Un anno da reclusi di Francesco Grignetti La Stampa, 21 giugno 2021 Il Garante delle libertà personali: il virus fa esplodere problemi latenti. Due i nodi: il sovraffollamento delle carceri e l’isolamento degli anziani. È stato un anno di speciale sofferenza, questo 2020 segnato dalla pandemia. Specie per chi a vario titolo è privato della propria libertà. Non solo i detenuti in carcere, ma i migranti rinchiusi nei centri per l’espatrio dove appena la metà dei casi finisce in rimpatrio, gli anziani e i disabili confinati in Residenze assistite che hanno serrato i battenti e si sono trasformate in prigioni. “Tutte le diverse aree di privazione della libertà personale - scrive nella sua Relazione al Parlamento il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma (ed è già significativo il cambio di nome dal vecchio Garante diritti dei detenuti) - hanno vissuto una sofferenza specifica nell’ultimo anno. Tuttavia, proprio da tale specifica e dirompente difficoltà è possibile trarre un elemento positivo che deve essere ben considerato nel delineare l’orizzonte di ripresa. L’elemento positivo è il fatto che alcune latenti contraddizioni spesso poco evidenti sono divenute chiare, visibili: non si potrà dire di non esserne consapevoli”. Nelle carceri, si vive sempre sul filo del sovraffollamento. A fronte di formalmente 50.781 posti regolamentari, che però non sono mai effettivamente tutti disponibili, il 2020 era iniziato con 60.971 presenze, mentre l’anno in corso è iniziato con 53.329. D questi, ben 26.385 detenuti, ovvero quasi la metà della popolazione carceraria, devono rimanere in carcere per meno di tre anni. Di essi, ben 1.105 sono in esecuzione di una pena inferiore a un anno. “Tali numeri - commenta il Garante - danno una immagine plastica della fragilità sociale che connota gran parte della popolazione detenuta, perché indica coloro che non hanno accesso a misure che il nostro ordinamento prevede, spesso anche perché privi di fissa dimora. Non solo, ma rendono spesso soltanto enunciativa la finalità tendenziale alla rieducazione perché nessun progetto può essere attuato per periodi così brevi”. È come se convivessero due realtà carcerarie immensamente diverse. Per chi entra ed esce continuamente di cella, “spesso il tempo della detenzione diviene così soltanto tempo di vita sottratto, peraltro destinato a ripetersi sequenzialmente. Questo sembra a me essere un problema ancor più grave dello stesso sovraffollamento perché rende difficile definire una direzione che accomuni chi in carcere opera verso la costruzione di un progetto condiviso”. Il Covid-19 ha poi clamorosamente messo in luce alcune zone oscure del nostro Paese. Il fenomeno delle Rsa, ad esempio. “Non potremo ignorare - dice ancora Mauro Palma, che oggi illustra alle Camere la Relazione - la separatezza che frequentemente avvolge le strutture residenziali per anziani o disabili e che era normalmente attenuata dal lavoro “supplente” delle famiglie o anche non portare a valore il contributo del mondo del volontariato all’interno di queste istituzioni chiuse nel momento in cui la non presenza di tali figure all’interno di quegli spazi e quei corridoi ha prodotto un vuoto che nei casi di sostegno alle disabilità rischia di determinare una regressione cognitiva importante”. Un mondo ignorato al punto che non si conoscono nemmeno i numeri aggiornati delle presenze. L’ultimo dato certo risale al 2018. Conteggiando le varie forme di residenzialità in strutture, sarebbero più di 420 mila posti letto, di cui 312.656 per anziani. Ma ci sono clamorose differenze tra Nord e Sud: 85.932 i posti in Lombardia, 44.555 in tutto il Sud, cioè diverse regioni meridionali non fanno la metà dei posti lombardi. Il Garante ha scoperto che troppo spesso le Residenze si trasformano in prigioni anche se sul portone non c’è scritto. Bisogna perciò garantire “ogni pur limitata e residuale possibilità di scegliere e orientare il proprio tempo”. L’ospitalità di chi è accolto in residenze per anziani o per disabili, non deve trasformarsi “in una forma di internamento: la volontà espressa della persona non può mai essere un indicatore non considerato o considerato marginalmente, anche quando si vuole ipoteticamente agire per il suo bene”. Già, perché qui si interviene sui diritti delle persone, e sulla privazione degli stessi diritti. “Ogni persona - conclude Palma - ha diritto alla significatività del proprio tempo, anche di quello recluso”. Le persone detenute hanno il diritto che il tempo di vita loro sottratto abbia finalità costruttiva di Dario Pasquini* Ristretti Orizzonti, 21 giugno 2021 Questa mattina il Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale ha presentato alla Camera dei Deputati la Relazione al Parlamento 2021. Nel suo intervento, il Presidente Mauro Palma ha riassunto i punti principali delle più di 400 pagine della Relazione consegnata ai Presidenti delle Camere, affrontando i diversi ambiti di intervento del Garante nazionale: dalla detenzione penale a quella amministrativa delle persone migranti, dalla privazione della libertà in ambito sanitario alla custodia nei luoghi delle Forze di Polizia, fino ad arrivare alla possibile perdita di autodeterminazione di persone anziane o disabili ospiti in residenze sanitarie assistenziali. Per il Garante nazionale, il filo che tiene unite situazioni fra loro così diverse è il rischio di una minore effettività dei diritti delle persone ristrette. Proprio per questo è necessaria l’azione di un Garante, che entri, veda, esamini la situazione e intervenga per cooperare al superamento delle criticità riscontrate, prevenendo il loro riproporsi. Un punto centrale dell’intervento del Presidente Palma è l’individuazione quale diritto soggettivo di ogni persona privata della libertà il reale perseguimento dell’obiettivo in base al quale la sua situazione di restrizione si è determinata. Un diritto che si accompagna alla necessità che il tempo di collocazione in strutture privative della libertà non sia soltanto tempo sottratto alla vita. Per esempio, in ambito penale, la finalità rieducativa che la Costituzione assegna alle pene non costituisce soltanto una indicazione per le politiche penali: è un vero e proprio diritto della persona in esecuzione penale, in particolare se detenuta, che deve vedere il tempo che le è sottratto come tempo non vuoto, ma finalizzato a quell’obiettivo che la Costituzione indica. Analogamente, la persona temporaneamente ristretta in una struttura per un trattamento psichiatrico non volontario deve vedere azioni effettive tese al superamento di tale condizione e al suo inserimento all’interno di una complessiva presa in carico del proprio caso. Nel caso dei Centri per il rimpatrio (Cpr), le persone migranti irregolari hanno il diritto di un impiego significativo del loro tempo, anche se sono in attesa di un rimpatrio. Sulla detenzione in carcere c’è ancora molto da fare per dare significato al tempo di chi è recluso. Per questo è necessario un vero e proprio cambio di prospettiva. Occorre - ha detto il Presidente Palma - porsi con forza il problema del domani e del fuori superando una visione solo concentrata sull’oggi e sul dentro. Riguardo all’ambito della salute, una particolare attenzione è stata rivolta alle residenze per persone anziane o disabili, che in Italia portano a un totale di più di 360 mila posti letto (nel 2020 circa 33 mila posti letto per disabili sotto i 65 anni, 312 mila per anziani, includendo i disabili con più di 65 anni, quasi 19 mila per persone con problemi di salute mentale). Strutture che rischiano - e la pandemia lo ha messo in evidenza - di diventare luoghi di internamento, in cui le persone sono private della loro autodeterminazione. Per questo, il Garante ha sollecitato un ripensamento complessivo del sistema, che ponga al centro la massima possibilità di espressione vitale di ogni persona, valorizzando ogni residuo di autonomia. Rispetto al complesso tema delle migrazioni irregolari, la richiesta del Garante al Parlamento è di trovare la capacità di affrontarlo in modo meno contingente ed emergenziale, ripensando il modello stesso del Cpr, invece di inseguire quotidiane carenze. Proprio sulle condizioni attuali dei Cpr il Garante nazionale ha ricevuto i primi reclami da parte delle persone ristrette: una possibilità introdotta con l’ultimo decreto in materia di sicurezza della fine del 2020. Un altro tema, verso il quale è sempre viva l’attenzione del Garante nazionale, è quello dell’accountability di chi opera nei luoghi di privazione della libertà: la necessità di trasparenza e di rispondere in modo documentato della propria azione. In alcuni casi il Garante ha ritenuto essenziale sollecitare le Procure a indagare su quanto riferito da più fonti e talvolta verificato direttamente anche attraverso l’analisi della documentazione scritta o video. Se è doveroso riconoscere l’opera positiva d’indagine compiuta dall’apposito Nucleo investigativo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, è altrettanto necessario ribadire che proprio il potenziamento di tale capacità, unito a una impostazione più solida della formazione della Polizia penitenziaria e alla assoluta non interferenza con l’azione della magistratura garantiscono il doveroso riconoscimento verso chi opera in situazioni spesso difficili con un delicato compito e non può vedere la propria funzione riassunta dai pochi casi di coloro che offendono i valori fondanti di tale funzione. In conclusione, nella sua azione di vigilanza lo sguardo del Garante non può fermarsi alla mera analisi della legalità formale dei singoli provvedimenti adottati, ma deve guardare alla legittimità sostanziale di ciò che essi determinano: il caso del giovane straniero irregolare oggetto di violenta aggressione per strada che ha trovato come unica risposta istituzionale il perseguimento della sua posizione di irregolarità amministrativa e quindi il confinamento in un Centro in vista di un rimpatrio non può non interrogarci. La presentazione della Relazione al Parlamento si è tenuta con un numero molto ristretto di presenze istituzionali per ragioni di prevenzione sanitaria. Tra queste, il Presidente della Camera dei Deputati, Roberto Fico, le Ministre della Giustizia e dell’Interno, Marta Cartabia e Luciana Lamorgese, il rappresentante della Presidenza del Senato, Senatore Francesco Maria Giro e il Giudice costituzionale Francesco Viganò in rappresentanza della Corte. *Comunicazione Ufficio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale Cartabia, scossa ai giudici: “Tornino ad avere statura” di Diodato Pirone Il Messaggero, 21 giugno 2021 Marta Cartabia ieri ha scosso la magistratura. La ministra della Giustizia, ed ex presidente della Corte Costituzionale, a poche ore dalle polemiche durissime sui referendum sulla giustizia fra l’Associazione Nazionale Magistrati che ha preannunciato una “ferma reazione” e il leader della Lega Matteo Salvini che li ha difesi a spada tratta, ha fatto ricorso a frasi durissime ed inequivocabili per sottolineare non solo la necessità di una riforma profonda della Giustizia ma soprattutto di un salto di qualità morale dell’intera categoria. Da Taormina, dove era ospite dio di Benedetta Tobagi nell’ambito di TaoBuk 2021, la ministra è stata protagonista di un intervento di ampio respiro andato dall’estradizione dei terroristi da parte della Francia alla crisi della magistratura. Ed è proprio su questo tema che Marta Cartabia ha usato le parole più puntute, citando molto il giudice Livatino e portandolo ad esempio ai suoi colleghi. “Diciamolo pure - ha esordito - La magistratura sta attraversando una fase di crisi, una crisi di credibilità e, soprattutto, ai miei occhi più grave, di crisi della fiducia dei cittadini. Ci vorrebbero più Livatino”, ha sottolineato la ministra. Cartabia è sembrata molto preoccupata per le ripercussioni sul rapporto fra magistrati e opinione pubblica. “Tante volte in questi mesi mi sono sentita porre una domanda che fa tremare le vene ai polsi: Ministro, come possiamo tornare ad avere fiducia nella giustizia? È una domanda che non si può liquidare come qualche parola di consolazione, è una domanda che dobbiamo guardare con attenzione”. Il ministro, quindi, ha aggiunto: “Dobbiamo fare di tutto perché il giudice torni ad avere quella statura che la Costituzione gli chiede, nel momento del giuramento. L’articolo 54 chiede disciplina e onore. Sembrano parole d’altri tempi ma oggi sentiamo che abbiamo bisogno di potere identificare dei giudici così”. E non è finita qui. Alla vigilia delle riforme il messaggio della ministra è chiarissimo: “Possiamo discutere su ogni riforma possibile, e lo stiamo facendo. Cambieremo tutto quello che deve essere cambiato. Ma tutto questo, dobbiamo esserne consapevoli, potrà al più aiutare a contrastare le patologie, ma nessuna cornice normativa, per quanto innovativa e radicale, potrà di per sé generare quello stile e quella statura che i cittadini si attendono dal giudice”. Cartabia ha scelto una sede non casuale per la sua analisi: la Sicilia e l’occasione del ricordo che l’Associazione nazionale magistrati dedica a Rosario Livatino, il giudice freddato nel 1990, a 38 anni, da quattro sicari dalla Stidda (individuati e condannati all’ergastolo) e proclamato beato. Un magistrato che senza dubbio ha incarnato le parole della Costituzione che indicano l’obbligo della “dignità e dell’onore”. E infatti la ministra ha citato Livatino come, un “modello di magistrato senza tempo con la sua vita e la sua professionalità, prima ancora che con il suo supremo sacrificio”. Le riflessioni della ministra sul modello Livatino indicano una strada alle toghe di oggi. Lui era “un testimone di giustizia per il suo quotidiano impegno di essere e apparire, sempre, un magistrato degno della toga che indossava”. L’espressione magistrato degno, l’uso dell’avverbio sempre sono assai significative perché la ministra ha inteso ribadire che nessuna legge può imporre uno stile di vita esemplare che deve essere fatto proprio per convinzione profonda. La ministra è tornato ancora su Livatino: “L’indipendenza del giudice è nella