La rieducazione funziona, lo dimostrano i detenuti che lavorano durante la pena di Erika Antonelli linkiesta.it, 1 giugno 2021 Molti carcerati imparano un mestiere nei penitenziari, preparandosi al reinserimento in società. I numeri sono ancora troppo bassi, ma negli ultimi anni imprese e cooperative stanno svolgendo un ruolo importante. Dice: “Il magistrato ha capito che in Brasile avevo una vita brava”. Una condanna iniziale di oltre nove anni, poi scesi a quattro, poi trasformati in sedici mesi di carcere “che mi sono sembrati infiniti”. Notti e giorni tutti uguali, la monotonia spezzata imparando l’italiano con la Bibbia in una mano e il dizionario di portoghese nell’altra. Rodrigo viene arrestato in aeroporto il 27 luglio del 2017 perché ha nascosto quattro chili di cocaina nell’imbottitura di una coperta. Poi l’ha infilata in una delle due valigie che si porta dietro e dal Brasile ha preso un aereo in direzione Roma. Ancora non lo sa, ma da quel giorno la vita gli è cambiata in meglio. Fa caldo, tanto caldo, eppure ai controlli di frontiera il bagaglio fuori stagione non dà nell’occhio. Appena fuori Rodrigo prende una boccata d’aria e chiede indicazioni a un signore che fuma una sigaretta. Non spiccica una parola d’italiano, prima di pronunciarle scrive le frasi su Google traduttore. “Vieni, ti faccio vedere dove prendere il taxi”, gli dice l’uomo. Mica è vero, lo riporta ai controlli. È un finanziere in borghese e questa volta gli fa aprire la valigia. Fuori la coperta, ecco nell’imbottitura la droga che Rodrigo si è prestato a trasportare in cambio di denaro. Viene arrestato, per la vergogna aspetta un mese prima di dirlo alla famiglia. Quattro anni dopo ne parla con tranquillità rigirando tra le dita una Chesterfield blu. È seduto al tavolino del pub dove lavora dal 24 marzo. Un riconoscimento alla sua vita brava, come la definisce lui, cioè onesta “prima di quell’unica cazzata”. Terminata la permanenza in carcere conosce Oscar La Rosa, fondatore di Economia Carceraria e proprietario del pub Vale la Pena. Un nome, un programma, Oscar nella sua birreria raccoglie e vende (al dettaglio e tramite e-commerce) prodotti realizzati dai detenuti e li usa anche per preparare i suoi aperitivi. Pasta, vino, birra e creme spalmabili creati all’interno dei laboratori presenti negli istituti penitenziari grazie alle cooperative sociali. Con il permesso del magistrato Rodrigo, ora agli arresti domiciliari, può stare fuori casa dalle sei di mattina alle 21:00 per ragioni lavorative. Confeziona i pacchi per le spedizioni, pulisce il locale e fa un’ora di servizio al tavolo. Quando sono le 19:00 stacca per tornare a casa, ché anche un minuto di ritardo in caso di un controllo può essergli fatale. E a fare la seconda cazzata non ci pensa proprio. Quando gli chiedi perché vende alimenti fatti in carcere Oscar non ha dubbi: “Sono buoni e ti fanno risparmiare”. Costruire maggiori opportunità lavorative, secondo lui, abbatterebbe la recidiva e contribuirebbe a creare una società più sicura. Se il detenuto guadagna e mette da parte i suoi risparmi, una volta fuori non sarà tentato dal profitto facile. Uno studio del 2007 gli dà ragione, il tasso di recidiva nel caso di persone che scontano la loro pena dietro le sbarre sfiora il 70 per cento. Eppure, il lavoro negli istituti penitenziari è ancora aperto a pochi. A fronte di oltre 53mila detenuti, lavorano solo in 17.937 (il dato è di dicembre 2020). Un numero da ripartire tra quelli che sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (15.746) e gli impiegati presso imprese, cooperative o datori di lavoro esterni (2.191). I primi sono principalmente attivi nei “servizi d’istituto” e in gergo ogni mansione ha il suo soprannome: lo “spesino” compra e distribuisce i prodotti, chi pulisce si chiama “scopino”, il “piantone” assiste i detenuti malati. Mentre in cooperative o aziende vigono, come dice Oscar, le “regole del mondo libero”: un contratto e uno stipendio dignitoso (circa 1000 euro). Perché abbia senso, il lavoro deve continuare anche nel mondo libero. Ne è convinta Nadia Lodato, una delle responsabili del Progetto Cotti in Fragranza, che dal 2016 produce biscotti nell’Istituto Penale Minorile Malaspina di Palermo: “La parte più difficile è la gestione della libertà fuori, perché spesso i ragazzi tornano nell’ambiente in cui hanno trovato il crimine”. Per abbattere la recidiva, oltre al biscottificio interno la cooperativa Rigenerazioni Onlus ha aperto un bistrot in cui al momento lavorano due ex detenuti, uno come aiuto cuoco e l’altro nel settore logistico. Nel laboratorio del Malaspina sono impiegati giovani tra i 18 e i 21 anni e sfornano frollini agli agrumi, biscotti vegani, snack salati e cioccolato con sale marino siciliano. Sfruttano materie prime locali e le lavorano in modo artigianale. Secondo Lucia Lauro, l’altra responsabile del progetto, “I ragazzi imparano il valore della cura e ricuciono lo strappo che hanno con la società”. L’idea di fondo è costruire “un’intelligenza collettiva” e diffondere una narrazione alternativa allo stigma sociale imposto dalla permanenza in carcere. La prima linea di biscotti si chiamava Buonicuore, come a dire, spiegano: “Siamo altro dal reato commesso”. La scelta delle parole conta anche per la cooperativa L’Arcolaio, inserita nella Casa Circondariale di Siracusa. Il nome, dice il direttore Giuseppe Pisano, si ispira alla filosofia di Gandhi, per cui lo strumento era simbolo di libertà e riscoperta della tradizione. Vengono utilizzate materie prime siciliane e, in caso non fosse possibile, si acquistano da botteghe equosolidali. L’Arcolaio produce dolci, la maggior parte a base di mandorla, e sciroppo di carrube (un frutto dolce tipico delle regioni meridionali). Nel laboratorio sono occupati otto detenuti. Il reinserimento sociale prosegue poi nel mondo di fuori, dove persone appartenenti a categorie svantaggiate si prendono cura di alcuni terreni sui Monti Iblei e raccolgono le erbe aromatiche. Il valore aggiunto dei prodotti è il tempo, racconta Pisano: “Spesso le ore in carcere sono quelle dell’ozio, dell’attesa pigra del fine pena. Avere un’occupazione le trasforma in un momento di riscatto personale, utile a costruire la propria identità di lavoratore e cittadino”. Identità che, se sei donna, passa anche dal ricucire le fila del rapporto con i propri figli. Lo sa bene Luciana Delle Donne, ex dirigente di banca da anni impegnata nel sociale. Ha ideato il marchio Made in Carcere e aperto cinque laboratori negli istituti di Lecce, Trani, Taranto, Bari e Matera. Nei primi tre sono impiegate detenute. Imparano a cucire riutilizzando i tessuti donati dalle aziende e creano borse, braccialetti e accessori. Nell’istituto minorile di Bari si producono biscotti (Le Scappatelle), mentre a Matera i detenuti apprendono come lavorare la pelle. Il lavoro è il mezzo con cui Luciana insegna la creatività ed educa i dipendenti al bello, un concetto non scontato in un posto fatto di ambienti tutti uguali. “Per questo i nostri laboratori si chiamano maison, dice lei, e ci piace arredarli con tappeti, mobili d’epoca e divanetti”. Deve sembrare casa, non luogo di detenzione. Il reinserimento sociale di un detenuto è un percorso a ostacoli e le cooperative ne sono consapevoli. Pensano che gli errori si possano leggere in due modi, sconfitte o opportunità, e credendo nelle seconde cercano di insegnare ai detenuti il lento esercizio della speranza. Rodrigo, per esempio, ci è riuscito e appena sarà del tutto libero vorrà dedicarsi a progetti di inclusione nelle carceri brasiliane. E se è vero che quando programmi qualcosa è perché in fondo ci credi ancora, allora quel 27 luglio il finanziere davvero gliel’ha cambiata in meglio la vita. 41-bis, corrispondenza censurata con l’avvocato. Parola alla Consulta di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 giugno 2021 La Consulta dovrà occuparsi di un altro caso di legittimità costituzionale in merito al 41-bis. Secondo la sentenza numero 20338 della Cassazione è incostituzionale sottoporre a censura delle lettere che un detenuto al 41-bis manda al proprio avvocato difensore. Anche perché, come ha ben sottolineato la Corte Suprema, se da una parte censurano le lettere inviate ai propri avvocati, dall’altra la legge permette i colloqui riservati al 41-bis con gli avvocati stessi. Infatti, scrive la Cassazione, “se si ammette l’ipotesi che un difensore venga meno ai suoi doveri deontologici e professionali, e tradisca, così, l’alta funzione che gli è assegnata dall’ordinamento, anche in questo caso, cioè in relazione alle comunicazioni che avvengono di persona o per telefono, non può escludersi in astratto il rischio che lo stesso si presti a fungere da illecito canale di comunicazione”. Per cui, “al cospetto del quale, nondimeno, il legislatore - evidentemente a ciò indotto dalla considerazione dell’inviolabilità del diritto di difesa e della natura assolutamente remota dell’ipotesi in predicato - ha scelto di dare piena tutela al diritto ad avere comunicazioni difensive riservate”. Accade che con ordinanza del 9 luglio 2020, il Tribunale di Locri ha rigettato il reclamo proposto da Giuseppe Jerinò - imputato davanti a quell’autorità giudiziaria, condannato, all’esito del giudizio di primo grado perché ritenuto esponente di vertice di un clan di ‘ ndrangheta e sottoposto al 41-bis - avverso il decreto con cui, il 12 maggio 2020, il Presidente del Tribunale ha disposto il trattenimento di un telegramma da lui indirizzato al difensore di fiducia, l’avvocato Giuseppe Milicia. Ritenuto di potere integrare la motivazione, radicalmente assente, del provvedimento impugnato, il Tribunale calabrese ha stimato la sussistenza di un pericolo per l’ordine e la sicurezza pubblica, connesso all’ambiguità del contenuto della missiva, composta da una serie di periodi non legati da un filo logico in grado di rendere coerente e comprensibile il testo nella sua interezza. Ha aggiunto che l’incongruenza del testo non è spiegabile in ragione del modesto grado di istruzione dell’autore il quale, redigendo personalmente il reclamo, si è mostrato capace di esporre i motivi con prosa chiara e lineare. A quel punto il detenuto al 41-bis Jerinò propone, con l’assistenza dell’avvocato Milicia, ricorso per Cassazione affidato ad un unico, articolato motivo, con il quale deduce violazione di legge e vizio di motivazione per avere il Tribunale - titolare, a suo modo di vedere, del potere di integrare la motivazione del decreto emesso dall’organo monocratico, ma non anche di ovviare alla sua totale assenza - male interpretato la normativa in materia di controllo sulla corrispondenza dei detenuti, che ammette il trattenimento delle sole comunicazioni dal contenuto illecito, che celino al proprio interno qualcosa o contengano scritti pericolosi per la sicurezza e l’ordine pubblico. In sostanza, il detenuto al 41-bis, lamenta l’illegittimità della motivazione con cui il Tribunale di Locri ha confermato il provvedimento di trattenimento del telegramma. La Cassazione ha posto delle osservazioni. Circa l’art. 18- ter che prevede, al comma 2, che “le disposizioni del comma 1 non si applicano qualora la corrispondenza epistolare o telegrafica sia indirizzata ai soggetti indicati nel comma 5 dell’articolo 103 del codice di procedura penale, all’autorità giudiziaria, alle autorità indicate nell’articolo 35 della presente legge, ai membri del Parlamento, alle Rappresentanze diplomatiche o consolari dello Stato di cui gli interessati sono cittadini ed agli organismi internazionali amministrativi o giudiziari preposti alla tutela dei diritti dell’uomo di cui l’Italia fa parte”. Mentre il 41-bis sottrae, al visto di censura la sola corrispondenza con i membri del Parlamento o con autorità europee o nazionali aventi competenza in materia di giustizia. Ed è qui che, secondo la Corte Suprema, la sottoposizione al visto di censura della corrispondenza in uscita con il proprio difensore si traduce “in un vulnus non solo - e non tanto - alla libertà ed alla segretezza della corrispondenza, diritti dichiarati inviolabili dall’art. 15 Cost. e che spettano ad ogni individuo in quanto tale e, quindi, anche ai detenuti, ma anche e soprattutto del diritto alla difesa e di quello ad un equo processo, tutelati a livello costituzionale e sovranazionale”. Ha anche ricordato che la