entrambi comparivano trionfanti in favore di telecamere all’arrivo in aeroporto dell’ex latitante, catturato (alcuni sostengono sarebbe più appropriato definirlo un sequestro) in Bolivia per essere estradato in Italia. Persino “la Repubblica” lo definì un “filmino inquietante”. Vite leggere come piume: l’eccidio di Modena - A sua volta, Bonafede è quello stesso Guardasigilli pentastellato che (non) informò i parlamentari sulla strage senza precedenti avvenuta nelle carceri l’8 e 9 marzo 2020, con 13 morti, disse, dovute perlopiù a overdose da farmaci: poche parole e scarni dettagli, neppure i nomi delle vittime, ma certezza, ancorché apodittica, sulle cause dei decessi espresse in Aula del Senato l’11 marzo, in un intervento dalle facoltà divinatorie. In effetti, un anno dopo, la procura di Modena - città dove si sono verificati 9 dei 13 decessi, chi in cella, chi subito dopo il trasferimento - ha chiesto l’archiviazione della vicenda: secondo i PM, non vi sarebbero responsabilità, se non quelle dei reclusi che si sono rivoltati, nove dei quali, perlopiù e sostanzialmente, si sarebbero suicidati imbottendosi di metadone e medicine sottratti dall’infermeria. Esattamente come annunciavano già dalle prime ore, vale a dire prima di ogni indagine o autopsia, il ministro e il coro mediatico. Ricostruzione ora, infine e definitivamente, convalidata dal Giudice Istruttore che, con ordinanza del 16 giugno 2021, ha accolto la richiesta della procura e in tre scarne paginette archiviato la morte di Chouchane Hafedh, Methnani Bilel, Agrebi Slim, Bakili Ali, Ben Mesmia Lofti, Hadidi Ghazi, Iuzu Artur e Rouan Abdellah. Nomi stranieri per vite senza peso e per morti da dimenticare. A nulla sono serviti gli appelli, le controinchieste, le testimonianze di detenuti che parlano di pestaggi e di mancato soccorso, i tanti dubbi e le evidenti incongruenze di cui si è alla fine accorta anche qualche testata nazionale, come “Domani” e “la Repubblica”, o trasmissioni RAI come “Report” (documenti, ricostruzioni, interpellanze, testimonianze e appelli sono pubblicate nelle Newsletter del Comitato per la verità e giustizia sulle morti in carcere sorto all’indomani della strage e tuttora attivo). Se la vita di 13 detenuti vale così poco, figuriamoci quella ora in gioco di uno solo, per giunta così antipatico come Cesare Battisti, che dalla cella di Rossano Calabro ha annunciato di essere dal 2 giugno in sciopero della fame, per chiedere la fine di un ingiustificato e illegittimo isolamento e di voler “comprendere le ragioni che mi spingono a lottare fino all’ultima conseguenza in nome del diritto alla dignità per ogni persona detenuta, di tutti”. Il potere indistruttibile di carceri e leggi speciali - Su questa vicenda, sperando si concluda non drammaticamente e secondo giustizia, vi è da fare un’ultima considerazione. Nel pur marginale e relativo scandalo, ultra-minoritario e da microbolla, per le condizioni di detenzione di Cesare Battisti non ha trovato il minimo spazio lo scandalo più grande che dovrebbe contenerlo: quello per le piccole Guantánamo italiane, come se i diritti umani, il rispetto dell’ordinamento penitenziario e il garantismo non dovessero valere per imputati e condannati per il terrorismo islamico e per chiunque, quali che siano i reati contestati. Come nota a margine e conclusiva, va ricordato un altro pertinente rimosso: vale a dire che la Guantánamo originaria è ancora aperta e attiva. Un lager aperto nel 2002 che ha rinchiuso in condizioni intollerabili 800 uomini (per averne una vaga idea si veda il bel film The Mauritanian del regista Kevin Macdonald, basato sulla storia di uno di loro, Mohamedou Ould Slahi, che vi ha trascorso 14 anni da innocente). Tutti sono stati oggetto di “consegne straordinarie”, ossia di rapimenti, e molti sono stati torturati nei Black sites gestiti dalla CIA in tutto il mondo, spesso con la complicità degli alleati degli Stati Uniti e dei tanti paesi che hanno consentito i rapimenti, il sorvolo e le “consegne”; Italia compresa, direttamente coinvolta nel caso dell’iman Abu Omar, sequestrato a Milano e consegnato all’Egitto per esservi torturato. Vicenda su cui governi di opposto orientamento hanno apposto il sigillo omertoso del Segreto di Stato. A distanza di vent’anni, nel lager statunitense continuano a essere tenute prigioniere ancora 40 persone, 28 addirittura senza accusa né processo. Nulla hanno potuto neppure i probabilmente sinceri propositi di chiuderlo da parte di Barack Obama, al tempo della sua presidenza degli Stati Uniti. Come a dire che il potere materiale di quegli apparati, gli interessi che li sostengono e di cui sono beneficiari, è ancora più forte e inaccessibile di qualsiasi potere politico e legislativo che pure li ha partoriti. I suoi piccoli cloni italiani (le cui radici normative e gestionali vanno, anche qui, rintracciate nelle carceri speciali e nei “braccetti della morte” degli anni Settanta e Ottanta), nessuno, ma proprio nessuno, vuole chiuderli e neppure vederli e denunciarli. Per l’organizzazione penitenziaria, evidentemente, così come per una parte di quella giudiziaria, non vi sono semplicemente condannati (o, peggio, imputati), la cui pena va amministrata, nel rispetto dei regolamenti e della Costituzione, ma vi sono dei nemici da trattare diversamente ed extra legem, per i quali non valgono i comuni diritti. A ennesima riprova che i mostri facilmente sfuggono al controllo dei propri creatori, talvolta persino mordendo loro la mano e comunque vivendo poi di vita propria, di una macchinica autonomia, di un salvacondotto permanente, di poteri indiscutibili quanto disumani. Grazie dunque a Battisti, il cui sciopero della fame indirettamente consente - consentirebbe - pur brevemente di portarli alla luce e di metterli in discussione. Sovraffollamento ed età: perché nelle carceri detenuti (e agenti) sono tanto esposti al Covid di Elena Tebano Corriere della Sera, 22 giugno 2021 Erio Pettinari aveva 62 anni ed è morto di Covid il 22 marzo all’ospedale di Terni, dov’era ricoverato da quasi un mese. C’era arrivato con “un polmone quasi liquefatto”, hanno spiegato alla moglie Daniela Ernesti. Si è ammalato mentre era detenuto nel carcere di Orvieto, dov’era arrivato a ottobre 2020, per scontare la condanna per un furto d’auto del 2013 che si era sommata a quelle per altri furti precedenti, arrivando a otto anni in totale. Alla fine gli sono costate la vita. Luigi Mastrodonato racconta la sua storia su Internazionale, per spiegare come la popolazione carceraria italiana, costretta in una cronica situazione di sovraffollamento, sia stata particolarmente esposta all’epidemia (potete leggerla integralmente qui). È una storia segnata da condizioni economiche e di salute precarie: Pettinari, che aveva iniziato a rubare auto dopo aver perso il lavoro da ambulante, soffriva di una malformazione cronica che gli causava danni cerebrali e mal di testa lancinanti, ed era anche severamente depresso dopo la morte del figlio 25enne per un tumore. Alla sua età e nelle sue condizioni di salute avrebbe dovuto essere ai domiciliari. E invece era in carcere, dove è stato contagiato. Il suo non è un caso isolato (anche se non figura tra i 18 detenuti morti ufficialmente nell’epidemia perché mentre era ricoverato in isolamento in ospedale, pochi giorni prima di morire, ha “beneficiato” di un ordine di scarcerazione, che materialmente non ha cambiato niente). “Scorrendo la lista di chi non ce l’ha fatta ci si imbatte in storie di tutti i tipi: un detenuto di 82 anni con patologie croniche è morto nel carcere di Livorno; uno di 76 anni, cardiopatico, diabetico e con problemi polmonari non ce l’ha fatta a Bologna; uno di 56 anni era malato terminale ma ha passato i suoi ultimi giorni a Opera. E così via, in una conta che riguarda carcerati due volte vulnerabili di fronte al virus, perché in molti casi anziani e malati” scrive Mastrodonato. A loro si aggiungono 12 agenti di polizia penitenziaria, anche loro deceduti per il nuovo coronavirus. È difficile evitare i contagi in condizioni di vita comunitarie. Lo è ancor più nelle carceri italiane, costantemente sovraffollate. Durante la pandemia il ministero della Giustizia ha ridotto le carcerazioni preventive e permesso misure alternative al carcere per chi doveva finire di scontare pene per reati non gravi. In questo modo i detenuti sono passati da 61 mila a 53 mila. Comunque molti di più dei 47 mila posti disponibili. “I tassi di contagio tra i detenuti sono più alti rispetto allo stesso dato relativo all’Italia in generale” ha sintetizzato ad Avvenire Michele Miravalle dell’Osservatorio di Antigone. Se è vera la frase attribuita a Voltaire (“Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”), la capacità di proteggere i detenuti è una cartina di tornasole. Anche in questo caso uno spiraglio è arrivato dalla campagna di vaccinazione: secondo il Ministero della Giustizia sono ormai oltre 45 mila i detenuti vaccinati (e oltre 23 mila su 36 mila gli agenti della Polizia penitenziaria “avviati alla vaccinazione”). Il carcere dei presunti innocenti di Claudio Cerasa Il Foglio, 22 giugno 2021 Il 30 per cento delle persone attualmente in carcere fa parte della categoria dei presunti innocenti. È il dato che si estrapola dalla relazione annuale presentata ieri al Parlamento dal Garante delle persone ristrette della Libertà personale, Mauro Palma, alla presenza del presidente della Camera Roberto Fico e del Ministro della Giustizia Cartabia. Di 53.661 detenuti, 16 mila sono in carcere in attesa di condanna. Statisticamente la maggior parte di loro verrà dichiarata innocente. Questo oltre che a danno della loro libertà, dei diritti fondamentali, della reputazione, delle relazioni, lavoro e vita, preme anche sulla detenzione di coloro i quali devono invece scontare una condanna definitiva, aggravata dai problemi di sovraffollamento. Un dato così elevato dimostra che la custodia cautelare non è una extrema ratio ma è un abuso. Questo dato va associato anche a quello degli indennizzi per ingiusta detenzione, che nel 2020 ammonta a 37 milioni per 750 ordinanze di pagamento. Da considerare inoltre che i dati dello scorso anno sono influenzati dalla pandemia le cui misure di contenimento sociale hanno ridotto anche i reati. Come rileva il Garante nella relazione: “La decrescita è dipesa dai minori ingressi dalla libertà nel periodo di chiusura sociale per il rischio di contagio e dal maggiore ricorso alla detenzione domiciliare: questa principalmente dovuta a una più direzionata attività della magistratura di sorveglianza, piuttosto che all’efficacia dei timidi provvedimenti governativi adottati”. Sottolineando la necessità di interventi che riducano la pressione carceraria, il Garante ha indicato uno specifico aspetto: la presenza di più di un terzo di persone detenute che hanno una previsione di rimanere in carcere per meno di tre anni. Ed è rispetto a questi casi che il ministro Cartabia ha proposto di ricorrere a misure alternative. Sorprendentemente d’accordo è anche il presidente Roberto Fico, il quale ha parlato di ricerca di soluzioni strutturali. Che rappresenterebbero la messa a terra della svolta garantista di Di Maio. Garantisti, se esistete difendete Battisti di Luigi Manconi Il Riformista, 22 giugno 2021 Gli ultimi 8 mesi sono stati trascorsi dal detenuto senza che mai potesse godere dell’esposizione della luce solare diretta. Una situazione che può portare a uno stato di deprivazione sensoriale. Qual è la ragione? L’unica spiegazione è quella di rendere maggiormente afflittiva la sua pena. Quale è la ragione del “regime speciale” al quale si trova sottoposto Cesare Battisti? Dal momento che dal detenuto non si attendono ulteriori informazioni relative a reati commessi da lui stesso o da altri (e sarebbe comunque una misura illecita), l’unica spiegazione di questo trattamento risiede nella volontà di rendere maggiormente afflittiva la sua pena. Ma questo è, né più né meno, che illegale. E costituisce, se vogliamo, un vero e proprio oltraggio al garantismo e la sua totale negazione. Proprio perché il garantismo è un assoluto, vale sempre e comunque, si applica agli amici e agli avversari e, ancor prima, agli innocenti e ai colpevoli. E si applica anche agli autori dei crimini più efferati e a quelli maggiormente riprovevoli. l’adesione della Lega all’iniziativa referendaria promossa dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito ha diffuso nell’aria un certo clima mondano, cosi riassumibile: “dopotutto, signora mia, siamo tutti un po’ garantisti”. Provvidenzialmente sono i fatti, duri come pietre, a sottoporre a verifica quell’autocertificazione garantistica, costituendo altrettanti ineludibili test di verità. Uno di questi ha la voce, senza dubbio sgradevole per tantissimi, di Cesare Battisti. Nel gennaio del 2019, Battisti venne estradato in Italia e ristretto nel carcere di massima sicurezza di Oristano, scontando qui i sei mesi di isolamento previsti come pena accessoria della condanna all’ergastolo. Successivamente, il trasferimento al carcere di Rossano Calabro, dove si sarebbe rinnovato e perpetuato fino a oggi un regime de facto di isolamento, trovandosi Battisti all’interno di una sezione interamente popolata da presunti terroristi islamisti (finora ne hanno scritto solo, se non sbaglio, Giulia Merlo sul Domani e Mattia Feltri su La Stampa, oltre a questo giornale). Le condizioni dell’istituto di pena calabrese sono pessime: “L’AS2 di Rossano è una tomba, lo sanno tutti - scrive in una lettera lo stesso Battisti - è l’unico reparto sprovvisto persino di mattonelle e servizi igienici decenti, dove nessun operatore sociale mette piede”. E gli ultimi otto mesi sono stati trascorsi dal detenuto senza che mai potesse godere “dell’esposizione alla luce solare diretta”. Nella stessa lettera Battisti anticipava l’intenzione di attuare lo sciopero della fame, poi iniziato il 2 giugno scorso, come atto di protesta, contro quello che considera un “isolamento abusivo, senza alcun contatto con altri detenuti”. È una situazione, la sua, che può portare a uno stato di “deprivazione sensoriale”, che la giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani ha definito, in più di mia sentenza, come trattamento inumano e degradante e, in determinate circostanze, vera e propria tortura. Infatti, una condizione di prolungato isolamento totale può portare un individuo alla perdita o alla riduzione della capacità di percepire uno o più sensi. E questa la ragione per la quale misure come l’isolamento devono avere sempre una durata temporanea circoscritta e prevedibile. E il loro eventuale prolungamento deve essere tassativamente motivato in maniera circostanziata e per cause eccezionali. Quale è, oggi, la ragione di questo “regime speciale” al quale si trova sottoposto Cesare Battisti? Dal momento che dal detenuto non si attendono ulteriori informazioni relative a reati commessi da lui stesso o da altri (e sarebbe comunque una misura illecita), l’unica spiegazione di questo trattamento risiede nella volontà di rendere maggiormente afflittiva la sua pena. Ma questo è, né più né meno, che illegale. E costituisce, se vogliamo, un vero e proprio oltraggio al garantiamo e la sua totale negazione. Proprio perché il garantismo è un assoluto, vale sempre e comunque, si applica agli amici e agli avversari e, ancor prima, agli innocenti e ai colpevoli. E si applica anche agli autori dei crimini più efferati e a quelli maggiormente riprovevoli: proprio perché si afferma, così, la superiorità giuridica e morale dello Stato e delle sue leggi, rispetto ai propri nemici. Mi auguro, di conseguenza, che il segretario della Lega, Matteo Salvini, che da Ministro dell’Interno gioì per l’arresto del latitante, in una maniera che forse oggi vorrà giudicare incontinente, si dichiari favorevole all’applicazione di un regime ordinario per Battisti. Ma il discorso non riguarda solo lui, ho un ricordo particolare. Quando dieci anni fa iniziammo a mobilitarci perché sulla morte di Stefano Cucchi si indagasse con la necessaria serietà, dell’intero schieramento di centro-destra si mobilitarono giusto tre persone: Melania Rizzoli, Renata Polverini e Flavia Perina. In questa circostanza, ci saranno almeno altrettanti esponenti del centro-destra e un ceno numero di parlamentari del centro-sinistra, tra i tanti che si autocertificano come garantisti, che vorranno dire qualcosa? Oppure Cesare Battisti è troppo brutto, sporco e cattivo per sollecitare la nostra attenzione? Vengono in mente le parole di Friedrich Durrenmatt: “È antipatica e ciò equivale già a un sospetto, ma questo è un elemento soggettivo, signori miei, non criminologico: e non deve influenzare la nostra opinione”. (In La Promessa, Adelphi - Emons audiolibri, letto da Lino Musella). Giustizia: si complicano le riforme, tempi più lunghi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2021 Slitta l’arrivo in aula del processo penale. Avvocatura in rivolta e magistrati perplessi nel civile. Sull’ordinamento attesi gli emendamenti. I referendum di Salvini non aiutano. Tempi più lunghi, confronto complicato nella maggioranza, frizioni con avvocati e magistrati sulla riforma della giustizia, nelle sue principali declinazioni. Vediamo. La ministra Marta Cartabia ha innanzitutto istituito un metodo diverso e comune per gli interventi nelle tre aree chiave, civile, penale e ordinamento giudiziario. A monte è stata istituita, in ciascuna delle materie, una commissione di studio con il compito di preparare a valle proposte di emendamenti ai disegni di legge già incardinati in Parlamento. Le proposte tecniche, in ogni caso, prima del deposito davanti alle commissioni di Camera e Senato sarebbero state presentate ai capigruppo di maggioranza. Ora, nel penale, la commissione guidata dal presidente emerito della corte costituzionale Giorgio Lattanzi ha già da qualche settimana finito i suoi lavori, gli esiti sono noti e sono stati presentati alla maggioranza. Di lì in poi però poco si è saputo, gli emendamenti non sono stati formalizzati e neppure depositati. È in corso tuttora un confronto che ha visto già un incontro della ministra con una delegazione del Movimento 5 Stelle, nei prossimi giorni ne è previsto un altro (così ha annunciato il leader della Lega Matteo Salvini, peraltro attivamente in campo con un pacchetto di referendum che non aiuta certo la coesione) con Giulia Bongiorno. Di fatto però quell’approdo in Aula che era già stato fissato per l’inizio della prossima settimana è slittato a data da precisare. Sul civile, da pochi giorni gli emendamenti, dopo una lunga sosta alla Ragioneria per la verifica sugli impegni di spesa soprattutto sul fronte della mediazione, sono stati depositari e si tratta certo dell’intervento nella fase più avanzata. Tuttavia l’avvocatura è in rivolta, con l’Unione delle camere civili che contesta le misure, soprattutto quelle sul rito, come pericolose per i diritti dei cittadini, e minaccia lo sciopero, e un congresso straordinario di tutta la categoria che si svolgerà a fine luglio; perplessi anche i magistrati, con l’Anm, sabato, a sottolineare come le modifiche processuali a poco serviranno se non si procedere a un ampio reclutamento di magistrati. E sull’ordinamento giudiziario la commissione guidata da Luciani ha concluso i suoi lavori, ma, anche in questo caso, gli emendamenti ancora non sono stati presentati. Intanto, il Consiglio superiore della magistratura prova a fare da sé e pochi giorni fa ha approvato una serie di modifiche al Testo unico sulla dirigenza. La commissione sulla disciplina della crisi d’impresa è stata prorogata sino alla fine di luglio, mentre quella sulla magistratura onoraria dovrebbe concludere i lavori tra pochi giorni. Al ministero della Giustizia si ricorda che la mole e la rilevanza degli interventi messi in cantiere è assoluta e che la ricerca di un confronto il più ampio possibile nel merito dei contenuti fa parte del programma dell’amministrazione; nello stesso tempo la consapevolezza della necessità della riforma, soprattutto in chiave di accesso ai fondi del Recovery Plan, dovrebbe fare compiere a tutti gli interlocutori uno scatto di responsabilità, ammainando magari bandiere anche identitarie nel nome di un passaggio di interesse comune. Giustizia, filo diretto Cartabia-Draghi sui rischi per il governo: “La soluzione è il dialogo” di Liana Milella La Repubblica, 22 giugno 2021 La Guardasigilli teme l’intransigenza del Movimento Cinque Stelle sulla prescrizione: “Una sintesi è necessaria”. A Marta Cartabia piace scalare le montagne. Piantare un chiodo dopo l’altro per raggiungere la vetta. Certo, e lei lo ammette, ci sono chiodi più difficili da piazzare rispetto ad altri. La metafora ci aiuta a capire il rapporto tra la Guardasigilli e il M5S. Che è anche la storia dell’attuale ministra e dell’ex ministro Alfonso Bonafede. E adesso che si avvicina il momento fatidico degli emendamenti sul processo penale, prescrizione compresa, un fatto è certo, Cartabia e Mario Draghi marciano in cordata per portare a casa le riforme “il più velocemente possibile”. Tant’è che il filo diretto tra palazzo Chigi e via Arenula è continuo. Come lo è la preoccupazione che sulla giustizia, dentro M5S, possa prevalere l’intransigenza. Magari guardando più al passato, ad altri bilanciamenti di governo, che non a quello attuale dove le sensibilità sono diverse e dove “una sintesi è necessaria”. Come dice Cartabia, citando la dea Atena nelle Eumenidi, un testo che le è caro, “anche nel nostro tempo le discussioni intorno alla giustizia avrebbero bisogno di più logos e più dia-logos, più ragionamento e riflessione, più comprensione profonda per le ragioni dell’altro, e meno istinto e reattività”. È un invito, certo non mascherato, a ragionare, piuttosto che ad aggredire. Un invito al M5S, dove le sensibilità sulla giustizia sono diverse, da dove giungono voci ostinate sulla prescrizione made in Bonafede, ma pure segnali di disponibilità a una trattativa che badi al risultato. Portare a casa i fondi del Recovery, e una giustizia che si sdogana dalla sua proverbiale lentezza. Questo vuole l’Europa, su questo, con Draghi, lavora Cartabia. Che certo, pur da ministro tecnico qual è, non ignora i tormenti in casa grillina. Anzi li segue con attenzione. Tanto li ha presenti che con Bonafede si è mossa da signora. Un incontro con lui poche ore dopo essersi insediata. Aver mantenuto come capo di gabinetto Raffaele Piccirillo. Utilizzare i disegni di legge del suo predecessore come testo base per tutte e tre le riforme della giustizia un gesto che Bonafede ha apprezzato. Cartabia lo ha fatto mentre, in Parlamento, c’era chi spingeva per utilizzare testi base differenti. E poi un incontro nel merito con il M5S, quando dal lavoro della commissione Lattanzi era già emerso che la prescrizione non sarebbe potuta rimanere né quella di Bonafede, né tantomeno quella del lodo Conte bis. Ipotesi su cui lo stesso Pd, che l’aveva sottoscritta col governo giallorosso, ha preso le distanze proponendo soluzione alternative. La formula di Cartabia sulla prescrizione non è ancora sul tavolo. Quindi, logica vorrebbe che non si alzassero in anticipo dei muretti. Né tantomeno muoversi ipotizzando future barricate su quello che ancora non c’è. Certo è che alla Guardasigilli non possono sfuggire le dinamiche di M5S sulla giustizia. Conte e Bonafede da una parte, ma anche Luigi Di Maio e le sue parole sul caso Uggetti dall’altra. Nonché l’apprezzamento per lei quando ha incontrato Gianni Forti, lo zio di Chico, in carcere dal 2000 negli Stati Uniti, condannato all’ergastolo per omicidio, sul quale Cartabia ha promesso il suo impegno “per riportarlo a casa”. E d’altra parte, non erano parole di guerra neppure quelle dell’intervista di Bonafede a La Stampa in cui, l’8 giugno, le dà atto cortesemente di aver portato avanti il suo piano sul personale, per aumentare il numero di magistrati e cancellieri. Certo poi c’è anche la nettezza di un Patuanelli quando dice che l’intesa raggiunta sulla prescrizione nel precedente governo “è l’unico punto di caduta possibile”. E il perimetro di Giuseppe Conte. Cartabia sta seguendo un percorso ragionato per portare a casa le riforme. Quella sul civile è già al Senato con un tesoretto milionario per la mediazione. I gruppi di lavoro Lattanzi e Luciani porteranno ai suoi emendamenti. Ma ecco gli incontri bilaterali gestiti nella massima riservatezza, proprio a cominciare da M5S. Poi Enrico Letta. A breve arriverà la Bongiorno. E Carlo Calenda con Enrico Costa. Con FI il dialogo passa per il sottosegretario Sisto. La costruzione di un puzzle difficile certo, ma in cui per Cartabia conta il dialogo. Anche quello con M5S sulla formula più giusta per andare avanti anche sulla prescrizione. Giustizia, il M5S fa muro sulla riforma: “La prescrizione non si tocca” di Annalisa Cuzzocrea La Repubblica, 22 giugno 2021 La linea grillina è di difendere a oltranza la riforma Bonafede. Unica possibile concessione: lo sblocco dei termini per gli assolti in primo grado. La questione è abbastanza semplice e potrebbe diventare uno dei punti di frizione più complicati per il governo guidato da Mario Draghi. Per il Movimento 5 stelle, nessuna riforma della Giustizia è accettabile se si mette mano alla prescrizione al di là di quanto già deciso con il Partito democratico ai tempi del governo giallo-rosso. E quindi, il massimo a cui il partito di Giuseppe Conte può arrivare sarebbe l’equivalente di quel lodo Conte bis, dal nome dell’avvocato Federico Conte, deputato di Leu, secondo cui per gli assolti in primo grado la prescrizione continua a correre; per i condannati, si ferma dopo il primo grado di giudizio. E si blocca per sempre davanti a una condanna in appello, mentre in caso di assoluzione nel secondo grado di giudizio si possono recuperare i tempi di prescrizione persi. Massimo dialogo, massimo ascolto, hanno detto i 5 stelle alla ministra Marta Cartabia nell’incontro della loro delegazione sulla riforma, tre settimane fa. Ma c’è una frase che Giuseppe Conte ripete a ogni incontro e ha detto anche nelle sue recenti uscite televisive: “Quel che per noi non può essere assolutamente consentito sono i casi di denegata giustizia. I cittadini, il sistema giustizia, lo Stato ha diritto all’eccertamento della verità dei fatti”. Il punto è che da quella mediazione è ormai tornato indietro anche il Pd. E che adesso c’è una maggioranza molto più larga di cui la Guardasigilli deve tenere conto. Avere un paletto così stringente, non è semplice. Anche perché - dice un esponente di governo - “la posizione di questo esecutivo non può certo essere quella di Bonafede”. Il punto è fino a dove i 5 stelle sono pronti a spingersi, per difendere l’operato dei loro due precedenti governi. E quanto la prescrizione possa diventare il casus belli di un malumore ben più ampio, rispetto alle scelte del governo Draghi e alla necessità di ridefinirsi recuperando anche l’ala più barricadiera che ancora guarda con nostalgia ad Alessandro Di Battista. Non è un caso che la lettera di scuse di Luigi Di Maio sul caso Uggetti, l’ex sindaco del Pd assolto a Lodi dopo anni di gogna M5S, abbia suscitato moltissimi malumori interni e abbia costretto Conte a fare due dichiarazioni contraddittorie a distanza di poche ore. Il tema giustizia è, caduto ormai quello delle grandi opere, forse l’ultimo davvero identitario del Movimento. Se il ministro degli Esteri ha scoperto sfumature e garantismo, non è detto che questo valga per i suoi compagni di viaggio. E infatti, tanto Stefano Patuanelli che naturalmente Alfonso Bonafede sono schierati sulla linea dell’ortodossia. Molto dipende da quel che deciderà di fare l’ex premier una volta prese le redini del Movimento (ammesso ci riesca viste le complicazioni di queste ore). Le voci di un Conte che vorrebbe la fine della legislatura prima della sua scadenza naturale, si inseguono da giorni. Di tutti i temi possibili su cui fare battaglie ultimative, la giustizia è certo il più appetitoso. Le toghe in campo contro i referendum. Ed è subito bagarre di Simona Musco Il Dubbio, 22 giugno 2021 Il sindacato delle toghe chiama a una “ferma reazione” contro i quesiti proposti da Lega e Radicali. Che invece chiamano in causa il Colle. “Al