credibilità che il giudice riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni e in ogni momento della sua attività”. Infine un ulteriore messaggio alle toghe: “Soppesiamo ogni parola: indipendenza, credibilità, travaglio”. Parole che secondo Marta Cartabia possono essere “una traccia per ripartire dai tanti LIvatino che sono presenti nella magistratura e che operano in silenzio”. Cartabia: “Magistratura in crisi, ci vorrebbero tanti Livatino” di Federico Capurso La Stampa, 21 giugno 2021 La ministra: la riforma della giustizia cambierà tutto ciò che si deve cambiare. Di fronte alla crisi in cui è sprofondata la magistratura italiana, la Guardasigilli Marta Cartabia non si nasconde dietro “parole di convenienza” e invoca la forza dei “buoni modelli”. Se da una parte emergono storture e scandali, dall’altra “si devono valorizzare di più i tanti Livatino in silenzio”, dice dal palco del festival di Taormina Taobuk. Lo rievoca più volte, il pm Rosario Livatino, vittima della mafia e beatificato, durante l’incontro con Benedetta Tobagi sulla giustizia, perché “oggi abbiamo bisogno di identificare giudici così, che esistono in Italia e svolgono una funzione nascosta, ma in modo dedito, con disciplina e onore, e che vengono però travolti e coperti dai fatti più clamorosi”. Tornare a questo esempio, prosegue Cartabia, “è un desiderio che va di pari passo con la fase di crisi che sta attraversando la magistratura. Una crisi di credibilità e soprattutto - ai miei occhi più grave - di fiducia dei cittadini”. Si deve “fare di tutto” aggiunge la ministra, affinché “il giudice torni ad avere quella statura che la Costituzione gli chiede nel momento del giuramento”. Le parole di Cartabia arrivano in un momento delicatissimo per il mondo della giustizia, stretto tra una magistratura lacerata dagli scandali e un grande impianto di riforme pronto ad essere discusso in Parlamento. “Tanto stiamo facendo su mille fronti”, dice infatti Cartabia, e con “diversi cantieri per le riforme, che sono enormi per vastità di materie”. In ballo c’è la revisione del processo penale, con le modifiche alla prescrizione, ma anche la necessità di ripensare il Consiglio superiore della magistratura: “Cambieremo tutto ciò che si deve cambiare sulle sanzioni disciplinari, sui sistemi elettorali, sulle progressioni di carriera”, annuncia con sicurezza Cartabia. Eppure, aggiunge, “siamo consapevoli che tutto ciò che verrà fatto non basterà. Perché c’è bisogno di qualcosa che vada oltre la cornice normativa di come si svolge la funzione giurisdizionale”. Le parole di Cartabia vengono prese come un assist dal segretario della Lega Matteo Salvini, impegnato a presentare con i Radicali i sei referendum sulla giustizia: “Ha ragione il ministro Cartabia, che parla di magistratura in crisi di credibilità e di fiducia - twitta il leader leghista. La risposta possono darla governo e Parlamento con le riforme, e i cittadini con i referendum sulla giustizia”. Ma l’Associazione nazionale dei magistrati, sul tema referendario, continua ad alzare un muro: “Legittimo il quesito, ma temiamo per i diritti dei cittadini”. Nel merito, esprime “forte preoccupazione” per le modifiche in tema di custodia cautelare, di responsabilità civile dei magistrati e di separazione delle carriere: “Rischiano - spiega in una nota l’Anm - di condurre a una magistratura meno indipendente e a un pubblico ministero sganciato dalla giurisdizione e privato dei compiti di garanzia che l’ordinamento gli riserva”. Sabino Cassese: “La magistratura non è una cittadella che si autogoverna” di Stefano Zurlo Il Giornale, 21 giugno 2021 Il giurista: “Un referendum sulla giustizia è costituzionalmente ammissibile”. Non ci sono ancora, ma fanno già litigare. Giuseppe Santalucia, presidente dell’Anm, ritiene che i referendum sulla giustizia siano inammissibili. Professor Cassese, è un no che la convince? Sabino Cassese, uno dei più autorevoli giuristi italiani e giudice emerito della Corte costituzionale, prima di rispondere rilegge con attenzione i sei quesiti lanciati dalla Lega e dal partito Radicale. Dubbi però non ce ne sono: l’articolo 75 della Costituzione stabilisce che non sono ammessi referendum sulle leggi tributarie e di bilancio, sulle leggi di amnistia e di indulto e sulle autorizzazioni a ratificare trattati internazionali. Quindi, un referendum sulla giustizia, o, meglio, su alcuni particolari aspetti dell’ordinamento della giustizia in Italia è costituzionalmente ammissibile”. Ma il presidente dell’Anm sottolinea la coincidenza: si corre verso il referendum mentre il governo sta accuratamente raccogliendo opinioni e proposte sulla giustizia. È implicito un giudizio negativo della Lega sull’esecutivo Draghi di cui pure fa parte? “Non penso che si possa dare questa interpretazione, per due motivi. Il primo motivo è che il proponente, il leader della Lega, ha chiaramente indicato la finalità sollecitatoria che hanno i referendum. Il secondo motivo è che le proposte della Lega si muovono lungo un tracciato che fu individuato a suo tempo dal Partito radicale, quello del ritaglio. Ora, molte delle proposte avanzate in sede referendaria possono coincidere con quelle che matureranno in sede governativa e parlamentare. Bisognerà, a un certo punto, far convergere l’una e l’altra iniziativa riformatrice”. Un’altra critica mossa dal presidente dell’associazione riguarda un profilo più generale: egli sostiene che il tema delle funzioni e delle prerogative della giustizia non si colloca correttamente nella cornice referendaria. Così si mischiano le mele con le pere? “Un approccio di questo tipo mi pare corrispondere a quell’idea sbagliata, che è andata maturando in questi anni, dell’ordine giudiziario e, di conseguenza, della magistratura come una cittadella separata, che si autogoverna. Ora, la Costituzione attribuisce indipendenza all’ordine giudiziario, non conferisce ad esso potere di autogoverno. D’altra parte, il giudice è sottoposto alla legge, il Parlamento è titolare del potere legislativo, il popolo è titolare del potere di deliberare l’abrogazione totale o parziale delle leggi e, se la Costituzione non esclude il referendum abrogativo in materia di giustizia, questo è certamente ammissibile”. In qualunque forma? “I referendum proposti, sul merito dei quali non mi esprimo, vengono incontro a molti temi e proposte che si sono affacciati e sono stati discussi in tutti questi anni, non sono certamente una novità. Sono redatti con la tecnica del ritaglio e quindi operano con il bisturi. Certamente hanno tutti i limiti della funzione puramente negativa tipica dell’abrogazione”. Quindi possono essere la prima parte di un processo riformatore in due tempi? “Non ci si può attendere dai referendum un vero e proprio riordino della giustizia, quel riordino che è certamente necessario. Questo è un altro motivo per il quale il referendum ha una funzione fondamentalmente sollecitatoria”. Bruti Liberati: “Mettere il bavaglio ai magistrati è una lesione dei principi costituzionali” di Liana Milella La Repubblica, 21 giugno 2021 L’ex procuratore di Milano ed ex presidente dell’Anm di Salvini dice: “È spesso in conflitto con i principi acquisiti in Europa”. Il referendum sulla separazione delle carriere? “Solo propaganda, la Consulta lo boccerà”. “Insensato” il quesito sulla custodia cautelare. La responsabilità civile? “Renderà il giudice più timoroso di fronte ai casi difficili” Lei, Edmondo Bruti Liberati, è stato procuratore di Milano, ma anche leader dell’Anm negli anni caldi dello scontro con Berlusconi. Nonché figura di spicco di Magistratura democratica. L’ultimo protagonista ad aver organizzato uno sciopero per garantire l’autonomia delle toghe. Cosa vede adesso? L’Anm, con Giuseppe Santalucia, interviene sui referendum radical-leghisti e subito Matteo Salvini insorge e lo invita al silenzio, mentre il segretario radicale Maurizio Turco chiama addirittura in aiuto Mattarella. Che sta succedendo? “L’Anm ha criticato il metodo e il contenuto dei quesiti referendari preannunciando più articolate osservazioni critiche. È esattamente ciò che prevede il parere del 2020 che porta il numero 23 del Consiglio consultivo dei giudici europei a proposito del “ruolo delle associazioni dei magistrati a sostegno dell’indipendenza della giustizia”. Ciò non è tollerato in paesi come Polonia e Ungheria che hanno pesantemente cercato di limitare l’intervento delle associazioni di magistrati. Non stupiscono, dunque, le reazioni dell’onorevole Salvini, che con i principi acquisiti in Europa ha spesso un rapporto piuttosto conflittuale”. Santalucia fa un’osservazione scontata. Mentre la Guardasigilli Marta Cartabia lavora alle riforme, un partito della stessa maggioranza come la Lega si allea con i Radicali per promuovere sei referendum che chiaramente terremotano le riforme stesse. E Santalucia osserva che se il governo lavora, il referendum è un controsenso. Non è così? “Le commissioni istituite dalla ministra Cartabia hanno prodotto molte proposte che formeranno oggetto di emendamenti. È impensabile che il lavoro del Parlamento si fermi in attesa dei referendum. I progetti di legge saranno discussi nella commissione Giustizia e poi in aula; sulle singole questioni si aprirà un confronto nelle Camere, ma anche nell’opinione pubblica, e in particolare tra i giuristi. Non mancherà certo il contributo, adesivo o critico sulle singole questioni, sia dell’Anm, sia dei singoli magistrati”. Il costituzionalista Cassese oggi dice una cosa scontata, che il referendum è ammissibile. Decideranno Cassazione e Consulta se i sei quesiti proposti lo sono, ma l’Anm e le toghe hanno il diritto di esprimere una “ferma reazione” contro questa iniziativa? “Il referendum, strumento di partecipazione previsto dalla Costituzione, nella sua attuazione pratica ha avuto momenti positivi, e altri meno. Abbiamo avuto quesiti dichiarati inammissibili dalla Corte Costituzionale, altri dichiarati ammissibili hanno trovato ben poco interesse tra i cittadini chiamati ad esprimersi, tanto che non è stato raggiunto il quorum”. Non avverte un vento antidemocratico quando il presidente della commissione Giustizia del Senato, il leghista Ostellari, dice che la “sovranità appartiene al popolo” quasi che i magistrati se ne dovessero stare zitti? “Un’ovvietà dire che la sovranità appartiene al popolo, una preoccupante lesione di principi costituzionali se si volesse mettere il bavaglio all’Anm e ai magistrati. Gli slogan sono facili. Più utile sarebbe misurarsi sul merito delle critiche che vengono avanzate sui quesiti referendari”. Nel merito, lei come giudica i sei referendum? Quale trova più bizzarro? Politicamente appaiono come una provocazione... “Uno dei quesiti proposti, a differenza di altri, è breve e, piuttosto che intervenire con abrogazione di diverse norme o con il ritaglio di pezzi all’interno di singole norme, si traduce nell’abrogazione di poche righe dell’articolo 274 del codice di procedura penale”. Parla di quello sulla custodia cautelare? “Esatto. Non sarà più consentita la custodia cautelare dell’indagato, in carcere e neppure agli arresti domiciliari, quando l’esigenza cautelare fosse determinata “solo” dal “concreto e attuale pericolo che questi commetta” delitti “della stessa specie di quello per cui si procede”. Ipotizziamo il caso dell’arresto in flagranza di un soggetto con diversi precedenti specifici e con non poche probabilità che prosegua nella sua attività criminosa. Il gip convalida l’arresto e dispone l’immediata scarcerazione, non essendovi questioni di inquinamento delle prove o di pericolo di fuga per un soggetto che non avrebbe la possibilità e nemmeno la convenienza di darsi alla latitanza. Il giorno dopo alcuni quotidiani ricorreranno agli sbrigativi titoli “la polizia arresta, i giudici scarcerano”. Altri, con un’analisi più articolata, si chiederanno: “Ma chi mai è stato così insensato da modificare la legge?”. Visto che nella Costituzione è scritto che la magistratura è un corpo unico, che obiettivo ha chiedere agli italiani se vogliono separare giudici e pm? Ci vorrebbe una riforma della Costituzione oggi impossibile... “Il quesito sulla separazione delle carriere consta di 1.069 parole e 7.775 battute, con richiami e ritagli di varie norme. Fa venire il mal di testa anche agli esperti giuristi che ne volessero seguire lo sviluppo. Difficilmente supererà il vaglio di ammissibilità della Corte costituzionale, ma intanto vi è stato l’effetto propagandistico. Già oggi il passaggio di carriera tra giudici e pm è sottoposto a rigidi criteri. Una radicale separazione non solo, ovviamente, non avrebbe alcun effetto sulla celerità dei giudizi, ma, contrariamente a quanto si vuol far passare, determinerebbe una diminuzione, e non un incremento di garanzie. Un pm più “lontano” dai giudici sarebbe ineluttabilmente più “vicino” alla polizia, più sensibile alle pressioni per il risultato immediato da raggiungere con misure cautelari e strumenti di indagine invasivi come le intercettazioni”. Santalucia e l’Anm criticano il referendum che rilancia la responsabilità civile dei giudici. Si può affermare che il quesito è ispirato all’animosità contro le toghe ed esprime la voglia di ridurle più fragili e timorose? “La semplificazione del “chi sbaglia paga” è stata ricorrentemente proposta, ma resta una semplificazione fuorviante. Dieci anni fa un grande professore di diritto civile, Pietro Trimarchi, scriveva: “Se in un sondaggio di opinione si chiede se sia opportuno che il giudice sia tenuto a risarcire i danni che abbia cagionato con una decisone colpevolmente errata, i più risponderanno di sì. ‘Chi sbaglia, paga’, sembra ovvio. Ma che la responsabilità personale del giudice per i danni (problema, si noti, diverso e indipendente dalla responsabilità dello Stato) costituisca uno strumento efficace e opportuno allo scopo, non è affatto ovvio, anzi”. Non saprei dire meglio”. Dunque un quesito persecutorio? “Può essere interessante ricordare che in Francia, dov’è previsto un sistema abbastanza simile al nostro, l’azione di regresso, “action recursoire”, nei confronti del magistrato di fatto non è mai stata esercitata. Una