Consulta, in proposito, già riconosciuto, con la sentenza n. 143 del 2013, il diritto a conferire con il proprio difensore e a farlo in maniera riservata. La cassazione, sollevando il caso di legittimità, ha posto il principio che l’assoluta compressione del loro interesse a mantenere una corrispondenza riservata con il difensore, quand’anche ispirata all’esigenza di impedire i contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza come giustamente prevede il 41-bis, “non possa superare il vaglio di ragionevolezza e, quindi, ritenersi giustificata”. Ora la parola passa alla Consulta. Bambini in carcere: una proposta di legge per liberare i figli dalle colpe dei genitori filodiritto.com, 1 giugno 2021 Nel 2018 una madre uccise i suoi due figli che erano rinchiusi con lei nel carcere di Rebibbia. Grande commozione e tanti impegni per eliminare la distorsione di un sistema che prevede la presenza dei figli e bambini minori in carcere. Sono trascorsi tre anni è la situazione non è cambiata. Secondo i dati forniti dal monitoraggio mensile del Ministero della giustizia, nel 2018 i bambini ristretti in carcere con le madri condannate erano 69. Oggi sono 28 i bambini in carcere tra le sezioni nido delle case circondariali e gli Istituti a custodia attenuata per detenute madri (Icam). Un numero per alcuni irrilevante che in realtà è una crudele stortura che deve essere eliminata perché nessun bambino dovrà essere sottoposto all’esperienza traumatica della privazione della libertà. Il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà, nella sua relazione al Parlamento ha segnalato le condizioni precarie e carenti nelle sezioni nido delle case circondariali, tranne lodevoli eccezioni. La strada da intraprendere è la diffusione delle case famiglia protette come prima possibilità di accoglienza per le madri detenute con figli, dove il bambino non sia privato dell’affetto e delle cure materne e possa, al contempo, crescere in una quotidianità il più “normale” possibile. Le case famiglia protette sono previste dall’art. 4 della Legge 21 aprile 2011, n. 62, quali luoghi nei quali consentire a donne incinte o madri di bambini di età non superiore a sei anni di scontare la pena. Ad oggi, però, solo poche regioni si sono dotate di tali strutture, con la conseguenza che le detenute, con figli anche molto piccoli, scontano la pena in carcere. La “bussola” da seguire è solo una: la tutela del superiore interesse del bambino. Si legge nella Bibbia: “Chi pecca morirà; il figlio non sconterà l’iniquità del padre, né il padre l’iniquità del figlio. Sul giusto rimarrà la sua giustizia e sul malvagio la sua malvagità” (Ez. 18,20). Il monito è stato ripreso dalla recentissima proposta di legge presentata il 24 maggio 2021 che prevede le modifiche al codice penale e di procedura penale e alle leggi in materia di esecuzione delle misure cautelari e delle pene nei confronti delle madri con figli minorenni. Fico: “Avanti con esame proposta legge su attività teatrali nelle carceri” agi.it, 1 giugno 2021 Il presidente della Camera Roberto Fico ricorda la proposta di legge “per introdurre stabilmente le attività teatrali in tutte le carceri italiane. Confido che le commissioni competenti possano esaminarla valutando le eventuali soluzioni alternative appropriate. Credo sia questa la giusta direzione da seguire perché gli istituti penitenziari si trasformino in cantieri e laboratori”, ha spiegato la terza carica dello Stato in un video messaggio al convegno organizzato dall’Università Federico II sui percorsi di riabilitazione e sui laboratori di teatro negli istituti penitenziari. Giustizia, il Paese senza memoria di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 1 giugno 2021 La svolta garantista di Luigi Di Maio non può farci dimenticare la lunga tradizione illiberale italiana, dal caso Tortora in poi. La presunzione di non colpevolezza non è mai stata davvero accettata. Forse la lettera a Il Foglio con cui, alcuni giorni fa, Luigi Di Maio ci metteva al corrente della sua svolta garantista è il frutto di una autentica conversione. Oppure di un astuto calcolo: magari non ci saranno veti sul suo nome quando, tra qualche mese o anno, si apriranno le consultazioni per la formazione del futuro governo. O forse è il frutto di entrambe le cose. Ma non è importante. Quella svolta merita comunque apprezzamento. È essenziale però non sopravvalutarne le possibili conseguenze. In un Paese senza memoria storica si fa presto a scambiare gli effetti per le cause: si fa presto,ad esempio, a credere che siano stati i 5 Stelle a imporre all’Italia la loro visione forcaiola della vita pubblica. Talché, se Di Maio riesce a convertirli alla civiltà (giuridica in questo caso), il gioco è fatto,i problemi sono risolti. Ma no. Per niente. I 5 Stelle non sono una causa, sono un effetto. È perché in ampi settori dell’opinione pubblica era radicata quella visione forcaiola che i 5 Stelle hanno avuto successo, sono diventati addirittura il primo partito alle ultime elezioni. Ignora la storia e scambierai le lucciole per lanterne, le cause per gli effetti. Qualcuno si ricorda ancora del caso di Enzo Tortora? All’epoca l’espressione circo mediatico-giudiziario non era ancora stata inventata. Tortora venne arrestato nel giugno del 1983 per (niente meno) associazione camorristica. Si scatenò contro di lui, rinchiuso in una cella, una sarabanda mediatica selvaggia, violenta, durata mesi e mesi. Poiché coloro che si occupavano del caso alla Procura di Napoli avevano deciso che Tortora fosse un capo della camorra, l’intero Paese, per un bel po’, accettò di credere, a scatola chiusa, a quella bufala. Cosa accadde ai responsabili, giudiziari e non, di quella vicenda? Le loro carriere vennero stroncate? Furono per lo meno danneggiate? No, non pagarono dazio. Non subirono alcuna sanzione. Il caso Tortora dimostrò a tutti che in questo Paese è possibile sequestrare un innocente, tentare di distruggerlo, presentarlo come un mostro sui mezzi di comunicazione, senza che ciò comporti il benché minimo danno per la carriera dei responsabili e dei loro complici. La verità è che, come il caso Tortora dimostrò, il principio (di civiltà) della presunzione di non colpevolezza non è mai stato davvero accettato in questo Paese. Poi arrivò Mani Pulite. Colpì la diffusa corruzione. Essa doveva essere colpita. Ma i modi in cui ciò avvenne non furono tutti irreprensibili. Pochi oggi negano che ci furono degli eccessi: altro che rispetto della presunzione di non colpevolezza. Si verificò, inoltre, un rovesciamento dei rapporti di forza fra magistratura e politica i cui effetti perdurano tutt’ora. Posso assicurare per esperienza che a quell’epoca criticare certi aspetti della “rivoluzione giudiziaria” allora in atto significava diventare il bersaglio degli insulti di quello che allora era chiamato “popolo dei fax”, coloro che inneggiavano alle manette, che volevano il sangue. Per inciso, sarebbe interessante se qualche psicologo studiasse gli effetti che produsse sui bambini e gli adolescenti di allora sentir dire da tutte le televisioni dell’epoca che l’Italia è un “Paese di ladri”. È cambiato qualcosa? È stato ripristinato, nella coscienza dei più, il principio della presunzione di non colpevolezza? Si è posto fine alle gogne mediatiche? No, non è mai cambiato niente. Le cause sono diverse. C’è certamente la circostanza che la politica ha alimentato queste tendenze: i politici sono garantisti quando oggetto di provvedimenti giudiziari sono loro o i loro amici, sono forcaioli quando vengono colpiti i loro avversari. Ciò è il frutto di un atteggiamento strumentale e opportunistico (di tanti italiani, non dei soli politici) nei confronti delle leggi. Vale ancora, anzi vale più che mai, quanto disse circa cento anni fa Giovanni Giolitti: “In Italia, le leggi si applicano ai nemici e si interpretano per gli amici”. Vale anche il fatto che, causa dell’unità delle carriere dei magistrati, molti italiani non riescono a distinguere fra un giudice e un procuratore. E se un procuratore è chiamato giudice, questo non è un errore innocente. Ne deriva infatti che i suoi provvedimenti verranno scambiati per sentenze: l’indagato diventa così un colpevole il cui reato è stato provato. Il processo diventa superfluo, anzi un fastidioso onere per i contribuenti. Al fondo naturalmente giocano le nostre tradizioni illiberali. Intendiamoci: anche nei Paesi anglosassoni, nei quali i principi liberali sono più saldi e che per questo alcuni di noi ammirano, ci sono nella pubblica opinione tendenze forcaiole. Ma, per lo più, in quei Paesi sono garantiste le élite, è garantista la classe dirigente. Essa è pertanto in grado di fare muro, di impedire alle pulsioni illiberali di una parte del pubblico di fare gravi danni. In Italia, invece, ci sono segmenti delle élite (per esempio, intellettuali) che condividono il credo forcaiolo di una parte dell’opinione pubblica. Per questo in Italia non ci sono vere barriere. Si noti che tutto ciò non dipende dalla divisione fra guelfi e ghibellini, fra la destra e la sinistra. Si pensi a un grande vecchio, un protagonista della storia comunista, scomparso di recente: Emanuele Macaluso. Combinava una visione togliattiana della politica e una concezione liberale della giustizia. Non credo che Di Maio riuscirà davvero a convertire molti fra i 5Stelle. Dovrebbero rinunciare alla vera “ragione sociale” del loro movimento politico. Dovrebbero rinunciare anche all’alleanza di fatto che hanno stabilito con il settore più politicizzato e militante della magistratura. In ogni caso, si ricordi che le ragioni che spiegano la prevalenza in questo Paese di atteggiamenti illiberali in materia di giustizia, sono profonde, vengono da lontano. La pur meritoria dichiarazione di un politico non basta a cambiare le cose. Non può sostituire una lunga e faticosa opera di rieducazione del pubblico. Che dovrebbe cominciare a scuola. Basta metterla così per capire quanto possa essere ardua l’impresa. Ddl penale. Il mea culpa di Di Maio e la chiusura di Conte pesano sulla prescrizione di Giulia Merlo Il Domani, 1 giugno 2021 La ministra Cartabia deve presentare gli emendamenti del governo, che dovrebbero raccogliere le posizioni dei partiti e cogliere gli spunti della relazione dei tecnici. Tuttavia i fronti politici sono molto lontani e il dibattito interno ai Cinque Stelle non aiuta a trovare la sintesi: da una parte Luigi Di Maio sembrerebbe aprire a una riflessione sulla giustizia, dall’altra Giuseppe Conte la chiude. In questa situazione rischia di saltare il lodo Conte bis, che era stato il punto di mediazione della precedente maggioranza giallorossa e che doveva dividere i percorsi di prescrizione tra condannati e assolti. L’intervento del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, che ha chiesto scusa per la gogna mediatica a cui è stato sottoposto l’ex sindaco di Lodi, ha incrinato uno dei dogmi del Movimento 5 Stelle. Un passo inaspettato, quello dell’ex capo politico, che ha spiazzato buona parte della dirigenza del movimento e costretto il leader Giuseppe Conte a intervenire. Conte non ha potuto smentire il collega ma ha smorzato la portata politica del gesto: “Chi pensa che il nuovo Movimento possa venire meno a queste convinzioni o pensa di strumentalizzare questo percorso di maturazione, rimarrà deluso”, ha scritto in un post su Facebook. Il senso è chiaro: nessuno si aspetti che dall’ammissione di colpa di Di Maio derivi un ammorbidimento delle posizioni del Movimento, in particolare sulla prescrizione. La rettifica di Conte ha anticipato il coro, levatosi in particolare da Forza Italia e Italia Viva, di chi chiedeva di allineare le posizioni parlamentari dei grillini alla svolta garantista di Di Maio, visto che quella della giustizia soprattutto penale è una delle più attese e controverse per l’attuale governo. Invece, proprio sul ddl penale i Cinque stelle non hanno intenzione di arretrare e le difficoltà rimangono tutte sulla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, che è chiamata a elaborare la proposta di sintesi del governo per emendare il testo base. Proprio la modifica della prescrizione voluta dai grillini, che prevede lo stop del decorrere del tempo per celebrare il processo dal momento della sentenza di primo grado sia di assoluzione che di condanna, è uno dei nodi più difficili da risolvere. La