Misure cautelari, il Covid taglia arresti e carcere di 12mila casi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2021 Dalla carcerazione preventiva agli arresti domiciliari, dall’obbligo di presentazione al divieto di avvicinamento, calano un po’ tute, spesso in maniera assai significativa, le misure cautelari personali applicate nel corso del 2020. Nella Relazione al Parlamento da parte del ministero della Giustizia la diminuzione, da 94.197 a 82.199, deve essere in buona parte attribuita alla pandemia che ha rallentato l’attività degli uffici. Le misure cautelari custodiali (carcere-arresti domiciliari-luogo cura) costituiscono il 58% circa di tutte le misure emesse, mentre quelle non custodiali (le restanti) ne costituiscono circa il 42%; una misura cautelare coercitiva su tre emesse è quella carceraria (32%), mentre una misura cautelare coercitiva su quattro è quella degli arresti domiciliari (25%); con riferimento al solo anno 2020, il 12% degli arresti domiciliari viene applicato con procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici (il proverbiale “braccialetto”), mentre il restante 88% senza il suddetto controllo elettronico; l’applicazione delle misure del divieto di espatrio e della custodia cautelare in luogo di cura appare estremamente residuale nel triennio. I 3/4 delle misure vengano emessi dalle sezioni Gip, mentre solo il restante 1/4 venga emesso delle sezioni dibattimentali. Il giudice dibattimentale utilizza le misure dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria e del divieto di dimora in modo molto più frequente rispetto al Giudice per le indagini preliminari; l’inverso avviene, invece, per le misure della custodia cautelare in carcere e del divieto di avvicinamento. In particolare, per la custodia cautelare in carcere la differenza appare molto significativa: il Gip utilizza la misura carceraria con frequenza quasi doppia (34,4%) rispetto al giudice dibattimentale (18,1%). Significativo il riferimento alle misure cautelari emesse nei procedimenti definiti nel medesimo anno, dato che consente divedere da un lato, se l’applicazione della misura è stata infine coerente con l’esito del procedimento, “che dovrebbe teoricamente terminare sempre con una condanna e non con un’assoluzione (a successiva riprova che vi erano effettivamente concreti elementi di accusa della persona preventivamente sottoposta a misura cautelare) e dall’altro, ad esempio, se il tipo di misura emessa (carcere o arresti domiciliari) sia risultata sempre compatibile con la successiva assenza della sospensione condizionale della pena nei procedimenti definiti con condanna”. E allora, limitando l’analisi alle sole 31.455 misure emesse nel 2020 nei procedimenti definiti nel medesimo anno, la modalità di definizione prevalente è la condanna non definitiva senza sospensione condizionale della pena, che raggiunge mediamente il 57,6% del totale, ossia quasi 6 misure su 10 sono state emesse in un procedimento che ha avuto poi come esito più frequente, sia pur non definitivo, la condanna senza sospensione condizionale della pena. Sommando poi la percentuale del 57,6% a quella media del 18,2% relativa alla condanna definitiva senza sospensione condizionale della pena si raggiunge un totale complessivo del 75,8%, cioè 3 misure su 4 sono state emesse in un procedimento che ha avuto poi come esito la condanna (definitiva o non definitiva) senza sospensione condizionale della pena. Sono però poco più di 7.000 i casi che si sono poi conclusi con la sospensione condizionale della pena (tipologia che escluderebbe arresti o carcere) oppure con un verdetto di assoluzione o proscioglimento. Ingiusta detenzione, indennizzi per 37 milioni di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 20 giugno 2021 Negli ultimi tre anni, quattro le censure a carico dei magistrati negligenti. Sono stati 1.108 i procedimenti introdotti nel 2020 per chiedere la riparazione per ingiusta detenzione. E 750 le ordinanze di pagamento emesse per poco meno di 37 milioni, complessivi. È quanto emerge dalla Relazione al Parlamento per il 2020 messa a punto dal ministero della Giustizia. Rispetto ai poco più di 1.000 procedimenti introdotti, quelli accolti e non più impugnabili sono stati in tutto 283. La maggior parte delle pronunce di accoglimento ha riguardato La Corte d’appello di Reggio Calabria, con 43, a seguire Napoli, con 40 e e Roma con 36, poi Palermo (34) e Catanzaro con 32. In 80 casi, il riconoscimento della riparazione nasce dall’illegittimità dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre in 203 da sentenze di proscioglimento. Per l’anno 2020 l’esborso complessivo è stato pari ad € 36.958.291 (nel 2019 è stato pari a 43.486.630 euro) ed è riferito a 750 ordinanze (1.000 nell’anno 2019), con un importo medio di 49.278 euro per provvedimento (nel 2019 l’importo medio è stato di 43.487). Gli esborsi di maggior entità riguardano provvedimenti dell’area meridionale e che i pagamenti più consistenti sono stati emessi in relazione a provvedimenti della Corte di appello di Reggio Calabria, in valori assoluti e di Palermo, in valori medi. La Relazione dà conto poi anche dei procedimenti disciplinari che hanno coinvolto i magistrati per le accertate ingiuste detenzioni. Con un’avvertenza: “appare evidente, dunque, come il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione - così come, del resto, del diritto alla riparazione dell’errore giudiziario di cui all’articolo 643 del Codice di procedura penale, non possa essere ritenuto, di per sé, indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto. Gli istituti riparatori hanno presupposti e obiettivi diversi e operano su piani distinti ed autonomi rispetto a quello della responsabilità disciplinare dei magistrati”. A rilevare, dopo la tipizzazione degli illeciti disciplinari datata 2006, è la fattispecie che ammette come fonte di responsabilità disciplinare l’emissione di un provvedimento restrittivo della libertà personale fuori dei casi consentiti dalla legge determinata da negligenza grave e senza scusanti. I numeri mettono in evidenza come le azioni promosse nell’ultimo triennio sono state in tutto 61, quasi esclusivamente dal ministero della Giustizia (57, mentre 4 sono state quelle avviate dalla Procura generale della Cassazione). Quanto agli esiti le assoluzioni sono state 12, le censure 4, i non doversi procedere 17, mentre in corso sono tuttora 25 procedimenti. Numeri che potrebbero giustificare più di qualche perplessità sull’incisività dello strumento disciplinare e che tuttavia la Relazione prova a confutare, sottolineando come, in realtà, le anomalie che possono verificarsi nell’ingiusta compressione della libertà personale, sono intercettate in una fase preventiva grazie al lavoro degli Uffici del ministero su esposti e segnalazioni delle parti, delle difese e di privati cittadini, oltre che nello svolgimento di ispezioni e per informative dei dirigenti. Battisti, sciopero della fame contro l’isolamento di Andrea Colombo Il Manifesto, 20 giugno 2021 L’isolamento doveva durare sei mesi, ma al termine di quel semestre Battisti è stato posto in regime di “alta sorveglianza” e destinato al carcere di Oristano, dove, essendo il solo sottoposto a quel regime, è rimasto isolato fino al settembre 2020. Cesare Battisti è in sciopero della fame dal 2 giugno. Ha perso poco meno di 10 kg, è in condizioni di salute precarie e chiede solo di uscire dall’isolamento di fatto in cui viene tenuto, illegalmente, da quando all’inizio del 2019 fu riportato in Italia, accolto da due ministri travestiti uno da carabiniere e l’altro da guardia penitenziaria. L’isolamento doveva durare sei mesi, ma al termine di quel semestre Battisti è stato posto in regime di “alta sorveglianza” e destinato al carcere di Oristano, dove, essendo il solo sottoposto a quel regime, è rimasto isolato fino al settembre 2020. Poi, in seguito alle proteste, è stato trasferito nel carcere di Rossano Calabro, nel padiglione di massima sicurezza destinato ai terroristi islamici o sospetti tali. Dunque ancora in condizione molto vicina all’isolamento. Forse è una sorta di vendetta sul detenuto particolarmente celebre e meritevole dunque di un trattamento speciale. Più probabilmente è solo una delle migliaia di vessazioni che non arrivano mai a essere conosciute proprio perché nessuno conosce le vittime. Ma in entrambi i casi si tratta di una grave ingiustizia e di una forma di persecuzione inaccettabile. Per questo il regista e attivista Umberto Baccolo e la sua compagna Elisa Torresin, di Folsom Prison Blues, hanno organizzato uno sciopero della fame di solidarietà a staffetta, iniziato il 16 giugno ed al quale hanno aderito per ora 130 persone. Ogni giorno un gruppo diverso fra le 3 e le 5 persone inizia lo sciopero di solito per uno o due giorni ma si può arrivare anche alle due settimane. Lo sciopero proseguirà sino al 30 giugno e il 22 alle 21, sulla pagina Fb Folsom Prison Blues, si terrà una diretta con gli organizzatori della manifestazione, Sergio D’Elia di Nessuno tocchi Caino e il giornalista Enea Guarinoni. I bracconieri di Mattia Feltri La Stampa, 20 giugno 2021 Cesare Battisti, preda con la quale gli allora ministri Alfonso Bonafede e Matteo Salvini si fecero la foto ricordo, come bracconieri con gli stivali sul leone spelacchiato, è in sciopero della fame da undici giorni e promette di andare avanti sino alla morte. Da due anni Battisti è detenuto in regime di Alta Sorveglianza, cioè di fatto in isolamento (ora è stato trasferito nel carcere di Rossano Calabro, nella sezione riservata ai terroristi islamici), gli è negata qualsiasi attività, gli è proibita l’ora d’aria. Da due anni, dice il suo avvocato, dovrebbe passare al regime ordinario, ma nessuno se ne occupa. Da due anni, contro la legge e contro la logica, lo Stato italiano non sembra avere per Battisti un’urgenza di giustizia bensì un’urgenza di vendetta. Nulla giustifica l’alta sorveglianza per un uomo quasi settantenne condannato all’ergastolo per omicidi commessi più di quattro decenni fa, ma invocare un trattamento giusto e dignitoso per un uomo detestato da tutti immagino sia un pochino velleitario, poiché si sa, la Costituzione comprende diritti da garantire a chiunque, ma noi preferiamo garantirli a chi ci sta simpatico. La Costituzione ci piace così, on demand. Ripenso a quante parole di sdegno - siamo o non siamo nell’era della suscettibilità? - davanti agli appelli degli intellettuali francesi, la cosiddetta gauche caviar, che si opponevano energicamente all’estradizione, e ancora oggi si oppongono all’estradizione di altri ex terroristi, perché reputano la nostra giustizia non all’altezza di uno Stato di diritto. Ecco, noi eravamo sdegnati, ma loro avevano ragione. L’orologio si è fermato di Michele Serra La Repubblica, 20 giugno 2021 Vorrei avere scritto io, parola per parola, quanto detto da Mattia Feltri sulla Stampa a proposito della detenzione in regime di “alta sorveglianza” di Cesare Battisti, che condivide il severo trattamento con i terroristi islamisti. Non è certo la privata antipatia di quel detenuto (stratificata negli anni anche grazie alla campagna insensata di intellettuali francesi molto disinformati sull’Italia) a giustificare questa pubblica rappresaglia. Come se l’orologio si fosse fermato agli anni Settanta non solamente per alcuni reduci della sedicente lotta armata, ma anche per lo Stato italiano. La “cerimonia” di consegna di Battisti ai ministri Salvini e Bonafede fu una delle pagine più sgradevoli, e anche più ridicole, del governo gialloverde, quello del doppio populismo e dunque forcaiolo al quadrato. Ci si domanda, dopo che il cambio di inquilino a Palazzo Chigi è stato salutato come la rivincita dei Lumi sulle tenebre, se qualcuno vorrà prendere atto che un quasi settantenne, omicida a vent’anni, non è un pericolo pubblico né un trofeo politico da esibire infilzato su una picca. Lo Stato, vale sempre la pena ripeterlo, a differenza dei terroristi non infierisce sui suoi nemici e non cerca vendetta. Applica la giustizia, che della vendetta è l’antidoto. L’avvocato di Battisti sostiene che la ragione giuridica consentirebbe già da tempo una normale detenzione. Se è vero, bisognerebbe che la questione, al di là delle belle parolette messe in fila dagli editorialisti, venisse presa in considerazione in qualche stanza del potere. Se non altro per dimostrare agli intellettuali della Rive Gauche che avevano torto, e l’Italia, dalla metà del secolo scorso, è uno Stato di diritto. Il presidente dell’Anm Santalucia contro i referendum radical-leghisti di Liana Milella La Repubblica, 20 giugno 2021 “Adesso non aiutano le riforme della giustizia”. Nessuna marcia indietro dopo le critiche di Salvini, Turco e Caiazza. Santalucia boccia il referendum sulla responsabilità civile diretta perché “mira a condizionare un giudizio che invece deve essere libero, indipendente e aggredibile con gli strumenti del processo”. “Questi referendum non aiutano le riforme”. E ancora: “Non comprendo il senso di un’iniziativa referendaria che non può avere la tradizionale funzione di stimolo verso un legislatore inerte, se questo legislatore invece sta dimostrando di essere operoso”. Mentre il sabato volge alla fine, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, toga della sinistra di Area, non fa un solo passo indietro rispetto alla polemica sui referendum in cui cercano di trascinarlo il leader della Lega Matteo Salvini e il segretario del Partito radicale Maurizio Turco. Nonché Giandomenico Caiazza, il presidente delle Camere penali, autore di una legge di iniziativa popolare proprio sulla separazione delle carriere che certo vede di buon occhio uno dei sei referendum radical-leghista sulla stessa questione e quindi critica Santalucia. Ma contro il metodo dei referendum, proprio mentre il governo sta facendo le riforme, la magistratura deve dimostrare una “ferma reazione”. Santalucia lo dice di buon mattino aprendo i lavori del Comitato direttivo centrale, il “parlamentino” dell’Anm. E la collera di Salvini e Turco non si fanno attendere. Mentre arriva la piena solidarietà di M5S con il presidente della commissione Giustizia della Camera Mauro Perantoni. Ma se Salvini definisce “gravissime” le parole di Santalucia, e Turco chiede addirittura a Mattarella di intervenire perché quello del presidente dell’Anm sarebbe “un attacco alla democrazia”, lo stesso Santalucia invece si stupisce di questa infuocata reazione. Perché, dice a Repubblica quando sono passate da poco le 18 ed è ancora impegnato con i suoi colleghi a discutere le riforme proposte dalla Guardasigilli Marta Cartabia, “io non ho voluto assolutamente dare un giudizio negativo sul referendum, che è un istituto fondamentale della nostra democrazia, ma sul modo in cui si cerca di usare questo strumentro in un determinato contesto”. Nasce da qui la sua frase sulla necessità di una “ferma reazione” della magistratura. Perché i sei referendum presentati da Salvini e Turco in Cassazione il 3 giugno - responsabilità civile dei giudici, separazione delle carriere, custodia cautelare, via la legge Severino sull’incandidabilità dei condannati, presenza dei laici nei consigli giudiziari, raccolta delle firme per le liste dei magistrati - rappresentano un passo sbagliato mentre il governo sta facendo le riforme. Secondo Santalucia, Salvini e Turco hanno torto nel criticarlo per la semplice ragione che non si può impedire all’Anm “di intervenire nel dibattito pubblico sulla giustizia”. Ex direttore dell’ufficio legislativo di via Arenula quand’era Guardasigilli il dem Andrea Orlando, e oggi giudice della prima sezione penale della Cassazione, Santalucia non parla “per attaccare un istituto della democrazia, come i referendum”. La questione è tutt’altra, riguarda i “tempi” dei referendum, perché “il legislatore sta lavorando, e noi siamo pronti alla discussione con un atteggiamento collaborativo”. All’opposto, “l’iniziativa referendaria non può aiutare le riforme”. Anzi, le ostacola. L’Anm invece vuole offrire al dibattito pubblico, “con senso di responsabilità”, “le buone ragioni” per cui ricorrere ai referendum proprio in questo momento rappresenta un passo sbagliato. Che merita, appunto, “una ferma reazione” contraria. Ma proprio mentre la discussione dell’Anm prosegue nel merito delle riforme civili, penali e del Csm, Turco insiste nel chiedere un intervento di Mattarella contro Santalucia. Che però tiene il punto: “Non riesco a comprendere il senso di un’iniziativa referendaria che non può avere la tradizionale funzione di stimolo verso un legislatore inerte, se invece cerca di essere operoso”. Quanto al merito, certo Santalucia e le toghe non vedono di buon occhio i sei referendum, né la separazione carriere, da cui hanno sempre preso le distanze giudicandola impossibile a Costituzione invariata, né la responsabilità civile. Dice Santalucia: “Quella diretta