disciplina vendicativa nei confronti del singolo avrebbe il solo risultato di renderlo più timoroso di fronte ai casi difficili, che però sono il pane quotidiano della giustizia. Gli eccessi sulla responsabilità professionale dei medici hanno portato alla medicina difensiva. I magistrati professionalmente attrezzati, quale che sia la futura disciplina, continueranno ad assumersi le loro responsabilità”. Abolire la legge Severino sulla decadenza e incandidabilità di chi ha avuto una condanna oltre i due anni e vuole correre alle elezioni. È una sorta di segnale “libera tutti” che mette nel nulla le decisioni dei giudici? “Qui la scelta del “liberi tutti” è una scelta tutta politica sui requisiti di eleggibilità che non escludono neppure i condannati definitivi per gravi reati. L’importante è che sia esplicitata e che i promotori se ne assumano la chiara responsabilità”. Nordio: “Sì all’abrogazione della Severino: esiste solo per ragioni di demagogia politica” di Simona Musco Il Dubbio, 21 giugno 2021 Intervista all’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio: ll referendum è una buona occasione “per dare uno scossone a questa pergamena marcita che è la giustizia”. Il referendum è una buona occasione “per dare uno scossone a questa pergamena marcita che è la giustizia”. E l’abrogazione della legge Severino non solo è giusta, ma anche necessaria per far ripartire il Paese. A dirlo è Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto a Venezia. Radicali e Lega propongono l’abrogazione della legge Severino. È d’accordo? Sostengo da sempre l’abrogazione di questa legge, che è nata male, in quanto è stata applicata subito nei confronti di Berlusconi in modo retroattivo. E da lì si è vista l’anomalia di questa legge, perché aveva colpito una persona per un fatto commesso prima dell’entrata in vigore della legge stessa. Alle critiche come la mia, si rispose che la sanzione della decadenza dall’incarico pubblico non era una sanzione penale, che come tale sarebbe stata ovviamente irretroattiva, ma e amministrativa. Al che io risposi, e non fui il solo, che si trattava di una risposta ignorante, perché anche le sanzioni amministrative sono irretroattive, come previsto dalla legge del 1989 e anche dal 231 sulle sanzioni amministrative degli enti. Al che si disse che si trattava di una sorta di condizione di permanenza in una carica pubblica e che quindi, non essendo sanzionatoria, poteva essere retroattiva. Ma il punto è che si tratta pur sempre di una norma afflittiva e tutte le norme afflittive seguono il principio dell’irretroattività. Cosa dimostra questo? Che questa legge non è stata fatta dopo una opportuna valutazione tecnica, ma per ragioni di demagogia politica. Ed è nata male come tutte le norme che nascono con questa motivazione. In secondo luogo confligge con la Costituzione, che stabilisce la presunzione di innocenza, dato che è applicabile anche alle sentenze che non sono passate in giudicato. Ma secondo me è anche inopportuna perché ha un effetto deterrente nei confronti di chiunque ambisca a cariche pubbliche. E qui mi aggancio ad un’altra proposta -che non è nel referendum ma io spero che questo o il prossimo governo attui - che è in questo momento invocata dai sindaci, ovvero l’abolizione di reati come l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze, che sono alla base della cosiddetta amministrazione difensiva. È tutto un complesso di norme che secondo me va eliminato, per ridare fiato alla pubblica amministrazione e, quindi, per un’utilità concreta, in vista anche di una ripresa economica del Paese. È la famosa “paura della firma”... Esatto e provoca la paralisi o il rallentamento della pubblica amministrazione per la paura che un domani si possa essere denunciati. I sindaci chiedono da anni questa revisione e se non avviene la pubblica amministrazione non riparte. E se non riparte la pubblica amministrazione non riparte nemmeno l’economia. C’è un discorso concreto e urgente da fare, in vista anche dei soldi che l’Europa dovrà darci con il Recovery Fund. Il referendum, secondo lei, è una buona occasione o ha ragione chi dice che in questo modo il Parlamento viene esautorato? Sulla formulazione tecnica dei quesiti ho qualche dubbio, ad esempio sulla responsabilità civile dei magistrati, ma questi dubbi spariscono o sono superati da un fatto molto più strategico: questo referendum è l’unica occasione per dare un forte scossone al sistema giudiziario italiano che è incancrenito e che questo Parlamento non riuscirà mai a cambiare. Non è un sovrapporsi al Parlamento, è fare ciò di cui il Paese ha bisogno e che il Parlamento non è in grado di fare, perché sulla giustizia penale è dannatamente diviso e, anzi, è dominato da una corrente che potremmo dire “giacobina”, giustizialista. Una maggioranza che probabilmente col prossimo Parlamento cambierà, ma che con questo non è assolutamente in grado e non ha nemmeno intenzione di fare quelle riforme fondamentali, con la revisione totale del nostro sistema, soprattutto penale. E poiché questo governo, anche giustamente, ha delle altre priorità, come la sanità e l’economia, l’urgenza della riforma della giustizia è messa da parte. Quindi manca la volontà politica? Si vede perfettamente che questo Parlamento, al di là delle priorità, le riforme sulla giustizia non le vuole fare, perché si è già diviso su tutte le questioni più importanti.E poiché le riforme sono indispensabili, ma non sono certo quelle proposte da Cartabia, che ha le mani legate dall’esistenza di un Parlamento che non glielo farebbe mai fare, il referendum è l’unica, vera, grande occasione per dare un forte scossone a questa pergamena marcita che è la giustizia italiana, che va rifatta da capo a fondo. Altra cosa è avere dei dubbi, ed io li ho, sulla perfezione tecnica di alcuni quesiti e se devo dirla tutta anche sull’opportunità della responsabilità civile dei magistrati.Perché è inutile colpire un magistrato incapace sul portafoglio, dal momento che è assicurato, va colpito sulla carriera o addirittura sul mantenimento del posto che occupa. Un magistrato che non sa fare il magistrato va cacciato via dalla magistratura. “Responsabilità civile dei magistrati? Non si limita l’autonomia, ma l’arbitrio” di Valentina Stella Il Dubbio, 21 giugno 2021 Intervista al senatore Enrico Buemi sull’iniziativa referendaria di Lega e Radicali: “Serva una riforma seria del Csm non ci sarà una giustizia giusta”. Enrico Buemi, senatore socialista che nella passata legislatura fu primo firmatario e promotore di una riforma sulla responsabilità civile dei magistrati, non ha dubbi nell’accogliere favorevolmente la nuova iniziativa referendaria del Partito Radicale. Ma non basta: per una giustizia giusta occorre riformare seriamente il Csm e la geografia giudiziaria. Lei è d’accordo con il quesito referendario per la responsabilità diretta dei magistrati? Assolutamente sì. Ritengo che la norma in vigore sia comunque frutto di un compromesso che ho dovuto subìre in sede parlamentare nella precedente legislatura. Dal punto di vista dell’agibilità dell’esercizio della responsabilità in senso concreto e rapido è evidente che deve esserci una possibilità di agire direttamente verso il magistrato che ha commesso degli errori, identificati ora nella norma nel dolo o colpa grave. Tuttavia, il magistrato non può essere chiamato a rispondere per la sua attività di interpretazione di norme di diritto o di valutazione del fatto e delle prove... Intanto dobbiamo migliorare la legislazione vigente e quindi la puntualità della norma rispetto alla fattispecie, che è lasciata un po’ troppo a delle discrezionalità. Poi più riusciremo a circoscrivere la discrezionalità del magistrato e più risponderemo alle esigenze di giustizia. Come replicare a chi ritiene che una simile norma mette in pericolo l’autonomia dei magistrati, li intimidisce e li induce a decisioni poco coraggiose? Non c’è limitazione dell’autonomia, bensì dell’arbitrio del magistrato che, non chiamato a rispondere direttamente dei suoi comportamenti, amplia moltissimo l’ambito della sua discrezionalità. D’altra parte le vicende giudiziarie di questi ultimi mesi dimostrano quanto malaffare c’è anche all’interno della magistratura. Cosa ne pensa invece della responsabilità professionale, sponsorizzata molto dall’Unione Camere Penali? I giudizi di merito sui comportamenti dei magistrati devono essere espressi non solo con parametri di tipo politico ma anche valutando concretamente i comportamenti. Per esempio un eccessivo numero di sentenze riformate devono costituire un elemento di valutazione, così come i tempi del procedimento. È vero che ci sono processi più complessi e processi meno complessi, però siamo ben lontani dal principio costituzionale della ragionevole durata del processo. Se un processo si protrae troppo a lungo vuol dire che al suo interno ha degli elementi di inefficienza rintracciabili nel sistema ma anche nel comportamento dei magistrati: spesso non depositano una sentenza in tempi accettabili, oppure si prendono tempi troppo lunghi per la nomina dei periti tecnici. La colpa non può essere sempre del bajon. Nel 1987 l’esito popolare del referendum fu tradito dal Parlamento. Adesso la Lega di Matteo Salvini invece dice che sarà custode dell’eventuale risultato positivo. Lei è fiducioso? Questo è un punto critico: le giravolte della Lega secondo le convenienze politiche del momento sono note e non appartengono solo all’ultimo periodo. Io mi fido molto di più delle posizioni del Partito Radicale e del Partito socialista di cui faccio parte: le battaglie per una giustizia giusta le abbiamo condotte sempre insieme e bisogna continuare a farlo, portando avanti anche altre lotte. Quali? Per esempio quella dell’autogoverno della magistratura. Se non c’è una riforma seria del Csm, non ci sarà possibilità di avere una giustizia giusta. Nella precedente legislatura avevo presentato una proposta che taglierebbe completamente il rapporto tra Anm e Csm, prevedendo un elettorato passivo - delimitato solo dall’anzianità di servizio e dall’assenza di demerito - base per un sorteggio dei membri del Csm. Poi c’è da risolvere il problema della geografia giudiziaria. Anche qui abbiamo una specie di riforma incompiuta che aveva come obiettivo strategico quello di qualificare l’azione dei presidi giudiziari, eliminando delle situazioni ridondanti e nello stesso tempo concentrando le professionalità su tribunali più importanti. Ha avuto però il demerito di trascurare completamente gli elementi della geografia economica, infrastrutturale e delle problematiche giudiziarie penali e civili. In tal senso sono favorevole alla commissione voluta dai Dicasteri del Sud e della Giustizia per essere il più possibile al fianco degli uffici giudiziari del Mezzogiorno. Magistratura, chi sono i non controllori di Guido Neppi Modona Il Riformista, 21 giugno 2021 La legittimazione della magistratura, che nel nostro ordinamento democratico si basa sul consenso e sulla credibilità del corpo giudiziario presso l’opinione pubblica, sta attraversando un periodo molto difficile. Mi limito qui a richiamare quanto è emerso dalla sciagurata vicenda Palamara, che ha svelato in tutto il suo squallore un sistema che ha messo nelle mani delle correnti tutto ciò che riguarda lo stato giuridico dei magistrati. Assegnazione della sede, trasferimenti, promozioni, incarichi direttivi, applicazioni presso istituzioni e uffici esterni alla magistratura sono stati lottizzati sulla base di una logica spartitoria a seconda dell’appartenenza alle varie correnti, attraverso un sistema di raccomandazioni e di scambi di favori a cui hanno dovuto sottomettersi molti, troppi magistrati per perseguire le loro legittime aspettative di carriera. Di questa brutta storia, documentata nel libro-intervista rilasciata da Palamara a Alessandro Sallusti, si è già molto parlato. Oggi intendo occuparmi, senza entrare nei particolari dei singoli casi, di come sia stato possibile che alcuni organi giudiziari monocratici, quali sono i pubblici ministeri e i giudici per le indagini preliminari, abbiano impunemente svolto in modo improprio le loro funzioni, senza alcun intervento dei titolari degli organi di supremazia e di controllo. Mi riferisco, evidentemente, ai capi dei rispettivi uffici, al Consiglio Superiore della Magistratura (Csm), al ministro della Giustizia. Nel corso delle vicende che hanno turbato il normale funzionamento della giustizia abbiamo registrato dei grandi assenti, a seconda dei casi i procuratori della Repubblica presso i tribunali e i procuratori generali presso le Corti di appello, i presidenti dei tribunali e delle Corti di appello. Salvo il caso della tragedia della funivia del Mottarone, in cui è stata la stessa procuratrice della Repubblica di Verbania a esser messa in discussione, nelle altre vicende non mi risulta che siano intervenuti i capi degli uffici. E proprio di loro vorrei occuparmi. L’organizzazione delle attività svolte dai giudici dei tribunali non spetta, come nel passato, ai capi dei rispettivi uffici, che decidevano discrezionalmente come distribuire le funzioni e i casi ai singoli magistrati, ma è sorretta dal principio costituzionale del “giudice naturale precostituito per legge”. In base a questo fondamentale principio, posto a tutela dell’indipendenza e dell’imparzialità del giudice, i magistrati sono assegnati alle diverse funzioni secondo il cosiddetto sistema tabellare. Il capo dell’ufficio predispone ogni tre anni piani organizzativi circa la distribuzione delle funzioni e del lavoro tra i giudici, che vengono sottoposti alla valutazione degli stessi magistrati e del consiglio giudiziario del distretto di corte di appello prima di essere inviati per l’approvazione del Csm. Si formano così le “tabelle” che stabiliscono secondo criteri obiettivi e predeterminati le funzioni e i casi di cui sarà titolare ciascun giudice, che diviene così il “giudice naturale precostituito per legge”, che non può essere sostituito se non nei casi tassativamente previsti dalla legge. Al riguardo, è presumibile che la giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Verbania