proposta dei tecnici - La commissione Lattanzi ha elaborato e depositato due distinte proposte di riforma. La prima prevede che dopo la condanna in primo grado scattino due anni di sospensione della prescrizione e dopo la condanna in appello ne scatti uno. Se però in questo lasso di tempo non interviene una decisione del giudizio, la prescrizione riprende il suo corso. La seconda, invece, è più drastica: la prescrizione si interrompe dopo l’esercizio dell’azione penale, ma il processo diventa improcedibile se i tempi superano i quattro anni in primo grado, tre in appello e due in cassazione (portati a 11 in tutto in caso di reati che prevedono la pena dell’ergastolo). In pratica, se il processo dura più del tempo previsto, si estingue automaticamente. Entrambe le proposte, che introducono anche un aumento dei risarcimenti in caso di processo dalla durata non ragionevole, puntano all’obiettivo di ridurre i tempi dei processi e non permettere l’esito patologico che, senza la prescrizione, un processo possa durare un tempo indeterminato. Il lodo Conte Bis - In questa situazione, rischia di saltare anche la mediazione trovata nel precedente governo. Movimento 5 Stelle, Leu e Partito democratico si erano accordati sul lodo Conte bis (dal nome del deputato di Leu Federico Conte), che è già inserito nel testo base del ddl e prevede di dividere il percorso: per gli assolti in primo grado la prescrizione continua a decorrere, si interrompe invece per i condannati. Ad oggi, l’unico gruppo che punta a mantenere questa modifica sarebbe Leu, con una aggiunta sempre a firma Conte che prevede, in caso di condanna, una riduzione di 45 giorni di pena ogni semestre di ritardo rispetto ai termini di durata delle fasi previsti dal ddl. Rimane la Bonafede - Una parte dei Cinque stelle sarebbe disposta a mantenere questa proposta, ma è stato anche depositato un emendamento a prima firma dell’ex sottosegretario alla Giustizia Vittorio Ferraresi che punta a tornare indietro eliminando la distinzione. Un po’ a sorpresa, anche la Lega ha presentato emendamenti per eliminare il lodo Conte bis e ripristinare la Bonafede. Una scelta, quella leghista (che aveva avversato lo stop alla prescrizione quando era stato approvato) che potrebbe rientrare in un tentativo di incrinare l’asse giallorossa. Prescrizione per fasi - Anche il Pd punta a superare il lodo, tanto che ha depositato un emendamento soppressivo. La nuova proposta dem, infatti, è per la prescrizione per fasi: eliminata la distinzione tra assolti e condannati, la prescrizione si interrompe per tutti dopo il primo grado ma, nel caso di superamento dei termini di fase sia in appello che in Cassazione, si dichiara l’improcedibilità in favore dell’imputato che viene assolto, la riduzione della pena di un terzo in favore dell’imputato la cui la condanna sia confermata o passi in giudicato, un equo indennizzo in favore dell’imputato che all’esito del giudizio di impugnazione contro una sentenza di condanna sia assolto. In questo modo, è la riflessione del Pd, si manterrebbe ferma la Bonafede cara ai grillini, ma si implementerebbe il principio della ragionevole durata del processo. Torna la prescrizione - A puntare, con diverse sfumature, all’abrogazione della legge Bonafede sono Azione con Enrico Costa, Italia Viva e Forza Italia. Lo stesso vale anche per Fratelli d’Italia, unica forza di opposizione, che propone di abrogare il lodo Conte bis e di introdurre invece la prescrizione di un anno dopo il deposito della sentenza di condanna o proscioglimento, con una sospensione del termine di 6 mesi dopo il primo grado e 4 mesi dopo l’appello. A fronte di questa frammentazione, il lavoro della ministra Cartabia è quanto mai complicato. Gli emendamenti depositati sulla prescrizione sono 82 ed è difficile intravedere quale tipo di mediazione sia possibile. Tuttavia, un punto di convergenza dovrà essere trovato: la modifica della Bonafede era tra gli accordi presi con la nascita del governo Draghi e il ddl penale deve procedere nel suo corso di approvazione stabilito nel Recovery Plan, di cui è pilastro irrinunciabile. Del resto, nell’incontro delle scorse settimane con i capigruppo della maggioranza, Cartabia è stata chiara: le riforme sono necessarie e chiunque le ostacoli se ne assumerà la responsabilità. Bonafede, nel guado, chiede a Conte di mediare con la Cartabia di Valerio Valentini Il Foglio, 1 giugno 2021 L’idea dell’incontro, ancora da definire, pare sia venuta proprio a lui, quell’Alfonso Bonafede che di Giuseppe Conte è stato figlioccio in Accademia e padrino in politica, e che di Marta Cartabia è predecessore riluttante. E pare insomma sia un po’ per la sua paura di restare lì, schiacciato nella morsa tra quel che è stato e quel che dovrà essere, che il fu dj Fofò ha deciso che forse è il caso di defilarsi un poco, chiedendo proprio all’ex premier di confrontarsi direttamente con la responsabile di Via Arenula. La quale, dal canto suo, procede con una implacabile flemma, un misto di cautela e di risolutezza che se da un lato evita gli strappi in una maggioranza assai composita, dall’altro impedisce a ciascuno di incapricciarsi più di tanto, di nascondersi dietro ai propri tatticismi. E così, mentre i senatori attendono a giorni la bollinatura della Ragioneria generale dello stato sugli emendamenti che il governo ha già presentato al progetto di riforma del processo civile, venerdì la Cartabia convocherà i rappresentanti dei vari partiti per illustrare le proposte di revisione dell’ordinamento giudiziario elaborate dalla commissione che la stessa ministra ha allestito al momento della sua nomina, volendo che a presiederla fosse il professor Massimo Luciani. E dunque si arriverà a uno dei nodi più delicati: quello della modifica dei processi elettorali in senso al Csm, e della ridefinizione dei parametri meritocratici per la valutazione dei magistrati, con l’obiettivo generale di combattere le degenerazioni correntizie tra le toghe e dare seguito all’appello recentemente rinnovato da Sergio Mattarella. Poi, sempre seguendo questo cadenzato passo di corsa, all’inizio della prossima settimana è previsto un nuovo vertice per la presentazione ufficiale degli emendamenti governativi al disegno di legge sul processo penale. Ed è qui che le tensioni politiche potrebbero condensarsi. Perché le proposte avanzate dal gruppo di lavoro di Via Arenula costituiscono una sostanziale rimozione della legge che prende il nome da Bonafede. E lui infatti sta lì, in mezzo al guado, incerto tra il furore identitario degli irriducibili del travagliamo (“Mi chiedono addirittura di disertare il tavolo con la ministra. Ma come potrei?”, s’è sfogato lo sventurato, giorni fa), e la fredda eloquenza dei numeri. “Noi del Pd le nostre proposte, anche sulla prescrizione, le abbiamo già annunciate”, allarga le braccia Alfredo Bazoli, capogruppo dem in commissione Giustizia. Come a ribadire che no, stavolta di soccorsi rossi a sostegno del M5s non potranno arrivarne. Anche per questo, a dispetto delle pose recitate, i ministri grillini hanno provato a convincere Bonafede che “i cambiamenti è meglio governarli, che subirli”. E anche per questo la scorsa settimana il deputato grillino s’è recato a Via Arenula, per confrontarsi con la ministra. A lei ha ribadito che delle due proposte di revisione della “Spazza-corrotti”, quella che introduce la prescrizione processuale è impraticabile per il M5s. Provocando, con questo, una certa sorpresa dalle parti del Nazareno, dove quell’ipotesi era stata prospettata proprio come una mediazione indolore per i grillini. Resta dunque l’altra via: quella che porta alla definizione di fasi processuali certe, e che dunque, nei fatti, obliterebbe in modo ancor più deciso la riforma Bonafede. Il quale lascia intendere che però il massimo che il M5s potrà accettare è il lodo avanzato mesi fa da Federico Conte di Leu: una revisione minimale della “Spazza-corrotti” che non verrebbe mai accettata da Iv, FI e Lega. E che pure nel Pd genererebbe parecchi malumori, a giudicare dalla nettezza con cui il deputato Carmelo Miceli prova quasi a catechizzare i colleghi del M5s: “Se si isolano nella difesa dei loro totem, commettono un errore”. E del resto la Cartabia è stata chiara. Ci si confronta e si discute, certo, ma al dunque bisogna arrivarci entro fine giugno, quando il disegno di legge dovrà approdare in Aula, anche perché in ballo c’è il rispetto delle scadenze europee per il Recovery. Che fare? Ecco allora l’ipotesi di chiedere a Conte di assumersi fino in fondo la responsabilità del suo ruolo di leader del M5s. “Perché non chiediamo a lui di confrontarsi con la ministra, di trovare una soluzione?”. Questo, ieri, si chiedevano un paio di parlamentari grillini che seguono il dossier, commentando il post con cui l’ex premier ha provato a ribadire la linea dell’intransigenza sulla giustizia, contraddicendo almeno in parte la svolta garantista di Luigi Di Maio. Che a sua volta, dopo aver lanciato il sasso nello stagno, si ritrae dietro la sua compostezza di ministro degli Esteri che parla di Libia e di futuro del Mediterraneo. “Se davvero Conte vuole impuntarsi sulla prescrizione, vada avanti lui”, se la ridevano intanto i fedelissimi de capo della Farnesina. Riforma Csm, venerdì il vertice con i “tecnici” di Cartabia di Errico Novi Il Dubbio, 1 giugno 2021 Il lavoro della Commissione Luciani sarà illustrato ai partiti. Le tensioni non si accordano coi tempi stretti. Eppure dopo la coraggiosa svolta di Luigi Di Maio sulla gogna mediatica, l’universo pentastellato è entrato in fibrillazione, scosso anche da moniti come quello con cui Marco Travaglio ricorda al Movimento che a questo punto non potrà cedere sulla prescrizione. Certo, se davvero le riforme della giustizia resteranno schiacciate fra opposte intransigenze, l’approvazione dei ddl nei tempi previsti dal Recovery andrà a farsi benedire. Comunque ieri una novità di rilievo è arrivata dal ministero della Giustizia, dove Marta Cartabia non sembra paralizzata dalle polemiche: si è concluso il lavoro della commissione istituita dalla guardasigilli per proporre modifiche al ddl sul Csm. Anche per il gruppo di esperti presieduto dal professor Massimo Luciani sono in programma i passaggi seguiti con la commissione Lattanzi sul penale: è previsto prima un confronto fra i tecnici di via Arenula e i capigruppo di maggioranza, già fissato per venerdì prossimo al ministero, poi Cartabia farà sintesi fra proposte della commissione e indicazioni dei partiti, e ne ricaverà gli emendamenti governativi. La ministra potrà avere un quadro completo a breve, visto che il giorno prima dell’incontro fra Luciani e la maggioranza scadrà il termine per gli emendamenti parlamentari alla riforma del Csm, all’esame della commissione Giustizia di Montecitorio. Ieri il sottosegretario Francesco Paolo Sisto ha mostrato un cauto ottimismo: il lavoro della commissione Luciani sull’ordinamento giudiziario non pretende, ha detto, di realizzare “rivoluzioni copernicane”, si tratta piuttosto di “interventi mirati, specificamente indirizzati a evitare che i fenomeni patologici manifestatisi in questi mesi possano ripetersi”. Come i ddl sul processo penale e sul civile, anche il testo sul Csm è una legge delega: per molti aspetti cruciali serviranno i decreti legislativi. Forse non per il sistema di elezione dei togati, ma sarà certamente così per altre questioni importanti sul funzionamento del Consiglio. E la fase attuativa andrà chiusa di qui a un annetto, in tempo per l’inizio della nuova consiliatura, che partirà a cavallo dell’estate 2022. Certo a rendere più impervia la rotta della riforma contribuirà anche il pressing del Partito radicale e della Lega, pronti a raccogliere le firme sui referendum in materia di responsabilità civile e separazione delle carriere dei magistrati, misure cautelari e altri temi delicatissimi: è prevista per oggi una conferenza stampa a cui prenderanno parte segretario e tesoriera dei pannelliani, Maurizio Turco e Irene Testa, e il leader del Carroccio Matteo Salvini. I banchetti per la raccolta delle firme compariranno a inizio luglio. “Salvini non faccia confusione muovendosi fuori dai tavoli con i referendum, in questa fase c’è bisogno di concretezza nel percorso legislativo”, è il messaggio di Elvira Evangelista, senatrice M5s e vicepresidente della commissione Giustizia