di là del merito dei singoli quesiti, credo che si colga agevolmente un dato, in contrasto con quanto dichiarato dai proponenti, almeno da quelli che sono espressione di Forze politiche che compongono la maggioranza di Governo. Il fatto stesso che si porti avanti il tema referendario sembra esprimere un giudizio di sostanziale inadeguatezza dell’impianto riformatore messo su dal Governo; e fa intendere la volontà di chiamare il popolo ad una valutazione di gradimento della magistratura, quasi a voler formalizzare e cristallizzare i risultati dei vari sondaggi di opinione che danno in discesa l’apprezzamento della magistratura”. Sono parole dure quelle del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, che all’ultimo comitato direttivo centrale “stronca” il referendum puntando il dito contro i partiti che lo hanno promosso. Per il magistrato, infatti, uno degli effetti possibili è quello di mettere in ombra gli interventi di riforma, studiati in maniera scientifica “per saggiarne il rapporto di compatibilità costituzionale e non cancellare, in nome dell’idea che il sistema non sia redimibile, un assetto di regole costruito intorno ad alcuni principi che non dovrebbero mutare”. Da qui la ferma reazione dell’Anm, in difesa del metodo riformatore, che pure non rappresenta il capitolo “centrale” sull’ardua strada che porta ad un recupero della fiducia nella magistratura da parte dei cittadini. “Molto è nelle nostre mani”, ha evidenziato Santalucia, che ha invitato i colleghi alla sobrietà, alla serietà, l’equilibrio e la responsabilità. “Sappiamo quanto sia importante che i magistrati siano anche soltanto percepiti con questa lente, oggettivamente rassicurante, e non ci sfugge la forza deformante di un cattivo approccio con i mezzi di comunicazione, Stampa e Tv - questa la stoccata ai colleghi. La sobrietà ragionata ed informata, nei casi in cui è necessario parlare, serve a consolidare una percezione di affidabilità non solo dei singoli ma dell’intera magistratura. Recenti e meno recenti episodi di cronaca hanno invece segnato la direzione contraria. Occorre dunque tenere alta l’attenzione sull’importanza della cautela e della compostezza comunicativa, specie in questi tempi in cui ogni errore rischia di essere amplificato e reso funzionale ad un canovaccio guidato dall’idea di fondo di una magistratura in irrimediabile crisi”. Nel documento finale approvato dall’Anm, pur riconoscendo il “legittimo esercizio di una prerogativa costituzionale” quale l’opzione referendaria, le toghe hanno ribadito la propria contrarietà, esperimento “forte preoccupazione per le modifiche in tema di responsabilità civile diretta dei magistrati e di separazione delle carriere, che rischiano di condurre a una magistratura meno indipendente e a un pubblico ministero sganciato dalla giurisdizione e privato dei compiti di garanzia che l’ordinamento gli riserva. Analoga preoccupazione desta il quesito sul delicato tema della custodia cautelare, presidio avanzato di tutela della sicurezza collettiva. Occorre essere consapevoli che l’eventuale approvazione dei quesiti referendari potrebbe comportare gravi ripercussioni sull’assetto costituzionale e sulle guarentigie di autonomia e indipendenza della magistratura, le quali costituiscono non privilegi di categoria ma garanzie irrinunciabili per tutti i cittadini”, conclude il documento. Ma le parole di Santalucia hanno fatto infuriare le Camere penali. Che attraverso il presidente dell’Unione, Gian Domenico Caiazza, vengono definite “sorprendenti” e prova dello “stato confusionale” in cui si trova la magistratura italiana. “Trovo veramente stupefacenti - ha spiegato Caiazza all’Agi - le parole del presidente Santalucia, che confermano l’enorme difficoltà della magistratura associata di comprendere la profondità della crisi che la riguarda”. A suo giudizio, “sono parole gravi perché il referendum è uno strumento costituzionale, pensato proprio per consultare la volontà popolare”. Per questo motivo, “immaginare che l’associazione nazionale della magistratura critichi una consultazione popolare ha dell’incredibile”. Fermo restando il diritto dell’Anm ad intervenire nel dibattito sui quesiti referendari, ciò che contesta Caiazza sono i “toni così minacciosi”. Parole gravi, sulle quali invita le toghe a riflettere, chiamandole al confronto “sui quesiti. Quando si fa un referendum, non si può mettere in discussione la natura stessa dello strumento che è una forma di manifestazione democratica diretta”. Dura anche la reazione di Lega e Partito Radicale. “Parole gravissime - ha commentato Matteo Salvini. Non si può aver paura dei referendum, massima espressione di democrazia e libertà, e di confrontarsi con il giudizio e la volontà popolare”. Che poi ha aggiunto: “Mi spiace di aver letto certi toni da chi dovrebbe essere al di sopra delle parti, suona come una minaccia, spero che chi di dovere intervenga. Se presidente del sindacato dei magistrati minaccia una reazione forte, io chiedo il rispetto della Costituzione: la sovranità appartiene al popolo non alla casta”.Parla di gravissimo attacco anche il segretario dei Radicali, Maurizio Turco, che ha chiesto un intervento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. “C’è il tentativo da parte della magistratura delle correnti di mettere a tacere i cittadini, noi con i referendum vogliamo fare votare i cittadini”. D’accordo con Santalucia, invece, Mario Perantoni, presidente della Commissione Giustizia della Camera e deputato M5S. “Noi ci stiamo impegnando per un rinnovamento che possa rendere il sistema più efficiente e al servizio dei cittadini. Questa è la nostra priorità, insieme alla salvaguardia dei principi di autonomia e indipendenza dei magistrati”, ha evidenziato. E dopo le accuse, Santalucia ha chiarito che quelle dell’Anm non sono minacce. “Di solito la funzione del referendum è fare da pungolo quando un governo è distratto. Ma ora non è così. Il motivo è un altro - ha spiegato al Corriere della Sera -. In questo momento di crisi della magistratura, che non neghiamo, avere un voto popolare significa cristallizzare questa situazione”, “bollarla e incatenarla alla crisi”. Anm, referendum sulla giustizia e paura del giudizio del popolo di Mauro Anetrini L’Opinione, 22 giugno 2021 Chiariamo una cosa, una volta per tutte. Un conto è offendere un magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, o per i provvedimenti assunti. Questo non è consentito e non si deve fare. È ammissibile la critica, ma non c’è spazio per lo scontro a colpi di contumelie. Altro e diverso discorso è aprire un conflitto duro, aspro, connotato se del caso anche da espressioni irriverenti con una organizzazione sindacale, la quale - surrettiziamente trincerandosi dietro l’intangibilità della toga - ritiene di avere il diritto di predicare, moralizzare, intimidire neppure troppo allusivamente. I giudici non parlano per bocca dell’Anm (Associazione nazionale magistrati), ma con le sentenze. La promessa di ferma reazione di Anm vale esattamente quanto la minaccia di sciopero generale della Cgil. È un atto politico. Ma è un inganno, perché vuole fare credere ai cittadini che viene da Giudici, mentre viene da membri di una associazione privata che approfittano del fatto di essere magistrati. A loro dico - oggi - quello che dissi anni fa, alla Corte d’appello di Milano, difendendo un politico (ancora oggi parlamentare) accusato di avere diffamato uno di loro per la sua attività politica: se state al di là dello scranno, avrete sempre il mio rispetto; se venite al di qua, preparatevi a subire quello che vale per chiunque decida di fare politica. Non finisce qui. In verità, non può finire qui e così, con una polemica inutile, destinata a spegnersi al calar del sole, bruciata come si bruciano le notizie nel mondo in cui tutti hanno diritto ad un quarto d’ora di notorietà (compensato da un oblio senza fine). Non può finire qui, perché la promessa di ferma reazione ad un referendum che potrebbe indurre il popolo sovrano ad esprimere un giudizio sull’operato dei magistrati non è riducibile allo scomposto disappunto di pseudo-sindacalisti d’antan, ma rappresenta una presa di posizione sulla quale discutere. Non fate i furbi, voi di Anm. Il popolo non giudicherà in merito alla qualità delle decisioni prese nelle Aule di Giustizia, ma di come vi comportate, avendo ben presente ciò che ha letto nelle intercettazioni di Luca Palamara, ciò che ha appreso sulla vicenda Eni, del modo di assegnare (spartire?) gli incarichi direttivi e via così. Nessuno mette e metterà mai in discussione l’indipendenza dei magistrati e nessuno chiederà la gogna mediatica. Prova ne sia il fatto che la maggior parte dei magistrati italiani dorme sonni tranquilli e non si sente assediata. Piuttosto, vorremmo parlare del principio di responsabilità (universalmente accettato, ma per voi manco preso in esame), dei criteri di reclutamento e progressione in carriera, della gestione degli uffici; di un sacco di cose, insomma. Alcuni magistrati hanno usato (impunemente e impudentemente) i media per screditare politica, impresa, cittadini, sfruttando il ruolo che rivestono. Adesso avete paura del giudizio del popolo espresso con un referendum? Chiedetevi perché siamo arrivati a questo. Lo ripeto: non fate i furbi. Non tutti ci cascano. Cominciate a fare un serio esame di coscienza e a chiedere scusa alle migliaia di vostri colleghi che ogni giorno lavorano seriamente, senza speranza di fare carriera. Il Tar del Lazio nega il diritto alle fonti di Sergio Menicucci L’Opinione, 22 giugno 2021 Obbligare i giornalisti, per sentenza, a rivelare le fonti delle notizie che pubblica significa uccidere il giornalismo d’inchiesta e proibire di svolgere quel servizio pubblico inerente all’attività d’informare i cittadini e di garantire a tutti il mantenimento della democrazia e del pluralismo. “La libertà - ha lasciato scritto Piero Calamandrei, uno dei padri della Carta costituzionale - è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”. Il caso delle fonti è tornato di attualità in seguito di una sentenza del Tar del Lazio a seguito del servizio del giornalista Giorgio Mottola della trasmissione della Rai “Report” diretta da Sigfrido Ranucci. L’inchiesta riguardava gli appalti pubblici in Lombardia e l’avvocato Andrea Mascetti, che era stato chiamato in causa, si era rivolto al Tribunale amministrativo per avere accesso agli atti effettivamente utilizzati per l’inchiesta e detenuti dalla redazione. Una sentenza che mette in discussione la segretezza delle fonti giornalistiche e quindi la libertà di stampa. In più c’è l’anomalia di aver fatto ricorso ad un paragone improprio: considerare l’informazione dell’azienda di Stato alla stregua di atti della Pubblica amministrazione. Ecco quindi l’intervento del Tar. Nessuno è “legibus solutus” hanno lasciato come eredità giuridica Ulpiano e Cicerone, tra i massimi giureconsulti dell’antichità. I reati se ci sono vanno accertati e puniti. Ma nel rispetto dei principi fondamentali della Carta costituzionale che ha sancito alcuni principi base, che vanno dalla difesa e sviluppo della dignità dell’uomo alla rimozione dei limiti in fatto di libertà e uguaglianza dei cittadini. Nella prima parte, riguardante i diritti e i doveri dei cittadini, c’è il fondamentale articolo 21 per cui “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure. Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dall’autorità giudiziaria nel caso di delitti per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi”. Rientra in questa sfera la sentenza del Tribunale amministrativo che vuole consentire al legale l’accesso alle fonti del giornalista? I reati di stampa o a mezzo stampa sono ben individuati anche dal Codice penale anche se a differenza degli avvocati, medici, farmacisti, notai, preti non include i giornalisti nell’elenco esentati dall’obbligo di deporre in giudizio sui fatti conosciuti in ragione della loro professione. C’è però una questione di etica professionale, che vieta ai professionisti di diffondere notizie acquisite nel rapporto fiduciario. Per i giornalisti la difesa del diritto al segreto professionale relativo alle fonti d’informazione è sancita dall’articolo 2 della legge sull’ordinamento della professione giornalistica (3 febbraio 1963 numero 69 promossa dal Guardasigilli, Guido Gonella). Il problema deriva, come nel caso del carcere ai giornalisti condannati per diffamazione di cui si stanno occupando la Corte costituzionale, dalla propensione di alcuni magistrati, in particolare della giustizia inquirente, di dettare norme restrittive alla libertà d’indagine. Se prevalesse questa tendenza non ci sarebbe stato il Watergate con la messa sotto accusa del presidente degli Stati Uniti d’America, le inchieste dei vari Premi Pulitzer e film come Tutti gli uomini del presidente, Jfk-un caso ancora aperto, Il caso Spotligtht dopo il Premio Pulitzer sull’inchiesta riguardante casi di pedofilia coperti o The Post di Steven Spielberg sulla pubblicazione dei Pentagon Papers. Niente reato per la patente straniera falsificata se non è titolo che abilita alla guida in Italia di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2021 La Cassazione scegliendo tra due orientamenti risolve un conflitto di giurisprudenza sulla nozione di “falso innocuo”. Lo straniero che falsifica la patente del proprio Paese di provenienza commette il reato di falso se questa in linea di principio abilita alla guida in Italia o è riconosciuta come valido documento d’identità. Il valore di autorizzazione amministrativa o di certificazione anagrafica dà quindi rilievo al falso determinando con la sua spendita la commissione dell’illecito penale. Va sottolineato che la validità della patente di guida rilasciata da uno Stato estero extra Ue sussiste solo se tra questo e l’Italia sono intercorse intese bilaterali di reciproco riconoscimento. Quindi in assenza di tali requisiti di autorizzazione o certificazione amministrativa, secondo il ricorso accolto, non scattano i reati ex articoli 477 e 482 del Codice penale per il falso “non grossolano” del documento straniero. La Corte