sia stata legittimamente sostituita perché secondo le “tabelle” il disastro della funivia spettava alla collega che era il giudice naturale precostituito per legge, mentre la giudice che aveva preso in esame la convalida dei fermi era intervenuta essendo quel giorno di turno per gli affari urgenti. Del tutto intempestivo è stato quindi l’intervento dell’Unione delle Camere Penali Italiane, che ha denunciato la gravissima violazione del principio del giudice naturale, senza verificare quali fossero secondo le tabelle i rapporti tra i due giudici del Tribunale di Verbania. Meno rigide sono invece le tabelle relative agli uffici del pubblico ministero: il procuratore della Repubblica può infatti revocare, con provvedimento motivato e ricorribile al Csm, la delega per i casi che erano stati discrezionalmente assegnati ai singoli sostituti procuratori. Da questo quadro emerge la grande importanza che assume il ruolo del capo dell’ufficio, sia esso il presidente del tribunale o il procuratore della Repubblica, ai fini del buon funzionamento della giustizia in casi di particolare gravità e complessità quale è appunto la tragedia della funivia del Mottarone. Il giudice “naturale precostituito per legge” a cui secondo le tabelle è assegnata la pratica dovrebbe essere opportunamente affiancato dal presidente del tribunale o da altro magistrato da lui designato; nel caso della funivia del Mottarone par di capire che titolare dell’inchiesta fosse la stessa presidente del piccolo Tribunale di Verbania e forse allora sarebbe spettato al presidente della Corte di Appello di Torino affiancarle a titolo di sostegno altro magistrato temporaneamente applicato da altra sede. Più semplice invece, come abbiamo già visto, la situazione degli uffici della Procura, ove non vige il principio del pubblico ministero naturale precostituito per legge. Qui il procuratore della Repubblica può discrezionalmente assegnare la pratica al sostituto procuratore che ritiene essere più adatto per quel determinato caso, ma anche in tale contesto nei procedimenti di particolare gravità il capo dell’ufficio dovrebbe sempre affiancare in prima persona il sostituto procuratore, fermo restando il suo potere di delegare altro o altri sostituti e di revocare quello già nominato. Vi sono dunque tutte le premesse perché le indagini sulla tragedia del Mottarone, particolarmente difficili e complesse sia per l’accertamento delle cause tecniche del disastro, sia per l’individuazione degli imputati cui attribuire la responsabilità a titolo di colpa, procedano sollecitamente, rispondendo al prepotente bisogno di giustizia dei parenti delle vittime e di sicurezza dell’opinione pubblica. Anticorruzione, con Busia è finita la caccia alle streghe di Aldo Torchiaro Il Riformista, 21 giugno 2021 La relazione annuale dell’Anac, presentata alla Camera dal presidente, Giuseppe Busia, trova in ascolto parlamentari ben diversi da quelli che la avevano accolta un anno fa. I nomi degli eletti sono gli stessi, certo; ma sono cambiate le collocazioni, i posizionamenti, le strategie. L’ampia maggioranza si ammanta oggi del vestito liberale e europeo tornato di gran moda con Draghi. Ed ecco che i toni dell’Autority si fanno sfumati, le ragioni dell’impresa più sonore, più accomodanti le risposte della politica. Si ribalta il modello dell’epoca che fu. “Archiviano Cantone”, titola un’agenzia. Andiamoci piano. Però la nuova Anac vuole rimangiarsi un po’ la storia da “mani di forbice”, da grande censore contabile, quando non etico, di appalti e subappalti, accordi e disaccordi. Si parte dall’assunto con cui viene presentata la mission di Anac per il futuro: assistere la Pubblica amministrazione nello spendere meglio, indica gli standard di spesa, le condizioni ottimali. Indica, tutela, non vieta e non condanna. Il presidente Busia vuole chiudere la stagione della caccia alle streghe e accompagnare quella del Recovery senza porsi ad ostacolo. Lo scandisce in aula: “Lungi dall’essere un freno all’attività amministrativa, l’Anac, al contrario, fornisce supporto e assistenza, aiuta le stazioni appaltanti ad utilizzare correttamente le risorse pubbliche e a risparmiare, acquisendo beni e servizi migliori per la stessa amministrazione e i cittadini”. La nuova linea riceve applausi da tutti, o quasi. Vanno semplificate le procedure, accelerate le assegnazioni, incentivati gli affidamenti diretti quando le opere sono urgenti, come insegna il modello Genova. Si immagini il parere di Cantone o quello di Davigo su questo punto. E si paragoni con Busia, ieri in aula: “Si deve guardare con favore l’indicatore in termini di incremento degli affidamenti”. Il dato c’è. “Spicca l’aumento del 242% dell’affidamento diretto di lavori fino a 150 mila euro registrato nel secondo semestre del 2020. Tale tendenza potrebbe essere addirittura accentuata a seguito dell’emanazione del decreto legge Semplificazioni-governance, che ne estende la portata per i servizi e le forniture entro la soglia di 139 mila euro fino al 30 giugno del 2023”. E risuona: “Guardiamo con favore”. Applausi. I più riottosi sono seduti al centro, sui banchi a Cinque Stelle. Eletti per fare i corsari antisistema, si trovano Conte e Di Maio a imboccare l’inatteso tornante della storia che li proietta sulla strada incognita dei “liberali moderati e garantisti”. Roberto Fico, padrone di casa, deve togliersi dall’incomodo: “La necessità di una semplificazione del quadro normativo, relativo ai controlli e alle procedure per gli appalti, è innegabile. L’eccessiva complessità degli strumenti esistenti genera infatti oneri per imprese e cittadini e ritardi nella realizzazione di opere pubbliche. Tuttavia ciò non implica affatto la cancellazione dei controlli preventivi di legalità; essi vanno piuttosto snelliti, resi più rapidi, anche utilizzando le potenzialità della digitalizzazione, ed adattati ai diversi contesti, ad esempio alla dimensione dell’ente vigilato”. Poi Fico lancia un numero: “Mi ha impressionato sapere che nel 2020 ci sono stati 1700 richieste di parere rivolte ad Anac”. Troppe, ne conviene. E via alle reazioni dell’aula che risponde consonante, distesa, positiva, mai tanto collaborativa con il mondo dell’impresa e della pubblica amministrazione che la grande muraglia dell’anticorruzione teneva a distanza di sicurezza. Giuseppe Busia dice al Riformista: “La discrezionalità amministrativa è, e deve rimanere, una componente essenziale dell’attività contrattuale pubblica. Perché possa essere esercitata correttamente, richiede, però, stazioni appaltanti adeguatamente strutturate e dotate di elevate competenze specialistiche. La perdurante assenza delle stesse è invece fonte di ritardi e di sprechi, anche quando non sfocia in fenomeni corruttivi”. Gli chiediamo conto di quanti temono di approvare un provvedimento che forse costerà loro una bella indagine per abuso d’ufficio, quando non di più. “In tempi di emergenza - ci risponde Busia - si è inteso ovviare alla cosiddetta “paura della firma” circoscrivendo eccezionalmente il perimetro del danno erariale. Il perpetuarsi di tale scelta normativa è il risultato di un doppio fallimento: da un lato, l’assenza di disposizioni sufficientemente chiare per definire correttamente l’ambito nel quale può e deve esercitarsi la discrezionalità amministrativa. E, dall’altro, ancora una volta, l’assenza di competenze adeguate nella pubblica amministrazione, indispensabili per esercitare in modo responsabile tale discrezionalità”. Come uscirne, dunque? “L’Autorità ha formulato alcune proposte per bilanciare opportunamente qualità, trasparenza e rapidità di azione, concentrandosi soprattutto su digitalizzazione dei contratti pubblici e qualificazione di stazioni appaltanti e imprese”. I dati sul whistleblowing parlano chiaro: il provvedimento su cui M5S aveva tanto insistito si è rivelato un flop totale. Le segnalazioni sono in calo del 28,7% rispetto all’anno scorso, oltre il 90% di quelle processate sono archiviate o ritenute “prive di affidabilità”. Gli ex giacobini si guardano smarriti. Poi, timidamente, qualcuno ritrova l’iniziativa: “Beh, potremmo candidare l’Italia a ospitare l’autorità Antiriciclaggio”, dice in aula la grillina Francesca Galizia, capogruppo in commissione politiche Europee. Ottima idea, Beppe Sala però aveva già offerto gli spazi a Milano due settimane fa. No alla giustizia dell’emotività di Annamaria Bernardini De Pace La Stampa, 21 giugno 2021 Il gruppo aveva agito “con pervicacia, crudeltà e disinvoltur” senza “alcuna remora” nel portare a termine stupro e omicidio. Il branco era composto da quattro africani, che avevano circuito Desirée Mariottini, le avevano ceduto e somministrato sostanze stupefacenti e psicotrope, per poi violentarla e lasciarla morire. È più che naturale che la madre, alla lettura della sentenza, che ha inflitto a due l’ergastolo e agli due 27 e 24 anni di galera, abbia detto “non è stata fatta giustizia”; tanto più che per uno di loro c’era la possibilità di tornare libero. Io penso che qualsiasi genitore cui sia stato ucciso, peraltro così ferocemente, un figlio, nel proprio intimo vorrebbe perfino vedere morti gli assassini e valuti qualsiasi pena del tutto inadeguata all’orrore commesso e al proprio infinito dolore. A meno che, quel genitore, non sia un santo o quantomeno profondamente religioso. Poi, tutti i giornali hanno riportato che la madre si è sentita “rasserenata” dal sapere che non era più tornato libero il delinquente che sembrava colpito da improvvisa fortuna per un’insperata uscita dal carcere. Noi cittadini, peraltro, non riusciamo mai a capire che cosa sempre succeda tra magistratura inquirente e magistratura giudicante, e perché ogni volta ci debbano confondere con i loro dissidi, gli equivoci, le prese di posizione, gli aggiustamenti dell’ultimo minuto. Ecco, forse da qui parte la grande sfiducia che tutti abbiamo nella giustizia e nei magistrati e che ci impedisce di accettare con rispetto qualsiasi sentenza. Errori giudiziari, imprecisioni, distrazioni, lentezze, competizione tra giudici indolenti e procure insolenti; poteri esagerati dei pubblici ministeri, anche come raccontati da Palamara, perché insiti nelle modalità elettive del Csm. Siamo tutti noi i primi a criticare e disperarci per l’involuzione della giustizia, che in un paese civile dovrebbe essere inattaccabile. E possiamo mai criticare una madre che dice, con il cuore grondante di disperazione, “non è stata fatta giustizia “? No certamente; però la stampa non può fare da eco acritica a questa istintiva reazione. Non c’è dubbio che l’incarcerazione degli assassini di Desirée risponda a esigenze di tutela concreta della collettività. D’altra parte, come potrebbe la collettività non temere chi pronuncia frasi come: “meglio lei morta che noi in galera”? Nessuna empatia, peraltro, per la vittima da parte dei carnefici; i quali ora devono andare in carcere e ivi trattenersi il più a lungo possibile. Nel rispetto della legge. L’unica persona che può augurarsi, oggi, una pena senza fine per i carnefici di Desirée è la sua mamma. La collettività, invece, non deve identificarsi nel dolore di una madre, ma nello Stato. Confidando, però, che i nostri giudici possano giudicare con razionalità e nel rispetto della legge. Mai con la pancia. Mi piace ricordare un’espressione intelligente di un grande magistrato, Giacomo Ebner, che ha notato una cosa sfuggita ai più: “nella parola legalità è inclusa quella di lealtà”. I giornalisti devono avere una preparazione etica e culturale, e anche giuridica se si occupano di cronaca giudiziaria; il che, potrebbe evitare il loro, per quanto generoso, asservimento alle parole di una madre inconsolabile e ormai sperduta nella vita. Giornalisti preparati, e non ipnotizzati dalle reazioni emotive, avrebbero potuto e dovuto spiegare che la legge non misura la sanzione in rapporto al dolore della vittima, o dei parenti della vittima. Questo, se mai, può valutarlo una sentenza civile nell’eventuale successiva causa di risarcimento del danno morale ed esistenziale. Ma anche qui, senza reale proporzione tra danno e dolore. Giornalisti preparati avrebbero, quindi, dovuto chiarire ai loro lettori, o ascoltatori, che la pena conseguente a un reato si misura partendo dalle previsioni del codice, passando dalle richieste del Pm, attraversando il contraddittorio processuale, e quindi dando spazio alla difesa, per arrivare al libero convincimento dei giudici; che è basato naturalmente anche sulla verità processuale, cioè sulle prove munite di dignità e non solo sui fatti in sé. Così facendo, nessun articolo e nessun pezzo raccontato avrebbero mai potuto contenere la forza polemica del giustizialismo fine a se stesso, se non destinato pericolosamente a influenzare l’opinione pubblica. Mettere in primo piano il dolore e la condivisibile rabbia di una madre, abbattuta dallo schifoso e inqualificabile comportamento di quattro criminali, fa però più scena del razionale ragionamento sulla misura della pena in rapporto al reato. Purtroppo, credo che continuando a fare così, cioè ragionando non sul funzionamento tecnico della giustizia, bensì enfatizzando le emozioni negative, il sistema giustizia sia condannato all’ergastolo della confusione e dell’inadeguatezza. Senza alcuna possibilità di sconto della pena che noi cittadini dobbiamo pagare. L’imputato ai domiciliari ha diritto di essere tradotto in udienza anche in assenza di sua richiesta? quotidianogiuridico.it, 21 giugno 2021 La parola alle SS.UU.. Cassazione penale, Sez. VI, ordinanza 11 giugno 2021, n. 23147. Pronunciandosi sul ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato il giudizio di condanna espresso in primo grado nei confronti di un imputato, evaso dagli arresti domiciliari senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria, la Corte di Cassazione penale, Sez. VI, con l’ordinanza 11 giugno 2021, n. 23147 - nell’esaminare il primo motivo di ricorso proposto dalla difesa che si era doluta per la mancata traduzione del proprio assistito all’udienza di primo grado, in quanto all’epoca detenuto agli arresti domiciliari, per non aver egli chiesto di essere