di Palazzo Madama. L’unica cosa certa è che l’estate delle riforme sarà incandescente. Verbania, il gran rifiuto della gip di Simona Musco Il Dubbio, 1 giugno 2021 Ira di procura e Anm per il no della giudice agli arresti. L’Anm accusa la Camera penale di voler fare pressioni sulla procura. Ma le loro osservazioni sull’illegittimità del fermo sono identiche a quelle della gip, che ha scarcerato gli indagati. Non si può giustificare un fermo con il clamore mediatico. E non si può ipotizzare il pericolo di fuga solo sulla base della gravità del reato contestato, per quanto odioso e per quanto tragiche siano state le sue conseguenze. Si racchiude tutta qui, in soldoni, la decisione del gip di Verbania, Donatella Banci Buonamici, che ha definito “irrilevanti” le ragioni alla base della richiesta di convalidare il fermo per le tre persone indagate per la strage della funivia di Stresa-Mottarone. Si tratta, come noto, di Gabriele Tadini, responsabile del funzionamento dell’impianto e reo confesso, per il quale il gip ha disposto i domiciliari, Enrico Perocchio, direttore di esercizio dell’impianto e Luigi Nerini, amministratore unico di Ferrovie del Mottarone, per i quali invece il gip ha disposto la scarcerazione. Tutti rimangono indagati per gravi reati: rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, omicidio colposo e lesioni colpose, mentre il solo Tadini risulta anche indagato per falsità ideologica, non avendo segnalato nell’apposito registro il malfunzionamento del sistema frenante della cabina numero 3, che il 23 maggio, è precipitata a folle velocità verso valle, sganciandosi dalla fune e schiantandosi a terra, fino ad impattare contro gli alberi, provocando la morte di 14 persone e lesioni gravi all’unico sopravvissuto, un bimbo di 6 anni. La degenerazione mediatica - La vicenda è subito diventata un caso mediatico: “Gli inquirenti - denunciava domenica l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere penali -, in sole 48 ore, hanno affermato pubblicamente di aver individuato e fermato i primi (ma non gli unici) responsabili della tragedia. Non solo: diffondono le loro dichiarazioni che portano a proclami di responsabilità in quanto “la cabina era a rischio. E lo sapevano”. Ma non solo: nelle motivazioni del fermo disposto dalla procura veniva tirato in ballo, come motivazione, “l’eccezionale clamore a livello anche internazionale”, giustificando, di fatto, la privazione della libertà di tre persone con la risonanza della stessa indagine sui media. Una tesi totalmente bocciata dalla gip e, prima, dai penalisti del Piemonte occidentale e della Valle d’Aosta, che attraverso il presidente Alberto De Sanctis avevano analizzato l’uso dello strumento del fermo. “Lo abbiamo fatto prescindendo completamente dai fatti - spiega De Sanctis al Dubbio. Ci era sembrato singolare, in una vicenda come questa, pensare di applicare un istituto che consente di portare un uomo in carcere soltanto per il pericolo di fuga, dal momento che non c’erano prove a riguardo. Si tratta di un’ipotesi di reato molto grave, ma colposa, che riguarda persone che hanno risorse economiche, famiglie e lavoro qui: è difficile che siano pronti a fuggire a poche ore dalle indagini”. La seconda riflessione riguarda, invece, la gogna: “C’è stata una ricostruzione accusatoria fatta in pochi giorni e comunicata con plurime conferenze stampa, nelle quali si spiegava la ricostruzione delle ipotesi di reato con la logica del profitto - aggiunge. La vicenda merita forse un maggiore approfondimento prima di dare in pasto ai giornalisti ricostruzioni già cristallizzate. Ci teniamo molto ad affermare un principio che è nella direttiva dell’Ue sul principio di non colpevolezza, inteso non solo in senso endoprocessuale, ma anche per quanto riguarda la comunicazione giornalistica. Le informazioni, in una fase così delicata, vanno centellinate”. L’ira dell’Anm - Ma l’esternazione di De Sanctis non è andata bene alla giunta dell’Anm del Piemonte, che si è schierata in difesa della procuratrice Bossi poche ore dopo la decisione del gip, che pure dava ragione ai penalisti. “Piena solidarietà ai colleghi della procura di Verbania che, con costante impegno ed indiscutibile spirito di servizio, si dedicano da giorni ad un’indagine complessa quanto dolorosa”, si legge nella nota, con la quale l’Anm “stigmatizza come inopportune e fuorvianti le pesanti critiche portate ad un’indagine in corso”, tali da insinuare “inaccettabilmente il sospetto che siano state adottate scelte processuali al limite della legalità o addirittura per compiacere il sentire popolare”. Affermazioni che, secondo i magistrati, rappresenterebbero un “inaccettabile strumento di pressione e condizionamento dell’attività giudiziaria, vieppiù in quanto provenienti da organo in nessun modo chiamato istituzionalmente ad esprimere giudizi sulle modalità di indagine ed anzi sistematicamente impegnato nella delegittimazione dei pubblici ministeri, che si vorrebbero sottrarre alle garanzie della giurisdizione”. Accuse respinte al mittente dai penalisti, che hanno definito “fuori luogo” la polemica, in quanto “non c’è stato nessun attacco ai magistrati”. “È singolare che l’Anm, associazione rappresentativa dei pubblici ministeri ma anche - è bene ricordarlo - dei giudici, esprima indignazione per una nostra legittima riflessione giuridica, per nulla “inopportuna e fuorviante”, sull’uso dell’istituto del fermo di indiziato di delitto, stando attenti a non entrare nel merito delle responsabilità, tutte da accertare nel processo - afferma De Sanctis -. È doppiamente singolare perché il giudice, che l’Anm dovrebbe rappresentare, scrive nel suo provvedimento che “il fermo è stato eseguito fuori dai casi previsti dalla legge”. Non lo scrive la Camera penale, lo scrive un magistrato. La gogna mediatica è stata riservata ad altri e su questo invitiamo tutti ad una pacata riflessione”. La reazione della procuratrice - La procuratrice Bossi, commentando la decisione del gip, ha invece evidenziato due cose: da un lato che la decisione proverebbe l’indipendenza del giudicante dall’inquirente e, dunque, la superfluità della separazione delle carriere. Ma ciò non senza tradire la propria delusione, affermando che “prendevamo insieme il caffè, per un po’ lo berrò da sola”. Una dimostrazione, secondo l’Ucpi, che l’indipendenza professata poco prima si tramuta in “un atto di inimicizia”: “La regola che ci si aspetta debba essere di norma rispettata è l’adesione alla ipotesi accusatoria, non fosse altro che per tutelare e proteggere, dichiara la dottoressa Bossi, “l’enorme impegno concentrato in pochi giorni, soprattutto da parte dei Carabinieri”. Un ulteriore spot, secondo i penalisti, per la “ormai imprescindibile necessità della separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante”. Quei “no” dei giudici ai pm: storia (breve) di chi ha deciso di dire stop al copia-e-incolla di Simona Musco Il Dubbio, 1 giugno 2021 I casi di appiattimento sulle tesi dei pm superano in maniera esponenziale quelli in cui i giudici decidono di valutare autonomamente gli indizi a carico degli indagati. Trovare un precedente è difficile. Di giudici che abbiano detto no ai magistrati che richiedevano misure cautelari, negli anni, se ne sono visti pochi o, comunque, in numero decisamente inferiore a quelli che, invece, spesso si sono limitati a fare copia e incolla delle richieste loro sottoposte, lasciando il compito di valutare le esigenze cautelari ad altri. E forse è proprio per questo che la decisione della giudice Donatella Banci Buonamici appare tanto clamorosa, nonostante si fondi su una scrupolosa analisi degli elementi allo stato raccolti dalla pubblica accusa. Una decisione che, ovviamente, non certifica l’innocenza di nessuno, ma ribadisce un principio: il carcere è e deve essere l’extrema ratio. Nell’ordinanza del gip di Verbania si parte da un presupposto: “Il fermo è stato eseguito fuori dai casi previsti dalla legge”. E ciò in quanto “difettava il pericolo di fuga”, che oltre che essere concreto deve essere anche attuale. Ma sul punto, nonostante la richiesta di far rimanere in carcere i tre indagati, “sono gli stessi pm che hanno operato il fermo a non indicare alcun elemento dal quale sia possibile evincere il pericolo di allontanamento dei tre indagati”. Per la procura tutto si racchiude “nell’eccezionale clamore”, nonché nella “elevatissima sanzione detentiva” che conseguirebbe all’eventuale accertamento delle responsabilità. Ma per il giudice il tutto appare “suggestivo” e “assolutamente non conferente”, al punto da definire “di palese evidenza la totale irrilevanza” di tale condizione. Anzi: la confessione del principale indagato, Gabriele Tadini, e la disponibilità immediata degli altri due, Enrico Perocchio e Luigi Nerini, a riferire su quanto di loro conoscenza dimostrano, semmai, il contrario: quel pericolo di fuga non c’è e non è mai esistito. Tutto ciò che c’è a carico di questi ultimi, secondo il gip, è niente più che “suggestive supposizioni”. E al momento della richiesta, “il già scarno quadro indiziario è stato ancor più indebolito”, anche perché nessun vantaggio - men che meno economico - sarebbe venuto ai due dalla complicità nel lasciare i ceppi inseriti nel sistema frenante. A voler cercare qualche precedente, bisogna tornare a luglio del 2019, quando il gip di Agrigento Antonella Vella ha respinto la richiesta di convalida dell’arresto e la richiesta di applicazione della misura cautelare del divieto di dimora a carico di Carola Rackete, capitano della Sea Watch, rimasta quattro giorni ai domiciliari dopo l’attracco rocambolesco al porto di Lampedusa per far scendere a terra i migranti portati in salvo nel Mediterraneo. Secondo il giudice, Rackete non aveva commesso alcun reato, rispettando invece l’obbligo di legge di soccorrere persone in pericolo, adempiendo ad un dovere di soccorso che “non si esaurisce nella mera presa a bordo dei naufraghi, ma nella loro conduzione fino al più volte citato porto sicuro”. Fortemente critica era anche stata la posizione del gip di Locri, Domenico Di Croce, che aveva respinto la richiesta di arresto nei confronti dell’ex sindaco di Riace, Domenico Lucano, accusato di associazione a delinquere, truffa, concussione e altro. Lucano finì ai domiciliari, poi revocati, ma dopo la scrematura del gip era rimasta ben poca cosa delle accuse contestate dalla procura. Nessun fondamento, affermava il gip in circa 130 pagine, alla base delle accuse di associazione a delinquere finalizzata, a vario titolo, alla truffa, alla concussione e alla malversazione, accuse che per gli uffici giudiziari guidati da Luigi D’Alessio, invece, sono rimaste in piedi. E laddove il reato c’era stato, secondo il giudice, era accaduto per fini umanitari. “Il diffuso malcostume emerso nel corso delle indagini non si è tradotto in alcuna delle ipotesi delittuose delineate dagli inquirenti”, scriveva il giudice. A Torino, dopo la manifestazione di protesta per le restrizioni anti-Covid, il gip ha deciso di non convalidare i fermi respingendo l’accusa, nei confronti di 24 persone, di devastazione e saccheggio, ritenendo che il reato da configurare fosse quello di furto aggravato. Per il giudice, infatti, i furti non sarebbero stati collegati agli scontri di piazza, contestando anche la tempistica del fermo: quattro mesi dopo i fatti. Diversi i casi di indagini per stupro per i quali i presunti colpevoli, dapprima fermati, sono stati rimessi in libertà per mancanza di indizi, anche in virtù della scivolosità del reato, che spesso viene contestato sulla base della testimonianza della sola vittima. Ma trovare esempi è cosa assai difficile. Mentre appare più semplice trovare prove delle ordinanze “copia-incolla”, autorizzate, almeno in parte, anche dalla Cassazione. Secondo gli ermellini, infatti, è da annullare il provvedimento nel caso in cui la motivazione sia assente oppure non contenga una valutazione autonoma delle richieste. Rimane, dunque, la necessità dell’autonoma valutazione delle esigenze cautelari e dei gravi indizi di colpevolezza da parte del giudice, che può essere accettata anche se avviene con il sistema del “copia e incolla”, laddove accoglie le richieste del pm solo per alcune imputazioni oppure solo per alcuni indagati. E ciò perché “il parziale diniego opposto dal giudice o la diversa graduazione