di cassazione aderisce - con la sentenza n. 24227/2021 - a tale impostazione difensiva del ricorso e nel farlo di fatto riconosce validità a uno degli orientamenti opposti espressi all’interno della medesima sezione sui presupposti fattuali in base a cui è ravvisabile il carattere innocuo, cioè penalmente irrilevante, di un falso non grossolano. Il ricorso contestava la condanna - a norma degli articoli 477 e 482 Cp - comminata per falso materiale in certificazioni e autorizzazioni amministrative commesse da privato: perché il reato non può sussistere se il documento falsificato - anche fosse genuino - non ha il valore di autorizzare o certificare alcunché. L’offensività invece, secondo l’orientamento scartato dalla sentenza di legittimità in esame, è legata all’idoneità del falso non grossolano a ingannare comunque la fede pubblica e l’affidamento dei terzi. Cioè non basta che il documento di guida è privo in sé delle condizioni di validità sul territorio italiano. Proprio il ragionamento opposto cui aderisce la sentenza che ha accolto il ricorso dello straniero falsificatore. Napoli. Carcere di Poggioreale, dal governo ok al via il restyling di cinque padiglioni di Viviana Lanza Il Riformista, 22 giugno 2021 Poco più di mille giorni per cambiare il carcere di Poggioreale, non in tutte le sue parti ma almeno in cinque padiglioni, i più antichi dell’istituto, e con l’obiettivo di rendere più dignitosi i luoghi della reclusione. Il Ministero delle Infrastrutture ha dato il via alla gara per procedere ai lavori di restyling del grande carcere cittadino. Per il Garante regionale Samuele Ciambriello, che per oltre un anno ha sollecitato lo sblocco dei finanziamenti stanziati da anni per rimettere a nuovo una parte dell’antica struttura penitenziaria, si tratta di una buona notizia: “Finalmente spazi rispondenti ai dettati costituzionali e ai pronunciamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo”. I lavori riguarderanno interventi di adeguamento dei padiglioni Salerno, Napoli, Venezia e Italia, e di completamento del padiglione Genova. Il cantiere avrà una durata di 1.104 giorni e le offerte dovranno giungere entro il 19 luglio. Per i lavori sono stati messi in conto 13 milioni di euro (13.103.027 per l’esattezza). “Finalmente qualità e dignità della pena attraverso gli spazi detentivi - commenta Ciambriello - ma resto basito per la decisione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di non aver coinvolto i padiglioni fatiscenti Milano e Roma nella selezione per la ristrutturazione e l’adeguamento del carcere di Poggioreale - aggiunge - Spero che nel piano carceri l’amministrazione penitenziaria trovi i finanziamenti per questi due padiglioni”. Il progetto mira a garantire il rispetto delle indicazioni provenienti sia dai recenti pronunciamenti della Corte europea dei diritti dell’uomo sia provenienti dagli uffici dei Garanti e ai vari livelli dalle associazioni impegnate nel settore. Gli interventi di ristrutturazione e ammodernamento dovranno consentire la disponibilità, all’interno di ciascun padiglione, degli spazi minimi utili per ogni cella e la realizzazione di camere detentive per detenuti disabili. Secondo il progetto illustrato dal garante regionale, inoltre, si prevede che in tutte le camere detentive ci dovrà essere uno spazio a parte per i servizi igienici, con vaso bidet e doccia, nel pieno rispetto dei criteri igienici e di privacy che servono a rendere dignitosa e umana la vita di chi è detenuto. Inoltre, tutti i locali dedicati a spazi per attività comuni saranno dotati di servizi igienici posizionati nelle immediate adiacenze. In più, per ogni padiglione a ogni piano, fatta eccezione per il piano rialzato, sarà previsto un locale per il servizio di barbiere/parrucchiere, mentre due porzioni dei piani rialzati saranno adibite a cucina attrezzata e dotata di tutto ciò che serve per consentire la preparazione dei pasti per 200 persone. C’è tutto questo nel progetto di restyling del carcere di Poggioreale, il più grande di Italia. Basti pensare che un singolo padiglione di Poggioreale ha quasi lo stesso numero di detenuti di un carcere di provincia, ospitando in media dai 250 ai 380 reclusi. L’operazione di ristrutturazione dei quattro tra i più grandi e antichi padiglioni del carcere di Poggioreale, più il completamento di un quinto padiglione, sono un intervento destinato a incidere sulla vita in cella di moltissimi detenuti di Poggioreale. E più volte Ciambriello, sollecitando il via alle procedure per i lavori e segnalando i ritardi con cui si è proceduto allo sblocco dei finanziamenti, ha ribadito come non si tratti di offrire privilegi ai detenuti ma condizioni minime e più dignitose di abitabilità. Pistoia. Non c’è ancora il nuovo Garante dei detenuti Il Tirreno, 22 giugno 2021 La Consigliera regionale Fratoni punta il dito: “Ruolo delicato ed estremamente importante. Comune di Pistoia in colpevole ritardo, ora faccia presto”. A Pistoia non è ancora stato nominato il nuovo garante dei detenuti. A denunciare il grave ritardo da parte del Comune è la consigliera regionale del Pd Federica Fratoni, all’indomani della seduta del consiglio regionale della Toscana che ha approvato la proposta di risoluzione che esprime apprezzamento per i risultati conseguiti dal Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. “Non può che essere condivisibile il richiamo e la sollecitazione rivolta ai Comuni da parte del garante regionale per la copertura di questo ruolo delicato ed estremamente importante - spiega Fratoni - Pistoia è in grave ritardo: solo recentemente, e grazie in particolar modo agli appelli dei gruppi consiliari di opposizione, ha modificato il regolamento, ma adesso mi auguro che si proceda speditamente verso la sua nomina”. Dal momento dello scoppio della pandemia, si sono vissuti quindici mesi davvero molto problematici all’interno delle carceri toscane e, ovviamente, anche a Pistoia perché sono stati compromessi i percorsi di riabilitazione attraverso la limitazione degli ingressi esterni, utili per portare avanti progetti di supporto da sempre realizzati con il fondamentale sostegno del mondo del volontariato. Il dossier ha posto in evidenza anche gli ultimi dati aggiornati sulla situazione della struttura di via dei Macelli a Pistoia: al 31 dicembre erano presenti 74 detenuti, e di questi 44 stranieri, su una capienza complessiva a regime di 56 persone e, nel corso dell’anno passato, si sono registrati anche ben 35 atti di autolesionismo. Sempre nel report dello scorso marzo si segnala che a Pistoia, oltre al garante, mancano purtroppo anche gli educatori: quelli regolamentari sarebbero due, al momento entrambi assenti (uno in malattia, l’altro in congedo ex legge104). Verona. La storia di Don Carlo, il primo prete Garante dei diritti dei detenuti dire.it, 22 giugno 2021 Un prete come Garante dei diritti dei detenuti. Questa è la novità introdotta dal Comune di Verona dopo che la garante precedente, Margherita Forestan, si è vista costretta a rassegnare le proprie dimissioni dall’incarico per motivi di salute. A lei è subentrata, circa una settimana fa, Don Carlo Vinco, parroco della chiesa di San Luca. “Vengo da una storia di rapporti con i carcerati- racconta Don Carlo alla ‘Dirè- che è indipendente dal mio essere prete. Sono legami che ho coltivato come amico, conoscente, sostegno”. Il Garante è una figura istituita nel 2009 e pensata per essere autonoma dalle istituzioni, ha il compito di promuovere e difendere i diritti dei detenuti e soprattutto di impegnarsi per permettere loro di vivere il carcere come pena rieducativa, che possa reintrodurli nella società, e non semplicemente come mera punizione. “C’è molta strada da fare - afferma Don Carlo - e anzi, forse negli ultimi anni si è anche tornati indietro. È proprio quello che mi ha chiesto la direttrice del carcere di Montorio (Maria Grazia Felicita Bregoli, ndr): riattivare progetti esistenti e coltivare il rapporto col territorio, punto fondamentale visto anche che tante persone in carcere non sono veronesi”. Ed è proprio in questo lavoro di creazioni di legami che la figura di un prete-garante può giocare un ruolo inedito, mobilitando parrocchie e associazioni cattoliche così da creare una vera rete d’aiuto per i detenuti ed incentivare anche il dialogo religioso. La figura del Garante, soprattutto in un momento come questo, ha diverse criticità da affrontare, dalla ripresa dei progetti che coinvolgono i detenuti, che durante la pandemia si sono in gran parte fermati, fino alla difesa dei diritti alla cura e alla salute dei carcerati, spesso messi a repentaglio dal sovraffollamento degli istituti penitenziari e dalla difficoltà di ottenere trattamenti adeguati in caso di forme acute di Covid-19. Per questo Don Carlo accetta con orgoglio la carica fino alla fine del naturale mandato, che coincide con le elezioni amministrative dell’anno prossimo. Poi, spiega il parroco, “dovrò valutare se ripropormi. Vedrò se davvero riesco a dedicare tutto il tempo necessario a questa carica, che faccio su base volontaria ma per la quale avrò anche un ufficio in Comune”. Roma. Papa Francesco incontra un gruppo di detenuti: “Grazie, ci dai speranza” di Giampaolo Mattei vaticannews.va, 22 giugno 2021 Alcuni ospiti della terza casa circondariale di Rebibbia sono stati ricevuti a Santa Marta assieme alla direttrice, a due donne magistrato e altri funzionari. Poi la visita ai Musei Vaticani, accolti dalla direttrice Barbara Jatta. Il cappellano: grati al Papa per la vicinanza e la sua preghiera a sostegno della dignità di chi vive in carcere. Hanno portato un cesto di pane fresco al Papa, a Casa Santa Marta, stamani alle 8.45, dodici detenuti della terza casa circondariale di Rebibbia che hanno poi visitato i Musei Vaticani. Quel pane lo hanno preparato stanotte, con le loro mani, proprio per dire “grazie” a Francesco “per il dono della speranza che sta offrendo a noi detenuti”. E, in un clima di famiglia, il Papa ha confidato loro proprio la sua attenzione alle persone che vivono l’esperienza della reclusione, ricordando le visite nelle prigioni già in Argentina, e assicurando la sua preghiera anche per i loro familiari. “Oggi tutta la comunità del carcere, con il Papa, ha vissuto un’esperienza importantissima”: non nasconde l’emozione padre Moreno M. Versolato, religioso dei servi di Maria, cappellano nel più piccolo dei quattro poli del carcere romano. Sì, padre Moreno parla di “comunità” perché - insiste - “oggi qui, in Vaticano, siamo venuti insieme: dodici detenuti, la direttrice della terza casa circondariale di Rebibbia, Anna Maria Trapazzo, tre educatrici, agenti di polizia penitenziaria e due donne magistrato di sorveglianza”. Proprio la presenza dei due giudici Anna Vari e Paola Cappelli - fa notare il cappellano - ha un forte significato: “Sono loro a valutare e a firmare i permessi nei percorsi di reinserimento sociale, attraverso le misure alternative di semilibertà, ed è straordinario che oggi qui vivano, direttamente insieme ai detenuti, un’esperienza di bellezza che è “scuola di vita” per tutti”. Già, spiega con passione padre Moreno, “questi giovani sono cresciuti nelle periferie degradate o magari vengono da paesi lontani... insomma, hanno avuto, fin da piccoli, un’altra “scuola”. Al cappellano fa eco la direttrice dei “Musei del Papa”, Barbara Jatta, che ha accolto con un cordiale “benvenuto” gli “ambasciatori” di Rebibbia: “Queste gallerie sono la casa di tutti, qui ognuno, con la propria sensibilità, può cogliere “qualcosa” che vale per la sua vita e la può rendere migliore. Oggi con grande gioia i Musei Vaticani - dice la direttrice - si presentano e si propongono ai detenuti e a coloro che li accompagnano come ispirazione alla bellezza che tocca l’anima nel profondo”. La visita ai Musei ha ancor più significato, riprende padre Moreno, “perché in questo periodo di pandemia i detenuti hanno sofferto moltissimo l’isolamento e l’emarginazione per l’impossibilità di abbracciare i propri cari”. Sono situazioni estreme, davvero “al limite” - racconta - ed è facile cedere alla tentazione di dar spazio a conflitti e rabbia. E il pensiero, aggiunge, va anche a tutto il personale di servizio. “Posso testimoniare, da cappellano, quando grande e sincero sia l’affetto delle persone detenute per Papa Francesco” rilancia il religioso. “Stamani lo abbiamo personalmente ringraziato, tutti insieme, per la vicinanza che ci dimostra continuamente e in occasioni diverse”. Il dono delle colombe a Pasqua, aggiunge, è stato per tutti una sorpresa. “Ma il grazie più grande - conclude il cappellano - è per la sua preghiera e per le sue richieste alle autorità politiche perché mutino sempre più le condizioni di detenzione soprattutto dove la dignità della persona è costantemente violata”. Al termine della mattinata in Vaticano la direttrice del carcere parla di un’esperienza di accoglienza e di speranza: “Il dono del pane per il Papa ha un valore enorme per noi: in pieno lockdown abbiamo avviato un laboratorio di panificazione e sette detenuti sono stati assunti da una ditta. Il pane fatto stanotte per Francesco è, dunque, un “grazie”. E anche il dono della “mattonella” con la croce, espressione del corso di mosaico, non è un gesto formale ma un segno di fede e di speranza”. Pozzuoli (Na). Associazione “Ad alta voce”, spettacolo musicale nel carcere femminile anteprima24.it, 22 giugno 2021 “Quando arrivi tra queste mura ti senti spaesata, stare qui non è affatto semplice. Ti ritrovi a vivere in una cella con 8 detenute dove spesso oltre ad avere del disagio per il mancato spazio devi resistere alle gerarchie che si vengono a creare quando c’è il “bulletto del villaggio”, con queste parole di una detenuta si apre lo spettacolo musicale nel carcere femminile di Pozzuoli, in cui si è tenuta la manifestazione musicale promossa dal Garante Campano delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello, realizzata dall’associazione culturale “Ad alta voce”, presieduta dal maestro Carlo Morelli. Quello in questione è un progetto caratterizzato da diversi incontri musicali e teatrali, che si conclude oggi