tradotto - ha preso atto dell’esistenza di un contrasto giurisprudenziale in materia, ed ha conseguentemente deciso di rimettere alle Sezioni Unite penali la seguente questione giuridica controversa: “Se la detenzione dell’imputato agli arresti domiciliari per altra causa, sopravvenuta nel corso del processo, integra un’ipotesi di legittimo impedimento a comparire, precludendo la celebrazione del giudizio in assenza, anche quando risulti che l’imputato medesimo avrebbe potuto informare il giudice del sopravvenuto stato di detenzione in tempo utile per la traduzione”. Taranto. Covid, sale a 40 il numero dei detenuti contagiati di Nazareno Dinoi lavocedimanduria.it, 21 giugno 2021 Era salito a quaranta ieri, ma mancavano ancora altri risultati dei tamponi, il numero dei detenuti del carcere di Taranto contagiati dal coronavirus. E con i numeri cresce anche il nervosismo nella popolazione carceraria, reclusi e personale di custodia compresi, alle prese con quella che per il Sappe, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria, è “una pentola a pressione che potrebbe esplodere con effetti devastanti”. E non solo da punto di vista sanitario. Anche ieri nei corridoi del penitenziario tarantino ha echeggiato il sinistro rumore della “battiture”, la caratteristica protesta dei detenuti che battono ritmicamente oggetti di metallo contro le sbarre. Preludio spesso di vere e proprie ribellioni. Le famiglie, alle quali sono stati sospesi i colloqui, cercano di informarsi attraverso i propri avvocati che a loro volta si rapportano con gli uffici di direzione. Le notizie che filtrano non raccontano niente di buono perché quello che si temeva è avvenuto. Il virus ha infatti oltrepassato la sezione di massima sicurezza, dove è nato il cluster, raggiungendo altri tre reparti del penitenziario. Tra gli infettati anche alcuni lavoranti, detenuti impiegati nelle mansioni di manovalanza interna, tra cui gli addetti alle cucine. Per questo la direzione del carcere ha sospeso la preparazione dei pasti caldi somministrando ai detenuti solo piatti pronti. Ieri si è inoltre saputo che un detenuto che era rientrato da un permesso premio ha presentato i sintomi dell’infezione e dal test è risultato positivo. C’è quindi il sospetto che il virus se lo sia portato dall’esterno. Il dipartimento di prevenzione della Asl non fornisce informazioni sulla tipizzazione del virus per cui non è dato sapere se si tratti di una delle varianti resistente al vaccino. Quasi tutti i contagiati sono stati vaccinati con la prima dose, alcuni nemmeno quella. La direttrice del carcere, Stefania Baldassarre, cerca di circoscrivere il contagio separando i positivi dai contatti diretti man mano che si scopre la loro positività. Compito non facile in una struttura nata per contenere la metà delle persone attualmente ospitate. La soluzione proposta, per la quale si attende l’autorizzazione degli uffici preposti, è quella di occupare la nuova ala realizzata di recente per duecento posti. “Al momento non vedo altre soluzioni”, afferma la direttrice Baldassarre infastidita da voci che la davano dimissionaria. “Chi mi conosce - dice - sa bene che non abbandonerei mai il mio posto nei momenti di difficoltà come questo”. Gli attivisti e le attiviste dell’associazione tarantina “Marco Pannella” chiedono di poter effettuare die sopralluoghi nel penitenziario e denunciano la mancanza di medici e infermieri messi a disposizione dalla Asl “che hanno costretto persino il dirigente sanitario a dare le dimissioni perché - si legge in una nota -, non riusciva a coprire con quattro medici il fabbisogno che la pianta organica stabilisce in undici”. Solo ieri dall’azienda sanitaria ionica è arrivata una prima risposta con l’assegnazione di due medici all’infermeria del carcere. Il sindacato Sappe, che si chiede perché l’amministrazione penitenziaria a livello centrale e regionale non abbia inteso avviare un massiccio programma di sfollamento di detenuti negativi nelle regioni limitrofe, invita la magistratura di Taranto ad aprire un fascicolo per verificare la correttezza di tutti i provvedimenti adottati da vari enti coinvolti al fine di ricercarne le effettive responsabilità”. Padova. Esce dal carcere e muore da clochard di Enrico Ferro e Felice Paduano Il Mattino di Padova, 21 giugno 2021 Abdel Majid Mabchour era accusato di un delitto del 2006. L’amico: “Da giorni diceva di avere male al petto”. Una persona è stata trovata morta ieri mattina sotto un grande albero di cedro, all’interno del giardino dove una volta c’era il collegio per le universitarie Domus Laetitiae. Era un uomo senza casa che dormiva lì da alcuni giorni, avvolto in una coperta, accanto a un suo connazionale. Si tratta di Abdel Majid Mabchour, 45 anni, marocchino, uscito dal carcere lo scorso 3 giugno dopo aver trascorso anni dietro le sbarre con l’accusa di omicidio. Anche in base alla testimonianza del connazionale Said Ellehasz, originario di Casablanca, il marocchino deceduto nel corso della notte, che sul corpo non presentava segni di violenza, sarebbe morto in seguito ad un attacco cardiaco. I primi a notare qualcosa di strano sono stati i fedeli che ieri mattina si sono presentati a messa. Verso le 9.30 una parrocchiana ha chiamato il parroco Fernando Spimpolo. In quel frangente si sono resi conto che l’uomo sotto la coperta era morto, così sono stati chiamati i carabinieri. Durante l’omelia don Fernando ha ricordato il dramma che si può celare nella precarietà della vita. Nel borsello della vittima è stata trovata una tessera magnetica che vale come riconoscimento alle cucine popolari di via Tommaseo, con la foto e il nome di Abdel Majid Mabchour. È bastato inserire le sue generalità nella banca dati interforze per scoprire che si trattava dell’uomo accusato di essere l’assassino di Francesco Sarno, il cameriere napoletano ucciso a bastonate sul lungargine del Piovego il 10 ottobre 2006. Un altro marocchino, Alì Samir, era stato erroneamente condannato a 23 anni per questo delitto, perché assomigliava in tutto al connazionale Abdel Majid Mabchour, che poi ha confessato di essere stato presente quando venne pestato a morte il cameriere. Mabchour si trovava sul lungargine del Piovego assieme al connazionale Mourad Assal. A suo dire fu quest’ultimo ad aggredire Sarno che “non voleva fare cambio dell’eroina con la cocaina”. Allora lo colpì “con un bastone ed una pietra”. Una versione ritenuta dal giudice edulcorata per “arginare il proprio ruolo alla mera presenza sul luogo”. Questo non gli ha evitato oltre dieci anni di carcere, da cui era uscito solo il 3 giugno scorso. Il sostituto procuratore di turno Roberto D’Angelo ha già disposto l’autopsia per accertare le cause della morte. Milano. Detenuti e familiari delle vittime sul palco, il carcere torna a parlare al mondo di Paolo Foschini Corriere della Sera, 21 giugno 2021 Una serata-concerto a Parabiago, nell’hinterland milanese, con i detenuti ed ex detenuti del Gruppo della Trasgressione attivo da oltre vent’anni soprattutto nel carcere di Opera, ma anche con alcuni familiari di vittime della criminalità. Le canzoni di Fabrizio De André, arrangiate ed eseguite dalla Trsg.band, gli interventi dei detenuti con una “finestra” sulla vita del Gruppo della Trasgressione. Ma anche la partecipazione di alcuni familiari di vittime della criminalità, che con l’associazione collaborano da anni incontrando in carcere gli autori di reati anche gravissimi per sostenerli nel loro percorso di recupero. Il mondo del carcere torna a “parlare” direttamente con l’esterno, dopo un anno e mezzo di isolamento totale segnato da rarissime eccezioni, e lo fa con un concerto a Parabiago, nell’hinterland milanese che avrà luogo giovedì 24 giugno alle 21 al campo sportivo “Nino Rancilio”. Molto più di un concerto in realtà. Un segno. “Il concerto - spiega in effetti lo psicologo Juri Aparo, fondatore del Gruppo della Trasgressione e tuttora suo coordinatore - mescolando canzoni di Fabrizio De Andre? con interventi di detenuti ed ex detenuti che hanno effettuato un lungo percorso col Gruppo stesso, punta principalmente ad attivare il dialogo fra detenuti e collettività: parti che quando rimangono sorde l’una all’altra generano conflitti e contrapposizioni, che alla distanza e a loro volta producono malessere nel singolo e danni alla società”. La serata di Parabiago ha per titolo “Occhi grandi color di foglia”, quel verso di Via del Campo che sintetizza il tipo di sguardo necessario a cogliere e far germogliare le relazioni tra persone anche quando sono vicinissime, come una puttana e una bambina, l’innocenza e il peccato, la parte scura e la parte chiara di noi. “La serata - prosegue Aparo - proporrà? poi una dozzina di canzoni in risposta alle quali i detenuti del Gruppo della Trasgressione consegnano al pubblico le loro antiche fragilità, per molto tempo negate e oggi in cerca di una funzione grazie alla quale diventare risorse per la citta: storie di vita vissuta, di degrado e di criminalità, ma anche storie di persone che, dopo anni di introspezione e di lavoro sui propri errori, partecipano oggi a progetti in favore del bene collettivo che in passato era stato gravemente offeso”. E lo psicologo chiude: “Studiare e lavorare con i detenuti, alla distanza, giova alla società più che lasciarli isolati fra le sbarre del carcere”. Viterbo. L’agricoltura sociale nel carcere: il progetto “Semi Liberi” in un incontro web di Benedetta Ferrari etrurianews.it, 21 giugno 2021 Il “cibo come strumento di reinserimento sociale” se ne parlerà nell’ incontro on line del Polo universitario penitenziario di Roma. Il Polo Universitario Penitenziario di Roma Tre e il Corso di Laurea in Scienze e culture enogastronomiche in collaborazione con il Dipartimento di Scienze e la Cooperativa agricola sociale O.R.T.O. una realtà attiva nel territorio della provincia di Viterbo, promuovono un incontro-dibattito in modalità a distanza, mercoledì 23 giugno dalle ore 15:00 alle ore 18:30. L’occasione è offerta dalla presentazione del progetto “Semi-Liberi. Agricoltura sociale in carcere” avviato nel 2017 dalla Cooperativa O.R.T.O. presso la Casa Circondariale di Viterbo. Questa importante esperienza offrirà lo spunto per una tavola rotonda che si annuncia di grande interesse. Un dibattito aperto per parlare di rieducazione e inserimento lavorativo delle persone private della libertà. Come sta cambiando l’attività rieducativa? È possibile trasformare un istituto di pena in luogo di costruzione di benessere? La produzione di eccellenza artigianale e agro-alimentare può essere un esempio di innovazione al servizio della collettività e di percorso rieducativo per i detenuti? Come può un consumatore essere attore dei percorsi di innovazione agricola e sociale? L’Università Roma Tre sarà rappresentata dal Prof. Giancarlo Monina, Delegato del Rettore per la formazione universitaria negli Istituti penitenziari, e dalla Prof.ssa Livia Leoni, coordinatrice del Corso di Laurea in Scienze e culture enogastronomiche, mentre il Presidente della Cooperativa O.R.T.O. Dott. Marco Di Fulvio illustrerà le caratteristiche del progetto. Alla tavola rotonda, moderata dallo scrittore Carmelo Musumeci, parteciperanno Daniela de Robert del Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale; Natalina Fanti, Responsabile Servizi Educativi della Casa Circondariale di Viterbo; Oscar La Rosa, CEO di “Economia Carceraria” e Tony Urbani, Ricercatore dell’Università della Tuscia. L’incontro proseguirà con il contributo di Benedetta Calabresi, ex studentessa di Scienze e culture enogastronomiche e autrice della tesi “Il cibo come strumento di reinserimento sociale” e le testimonianze di Imma Carpiniello, CEO della Cooperativa Le Lazzarelle di Pozzuoli, e Agnese Inverni, Tutor del progetto “Semi Liberi” presso la serra della Casa Circondariale di Viterbo. Concluderà l’incontro il Presidente Marco di Fulvio. Il progetto “Semi Liberi” - Attivo dal 2017 per la rieducazione e il reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti sostenuto da volontari che promuovono un modello di agricoltura che sia sempre più ecosostenibile ed inclusiva. Oltre a fornire strumenti formativi per i detenuti, ha la peculiarità di voler produrre alimenti particolari - i germogli di piante commestibili a elevato valore nutritivo - all’interno di un luogo che per vocazione non richiama i concetti di “benessere e salute”. Voghera (Pv). Il jazz entra in carcere, oggi concerto dedicato alle donne La Provincia Pavese, 21 giugno 2021 Un’occasione per uscire dalla routine della detenzione, per trascorrere qualche ora di normalità e per viaggiare lontano, anche se solo metaforicamente: va in scena lunedì alle 17 nel teatro della Casa Circondariale di Voghera la “Festa della Musica 2021”. Quest’anno il programma verterà sul jazz, che i detenuti potranno ascoltare dalla cantante Martha J., dal pianista Francesco Chebat, dal sassofonista Claudio Chiara, dal contrabbassista Roberto Piccolo e dal batterista Stefano Bettoli. Filo conduttore dello spettacolo sarà la sensibilità femminile, con brani interpretati o scritti da artiste come la compositrice Bernice Petkere e la paroliera Dorothy Fields. “Non mancheranno in scaletta - dice la direttrice Stefania Mussio - alcune canzoni italiane interpretate da Mina, per l’occasione in arrangiamento jazz. L’arte in generale - aggiunge la direttrice - serve a stimolare miglioramento, perché permette di apprezzare la bellezza. Tra gli strumenti culturali a nostra disposizione noi abbiamo scelto la musica, capace di favorire legami e far viaggiare con la mente verso mete inaspettate. Vivere quest’esperienza artistica sarà, dunque, una reale opportunità per l’arricchimento dell’animo e la crescita di pensieri costruttivi”. La casa circondariale di Voghera non è certo nuova ai programmi culturali, e da anni propone infatti al suo interno non solo concerti, ma anche corsi di arte e di teatro il cui scopo è quello di aiutare i detenuti ad esprimersi, sviluppando al contempo nuovi e sani interessi e a migliorando la loro permanenza nella struttura di via Prati Nuovi. Napoli. Detenute carcere Pozzuoli si riscattano