delle misure, costituiscono di per sé indice di una valutazione critica e non meramente adesiva, della richiesta cautelare, nell’intero complesso delle sue articolazioni interne”. Cosa che non è avvenuta, dunque, nel caso delle 10 persone accusate di avere realizzato falsi documenti per favorire migranti clandestini a Catania. “L’esame comparato della richiesta di misura del pm e dell’ordinanza” ha “consentito di apprezzare come il primo giudice, in punto di valutazione della gravità indiziaria, si sia limitato ad operare un “copia e incolla” della richiesta della Procura, aderendo in maniera “acritica e apodittica” alla sua tesi. Per questo motivo il Tribunale del riesame di Catania aveva annullato l’ordinanza del gip. Così come era accaduto nell’operazione “San Bartolomeo”: il tribunale del Riesame ha annullato l’ordinanza emessa dal Gip del tribunale di Roma per “vizio di forma”, avendo “copiato” le motivazioni del sostituto procuratore invece di esprimere una propria valutazione. Un vizio che, stando alle statistiche, appartiene a tanti La trattativa Stato-mafia secondo Report: verbali e assoluzioni omesse di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 giugno 2021 I difensori degli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, Basilio Milio e Francesco Romito, si sono dovuti rivolgere di nuovo alle Istituzioni per protestare contro la trasmissione di Rai 3. Taglia e cuci di alcuni passaggi delle intercettazioni di Totò Riina, omissione delle sentenze di assoluzione che hanno decostruito in modo capillare le accuse portate avanti in merito alla cosiddetta mancata cattura di Bernardo Provenzano o sulla vicenda della mancata perquisizione dell’abitazione di Totò Riina. Non solo. Omissione nel raccontare di come è effettivamente andata la vicenda di Mario Mori, quando da giovane fu cacciato dal piduista Maletti, all’epoca capo del servizio segreto militare (Sid). Non è stato raccontato a cosa ha portato l’indagine dell’allora procuratore di Firenze Gabriele Chelazzi: la difesa degli ex Ros ha recuperato tutto il lavoro del magistrato, ben prima della procura di Palermo, e grazie ad esso è stato possibile ottenere una sentenza di assoluzione per Mori e Obinu. Gli avvocati degli ex Ros costretti a rivolgersi alle Istituzioni - Parliamo dell’ennesima puntata di Report che ha avuto come scopo, quello di sostenere la tesi della presunta trattativa Stato-mafia e colpire gli ex Ros, in particolare Mario Mori, imputati al processo d’appello oramai agli sgoccioli. Anche in questo caso, durante la trasmissione, sono intervenuti i magistrati che rappresentano l’accusa nell’Appello di Stato-mafia quando il processo è ancora in corso. Gli avvocati Basilio Milio e Francesco Romito, rispettivamente difensori degli ex Ros Mario Mori e Giuseppe De Donno, riguardo alla puntata di Report, andata in onda su Rai3 il 24 maggio scorso, per la seconda volta si sono ritrovati costretti a rivolgersi al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, al vice presidente del Csm, David Ermini, al presidente della commissione Vigilanza Rai, Alberto Barachini, a quello della commissione Antimafia, Nicola Morra e al presidente della Rai, Marcello Foa. I difensori di Mori avevano chiesto il rinvio della trasmissione per l’imminenza della fine del processo Stato-mafia - I legali ci vanno giù duro. In premessa fanno sapere che, nonostante la loro espressa richiesta di rinviare la trasmissione di qualche settimana, attesa l’imminente definizione del processo di Appello della presunta trattativa Stato-mafia, nell’ambito del quale, proprio il 24 maggio è iniziata la requisitoria, e “nonostante la piena e incondizionata disponibilità dei sottoscritti a fornire ogni risposta a quesiti posti e/o documento utile alle vicende da trattare al fine di garantire un’informazione completa ed obiettiva”, osservano che nessuno degli autori e dei giornalisti ha ritenuto di contattarli ai suddetti fini. “Ci si domanda - scrivono i legali nella lettera alle autorità - se le ragioni siano da rinvenire nel fatto che l’obiettivo esclusivo era quello di realizzare un’intervista da inserire, ad usum delphini, nella ricostruzione teorematica e faziosa già premeditata, quasi a mo’ di “legittimazione” della trasmissione”. Per i difensori di Mori l’inchiesta di Report “non aveva i requisiti di completezza e imparzialità” - La denuncia è chiara. Secondo gli avvocati Milio e Romito, Report ha trasmesso un servizio dove hanno dato per certo i rapporti tra Cosa Nostra e il generale Mori. Secondo gli avvocati, l’inchiesta giornalistica è stata realizzata ancora una volta “con un approccio - scrivono - rivelatosi del tutto deficiente dei necessari requisiti di completezza ed imparzialità, tratta talune vicende che hanno interessato il generale Mori, utilizzando alcuni documenti smentiti da altri mai citati, manipolando intercettazioni, omettendo di citare sentenze ormai irrevocabili anche da circa un ventennio, così determinando oggettivamente una indebita interferenza sul processo in corso”. In trasmissione magistrati che sostengono l’accusa nel processo Stato-mafia - Ma la denuncia più grave è rivolta a quei magistrati inquirenti, rappresentanti l’accusa nel processo d’Appello sulla presunta trattativa Stato-mafia, tuttora in corso, che continuano a rilasciare interviste a Report, propinando - scrivono gli avvocati alle autorità - “le proprie ipotesi, peraltro smentite da documenti a loro conoscenza che non vengono mai menzionati”. Documenti che gli avvocati descrivono accuratamente nella lettera. Partono dall’accusa che il conduttore di Report fa nei confronti di Mori. “Dai verbali, dai documenti, da informative segrete - dice Sigfrido Ranucci in trasmissione - emerge il passato del giovane Mori. Un passato che se fosse vero sarebbe imbarazzante e anche inquietante. Emerge un giovane impegnato, aderente ad un’organizzazione paramilitare come la “Rosa dei Venti” della quale facevano parte uomini dei Servizi segreti, neofascisti, uomini legati alla destra eversiva e poi un Mori che avrebbe fatto opera di proselitismo per iscrivere nuovi adepti ad una loggia riferibile alla P2 di Licio Gelli. Una lista segreta”. Mario Mori fu solo un teste nell’indagine sulla “Rosa dei venti” - È vero? La risposta è no. Dai documenti, che gli avvocati hanno e avrebbero messo volentieri a disposizione se fossero stati interpellati nel merito, emerge che il coinvolgimento di Mori nell’indagine della Procura di Padova sulla “Rosa dei Venti” fu limitato alla sua escussione come teste da parte dell’allora magistrato Tamburino. Quest’ultimo cercava di identificare un giovane capitano dei Carabinieri che aveva fatto servizio a Conegliano Veneto e che stato tirato in ballo dalle dichiarazioni di Amos Spiazzi. Per questo sono stati escussi diverse persone per identificare il personaggio. Ebbene è stato certificato che il giovane capitano in questione non era Mario Mori, ma Mauro Venturi. Quest’ultimo era l’ufficiale di cui parlava Spiazzi (e che Tamburino voleva identificare) come colui dal quale attendeva direttive in relazione al Golpe Borghese. Il Venturi fu indagato, gli fu perquisita l’abitazione, e poi venne prosciolto con sentenza ordinanza del giudice di Roma. Mario Mori non risulta in alcun elenco della P2 - Assodato che Mori non c’entrava nulla con la “Rosa dei venti” e il tentato golpe Borghese, c’è da domandarsi se fosse iscritto alla P2. Ovviamente non compare nella lista. A quel punto si disse che molto probabilmente esiste una lista riservata con i nomi di tutti i personaggi aderenti ai servizi segreti. Ovviamente mai trovata, ma soprattutto inesistente da un punto di vista logico. Gli avvocati, infatti, scrivono che, in quelle ritrovate a Castiglion Fibocchi, “vi erano i vertici dei Servizi (Miceli, Maletti, Santovito), ufficiali superiori e inferiori delle Forze Armate e dell’Arma dei Carabinieri (anche diversi capitani tra cui il noto Antonio Labruna), parlamentari, ministri e perfino magistrati”. E Mori, infatti, non vi compare. Le intercettazioni di Riina trasmesse sono il frutto di fusione di momenti diversi - Degne di nota, tra le varie decostruzioni fatte con documenti in mano delle suggestioni portate avanti da Report, sono le intercettazioni di Totò Riina. Per corroborare l’ipotesi, del tutto smentita da sentenza definitiva, che Mori non avrebbe perquisito il covo di Riina per fare in modo di far sparire documenti compromettenti conservati in cassaforte, Report trasmette alcune intercettazioni del capo dei capi mentre era al 41-bis. Ebbene, tra le altre, a un certo punto mettono in onda questa intercettazione: “Minchia, furbu, furbu, furbu. Sono uno più vigliacco dell’altro perché io non ho potuto mai capire perché non vennero a fare la perquisizione”. Non esiste: secondo gli avvocati è frutto fusione di affermazioni fatte in momenti diversi. Per dimostrarlo, hanno trascritto tutti i passaggi delle intercettazioni. Sant’Agostino: “La verità è come un leone; non avrai bisogno di difenderla. Si difenderà da sola” - Dal testo originario emerge l’esatto contrario, ossia che Riina appella Mori “furbo” in relazione all’affermazione che secondo lui, Riina, non tenesse documenti a casa. Infatti, Riina stesso parla chiaro, senza però che Report lo riporti: “Io, onestamente, devo dire la verità, non scrivevo niente non tenevo niente dentro la casa”. Ancora più avanti svela pure cosa aveva in cassaforte: “Lo sapete che cosa ci tenevo nella … là dentro? … spagnolo … questi… un revolver ci tenevo”. Gli avvocati concludono stigmatizzando la citazione di Pennac fatta da Report, “L’uomo non si nutre di verità, ma si nutre di risposte”, quali che siano. “Preferiamo - concludono nella lettera - Sant’Agostino - “La verità è come un leone; non avrai bisogno di difenderla. Si difenderà da sola” - pur dovendo prendere atto che, purtroppo, in Italia c’è ancora bisogno di qualcuno che difenda la verità, costantemente vilipesa”. Mafia, Giovanni Brusca torna libero: l’ex boss lascia il carcere dopo 25 anni di Alessio Ribaudo Corriere della Sera, 1 giugno 2021 Fedelissimo di Totò Riina e tra i responsabili della strage di Capaci, sarà sottoposto al regime di libertà vigilata per 4 anni. Era detenuto a Rebibbia. La vedova del caposcorta di Falcone: “Indignata”. È tornato a vedere il cielo da uomo libero, dopo venticinque anni, Giovanni Brusca: uno degli uomini più spietati e fedeli di Totò Rina, allora capo di Cosa Nostra. Grazie all’ultimo abbuono, previsto dalla legge, di 45 giorni, il sessantaquattrenne di San Giuseppe Jato, nel Palermitano, ha pagato il conto con la giustizia italiana e ha lasciato il carcere romano di Rebibbia. Come ha stabilito la Corte d’Appello di Milano, l’ultima a pronunciarsi su di lui, sarà sottoposto a controlli, protezione e a quattro anni di libertà vigilata. Brusca, noto anche come “‘u verru” (il porco), è stato fra i protagonisti della stagione stragista dei Corleonesi. Figlio di Bernardo, alleato fin dai tempi in cui il capo era Luciano Leggio, prese il suo posto come capo mandamento dopo l’arresto del vecchio boss nel 1985 che in cella morì senza mai aprire bocca. Fu tra i responsabili di delitti “eccellenti” come la strage di Capaci in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i loro agenti di scorta. Per sua stessa ammissione fu responsabile di centinaia di omicidi. Un numero così alto che lui stesso non è mai riuscito a dire con esattezza. Fra di questi anche quello barbaro del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del collaboratore di giustizia Santino: un bambino di 11 anni quando lo afferrarono, tenendolo sotto sequestro fra Palermo e Agrigento per due anni. Per indurre il padre a ritrattare ciò che aveva iniziato a mettere a verbale con l’allora procuratore di Palermo Gian Carlo Caselli, fu rapito il 23 novembre 1993 con uno stratagemma: uomini travestiti da agenti della Direzione investigativa antimafia. Giuseppe fu tenuto in ostaggio, tra vari covi, fino alll’11 gennaio 1996 quando decisero di strangolarlo e poi sciogliere il cadavere nell’acido nell’ultima “prigione” nelle campagne di San Giuseppe Jato. Brusca, dopo gli anni di sangue, volta le spalle a quell’infame codice mafioso e sceglie di diventare un collaboratore di giustizia. Tantissime le reazioni, già a poche ore dalla notizia (potete leggerle tutte qui). Molte sdegnate, come quella di Tina