sarebbe un pericolo per l’esercizio sereno e indipendente della giurisdizione”. E ancora: “Qui non si tratta di tutelare le pretese risarcitorie del cittadino, che già sono garantite dalla responsabilità diretta dello Stato e dalla obbligatorietà dell’azione di rivalsa nei confronti del magistrato che ha sbagliato. Qui è in gioco la serenità del giudizio, perché si apre la strada alla possibilità di azioni dirette anche in corso di causa da parte di chi si è sentito leso da una decisione. Non possiamo esporre i giudici al pericolo che le azioni civili vengano usate per condizionarli in un giudizio che invece deve essere libero, indipendente, aggredibile con gli strumenti del processo, e non con le azioni civili dirette”. Le parole di Santalucia a Repubblica chiariscono, ma certo non modificano, quello che aveva detto di mattina. “Il fatto stesso che si porti avanti il tema referendario sembra esprimere un giudizio di sostanziale inadeguatezza dell’impianto riformatore messo su dal governo; e fa intendere la volontà di chiamare il popolo a una valutazione di gradimento della magistratura, quasi a voler formalizzare e cristallizzare i risultati dei vari sondaggi di opinione che danno in discesa l’apprezzamento verso le toghe”. Da qui la considerazione espressa da Santalucia sul fatto che “spetti all’Anm una ferma reazione a questo tipo di metodo”. Perché in ballo ci sono “il carattere, le funzioni e le prerogative del potere giudiziario, rispetto agli altri poteri dello Stato, definiti e garantiti dalle norme costituzionali’“. Ma la sensazione di Santalucia, e di tanti altri magistrati, è che dietro i referendum si celi proprio un attacco alla magistratura in quanto tale. Tant’è che il presidente dell’Anm dice: “Rischia di prendere quota la propensione a valutare in termini di inadeguata timidezza, se non di inaccettabile gattopardismo, l’atteggiamento riformatore che non mostra i muscoli del radicalismo ideologizzante, che non si fa percepire come disposto ad abbattere vecchi steccati, che poi il più delle volte sono presidi di diretta connessione costituzionale”. Insomma, la contemporaneità tra le riforme di Marta Cartabia e i referendum dei radicali sottoscritti e portati in piazza da Salvini suonano come un’evidente sfiducia verso quelle stesse riforme, anche se la Lega, con la responsabile Giustizia Giulia Bongiorno, ha più volte detto che non è così, perché i referendum rappresentano la piattaforma di un futuro intervento sulla giustizia, mentre la Cartabia “sta facendo buone cose”. Giustizia, i magistrati: reagiremo ai referendum. Il contrattacco di Salvini dalla piazza di Marco Cremonesi Corriere della Sera, 20 giugno 2021 Il leader della Lega spinge per l’unità del centrodestra: “Sono un testone”. E stasera cena con Berlusconi. La coreografia azzurra e la presenza di molti ex forzisti evoca le manifestazioni di FI. Sono cannonate tra Lega e Associazione nazionale magistrati. A rovinare il primo giorno della “Lega azzurra” è il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, che punta diritto sui referendum promossi da Lega e radicali sulla giustizia: “Il fatto stesso che si porti avanti il tema referendario sembra esprimere un giudizio di sostanziale inadeguatezza dell’impianto riformatore messo su dal Governo” dice di fronte al comitato direttivo dell’Anm. Di più: “Fa intendere la volontà di chiamare il popolo ad una valutazione di gradimento della magistratura, quasi a voler formalizzare e cristallizzare i risultati dei vari sondaggi di opinione che danno in discesa l’apprezzamento della magistratura”. Santalucia chiude con un finale che poco più tardi sarà contestatissimo: “Credo che spetti all’Anm una ferma reazione a questo tipo di metodo”. Bongiorno cita Falcone - La risposta arriva dalla manifestazione “per la ripartenza” convocata dalla Lega in piazza Bocca della verità, a Roma. Tra i temi centrali, c’è proprio la campagna referendaria e la regia sul palco è affidata a Nicola Porro. In realtà, le parole più fiammeggianti vengono dal segretario dei radicali Maurizio Turco. Che accusa Santalucia di minacce: “Quello che oggi ci dice l’Anm è di stare attenti. Il referendum è previsto dalla Costituzione, ma qui c’è un tentativo da parte di una parte della magistratura, quella delle correnti, di mettere a tacere i cittadini. Ci vogliono arrestare tutti?”. Il sovracuto arriva riguardo al capo dello Stato: “Questa cosa dell’Anm è gravissima, è un attacco alla democrazia. E il presidente della Repubblica deve intervenire”. Assai più misurata Giulia Bongiorno: “C’è qualcuno che dice che stiamo facendo la guerra ai magistrati. No, non stiamo dichiarando la guerra ai magistrati indipendenti”, ma la separazione delle carriere è cruciale: “Falcone diceva che i giudici e i pm non devono essere nemmeno parenti”. Poi, tocca a Matteo Salvini: “Ho visto la reazione scomposta di una corrente dei magistrati che parla di un pericolo quando ci sono i referendum. Mi spiace di aver letto certi toni da chi dovrebbe essere al di sopra delle parti”. Poco distante, un leghista mastica amaro: “Speriamo di non vedere la ferma reazione dell’Anm a Palermo…”. Un riferimento al processo al segretario leghista per i fatti della nave Open Arms. Matone: “Non sono razzista” - Al di là dello scontro con l’Anm, la giornata doveva essere quella di “Prima l’Italia: bella, libera e giusta”, la manifestazione per festeggiare le riaperture e la ripartenza. Ribattezzata la giornata della “Lega azzurra” perché in effetti il colpo d’occhio è quello: un gran fondale con paesaggio idillico e soprattutto un cielo azzurro a perdita d’occhio. Anche senza i numerosi parlamentari ex forzisti, la sensazione di trovarsi a un’iniziativa berlusconiana è fortissima. E voluta. Va detto che il format è stato ben studiato nella sua varietà. Apre con l’inno di Mameli Annalisa Minetti, presenta Ohara Borselli. Sul palco esordiscono i candidati per la Capitale Simonetta Matone (“Non sono razzista, non sono omofoba, la mia storia parla per me. Ho deciso di mettere di mettere la mia esperienza al servizio di chi vive a Roma”) ed Enrico Michetti: “Una volta ci conoscevano per le bellezze, oggi ci conoscono per i rifiuti che gli mandiamo”. Salvini dice “Daje”, come diceva Berlusconi - Poi tocca ai lavoratori Ikea in sciopero da 12 giorni e Salvini tuona: “Basta con tutte le multinazionali che fanno qui profitti miliardari, mandano a casa i lavoratori e pagano le tasse chissà dove”. Quindi, le aziende, incarnate dall’ad di Yamamay e Carpisa Gianluigi Cimmino: “Il governo ci sta facendo uscire da questa crisi più velocemente di quel che pensavamo”. Poi, rivolto a Salvini: “Non mettete più gli ultimi della classe a guidare questo paese”. E c’è anche lo chef Alessandro Circiello. Il segretario leghista è euforico. Mentre sul palco scorrono i governatori leghisti si lascia sfuggire pure un “daje”: lo faceva anche Silvio Berlusconi. E come lui, Salvini inneggia alla “libertà”. Stasera sarà a cena proprio da Berlusconi e l’auspicio è quello di chiudere alcune partite in gioco: il via libera al candidato sindaco per Milano, il sostegno ai referendum e soprattutto la federazione del centrodestra, quell’unità a cui ieri si è richiamato più volte: “Sono un testone”. Referendum Giustizia, l’Anm invoca una “ferma reazione”. Salvini: “Parole gravissime” di Davide Varì Il Dubbio, 20 giugno 2021 Il presidente del sindacato delle toghe contesta l’iniziativa referendaria di Lega e Radicali: “Fa intendere la volontà di chiamare il popolo ad una valutazione di gradimento della magistratura, quasi a voler formalizzare e cristallizzare i risultati dei vari sondaggi di opinione”. “Al di là del merito dei singoli quesiti, credo che si colga agevolmente un dato, in contrasto con quanto dichiarato dai proponenti, almeno da quelli che sono espressione di Forze politiche che compongono la maggioranza di Governo. Il fatto stesso che si porti avanti il tema referendario sembra esprimere un giudizio di sostanziale inadeguatezza dell’impianto riformatore messo su dal Governo; e fa intendere la volontà di chiamare il popolo ad una valutazione di gradimento della magistratura, quasi a voler formalizzare e cristallizzare i risultati dei vari sondaggi di opinione che danno in discesa l’apprezzamento della magistratura”. Lo ha detto il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, in apertura dei lavori del comitato direttivo centrale, sottolineando la necessità di una “ferma reazione” all’iniziativa referendaria di Lega e Radicali. “Parole gravissime”, secondo il leader della Lega Matteo Salvini, per il quale “non si può aver paura dei referendum, massima espressione di democrazia e libertà, e di confrontarsi con il giudizio e la volontà popolare”. Mentre il partito Radicale chiede “al presidente del Csm, Sergio Mattarella, una ferma reazione a difesa della Costituzione”. Per Santalucia il programma referendario “può divenire allora lo strumento formidabile per mettere in ombra una modalità di approccio, fatta di impegno nel distinguere, nel selezionare il tipo e la struttura degli interventi di riforma, per saggiarne il rapporto di compatibilità costituzionale e non cancellare, in nome dell’idea che il sistema non sia redimibile, un assetto di regole costruito intorno ad alcuni principi che non dovrebbero mutare”. A giudizio del presidente Anm “rischia di prendere quota la propensione a valutare in termini di inadeguata timidezza, se non di inaccettabile gattopardismo, l’atteggiamento riformatore che non mostra i muscoli del radicalismo ideologizzante, che non si fa percepire come disposto ad abbattere vecchi steccati, che poi il più delle volte sono presidi di diretta connessione costituzionale”. “Credo che spetti all’Anm una ferma reazione a questo tipo di metodo - ha ammonito Santalucia - prima ancora dei contenuti, c’è una questione di cornice entro cui collocare l’azione riformatrice, e, come recita il nostro Statuto, è compito dell’Anm dare opera affinché il carattere, le funzioni e le prerogative del potere giudiziario, rispetto agli altri poteri dello Stato, siano definiti e garantiti secondo le norme costituzionali”. “Sappiamo quanto sia importante che i magistrati siano anche soltanto percepiti con questa lente, oggettivamente rassicurante, e non ci sfugge la forza deformante di un cattivo approccio con i mezzi di comunicazione, stampa e tv. La sobrietà ragionata ed informata, nei casi in cui è necessario parlare, serve a consolidare una percezione di affidabilità non solo dei singoli ma dell’intera magistratura”, ha continuato Santalucia, rilevando che invece “recenti e meno recenti episodi di cronaca hanno segnato la direzione contraria: occorre dunque tenere alta l’attenzione - ha affermato - sull’importanza della cautela e della compostezza comunicativa, specie in questi tempi in cui ogni errore rischia di essere amplificato e reso funzionale ad un canovaccio guidato dall’idea di fondo di una magistratura in irrimediabile crisi”. Quindi il passaggio sulle riforme del governo, ripercorrendo le linee tracciate dalle Commissioni ministeriali incaricate dalla Guardasigilli Marta Cartabia: “Le linee di fondo delle elaborazioni delle Commissioni ministeriali sembrano orientare le riforme in una direzione che potrebbe essere utilmente percorsa - ha aggiunto Santalucia. Questo non significa adesione incondizionata ai progetti, ma valutazione di praticabilità di un tracciato normativo che in più punti risponde ad alcune indicazioni che in passato la nostra Associazione aveva formulato”. Patuanelli: “Sulla prescrizione il M5S non arretra” di Monica Guerzoni Corriere della Sera, 20 giugno 2021 Il ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali: “Noi e il Pd? Il dialogo sta crescendo. L’intesa raggiunta nel precedente governo è l’unico punto di caduta possibile” Con Conte alla guida sarete di lotta e di governo? “Sulla giustizia non accetteremo mediazioni al ribasso”, avverte il ministro Stefano Patuanelli negli stessi minuti in cui, dalla Bocca della Verità, Salvini attacca i magistrati. In questo clima, come farete a riformare la giustizia? “Con una maggioranza così eterogenea è uno dei temi più difficili da affrontare. Il ruolo della ministra Cartabia sarà determinante, ma si vedrà in Parlamento quali maggioranze si formano e su quale riforma”. Per difendere la prescrizione di Bonafede farete le barricate? “L’intesa raggiunta nel precedente governo è l’unico punto di caduta possibile”. Quanto soffre il M5S nel governo Draghi? “Senza il M5S questo governo non sarebbe nato, è un dato di fatto. Il che non significa retrocedere dai nostri temi, sia al governo che in Parlamento”. In autunno uscirete dal governo, come teme il Pd? “Sarebbe inspiegabile. E per far cosa, poi? Governiamo il Paese da tre anni, abbiamo gestito come forte maggioranza relativa il momento più difficile dal secondo Dopoguerra, dobbiamo esserne orgogliosi e rivendicare il nostro ruolo in un governo che sta portando il Paese fuori dalla pandemia e verso la ripresa economica. Questo momento fondamentale dobbiamo impregnarlo dei nostri principi, come legalità e tutela dei diritti dei più deboli”. Ci sarà mai il disgelo tra Conte e Draghi? “Questa narrazione mi affascina poco, non mi risulta che ci sia un rapporto difficile. Anzi. Lo provano il modo in cui il presidente Conte uscendo da Palazzo Chigi ha favorito la nascita del governo e il modo in cui Draghi tiene in considerazione Conte, riconoscendo che lo scheletro del Pnrr è lo stesso del governo precedente”. Letta dice che il governo Draghi fa bene al Pd. A voi non sembra fare altrettanto bene, visto anche l’elenco di riforme sgradite che ha fatto Conte sul “Corriere”... “Io non vedo differenze, il Movimento patisce come patiscono le altre forze politiche, perché è un governo atipico con tutti dentro”. Vi sentite espropriati dal metodo Draghi? “In Consiglio dei ministri c’è tanta politica. Poi c’è un premier non politico che decide, non sempre facendo la sintesi, ma scegliendo la cosa che per lui e la sua struttura è giusta. E se nella prima fase era difficile trovare gli equilibri, le cose migliorano di settimana in settimana”. Provenzano, numero due del Pd, ha contestato l’arrivo di qualche “ultras liberista” al Dipe. Lei come la vede? “Anche questa volta sono d’accordo con Provenzano. Se riemergessero temi neoliberisti per noi sarebbe un problema, perché riteniamo sbagliate quelle politiche”. Come finirà lo scontro tra Conte e Grillo? L’ex premier riuscirà a ridimensionare i poteri del garante? “Assolutamente no, vuole renderli coerenti con la nuova organizzazione. Ma il garante non può che essere Grillo e il ruolo sarà lo stesso che aveva prima. Non vedo una contrapposizione, ma una concorrenza di interessi per garantire che il M5S possa stare sulla scena politica con una organizzazione più strutturata”. Diventerà una “mini Dc”? “Conte è moderato nei modi, ma estremamente radicale nei principi e nelle idee. Un moderato con la schiena dritta, inflessibile sui principi etici e morali”. Di Maio che a Barcellona incontra Letta è la prova di un dualismo insanabile con Conte? “Dovevano far finta di non conoscersi? Non c’è nessun dualismo tra Di Maio e Conte, lavorando a contatto con entrambi vedo una sintonia di intenti che mi fa ben sperare per il futuro”. Per Conte l’alleanza con il Pd non sarà strutturale: vuol dire che potreste di nuovo fare un governo con Salvini? “Io non sono tra quelli che sostengono che il Movimento deve essere ago della bilancia tra destra e sinistra e che si possa governare con gli uni e con gli altri. Io sostengo l’alleanza con il centrosinistra perché penso che i temi che sono nel nostro dna, dall’innovazione ai diritti dei più deboli, che sono anche i commercianti, gli artigiani e le partite Iva, appartengono a quell’area e non alla destra”. Lo ammetta, l’alleanza tra voi e il Pd non decolla. “Conte lo ha detto bene, non ci deve essere una fusione a freddo col Pd, ma un dialogo sui territori, sui temi e le cose da fare assieme. Dove ci sono le condizioni, come a Napoli, Bologna, Pordenone e in Calabria lo facciamo, dove non è possibile, come a Roma e a Torino, non si fa. Ma il dialogo sta crescendo”. I processi mediatici insidiano il ruolo della magistratura di Glauco Giostra Corriere della Sera, 20 giugno 2021 Non si tratta soltanto delle invettive dei politici. Ancora peggio sono i “fori alternativi” allestiti in tv. Nei Paesi anglosassoni si parlerebbe forse di “oltraggio alla corte”. Da troppo tempo tra mass media e giustizia penale si è instaurata un’anomala osmosi, che, senza aggiungere nulla in termini di completezza e di attendibilità dell’informazione, condiziona gli attori e talvolta l’esito del processo. A preoccupare non è tanto il refrain con cui gli uomini politici indagati inveiscono contro la “giustizia ad orologeria”, che li avrebbe raggiunti guarda caso “proprio adesso che…”. L’insistenza con cui, invece di