con la musica anteprima24.it, 21 giugno 2021 Spettacolo musicale per nove donne recluse nell’istituto puteolano. Il Garante campano delle persone private della libertà personale Samuele Ciambriello ha promosso con l’associazione culturale Ad alta voce, presieduta dal maestro Carlo Morelli un progetto caratterizzato da diversi incontri di attività musicali e teatrali, svolti nel carcere di Pozzuoli, che terminerà con una manifestazione musicale domani alle ore 11 nel carcere femminile flegreo. Per l’evento 9 detenute, preparate da Morelli, da Serena Matrullo e Luigi Nappi si esibiranno in brani del repertorio della classica canzone napoletana. L’associazione culturale da anni collabora con il professore Ciambriello “per portare la cultura della bellezza nelle carceri, nella convinzione che le arti possano salvare le persone dall’abbruttimento e dal degrado delle periferie”. Nel 2017 l’associazione ha avuto in comodato d’uso dal cardinale Crescenzio Sepe la monumentale Chiesa di San Potito, sita in via Salvatore Tommasi a Napoli nella speranza di farla ritornare ai fasti di un tempo. Nello stesso anno l’associazione ha ottenuto l’accreditamento dalla Regione Campania per l’erogazione di corsi di formazione che consente alla stessa lo sviluppo professionale dei giovani stimolando la loro crescita cultura personale e professionale. Le Rsa non possono diventare luoghi di internamento di Mauro Palma* La Stampa, 21 giugno 2021 La persona ospitata in un Servizio psichiatrico di diagnosi e cura - la quale è spesso di fatto privata della libertà - ha diritto a vedere inserita questa sua peculiare situazione nel contesto di un piano trattamentale che sia orientato al massimo recupero dell’autodeterminazione che la propria situazione soggettiva gli consente, con tappe e strumenti che non prevedano un periodico ricorso routinario a questa ospedalizzazione. La stessa tensione al potenziamento di ogni pur limitata e residuale possibilità di scegliere e orientare il proprio tempo deve caratterizzare l’ospitalità di chi è accolto in residenze per anziani o per disabili, scongiurando in modo assoluto la possibilità di traduzione di questa sua specifica collocazione in una forma di internamento (...). Voglio qui condividere soltanto tre o quattro osservazioni per formulare una richiesta al Legislatore. La prima riguarda l’arretratezza dei dati disponibili - gli ultimi forniti dall’Istat sono del 2018. La seconda riguarda la classificazione delle strutture per disabili che scompaiono quando le persone compiono il sessantacinquesimo anno di età, poiché da quel momento le residenze sono classificate “per anziani” e l’analisi dei bisogni e dell’adeguatezza delle risposte alle relative specificità spariscono. La terza riguarda la disomogeneità territoriale: il numero di posti letto disponibili in tutto il Sud è circa la metà di quello relativo alla Lombardia (…). È doverosa una complessiva riflessione sul sistema in sé delle residenze sanitarie assistenziali che sono nella maggior parte dei casi strutture private accreditate; nonché sui criteri di accreditamento, che proprio perché calibrati sull’organizzazione a stanze e numero di letti, a cui si aggiunge qualche ambiente comune, hanno finito col configurare l’impossibilità di attività comuni per il rischio di contagio (...) dove il letto diveniva il “luogo” della giornata (...). Molte volte il Garante nazionale ha sollecitato la loro controllata apertura in sicurezza e troppo spesso le indicazioni in tal senso date dal Ministero della Salute risultano tuttora disattese regionalmente perché affidate alla discrezionalità del gestore. Con danni importanti di regresso cognitivo nel caso di utenti con specifiche disabilità. Da qui la duplice proposta: dell’avvio di una riflessione ampia sulla risposta istituzionale alle fragilità dovute all’età, alle disabilità, più in generale ai particolari bisogni specifici, che riconfiguri l’attuale modello; e, parallelamente l’istituzione di un registro nazionale effettivo che possa dare con continuità un quadro delle situazioni e indichi come e dove intervenire, supportando, controllando, rivedendo ove necessario, convenzioni anche talvolta di antica tradizione. *Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale La pandemia ha ridotto la disponibilità ad accogliere i rifugiati di Chiara Cardoletti Il Domani, 21 giugno 2021 Le popolazioni civili, inclusi i più vulnerabili, donne e bambini, disabili, anziani, hanno continuato a fuggire, senza avere alternative, alimentando una tendenza alla crescita del numero di persone costrette ad abbandonare le proprie case che non accenna a diminuire da quasi dieci anni. La popolazione delle persone in fuga è ampia e rappresenta l’1 per cento dell’umanità. Se questi 82 milioni di persone formassero una nazione, sarebbe il diciottesimo paese al mondo per numero di abitanti subito dopo la Germania. La pandemia ha avuto inoltre un impatto negativo sulla disponibilità di posti messi a disposizione dagli stati per il reinsediamento dei rifugiati sui loro territori, che ha raggiunto il livello più basso nel corso degli ultimi 20 anni. Il 23 marzo 2020, nel pieno divampare di una pandemia che avrebbe causato enormi sofferenze per il mondo intero, il segretario generale dell’Onu António Guterres, invocava il cessate il fuoco globale. Contro un nemico comune, che attacca tutti indiscriminatamente, era necessario proteggere i più vulnerabili, compresi gli sfollati e i rifugiati, che avrebbero pagato il prezzo più alto e rischiato ulteriori sofferenze e perdite. “La furia del virus - affermò perentorio il segretario generale - sottolinea la follia della guerra”. Un cessate il fuoco globale era indispensabile per creare corridoi umanitari che permettessero di salvare vite, per aprire spazi alla diplomazia e per dare speranza alle aree del mondo più instabili. Ma purtroppo i conflitti non si sono fermati davanti al virus. I leader mondiali non hanno intensificato quegli sforzi necessari a facilitare la pace, la stabilità e la cooperazione. Le popolazioni civili, inclusi i più vulnerabili, donne e bambini, disabili, anziani, hanno continuato a fuggire, senza avere alternative, alimentando una tendenza alla crescita del numero di persone costrette ad abbandonare le proprie case che non accenna a diminuire da quasi dieci anni. Oggi, nel mondo, sono oltre 82 milioni le persone che sono state costrette ad abbandonare tutto per cercare protezione da violenza e persecuzione: oltre 20 milioni di rifugiati, 48 milioni di sfollati interni, in fuga all’interno del proprio paese, oltre 4 milioni di richiedenti asilo. La popolazione delle persone in fuga è ampia e rappresenta l’1 per cento dell’umanità. Se questi 82 milioni di persone formassero una nazione, sarebbe il diciottesimo paese al mondo per numero di abitanti subito dopo la Germania. Oggi i due terzi dei rifugiati nel mondo fuggono dai conflitti e dalle violenze di soli 5 Paesi: la Siria, il Venezuela, l’Afghanistan, il Sud Sudan e il Myanmar, mentre milioni di persone sono state costrette alla fuga all’interno dei loro stessi Paesi. Alimentato soprattutto dalle crisi in Etiopia, in Sudan, nella regione del Sahel, in Mozambico, Yemen, Afghanistan e Colombia, il numero di sfollati interni è in aumento di oltre 2 milioni rispetto all’anno precedente. I bambini costituiscono oltre il 40 per cento di tutte le persone in fuga dalla violenza: sono i più vulnerabili ed esposti al rischio di abusi, soprattutto quando le condizioni di precarietà a cui sono costretti durano per anni. Chi è costretto a fuggire per mettersi in salvo porta con sé un bagaglio di sofferenze, ma anche di forza, coraggio e di voglia di tornare a essere membri attivi delle comunità ospitanti. E sono i Paesi vicini alle aree di crisi e quelli a basso e medio reddito che ospitano la stragrande maggioranza dei rifugiati, l’86 per cento del loro numero totale. Un’emergenza che non finisce - L’Agenzia dell’Onu per i Rifugiati viene costituita nel 1950. Avrebbe dovuto svolgere le sue funzioni per soli tre anni, considerato il tempo necessario per dare assistenza alle persone in fuga dalle devastazioni della Seconda Guerra Mondiale. Alla fine del 2020, l’Unhcr ha raggiunto i 70 anni di esistenza. Non è un anniversario da celebrare ma certamente siamo fieri e orgogliosi del nostro lavoro all’interno delle Nazioni Unite. Continuiamo a servire i rifugiati, gli sfollati, i richiedenti asilo e gli apolidi in tutto il mondo fornendo assistenza umanitaria, impegnandoci a trovare per loro soluzioni durevoli, lavorando in stretta collaborazione con gli Stati affinché vengano garantiti loro diritti e protezione. Allo stesso tempo esercitiamo continue pressioni affinché quei Paesi che ospitano il maggior numero di rifugiati ricevano maggiore sostegno dalla comunità internazionale. Ma questi interventi non bastano per invertire la tendenza alla crescita del numero di persone costrette alla fuga. Le soluzioni stentano a causa di ostacoli costanti e di diversa natura: il numero di rifugiati e di sfollati che hanno potuto far ritorno nelle proprie case è calato rispettivamente del 40 e del 21 per cento nel 2020. I conflitti si protraggono e troppo raramente le condizioni permettono il rientro in sicurezza. La pandemia ha avuto inoltre un impatto negativo sulla disponibilità di posti messi a disposizione dagli Stati per il reinsediamento dei rifugiati sui loro territori, che ha raggiunto il livello più basso nel corso degli ultimi 20 anni. Le cause che stanno alla radice dei movimenti forzati di popolazioni vanno affrontate con decisione dai leader mondiali, che devono impegnarsi maggiormente per risolvere i conflitti e per garantire il rispetto dei diritti umani. Solo una politica che riporti equilibrio, misure concrete di prevenzione, pacificazione, inclusione e sviluppo, potrà permettere a un numero sempre maggiore di rifugiati e sfollati di trovare soluzioni rispetto a quante persone ancora non hanno alternativa alla fuga forzata. Migranti. Centinaia di minori non accompagnati subiscono abusi e sono testimoni di violenze La Repubblica, 21 giugno 2021 Il report di Save the Children. I respingimenti alle frontiere del Nord Italia, nonostante la minore età. Le numerose testimonianze raccolte. In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, l’Ong Save The Children sottolinea le responsabilità dell’Europa, premio Nobel per la Pace, che resta a guardare le violenze senza garantire adeguata protezione e accoglienza a chi ha meno di 18 anni. La denuncia in un nuovo rapporto realizzato lungo le rotte tra Oulx, Ventimiglia, Udine e Trieste, con cui si chiede all’Italia e alle istituzioni europee una protezione immediata, un monitoraggio efficace e indipendente delle frontiere e progetti di assistenza umanitaria nei luoghi di transito. Il Consiglio europeo sia la sede per affrontare il tema della protezione dei minorenni ai nostri confini. Si spostano a piedi, nascosti sotto i camion o sui treni. Oppure trasportati in macchina in autostrada dai passeur, attraversano boschi e montagne pericolose come il Passo della morte tra Italia e Francia, spesso di notte, per superare confini blindati, vengono respinti una, due, dieci, venti volte, in modo spesso brutale e illegale, nonostante abbiano meno di 18 anni, anche tra Paesi Membri dell’Ue. Ma non si arrendono. Sono tanti i racconti dei minori stranieri non accompagnati, a volte poco più che bambini, che parlano delle atrocità subite o a cui hanno dovuto assistere, soprattutto lungo la rotta balcanica: ragazzi che raccontano di essere stati derubati, picchiati, denudati in Croazia, detenuti e sottoposti a violenze in Bulgaria. Le testimonianze raccolte. Queste testimonianze sono state raccolte da Save the Children - l’Organizzazione internazionale che da oltre 100 anni lotta per salvare i bambini a rischio e garantire loro un futuro - nel suo nuovo rapporto “Nascosti in piena vista. Minori migranti in viaggio (attra)verso l’Europa”, a cura del giornalista Daniele Biella, accompagnato sul campo dal fotoreporter Alessio Romenzi. In occasione della Giornata Mondiale del Rifugiato, il Rapporto lancia un allarme sui moltissimi minori soli che si muovono come fossero fantasmi. “Ogni giorno e ogni notte attraversano i confini degli stati membri dell’Unione Europea, Premio Nobel per la pace, che continua a chiudere gli occhi di fronte alle violenze che i migranti sono costretti a subire” afferma Raffaela Milano, Direttrice dei Programmi Italia-Europa di Save the Children. Minorenni invisibili. Sono continuamente esposti al rischio di incidenti, traffico di esseri umani, violenze psicologiche e fisiche, anche per mano istituzionale. Una volta arrivati in Italia, minori e famiglie continuano a essere vittime di respingimenti alle frontiere interne, che in particolare per i minori soli sono illegali. Solo nel mese di aprile sono stati 107 i minori stranieri non accompagnati che hanno fatto ingresso in Italia dalla rotta balcanica intercettati e accolti nel sistema di protezione italiano. La punta di un iceberg ben più consistente. Sempre ad aprile, 24 di loro hanno invece lasciato volontariamente le strutture di accoglienza del Friuli Venezia Giulia per raggiungere la frontiera ovest italiana, al confine con la Francia, a Ventimiglia o a Oulx. E ancora 24 sono le segnalazioni di respingimenti da parte della polizia di frontiera francese. Una rotta delicata e complessa. La voce di questi ragazzi coraggiosi ma ‘invisibili’ è stata raccolta da un team di ricerca di Save the Children per fare luce su una rotta delicata e complessa, due mesi trascorsi tra Oulx, Ventimiglia, Udine e Trieste, ripercorrendo le tracce di minori e famiglie nei luoghi di passaggio formali e informali, lungo i sentieri di montagna in entrata dalla Slovenia e in uscita verso la Francia, ascoltando le loro voci, così come quelle delle persone e organizzazioni della società civile che li stanno aiutando, oltre alle istituzioni territoriali che hanno competenza lungo quelle frontiere. Il rapporto “Nascosti in piena vista. Minori migranti in viaggio (attra)verso l’Europa” sintetizza un lavoro sul campo