Montinaro, vedova del caposcorta di Falcone, ucciso nella strage di Capaci: “Sono indignata - ha detto all’agenzia AdnKronos. Dopo 29 anni non conosciamo la verità sulla strage e Brusca è libero”. Maria Falcone, sorella di Giovanni, ha commentato: “Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello, e quindi va rispettata”. Poi ha aggiunto: “Mi auguro solo che magistratura e le forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere”. Sulla stessa lunghezza d’onda è Luigi Savina, ex vice capo della polizia di Stato e dirigente della Mobile che catturò Brusca: “Faccio mie le parole di Maria Falcone e ne condivido ogni virgola”. La notizia della scarcerazione ferisce chi è stato vittima di quella mafia stragista e non è morto per un soffio. “È un’offesa per le persone che sono morte in quella strage - ha detto Giuseppe Costanza, autista del giudice Falcone scampato alla strage di Capaci- e per me dovevano buttare via le chiavi”. Giovanni Paparcuri, autista di Falcone nei primi anni Ottanta, rimasto ferito nell’attentato in cui morì il giudice Rocco Chinnici è indigato: “Non ho mai creduto al suo pentimento e mai ci crederò, io l’avrei fatto marcire in galera per tutta la vita per gli innumerevoli morti che ha sulla coscienza ma essendo in uno Stato di diritto e se la legge prevede che a questi assassini poi divenuti collaboratori spettano dei benefici, da buon soldato, ma a malincuore ne prendo atto e me ne faccio una ragione, anche se è molta dura, durissima”. Brusca, latitante, fu arrestato insieme al fratello Enzo a Cannatello, una frazione di Agrigento, il 20 maggio 1996 grazie a una rocambolesca operazione delle forze dell’Ordine. Erano da poco passate le 21 quando, davanti a un villino così vicino al mare da poter sentire lo iodio sfreccia una moto rumorosa: è il segnale. Gli uomini della Squadra mobile di Palermo, pronti a fare l’irruzione, captano lo stesso rumore mentre lo intercettano al telefono. La sua cattura è stata preparata a lungo, a partire dal ritrovamento di un’agenda con codici e numeri di telefono, a cui seguono indagini serrate, intercettazioni, appostamenti e l’obbligo di massima segretezza. Lui, un gradino sotto il capo dei capi di Cosa Nostra, viene colto di sorpresa e prova una fuga disperata dal retro. Inutile. Gli uomini della catturandi lo ammanettano e a tutta velocità lo trasferiscono in Questura a Palermo. Brusca non proferirà una parola lungo tutto il viaggio. Neanche quando passano sotto casa di Falcone. L’euforia degli agenti che arrivano a Palermo dopo l’arresto viene proiettata nelle televisioni di tutto il mondo: i mitra alzati, le urla di gioia, le sirene e i clacson che suonano all’impazzata. Dopo migliaia di ore di appostamenti, rischi corsi, false piste, il responsabile della morte di tanti poliziotti era finalmente stato assicurato alla giustizia. A Palermo il clima sembra cambiato. La notizia si è diffusa in città e gli agenti sono accolti dagli applausi dei palermitani che, invece, riserverà all’arrestato insulti. Mentre affronta il primo interrogatorio, impassibile, con le manette ancora ai polsi che dovranno esser segate dai pompieri perché la chiave si ruppe nel tentativo di aprirle, altri agenti passano al setaccio il suo “covo”: troveranno un guardaroba zeppo di indumenti firmati come si addiceva a un boss di prima grandezza, i giochi del figlio, biglietti e bloc notes con annotati i numeri delle estorsioni e del traffico di droga che Brusca continuava a controllare da lontano, coperto dalla mafia agrigentina. Poi verrà la partenza per il carcere dell’Ucciardone, dove resterà per sette giorni in isolamento totale, controllato a vista 24 ore su 24, nella stessa cella che ospita Totò Riina quando deponeva nei processi a Palermo. Il percorso di collaborazione è stato complicato. Prima una “falsa” partenza che fu subito sventata dagli inquirenti e, poi, la scelta vera di vuotare il sacco arrivata nel 2000. L’alternativa sarebbe stata quella di scontare in carcere il resto della vita: proprio come era accaduto al padre Bernardo per via delle condanne ricevuto al maxiprocesso di Palermo istruito dai giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello. “La mia non è una scelta facile - aveva detto a proposito della sua scelta - pesa la storia della mia famiglia, il dover accusare altri”. Dalle sue rivelazioni sono arrivate sentenze su tanti omicidi di mafia, sugli attentati del 1993 a Roma e Firenze. Ha parlato anche sulla presunta “trattativa” tra Stato e mafia, dei rapporti con la politica e le connivenze con parte della burocrazia collusa. Ha raccontato anche che avrebbe dovuto uccidere l’ex pluriministro democristiano Calogero Mannino. Il “golden boy” dello scudocrociato siciliano si salvò perché ci fu un contrordine: bisognava prima far fuori un monumento della giustizia italiana: Paolo Borsellino. Brusca è sempre stato uno che ha diviso l’opinione pubblica. Negli anni scorsi non sono mancate le polemiche legate ai suoi “permessi premio” ottenuti grazie ai benefici riservati ai “pentiti” e alle richieste di uscita definitiva anticipata dal carcere. Per via degli sconti di pena riservati ai “pentiti affidabili” alla fine è stato condannato non a ergastoli ma a 26 anni di carcere. A conti fatti sarebbe dovuto uscire nel 2022 ma la pena si è accorciata ulteriormente grazie alla sua “buona condotta”. Da oggi, però, si apre l’iter per la gestione della sua libertà del boss e di quella dei familiari: dai servizi di vigilanza a quelli di protezione che gli spettano per legge. Tra l’altro Brusca con le sue dichiarazioni ha dato il via anche alle indagini sulla trattativa Stato-mafia, parlò del papello con le richieste del boss consegnato ai rappresentanti delle istituzioni che “si erano fatti sotto” per chiedere che cosa voleva, e dei successivi rapporti con la politica. Sempre discusso, ma sempre ritenuto sostanzialmente attendibile, Brusca godeva da tempo di permessi premio, talvolta sospesi quando ne ha approfittato per violare qualche regola ma poi sempre ripristinati. Più volte ha chiesto gli arresti domiciliari, puntualmente negati dai giudici. Fino alla fine della pena, arrivata ieri. Liberazione di Brusca. Maria Falcone: “Addolorata, ma è la legge” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 1 giugno 2021 Lascia definitivamente il carcere l’ex boss collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, il capomafia che azionò il telecomando della strage di Capaci e poi decise l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito che per primo svelò i segreti della stagione stragista del 1992. Ieri pomeriggio, ha lasciato il penitenziario di Rebibbia per fine pena. Il fedelissimo di Totò Riina era stato arrestato dalla polizia il 20 maggio 1996, un mese dopo era già davanti i magistrati della procura di Palermo per svelare i segreti di Cosa nostra. In questi anni, Giovanni Brusca ha continuato a testimoniare in tanti processi, da ultimo davanti ai giudici di Palermo che si sono occupati della “Trattativa Stato-mafia”. Come anticipato ieri dal sito dell’Espresso, adesso l’ex boss è un uomo libero, continua ad essere sottoposto al programma di protezione. Tecnicamente ha però ancora da scontare quattro anni di libertà vigilata, così ha deciso la corte d’appello di Milano, l’ultima a pronunciarsi sul conto del collaboratore in relazione al processo più recente. Nei mesi scorsi, una sua richiesta di scarcerazione anticipata aveva creato tante polemiche. Nonostante da anni usufruisse di permessi premio ogni 45 giorni. Due anni fa, la Corte di Cassazione aveva detto no agli arresti domiciliari per il pentito, nonostante il parere favorevole della procura nazionale antimafia. Adesso, arriva la scarcerazione per fine pena. Dura la reazione di Tina Montinaro, la vedova di Antonio Montinaro, il caposcorta di Giovanni Falcone: “Sono indignata, lo Stato ci rema contro, noi dopo 29 anni non conosciamo ancora la verità sulle stragi e Giovanni Brusca, l’uomo che ha distrutto la mia famiglia, è libero”. Maria Falcone, sorella del giudice, argomenta: “Umanamente è una notizia che mi addolora, ma questa è la legge, una legge che peraltro ha voluto mio fratello e quindi va rispettata. Mi auguro solo che magistratura e le forze dell’ordine vigilino con estrema attenzione in modo da scongiurare il pericolo che torni a delinquere, visto che stiamo parlando di un soggetto che ha avuto un percorso di collaborazione con la giustizia assai tortuoso”. Difficile da accettare, ma così vince lo Stato di Francesco La Licata La Stampa, 1 giugno 2021 Fa un certo effetto immaginare Giovanni Brusca che varca la soglia del carcere di Rebibbia da uomo libero, seppure sottoposto a qualche vincolo di controllo e, soprattutto, di protezione che lo terrà ancora per qualche anno sotto osservazione da parte di magistratura e investigatori. Già, Brusca “u verru” (il maiale), per dirla col terribile nomignolo riservatogli da qualcuno dei suoi detrattori dentro Cosa nostra, il killer di fiducia della “cupola” di Totò Riina, il mafioso mai completamente emendato, neppure dopo il clamoroso “pentimento”, il figlio di don Bernardo torna uomo libero dopo 25 anni trascorsi in carcere. E la mente, quasi per riflesso condizionato, torna all’autostrada di Punta Raisi sventrata dal tritolo da lui innescato. Tornano quelle terribili immagini del 23 maggio 1992: Giovanni Falcone con le gambe tranciate, la moglie, Francesca, che chiede, prima di spirare, “dov’è Giovanni?”. Le blindate accartocciate come scatolette e i resti di Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, la fedele scorta, sparsi per centinaia di metri. Può essere dimenticato tanto dolore? E può ancora soltanto impallidire il ricordo del piccolo Giuseppe Di Matteo? Era un bambino quando Brusca lo prese in ostaggio per usarlo come “argomento convincente”, nel tentativo di indurre Santino, padre del piccolo divenuto collaboratore dello Stato, a ritrattare le rivelazioni già verbalizzate sulla strategia stragista di Totò Riina. E non era ancora adolescente, Giuseppe, quando Brusca ordinò di strangolarlo (lo chiamavano “u canuzzu”). Fu Enzo Brusca, fratello di Giovanni, insieme con altri due animali, ad eseguire l’ordine e poi sciogliere nell’acido quel piccolo corpo denutrito. Ecco, tutto ciò basterebbe a classificare come “porcheria” la liberazione di Giovanni Brusca. Ma non è l’emotività, e non poteva esserlo, che ha guidato la mano dei giudici che hanno firmato la liberazione del mafioso divenuto collaboratore. Il dato certo, al di là del comprensibile smarrimento del cittadino spettatore, è che Giovanni Brusca esce dal carcere per fine pena. Cioè ha espiato le sue colpe, secondo un processo regolarmente celebrato e giunto a sentenza definitiva. Certo una pena non pesantissima (rispetto alle accuse provate e confessate), ma giustificate da una legge che offre sconti ai pentiti. Una legge, correttamente applicata dai giudici, che nel conteggio fra costi e ricavi ha portato vantaggi allo Stato. Basti pensare alle conoscenze, giudiziarie e non, acquisite da tante collaborazioni e a quante vite sono così state salvate. Truffe on line, se il pagamento è bonificato competenza al giudice del luogo apertura conto di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2021 La consumazione si realizza solo con la riscossione al contrario della ricarica della postepay che è definitiva. In materia di truffe on line la modalità di pagamento del prezzo determina il radicamento della competenza giurisdizionale. La Cassazione - con la sentenza n. 21357/2021 - riafferma le regole per individuare il giudice competente in una fattispecie dove spesso i luoghi del truffatore e del truffato non coincidono viste le modalità a distanza non solo delle contrattazioni, ma soprattutto del pagamento del prezzo di vendita. E sono proprio queste ultime a determinare la competenza in base alla considerazione del momento in cui si consuma il reato e in quale luogo va intravista tale consumazione. Di norma negli acquisti on line vengono in evidenza due modalità di pagamento che si realizzano entrambe a distanza: la ricarica di una prepagata o il bonifico bancario telematico. Nel primo caso la percezione del prezzo da parte del venditore è immediata a prescindere dal momento dell’accredito della cifra mentre nel secondo rimane a disposizione di chi ordina il pagamento la possibilità di