nel carcere femminile di Pozzuoli. Per l’evento 9 detenute, preparate dal maestro Carlo Morelli, da Serena Matrullo e Luigi Nappi si sono esibite in brani del repertorio della classica canzone napoletana. In questa giornata della Musica, caratterizzata dal clima spensierato e da un senso di ritorno alla normalità, si è esibito in una performance canora anche Ciambriello intonando con le ristrette “Sapore di sale” regalando un sorriso al pubblico in platea. Il Garante Ciambriello ha dichiarato: “La Musica, il teatro, la cultura sono potenti antidoti per combattere mafie e diseguaglianze. L’anagramma di carcere è cercare, cercare un nuovo punto di partenza per costruire un futuro migliore”. L’Associazione culturale Ad alta voce da anni collabora con il Professore Ciambriello, promuovendo la Cultura della Bellezza nelle carceri, nella convinzione che le arti possano salvare le persone dall’abbruttimento e dal degrado delle periferie. “La politica dovrebbe essere il sinonimo di progetto, dando così la possibilità di dare luce, nella massima democrazia, ad una nuova vita. La musica è antidoto, è bellezza colorita che ha permesso a queste donne di avere un momento di spensieratezza. Ringrazio in primis Samuele che ha dato vita a questa iniziativa, ma soprattutto a queste donne che si sono impegnate per dare vita a questo spettacolo” queste le parole del maestro Morelli. A fine manifestazione è stato allestito nei giardinetti della casa circondariale un buffet offerto dalle detenute grazie all’impegno che stanno mettendo nell’imparare a fare le pizze con l’Associazione Generazione libera di Caserta. Orgogliosa dell’iniziativa anche la direttrice dell’Istituto, Marialuisa Palma: “Ringrazio Samuele, per l’impegno che mette ogni giorno nel realizzare progetti che possano rieducare queste donne ma soprattutto per dar voce ai loro diritti. In questa giornata abbiamo voluto omaggiare le donne e tutti i loro diritti”. Nel giardino a tal proposito è stata costruita una panchina rossa per ricordare le donne vittime di violenza e istallata un’opera che rappresenta un abbraccio dell’artista Teresa Cervo. All’incontro presente anche la Senatrice della commissione giustizia, Valeria Valente che ha dichiarato: “Nella vita tutti possono sbagliare. Nessuno deve essere punito, questa esperienza deve essere vissuta come rieducazione. Una rieducazione anche verso sé stesse, perché solo credendo in sé si può godere di una vera e propria libertà. Io intanto, lavorerò affinché, ogni donna possa avere pari opportunità. Perché solo in questo modo si può essere parte integrante di una società”. L’evento si è concluso con un lieto annuncio in diretta da parte del Garante Ciambriello ad una detenuta dopo essersi esibita: “Signora, lei è ufficialmente libera. Abbracci e libertà”. La Spezia. I rifiuti della Casa circondariale diventano un’opera d’arte cittadellaspezia.com, 22 giugno 2021 Quasi concluso il laboratorio “Il rifiuto non esiste”, che ha coinvolto sette detenuti spezzini in un progetto dell’associazione Colibrì realizzato con la Consulta femminile e il patrocinio del Ministero di Giustizia. sarà visibile nel terminal crociere. È “rifiuto” ciò che viene scartato, eliminato, l’avanzo, ciò che sfugge ai binari ordinari di riconoscimento, utilità, regolarità e finisce per essere allontanato, evitato, giudicato, emarginato. Eppure, etichette, confinamento, chiusure aprioristiche e condizionate da preconcetti culturali e sociali, miopi rispetto ad un ventaglio di situazioni vastissimo e molto complesso, rischiano di precludere percorsi virtuosi di rara ricchezza, sofferta trasformazione, presa di coscienza, reale pentimento e possibile riscatto. La funzione rieducativa della pena a questo deve ambire. È nato così il progetto “Il rifiuto non esiste”. Noemi Bruzzi racconta: “Era il settembre dello scorso anno. La fioritura del Maestro Cosimo Cimino chiudeva l’esperienza della prima edizione di “Corazon” ed in particolare la porzione di progetto avente per protagoniste le serrande cittadine. Un campo insolito per una primavera. Quella immaginata con Cimino riempiva una serranda di Via Gramsci, chiusa da anni. Un bouquet di lattine e tappi, petali, ridenti margherite, foglie e verdi steli d’erba, voli e pose di farfalle, composto con certosina pazienza e minuziosa artigianalità manuale, rubava centimetri al grigio urbano. Nel riflettere sulla capacità dell’artista di recuperare ciò che siamo soliti considerare scarto per farne opere d’arte, l’Associazione Colibrì pensò di portare questo messaggio all’interno di un contesto in cui avrebbe finito, almeno negli intenti ed auspici, per vederne amplificate le potenzialità: la realtà carceraria. Se il rifiuto non esiste per la materia, a maggior ragione non è concetto che possa adattarsi all’essere umano, o peggio, descriverlo. Alla base, la profonda convinzione che in ogni persona abiti una scintilla di luce, una potenzialità di evoluzione che necessita di essere nutrita, o, in alcuni casi, risvegliata, per produrre il suo miglior frutto, anche nelle situazioni più proibitive”. Potere catartico dell’arte, ma anche un giocoso percorso di squadra che, col fine di realizzare un’opera collettiva, attraverso l’utilizzo di lattine, bottoni, tappini a corona, tappi di sughero, coriandoli di carta, petali di rosa, carta di giornale, cartoncino, forbici e colla, desidera consegnare a ciascuno dei partecipanti la consapevolezza che anche nelle situazioni più difficili vi è spazio per la bellezza e che anche all’interno di percorsi che stigmatizzano condotte indubitabilmente gravi occorre trovare la forza ed il coraggio di pescare luce e riscatto dalla versione più buia di sé. L’idea è stata accolta con entusiasmo dalla Direzione della Casa Circondariale della Spezia e dal suo staff e portata avanti con la collaborazione della Dott.ssa Maria Cristina Failla, membro del direttivo di Colibrì, per poi aprirsi al contributo della Consulta Provinciale Femminile e alla adesione di altre realtà del territorio, quale la Casa delle Donne. Ad aiutarne la realizzazione le attività commerciali che hanno partecipato alla raccolta delle lattine, quali “Antico Caffè Terrilèe” e ‘Pizzeria Trattoria Bella Napoli’. Il laboratorio ha avuto il sostegno di Acam Ambiente, Rao & Sartelli, Euroguarco Spa, Rotary Club di Sarzana e Lerici, Autorità Portuale. Il progetto, oltre alla calorosa partecipazione della Direzione della Casa Circondariale della Spezia e del Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, ha ricevuto il patrocinio del Ministro della Giustizia e del Comune della Spezia. Parlando di questa iniziativa, Anna Rita Gentile, Direttrice, dice “La Casa Circondariale della Spezia ha aderito, con estremo entusiasmo, al progetto dedicato all’allestimento di un’opera artistica costruita con scarti di materiale di uso comune come: lattine, sugheri e pezzi di stoffa. I sette detenuti che hanno volontariamente intrapreso l’attività di laboratorio sono guidati dal maestro Cosimo Cimino che con la sua arte nobilita il concetto di scarto e con i suoi insegnamenti intorno alla materia veicola il gruppo di ristretti verso quell’ideale di risarcimento sociale che appare positivo sia per la comunità che per il loro difficile percorso personale. L’iniziativa, proposta dall’associazione di promozione sociale “Colibrì” e patrocinata dal Ministero della Giustizia, suggerisce un contenuto di inclusione che non può che essere condiviso da tutti noi e dal nostro Staff. Un doveroso ringraziamento a Maria Cristina Failla ex magistrato con grande sensibilità sociale e Noemi Bruzzi avvocato e presidente dell’associazione Colibrì”. Maria Cristina Failla, presidente della Consulta Femminile della Spezia dice: “Il progetto, approvato dalla Direzione della Casa Circondariale della Spezia, nasce dall’intenzione di intrecciare l’attenzione per la realtà carceraria a quella per l’ambiente, e si propone di incoraggiare le abilità artistiche dei detenuti favorendone l’integrazione, tramite il mondo dell’arte, per creare interessi di vita e lavorativi alternativi. Il laboratorio, seguito e diretto dall’artista spezzino Cosimo Cimino, impegna sette detenuti nella realizzazione di un’unica opera complessa, attraverso l’utilizzo di materiali di recupero (lattine, sughero, cartone, bottoni, carta riciclata, ecc., che rivivono e diventano parte dell’opera). L’opera, delle dimensioni di 4 metri per 2, rappresenterà il golfo della Spezia, con la costa di Porto Venere e delle Cinque Terre, e vedrà l’ingresso sullo specchio di mare delle navi da crociera e di quelle porta container, attesa la vocazione turistica e commerciale del nostro Porto, e raffigurerà altresì alcune barche a vela nonché, verso il mare aperto, le evoluzioni di alcuni delfini, per mettere in rilievo non solo la bellezza dei luoghi, ma anche il rispetto per l’ambiente e l’attenzione per le sue esigenze”. Il laboratorio, come colto dalla sensibilità dell’obiettivo di Rossana Zoppi e Francesco Tassara, ha per protagonisti la manualità eccellente, la continuità laboriosa, la creatività ed il sorriso di sette ragazzi che, nascosto dalle mascherine, spunta dagli occhi. Il senso di tutto sta dentro a due loro frasi: “Grazie di averci portato il mare e i monti in carcere”, “Grazie di questa bellissima giornata”. L’opera, che ormai volge al suo compimento, sarà presenta alla città il prossimo 4 luglio all’interno della manifestazione “Corazòn 2021” per poi essere trasferita nei saloni de La Spezia Cruises Terminal per la prossima stagione crocieristica, per essere infine collocata, definitivamente, all’interno della Casa Circondariale della Spezia. Autorità per la tutela dei diritti umani. La spinta di Cartabia di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 22 giugno 2021 La proposta di legge che istituisce l’Autorità dei diritti umani è ferma da mesi in commissione alla Camera. Cartabia: “È tempo di dare attuazione a quegli impegni internazionali assunti sin dal 1993”. Sono 28 anni che l’Italia aspetta una Autorità nazionale per la tutela dei diritti umani. “È tempo di dare attuazione a quegli impegni internazionali assunti sin dal 1993”, ha detto la ministra della Giustizia Marta Cartabia, aggiungendo: “Il nostro è uno dei cinque Paesi dell’Unione Europea - insieme a Malta, Romania, Estonia, Repubblica Ceca - che ancora non ha una National Human Right Institution, come ha segnalato ripetutamente anche il direttore dell’Agenzia dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, da ultimo nella relazione relativa al 2020”. La ministra è intervenuta ieri mattina alla presentazione alla Camera della Relazione annuale al Parlamento del Garante per i diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ed è alla figura del Garante che si è riferita per esortare il Parlamento a dar seguito a quei “Principi di Parigi” che dal 1993 aspettano di essere attuati in Italia. “Si deve affiancare al Garante un’autorità indipendente con simili competenze che coprano però tutto lo spettro della tutela dei diritti umani. Per questo ci sono iniziative legislative in Parlamento che potrebbero e dovrebbero riprendere il loro corso”. La proposta di legge che istituisce l’Autorità dei diritti umani è ferma da mesi in commissione alla Camera. “Adesso si può fare questa legge, prima della fine della legislatura c’è tutto il tempo”, ha detto il Garante Mauro Palma che nella relazione ha affrontato il problema del sovraffollamento delle carceri, tema ripreso dalla ministra Cartabia che ha anche annunciato: “Sono felice di poter anticipare che presto una circolare del Dap ufficializzerà la ripresa dei colloqui in presenza nelle carceri”. Ci sono troppi detenuti nei penitenziari italiani: “Tuttavia quest’anno parliamo di 53,4 mila detenuti contro i 61 mila dell’altro anno”, ha precisato Palma. Spiegando: “Sebbene il problema ci sia poiché lo spazio è per poco più di 47 mila detenuti”. Il Garante ha ribadito la necessità di creare strutture alternative al cercere: “Un terzo dei detenuti ha pene definitive inferiori ai tre anni, mentre 1.200 detenuti sono in carcere per pene inferiori a un anno, e sono per lo più persone senza fissa dimora”. Anche Daniela De Robert - nel collegio del Garante - è intervenuta sul problema delle strutture alternative: “Bisogna smettere di pensare al sovraffollamento come un problema di posti letto, sono spazi di vita”. Pure il Ministero ammette che c’è lo scandalo Rsa: è ora di chiuderle di Mario Giro Il Domani, 22 giugno 2021 Dopo aver esaminato quasi 250 studi scientifici che hanno valutato il livello di alimentazione di circa 110.000 anziani, i risultati dello studio del ministero della Salute sono inquietanti. Un grado di malnutrizione preoccupante concerne il 3-4 per cento degli anziani che vivono a casa loro ma si innalza fino al 70 per cento per quelli posti in strutture di lungodegenza e Rsa. Ora quindi è ufficiale: i dati del ministero confermano quello che molti testimoni denunciano da tempo e cioè che nelle Rsa si mangia male e poco si beve ancor meno e il risultato sono continui casi di disidratazione e malnutrizione. Le Rsa, le residenze sanitarie assistenziali per anziani, sono di nuovo nel mirino. Questa volta è un rapporto del ministero della Salute a mettere in rilievo l’aspetto nutrizionale degli anziani in Italia. Dopo aver esaminato quasi 250 studi scientifici che hanno valutato il livello di alimentazione di circa 110.000 anziani, i risultati sono inquietanti: un grado di malnutrizione preoccupante concerne il 3-4 per cento degli anziani che vivono a casa loro ma si innalza fino al 70 per cento per quelli posti in strutture di lungodegenza e Rsa. I dati del ministero confermano quello che molti testimoni denunciano da tempo e cioè che nelle Rsa si mangia male e poco, si beve ancor meno e il risultato sono continui casi di disidratazione e malnutrizione che indeboliscono gli anziani e li condannano ad essere più facilmente preda di gravi malattie. Certamente non è così dovunque, ma si tratta di un trend generalizzato e purtroppo assai esteso. Il rapporto del ministero (di un anno fa ma messo online ora) evidenzia la mancanza di una