che vuole gettare luce su ciò che quotidianamente accade alla Frontiera Nord d’Italia, interessata da un passaggio continuo di minorenni stranieri non accompagnati, che entrano ogni giorno in Friuli-Venezia Giulia, tra Trieste e Udine, dove arrivano a piedi dalle montagne carsiche o lasciati nelle strade di provincia da passeur senza scrupoli. Da qui o dalle regioni meridionali dove sbarcano, una decina di minori non accompagnati raggiungono inoltre ogni giorno Ventimiglia, in Liguria. Al confine italo-francese ne passano almeno 3-4 al giorno. A Oulx, sempre sul confine italo-francese, ogni giorno sono almeno tre/quattro i minori soli ad approdare a un rifugio che li accoglie dopo i traumi e le fatiche del loro viaggio. I minorenni non accompagnati sono in gran parte maschi, ma non mancano i casi di ragazze in viaggio da sole, in particolare da Paesi dell’Africa Occidentale. Il rischio di tratta e sfruttamento è concreto: in mancanza di vie legali e sicure gli e le adolescenti sono esposti a grandi rischi, ad attraversare pericolosi sentieri di montagna di notte, a vivere di stenti, a fidarsi dei passeur e di chiunque prometta loro un aiuto per l’attraversamento dei confini. Tutto questo avviene quasi alla luce del sole. Ma solo per chi lo vuole vedere. Le frontiere sono ancora più chiuse dallo scoppio della pandemia e la libera circolazione del trattato di Schengen sembra il ricordo di un passato lontano. In Francia, a Mentone, i minori soli - come riferiscono gli attori locali e gli stessi minori intervistati - oltre a venire rinchiusi in container alla stregua degli adulti, si vedono la propria data di nascita cambiata per risultare maggiorenni e quindi respingibili verso Ventimiglia, mentre tra la cittadina italiana di Claviere e la francese Monginevro, come denunciano gli operatori, se trovi il “poliziotto buono” sei accolto e tutelato, altrimenti vieni considerato maggiorenne e devi tornare da dove sei partito qualche ora prima. Mentre alla frontiera del Nord Est... A Trieste, fino a pochi mesi fa le forze di polizia italiane seguivano una prassi non meno preoccupante verso chi arrivava dalla Slovenia, la quale prevedeva che, in assenza di dubbi della polizia sull’età adulta, si potesse prescindere dall’eventuale dichiarazione di minore età - non applicando quindi le garanzie, anche giurisdizionali, previste per l’accertamento dell’età dalla L.47/2017 (Legge Zampa) - con il risultato che l’Accordo italo-sloveno che prevede la possibilità di riammettere i migranti sul territorio sloveno in maniera informale rischiava di essere applicato anche ai minorenni. Oggi le riammissioni verso questo Paese sono sospese, ma durante una recente audizione in Parlamento, il Prefetto di Trieste ha annunciato che potrebbero riprendere. “Non si può più dire “non sapevamo”. E soprattutto è necessario cambiare rotta subito: gli Stati membri dell’Unione Europea potrebbero gestire virtuosamente questi flussi di minori vulnerabili. Non solo in nome della solidarietà, che è un valore fondante, ma anche per cogliere l’opportunità di rendere parte attiva della società tutti questi ragazzi determinati a costruirsi un futuro. La Commissione europea si deve impegnare per arrivare a una Raccomandazione agli Stati Membri o ad altro atto di rango europeo che richieda di adottare e applicare politiche volte ad assicurare la piena protezione dei minori non accompagnati ai confini esterni e interni dell’Europa e sui territori interni e a promuovere il loro benessere e sviluppo, anche mediante strategie tese all’inclusione scolastica e formativa. Inoltre, a livello italiano, è necessario emanare i decreti attuativi della L. 47, che tutelano i minori stranieri non accompagnati, e gli stanziamenti destinati dalla Legge di Bilancio ai Comuni transfrontalieri dovrebbero essere in parte vincolati all’attivazione di progetti di assistenza umanitaria” aggiunge Raffaela Milano. I numeri dell’accoglienza e dei respingimenti. A fine aprile 2021 erano 6.633 le ragazze e i ragazzi stranieri non accompagnati censiti sul territorio italiano; nello stesso mese in 302 si sono allontanati dalle strutture di accoglienza. Sempre ad aprile 2021 gli ingressi registrati in Italia sono stati 453, di cui 149 da sbarchi. Gli altri 304 sono invece stati rintracciati sul territorio, probabilmente passati dalla Rotta Balcanica a piedi o con i camion. Questo i dati ufficiali anche se, secondo stime degli operatori, il numero complessivo potrebbe essere molto più alto. Trieste, Udine e la Rotta balcanica. Nel 2020 sono state effettuate verso la Slovenia 301 riammissioni dalla provincia di Gorizia e 1000 dalla provincia di Trieste. Tra queste, potrebbero esserci diversi minori, considerato che in quel periodo erano in vigore due direttive della Procura che lasciavano all’agente di polizia in frontiera la possibilità di considerare il ragazzo maggiorenne senza applicare gli accertamenti e le garanzie anche giurisdizionali previsti dalla legge Zampa. Un cambiamento del flusso in entrata in Friuli. Tali riammissioni, che avvenivano se la persona veniva trovata in un raggio di 10 chilometri dal confine o comunque nelle 24 ore seguenti all’arrivo, hanno determinato, a cominciare dalla primavera-estate 2020, un cambiamento del flusso in entrata in Friuli Venezia Giulia: i passeur hanno iniziato a portare gruppi di persone migranti più a nord e nell’entroterra, nei dintorni di Udine. Da allora quella zona è molto coinvolta negli arrivi. Il 19 maggio 2021 il team di Save the Children ha constatato l’arrivo di più di 100 persone solo nella notte precedente. In tutto il Friuli Venezia Giulia gli arrivi sono in crescita, nei primi quattro mesi del 2021 si registra un aumento dei flussi già del 20% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Quei minori che si allontanano. Spesso però i minorenni soli, in particolare gli afghani e i pakistani, si allontanano dalle strutture per proseguire il loro viaggio, quasi tutti dopo poco tempo. Negli ultimi tempi si registra un aumento dei traumi psicologici di alcuni minori, in prevalenza pakistani. Che questi traumi possano essere legati alle esperienze subite lungo la rotta balcanica, lo dimostrano diversi racconti tra cui quello di Abdel, neomaggiorenne arrivato l’anno scorso in Italia, ora in prosieguo amministrativo in comunità: “Sogno spesso le violenze della polizia nei boschi della Croazia. Una volta ci hanno fatto camminare senza sosta in salita per ore, continuando a darci percosse, un poliziotto si divertiva a farlo, gli altri gli dicevano di smetterla ma lui andava avanti. Un’altra volta ci hanno denudato e gettato in un fiume gelido, con le rocce che spuntavano dall’acqua. Una volta invece la polizia è arrivata, i piedi erano feriti e non siamo riusciti a scappare, avevano i cani. Uno di noi è stato bastonato dalla polizia alla testa ed è morto sul colpo. È morto e l’hanno preso e buttato nel fiume, il suo corpo non l’abbiamo ritrovato”. Respinti più volte ai confini esterni dell’Unione Europea, come quello croato-bosniaco, anche più di 20 volte brutalmente, oppure con respingimenti a catena su più confini: solo ad aprile 2021, ci sono stati 1.216 respingimenti tra Croazia e Bosnia, di cui 170 a catena dalla Slovenia, 5 a catena tra Italia, Slovenia e Croazia e 1 tra Austria, Slovenia e Croazia. Per quanto riguarda i minorenni soli, l’ufficio locale Save The Children dei Balcani Nord Occidentali ha raccolto le testimonianze di ben 84 di loro (quasi tutti afgani e pakistani), in tre zone al confine bosniaco. Il quadro che ne emerge è drammatico: almeno 7 a testa (ma alcuni di loro erano arrivati a quota 15) i respingimenti da parte delle autorità croate, per un totale di 451 tentativi di attraversamento della frontiera. Migranti. A Milano i minori non accompagnati superano gli adulti di Andrea Senesi Corriere della Sera, 21 giugno 2021 Il rapporto del Comune segnala l’inversione di tendenza rispetto all’epoca pre Covid. Nel corso dell’anno ospitati 504 rifugiati e 610 minori non accompagnati. L’appello di Casa Santa Chiara: “Aiutateci a collocare le persone che non sappiamo dove ospitare”. Più minori che adulti. Nel corso del 2020 Milano ha ospitato 504 rifugiati, 378 dei quali già inseriti nei centri di accoglienza e 126 arrivati invece nel corso dell’anno. Quanto ai minori stranieri non accompagnati, quelli accolti al termine del 2020 sono stati 610 (Albania, Egitto e Kosovo le nazionalità prevalenti). È quanto emerge dal rapporto annuale fornito dal Comune, attraverso la rete del sistema di accoglienza e integrazione, per la giornata internazionale del rifugiato, in occasione della quale Palazzo Marino si colorerà di blu. In merito alle provenienze, il 2020 ha fatto registrare una maggiore variabilità rispetto all’anno precedente, con una crescita soprattutto degli arrivi dall’Asia (passati dal 18 per cento del 2018 al 35 del 2020). Il 46,9 per cento degli adulti ha frequentato i corsi di lingua italiana, 89 sono stati segnalati ai centri di mediazione al lavoro (Celav) e 62 sono stati i beneficiari di borse lavoro, perlopiù impiegati come addetti alle pulizie, alla cucina, o come magazzinieri, manutentori, meccanici ed elettricisti. Inserite nel mondo del lavoro 116 persone, 16 delle quali contrattualizzate a seguito di borse-lavoro. Il raffronto col 2019 dice che il numero dei rifugiati ospitati in città è in (lieve) calo. Due anni fa sono state infatti 738 le persone ospitate a Miano, 359 delle quali già inserite nei centri di accoglienza e 379 arrivate nel corso dell’anno. I minori stranieri non accompagnati, accolti nel corso del 2019, sono stati invece 580. “Le grandi città - commenta l’assessore alle Politiche sociali e abitative Gabriele Rabaiotti - da sempre svolgono un ruolo protagonista nelle dinamiche migratorie, essendo per eccellenza i luoghi in cui le persone cercano l’occasione per ricostruire la propria vita. Riuscire a rispondere a queste richieste rappresenta senza dubbio una delle grandi sfide cui le amministrazioni locali, soprattutto quelle dei Paesi più ricchi com’è il nostro, sono chiamate”. Da registrare però, sul tema, l’appello che arriva da Casa Santa Chiara, una struttura destinata all’accoglienza di nuclei familiari richiedenti asilo, che si trova allo Scalo Romana, l’area che accoglierà il futuro villaggio olimpico. “Stiamo cercando una nuova collocazione per le famiglie qui ospitate. Al momento sono ancora tanti i rifugiati che dobbiamo riuscire a collocare”, spiega frate Clemente Moriggi, direttore delle opere della Fratelli di San Francesco d’Assisi: “Non possiamo dimenticarci di chi ancora ha bisogno di noi; abbiamo dato loro un tetto e assistenza, desideriamo con tutto il cuore continuare a farlo. Ecco perché - continua frate Clemente - mi appello all’amministrazione di Milano e alle Ferrovie, che ringrazio per averci consentito in questi vent’anni in Scalo Romana-viale Isonzo di realizzare un importante centro di accoglienza per combattere il degrado e aiutare le persone in difficoltà. L’aiuto che ci hanno dato è fondamentale e speriamo ci aiutino ancora una volta, insieme a Coima, Convivio e Fondazione Prada, a collocare le persone che non sappiamo dove ospitare”. Migranti. “L’Ue trovi un accordo che divida gli oneri” di Tonia Mastrobuoni La Repubblica, 21 giugno 2021 Intervista con il ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas nel giorno in cui Mario Draghi incontra Angela Merkel a Berlino e alla vigilia del Consiglio Ue. Rivela che la Germania chiederà nuove sanzioni contro la Bielorussia e nuovi finanziamenti alla Turchia. Dopo il tour di Joe Biden in Europa, sostiene che bisogna puntare a spazzare via “tutto” dell’era Trump ed è fiducioso che si possa trovare un’intesa su Nordstream 2 “entro agosto”. Nel giorno in cui Mario Draghi incontra Angela Merkel a Berlino, il ministro degli Esteri Heiko Maas fa sapere che la Germania lo appoggia per un accordo europeo che distribuisca “gli oneri” per i migranti su tutti i partner europei ma avverte che sui “dublinanti” la moratoria per rimandarli in Italia non può durare per sempre. Alla vigilia del Consiglio Ue, il politico socialdemocratico rivela che la Germania chiederà nuove sanzioni contro la Bielorussia e un nuovo accordo sui migranti, dunque nuovi finanziamenti alla Turchia. Dopo il tour di Joe Biden in Europa, Maas sostiene che bisogna puntare a spazzare via “tutto” dell’era Trump, ed è fiducioso che si possa trovare un’intesa su Nordstream 2 “entro agosto”. Il ministro chiede alternative concrete alla Via della Seta: “bisogna frenare l’influenza cinese nel mondo”. E di Draghi, Maas dice che è come la Nazionale: diventa più forte man mano che va avanti il torneo europeo. Ministro, Mario Draghi arriva oggi per la sua prima visita ufficiale a Berlino e incontra la cancelliera, Angela Merkel. Il presidente del Consiglio italiano punta a un accordo europeo sui migranti. È plausibile? “La Germania sosterrebbe in pieno un patto europeo per i migranti. Dovremmo trovare una chiave per la redistribuzione dei profughi. E i Paesi che non volessero parteciparvi dovrebbero contribuire in altro modo a risolvere questo problema, ad esempio mettendo a disposizione mezzi finanziari per proteggere i confini esterni della Ue. Dobbiamo fare finalmente dei passi in avanti nella distribuzione degli oneri”. La Germania e la Francia hanno circa il 70% dei “dublinanti” che secondo le regole europee dovrebbero essere rimandati nei Paesi di primo approdo. L’Italia ha congelato l’accoglienza dei “dublinanti” durante la pandemia. La Germania ricomincerà a respingerli? “Anche la variante Delta del coronavirus non può essere la giustificazione per lasciare le cose in eterno come sono. Abbiamo bisogno di una soluzione complessiva sui migranti che includa anche la questione delle cosiddette migrazioni secondarie all’interno dell’Ue. Tutti devono prendersi le loro responsabilità”. L’Ue sta discutendo un nuovo accordo sui migranti con la Turchia. Lo ritiene sensato? “Sì, dobbiamo aggiornare la collaborazione sui migranti con la Turchia. Nonostante tutte le difficoltà che abbiamo con il governo turco, dobbiamo riconoscere che si è sobbarcato