difendersi dall’accusa, ci si impegna ad adombrare torbide cospirazioni è oramai talmente scontata che in genere la si ascolta con annoiata disattenzione. Una linea difensiva così strumentale, che qualche magistrato si è fatto carico, con indecente, soccorrevole zelo, di darle un pur isolato fondamento. A preoccupare non sono forse neppure alcuni sfoghi emotivi di congiunti degli indagati, come di recente lo scomposto video-messaggio con cui un noto personaggio si è lanciato in un’intemerata contro l’inchiesta giudiziaria riguardante suo figlio: i toni smodati, gli argomenti inconferenti, le provocazioni irricevibili la rendevano, infatti, inidonea ad incidere sul fisiologico corso della giustizia. A preoccupare è la propensione di alcuni organi inquirenti a cercare o a consentire che i risultati di un’indagine guadagnino il proscenio mediatico, corredandoli con una tale dovizia di documenti, di interviste, di perentorie valutazioni, di riproduzioni di intercettazioni, da conferire ad essi il crisma della evidenza e della inoppugnabilità. Di certo, una condotta in dissonanza con le Linee-guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale (emanate dal Csm nel 2018), specie là dove queste pretendono dagli uffici requirenti che la presentazione del contenuto di un’accusa risulti “imparziale, equilibrata e misurata”, assicurando “il rispetto della presunzione di non colpevolezza” e dunque evitando “ogni rappresentazione delle indagini idonea a determinare nel pubblico la convinzione della colpevolezza delle persone indagate”, in modo che l’informazione sia “rispettosa delle decisioni e del ruolo del giudice”. Evidente anche il contrasto di una tale impropria ricerca di consenso con l’ancora inattuata Direttiva Ue 2016/343, che impegna gli Stati membri ad adottare le misure necessarie affinché le autorità pubbliche, nel fornire informazioni ai media, non presentino gli indagati o gli imputati come colpevoli. A preoccupare è poi la tendenza a predisporre format televisivi che, scimmiottando la giustizia ordinaria, allestiscono un foro “mediatico” alternativo, in cui si affastellano ad elementi acquisiti durante l’indagine giudiziaria altri (testimonianze, interviste, voci correnti, sopralluoghi, foto, sms, mail, social) raccolti, senza regole né garanzie, sguinzagliando un microfono o una telecamera. Questa sorta di “rappresentazione para-processuale” - ha da tempo ammonito l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni - genera, “con l’immediatezza propria della comunicazione televisiva”, “una sorta di convincimento pubblico in apparenza degno di fede sulla fondatezza” dell’accusa: nella percezione di massa, infatti, la comunicazione televisiva svolge una “funzione di validazione della realtà”; di certo favorita, aggiungiamo noi, qualora a darle credito concorra la sciagurata presenza di magistrati o avvocati. Se, dopo anni, il pronunciamento giurisdizionale confermerà la “sentenza mediatica”, offrirà l’impressione di una giustizia inutilmente lenta. Se, invece, dovesse discostarsene, sarà la prova di quanto sia formalistica e fallace la giustizia istituzionale, atteso che la verità nell’immaginario collettivo resterà quella apparsa sullo schermo. Le condotte sin qui menzionate costituiscono fattori destinati potenzialmente ad interferire con il fisiologico svolgimento del processo e con la corretta formazione del convincimento giudiziale. Talune di esse, in ordinamenti di common law, potrebbero integrare il reato di contempt of Court, oltraggio alla corte: illecito che si propone di tutelare l’interesse della collettività ad una corretta amministrazione della giustizia, sanzionando i comportamenti che possono influenzarne unfairly il corso e l’esito. Sulla loro crescente capacità perturbativa, del resto, è difficile non convenire. Se si pensa che il vigente sistema processuale si preoccupa, non senza impegnativi adempimenti, di sottrarre di regola al giudice la conoscenza degli atti di indagine per evitare che ne resti influenzato e per garantire che la sua decisione si fondi tendenzialmente soltanto sulle prove formate dinanzi a lui, non è difficile cogliere lo stravolgimento che può essere prodotto, ad esempio, da una “raccolta indifferenziata” di notizie, megafonicamente propalate. La Corte di Cassazione, preso atto che in simili evenienze gli strumenti a tutela del libero convincimento del giudice, come il trasferimento del processo, risultano inefficaci, ritiene che la professionalità dei magistrati dovrebbe consentire loro di acquisire una sorta di mitridatizzazione rispetto al rimbalzo multimediale proveniente dalle vicende su cui debbono pronunciarsi. Ma, a parte che è tutto da dimostrare se, quando e in che misura il singolo magistrato risulti “immunizzato”; a parte che, a tutto concedere, una simile capacità non si può certo né presumere, né pretendere dal giudice popolare di una Corte di Assise o dal componente onorario del Tribunale per i minorenni o di sorveglianza, resta il fatto che, quand’anche il magistrato riesca a mantenere un’imperturbabile serenità di giudizio, dovrà decidere sulla base di materiale contaminato. La stessa Cassazione ha dovuto prendere atto che l’assordante bombardamento mediatico non di rado ha compromesso il risultato di alcune importanti indagini (ad esempio nel processo Sollecito) e corrotto - sino a renderli inservibili o, peggio, fuorvianti - alcuni contributi testimoniali, come nei processi Pacciani per i delitti del “mostro di Firenze” e Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco. È un andazzo cui non ci si deve rassegnare. Per quanto il problema possa essere delicato per le sue implicazioni in termini di libertà di espressione, è ormai necessario lavorare ad una efficiente rete di misure interdittive, disciplinari e pecuniarie a protezione dell’amministrazione della giustizia. Qualcuno potrebbe far notare quanto sia intempestivo un richiamo alla tutela della funzione giurisdizionale nel periodo in cui questa è caduta nel più profondo discredito. Ci si potrebbe limitare a replicare che la stragrande maggioranza dei magistrati svolge la sua funzione con la competenza e l’equilibrio necessari, talvolta con qualità speciali. Preme tuttavia aggiungere che addebitare a tutta la magistratura le indegne condotte di taluni suoi esponenti, anche di vertice, è non solo ingiusto, ma anche irresponsabile. Una collettività che non crede nella giustizia è destinata a cercarla altrove (protezioni politiche, potentati economici, corporazioni, associazioni occulte, quando non criminali) e sarebbe un preannuncio di disgregazione civile. Proprio in un momento di diffusa sfiducia, bisognerebbe - oltre che rimuovere i magistrati “infedeli” al proprio ruolo e “bonificare” i circuiti inquinanti - ribadire con forza le ragioni e le garanzie della funzione giurisdizionale. Sarebbe un grave azzardo rimetterle in discussione, come non dovremmo mai rimettere in discussione, per la presenza di politici corrotti, le garanzie della democrazia parlamentare. Tolti i figli a mafiosi e trafficanti. La svolta del giudice minorile Di Bella di Salvo Palazzolo La Repubblica, 20 giugno 2021 I primi provvedimenti del presidente del tribunale per i minorenni. In Calabria ha sottratto 80 ragazzi a un destino criminale già scritto allontanandoli dai genitori. “Un’alternativa è necessaria, i clan reclutano i giovanissimi”. “L’altro giorno, il figlio di un mafioso mi ha detto: ‘Da questo palazzo sono passati mio padre, i miei zii e i miei fratelli. Io voglio una vita diversa, grazie per avermi portato via’“. Il giudice Roberto Di Bella guarda le carte che riempiono la sua scrivania: “In ognuno di questi fascicoli - spiega - c’è la storia di un ragazzo a cui dobbiamo offrire al più presto un’alternativa. Altrimenti verrà reclutato dai clan”. Lui è il giudice che in Calabria ha sottratto a un destino criminale ottanta figli di boss della ‘ndrangheta, allontanandoli dalle famiglie d’origine. Dal mese di settembre dell’anno scorso, Roberto Di Bella è il presidente del tribunale per i minorenni di Catania. E, questa volta, i provvedimenti di decadenza della responsabilità genitoriale li ha firmati nei confronti di mafiosi siciliani e trafficanti di droga vicini alle cosche. Dodici provvedimenti, due riguardano boss di primo piano di Cosa nostra catanese. È la prima volta che accade in Sicilia. “I figli vivono adesso in comunità o in altre famiglie, lontano dal contesto di origine - spiega il giudice - secondo il progetto ormai sperimentato in Calabria”. È il progetto “Liberi di scegliere”, che è diventato un libro, un film, ma soprattutto un protocollo d’intesa che vede insieme i ministeri della Giustizia, dell’Interno, dell’Istruzione, la Direzione nazionale antimafia e l’associazione Libera. “L’obiettivo - dice Roberto Di Bella - è assicurare una concreta alternativa ai minorenni provenienti da famiglie inserite in contesti di criminalità organizzata e anche ai familiari che si dissociano dalle logiche criminali”. A Catania, si sono già fatte avanti alcune mamme. Proprio come era accaduto in Calabria. Al momento, sono due, che hanno avuto problemi con la giustizia per accuse di mafia e droga: “Ci hanno manifestato la loro intenzione di rompere con il passato e andare via con i loro figli dalle famiglie di origine”, racconta il presidente del tribunale per i minorenni. “E sulla base di quanto previsto dal protocollo verranno sostenute, per poter iniziare una nuova vita. Determinante è il contributo di Libera”. C’è un gran via vai al primo piano di via Raimondo Franchetti 62, la palazzina della giustizia minorile di Catania. Davanti alla stanza del presidente, i finanzieri della scorta. Alcuni boss dell’ndrangheta a cui sono stati tolti i figli non l’hanno presa bene. E, adesso, un tribunale minorile colpisce anche i padrini della mafia siciliana. “Ma la nostra non è una sfida - tiene a precisare il giudice - noi ci limitiamo ad applicare gli strumenti ordinari della giustizia minorile, che impongono la decadenza della responsabilità genitoriale quando un genitore viola o trascura i propri doveri. Ad esempio, perché non manda i figli a scuola. Oppure, li indottrina sui principi e le regole della mafia, come magari emerge dalle intercettazioni. Provvedimenti per i genitori scattano anche quando i figli gravitano in ambienti legati allo spaccio e alla piccola criminalità, pure se non commettono reati”. Il presidente del tribunale per i minorenni racconta di una “grande sinergia” fra i giudici, la direzione distrettuale antimafia diretta da Carmelo Zuccaro e la procura per i minorenni guidata dalla facente funzioni Valeria Josè Perri. Tutte le notizie riguardanti i minori che emergono dalle indagini vengono subito messe in condivisione. E, poi, c’è un protocollo d’intesa promosso dalla prefettura, che ha raccolto attorno a un tavolo pure il Comune, le scuole e le forze dell’ordine. “Un fronte unitario nella consapevolezza che stiamo giocando una partita fondamentale - spiega il giudice Di Bella - le organizzazioni mafiose si stanno riorganizzando, per far fronte ad arresti e processi reclutano giovani leve dalla strada. Il 21 per cento di dispersione scolastica nelle zone difficili di questa città è un dato che deve preoccupare”. Soprattutto perché tanti, troppi giovani continuano a considerare un mito il mafioso più famoso di Catania, Nitto Santapaola. “Io dico ai ragazzi: “Volete essere davvero come lui? È in carcere da 28 anni, la moglie è stata ammazzata, non può vedere i figli”. Fa una pausa il giudice e dice ancora: “Ho visto la sofferenza negli occhi dei figli di mafia e delle loro madri. Abbiamo il dovere di offrire un’alternativa”. E racconta del boss dell’ndrangheta rinchiuso al 41 bis che gli ha scritto: “Per ringraziarmi dell’opportunità offerta al figlio. L’avrebbe voluta anche lui, da giovane”. Il tribunale sta sperimentando anche forme di affidamento temporaneo dei figli di mafia, nel corso della giornata. “Ad associazioni o a famiglie di appoggio - spiega il presidente - per la partecipazione ad iniziative sulla legalità o anche per l’inserimento in contesti diversi”. Intanto, “Liberi di scegliere” è diventato pure un concorso per le scuole.”La sensibilizzazione sui temi delle mafie non può essere lasciata a sporadiche iniziative, abbiamo bisogno di progetti organici. Per dimostrare che il futuro non è già scritto e che si può essere protagonisti della propria vita, la delinquenza non è un destino inesorabile per chi nasce in certe realtà familiari”. Il presidente Di Bella lancia un appello ai ragazzi di Catania e ai loro familiari: “Le porte di questo tribunale sono sempre aperte. Possiamo aiutarvi”. Caso Persichetti, la ricerca storica sotto attacco di Marco Grispigni Il Manifesto, 20 giugno 2021 Incredibile iniziativa della Procura di Roma che ha emanato un mandato di perquisizione nei confronti dello studioso Paolo Persichetti al termine del quale gli sono stati sequestrati tutti i documenti analizzati e schedati in lunghi anni di lavoro e di consultazione di archivi. Osservandola da fuori, indubbiamente l’Italia è un paese assai strano da comprendere. Se poi ci si interessa agli anni Settanta del secolo scorso, forse più che strano il paese sembrerebbe immerso in una sceneggiatura distopica. È infatti nel campo dell’assurdo che si colloca l’incredibile iniziativa della Procura di Roma che ha emanato un mandato di perquisizione nei confronti dello studioso Paolo Persichetti al termine del quale gli sono stati sequestrati tutti i documenti analizzati e schedati in lunghi anni di lavoro e di consultazione di archivi. L’accusa è la divulgazione di materiale riservato “acquisito e/o elaborato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro”. Il reato di divulgazione di materiale riservato andrebbe inserito nel contesto di due più gravi reati, quello di favoreggiamento e addirittura di associazione sovversiva con finalità di terrorismo. In sostanza, per giustificare perquisizione e sequestro, si accusa Paolo Persichetti da far parte di una banda terrorista attiva niente di meno che dall’8 dicembre 2015. A parte l’assurdità dell’accusa e dell’utilizzo del reato di associazione sovversiva con finalità di terrorismo, la data di inizio rimanda al giorno in cui la commissione parlamentare presieduta da Giuseppe Fioroni, ex democristiano e ora deputato del Pd, discuteva ed emendava la bozza finale della relazione. Una nuova colonna, “studi storici”, nasceva in quel giorno con l’incarico di divulgare le segretissime carte, che poco dopo diventeranno pubbliche con il versamento all’archivio storico della Camera. Ora a parte l’ironia possibile su questa vicenda che ha un effetto pesante e ingiustificato sulla vita e il lavoro di Paolo Persichetti, direi che questa iniziativa solleva almeno tre ordini di problemi. Il primo è l’incredibile attacco alla ricerca storica che si interroga su periodi “difficili” della nostra storia nazionale. È inevitabile leggere questa iniziativa giudiziaria quasi in parallelo con la proposta di legge di introdurre il reato di “negazionismo” nei confronti di chi mette in discussione la vulgata bipartisan-presidenziale sulle “foibe”. Questo tema è al centro dell’appello lanciato da alcuni studiosi in solidarietà con Persichetti. Il secondo riguarda gli studi e riflessioni sugli anni Settanta e sul fenomeno della lotta armata di sinistra. Dopo che per un ventennio il discorso pubblico e la ricostruzione storica di quel periodo erano state sostanzialmente delegate alle aule di tribunale e ai magistrati, da diversi anni ormai su quel decennio e sul tema della violenza politica c’è una notevole produzione scientifica, sia in ambito universitario che fuori dai circuiti dell’accademia. Ora l’accusa contro Persichetti sembra una sorta di duro monito proprio contro la vasta area di studiosi non accademici di quegli anni. Mentre si giustificano operazioni di pura vendetta, come quella contro i dieci “terroristi” rifugiati in Francia, con un presunto bisogno di “svelare i misteri” di quella stagione, si avvia una procedura giudiziaria contro uno studioso che su quei “misteri” ha a lungo lavorato, smontando con l’uso di documenti di archivio i vari complottismi. Il terzo, infine, riguarda direttamente Paolo Persichetti. Persichetti non è solo un conosciuto studioso non accademico e autore di diverse pubblicazioni su quegli anni, ma è anche un “ex”. Persichetti infatti fece parte delle Brigate rosse - Unione dei comunisti e fu condannato a 22 anni per banda armata e concorso morale nell’omicidio del generale Licio Giorgieri. La sua condizione di “ex” è il punto di partenza di tutti gli articoli su questa iniziativa giudiziaria. Ovunque, prima di soffermarsi sull’incredibilità delle accuse, gli articoli iniziano parlando della passata militanza di Persichetti. Il messaggio abbastanza chiaro è: “stiamo parlando di un ex terrorista, quindi anche se le accuse sembrano