sorveglianza nutrizionale per gli anziani anche se la produzione scientifica su tema è considerevolmente aumentata negli ultimi trent’anni. Il testo del tavolo tecnico denuncia anche una scarsa attenzione dei media a tali fenomeni e una “carenza sistematica” di formazione del personale sanitario. La cosa più grave rimane il mancato recepimento delle linee di indirizzo per la ristorazione collettiva nelle lungodegenze, nelle strutture riabilitative e nelle Rsa”. Tra le firme del rapporto anche Francesco Landi, presidente della Società italiana di geriatria e gerontologia. Dalla strage di anziani di inizio pandemia -ancora occultata dai responsabili del settore- abbiamo posto su queste pagine in forte evidenza la questione anziani istituzionalizzati. Il dibattito che ne è scaturito ha preso di mira in particolare le Rsa come luoghi di abbandono e carenza di cure, dove oltretutto si da precedenza ai motivi finanziari (pudicamente chiamati di sostenibilità) rispetto alla cura degli anziani stessi. Ne è nata su queste pagine una campagna sulla chiusura delle Rsa e in favore dell’assistenza domiciliare diffusa sul territorio che ha trovato molto favore. Le reazioni contrarie sono state in realtà difensive, basate sull’impossibilità di cambiare l’attuale scenario: famiglie in difficoltà per carenza di risposte pubbliche; non autosufficienza degli anziani; difesa dei lavoratori delle Rsa. Si tratta di risposte rassegnate all’esistente. Nessuno che abbia a cuore gli anziani ha interesse a prendersela con chi lavora nelle strutture o con chi le gestisce: semplicemente vogliamo andare oltre l’attuale sistema. Pensiamo che l’istituzionalizzazione sia sempre la risposta sbagliata, salvo eccezioni. La carenza di risposta pubblica a cui le Rsa sopperiscono non può essere più accettata. Riteniamo che con il recovery plan si possa andare oltre: un vero programma di assistenza domiciliare sul territorio che superi il destino triste dell’istituzionalizzazione. In passato si è fatto per altre parti della popolazione come per l’infanzia o i malati psichici. Si faccia ora anche per gli anziani. Violenza sessuale e luoghi comuni di Dacia Maraini Corriere della Sera, 22 giugno 2021 Uno dei luoghi comuni è che se la donna torna alla vita normale, vuol dire che non è stata una violenza. Assurdo perché lo stupro non è una coltellata che lascia una ferita sanguinante. Qualche riflessione sullo stupro, visto che se ne parla molto e spesso adducendo luoghi comuni che tardano a scomparire. Uno di questi, il più diffuso è che lo stupro sia un atto di libidine. Cosa che la Storia smentisce. Lo stupro, che fra gli animali non esiste, è un atto di intimidazione e non ha niente a che vedere col piacere sessuale, ma piuttosto con il bisogno di offendere e umiliare i nemici. Infatti la violenza sessuale è una invenzione puramente guerresca. Tradizionalmente si uccidevano i nemici vinti e si stupravano le donne, primo per mostrare la propria forza, secondo per lasciare un segno sul corpo considerato proprietà del nemico. La vittoria più compiuta si aveva quando quel corpo invaso, dava la nascita a un figlio. Secondo luogo comune, purtroppo volgarmente ripetuto fino alla nausea dai violentatori per difendersi: lei era consenziente. Cosa che non direbbero di una rapina. Nessuno chiede a chi denuncia una estorsione se sia stato consenziente. Lo stupro è una rapina e nessuna donna può essere consenziente. Può non reagire, paralizzata dalla paura, o dalla droga, o dall’ubriachezza, ma non certo perché provi piacere. Utile esercizio: di fronte alla notizia di un ragazzino sodomizzato da 4 uomini, direste che sia stato consenziente? Di una ragazza purtroppo invece sì, perché, come dicevano i romani: “Vis cara puellae”, ovvero la forza piace alle fanciulle. Ma è un fantasia che serve solo a giustificare la sopraffazione... Altro luogo comune: se la donna torna alla vita normale, vuol dire che non è stata una violenza. Assurdo perché lo stupro non è una coltellata che lascia una ferita sanguinante. Chi infierisce sul sesso femminile, colpisce soprattutto il luogo sacro e potente della nascita. Per questo molte donne non denunciano. Oltre alla paura e alla vergogna, le violentate sono travolte da una umiliazione cocente che spesso distrugge la stima di sé. Per superare il trauma cercherà di nascondere anche a se stessa i danni che ha subito e proverà a seppellire nel silenzio quell’atto di guerra. Eppure non potrà evitare che la sua vita venga per sempre modificata. La brutalità del gesto, soprattutto quando non sarà riconosciuta come parte di una orribile prevaricazione, sarà vissuta come una colpa genetica: la terribile colpa di essere donna. Vaticano contro il ddl Zan: “Fermate la legge, viola il Concordato” di Giovanni Viafora Corriere della Sera, 22 giugno 2021 La richiesta formale al governo italiano attraverso il Segretario per i rapporti con gli Stati, monsignor Paul Richard Gallagher. L’atto consegnato il 17 giugno. Non era mai successo. Il Vaticano ha attivato i propri canali diplomatici per chiedere formalmente al governo italiano di modificare il “ddl Zan”, ovvero il disegno di legge contro l’omotransfobia. Secondo la Segreteria di Stato, la proposta ora all’esame della Commissione Giustizia del Senato (dopo una prima approvazione del testo alla Camera, lo scorso 4 novembre), violerebbe in “alcuni contenuti l’accordo di revisione del Concordato”. Si tratta di un atto senza precedenti nella storia del rapporto tra i due Stati - o almeno, senza precedenti pubblici - destinato a sollevare polemiche e interrogativi. Mai, infatti, la Chiesa era intervenuta nell’iter di approvazione di una legge italiana, esercitando le facoltà previste dai Patti Lateranensi (e dalle loro successive modificazioni, come in questo caso). La “nota verbale” - A muoversi è stato monsignor Paul Richard Gallagher, inglese, segretario per i Rapporti con gli Stati della Segreteria di Stato. In sostanza, il ministro degli Esteri di papa Francesco. Lo scorso 17 giugno l’alto prelato si è presentato all’ambasciata italiana presso la Santa Sede e ha consegnato nelle mani del primo consigliere una cosiddetta “nota verbale”, che, nel lessico della diplomazia, è una comunicazione formale preparata in terza persona e non firmata. Nel documento - pur redatto in modo “sobrio” e “in punta di diritto” - le preoccupazioni della Santa Sede: “Alcuni contenuti attuali della proposta legislativa in esame presso il Senato - recita il testo - riducono la libertà garantita alla Chiesa Cattolica dall’articolo 2, commi 1 e 3 dell’accordo di revisione del Concordato”. Un passaggio delicatissimo. I commi - Questi commi sono proprio quelli che, nella modificazione dell’accordo tra Italia e Santa Sede del 1984, da un lato assicurano alla Chiesa “libertà di organizzazione, di pubblico esercizio di culto, di esercizio del magistero e del ministero episcopale” (è il comma 1); e, dall’altro garantiscono “ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione” (il comma 2). E sono i veri nodi della questione. “Libertà a rischio” - Secondo il Vaticano, infatti, alcuni passaggi del ddl Zan non solo metterebbero in discussione la sopracitata “libertà di organizzazione” - sotto accusa ci sarebbe, per esempio, l’articolo 7 del disegno di legge, che non esenterebbe le scuole private dall’organizzare attività in occasione della costituenda Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia e la transfobia; ma addirittura attenterebbero, in senso più generale, alla “libertà di pensiero” della comunità dei cattolici. Nella nota si manifesta proprio una preoccupazione delle condotte discriminatorie, con il timore che l’approvazione della legge possa arrivare persino a comportare rischi di natura giudiziaria. “Chiediamo che siano accolte le nostre preoccupazioni”, è infatti la conclusione del documento consegnato al governo italiano. Cosa succede - Il giorno stesso, a quanto risulta al Corriere, la nota sarebbe stata consegnata dai consiglieri dell’ambasciata italiana presso la Santa Sede al Gabinetto del ministero degli Esteri di Luigi Di Maio e all’Ufficio relazioni con il Parlamento della Farnesina. E ora si attende che venga portata all’attenzione del premier Mario Draghi e del Parlamento. Ma cosa potrebbe succedere adesso? In teoria, stando al Concordato, potremmo essere davanti anche all’ipotesi in cui, di fronte ad un problema di corretta applicazione del Patto, si arrivi all’attivazione della cosiddetta “commissione paritetica” (prevista dall’articolo 14). Ma è presto per trarre conclusioni. L’unica cosa certa è che siamo oltre ad una semplice moral suasion. Il salto di qualità - Il punto, come detto, riguarda proprio il “livello” su cui la Santa Sede ha deciso, questa volta, di giocare la partita. Le critiche della Chiesa al “ddl Zan” non sono certo nuove. Sul tema la Cei è già intervenuta ufficialmente due volte: la prima nel giugno del 2020 (“Esistono già adeguati presidi con cui prevenire e reprimere ogni comportamento violento o persecutorio”, dissero all’epoca i vescovi); e la seconda non più tardi di un mese e mezzo fa (“Una legge che intende combattere la discriminazione non può e non deve perseguire l’obiettivo con l’intolleranza”, era stata la nota del presidente Gualtiero Bassetti). Per non parlare delle singole prese di posizione (“È un attacco teologico ai pilastri della dottrina cattolica”, ha affermato di recente, per esempio, il vescovo di Ventimiglia-Sanremo Antonio Suetta”). Ma si è sempre trattato di pur legittime prese di posizione “esterne”, “politiche”. Come le tante, dirette e indirette, cioè mediate dai partiti di riferimento, registrate negli anni (nel 2005 il cardinal Ruini arrivò a schierarsi pubblicamente a favore dell’astensionismo nel voto referendario sulla fecondazione assistita). Ma mai si era attivata la diplomazia. Mai lo Stato Vaticano era andato a bussare alla porta dello Stato Italiano chiedendo conto, direttamente, di una legge. Migranti, accordo con Merkel per un nuovo patto con la Turchia di Carlo Lania Il Manifesto, 22 giugno 2021 Draghi a Berlino in vista del vertice di giovedì. Ma sui ricollocamenti ancora nulla di fatto. Su una cosa, più di altro, Mario Draghi e Angela Merkel si sono trovati d’accordo nell’incontro che hanno avuto ieri a Berlino: la necessità di arrivare a un modello di gestione dei migranti che coinvolga di più i Paesi di origine e transito e pesi sempre meno sull’Europa. Quella che i due leader europei hanno definito “la dimensione esterna della migrazione”, eufemismo che delinea sempre più la strategia con cui l’Unione europea punta a bloccare i flussi di coloro che attraversano il Mediterraneo. Non a caso ieri proprio Draghi ha confermato la volontà del governo italiano di riproporre quello che è considerato il modello scuola, quell’accordo con la Turchia di cui nel 2016 fu artefice proprio la cancelliera tedesca e che, oggi, il premier italiano - dimenticato quel “dittatore” con cui solo tre mesi fa etichettò il presidente Erdogan - ripropone facendolo proprio, quasi come un passaggio di testimone tra i due nel ruolo di leader dell’Unione europea. “L’Italia è favorevole a rinnovare l’accordo con la Turchia sulle migrazioni”, conferma il premier al termine del vertice tedesco. E dopo la Turchia, lo stesso accordo - soldi in cambio di frontiere serrate - si intende proporre anche ad altri, a partire da Libia, Tunisia e Marocco. I soldi ci sono, e non sono pochi: otto miliardi di euro, pari a circa un decimo dei 79,5 miliardi che la Commissione europea ha destinato per la gestione delle partnership con i Paesi terzi. Di questi è plausibile che almeno sei - stessa cifra stabilita cinque anni fa - saranno destinati ad Ankara, ma l’impegno finanziario è destinato ad ampliarsi. Draghi lo dice chiaramente, indicando la direzione lungo la quale dovrà muoversi Bruxelles: serve, spiega, “una maggiore presenza dell’Ue in Nord Africa, non solo in Libia e Tunisia, ma anche nel Sahel, in Mali, Etiopia ed Eritrea. Occorre che l’Ue sia economicamente più sentita”. Quanto questo sia vero lo si capirà presto, a partire già da domani quando, sempre a Berlino, si terrà la seconda conferenza internazionale sulla Libia. Anche su questo punto Merkel e Draghi stanno bene attenti a sottolineare una convergenza di vedute: “Sulla Libia sosteniamo il processo di Berlino, che dovrebbe vedere un maggiore impegno dell’Ue, non solo dei singoli Paesi, in quell’area” afferma Draghi, ricevendo in cambio i ringraziamenti della Merkel per il lavoro svolto dall’Italia “per una soluzione politica in Libia”. Tutto bene dunque? No. I risultati raggiunti ieri saranno al centro del Consiglio europeo di giovedì e venerdì prossimo voluto da Draghi proprio per discutere di immigrazione, ma saranno anche l’unico punto in comune tra i 27 leader. Sul resto, infatti, le distanze restano abissali a partire proprio dalla questione che più sta a cuore al premier come i ricollocamenti di quanti arrivano non solo in Italia, ma anche in Spagna, Grecia, Malta e Cipro, i Paesi che si affacciamo sul Mediterraneo e che sono quelli maggiorente investiti dal fenomeno migratorio. Punto sul quale gli altri Stati invece non vogliono neanche aprire la discussione. Germania compresa, tanto più in vista delle elezioni. Al punto che Draghi è costretto ad ammettere che sui ricollocamenti “si sta discutendo, i negoziati prenderanno del tempo”. E la cancelliera tedesca non perde l’occasione per rimarcare come Italia e Germania abbiamo priorità diverse. “L’Italia è una Paese di arrivo, noi invece siamo colpiti da movimenti secondari”, spiega la cancelliera facendo riferimento ai cosiddetti dublinanti, i migranti che dopo essere sbarcati da noi si sono mossi verso il Nord Europa. E che adesso Berlino, ma anche Parigi, insistono perché l’Italia li riprenda. Migranti. Ecco il piano segreto dell’Europa per la gestione delle frontiere in Libia di Sara Creta Il Domani, 22 giugno 2021 Dai documenti finora inediti dell’UE emerge il ruolo di EUbam, la missione dell’Unione europea di assistenza e gestione integrata delle frontiere in Libia. Ristrutturare le agenzie libiche, integrare le milizie locali