di un peso non indifferente, dal punto di vista dell’immigrazione. In Turchia vivono quasi quattro milioni di profughi scappati dalla guerra civile in Siria e da altre aree della regione. Penso che nell’Ue abbiamo un enorme interesse ad aggiornare l’accordo sui migranti con la Turchia”. L’ultimo accordo ha riconosciuto alla Turchia sei miliardi di euro per i profughi. È la cifra a cui orientarsi per un nuovo patto? “Non voglio dire numeri ma è chiaro che non potrà esserci un accordo senza soldi. La Turchia si assume costi enormi che altri risparmiano. Si occupano di milioni di persone”. Ma già l’accordo attuale viene usato da Recep Tayyip Erdogan per ricattare l’Europa... “Al momento i rapporti con la Turchia sono abbastanza costruttivi. Anche la Turchia ha riconosciuto di avere tutto l’interesse a coltivare buoni rapporti con la Ue. Per un approfondimento di questi rapporti, però, è essenziale che la Turchia faccia progressi nell’ambito dei diritti umani e del rispetto dello stato di diritto. È ciò che molti chiedono per andare avanti sul nodo della liberalizzazione dei visti e dell’unione doganale”. Il presidente del Parlamento Ue, David Sassoli, ha proposto una nuova missione di salvataggio Ue davanti alle coste libiche. Lei cosa ne pensa? “Se mi guardo intorno tra i partner europei non vedo le premesse per una missione del genere. Ci sono già regole per l’accoglienza dei profughi che riguardano ad esempio la missione Irini, quando salva esseri umani in mare a est delle acque libiche. Ma a Bruxelles non vedo margini di manovra per andare oltre. Molti Stati membri non accetterebbero una nuova missione di salvataggio in mare. Non voglio esprimermi sull’ipotesi che una missione del genere possa attirare maggiori flussi migratori. Ma è certo che con una missione del genere non riusciremmo comunque a intercettare tutti i migranti che vengono in Europa. Serve un approccio complessivo, che affronti soprattutto il nodo dell’origine dei flussi”. Che impressione ha del nuovo governo italiano guidato da Mario Draghi? “È come la Nazionale di calcio italiana. In Europa è forte ma nel corso degli attuali campionati europei sta diventando sempre più forte. Vediamo in Italia una volontà robusta di contribuire a costruire una prospettiva europea. Percepisco accenti molto diversi rispetto al governo precedente. È molto importante. L’Italia può giocare un ruolo centrale. Lo vediamo in Libia, ma anche su altri dosser importanti. Perciò penso che il governo italiano e la Nazionale abbiano molte cose in comune, al momento”. L’imminente Consiglio europeo discuterà se imporre nuove sanzioni alla Bielorussia. Lei è a favore? “Sì, ritengo nuove sanzioni alla Bielorussia inevitabili. Non penso che possiamo aspettarci che l’atteggiamento del presidente Aleksandr Lukashenko cambi, nel breve termine. Perciò l’Europa deve reagire. La persecuzione dell’opposizione, la violenza contro i manifestanti, gli arresti, tutto ciò è inaccettabile. In passato abbiamo già inflitto sanzioni a singole persone e aziende. Adesso vogliamo estenderle a fette dell’economia bielorussa come l’industria del potassio o il settore energetico. E dovremmo impedire al governo di Minsk la possibilità di finanziarsi attraverso titoli di Stato venduti nell’Unione europea”. Durante il viaggio europeo di Joe Buden e i vertici Usa-Ue e Nato della scorsa settimana ci sono stati molti annunci su un rafforzamento dei rapporti tra Stati Uniti ed Europa. Ma come si andrà avanti, ad esempio sui dazi e su Nordstream 2? “È stato deciso di sospendere dazi e sanzioni nell’eterna disputa tra Boeing e Airbus. Francamente, era ora. Non possono esserci prospettive se Europa ed Usa si infliggono a vicenda misure punitive. Ci impegneremo a fare in modo che nessuna delle sanzioni imposte negli anni di Trump sopravviva. Abbiamo anche fatto importanti progressi su Nordstream 2. Imprese e imprenditori tedeschi sono stati esclusi dalle sanzioni. E ci sono colloqui in corso per arrivare a una soluzione ad agosto. Una nostra delegazione è appena stata a Washington”. Al vertice Nato la Cina è diventata centrale, è considerata ora una “sfida sistemica”... “Piuttosto direi che è stata inclusa nel concetto strategico della Nato. Ma a causa degli scenari minacciosi, al centro dell’attenzione continua a esserci la Russia. Però è chiaro che ora l’Alleanza atlantica si occuperà più intensamente della Cina. In futuro non basterà più che gli Usa parlino con la Russia di disarmo. Anche la Cina dovrà giocare un ruolo”. Di recente lei ha criticato la Via della Seta che ha gettato molti Paesi, anche europei, in una condizione di dipendenza finanziaria dalla Cina. Come possono essere liberarli da questo giogo? “Dobbiamo attivarci su questo. La Cina sfrutta sempre più intensamente delle opportunità economiche per estendere il suo influsso geostrategico. È un tema che è stato anche discusso al G7. Anche in Africa la Cina sfrutta delle proposte economiche per esercitare il suo influsso politico. Molti Paesi sono precipitati in una trappola del debito. Molti Paesi ci dicono: vogliamo liberarci dalla dipendenza finanziaria dalla Cina ma offriteci delle alternative. Vale per il Sudamerica, per il Sudest europeo e per l’area dell’indopacifico. Dobbiamo creare delle alternative alla Via della Seta. Dobbiamo riflettere come impegnarci maggiormente dal punto di vista economico e finanziario. Per aiutare questi Paesi nello sviluppo, ma anche per frenare l’influenza crescente della Cina nel mondo”. E la Germania non deve ripensare il suo atteggiamento verso la Cina? Finora ha sempre assunto un ruolo di mediazione? “L’atteggiamento della Germania verso la Cina è già cambiato. Si vede dalle iniziative che abbiamo incoraggiato nell’Ue, ad esempio le sanzioni contro le lesioni dei diritti umani nei confronti degli uiguri. Anche rispetto a Hong Kong l’atteggiamento della Germania è molto più netto che negli anni scorsi. La Cina è un concorrente ma anche un rivale sistemico con il quale dobbiamo fare i conti. Ma dobbiamo continuare a farlo attraverso il dialogo. Non possiamo affrontare le grandi sfide del nostro tempo come la lotta ai cambiamenti climatici o la digitalizzazione senza la Cina”. L’Iran ha votato. E ha scelto l’hardliner Ebrahim Raisi. Cosa può significare per gli sforzi di una ripresa dei negoziati del nucleare iraniano e per i diritti umani nel Paese? “L’Iran deve decidere che strada percorrere. Vuole che il popolo iraniano continui a soffrire per le sanzioni economiche? L’impressione che ricaviamo dai negoziati è che Teheran sia disponibile, di base, a incamminarsi su una strada costruttiva. Ma si vedrà dalla sua disponibilità a tornare insieme agli americani al rispetto degli accordi sul nucleare. La situazione dei diritti umani in Iran è inaccettabile. Ma non è affatto migliorata durante il periodo della massima pressione esercitata da Donald Trump. Anzi, all’epoca penso che abbiamo specato molte occasioni di influire su Teheran. Un ulteriore isolamento dell’Iran peggiorerebbe anche la situazione dei diritti umani. Perciò un ritorno all’accordo sul nucleare può essere un’opportunità anche da questo punto di vista”. Questa settimana la Germania ospiterà anche la Conferenza sulla Libia. Che progressi ci potranno essere nel Processo di Berlino? “Il proponimento del Processo di Berlino era duplice: concordare con i Paesi che hanno alimentato il conflitto con armi e mezzi finanziari una fine di queste politiche. Dall’altra parte volevamo favorire in Libia un cessate il fuoco e la creazione di un governo accettato da tutti. Le armi tacciono, nel frattempo. E da marzo c’è un governo. L’estrazione del petrolio e la produzione economica stanno riprendendo. Questa settimana vorremmo dare nuovi impulsi - in vista delle elezioni che dovrebbero tenersi il 24 dicembre, e voremmo favorire un ritiro delle forze straniere dalla Libia”. Ma sono nodi molto problematici. Alcuni vorrebbero spostare le elezioni o annullarle, addirittura. Persino il primo ministro libico, Abdulhamid Al Dabaiba, non sembra impegnarsi molto perché le elezioni possano tenersi in tempo... “Ne ho parlato due settimane fa con il premier Al Dabaiba. Mi ha garantito che sta preparando molto intensamente le elezioni. Ma dai colloqui capiamo anche che dopo tutto quello che è successo negli ultimi anni in Libia, non è così semplice organizzare le urne. Per quanto possa essere difficile, però, non ho l’impressione con i miei interlocutori libici che vogliano spostare le elezioni o persino annullarle”. Non è neanche chiaro quando le potenze straniere ancora presenti in Libia lasceranno il Paese. L’anno scorso il ritiro sembrava essere stato concordato proprio a Berlino. E invece non accade... “È vero. Coloro che si erano impegnati a Berlino a ritirarsi dalla Libia non l’hanno fatto. Ma se i libici vogliono riprendere in mano il destino del loro Paese, le potenze straniere dovranno andarsene. Anche il governo di transizione lo ha detto molto chiaramente. Penso che la questione, tuttavia, non sia più se si ritireranno, ma quando e come. Dovranno farlo gradualmente e in modo equilibrato per non creare squilibri militari che qualcuno possa sfruttare per un’offensiva improvvisa”. Russia. Carcerati per rifare la ferrovia in Siberia, i nuovi gulag di Michela A.G. Iaccarino huffingtonpost.it, 21 giugno 2021 Ristruttureranno la Bam. Riabilitata e perfino glorificata in Russia l’esperienza dei lavori forzati. La storia della Federazione russa potrebbe tornare a scorrere laggiù dove si era fermata, al confine delle città dove sorgevano i campi di lavoro forzati per i nemici del regime comunista. Vecchi gulag sovietici e nuovi gulag russi. Nel lontano, siderale e sterminato est di Mosca, dove le infrastrutture richiedono costante manutenzione, il Fsin, Servizio penitenziario federale, ha deciso di lanciare un progetto pilota in cui saranno coinvolti inizialmente solo poche centinaia di prigionieri delle sature carceri nazionali. A causa della pandemia i gastarbeiter, (i migranti in arrivo da tutte le ex Repubbliche sovietiche per lavorare a prezzi ridottissimi e condizioni usuranti ad ogni latitudine russa), hanno fatto ritorno in patria e hanno abbandonato lavori che i russi non si affrettano ad accettare. Anche per questo, nei prossimi mesi, su base volontaria, i condannati per reati minori potranno raggiungere il cuore della Siberia per ristrutturare la Bajkalo-Amurskaya maghistral’, una ferrovia parallela alla Transiberiana, che collega il cuore gelido della Federazione con l’Estremo Oriente. Nota anche con l’acronimo Bam, lunga 4500 chilometri, fu ideata in epoca zarista, ma la sua realizzazione risale all’era sovietica: fu costruita “grazie al lavoro forzato di migliaia di prigionieri del gulag”, dice Andrea Gullotta, studioso di letteratura e storia russa e docente universitario all’Università di Glasgow. “Il progetto di riproporre l’utilizzo dei lavori forzati in Russia è l’ultimo di una lunga serie di circostanze che hanno lentamente portato la Russia a rivalutare l’esperienza del gulag. Colpisce non solo la proposta in sé, quanto la scelta dei cantieri in cui mandare i prigionieri”, spiega ancora Gullotta, “ma la questione più rilevante adesso è che il progetto, con un certo scarto rispetto al recente passato, non viene solo giustificato, ma addirittura glorificato”. Gullotta si riferisce ad un articolo pubblicato dall’agenzia statale Ria Novosti, firmato dalla pubblicista e drammaturga Viktoria Nikiforova: “Scrive che, per migliaia di persone che vivevano in povertà, il gulag è stato un ascensore sociale, una mistificazione vera e propria”. Per la Nikiforova non c’è nulla di spaventoso nell’iniziativa della Fsin e “la comunità democratica” che se ne stupisce, non è coscia che il gulag, all’epoca, aiutò a risolvere problematiche sociali: “Non dimentichiamo quale fosse il tenore della vita in Russia dopo la guerra civile”. Per senzatetto e lumpen che pativano la fame, il campo di lavoro, scrive la giornalista, forniva cibo tre volte al giorno, alloggi caldi e visite mediche. Anche il quotidiano Novaya Gazeta si è accorto delle parole dell’autrice che “ha dimenticato di indicare la longevità di quanti entravano in questo ascensore”. Secondo un recente sondaggio promosso dall’agenzia VTsIOM, il 71% dei russi è favorevole all’idea del ritorno all’utilizzo dei lavori forzati. Ricorda il professore: questo progetto, insieme a molti eventi recenti, “sembrano suggerire che sia in atto il tentativo di cambiare la storia, o renderla più accettabile. Da anni, in particolare a partire dal 2012, lo Stato russo ha cambiato strategia verso il gulag: è stato dimenticato fino a quando, a cavallo tra il 2012 e il 2017, ha investito molto in iniziative mirate a ricordare il tragico passato legato a quelle che in Russia vengono chiamate “repressioni sovietiche”. Parallelamente, organizzazioni e singoli ricercatori impegnati sul tema del gulag sono stati messi a tacere: se da un lato lo Stato sta agevolando la preservazione della memoria dei campi, dall’altro sembra volere mettere a tacere le voci indipendenti che se ne occupano da anni”. Contro l’iniziativa della Fsin, dal fine esplicito ed inequivocabile, le reazioni di oppositori ed attivisti per i diritti umani sono state nette: è ricreare il sistema dei campi di lavoro chiamandoli con un altro nome, è un nuovo modo di obbligare al lavoro forzato ed è anche un metodo per giustificare una tragedia con cui la Russia non ha mai davvero fatto i conti. Oltre alla Bam, c’è un altro acronimo che i russi ricordano bene: Bamlag, il mastodontico sistema di gulag dove venivano spediti i prigionieri sovietici impiegati nella costruzione della ferrovia. Per numero di reclusi ed estensione, il campo di lavoro correzionale Bajkal-Amur, creato nel 1932, era uno dei più estesi dell’Unione e contava 200mila prigionieri nel 1938. Ricorda ed omaggia oggi il sacrificio più cruento di quelle centinaia di migliaia di innocenti, condannati a costruire binari a temperature siderali e in condizioni di vita disumane, una lapide che si trova nella città in cui fu costruito il campo, un luogo dal nome paradossale: Svobodniy, “libero”.