strampalate, non si sa mai”. La damnatio memoriae nei confronti di quegli anni e in particolare nei confronti di chi scelse la strada della lotta armata deve essere riaffermata sempre. Il diritto di parola esiste se si è funzionali a ricostruzioni basate su oscuri complotti e se è preceduto da un “contrito pentimento”. Il nodo irrisolto della diffamazione di Caterina Malavenda Corriere della Sera, 20 giugno 2021 La Corte Costituzionale sta per abrogare le norme che prevedono l’arresto dei giornalisti. Ma il problema resterà insoluto. E se il timore del carcere non fosse il vero ostacolo per i giornalisti che vogliono fare il loro lavoro senza condizionamenti? E se il temuto effetto dissuasivo (“chilling effect”) dovesse cercarsi altrove? Come hanno ricordato Martino Liva e Giuliano Pisapia, qualche giorno fa, la Corte costituzionale è in procinto - e per l’ennesima volta - di sopperire all’inerzia colpevole del Parlamento, probabilmente abrogando le norme che puniscono con la reclusione la diffamazione, commessa a mezzo stampa, oltre che con “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, compresi dunque i social e i blog. Dopo, se così sarà, solo una multa punirà chi ha diffamato, senza che i numerosi problemi che affliggono l’informazione, però, trovino adeguata soluzione. E dire che sono anni che Camera e Senato si palleggiano il disegno di legge, che avrebbe dovuto occuparsi, come la Corte ha sottolineato, “di disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco”. E lo ha fatto finora, senza riuscire a mettere d’accordo le due anime, che si sono scontrate su ogni comma, combattute fra la voglia di ordire una trama, se possibile più penalizzante del carcere - prevedendo la multa da 10 a 50.000 euro, che è astronomica specie per chi non li ha e, per i recidivi, anche la sospensione obbligatoria dalla professione da uno a sei mesi - e l’esigenza di evitare “l’uso distorto dei procedimenti penali per fatti di diffamazione”, introducendo la rettifica come causa di non punibilità e sanzioni pecuniarie dissuasive, per chi promuova liti temerarie o presenti querele manifestamente infondate, trascinando il giornalista in giudizi senza fine, complice la lentezza endemica della giustizia. Certo, sulla carta, il rischio di esser condannati fino a sei anni per un articolo può avere un qualche effetto dissuasivo; e, tuttavia, è bene ricordarlo, in Italia attualmente la pena detentiva viene inflitta, di norma, solo quando i giudici non possono fare altrimenti, quindi no, non è davvero questo il pericolo maggiore per la libera circolazione delle informazioni. Sono piuttosto - e l’elenco potrebbe essere assai più lungo - la mole di processi penali e civili, che può abbattersi su una testata, se disturba il manovratore, anche se ne difettano i presupposti, ed accade spesso, ma l’importante è farsi sentire e ora non costa nulla; o le irragionevoli ed elevatissime condanne risarcitorie, in difetto di criteri precisi e di un tetto massimo, che possono loro sì far paura, specie quando non si ha alle spalle un editore forte o disposto a farsene carico; o le telefonate ai direttori e il ritiro della pubblicità, per rappresaglia, quando basterebbe una rettifica ben fatta. L’abrogazione del carcere, ovviamente non ne risolve neppure uno, anzi ha il perverso ed inevitabile effetto di eliminare un presidio per la difesa, l’udienza preliminare, che oggi, per la diffamazione aggravata a mezzo stampa, evita spesso processi inutili, quando si conclude, evento tutt’altro che raro, con il proscioglimento dell’imputato. Così l’odierno flusso inarrestabile dei processi per diffamazione dalla querela al dibattimento, senza alcuna indagine, che accerti la verità dei fatti, riconosca il diritto di cronaca ed archivi il procedimento, assumerà proporzioni ancora più vaste ed intaserà ancor di più tribunali, quasi mai contenti di occuparsene, considerandoli per lo più un fastidio e tempo sottratto a questioni più serie. Un’assoluzione che arrivi anni dopo, infatti, ha già comportato, per tacer d’altro, spese che non saranno mai più recuperate, perché il codice non prevede la condanna del querelante temerario al loro rimborso. Se il carcere verrà eliminato, dunque, la politica perderà la sola arma di scambio, fin qui usata per intervenire, non proprio con un occhio di riguardo per i giornalisti, sulle norme vigenti ed è prevedibile che una legge in materia, indispensabile come la Corte costituzionale ha ribadito, non veda più la luce. Eppure questa potrebbe essere l’occasione giusta, sgombrato il campo dai diversivi, di sedersi tutti intorno ad un tavolo, per individuare le soluzioni migliori che garantiscano un difficile, ma non impossibile equilibrio fra diritti in conflitto; e che tutelino il singolo da gratuite ed ingiuste aggressioni e chi fa informazione dall’incubo di processi infiniti e risarcimenti milionari. Il silenzio ed il perpetuarsi dello status quo sarebbero una pena ben più afflittiva del carcere e sancirebbero la definitiva sconfitta del Parlamento. Carcere ai giornalisti: la Consulta un anno dopo di Sergio Menicucci L’Opinione, 20 giugno 2021 È terminato, per la diffamazione, il tempo di un anno concesso dalla Corte costituzionale al Parlamento per modificare le norme contenenti il carcere per i giornalisti condannati per il reato di diffamazione a mezzo stampa. Risale al giugno 2020 l’ordinanza (numero 132) con la quale i giudizi della Consulta, invece di dichiarare subito la incostituzionalità dell’articolo 595 comma tre del Codice penale, avevano concesso al Legislatore un tempo sufficiente per rivedere la norma sotto giudizio della Corte europea dei diritti dell’uomo che per ben 4 volte avevano condannato l’Italia (vedi sentenza del marzo 2019 a favore del giornalista Alessandro Sallusti) per la non compatibilità delle pene detentive per i reati di diffamazione a mezzo stampa (considerata una aggravante). Una norma, quella del Codice penale italiano, in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. È trascorso un anno e nessun atto del Parlamento è stato adottato: la proposta di legge Caliendo è ancorata al Senato in Commissione giustizia. La scadenza della decisione è prevista nell’udienza di martedì quando la Suprema Corte si riunirà per decidere nel merito della questione, essendo arrivati a ben 25 i moniti della Corte al Legislatore non ascoltati. Il rinvio di un anno è stato un atto di “cortesia istituzionale”, confidando nella discrezionalità del Parlamento, unico interprete della volontà collettiva. La Corte si era avvalsa della novità introdotta con l’ordinanza 207 del 2018 quando non venne risolta subito la questione giuridica dell’aiuto al suicidio di cui era accusato il radicale Marco Cappato. La norma sul carcere per i giornalisti non è stata modificata e quindi la Corte, salvo imprevisti dell’ultima ora, dovrà emettere una decisione. L’orientamento è tracciato. Nell’ordinanza del 2020 è scritto “il bilanciamento tra i diversi diritti coinvolti è diventato ormai inadeguato”. Solo il Legislatore poteva disciplinare la materia sulla base “di non dissuadere per effetto del timore della sanzione privativa della libertà personale la generalità dei giornalisti di esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri”. Si torna così ai casi sollevati dai Tribunali di Bari e di Salerno con la questione di incostituzionalità della norma del Codice penale. L’argomento è stato maggiormente disciplinato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale sanzioni o risarcimenti particolarmente afflittivi e pene detentive (anche solo minacciate e poi non eseguite) contrastano con l’articolo 10 della Convenzione in materia di libertà d’espressione. Secondo i giudici di Strasburgo il solo timore di questo tipo di provvedimenti potrebbe intimidire i giornalisti a renderli meno liberi d’informare, specie con inchieste delicate e rischiose. La Corte costituzionale italiana aveva offerto al Legislatore le coordinate per un corretto intervento in questa delicata e complessa materia, tenendo conto che se il mestiere del giornalista è spesso a rischio, è anche pericoloso per chi subisce le conseguenze di una cattiva, distorta o preconcetta informazione. I giudici di Strasburgo sono andati avanti. Il punto di equilibrio, hanno osservato, tra libertà d’informare l’opinione pubblica e la tutela della reputazione individuale non può essere pensato come immutabile e fisso, essendo soggetto ai necessari assestamenti alla luce della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione avvenuta negli ultimi decenni. Taranto. Focolaio di Covid nel carcere sovraffollato di Francesco Casula Il Fatto Quotidiano, 20 giugno 2021 Sono ben 36 gli ospiti risultati positivi al tampone e altri 30 sarebbero a rischio per i contatti diretti avuti con compagni di cella e i cosiddetti “detenuti lavoranti”. A questi vanno aggiunti 310 agenti di polizia penitenziaria e 33 persone tra amministrativi ed educatori. Protestano da giorni i detenuti del carcere di Taranto all’interno del quale è stato scoperto un focolaio di Covid che ora rischia di esplodere. Sono ben 36 gli ospiti risultati positivi al tampone e altri 30 sarebbero a rischio per i contatti diretti avuti con compagni di cella e i cosiddetti “detenuti lavoranti”. La preoccupazione tra gli addetti ai lavori è altissima perché l’istituto penitenziario di Taranto è tra quelli più sovraffollati d’Italia: 689 detenuti a fronte di una capienza massima di 304 persone. Oltre il doppio, in sostanza, a cui vanno aggiunti 310 agenti di polizia penitenziaria e 33 persone tra amministrativi ed educatori. Ma non è tutto. Il carcere ionico deve fare i conti in queste settimane anche con l’assenza del dirigente sanitario: la dottoressa Fernanda Gentile - come riportato dal Nuovo Quotidiano di Puglia e da La Voce di Manduria - ha rassegnato le dimissioni per protestare contro l’abbandono da parte dell’Asl ionica. Gentile, nonostante le numerose richieste di sostegno inviate all’azienda sanitaria, non avrebbe mai ottenuto risposta e così all’interno della struttura ci sarebbero solo quattro medici invece degli undici previsti. La situazione, quindi, è particolarmente delicata. I detenuti colpiti dal virus sono quelli ospitati nell’ala di alta sicurezza, isolata rispetto alle altre zone, ma la positività di detenuti lavoranti, a cui quindi è concesso muoversi all’interno della struttura, potrebbe far deflagrare il contagio. Ed è anche per questo che da qualche giorno la direttrice Stefania Baldassari ha bloccato la mensa interna e i pasti sono arrivati dall’esterno. Il Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, si dice “molto preoccupato” non solo per la situazione sanitaria, ma anche perché il carcere di Taranto è stato presidiato da pattuglie delle forze dell’ordine, dato che al suo interno sarebbero presenti “molti pericolosi detenuti appartenenti a clan contrapposti che potrebbero sfruttare questa situazione emergenziale per destabilizzare ancora di più il penitenziario”. Il segretario regionale Federico Pilagatti, in una nota alla stampa, ha chiesto “come mai la rete dei controlli sanitari all’interno del carcere di Taranto, che finora ha tenuto bene se confrontato con le altre carceri della regione, si è improvvisamente rotta, dando il via a questo pericoloso focolaio? Cosa non ha funzionato nella gestione della situazione, considerato che il dirigente sanitario avrebbe dato le dimissioni dall’incarico?”. Al centro delle polemiche è finita la Baldassari che da anni guida la struttura finita diverse volte agli onori della cronaca. A marzo scorso, infatti, sono state emesse le prime condanne nei confronti di detenuti che avevano trasformato il carcere di Taranto in una piazza di spaccio. Le indagini, avviate a settembre 2019 dai carabinieri, hanno ricostruito la rete di spaccio gestita da alcuni detenuti. Questi attraverso l’utilizzo clandestino di microtelefoni continuavano a mantenere contatti con il mondo esterno e quindi anche con i familiari che durante i colloqui passavano sotto banco la droga. Altre indagini hanno svelato come in alcuni casi la droga arrivasse attraverso dei droni telecomandati dall’esterno che consegnavano la droga e i microtelefoni posizionandosi all’esterno della finestra della cella in cui si trovava il parente detenuto. Alla fine di febbraio, infine, quando l’esistenza dell’inchiesta sul giro di droga in carcere era nota a tutti, un agente della Polizia penitenziaria è stato arrestato mentre ritirava altra droga e altri microtelefoni dall’abitazione di un delinquente tarantino che si trovava ai domiciliari: dalle intercettazioni è emerso che la guardia li ha consegnati al figlio e a un altro detenuto che erano rinchiusi nel carcere ionico dove il poliziotto prestava servizio. A tutto questo, ora si aggiunge anche il rischio di una emergenza sanitaria per la quale il Sappe ha chiesto alla Procura di Taranto l’apertura di un fascicolo per verificare la correttezza di tutti i provvedimenti adottati e valutare le eventuali responsabilità anche di livelli superiori del Dap. “Fino a quando non ci saranno risposte concrete - ha concluso il sindacalista Pilagatti - il Sappe attuerà forme di protesta” perché secondo il sindacato non è possibile accettare che una situazione così pericolosa e delicata non abbia alcun responsabile. Bari. Medicina penitenziaria, ecografie polmonari e riabilitazione post Covid nel carcere Giornale di Puglia, 20 giugno 2021 Un centro di prevenzione e diagnosi precoce all’interno del carcere di Bari che oggi può contare su un servizio di ecografia polmonare finalizzato a diagnosticare precocemente polmoniti da Covid. Una campagna vaccinale in dirittura di arrivo che, grazie ad un’azione di sensibilizzazione massiva, ha ottenuto il 91,5 per cento delle adesioni, superando la media nazionale di somministrazioni effettuate negli altri istituti italiani pari all’86,7 per cento e di recente l’attivazione del progetto riabilitativo Covid@casa con una fisioterapista dedicata per gli eventuali casi positivi nella fase post infezione. È quanto prevede il programma di tutela e sicurezza dei detenuti in riferimento alla emergenza sanitaria attuato dalla Medicina penitenziaria della ASL di Bari, riconosciuto tra i più efficienti e completi a livello nazionale. “Nell’ambito del programma anti Covid dei luoghi di comunità e dei soggetti fragili, la Medicina penitenziaria della ASL ha attivato percorsi di protezione - spiega il dg Asl, Antonio Sanguedolce - da un lato il centro di prevenzione e diagnosi precoce che oggi può contare su un servizio di ecografia polmonare per diagnosi tempestive di polmoniti da infezione Sars Cov2, dall’altro - prosegue Sanguedolce - una campagna vaccinale massiva che ha coinvolto il 90 per cento della popolazione detenuta e infine di recente l’introduzione di piani riabilitativi nell’ambito del progetto Covid@casa con una fisioterapista dedicata per i pazienti della medicina penitenziaria”. Ottimi i risultati della campagna vaccinale: nel dettaglio su 440 detenuti presenti, 410 hanno ricevuto la prima dose di vaccino, ossia il 91,59%. Stessa larga adesione si è registrata nel carcere di Altamura dove risulta vaccinato con prima dose il 93,50 per cento della popolazione detenuta (75 su 77 detenuti), mentre a Turi nel complesso il 79.83% dei detenuti ha aderito alla campagna vaccinale (95 su 119). In parallelo hanno ricevuto la prima dose anche gli agenti di polizia penitenziaria: a Bari su 275 agenti, 219 si sono sottoposti alla prima somministrazione. Sul piano della prevenzione, l’Unità operativa complessa di Medicina Penitenziaria - diretta dal dottor Nicola Buonvino - si avvale di un servizio di ecografia polmonare che ha una grande utilità nella gestione della polmonite da Covid-19, per sicurezza, ripetibilità, assenza di radiazioni e facile utilizzo al letto del malato. “La sensibilità e la specificità dell’esame in periodo pandemico sono inoltre elevatissime - spiega il direttore della Unità complessa di Medicina penitenziaria, Buonvino - è in grado di intercettare le minime alterazioni iniziali della pneumopatia, di stimare un indice di gravità e di possibile evoluzione. Non deve comunque mai essere disgiunta dalla clinica - aggiunge - insieme possono diventare il punto di forza nella diagnosi precoce e per stimare una prognosi può aiutare nella decisione di ospedalizzazione e utilissima nella gestione del decorso”. L’ecografia polmonare inoltre fornisce risultati simili alla TC toracica e superiori all’RX torace standard per la valutazione della polmonite e /o della sindrome da distress respiratorio dell’adulto (ARDS). Pertanto, grazie all’attivazione del servizio di ecografia è possibile diagnosticare possibili polmoniti da Covid e monitorare i pazienti/detenuti positivi anche presso la zona di isolamento degli istituti. La Medicina penitenziaria ha aderito inoltre al progetto di riabilitazione Covid@Casa, promosso