e rafforzare le capacità tecniche. Una partita guidata dalla missione di assistenza alle frontiere dell’Ue in Libia (EUbam), con uomini e mezzi dedicati a creare una struttura centralizzata nazionale per la sicurezza e la gestione delle frontiere libiche. Inizia da qui l’ultima tappa della strategia europea per chiudere la rotta del Mediterraneo. Una strategia - per ora sulla carta - preparata dalla missione di assistenza alle frontiere dell’Ue in Libia (EUbam). In un documento interno dell’Ue ottenuto da Domani si delinea la strategia per stabilire un’autorità nazionale per la sicurezza e la gestione delle frontiere e addestrare gli uomini dei corpi navali, di polizia interna e di frontiera, l’aviazione e i funzionari doganali adibiti ai controlli passaporti e merci. Sullo sfondo: l’incoerente e frammentata realtà Libica. “Circa 49.000 funzionari sono a libro paga delle agenzie di frontiera libiche; personale non qualificato che ostacola la gestione delle operazioni quotidiane”, si legge nel documento ottenuto da Domani. Bruxelles vuole creare un apparato di sicurezza nazionale per il controllo delle frontiere di terra, mare e aria, ma gli apparati statali libici sono in competizione per il potere. In Libia, le Istituzioni rimangono deboli o inesistenti, l’architettura di sicurezza frammentata, milizie e gruppi armati solo formalmente integrate all’interno dei ministeri dell’Interno o della Difesa. “Difficile individuare le strutture dello stato... limitate possibilità di accesso a Tripoli e la situazione di sicurezza impediscono alla missione di completare la raccolta di informazioni necessarie”, scrivono gli ufficiali europei a Bruxelles. Ma per l’Europa l’obiettivo è offrire consulenza e strumenti - tramite l’assistenza materiale, tecnica e politica alle autorità libiche - per intercettare migranti e rifugiati nel Mediterraneo centrale. Il risultato però è che i libici li riportano nei centri di detenzione. Sono passati 17 anni da quando l’Europa ha iniziato a parlare di addestrare e coordinare i libici. Novembre 2004, un team di 14 esperti della commissione europea e di Europol, arriva per la prima volta in Libia. Nella relazione tecnica della Commissione europea del 2004 i dettagli, le foto, la strategia. Nel toolkit per bloccare i migranti, l’Italia è a capofila in un piano iniziato nel settembre 2002. Una lista dettagliata condivisa con l’Ue include uno stanziamento “speciale” per la costruzione di centri di detenzione nel sud del paese, a Kufra e Sebha. Ma anche fuoristrada Mitsubishi, autobus Iveco, materassi, lettini metallici, tende da campo e binocoli per la visione diurna forniti da Roma. E il finanziamento di un programma di voli charter per il rimpatrio dalla Libia verso i paesi di origine. In quegli anni la Libia inaugura arresti e deportazioni. Il ruolo di Eubam - Nel 2013 l’Europa invia un contingente di esperti per creare una “strategia di gestione delle frontiere”. Istituita il 22 maggio del 2013, la missione non sembra essere in grado di raggiungere i risultati sperati. Un’operazione di 30 milioni di euro all’anno, “per creare contatti e influenza, e redigere rapporti per le strutture dell’Ue”, racconta un ex-capo della sicurezza dell’Agenzia europea per la difesa. Proprio per ragioni di sicurezza, la missione è costretta a ridurre il personale internazionale (solo tre funzionari, di cui uno italiano) e lasciare Tripoli per operare dalla Tunisia, racconta un funzionario di Bruxelles. Alla guida di EUbam fino allo scorso settembre, l’italiano Vincenzo Tagliaferri, classe 1963, alto funzionario di polizia. A Tripoli è considerato l’uomo della collaborazione Italia-Libia. Tagliaferri propone un piano di riforma del settore della sicurezza, e attività di assistenza nella gestione delle frontiere, forze dell’ordine e giustizia penale. Ma la formazione e la consulenza strategica non sembrano funzionare: “i progressi rimangono limitati in assenza di una soluzione politica, la fine del conflitto militare e un ritorno alla stabilità”, si legge su un documento di 21 pagine, etichettato come “EU limited”. E i diritti umani? “Manca un approccio sullo stato di diritto e sul rispetto dei diritti umani”, scrive il Consiglio dei diritti umani dell’Onu in un commento interno al documento strategico di EUbam del piano di gestione delle frontiere. Ma la missione ribadisce: “L’intero processo è stato costantemente guidato da principi in materia di diritti umani e consigliato da esperti”. La strategia dell’Ue per controllare i confini prevede inoltre un sistema di riconoscimento biometrico e d’analisi dei dati sulla migrazione (Midas. Grazie a un accordo firmato con l’Organizzazione Internazionale per la Migrazione (Iom), scanner per le impronte digitali e telecamere per il riconoscimento facciale verranno installati in sette posti di frontiera, a partire dagli aeroporti di Mitiga e Misurata. L’Iom ha previsto inoltre di ristrutturare il posto di frontiera di Ra’s Ajdir alla frontiera con la Tunisia. “Non è chiaro quali siano le tutele che verranno applicate per garantire la protezione dei dati personali e la privacy”, conclude un funzionario delle Nazioni unite a Ginevra. Nonostante nella strategia di EUbam compaia un ufficio legale per il rispetto dei diritti umani, il suo ruolo non sarà indipendente. Non è chiaro quali siano i meccanismi previsti per garantire l’accesso alla giustizia per i migranti e i rifugiati i cui diritti possono essere colpiti dalla cooperazione dell’Ue con i paesi terzi. A maggio il parlamento europeo aveva criticato la Commissione europea e alcuni paesi dell’Ue nel quadro della politica esterna di asilo e migrazione Ue. Per Tineke Strik, eurodeputata olandese dei Verdi e membro della commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (Libe) “serve un migliore monitoraggio, una maggiore trasparenza sull’uso dei fondi Ue e un maggiore controllo democratico da parte del parlamento europeo”. Spagna. Sánchez firma l’indulto per i 9 politici catalani incarcerati di Alessandro Oppes La Repubblica, 22 giugno 2021 “È il momento della riconciliazione”. Condannati due anni fa a pene fino a 13 anni per il referendum illegale del 2017, torneranno presto in libertà. Il presidente regionale Aragonès: “Un passo insufficiente e incompleto, ma facilita il dialogo”. Un passo verso la riconciliazione tra Madrid e Barcellona, dopo una lunghissima fase di gelo. A quasi quattro anni dall’ondata di arresti seguiti al referendum illegale, a due dalle pesanti condanne inflitte dal Tribunale Supremo spagnolo, i 9 leader politici catalani in cella saranno presto rimessi in libertà grazie all’indulto che verrà formalizzato domani dal Consiglio dei ministri. Per annunciarlo, il presidente Pedro Sánchez è andato a Barcellona, dove ha tenuto una conferenza al Gran Teatre del Liceu, scenario tra i più emblematici della capitale catalana. Occasione per spiegare le ragioni di una scelta difficile, destinata con ogni probabilità ad avere conseguenze anche dal punto di vista della politica nazionale, sulla popolarità stessa dell’esecutivo. Per questo Sánchez ha voluto subito precisare che il governo non intende mettere in discussione le decisioni giudiziarie prese dall’Alta Corte - che ha inflitto ai dirigenti indipendentisti condanne fino a 13 anni per sedizione e malversazione - ma che intende solo creare un nuovo quadro politico in cui sia possibile ricostruire un rapporto tra la Catalogna e la Spagna. Mettere da parte il passato e guardare al futuro, favorire la convivenza. Una linea che trova d’accordo, secondo i sondaggi, almeno tre quarti dei cittadini catalani, quindi anche una parte consistente di coloro che non sono indipendentisti. Sostegno all’indulto è stato espresso anche dai vescovi catalani e dagli imprenditori (tanto dalla Ceoe, la Confindustria spagnola, come da Foment del Treball, l’organizzazione imprenditoriale regionale), preoccupati dalle conseguenze che la rottura istituzionale del 2017, con il referendum del 1° ottobre e il conseguente commissariamento della Generalitat, il governo locale, ebbe sull’economia. Per la ricostruzione post-Covid, è fondamentale che non ci sia più una situazione insostenibile di tensioni politiche e sociali. Le tensioni, in realtà, esistono ancora, e lo si è visto proprio con la contestazione inscenata da alcuni gruppi indipendentisti davanti al Liceu contro Sánchez. Respingono l’indulto, pretendono l’amnistia e l’autodeterminazione. Un segnale della divisione che si acutizza all’interno del movimento indipendentista, la frattura ormai evidente tra i repubblicani di Oriol Junqueras e il partito Junts per Catalunya di Carles Puigdemont. Per la prima volta oggi si è sentito in piazza lo slogan “Junqueras, non ci rappresenti”, mentre gli stessi manifestanti scandivano “Puigdemont, il nostro presidente”. Junqueras è il politico che ha subito la condanna più pesante al processo di due anni fa: 13 anni di carcere. E ora che sta per recuperare la libertà (anche se, come per gli altri condannati, non verrà cancellata l’interdizione dai pubblici uffici) finisce nel mirino delle frange più duro del separatismo perché considerato troppo moderato. La sua ultima “colpa”, quella di aver inviato nei giorni scorsi una lettera ai giornali in cui fa autocritica, difende il negoziato con lo Stato, appoggia un referendum concordato con il governo centrale, rifiuta la via unilaterale nell’affrontare la questione indipendentista. Una lettera che ha contribuito ad accelerare la scelta di Sánchez per l’indulto, ma che non va giù al fronte separatista che fa capo a Puigdemont. I due partiti indipendentisti, cento giorni dopo le elezioni regionali di febbraio, hanno finalmente formato il nuovo governo della Generalitat. Ma con rapporti di forza invertiti rispetto a quanto avvenuto finora: per la prima volta, è il partito di Junqueras, Esquerra Republicana, ad avere la guida del governo, con Pere Aragonès. Che oggi non si è presentato al Liceu a sentire il premier (non era presente nessuno dei componenti dell’esecutivo catalano) e che ha definito l’indulto “un passo insufficiente e incompleto, ma che facilita il dialogo”. Esquerra è uno dei partiti che, a Madrid, sostengono la maggioranza Psoe-Podemos guidata da Sánchez. Nonostante i distinguo, il decreto di indulto servirà comunque per consolidare l’alleanza e garantire alla coalizione di sinistra una maggioranza parlamentare ampia. Sul fronte delle opposizioni si annuncia invece una dura battaglia contro i socialisti “traditori” dell’unità nazionale, accusati aver svenduto la Spagna agli indipendentisti catalani. Una settimana fa sono scesi in piazza insieme i rappresentati di Vox, Partito Popolare e Ciudadanos, ma è la formazione di estrema destra di Santiago Abascal quella che spera di ottenere il maggior reddito politico da questa offensiva. Per la verità, le destre in piazza non sono riuscite a mobilitare grandi folle, a differenza di quanto era accaduto con altre iniziative convocate negli anni scorsi. E anche la raccolta di firme contro l’indulto è stata un mezzo fiasco. Ciò che più teme Sánchez, in realtà, sono i malumori che la svolta può creare in una parte dell’elettorato socialista, in particolare in alcune regioni dove è più forte il sentimento anti-nazionalista. Ma la speranza del premier - a due anni dalle prossime elezioni politiche - è che i grandi progetti di ricostruzione post-pandemia, da realizzare con l’imponente flusso di finanziamenti in arrivo dall’Ue, possano ridare respiro al governo. Stati Uniti. “Troppi crimini”. Un sindaco-sceriffo è la nuova tentazione di New York di Federico Rampini La Repubblica, 22 giugno 2021 Oggi le primarie democratiche. In testa un ex poliziotto. Ma rimonta la candidata di Black Lives Matter. Cercasi uno sceriffo alla Rudy Giuliani per fermare il crimine a New York. Oppure il suo esatto contrario? Oggi si tengono le primarie democratiche che di fatto eleggono il successore del sindaco uscente Bill de Blasio. Nella Grande Mela i repubblicani sono così minoritari, che chi vince la corsa tra i dem ha la quasi certezza di diventare primo cittadino nel voto finale a novembre. L’escalation di violenza in città continua, la polizia è stata in parte “disarmata” da de Blasio e per reazione fa una sorta di sciopero bianco, gli omicidi continuano a crescere. È la ragione per cui in testa ai sondaggi figura uno sceriffo vero. È l’afroamericano Eric Adams, per 22 anni ufficiale di polizia. Molti altri candidati però continuano a sostenere la linea Black Lives Matter: non ci vuole un sindaco “legge e ordine” bensì più spese sociali nei quartieri poveri. L’aumento della criminalità ha dominato le ultime settimane della campagna elettorale, per ovvii motivi: le sparatorie sono aumentate del 64% dall’inizio dell’anno, gli omicidi del 13%. Fa scalpore il degrado di Washington Square, la piazza con giardino pubblico vicino alla New York University, un tempo luogo bohémien affollato di studenti, e un’icona newyorchese dai tempi del film “A piedi nudi nel parco”. Da qualche mese non passa sera senza che Washington Square sia teatro di qualche aggressione, al pubblico tradizionale si è mescolato un esercito di spacciatori, piccola delinquenza. A Central Park sono apparse bande di motociclisti in flagrante violazione della zona pedonale. Il peggio però accade lontano da Manhattan, nel Bronx e Queens dove i regolamenti di conti fra le gang sono in un crescendo. Per il moderato Adams è evidente che New York sta pagando gli errori di de Blasio, sindaco che era in ostaggio alla sinistra radicale. Dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis, nel maggio scorso il movimento Black Lives Matter ha lanciato i suoi slogan radicali: “de-fund the police”, tagliamo fondi alle forze dell’ordine. I sindaci di sinistra come de Blasio lo hanno fatto davvero, anche se oggi i tagli al budget del New York Police Department sono stati silenziosamente cancellati. Troppo tardi. Se si aggiunge che la polizia newyorchese è stata messa sotto inchiesta per le perquisizioni che prendevano di mira più spesso i ragazzi afroamericani o ispanici, si arriva allo “sciopero bianco”: de-legittimati, gli