revoca fino alla materiale riscossione effettuata dalla controparte. Nel caso specifico i giudici di legittimità fanno rilevare che il pagamento era stato realizzato tramite banca on line sul conto corrente postale abbinato alla carta postepay del venditore e non attraverso la ricarica della prepagata presso un ufficio postale o un esercizio pubblico. Ciò determina secondo la Cassazione - ai fini dell’individuazione del giudice competente - la rilevanza del luogo di apertura del conto corrente. Il momento di consumazione del reato è quello in cui si determina l’impoverimento del soggetto passivo del reato di truffa a fronte del concreto illecito arricchimento dell’autore del reato. Il bonifico non consuma il reato per la possibilità che ha il disponente di revocarlo fino alla materiale riscossione di chi riceve la provvista. Genova. Morte misteriosa in carcere: l’autopsia non chiarisce di Michele Varì primocanale.it, 1 giugno 2021 Suicidio possibile, ma scatta l’avviso di garanzia per i due compagni di cella. Il pm Cozzi: “Faremo luminol nella cella”. La ferita rinvenuta sulla testa del detenuto Emanuele Polizzi è solo un taglio e non nasconde una frattura cranica. Sul corpo del recluso trovato impiccato nella sua cella del carcere di Marassi inoltre non ci sono altre ferite o lesioni che possano spiegare la sua morte, avvenuta per soffocamento, compatibile con l’impiccagione. Sono questi i primi responsi trapelati dall’autopsia svolta sul corpo del detenuto di 45 anni dal medico legale Sara Lo Pinto per conto del sostituto procuratore Giuseppe Longo che dopo il rinvenimento del cadavere in una cella della seconda sezione di Marassi ha avviato un’indagine affidata alla squadra mobile per omicidio volontario. L’esito dell’autopsia lascia senza risposta molti punti interrogativi: come ha fatto Polizzi a ferirsi alla testa? Perché ha pulito la ferita con una maglietta poi richiusa in un sacchetto trovato nel lavandino? E perché su uno sgabello e in più parti della cella c’erano tracce di sangue? Per questo due reclusi che hanno trovato Polizzi senza vita sono stati indagati. Un atto dovuto, raccontano i legali dei detenuti. Ma è indubbio che le indagini sono ancora aperte. Fra le poche certezze quella che detenuto era depresso, per questo era in terapia con uno psicologo del carcere. Fra i motivi che hanno destabilizzato Polizzi la notizia di essere stato condannato a dieci anni per una rapina commessa con un complice che invece era riuscito a fuggire. Ma nell’ultimo colloquio con il suo legale Silene Marocco il quarantenne era apparso più tranquillo. Al momento del suicidio nella cella c’erano solo due dei cinque reclusi che occupavano la camera con Polizzi. Gli altri tre erano usciti circa un’ora prima perché impegnati in alcune attività all’interno dell’istituto. I due reclusi presenti, Mattia Romeo e Giovanni Genovese, tutti e due di 36 anni, agli agenti della sezione omicidi della squadra mobile hanno detto che stavano dormendo e quando si sono svegliati hanno trovato Polizzi impiccato. L’avviso di garanzia gli permetterà di spiegare meglio e di difendersi da ogni accusa. Il procuratore Francesco Cozzi, che subito dopo il decesso aveva svolto il primo sopralluogo a Marassi con il pm Giuseppe Longo e il dirigente della squadra Mobile Stefano Signoretti, ammette che i primi responsi dell’esame autoptico non cambiano lo scenario iniziale “ma ci sono ancora incognite, come quella delle tante macchie di sangue nella cella. Per questo effettueremo altre indagini, fra cui l’esame del luminol, ad esempio”. Dunque il mistero rimane, ma in attesa di altri rilievi della scientifica e degli esiti degli accertamenti tossicologici l’ipotesi del suicidio sembra prevalere perché la morte, come detto, è avvenuta per soffocamento. Se la vittima fosse stata uccisa a bastonate o con colpo di sgabello e poi impiccata l’autopsia avrebbe svelato che le cause della morte erano diverse dal soffocamento. In linea teorica Polizzi potrebbe essere stato soffocato con un cuscino e l’impiccaggione essere stata simulata dopo: ma appare poco verosimile che due detenuti possano uccidere in quel modo un uomo di una cella di pochi metri quadrati senza provocare rumori e senza metterla sottosopra, mentre la camerata all’arrivo degli agenti invece appariva in ordine. Emanuele Polizzi aveva 45 anni ed originario di Vittoria (Ragusa), era in galera da quasi due anni per una rapina a sprangate al titolare di una sala giochi. Il detenuto si sarebbe impiccato con dei legacci formati con le lenzuola prima delle nove del mattino di venerdì 28 maggio nell’antibagno della cella: si sarebbe chiuso la porticina alle spalle e poi appeso ad una finestra. Senza lasciare nessun messaggio di addio, né ai familiari, né al suo avvocato Silena Marocco. Altra stranezza visto che il legale proprio quel giorno era andato a Marassi perché aveva appuntamento con Polizzi: sono stati gli agenti a rivelargli che il suo assistito si era ucciso. Genova. Morto impiccato in carcere a Marassi. Indagati i due compagni di cella di Marco Lignana La Repubblica, 1 giugno 2021 Sono accusati di omicidio volontario, l’autopsia ha evidenziato ferite incompatibili con il suicidio. Si sospetta un tentativo di nascondere i fatti, gli inquirenti stanno battendo la strada dei debiti fra detenuti. I due compagni di cella, che continuano a sostenere di essere innocenti, indagati per omicidio volontario. E una autopsia che evidenzia ferite incompatibili con il suicidio. L’indagine sulla morte di Emanuele Polizzi, 46enne trovato impiccato alle sbarre della finestra in una cella in carcere a Marassi sabato scorso, ieri ha preso una strada ben precisa. Quantomeno per l’accusa, che sospetta una messa in scena per coprire un assassinio. L’autopsia sul corpo dell’uomo, eseguita dal medico legale Sara Lo Pinto, ha detto che alcune ferite sul capo di Polizzi sono del tutto incompatibili con il suicidio. Così il pubblico ministero Giuseppe Longo, che sabato scorso aveva fatto un sopralluogo a Marassi insieme al procuratore capo Francesco Cozzi, ha iscritto due dei quattro compagni di cella che si trovavano detenuti con lui, i 36enni M.R. e G.G. (fra gli avvocati difensori, Ferruccio Barnaba, Celeste Pallini e Mauro Morabito). Il primo è in carcere per motivi di droga, il secondo per scippi. Nel suo passato anche una serie lunghissima di rapine. Inquirenti e squadra mobile, diretta dal primo dirigente Stefano Signoretti, stanno indagando su possibili debiti fra i detenuti. Problemi di soldi che potrebbero aver portato a una violenta lite, fino all’assassinio di Polizzi. Erano stati proprio i due 36enni a chiamare gli agenti della penitenziaria sabato scorso: “Dormivamo e non abbiamo sentito nulla”, hanno detto agli investigatori della squadra mobile nel corso degli interrogatori. Una versione che fin dall’inizio non ha convinto completamente gli investigatori. “L’iscrizione è un atto dovuto - sottolinea l’avvocato Ferruccio Barnaba - ora ci riserviamo di leggere quanto scriverà il medico legale nella sua relazione”. Polizzi è stato trovato impiccato alle grate del locale adibito a cucina e servizio della cella che divideva insieme ad altri quattro detenuti. Gli altri due detenuti con lui erano usciti presto per andare a lavorare, mentre i due indagati hanno dato l’allarme alle 9.30, quando si sarebbero svegliati e non avrebbero sentito alcun rumore. Un secondino ha detto agli investigatori della squadra mobile di avere visto Polizzi sveglio alle 8.45: una circostanza, però, incompatibile sia con l’ipotesi del suicidio che con quella dell’omicidio, visto che la morte sarebbe avvenuta prima. C’è di più. La maglietta sporca di sangue di Polizzi è stata trovata dentro un sacchetto nel lavandino. Mentre il suo avvocato, Silena Marocco, ha detto di aver visto il suo cliente “un po’ giù di morale negli ultimi giorni, tanto che avevo segnalato la cosa anche al medico del carcere. Il giorno precedente la morte però avevamo parlato al telefono e ci eravamo dati appuntamento per la mattina successiva. Solo quando mi sono presentato davanti a Marassi ho saputo di quel che era successo”. Polizzi era stato condannato in primo grado a 10 anni di carcere per rapina. Aspettava il processo di appello. Aveva una moglie e due figli. Napoli. “Quel suicidio dimostra che Poggioreale è un carcere fuorilegge” di Viviana Lanza Il Riformista, 1 giugno 2021 L’accusa di Rita Bernardini dopo la morte di un 25enne dietro le sbarre: “In certi penitenziari lo Stato calpesta quotidianamente diritti e garanzie. Sì alla proposta di Giachetti per ridurre il numero dei reclusi”. “Il suicidio è qualcosa di imponderabile, eppure qualche domanda occorrerebbe porsela se nelle carceri italiane si decide di farla finita diciassette volte di più che fuori e se anche nella polizia penitenziaria si registrano molti più suicidi che nelle altre forze dell’ordine”. Per Rita Bernardini, anima del partito radicale e presidente di Nessuno Tocchi Caino, la notizia di un nuovo suicidio in carcere, avvenuto sabato a Poggioreale dove un detenuto di 25 anni si è tolto la vita, non può essere archiviata come un semplice gesto di disperazione che attiene alla sfera esclusivamente personale di chi lo ha commesso. Per Rita Bernardini episodi come questo sono la spia di un sistema che non funziona. “Di uno Stato fuorilegge” dice, elencando i dati sul sovraffollamento che, anche in questo anno e mezzo di pandemia, continuano a essere allarmanti. “Vogliamo vedere alcuni dati di illegalità del carcere di Poggioreale?”, afferma prima di elencare i numeri delle risorse che mancano e dei detenuti che sono invece in esubero. Il carcere di Poggioreale ha una capienza regolamentare di 1.465 posti ma nelle celle si contano, secondo dati aggiornati a un mese fa, 2.125 detenuti, “con un sovraffollamento del 145%: una vergogna”. E a fronte di detenuti in eccesso ci sono risorse risicatissime: dei 22 educatori previsti in pianta organica quelli effettivi sono 12, dei 911 agenti previsti in pianta organica quelli effettivi sono 747, dei 68 amministrativi previsti in pianta organica quelli effettivi sono 54. “È una vergogna”, ripete Bernardini. “Non ho i dati riguardanti gli psicologi ma ho motivo di ritenere che siano pochi, considerato lo sfacelo della sanità in carcere dove - sottolinea ancora la leader radicale - il 30% dei detenuti è tossicodipendente e almeno il 25% ha problemi psichiatrici”. Per Bernardini occorre adottare misure per ridimensionare il livello di sovraffollamento, perché il sovraffollamento è la madre di tutte le criticità in carcere: “Sovraffollamento significa strutture che si deteriorano, significa che non si può garantire il diritto alla salute, significa scarsità di possibilità di lavoro, di studio, di attività culturali e/o sportive, scarsità di rapporti con i pochi educatori, i pochi psicologi, i pochi assistenti sociali, i pochi direttori, chiamati quest’ultimi spesso ad occuparsi di più istituti penitenziari o, negli istituti più grandi, a non avere il supporto necessario di vice-direttori. Significa enormi difficoltà ad assicurare il rapporto dei detenuti con i loro familiari e difficoltà di rapporti del detenuto con la magistratura di Sorveglianza la quale dovrebbe, in collaborazione con l’equipe trattamentale, frequentare e conoscere uno per uno i detenuti per prevedere un piano individualizzato di progresso e di reinserimento sociale. Anche la penuria di agenti si ripercuote negativamente sulle attività trattamentali, che devono comunque svolgersi in sicurezza”. Di qui l’appello: “Si approvino subito le proposte normative del deputato Roberto Giachetti per ridurre drasticamente la popolazione detenuta in tutte le carceri italiane - aggiunge la leader radicale - I garanti Samuele Ciambriello e Pietro Ioia fanno l’impossibile per tutelare i diritti dei detenuti a Napoli e in Campania, ma lo Stato continua a girare la testa dall’altra parte”. “Anzi - tuona Bernardini - continua a trarre profitto dalla gestione di questa macchina che costa tre miliardi, perché tanto si spende per l’amministrazione penitenziaria ogni anno”. Un pachiderma che schiaccia diritti e garanzie, dunque. “Pensiamo ai tossicodipendenti - ragiona la leader dei radicali - non dovrebbero stare in carcere ma in altri istituti per essere aiutati e non accade perché il problema è che non ci sono tante strutture di