da Regione, Aress e Protezione Civile Regionale, orientato alla presa in carico del paziente nella fase post Covid, da parte del team riabilitativo e finalizzata al massimo recupero, nonché al consequenziale miglioramento della qualità di vita. “Lo scopo è quello di aiutare i pazienti, nel caso specifico ristretti, affetti da sequele di infezione, attraverso interventi mirati, ad alleviare e combattere i sintomi del virus ed a favorire lo svolgimento delle attività quotidiane fino all’attivo ed autonomo reinserimento nelle proprie attività in ambito familiare, sociale, lavorativo e della vita all’interno dell’istituto penitenziario”, aggiunge il dottor Buonvino. Ogni trattamento riabilitativo viene personalizzato e tiene conto del quadro clinico rilevato nella fase acuta e in quella post-acuta, nonché di eventuali ulteriori condizioni patologiche preesistenti alla infezione virale. Bologna. Carcere Dozza, stop tamponi da tre mesi: “Rischio di nuovi focolai sempre vivo” bolognatoday.it, 20 giugno 2021 Lo denuncia Fp Cgil che sollecita la programmazione dello screening. Il personale in servizio al carcere della Dozza non viene sottoposto a tamponi molecolari covid da circa 3 mesi. Lo denuncia Fp Cgil di Bologna che, con varie note “ha sollecitato l’Amministrazione Penitenziaria a programmare un monitoraggio, con cadenza periodica della situazione epidemiologica all’interno dell’Istituto Penitenziario in ottica di prevenzione”. Il sindacato ha chiesto una programmazione dei controlli di screening per tutto il personale in servizio permanente “che a qualsiasi titolo accede presso l’Istituto, ma purtroppo ad oggi è mancato un concreto riscontro” fa sapere Fp Cgil che accoglie con favore le notizie relative alla somministrazione della seconda dose del vaccino al personale e sulla campagna vaccinale, che ha interessato anche la popolazione detenuta della Dozza. “Riteniamo altrettanto necessario - incalza Fp Cgil - che l’Amministrazione eserciti un controllo periodico preventivo sul personale al fine di tenere monitorata la situazione, a tal proposito occorre infatti ricordare che il rischio di nuovi focolai è purtroppo sempre vivo e come da notizie apprese recentemente, in via precauzionale, alcune sezioni detentive risultano allo stato essere chiuse”. Massa Marittima (Gr). “Ritornare alla terra per un nuovo inizio”, detenuti coltivano orti e olivi ilgiunco.net, 20 giugno 2021 Il centro provinciale per l’istruzione degli adulti “Cpia 1 Grosseto” ha ottenuto un finanziamento ministeriale sul progetto “Ritornare alla terra per un nuovo inizio”, per attivare percorsi di formazione degli adulti dell’istituto penale di Massa Marittima, finalizzati all’acquisizione delle competenze nel settore della filiera olivicola, in particolare nella coltivazione e gestione di orti e olivi. Il progetto, fortemente voluto dalla direzione dell’istituto penale e dal Cpia 1 Grosseto, con il sostegno di Slow Food Monteregio e la cooperativa Melograno, prevede attività formative da realizzare nel carcere durante il periodo estivo, con l’obiettivo di costruire un ponte tra la fine del corrente anno scolastico e l’avvio di quello prossimo. Il Cpia 1 Grosseto ha presentato il progetto sull’avviso pubblico 9707 del 27/04/2021 del Ministero dell’istruzione, dipartimento per il sistema educativo di istruzione e di formazione, direzione generale per i fondi strutturali per l’istruzione, l’edilizia scolastica e la scuola digitale, nell’ambito del programma operativo nazionale (Pon e Poc) “Per la scuola, competenze e ambienti per l’apprendimento” 2014-2020, finanziato con Fse e Fdr - Apprendimento e socialità - CPIA - asse I - istruzione - obiettivo specifico 10.3 - azione 10.3.1 – sotto azione 10.3.1° “Grazie a questa importante collaborazione tra Cpia 1 Grosseto, Casa Circondariale di Massa Marittima, Slow Food Monteregio e Cooperativa Melograno viene offerta ai detenuti del carcere massetano una occasione per acquisire nuove competenze da spendere nel mercato del lavoro, una volta che avranno scontato la pena e potranno uscire dal carcere - afferma Grazia Gucci, assessore al sociale di Massa Marittima - Un’azione funzionale ai fini del loro reinserimento sociale e lavorativo in un territorio fortemente vocato alla olivicoltura”. Il progetto di Cpia 1 Grosseto, Casa Circondariale, Slow Food Monteregio e Cooperativa Melograno si pone in stretta sinergia con il progetto formativo “Orti in carcere” finanziato da Cassa Ammende e Regione Toscana con il diretto coinvolgimento del Comune di Massa Marittima. Questo programma, in corso di realizzazione nella Casa Circondariale, prevede la realizzazione di un oliveto e la coltivazione di ortaggi in cassoni ed ha in prospettiva l’ambizione di formare detenuti nel settore agricolo e dell’olivicoltura, favorendo l’acquisizione di competenze specifiche ed utili per un reinserimento lavorativo riducendo, quindi, il rischio di recidiva. Il progetto “Ritornare alla terra per un nuovo inizio”, intensifica e rafforza le attività di recente avvio e si caratterizza come una programmazione comune, una sinergia di azioni e risorse tra carcere, scuola e terzo settore, per favorire anche in un contesto detentivo, il diritto della persona al reinserimento sociale e all’acquisizione di una formazione lavorativa specializzata. Alghero. “Luci oltre le sbarre”, una mostra sul carcere di San Sebastiano di Sassari di Giampaolo Cirronis sardegnaierioggidomani.com, 20 giugno 2021 Potrà essere visitata dal 24 giugno al 3 luglio, dalle 19.00 alle 22.30, nella Torre di Sulis ad Alghero, la mostra fotografica “Luci oltre le sbarre” del fotografo e documentarista Fabian Volti, patrocinata dalla Fondazione Meta. Si tratta della prima parte di un progetto di documentazione intrapreso da Volti nei luoghi della detenzione in disuso in Sardegna. Il primo “capitolo” è appunto il carcere di San Sebastiano, costruito negli ultimi decenni dell’Ottocento e dismesso nel 2013, quando tutti i detenuti sono stati trasferiti nella nuova casa circondariale di Bancali. Da visitare, sicuramente, la sezione Nelle Viscere degli Inferi, a cura del collettivo s’Idea Libera di Sassari: stralci di lettere tratti dalla corrispondenza portata avanti con prigionieri delle carceri sarde, un progetto nato con la Biblioteca dell’Evasione, con l’obiettivo di creare un rapporto di scambio con i detenuti. Il catalogo contiene inoltre interventi di Daniele Pulino, referente territoriale in Sardegna dell’associazione Antigone e di Alvise Sbraccia, coordinatore del comitato scientifico di Antigone, e un contributo dell’architetto Roberto Acciaro sul carcere panottico di San Sebastiano. La pandemia sta ridisegnando la struttura sociale del Paese di Enzo Risso Il Domani, 20 giugno 2021 La società italiana esce dall’anno pandemico più polarizzata dal punto di vista sociale. I recenti numeri dell’Istat fotografano l’incremento dei poveri (più 1,7 per cento). Ma che effetti ha avuto il Covid sulla piramide sociale del nostro Paese? I segnali che giungono da questi primi sei mesi dell’anno, mostrano segnali di ripresa e ridefinizione delle mappe sociali. Cresce (più uno per cento) la quota di italiani che non riesce a sostenere le spese dentistiche, del mutuo di casa o dell’affitto, ma, al contempo, diminuisce il numero di quanti affermano di non riuscire ad affrontare spese straordinarie o inattese (-3 per cento). Dal punto di vista della piramide sociale, gli ultimi sei mesi evidenziano alcuni mutamenti significativi. Crescono upper class e ceto medio - Per un verso, ci sono segnali di ripresa del ceto medio. Il numero di persone che si autocolloca nella middle-class è passato da poco meno del 30 per cento di ottobre 2020 a circa il 36 per cento di giugno 2021. Le riaperture, i segnali di fiducia che arrivano dalla campagna vaccinale, fanno ben sperare, soprattutto, quella quota di persone che operava nei segmenti del commercio, del turismo, dell’artigianato, rimettendo in modo il senso di dinamismo e di riconquista delle proprie posizioni sociali. La cosiddetta upper class, ovvero i benestanti, quanti hanno un reddito che li fa stare bene e permette loro di concedersi anche dei lussi, è in chiara crescita, con un incremento del 2 per cento rispetto all’autunno 2020 (oggi ruota tra il 6 e l’8 per cento della popolazione maggiorenne). Per l’altro verso, invece, permangono i segnali di affaticamento per le tre classi sociali al di sotto del ceto medio. Il quadro, in queste realtà, non è statico e marca alcuni segnali di movimento. A mostrare alcuni piccoli segni di miglioramento è, innanzitutto, la middle class in fall, il ceto medio decaduto, ovvero le persone che un tempo erano parte integrante del ceto medio italico e che nel corso degli anni, complice la crisi economica prima e il Covid poi, hanno perso la propria stabilità e anche la posizione sociale. Circa il 3 per cento di questo segmento segnala una ripresa e una risalita verso la middle class, facendo assottigliare di un po’ le fila di questo segmento sociale che resta, purtuttavia, quello maggioritario (39 per cento). Una società sempre più polarizzata - Per gli altri due blocchi, il ceto degli operosi economicamente fragili (quelli che stabilmente non arrivano a fine mese) e la lower class italiana, il quadro non mostra segnali di miglioramento. Sommati questi due segmenti pesano circa il 17-18% per cento della popolazione. In essi ritroviamo i 5,6 milioni di persone in povertà assoluta di cui parla Istat, cui si devono sommare altri 4-5 milioni di persone che stabilmente terminano le risorse economiche familiari molto prima della fine del mese. Il ridisegno delle classi sociali porta alla luce un Paese con un vertice piccolo e ristretto, un corpo intermedio che dà segnali di ripresa, mentre aumentano le difficoltà per chi già era nei segmenti più fragili della società. L’Italia si mostra come un Paese attraversato da fratture sociali significative, con poco più del 40 per cento che vive una condizione stabile e poco meno del 60 per cento che vive condizioni sociali ed economiche incerte, faticose, fragili o peggio, sotto la soglia di una vita decente. Nel nostro Paese è in corso, da anni, un processo di polarizzazione sociale, con dinamiche divaricanti tra una quota benestante che sta aumentando costantemente i propri livelli di benessere e una lower class che ingrossa le proprie fila; tra un ceto medio che oscilla e dà segnali di ripresa, ma resta al di sotto del 40 per cento e una maggioranza relativa di persone che si muovono tra l’essere ceto medio in caduta (con il proprio portato di rabbia sociale e rancorosa voglia di riscatto) e l’essere parte del ceto operoso infragilito economicamente, che continua a vivere una condizione di incertezza permanente e sempre più lontana dalla possibilità di saltare su qualche ascensore sociale. Controriforma della psichiatria, Trieste non va lasciata sola di Sarantis Thanopulos Il Manifesto, 20 giugno 2021 A Trieste, città dove è nata la riforma Basaglia e una delle poche realtà italiane in cui essa continuava a essere davvero applicata, un colpo di mano della regione Friuli-Venezia-Giulia a guida leghista, ha imposto la restaurazione dell’antico regime manicomiale. La cancellazione di fatto della psichiatria territoriale e delle politiche di integrazione culturale, sociale e lavorativa delle persone sofferenti nelle comunità in cui vivono e il ritorno alle strutture ospedaliere, luoghi di contenimento farmacologico e fisico (è tornato l’uso di legare i pazienti) votati alla sedazione/repressione delle emozioni. Tre psichiatri del tutto aderenti alla controriforma (il cui obiettivo di fondo è la privatizzazione della cura psichica ospedaliera/ riabilitativa) hanno deciso che l’eccezione Trieste (riconosciuta dall’OMS come esempio da seguire) doveva finire. Una sconfitta della democrazia e della civiltà in cui le valutazioni scientifiche sono state letteralmente calpestate. Siamo di fronte a un conflitto decisivo (ignorarlo o cercare di addomesticarlo sarebbe colpevole) tra il consorzio biomedico/ comportamentale, un’entità economico-politica ammantata di una ideologia pseudoscientifica e le forze vive, appassionate della cura psichica che lavorano per la sua umanizzazione. Il consorzio è fondato sulla cosiddetta “psichiatria biologica” che identifica la complessità psicocorporea dell’essere umano, l’intero mondo dei suoi desideri, emozioni, sentimenti, pensieri, con la sua biologia. I risultati ottenuti con le sue ricerche sono inesistenti, a scapito dei cospicui finanziamenti e dell’apparato propagandistico di cui dispone. Le sue teorie di eziogenesi della schizofrenia e della depressione, a partire dallo studio dei meccanismi d’azione dei psicofarmaci, non sono mai state confermate, anche perché si è preferito ostinatamente ignorare che in medicina tanti farmaci hanno un effetto positivo sulle implicazioni di un processo patologico senza interferire con le sue cause. La ricerca disperata di marker biologici, di correlazioni biologiche inequivocabili con la sofferenza psichica, ha prodotto un’impressionante molle di dati che non sono serviti a nulla. Certi psichiatri sembrano bambini ritirati dalla realtà che giocano nei loro laboratori inventati, cercando la pietra filosofale. Con la presunzione, tutta adulta, di imporre la loro costruzione mentale ossessiva come lettura correttiva della vita. La grande grancassa della determinazione genetica delle psicosi (durata decenni) si è infranta sulla prova di realtà: lo studio sui gemelli omozigoti l’ha smentita. Oggi si parla di trasmissione di una predisposizione genetica. Freud molto più accuratamente aveva parlato cent’anni fa di un estremo in cui prevalgono i fattori ambientali, di un estremo in cui prevalgono i fattori genetici e di uno spazio di mezzo in cui questi fattori si intrecciano tra di loro. Tuttavia si può ben pensare che il nucleo originario del disagio psichico destrutturante non sia né nell’ambiente, né nella genetica, ma nella loro relazione (l’epigenetica va in questa direzione). La psichiatria biomedica non ha influito granché sulla sviluppo della terapia farmacologica (che ha prodotto, ma non sempre, una riduzione degli effetti collaterali). Usa i farmaci a dosi massicce, eccessive a scopi sedativi, anestetizzanti. Produce un contenimento repressivo insieme dei sintomi e della soggettività. Si allea con il comportamentismo addestratore (una deriva del cognitivismo) per estendere la sua azione di contenzione e per provare la sua efficacia. Il meccanismo è semplice: si addestrano le persone a comportarsi secondo schemi prestabiliti, supposti sani, e se superano la prova, sono guariti. Spesso gli addestrati, per restare veri, si oppongono (scarsa compiacenza). La controriforma biomedica della cura psichica è distruttiva. Trieste non deve restare sola. Giornata del rifugiato. Sempre più persone in fuga. Ora anche per il clima di Nello Scavo Avvenire, 20 giugno 2021 Nel 2020, nonostante la pandemia, il numero di rifugiati è salito a 82 milioni. I “profughi climatici” rappresentano il triplo di sfollati per conflitti o violenze. Ali ha 52 anni. Ne dimostra neanche uno di meno. Siede davanti a quello che era un mercato ad Aden, nello Yemen. Ali è riuscito a tornare nonostante la guerra non sia ancora un ricordo. E ha trovato solo macerie. Nonostante la pandemia, nel 2020 il numero di persone in fuga da guerre, violenze, persecuzioni, disastri climatici è salito a quasi 82,4 milioni, in aumento per il nono anno consecutivo. Intanto 99 Paesi hanno approfittato del Covid per voltare le spalle e respingere i profughi. L’ultimo rapporto annuale “Global Trends” dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr-Acnur) non offre buone prospettive. Solo 251 mila rifugiati e 3,2 milioni di sfollati interni sono tornati nelle loro case, con un calo rispettivamente del 40 e del 21 per cento rispetto al 2019. È il risultato del crollo dei reinsediamenti, che nel 2020 ha riguardato circa 34.400 rifugiati, il livello più basso degli ultimi 20 anni. La stragrande maggioranza dei rifugiati del mondo - quasi nove su dieci (86%) - sono ospitati da Paesi vicini alle aree di crisi e da stati a basso e medio reddito. I paesi meno sviluppati hanno concesso asilo al 27% del totale. Lo yemenita Alì è riuscito a ritrovare la casa, ammesso che le rovine siano una casa. “Vivevo qui da più di 15 anni e vedere il mio quartiere così mi sconvolge e mi rattrista. La guerra - ha raccontato agli operatori Onu - ci ha costretti ad andarcene e a trasferirci. Ora sono tornato, ma ci mancano i servizi essenziali”. Niente corrente elettrica, niente acqua dai rubinetti, niente telefono, e neanche un medico. Con un aumento del 4% rispetto al numero record di 79,5 milioni di persone in fuga nel 2019, quella dei profughi non è solo una delle “nazioni” più popolose al mondo. È anche tra le più giovani e fragili. Il 42% sono minorenni. E tra il 2019 