agenti si vedono sempre meno nelle strade, sempre più spesso chiusi in auto a guardare i telefonini. Lo spettro è quello di una discesa agli inferi, un ritorno di New York all’incubo degli anni Settanta, quando interi quartieri erano off-limits per le forze dell’ordine, e pericolosi per tutti. Adams è il personaggio ideale per riprendere in mano la città: essendo afroamericano, nessuno può accusarlo di razzismo se i suoi agenti tornano a metodi duri per riprendere il controllo del territorio. Del resto, nell’escalation della violenza attuale chi subisce più spesso sono proprio gli abitanti dei quartieri poveri, quindi Black e ispanici. A contendere ad Adams il voto moderato ci sono Andrew Yang, imprenditore che fece una breve apparizione nella gara per la nomination democratica alla Casa Bianca; e una collaboratrice di de Blasio, Kathryn Garcia. I due si sono coalizzati per cercare di scalzare Adams dal suo primato nei sondaggi. Ma la sinistra radicale non vuole darsi per sconfitta. Negli ultimi giorni c’è stata una rimonta della candidata più estrema, l’afroamericana Maria Wiley, 57 anni, anche lei un’ex della squadra di de Blasio. La Wiley ha avuto un endorsement che conta a New York: quello della giovane deputata locale Alexandria Ocasio-Cortez, la figura più popolare della nuova sinistra radicale. Il loro mantra è quello di Black Lives Matter: la criminalità si cura affrontando il disagio sociale, cresciuto a dismisura in questa metropoli che è stata l’epicentro del Covid in America: 33.000 morti. L’escalation della violenza in città non è certo l’unico tema a motivare il voto di oggi. La situazione economica viene subito dopo, e i due sono collegati. In un’America che sta vivendo una turbo-ripresa economica, un vero e proprio boom, proprio New York è rimasta un po’ indietro. I segni della ripresa ci sono anche qui - i ristoranti strapieni, il traffico impazzito, gli aeroporti al collasso - ma non bastano. Mentre nel resto degli Stati Uniti si sono già recuperati i due terzi dei posti di lavoro persi nella recessione dell’anno scorso, New York ne ha ritrovati solo la metà. La Grande Mela dipende troppo da settori come turismo e spettacolo, che ancora non hanno ritrovato i livelli di due anni fa. I moderati alla Adams hanno buon gioco a dire che se non torna a regnare l’ordine pubblico, molti decideranno di costruirsi il futuro altrove, e troppi negozi o piccole imprese lasceranno le saracinesche abbassate per sempre. Siria. Quattro milioni di persone rischiano di perdere gli aiuti umanitari Il Domani, 22 giugno 2021 Medici senza frontiere ha chiesto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite di rinnovare la risoluzione sugli aiuti transfrontalieri per il nord-ovest del paese, in scadenza il prossimo 10 luglio. “Se dovessero interrompersi gli aiuti medici, non saremmo più in grado di curare i pazienti, e le forniture di cui disponiamo attualmente possono bastare solo per altri tre mesi”. Così Abdulrahman M. (la sua identità non è stata resa nota per motivi di sicurezza), coordinatore del progetto di Medici senza frontiere in Siria, sulla tragica situazione rispetto agli aiuti umanitari nel paese. La richiesta avanzata da Msf al Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite è di rinnovare la risoluzione 2533 sugli aiuti transfrontalieri per il nord-ovest della Siria, in scadenza il prossimo 10 luglio. Il mancato rinnovo della risoluzione, infatti, lascerebbe quattro milioni di persone senza aiuti umanitari e cure mediche. I valichi transfrontalieri, negli ultimi anni sono stati tutti chiusi. L’unico a essere ancora funzionante è quello di Bab al-Hawa. Chiuderlo, significherebbe privare delle forniture necessarie ospedali e strutture sanitarie, condannandoli all’incapacità di gestire un possibile aumento di contagi da Covid-19 e portare avanti la campagna vaccinale, così come la fornitura di dispositivi di protezione individuale, bombole di ossigeno, respiratori e farmaci essenziali. Vorrebbe dire, dunque, aumentare le sofferenze causate dalla chiusura del valico di frontiera di al-Yarubiyah, che ha impedito nei mesi scorsi e in piena pandemia l’arrivo di aiuti dall’Iraq. I valichi autorizzati - Da luglio 2014 fino all’inizio del 2020, la risoluzione 2533 ha autorizzato quattro valichi di frontiera per la fornitura di aiuti umanitari in Siria e ogni anno il testo è stato rivisto e rinnovato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per mantenere il flusso di aiuti nelle aree fuori dal controllo del governo siriano. Nel 2019 e nel 2020, Russia e Cina hanno posto il veto al rinnovo della risoluzione, rimuovendo Bab al-Salama, Al-Yarubiyah e Al-Ramtha dall’elenco dei valichi umanitari approvati. Di conseguenza, solo Bab al-Hawa resta nell’attuale risoluzione come punto di passaggio ufficiale per la Siria. Ma il 10 luglio 2021, anche questa strada di accesso potrebbe essere chiusa. “Dopo 10 anni di guerra, il rinnovo della risoluzione del Consiglio di sicurezza è più cruciale che mai. Da esso dipende la vita di milioni di persone, soprattutto donne e bambini”, spiega Faisal Omar, medico e capomissione dell’organizzazione internazionale in Siria. Dati preoccupanti - Le sanzioni in corso nei confronti del paese, oltre all’aggravarsi della crisi economica e alla svalutazione monetaria nel 2021, hanno notevolmente peggiorato le condizioni di vita della popolazione in tutte le aree. Secondo le agenzie delle Nazioni unite, i prezzi dei prodotti inseriti nel paniere alimentare sono aumentati di oltre il 220 per cento, mentre l’80 per cento della popolazione rimane al di sotto della soglia di povertà e il 90 per cento dei bambini dipende dagli aiuti umanitari. “Il valico di frontiera di Bab al-Hawa è attualmente l’unica via di sopravvivenza per il governatorato di Idlib, nel nord-ovest della Siria. Se si bloccheranno anche i rifornimenti di cibo e acqua potabile, malattie ed epidemie colpiranno la popolazione locale e gli sfollati interni, alcuni costretti alla fuga in più di 14 occasioni e oggi dipendenti completamente dagli aiuti umanitari”, precisa Abdulrahman M. Attualmente, Msf supporta 8 ospedali nel nord-ovest della Siria, tra cui un’unità per il trattamento delle ustioni, 12 centri che forniscono cure primarie, un sistema di 5 ambulanze dedicate per il trasferimento dei pazienti e 14 cliniche mobili in azione in oltre 80 campi per sfollati. L’organizzazione umanitaria conduce inoltre attività di promozione dell’igiene e dell’uso dell’acqua in quasi 90 campi della zona. Msf ha guidato alcune strutture sanitarie nella risposta all’epidemia di Covid-19, a seguito di un aumento dei casi. Nel 2020 sono stati aperti nel nord della Siria 6 centri di isolamento e trattamento per pazienti affetti da Covid-19 e sono stati forniti test diagnostici rapidi grazie alle cliniche mobili. Se il valico dovesse essere chiuso, dunque, la situazione di milioni di persone potrebbe precipitare definitivamente, senza avere alcun margine di speranza. Sud Sudan. Il rischio di una riconciliazione senza verità e giustizia di Riccardo Noury Corriere della Sera, 22 giugno 2021 La segretaria generale di Amnesty International, Agnès Callamard, ha reso nota la lettera inviata il 7 giugno ai leader del Sud Sudan in cui paventa il rischio che in nome della riconciliazione vengano sacrificate verità e giustizia. Nel testo trasmesso al presidente Salva Kiir Mayardit e al primo vicepresidente Riek Machar Teny Dhurgon, Callamard chiede di assicurare che “le vittime e i sopravvissuti alle atrocità commesse nel conflitto iniziato nel dicembre 2013 ricevano giustizia per le enormi sofferenze patite, anche attraverso processi che accertino le responsabilità”. In caso contrario, si tratterebbe di una riconciliazione monca e destinata a durare poco. Nel corso del conflitto decine di migliaia di civili sono stati uccisi, migliaia di donne sono state stuprate e milioni di persone sono state costrette a lasciare le loro terre e i loro villaggi, saccheggiati e dati alle fiamme. Nicaragua. Allarme dell’Onu: Ortega fa arrestare tutti i rivali nella corsa alle presidenziali di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 22 giugno 2021 L’offensiva di Daniel Ortega contro ogni forma di dissenso non è passata sotto silenzio. Anzi. La ridda di arresti, incursioni dentro casa, per strada, davanti alle scuole o agli studi medici dove i “nemici” andavano a prendere i figli o avevano una visita di controllo, ha avuto una forte eco internazionale. Anche perché l’opera di pulizia da parte del presidente ha coinvolto vecchi amici e compagni di guerriglia, uomini e donne che hanno fatto parte del Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale e hanno avuto un ruolo decisivo nella sconfitta del dittatore Anastasio Somoza. Le strade poi si sono divise e molti, tra gli ex combattenti, non hanno risparmiato le loro critiche all’ex compagno d’armi che il tempo, e il potere, hanno trasformato in un satrapo. Più volte, tra la fine di maggio e metà giugno, molti esponenti raccolti attorno alla formazione di centrosinistra Unamos hanno lanciato sui social messaggi in cui annunciavano il loro probabile arresto. Chi ha fatto in tempo ha registrato un video sul cellulare e poi lo ha postato su Facebook o Twitter. È accaduto due domeniche fa a Suyen Barahona, anche lei figura di spicco della dissidenza nicaraguense. “Se state vedendo questo video”, dice, “è perché la polizia mi ha sequestrato e ha circondato la mia casa come ha fatto con altri leader sociali, politici, avvocati e con gli oltre 120 prigionieri e prigioniere politici”. L’arresto più eclatante è stato quello di Cristiana Chamorro, 62 anni. Il 2 giugno decine di agenti della polizia hanno fatto irruzione nella sua casa poco prima che iniziasse una conferenza stampa in cui denunciava di essere stata esclusa dalle prossime elezioni presidenziali. Figlia di Violeta Barrios de Chamorro, che guidò il Paese tra il 1990 e 1997, dopo aver sconfitto Ortega, e del giornalista Pedro Joaquín Chamorro, assassinato dagli sgherri di Somoza. Era l’avversaria più temibile e con maggiori possibilità di successo per Daniel Ortega deciso a vincere anche le elezioni del 7 novembre per il suo terzo mandato consecutivo. Una storia comune a molti leader di sinistra, o presunti tali, che faticano ad accettare una sfida democratica gridando al complotto o al tradimento. È confinata in casa. Agli arresti. Daniel Ortega ha timore di perdere. Ha forzato la mano alla Costituzione che vietava la sua ennesima ricandidatura facendo approvare dal Parlamento che controlla una norma di modifica costituzionale; ha represso con durezza le proteste di piazza che avevano visto la partecipazione di decine di migliaia di cittadini; ha provocato la morte di 300 manifestanti e 1200 feriti gravi; ha messo in galera oltre 600 giovani studenti, giornalisti, docenti, industriali, banchieri. Ha rotto con la Chiesa per le critiche che aveva rivolto dopo le stragi commesse durante le continue manifestazioni. Ha fatto aggredire a bastonate le mamme dei ragazzi arrestati, anche loro scese in piazza per sapere dove fossero finiti i loro figli. Oltre 180 mila nicaraguensi sono fuggiti nel vicino Costa Rica per sottrarsi alla repressione. Adesso, l’ennesimo giro di vite per fare piazza pulita dei potenziali avversari. Gli arresti più sconcertanti riguardano tre elementi di spicco della guerriglia contro la dittatura di Somoza. Due uomini e una donna che sono vere icone della lotta di liberazione diventati fastidiosi nemici perché critici sulla deriva assunta dal loro compagno di battaglie. Ha protestato l’Organizzazione degli Stati Americani, c’è stata una risoluzione di condanna da parte del Parlamento Europeo, l’Onu ha reagito esprimendo tutta la sua preoccupazione. Ma è servito a poco. Human Rights Watch ha elaborato un dossier nel quale aggiorna a 124 il numero di persone ancora in carcere. Alcune da oltre un anno. Sono stati contattati 53 attivisti che hanno fornito foto e testimonianze sugli arresti arbitrari. Valeska Sandoval, 22 anni, studentessa universitaria, ha raccontato di essere stata prelevata a forza da una strada e portata nel carcere di El Chipote. “Due poliziotti mi hanno appeso a una corda con le mani legate sopra la testa. Sono stata picchiata, colpita in faccia e sul corpo, sullo stomaco con sbarre di ferro. Poi, per venti minuti, mi hanno tenuta la faccia dentro e fuori da una tinozza con dell’acqua lasciandomi tramortita. Infine, prima di rilasciarmi mi hanno minacciato: “La prossima volta che ti vediamo, ti uccidiamo”. Il 9 giugno scorso un portavoce Onu ha detto che il segretario generale Antonio Guterres “era profondamente scosso dai recenti arresti e dalla inammissibilità alle prossime elezioni di molti leader dell’opposizione”. Hrw chiede un passo in più alle Nazioni Unite. “In difesa dei diritti umani”, afferma il direttore per l’America Latina, José Miguel Vivanco, “il segretario generale deve invocare l’articolo 99 e convocare il Consiglio di Sicurezza per adottare una risoluzione che impegni Ortega a rispettare libere elezioni e a rilasciare i candidati dell’opposizione”. Sono intervenuti anche gli Usa con sanzioni che colpiscono i vertici del regime. L’ultima mossa diplomatica è quella annunciata ieri da Messico e Argentina, che hanno deciso di richiamare gli ambasciatori per consultazioni. Una decisione, spiegano i due governi in un comunicato congiunto, presa “per le preoccupanti iniziative politico-legali del governo nicaraguense che hanno messo in pericolo l’integrità e la libertà di diverse figure dell’opposizione”. Ma Daniel Ortega e sua moglie Rosario Murillo si sono limitati a fermare la macchina repressiva. Dalla loro hanno una legge, la 1055, approvata dall’Assemblea nazionale. Definisce “traditori della Patria” chiunque muova critiche al governo. Consente di escludere da incarichi pubblici presenti e futuri chiunque la infranga. Sono accusati di “incitare all’ingerenza straniera nelle faccende interne, di chiedere interventi militari, sono sostenuti da finanziamento di potenze estere”. Basta un viaggio e un breve soggiorno negli Usa e sei pronto per il carcere.