e il 2020 quasi 1 milione di neonati sono venuti al mondo da profughi. “La tragedia di così tanti bambini che nascono in esilio dovrebbe essere una ragione sufficiente per adoperarsi molto di più per prevenire e porre fine ai conflitti e alla violenza”, dice l’alto commissario Onu Filippo Grandi. Più di due terzi di tutte le persone che sono fuggite all’estero provengono da soli cinque paesi: Siria (6,7 milioni), Venezuela (4,0 milioni), Afghanistan (2,6 milioni), Sud Sudan (2,2 milioni) e Myanmar (1,1 milioni). Alla fine del 2020 c’erano 20,7 milioni di rifugiati sotto mandato dell’Unhcr, 5,7 milioni di rifugiati palestinesi e 3,9 milioni di venezuelani fuggiti all’estero. Complessivamente 48 milioni di persone risultano sfollate all’interno dei propri Paesi. Altri 4,1 milioni sono richiedenti asilo. Non ci sono solo i canoni a determinare le rotte dei fuggiaschi. Il 2020 è stato l’anno in cui il cambiamento climatico ha dimostrato di essere un nuovo potente fattore di spinta. Solo nel 2020, i disastri hanno provocato 30,7 milioni di nuovi sfollamenti interni in tutto il mondo. Il numero più alto in un decennio, il triplo dei 9.8 milioni di nuovi sfollati a causa di conflitti e violenze. Intense stagioni di cicloni nelle Americhe, nell’Asia Meridionale, nell’Asia Orientale e nel Pacifico hanno provocato distruzione, migliaia di vittime e centinaia di migliaia di “profughi climatici”. “Le dinamiche di povertà, insicurezza alimentare, cambiamenti climatici, conflitti e spostamenti sono sempre più interconnesse e si rafforzano a vicenda, spingendo sempre più persone a cercare sicurezza e protezione”, spiega il documento Onu. Per il settimo anno consecutivo la Turchia ha raccolto il numero più alto di rifugiati (3,7 milioni), seguita da Colombia (1,7 milioni, compresi i venezuelani fuggiti all’estero), Pakistan (1,4 milioni, in maggioranza afghani), Uganda (1,4 milioni) e Germania (1,2 milioni). Le domande di asilo in attesa a livello globale sono rimaste ai livelli del 2019 (4,1 milioni), ma gli Stati e l’Unhcr hanno registrato 1,3 milioni di domande di asilo individuali, 1 milione in meno rispetto al 2019 (43% in meno). “Tra le riduzioni degne di nota nel numero di rifugiati - si legge nel dossier - c’è stata una diminuzione di 79.000 unità in Italia”. Lo scorso anno, nel momento di massima espansione della della pandemia, oltre 160 paesi avevano chiuso le frontiere. In 99 di questi, senza eccezione per le persone in cerca di protezione. Non di rado lasciando migliaia di persone senza neanche un pezzo di carta che ne certifichi nome e provenienza. Sono gli apolidi, almeno 4,2 milioni dalla nazionalità indeterminata. Anche l’America Centrale è una sfida crescente. Alla fine del 2020, circa 867.800 persone originarie di El Salvador, Guatemala e Honduras sono state sfollate con la forza, quasi 80.000 in più dell’anno prima. “Coloro che hanno cercato rifugio all’interno dei loro paesi o attraversando i confini internazionali - spiega il report - stavano sfuggendo, tra l’altro, alla persistente violenza delle bande, all’estorsione e alla persecuzione”. Se le cose non sono andate persino peggio, lo si deve a “migliaia di piccoli atti di solidarietà che hanno contribuito - dice Filippo Grandi - ad alleviare il dolore dell’esilio causato dai fallimenti politici”. Giornata del rifugiato. “Ora una svolta dell’Unione Europea sui migranti” di Vito Salinaro Avvenire, 20 giugno 2021 L’alto rappresentante per gli Affari esteri, Borrell, e il presidente del Parlamento, Sassoli: sviluppare una politica europea e salvare vite in mare. Monsignor Perego: non dimentichiamoli. C’è un numero senza precedenti che aleggia impietoso sulla Giornata mondiale del rifugiato, celebrata oggi: sono 82,4 milioni gli uomini, le donne e i bambini costretti a scappare dalle proprie case a causa di guerre, violenze e persecuzioni. E questo, sentenzia l’alto commissario nelle Nazioni Unite, Filippo Grandi, mentre “i leader mondiali sembrano incapaci o restii a fare la pace”. Solo negli ultimi tre anni, fa sapere Grandi, “circa un milione di bambini sono nati in esilio”. Per i leader è arrivato il momento di “farsi avanti e lavorare insieme per risolvere le sfide globali”. D’altra parte questa Giornata serve anche a “celebrare la forza d’animo dei rifugiati, coloro che hanno perso tutto, eppure vanno avanti, spesso portando le ferite visibili e invisibili della guerra e della persecuzione e l’ansia dell’esilio”. Quando “gli è stata data la possibilità, sono corsi in prima linea nella risposta al Covid-19 come medici, infermieri, addetti alle pulizie, operatori umanitari, assistenti, negozianti, educatori e molto altro ancora, fornendo servizi essenziali mentre tutti insieme combattevamo il virus”. Una messaggio condiviso dall’alto rappresentante per gli Affari esteri dell’Ue e vicepresidente della Commissione, Josep Borrell, per il quale l’Unione “ha bisogno” di migranti, sia per “motivi umanitari” sia per rispondere alla “crisi demografica” del continente e mantenerne il “livello di benessere”, per cui “l’esperienza comune” dell’Italia e della Spagna in questo ambito “dovrebbero servire come base” per “sviluppare una politica europea” sull’immigrazione, “che per molti anni non siamo stati in grado di costruire”. Dunque, aggiunge il presidente del Parlamento Ue, David Sassoli, è ora di “intervenire con pragmatismo per una grande iniziativa europea per il salvataggio in mare, per una regia di corridoi umanitari e per un ingresso regolare con una redistribuzione equilibrata che tenga conto delle necessità dei mercati del lavoro dei nostri Stati. Basta morire nel Mediterraneo, e basta vietare di entrare in Europa”. Davanti ai nostri occhi, racconta l’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Gian Carlo Perego, presidente della commissione Cei per le Migrazioni e della Fondazione Migrantes, “quasi ogni giorno, vengono ripresentati i volti, le storie, le sofferenze e i drammi di chi cerca di attraversare il Mediterraneo, il Mare nostrum che sembra che l’Europa ignori, come dimostrano le morti sempre più numerose - oltre 700 dall’inizio del 2021 - i respingimenti continui, le omissioni di soccorso, ma soprattutto gli abbandoni di persone al di là del Mediterraneo, in Libia”. Né va dimenticato, sostiene Perego, quanto avviene “alle porte di casa nostra, in Bosnia, che non può essere dimenticata in questa giornata dove affermiamo il diritto d’asilo, che però di fatto è ancora negato. In questo giorno si alza forte il grido per una nuova operazione europea di soccorso in mare che abbia l’Italia come protagonista e per un nuovo sistema di accoglienza europeo. Al tempo stesso, è urgente ripensare gli accordi con la Turchia e la Libia”. Insomma, “uno scatto di umanità e di solidarietà sarebbe un segno di un’Europa che riparte e si rinnova dopo la pandemia proprio a partire dalla tutela dei richiedenti asilo e rifugiati”. Oggi, con quella siriana, la più grande comunità di rifugiati è palestinese: dei 13 milioni di cittadini, ben 5,6 milioni è costretto a vivere lontano da casa; in occasione della Giornata, la Caritas italiana ha voluto pubblicare il 68° Dossier con dati e testimonianze: “Una vita da rifugiati. Il conflitto israelo-palestinese e la tragedia di un popolo esule”. L’obiettivo dell’organismo pastorale Cei è “continuare a ricordare un conflitto che, se non risolto, non finirà di ferire il Medio Oriente e il mondo intero”. Sono le stesse ragioni per le quali, “dinanzi a una vita in pericolo, il Cisom non si volterà mai dall’altra parte”. Lo dice il presidente del Corpo italiano di soccorso dell’Ordine di Malta, Gerardo Solaro del Borgo. “Il Canale di Sicilia non può essere il mare della disperazione, vogliamo che sia mare di speranza, futuro, vita e umanità”. Migranti. Il Vlora, trent’anni fa: un enorme promemoria di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 20 giugno 2021 La nave entrò nel porto di Bari con diciottomila albanesi a bordo. Così cambiò la storia italiana delle migrazioni. Trent’anni fa, giovedì 8 agosto 1991, il mercantile Vlora, adibito al trasporto dello zucchero, entrava nel porto di Bari con diciottomila albanesi a bordo: una città. Quel giorno d’estate cambiava la storia italiana delle migrazioni. Dopo aver esportato persone per più di un secolo - trenta milioni tra il 1861 e il 1985 - iniziavamo a importarne. Non abbiamo ancora smesso. L’immagine del Vlora è stampata nella nostra memoria collettiva. La nave grondava essere umani: stavano dappertutto, fin sui fumaioli e sulle antenne. Le autorità italiane autorizzarono l’attracco - che altro poteva fare? - ma ordinarono che il mercantile ripartisse dopo poche ore. Cosa impossibile, ovviamente, considerato il carico. Appena in porto, gli albanesi cominciarono a buttarsi in acqua. Una scena grandiosa e drammatica, che sembrava uscire dalla fantasia di Dante Alighieri. Invece accadeva in diretta televisiva, davanti a un’Italia incredula. La data e l’episodio mi sono tornati in mente leggendo “Prima gli italiani! (sì, ma quali?)” di Francesco Filippi, storico della mentalità (così lo definisce il risvolto di copertina dell’edizione Laterza). Un saggio secco e utile, pieni di numeri e di fatti, condito di idealismo e profumato di ideologia. Un libro che costringe a ragionare. L’autore sostiene che nell’estate del 1991 l’Italia diventava, per la prima volta, l’America di qualcun altro. Gli albanesi, ipnotizzati dalla nostra spensierata televisione anni ‘80, erano convinti che, oltre l’orizzonte, iniziasse il paradiso. Crollata la dittatura, venivano a vedere com’era fatto. Il mercantile Vlora dovrebbe costituire un gigantesco promemoria. E un monito. L’immigrazione non si può gestire col fatalismo del cuore (un’illusione della sinistra, da Laura Boldrini ad Alexandria Ocasio-Cortez). Ma non si può neppure rifiutare, né controllare completamente, come racconta la destra (da Donald Trump a Matteo Salvini pre-Draghi). La storia non chiede permesso: entra senza bussare. Esiste un’immigrazione inevitabile e un’immigrazione organizzabile. Quindi, cominciamo a organizzarci. E ad agire, consapevoli che qualcosa dovremo accettare. Altrimenti all’orizzonte, provenienti dall’Africa, compariranno dieci, cento, mille Vlora. E allora sarà tardi. Stati Uniti. Cinquant’anni di guerra alla droga, ma narcos e mafie hanno vinto di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 20 giugno 2021 Giugno 1971: l’allora presidente Nixon indicò il consumo di stupefacenti come il nemico numero uno. Da allora, in mezzo secolo, il traffico è esploso. La guerra alla droga compie 50 anni. Mezzo secolo. Era il 17 giugno 1970 quando l’allora presidente Richard Nixon convocò la stampa alla Casa Bianca e con aria grave annunciò: “Il nemico numero uno degli Stati Uniti d’America è l’abuso di droga. Da oggi lanceremo un’offensiva per spezzare i legami con i problemi creati dalle fonti di offerta”. Era un messaggio chiaro. Affrontava la tragedia di migliaia di reduci dal fronte del Vietnam che tornavano a casa dipendenti dall’eroina. Giovani neanche ventenni, raccolti in ogni angolo del paese, spediti a forza nella giungla del sudest asiatico a combattere una guerra che avevano visto solo da lontano. Mesi di battaglie, scontri, imboscate, malattie. Una follia che li aveva spinti, alla fine, a farsi qualche canna di erba ma soprattutto a infilarsi nelle vene la più potente tra i brown sugar al mondo. Il Pais dedica una ampia analisi a questo vero spartiacque che diede il via alla più lunga guerra nella storia degli Usa, poi rilanciata da Ronald Reagan ma soprattutto da sua moglie Nancy con un drammatico appello in tv. Mette a nudo le contraddizioni di una battaglia che si è concentrata soprattutto in America Latina che con i suoi confini era più minacciosa della lontana Asia. Nulla fu come prima. Anzi. La guerra alla droga più che frenare il consumo creò le basi del traffico clandestino, sconvolse le economie dei paesi produttori, eliminò lavoro e soldi a decine di migliaia di contadini, avvitò decine di paesi in una spirale di violenza che continua adesso. Più forte di prima. “L’unica maniera reale, concreta per chiudere con l’eroina”, spiegò Nixon, “è bloccare la produzione d’oppio”. Da quel momento, l’oppio iniziò a diffondersi come mai era accaduto prima. Nel 1970 i morti per overdose erano 1 ogni 100 mila abitanti. Alla fine del XX secolo il numero si era moltiplicato per sei e nel 2019 le vittime superavano le 20 ogni 100 mila. Oggi, sul mercato, ha fatto il suo ingresso il fentanyl, un concentrato molto più forte dll’eroina che sballa e uccide subito anche i più ostinati tossici. Ma è più facile da trasportare, occupa meno spazio, piace molto di più. Una trappola costruita in laboratorio e immessa sui mercati statunitensi e canadesi dalla n’drangheta, l’organizzazione criminale più potente al mondo. Due anni fa, le autorità sanitarie statunitensi lanciarono l’allarme per la strage che colpiva gli assuntori di droghe pesanti. Morivano come mosche. Si scoprì da cosa era provocata. Fonti indipendenti convengono su un dato: l’impatto con il fentanyl giunge dopo che per mezzo secolo gli Stati Uniti hanno speso nella lotta alla droga in tutto il mondo tra 340 milioni e mille miliardi di dollari. Cosa è stato ottenuto? Poco se si pensa ai 300 milioni di assuntori che annualmente usano una droga illecita, al prezzo sul mercato che si è abbassato e alle morti per overdose che sono cresciute in modo esponenziale. Il settore degli stupefacenti ha un volume impressionante di guadagni. Nel 2009, secondo dati delle principali agenzie antinarcotici, erano di 84 miliardi. Una cifra, spiega el Pais, molto vicina al fatturato di Bill Gates. Oggi altre fonti attendibili stimano un incasso che sfiora i 350 miliardi di dollari. Eppure si sa che il 70 per cento va ai trafficanti e solo l’1,2 ai contadini che la coltivano. Sono sempre questi a pagare il prezzo più alto del proibizionismo: tra il 1992 e il 2001 si sono persi 230 mila posti di lavoro. Sono invece cresciute le organizzazioni e i Cartelli (solo in Messico ce ne sono 37, quelli più rilevanti); paesi come Colombia e Messico si sono messi in proprio, i governi hanno versato montagne di quattrini per contrastare non tanto il traffico ma le stesse gang, con migliaia di arresti di piccoli spacciatori e consumatori, carceri sovraffollate e soprattutto decine di migliaia di vittime innocenti tra la popolazione civile. In sette paesi dell’America Latina, tra il 1992 e il 2007, secondo il Centro Studi Droghe e Diritto, il numero di arresti è cresciuto del 100 per cento. In Messico, nel 2016, c’erano 211 mila detenuti e sei su dieci lo erano per piccoli reati legati alla droga. Ma tra il 2007 e il 2020 ci sono state solo 44 sentenze nei confronti per riciclaggio di denaro. Il Fmi stima che nel 2017 sono entrati negli Usa quasi 30 miliardi di dollari in droga. Se fossero stati frutto di transazioni legali avrebbero rappresentato l’1,3 per cento di tutte le importazioni. È la stessa somma, ricorda el Pais, che il governo italiano ha investito per affrontare la prima ondata del Covid. Nessun paese si è salvato dall’ondata di violenza che questa guerra alla fine ha scatenato. Solo la Bolivia si è sottratta per una scelta che lo stesso presidente Evo Morales impose al paese. Decise di espellere la Dea e di controllare direttamente la produzione delle foglie di coca che lì hanno un valore ancestrale. Il risultato fu sorprendente e contrastò con la dottrina Usa della lotta alla droga. Furono chiusi i laboratori di raffinazione, si fissò la quantità di pasta base di coca da poter ricavare dalle piantagioni. Controllo pacifico piuttosto che guerra aperta. Meno morti, meno proteste per perdite di posti di lavoro, meno terreni coltivati a foglie di coca. Perfino l’ambasciata Usa a La Paz riconobbe gli straordinari risultati: le 550 tonnellate di solfato di cocaina prodotti nel 1992, si erano ridotti a 110 nel 2017. Ma questo presuppone non tanto la legalizzazione della cocaina come lo era fino agli anni 50 del secolo scorso. Oggi non ci sono più le condizioni. Le difficoltà nel chiudere una guerra che è persa in partenza sono legate ai soldi. Quelli usati per combattere il narcotraffico e quelli incassati con il narcotraffico. Nessuno vuole rinunciare a questo tesoro. Russia. Detenuti ai lavori forzati, il vicepremier Husnullin: “Farà bene anche a loro” di Anna Zafesova La Stampa, 20 giugno 2021 I primi detenuti hanno iniziato a lavorare nei cantieri della città di Mosca”. Non è una notizia d’archivio del 1937, è del giugno 2021, e viene data dal vicepremier russo Marat Husnullin, che annuncia il nuovo “esperimento”. I 1.500 detenuti in questione vengono pagati (non è stato specificato se hanno la stessa retribuzione dei colleghi in libertà), ma il capo del Servizio federale dell’esecuzione delle pene - sostanzialmente l’erede dello storico Gulag, che oggi porta la sigla Fsin - Aleksandr Kalashnikov vorrebbe reintrodurre anche i lavori “forzati”. Dei 482mila detenuti russi, ha calcolato, 188mila hanno diritto a farsi convertire la pena in “lavori coercitivi”, e andare a sostituire quei migranti che, causa Covid, non fanno più i muratori e gli spazzini a Mosca e in altre grandi città. I conti non tornano: per non ricorrere più al lavoro dei “gastarbeiter” - i media russi definiscono i migranti dell’ex Urss venuti a lavorare in Russia con questo termine tedesco, usato con tono sprezzante - ci vorrebbero almeno sei milioni di “forzati”, un numero difficile da raggiungere, anche se la proclamazione dei seguaci di Alexey Navalny come “estremisti” aumenterà il già elevatissimo tasso di arresti e processi. Né si capisce perché i prigionieri che hanno diritto a farsi convertire la pena in una sorta di lavori socialmente utili, debbano rimanere in prigione. Nel frattempo l’operazione ha già avuto il plauso dei vari esponenti del governo, inclusi i membri del Consiglio per i diritti umani presso il Cremlino, che hanno decantato i benefici del lavoro sul futuro reinserimento sociale dei condannati. Ma quello che più ha fatto discutere è stato il commento dell’agenzia di Stato Ria-Novosti, che ha attaccato i “fan della democrazia”, che ricordavano come nel Gulag il lavoro forzato fosse obbligatorio. Il paragone con lo stalinismo è, secondo l’autrice, un pretesto “per fermare lo sviluppo della nazione”, e la “gente semplice” può solo beneficiare del lavoro fisico, mentre la presenza della polizia penitenziaria nei cantieri può essere utile. Quello che però ha fatto esplodere di rabbia i social è stata l’affermazione che i lager staliniani “non erano tutti orribili”, e a raccontargli come tali è solo l’intellighenzia, per la quale finire in Siberia è stato “un contrasto spiacevole con i ristoranti di lusso”. Per i poveri i lavori forzati diventavano invece un “ascensore sociale”. Che il Gulag per milioni di detenuti sia stato un “ascensore” che li faceva scendere nell’abisso viene rigettato come un “mito per spaventarci”. Russia. Biden (e Putin): Navalny non deve morire in carcere di Franco Venturini Corriere della Sera, 20 giugno 2021 Il presidente Usa l’ha chiesto esplicitamente. Ma il leader russo sa che in caso opposto ci sarebbero gravi conseguenze. Se il vertice Biden-Putin ha avuto un senso, e lo ha certamente avuto nella comune volontà di dialogo tra le parti, crediamo di poter indovinare quel che è accaduto nella prigione che ospita l’uomo-simbolo dell’opposizione al Cremlino, quel Alexej Navalny che in febbraio è stato condannato a tre anni e mezzo: raddoppio della guardia, medici pronti a intervenire in caso di bisogno, assaggiatori di tutto quello che Navalny beve o mangia, un paio di ambulanze di riserva. Perché Navalny non deve morire. Putin, naturalmente, lo sapeva da tempo anche se i suoi servizi sono accusati di aver tentato di avvelenarlo. Ma una cosa è esserne consapevoli e altra è sentirselo dire in faccia da un Biden che non aveva l’aria di scherzare: “Se Navalny dovesse morire in carcere le conseguenze saranno devastanti”. E dal momento che ora tra Biden e Putin non corrono soltanto insulti ma anche mani tese sul disarmo, accordi per combattere insieme (davvero?) gli attacchi cibernetici, preparazioni per uno scambio di vere o presunte spie come ai tempi della guerra fredda, segreti interessi a frenare la poderosa ascesa della Cina, ecco allora che la “linea rossa” tracciata da Biden assume una importanza capitale per Putin. Va detto che oltre a nominare Navalny, cosa che Putin in conferenza stampa non ha mai fatto, il nuovo capo della Casa Bianca ha chiesto al collega del Cremlino un cambio di passo nei confronti di tutta l’opposizione. Ma su questo c’è poco da sperare. I gruppi che fiancheggiano le proteste di Navalny sono stati dichiarati fuorilegge e in parte sono emigrati, ogni critica ai piani alti del Palazzo può essere attribuita ad “agenti stranieri”, la magistratura è pronta a castigare chi non fila diritto, e le elezioni parlamentari di settembre semmai accentueranno la svolta autoritaria. Putin sa di non poter apparire debole davanti alla sua opinione pubblica. E poi, non basta che Navalny viva? Ex Jugoslavia. Così Belgrado protegge 80 complici di Mladic di Pietro Del Re La Repubblica, 20 giugno 2021 Il “Boia dei Balcani” è stato condannato all’ergastolo dalla Corte dell’Aia. Ma gran parte dei suoi sodali restano liberi. Alcuni siedono persino nel Parlamento serbo. La Storia si nasconde sotto a un tavolino dell’ex Caffè Istanbul, diventato nel frattempo Pub Pivo e dove il pavimento è ancora scalfito dalla granata lanciata il 4 aprile 1992 dalle “tigri di Arkan”, un manipolo di ultra-nazionalisti serbi mischiati a criminali comuni e a ultrà reclutati allo stadio Marakàna di Belgrado. L’esplosione uccise diciassette notabili bosniaco-musulmani: le prime vittime di una guerra che con gli sgozzamenti di civili, l’assedio di Sarajevo, il genocidio di Srebrenica, i lager e le fosse comuni in quattro anni provocò duecentomila morti. “Adesso che Radko Mladic è stato condannato all’ergastolo in via definitiva dobbiamo smetterla di rivangare il passato”, dice la giovane proprietaria del bar, Dijana Pavlovic. “Ma il Tribunale dell’Aia è anti-serbo per definizione. Ci odia, e noi lo ricambiamo. Il fatto che i serbi siano stati condannati a 1138 anni di prigione, con ben otto ergastoli, mentre i bosniaco-musulmani, che pure hanno compiuto terribili efferatezze, soltanto a poche decine d’anni, la dice lunga sull’obiettività di quella corte”. Non la pensa così Tarik Tuco, iman della malconcia moschea di Bijeljina, cittadina bagnata dalla Drina nella Repubblica Serba di Bosnia, dove 29 anni fa le “tigri di Arkan” entrarono scortate da una divisione dell’esercito di Belgrado e in pochi giorni ammazzarono quattrocento persone. “Da anni tra i serbi è in atto un’autoassoluzione collettiva per gli orrori che hanno compiuto in Bosnia. E, come se non bastasse, adesso c’è anche chi prova a ribaltare i ruoli tra vittime e aggressori”, spiega l’imam. “Gli sterminatori serbi non erano solo militari, contadini o pastori. C’erano tra loro anche ingegneri, chirurghi e docenti universitari. A guidare la pulizia etnica, anche fisicamente, fu un ceto medio illuminato. Oggi, molti di quei colletti bianchi vivono giorni sereni in Serbia, anche se sono condannati dai tribunali bosniaci”. A rilanciare la grave denuncia dell’imam è il sito della Balkan Investigative Reporting Network, ong che difende i diritti umani in Europa sud-orientale e secondo cui sono circa ottanta i criminali di guerra che hanno trovato rifugio a Belgrado, molti dei quali complici del “boia dei Balcani”, condannato in appello l’8 giugno all’Aja. “I sodali di Mladic hanno scarse possibilità di essere perseguiti perché sebbene Serbia e Bosnia abbiano un accordo di cooperazione legale, Belgrado non estrada i suoi cittadini in altri Paesi, il che significa che quei crimini di guerra rimarranno per sempre impuniti”. Il sito dell’ong riporta che tra gli imboscati figurano l’ex ufficiale dei servizi segreti presso il quartier generale dell’esercito serbo-bosniaco Radoslav Jankovic, il capo dell’intelligence Svetozar Kosoric e il capo della polizia in tempo di guerra Tomislav Kovac, diventato in seguito ministro degli interni a Belgrado. Accusati di genocidio, vivono tutti e tre da uomini liberi in Serbia. C’è poi il caso di Brano Gojkovic, colluso con Mladic per l’assassinio di ottomila musulmani a Srebrenica. Dopo aver ammesso le sue colpe, Gojkovic fu condannato a soli dieci anni di carcere perché, nonostante le sentenze dei tribunali internazionali, la Serbia non riconosce quel crimine come genocidio. Balkan Insight parla anche del comandante della Brigata Birac, diventato poi capo di Stato maggiore del Drina Corps, Svetozar Andric, che la Bosnia vorrebbe processare. Ma Andric è oggi deputato, e il suo partito fa parte della coalizione del governo serbo. Il che avvalora le conclusioni di un rapporto della Commissione europea sui progressi dell’adesione all’Ue di Belgrado, secondo il quale la mutua cooperazione legale tra Bosnia-Erzegovina e Serbia è ancora molto limitata per i casi di crimini di guerra. A Belgrado incontriamo Vjerica Radeta, vice presidente di quel Partito radicale che ancora alimenta la mitologia del nazionalismo pan-serbo evocando l’eterna cospirazione islamica contro l’Occidente cristiano. Secondo Radeta a Srebrenica non c’è stato nessun genocidio. Mladic è dunque innocente. “Sono gli Stati Uniti e la Nato i responsabili della cruenta disintegrazione dell’ex Jugoslavia, e il Tribunale dell’Aia ha avuto il compito di distogliere l’attenzione dai veri colpevoli con le sue sentenze illegali. Leggendo i verdetti dell’Aia, si potrebbe pensare che i serbi non abbiano avuto vittime nelle ultime guerre patriottiche, il che è ovviamente falso”. La scomposta retorica degli ultranazionalisti contiene però una verità di peso. E cioè che alcuni crimini contro i civili serbi, sia pure meno numerosi di quelli contro i musulmani, sono rimasti impuniti. Ratko Mladic, il cui volto carnoso è stampato sulle t-shirt vendute dalle bancarelle di souvenir davanti all’antica fortezza di Belgrado, incarna oggi il simbolo di quell’ingiustizia. Il carnefice di Srebrenica s’è trasformato in martire ed eroe del popolo serbo. A poche ore dalla sua condanna definitiva lo stesso presidente Aleksandar Vucic ha denunciato la “giustizia selettiva” del Tribunale dell’Aja, “nelle cui sentenze nessuno è stato dichiarato responsabile dei crimini contro i serbi”. Vucic ha poi sottolineato che il suo Paese è pienamente impegnato a indagare, arrestare e punire i responsabili di crimini di guerra. È vero, Belgrado ha recentemente cominciato a processare i suoi criminali più sanguinari, ma mai di sua iniziativa, e soltanto dopo essere stata incalzata dalle autorità di Sarajevo. Fatto sta che in Serbia, secondo Dimitar Ilic, laureando in Economia e attivista politico, ancora sopravvive una nutrita frangia di ultra-nazionalisti legati ai servizi di sicurezza e alla tifoseria violenta: “Il suo sottobosco è stato sfoltito dal governo per presentarsi più pulito agli occhi di chi dovrebbe accoglierci nell’Ue, ma lo zoccolo duro di quella categoria di canaglie permane. Il motivo dell’ultradecennale accanimento contro i serbi è uno solo: nessuno di noi ha mai chiesto il perdono per i crimini compiuti”. Ma c’è dell’altro. Basta leggere le trascrizioni degli interventi registrati nel quartier generale serbo-bosniaco tra il 1991 e il 1995, all’epoca affollato di psichiatri e scrittori. Sono state recentemente pubblicate dallo Srebrenica Memorial Center, che le chiama Genocide papers. Oltre a Mladic, all’Assemblea nazionale della Republika Srpska di Bosnia parlano il suo ex presidente Radovan Karadzic, Momcilo Krajisnik e altri ideologi e bardi della Grande Serbia. Le loro agghiaccianti parole svelano i dettagli della pianificazione e dell’attuazione di uno sterminio. Ex Jugoslavia. Quell’Isola nuda e le atrocità di Tito sui nemici interni di Matteo Carnieletto Il Giornale, 20 giugno 2021 A Goli Otok sorgeva uno dei gulag in cui venivano rinchiusi i dissidenti tra i quali 300 italiani. Solo qualche targa ricorda la crudeltà del dittatore. Sono tanti i nomi di Goli Otok: c’è chi la chiama isola segreta e chi, invece, isola calva. Per qualcun altro è l’isola nuda. Per tutti, invece, è l’isola degli orrori. Dal 1949 al 1956, infatti, Josip Broz Tito, Maresciallo di Jugoslavia, vi spedì oltre 30mila dissidenti (tra loro anche trecento italiani attratti dalle sirene del socialismo), 4mila dei quali morirono dopo atroci sofferenze. La loro colpa? Esser rimasti fedeli all’Unione sovietica dopo lo strappo tra Belgrado e Mosca. Come scrive Orietta Moscarda Oblak in La memoria di Goli Otok - L’isola calva: “Nei confronti dei cominformisti’ le autorità jugoslave avviarono una violenta epurazione, che lasciò ai comunisti italiani, schieratisi quasi compattamente con Stalin, la sola via dell’emigrazione, attraverso la richiesta d’opzione a favore della cittadinanza italiana prevista dalle clausole del Trattato di pace, quale possibilità di scampare ai processi, alle condanne, al lavoro socialmente utilè e alla deportazione nel campo di prigionia dell’Isola Calva (Goli Otok)”. I sette anni di terrore furono tutti in autogestione, come ricorda il sopravvissuto Eligio Zanini: “Si venne a sapere in seguito che tra i campi organizzati dai vari regimi totalitari i nostri erano di gran lunga i più efficienti, in quanto erano gli stessi detenuti a controllarsi, bastonarsi, denunciarsi e autoamministrarsi, facendosi del male tra di loro”. I racconti dei sopravvissuti si sovrappongono drammaticamente. Chiunque osasse esprimere anche un minimo di autonomia rispetto al comunismo jugoslavo veniva prelevato e, dopo esser stato caricato sul Punat, la motobarca che aveva il compito di trasportare i dissidenti sull’isola degli orrori, veniva pestato, come racconta Sergio Borme, un sopravvissuto: “Quando arrivammo a Goli non ci riconoscevamo più, tanto i volti e le membra erano tumefatti dalle bastonate”. Ma quello era solo l’inizio dell’incubo: non appena si sbarcava si finiva in un tunnel fatto di botte continue chiamato kroz stroj e si veniva finiti con lavori estenuanti e punizioni tremende. Racconta un altro superstite, Silverio Cossetto: “Appena arrivato, seppur febbricitante e pesto, venni impiegato subito al trasporto di pietre con le zivierè. Tutto il lavoro doveva essere fatto sempre di corsa. Chi, come me, non era abituato ai lavori pesanti, se la passava veramente male. Per ogni minima infrazione erano pronte le più severe punizioni. Tutto era predisposto al fine di demolire, non solo fisicamente ma soprattutto moralmente anche la più forte personalità. A questo scopo erano stati studiati ogni sorta di espedienti, tra i quali figurava pure la sete”. L’obiettivo di questo campo di rieducazione era quello di portare i dissidenti sulla retta via, per questo veniva fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, fino a spingere gli internati a confessare colpe che non avevano. Anzi, spesso i detenuti spingevano la propria fantasia oltre ogni limite per essere il più possibile credibili. Il rischio, altrimenti, era quello di prendere nuove e più forti legnate. A Goli Otok non ci si poteva fidare di nessuno. Ed era questo il punto di forza del campo: le persone che si trovavano sull’isola erano allo stesso tempo vittime e carnefici. Racconta il già citato Borme: “Tutto era diretto dai fiduciari dell’Udb-a. Il capobaracca, infatti, andava quotidianamente a rapporto dall’isljednik’ e da lui riceveva l’ordine su ciò che doveva fare e chi doveva essere boicottato. A turno poi tutti dovevano andare da questo fiduciario a confessarsi e a denunciare qualcuno, altrimenti, prima o dopo, venivano boicottati loro stessi e considerati banda’. A un certo momento non ti fidavi più di nessuno. Se qualcuno ti diceva, o raccontava qualcosa, dovevi riferire subito, altrimenti andavano loro a riportare la faccenda operando spesso da agenti provocatori. Un sistema allucinante che purtroppo veniva attuato quasi da tutti”. A Goli Otok era difficile perfino suicidarsi. Un giorno, un detenuto disperato provò a lanciarsi dal tetto di una baracca, sperando di farla finita, ma non morì. Fu la sua fine: venne infatti messo a riposo e, una volta che fu finalmente guarito, venne pestato a sangue. Doveva comprendere di aver fatto un errore. Doveva pagare. “Furono in molti a tentare il suicidio, ma la sorveglianza era così severa che anchese lo volevi, non riuscivi nell’intento”. Ma non c’era solamente Goli Otok. A San Gregorio, per esempio, alcuni testimoni raccontano che sarebbe stato presente anche un forno crematorio: “La gente infatti diceva, che secondo come tirava il vento, si sentiva l’odore di carne umana. Questo forno era munito di due capaci camini”, ha detto Silvano Curto. Oggi, di Goli Otok è rimasto poco o nulla. Coloro che erano sopravvissuti agli orrori di Tito sono ormai scomparsi e la memoria rischia di andare perduta. Di quel campo degli orrori rimane solamente qualche baracca abbandonata e un mucchio di sassi cotti dal sole e sferzati dalla bora. Eppure tutto questo non si può dimenticare. Afghanistan. La grande fuga dei senza rifugio di Marco Boccitto Il Manifesto, 20 giugno 2021 “Facciamo del nostro meglio, ma la situazione è complicata”. Ex giornalista, Noor Rahman Akhlaqi ha un incarico da far tremare i polsi: ministro per i Rifugiati e i Rimpatriati. Ci accoglie nel suo studio al ministero, in un quartiere alle spalle dei giardini di Bagh-e-Babur. Spiega che ha tre obiettivi: “Facilitare il rientro di chi è all’estero, occuparci degli sfollati interni e aiutare i rifugiati nei Paesi stranieri”. Tre compiti difficili ovunque, quasi impossibili qui. Secondo l’ultimo rapporto dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati, l’Afghanistan è il terzo Paese al mondo dopo la Siria (6,8) e il Venezuela (4,9) per numero di rifugiati: 2,8 milioni. La preoccupazione maggiore oggi sembra però riguardare chi è dentro i confini nazionali, non fuori. Tra questi, i rimpatriati dai Paesi confinanti, Iran e Pakistan. Soltanto tra gennaio e maggio 2021, più di 490.000 afghani senza documenti sono ritornati a casa: un incremento del 42% rispetto allo stesso periodo del 2020. Metà di loro è stata deportata. E secondo i dati dell’Organizzazione per le migrazioni internazionali, le famiglie ricorrono sempre di più al lavoro minorile per sbarcare il lunario. “Proviamo in tutti i modi a favorirne il reintegro, ma le risorse sono insufficienti”, ammette il ministro. Per il quale la priorità sono gli sfollati interni. “Secondo le organizzazioni internazionali sono 4,1 milioni, per noi 2,5”, sostiene. Secondo i dati del ministero, dall’inizio dell’anno, specialmente dopo l’1 maggio, sarebbero 128.000 le famiglie sfollate a causa del conflitto. Le truppe straniere sono sulla via di casa, i Talebani all’offensiva. Più di 40 i distretti passati sotto il loro controllo. I civili scappano. E svaniscono le promesse degli stranieri. “La riduzione degli aiuti internazionali già c’è stata - nota il ministro -. Lo scorso inverno l’obiettivo era assistere 200.000 famiglie in totale. Con le nostre finanze ne abbiamo potute assistere solo 20.000, altre 50.000 grazie all’aiuto degli stranieri. Sono rimaste senza aiuto 130.000 famiglie”. Un numero enorme. “Se la riduzione dovesse continuare a questo ritmo, l’impatto sarebbe molto negativo”. Dopo il ritiro completo delle truppe straniere, “senza dubbio gli sfollati interni aumenteranno” ci dice Akhlaqi. Così come il numero di chi lascia l’Afghanistan. “Lavoriamo affinché gli afghani restino qui, ma ci aspettiamo che saranno in tanti a emigrare”. La tendenza è già in atto secondo Abdul Ghafoor, direttore dell’Afghanistan Migrants Advice and Support Organization, un’associazione che fornisce informazioni e sostegno a migranti e rimpatriati. “Nei caffè, nelle case, tra amici, non c’è posto in cui non si parli di come lasciare il Paese. Tutti cercano un modo per andarsene. Spiace dirlo, ma è un fallimento per la Nato, per il governo afghano. Avevano promesso sicurezza e stabilità, non c’è nessuna delle due”. Per Ghafoor la ragione è una: “L’incertezza sul futuro, la sicurezza che peggiora di giorno in giorno, l’uccisione di civili ovunque, nelle scuole, sui bus pubblici, nelle case. Non c’è luogo in cui ci si senta al sicuro”. La pandemia ha a lungo diminuito le partenze, anche a causa delle restrizioni dei Paesi confinanti, ma si è tornati a emigrare. Si continuerà a farlo. Più di prima. Nelle ambasciate di Wazir Akbar Khan, qui a Kabul, i diplomatici europei non nascondono la preoccupazione: elencano “l’ondata migratoria” tra i rischi della fase post-ritiro. Temono che gli afghani, senza sicurezza, arrivino a cercarla in Europa. Sono disposti a concedere asilo solo a interpreti e collaboratori delle forze di sicurezza, anche grazie a una campagna mediatica internazionale. “I governi stranieri dovrebbero prendersi cura di chi, qui in Afghanistan, si è preso cura di loro, aiutandoli. Hanno la responsabilità di portarli al sicuro - sostiene Ghafoor -. Se i Talebani dovessero attaccare le città, i primi obiettivi sarebbero quanti hanno lavorato con gli stranieri”. Quanto a tutti gli altri afghani, l’Europa sembra volersene proteggere. Nell’ottobre 2016 a Bruxelles è stato firmato il Joint-Way Forward, un accordo tra l’Unione europea e il governo di Kabul. Prevedeva il rimpatrio - anche forzato - di tutti gli afghani la cui richiesta di asilo fosse rigettata dai Paesi membri, in cambio di aiuti economici. Scaduto quell’accordo, il 26 aprile 2021 è stato sostituito dal Joint Declaration on Migration Cooperation, in linea con il Nuovo Patto su Migrazione e Asilo dell’Unione europea. Al centro, sempre i rimpatri. “È un accordo perfino peggiore del precedente - sostiene Ghafoor -: quello escludeva dal rimpatrio alcune categorie di persone vulnerabili, il nuovo non le tutela più”. Il messaggio di Ghafoor è chiaro: “Smettetela di deportare gli afghani, di sbatterli in una situazione di guerra. Continuano a farlo Germania, Svezia, in parte Austria, Danimarca, Ungheria. Non l’Italia”, ci dice. Numeri sicuri non ne fornisce. Ma racconta i casi molto recenti - solo di pochi giorni fa - di alcuni ragazzi rimpatriati dalla Svezia e dalla Germania. E spiega le difficoltà del reinserimento nella società: “Per persone che hanno passato anche 5/6 anni in un Paese europeo, reintegrarsi è difficile. C’è la violenza del conflitto, le esplosioni, la criminalità, e c’è la violenza di chi li vede ormai come estranei, come occidentalizzati”. Anche per questo, la percentuale di chi riparte è molto alta. “La prima cosa che fanno, una volta rimpatriati, è trovare nuovi documenti. Per ripartire di nuovo”. A ripartire pensano anche funzionari e diplomatici di Wazir Akbar Khan. Nelle ambasciate si stilano piani di evacuazione. Se la situazione dovesse mettersi male, se i Talebani dovessero avvicinarsi troppo a Kabul, bisogna essere pronti a lasciare il Paese. Per questo è così importante garantire la sicurezza dell’aeroporto della capitale. Da una parte chi si prepara a evacuare, dall’altra chi viene rimpatriato. Con modi diplomatici, nota la contraddizione anche il ministro Akhlaqi. Quanto ai patti con l’Unione europea, per lui “non c’è differenza tra i due accordi”. Ci fornisce numeri ufficiali sugli afghani rimpatriati dall’Europa. “Nel corso di quest’anno, finora 24 persone sono ritornate volontariamente dall’Europa, mentre i rimpatriati sono 272”. Impossibile prevedere quanti lasceranno il Paese. “Ma saranno tanti”. Afghanistan. La Turchia vuole prendere il posto degli americani di Marco Ansaldo La Repubblica, 20 giugno 2021 Con un piano in 12 punti Erdogan punta sbarcare a Kabul per accrescere ancora il suo peso internazionale dopo l’impegno in Siria e in Libia. Con soldati, spie e imprenditori. Tra vecchie e nuove alleanze. C’è un piano in 12 punti che la Turchia sta preparando per il suo sbarco in grande stile in Afghanistan dopo il ritiro delle truppe americane da Kabul. Un programma che viene discusso segretamente nelle stanze del ministero degli Esteri di Ankara, ma con la convinzione di aprire un nuovo fronte di sviluppo per la politica internazionale turca. Il piano non è ancora approntato in modo ufficiale. I suoi singoli punti fanno però parte di una strategia che gli uffici preposti del dicastero hanno affidato a una pattuglia di diplomatici che lo stanno discutendo e organizzando in modo unitario. Proprio nelle ultime ore Recep Tayyip Erdogan ha annunciato, secondo quanto diffuso dall’agenzia di stampa semiufficiale Anadolu, che “la Turchia potrebbe prendere su di sé molte responsabilità in Afghanistan” non appena sarà terminata l’evacuazione degli Stati Uniti attualmente in corso. Non solo, ma il capo dello Stato turco ha confermato nel recente colloquio a due con il presidente americano Joe Biden che Ankara è pronta ad assumere la sicurezza dell’aeroporto di Kabul. È questo il primo capitolo della “lunga lista di impegni” che il governo di Erdogan si prepara ad affrontare in uno scacchiere non nuovo per la Turchia, ma dove ora il Paese a maggioranza musulmana vorrebbe ulteriormente espandersi. E anche questa volta, così come in Siria e in Libia, con un ruolo da assoluto protagonista. Ecco i punti del piano turco. Difesa dell’aeroporto di Kabul - Lo scalo internazionale “Hamid Karzai” della capitale è lo snodo fondamentale di accesso all’Afghanistan, oltre che la principale via di arrivo e uscita dei diplomatici occidentali e dei funzionari delle diverse organizzazioni umanitarie presenti. Al recente summit della Nato i dirigenti dell’Alleanza atlantica hanno promesso di fornire un finanziamento transitorio per assicurare la continuità del funzionamento dell’aeroporto. E riferendosi al colloquio tra Biden e Erdogan svoltosi a Bruxelles a margine del vertice, il consigliere americano per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan, ha detto che “il chiaro impegno dei leader è di assegnare alla Turchia un ruolo guida nel garantire la sicurezza dell’aeroporto internazionale Hamid Karzai”, assicurando che il “sostegno” richiesto da Erdogan in proposito “verrebbe fornito”. Washington teme infatti che al termine del suo ritiro, le milizie dei Talebani possano attaccare le missioni internazionali presenti in Afghanistan. In questo contesto la Turchia è il Paese che offre, sotto il profilo militare, le migliori garanzie di difesa. Costruzione di una rete di difesa e cibernetica di sicurezza - Di pari passo con la garanzia di assicurare lo scalo più importante dell’Afghanistan, la Turchia ha allo studio di allargare, attraverso le sue formidabili competenze militari, la cintura di difesa ad altre aree sia della capitale che del Paese. In questa chiave lo sviluppo nel campo della cyber-sicurezza è fondamentale. Nella tecnologia elettronica e digitale i turchi dispongono di una classe di giovani ampia, molto preparata e all’avanguardia. Il programma prevede l’impiego delle generazioni più giovani anche per sopperire a una crisi occupazionale in Turchia di dimensioni preoccupanti. Collaborazione fra Mit e servizio segreto afgano - In questa chiave è necessario un rafforzamento della collaborazione tra i servizi segreti ufficiali dei due Paesi, il Mit turco e la Direzione nazionale della sicurezza (Dns) afgana. A Kabul l’intelligence turca è operativa, con una rete capillare estesa a molte aree del Paese. Ma adesso, nell’ottica di sviluppare ulteriormente i rapporti bilaterali, i due servizi segreti dovranno collaborare ancora più strettamente con uno scambio più intenso di informazioni. Ruolo anti-terrorismo - Il 1 marzo 2021 Kabul e Ankara hanno festeggiato insieme i 100 anni delle loro relazioni diplomatiche. Un rapporto di grande fiducia, cominciato due anni dopo l’indipendenza dell’Afghanistan (avvenuta nel 1919), quando l’ambasciata turca a Kabul fu la prima rappresentanza diplomatica a essere riconosciuta. E allo stesso modo l’Afghanistan fu il secondo Paese dopo l’Unione Sovietica a riconoscere la nuova Repubblica di Turchia fondata da Mustafa Kemal, cioè Ataturk, nel 1923. Durante la cerimonia, il ministro degli Esteri afgano Mohammed Haneef Atmar ha dichiarato che Ankara ha avuto nel Paese un ruolo fondamentale nella lotta al terrorismo. La Turchia intende proseguire questo impegno e rafforzarlo. Rete di difesa allargata a Pakistan e Ungheria - Rafforzando il suo ruolo in Afghanistan, al contempo Erdogan vuole estendere la collaborazione che già esercita assieme ad altri Paesi e leader a lui vicini. Al termine del vertice della Nato a Bruxelles il presidente turco ha detto che la Turchia sta cercando il coinvolgimento di Pakistan e Ungheria nella nuova missione militare che Ankara sta preparando in seguito al ritiro delle truppe americane. Ramificazione turca in ampie aree dell’Afghanistan - Erdogan vede l’Afghanistan come un nuovo serbatoio di sviluppo internazionale per la Turchia, l’ultimo scacchiere da occupare dopo quello del Mediterraneo orientale dove ormai da due anni le navi battenti bandiera rossa con la mezzaluna si sono posizionate in modo strategico. Il leader turco intende fare dell’Afghanistan la base della Turchia nell’Asia Centrale, visione sorta in modo più chiaro in seguito alla guerra vinta dall’Azerbaigian contro l’Armenia nel Nagorno-Karabakh grazie all’impiego dei droni turchi (considerati i nuovi gioielli di famiglia in quanto costruiti dall’azienda del genero di Erdogan). Non solo l’invio di soldati, quindi, ma di uomini d’affari e imprenditori, pronti ad allargare gli interessi turchi in vaste zone del Paese, ma in particolare nella fascia a nord. Alleanza con etnie tagika e uzbeka - Ankara non può però rimanere sola, senza alleati interni, per un’impresa così complessa come quella di sostituirsi, non solo militarmente, agli Stati Uniti in Afghanistan. E dunque, oltre ai legami con il governo, la Turchia sta da tempo coltivando i rapporti con le diverse etnie nel settentrione del Paese, in vista di ricostituire quella Alleanza del Nord che all’inizio del Duemila costituiva l’argine più forte nei confronti dei Talebani. Le varie tribù del nord vedono difatti in Ankara un faro e un elemento forte per appoggiare le proprie istanze. La Turchia si porrebbe così in Afghanistan in una posizione strategica decisiva fra la Russia e la Cina. Afghanistan nel “Consiglio turkico”, la Lega turca - Tutte le strutture di questo Consiglio, una sorta di Lega turca costituita sul modello di quella araba, si trovano a Istanbul. Il Consiglio di cooperazione dei Paesi turcofoni è stato costituito abbastanza di recente, nel 2009, ne fanno parte nazioni di lingua turca come Azerbaigian, Kazakistan, Kirghizistan e Turchia, e non è escluso che nel prossimo periodo possano entrare altri due Paesi turcofoni come Turkmenistan e Uzbekistan, per ora non membri ufficiali. L’offerta di Ankara all’Afghanistan rafforzerebbe ancora di più la Lega turca, ma molto soprattutto il Paese che ne rappresenta la lingua unica. Ricostruzione edilizia di Kabul e altre città - È uno degli schemi che da sempre costituiscono la potenzialità della Turchia all’estero una volta sbarcata. Il presidente turco ha sviluppato questo modello ovunque la Turchia è oggi presente, dalla Somalia ai Balcani passando per la Libia, e persino in Europa con i finanziamenti per la costruzione di moschee. Il modello di sviluppo passa, in patria, soprattutto attraverso l’edificazione di città, complessi residenziali, centri commerciali, dighe, canali. Il progetto della Turchia in Afghanistan è anche quello di portare una classe di imprenditori edilizi pronti a ricostruire buona parte di Kabul e delle città distrutte da anni di guerra. Trattative e accordi con i Talebani - È impensabile però attuare un programma così vasto senza un minimo di consenso, di intesa, di ricerca di collaborazione con i Talebani. La Turchia si prepara da un lato a contenere le loro eventuali capacità offensive, una volta che gli Usa si saranno ritirati completamente dal Paese. Dall’altro, attraverso una classe diplomatica molto ben sperimentata ed esperta, è pronta a istituire tavoli, ascoltare, parlare e concludere possibili accordi e intese. L’11 giugno i Talebani hanno invitato “la Turchia a ritirare tutte le proprie truppe dall’Afghanistan insieme alla Nato”, come ha chiesto da Doha il portavoce del gruppo, Suhail Shaheen. Lo stesso giorno il quotidiano turco Daily Sabah, filo governativo, al rifiuto opposto dai Talebani ha commentato che la permanenza delle truppe turche in loco non dipende dal gruppo militante, ma dal sostegno offerto dalla Nato e dagli Stati Uniti. In proposito il ministro della Difesa turco, generale Hulusi Akar, ha dichiarato: “Abbiamo intenzione di restare in Afghanistan, ma ad alcune condizioni. Quali? Attraverso un supporto politico, finanziario e logistico. Se questi requisiti saranno soddisfatti, allora potremo rimanere”. Washington ha subito appoggiato le parole di Ankara. Ora starà alla Turchia trovare un modus vivendi con i Talebani, impresa difficile ma non impossibile per un Paese musulmano che ha molte leve, anche di carattere commerciale e religioso, da far valere. Addestramento delle truppe afgane - Di pari passo con la prospettiva di colloqui con i Talebani va il programma di addestramento, in atto ormai da anni, delle truppe regolari afgane. Ankara è presente a Kabul con più di 500 uomini che addestrano le forze di sicurezza locali, costituendo ora il contingente straniero più numeroso. Il programma si irrobustirà ancora, sia come impiego sul campo sia come sviluppo sia come quantità di uomini. Contenimento dei profughi - Degli oltre 6 milioni di rifugiati afgani sparsi nel mondo, almeno 200mila si trovano in Turchia. Il governo di Kabul giudica che la responsabilità principale del fenomeno in Afghanistan sia dovuta al conflitto scatenato dal gruppo armato militante. La Turchia si impegna non solo nel sostegno agli afgani ormai transitati all’interno del proprio Paese, ma intende contenerne l’afflusso stabilizzando la regione. La Turchia oggi vede nell’Afghanistan un fronte inaspettato di sviluppo. Spiega il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu: “Continuiamo a contribuire alla sicurezza dei nostri fratelli e sorelle con i nostri soldati all’interno della missione Nato fornendo addestramento e sostegno all’equipaggiamento delle forze di sicurezza afgane”. Ankara sembra dunque determinata a trasformare l’Afghanistan nel “centro dei progetti di connettività della regione”, sfruttando la posizione strategica “nel cuore dell’Asia” che la Turchia non intende lasciare nel vuoto dopo il ritiro degli Stati Uniti.