questo tipo sul territorio e alla fine si opta sempre per il carcere, dove ci finiscono anche i casi psichiatrici”. Criticità che si sommano a criticità: “Si buttano tre miliardi per creare strutture che creano recidiva e disperazione”, conclude Bernardini. Milano. L’istituto per madri detenute rischia la chiusura di Anna Giorgi Il Giorno, 1 giugno 2021 L’allarme del Garante Maisto: l’Icam è in bilico per pochi ospiti. Eppure la struttura di via Melloni è un modello per altre città italiane. L’Icam, l’Istituto di custodia per detenute madri, presidio indispensabile per aiutare le mamme e soprattutto i bambini, rischia la chiusura. A lanciare l’allarme è Francesco Maisto, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune, durante la commissione consiliare Educazione e Carceri che si è tenuta ieri a Palazzo Marino. Maisto, per ora, è riuscito ad ottenere una proroga della chiusura, che slitterà a settembre, ma spera in un ripensamento ed è fiducioso in un cambiamento della situazione complessiva che ha risentito della pandemia. L’Icam è nato nel 2006, la struttura modello, costruita per far in modo che somigli il meno possibile a un carcere, si trova in via Macedonio Melloni. Ad oggi, secondo l’amministrazione, il problema principale è la mancanza di ospiti. Per Maisto, però, questa criticità dipende dall’emergenza sanitaria contingente: “Attraversiamo una fase difficile - spiega - in cui è prevedibile che un contesto di pandemia abbia diminuito la microcriminalità e quindi gli arresti”. Per questo motivo, quindi, gli ospiti dell’Icam si sarebbero ridotti troppo per tenere vivo il servizio. Con il calo fisiologico dei reati, dovuto al lockdown, non ci sono mamme con bambini da mettere in istituto, minori sono stati anche gli interventi delle forze dell’ordine. “Abbiamo fatto diversi incontri per evitare la chiusura - continua il garante -. Siamo riusciti a ottenere che l’esperienza venga prolungata fino a settembre. Poi si vedrà (anche in base ai proventi “della legge 285”, aggiunge Maisto). Attualmente nell’istituto è presente una sola detenuta. In tutta Italia, oltre all’Icam di Milano, ci sono solo altri quattro istituti a custodia attenuata per detenute madri. Inevitabilmente il Comune, cerca di destinare il personale attualmente impiegato all’Icam in altri servizi, ma per Maisto si tratterebbe solo di avere la pazienza di tornare alla normalità, per non “rovinare un modello di recupero” che ha fatto scuola anche in altre città, una struttura che aiuta i bambini a non subire il trauma di una mamma in carcere. E sul piatto, in Commissione, è finita anche l’urgenza di consentire ai bambini minori di 12 anni di poter rivedere i genitori che si trovano in cella, usufruendo degli spazi verdi dei quattro istituti di pena. Solo da ieri è tornata la possibilità di vederli dietro un plexiglass, ma mancano gli abbracci, e mancano da febbraio. I tempi si sarebbero accorciati, se fosse stato possibile per i minori vedere i genitori all’aperto, nei giardini del carcere, attualmente inaccessibili. Cuneo. “I problemi del carcere sono problemi della città” di Simone Giraudo targatocn.it, 1 giugno 2021 Lauria interroga sindaco e giunta comunale. L’interpellanza prende le mosse dalla commissione consiliare che ha visto protagonisti Bruno Mellano e Mario Tretola, nella quale sono state rilevate criticità poi riprese dai sindacati della polizia penitenziaria nella protesta di giovedì 27 maggio. “Nel carcere di Cuneo operano tantissimi nostri concittadini: i problemi di un carcere quale quello cuneese sono anche i problemi della città”. Sono queste le parole che si leggono alla fine dell’interpellanza che il consigliere comunale di Cuneo “Beppe” Lauria ha presentato nella giornata di giovedì 27 maggio. Al centro, ovviamente, le criticità legate alla struttura del carcere di Cerialdo. L’interpellanza prende le mosse dalla commissione consiliare che ha visto protagonisti Bruno Mellano e Mario Tretola, rispettivamente garanti dei detenuti a livello regionale e cittadino (quest’ultimo dimissionario); nell’incontro sono state analizzate le criticità della struttura del Cerialdo, tra cui per esempio la mancanza di un dirigente unico e fisso. Le stesse criticità sono state poi riprese - proprio il 27 maggio - durante la protesta dei sindacati della polizia penitenziaria, che ha visto Lauria presente assieme al consigliere Alberto Coggiola ma non quella di uno o più rappresentanti dell’amministrazione comunale. Lauria - non senza rilevare come durante la commissione fosse stato trasversale il sostegno a parole al sistema carcerario in tutte le sue componenti - interroga il sindaco per conoscere il motivo della mancata partecipazione dell’amministrazione comunale alla manifestazione di protesta, chiedendogli poi se non ritenga urgente adoperarsi presso la presidenza del consiglio comunale perché venga indetta una commissione apposita riguardante le tematiche del carcere con presenti tutti gli attori. Reggio Emilia. In Consiglio comunale la mozione sul Garante dei detenuti Gazzetta di Reggio, 1 giugno 2021 Una mozione dei consiglieri Perri, Burani, Benassi e Cantergiani per istituire a Reggio Emilia la figura del Garante comunale delle persone private della libertà personale. È quanto previsto nella seduta odierna del consiglio comunale, in programma in Sala Tricolore dalle 14.45. Fra i punti all’ordine del giorno anche l’approvazione del Bilancio d’esercizio 2020, del Piano programma 2021-2023 dell’Azienda speciale “Farmacie comunali riunite” con la nomina del Collegio dei revisori dei conti. Fra le mozioni anche quella dei consiglieri Benassi, Burani, Perri, Montanari, De Lucia, Cantergiani ed altri per l’istituzione di stalli di sosta riservati alle donne residenti nel comune di Reggio Emilia in stato di gravidanza o ai neogenitori con prole neonata. Due le interpellanze: una del consigliere Dario De Lucia per l’iniziativa di donare un kit per i nuovi nati del comune di Reggio Emilia, l’altra di Claudio Bassi sui lavori in via Ariosto. Roma. La mia esperienza di volontariato in carcere: dall’associazione allo sportello di ascolto di Maria Teresa Caccavale* Gazzetta dello Sport, 1 giugno 2021 La mia esperienza di volontariato in carcere è iniziata quando insegnavo Economia aziendale a Rebibbia. Durante i miei 27 anni di docenza ho cercato di capire bene come funzionasse il carcere, oltre la scuola, e soprattutto attraverso il continuo contatto con i detenuti percepivo che c’erano degli stati di sofferenza dovuti all’incapacità dell’Istituzione penitenziaria di far fronte ad alcuni bisogni essenziali. Ogni giorno c’erano richieste di vario genere: dalla necessità di parlare con l’educatore, con lo psicologo, con il medico, con il magistrato, di mandare messaggi ai familiari, così come la necessità di avere alcuni beni di consumo inaccessibili economicamente a molti, ed altro. La mancanza di osservazione ed ascolto profondo e continuo, nonché di un programma di reinserimento personalizzato vanifica il processo di rieducazione rendendolo non adeguato ai dettami costituzionali di cui all’art.27. L’associazione Happy Bridge - La gestione carcerocentrica non consente un processo osmotico con l’esterno e non aiuta il detenuto a responsabilizzarsi e a reinserirsi adeguatamente nella società. In tale contesto il docente diventa una figura di riferimento per i detenuti, qualcuno con cui poter parlare liberamente senza essere giudicati, qualcuno a cui poter chiedere. Tuttavia anche la presenza del docente è limitata dai tempi e dagli spazi, anche volendo fare di più, diventa molto complicato. Così, è scattato in me il bisogno di andare oltre il mio ruolo di docente per dare concretezza ad alcune attività che, a mio avviso, potevano migliorare la qualità della vita delle persone detenute all’interno del carcere, e nel 2011, insieme a 4 amiche, ciascuna operante in settori diversi, abbiamo costituito l’Associazione Happy Bridge. Il nostro scopo era quello di creare quel ponte felice tra l’istituzione ed i detenuti e tra il carcere e l’esterno, cercando quindi di limitare le distanze e di ricucire i fili recisi. Le persone detenute hanno un grande bisogno di dialogare con persone di cui possono fidarsi, di confidare i propri pensieri, e soprattutto sapere di poter contare sulla presenza costante di qualcuno che li ascolti e li aiuti. A Rebibbia - Così pensai allo sportello di ascolto, che consentiva alle persone di avere la possibilità di parlare e chiedere aiuto di qualsiasi tipologia. In realtà questa attività dovrebbe essere gestita dagli educatori, ma purtroppo il numero di educatori disponibili nelle carceri è sempre molto ridotto rispetto al numero della popolazione detenuta e quindi i rapporti sono sempre molto dilatati. Presentai alla Direzione della Casa di Reclusione di Rebibbia un progetto di massima delle attività che intendevamo realizzare con l’Associazione, attività che prevedevano l’attivazione di uno sportello di ascolto, uno sportello legale, attività di yoga, un laboratorio di spagnolo, organizzazione di eventi musicali, ovviamente tutto in modo assolutamente gratuito per i detenuti e senza alcuna forma di rimborso per i volontari. La gestione di tutte le attività non è stata semplice perché in carcere i problemi si amplificano e bisogna fare i conti con tanti meccanismi burocratici e istituzionali che complicano la piena realizzazione di molti progetti. Oltre alla disponibilità della Direzione Carceraria e dell’Area Educativa, gli spazi ed i tempi sono elementi di cui bisogna tener conto quando si vuole svolgere una attività in carcere, così come anche il problema della sicurezza gestita dalla Polizia penitenziaria che di fatto riveste un ruolo prioritario. Anche la difficoltà a reperire volontari. Devo dire che per i primi quattro anni sono state fatte molte attività e con buoni risultati, poi la gestione si è complicata perché le richieste dei detenuti erano numerose ed i volontari scarseggiavano, soprattutto per lo sportello legale e di ascolto. Non c’era peraltro la giusta sinergia con l’Area Educativa che faceva fatica a starci dietro tra le autorizzazioni e le istanze che presentavamo. Anche per l’attività di yoga è stato molto complicato, perché all’inizio non avevamo uno spazio dedicato, ma ci dovevamo arrangiare nei corridoi. Solo dopo continue insistenze siamo riusciti ad avere una piccola stanzetta ma comunque inadeguata. Diciamo che se non c’è interesse da parte dell’amministrazione carceraria a capire ciò che si sta facendo, risulta tutto molto complicato e finisce per vanificare i risultati. Forte motivazione e determinazione sono elementi fondamentali per sopravvivere come volontari in carcere. Le grandi Associazioni hanno alle spalle efficienti organizzazioni e fondi per i volontari. La nostra Associazione, nonostante la piccola dimensione, continua a fornire servizi ai detenuti, ex detenuti o in detenzione domiciliare esclusivamente perché le persone coinvolte ci credono e senza alcun interesse economico, autofinanziando le nostre attività. Purtroppo fare volontariato in carcere non è facile e soprattutto è un mondo in cui bisogna sapersi muovere. Il volontario come dice la parola è colui che, senza alcun rapporto di subordinazione o vincolo particolare, decide di dedicarsi ad una attività a supporto di uno specifico settore o a più settori nel contesto sociale. Nel mondo del volontariato si trova una molteplicità di soggetti di diversa provenienza, da chi ha avuto esperienza nel settore specifico scelto o chi si affaccia a questo mondo per la prima volta, da chi ha una esperienza pluriennale a chi invece non conosce assolutamente come funziona. Magari, consiglierei di approcciare al volontariato con cautela e conoscenza della normativa sul volontariato perché, al di là del fatto emotivo che può spingere una persona a diventare volontario, è sempre bene avere consapevolezza delle proprie possibilità e capacità operative. Inizialmente il volontariato veniva gestito principalmente dai religiosi perché l’aiuto verso gli altri si identificava con atti di misericordia verso il prossimo e rispondeva alle buone azioni cristiane dettate dalla Chiesa, come dar da mangiare agli affamati, far visita ai carcerati, curare gli ammalati, ecc. Infatti, negli anni passati il volontariato laico in carcere, o negli Ospedali, negli orfanotrofi, ecc, era molto ridotto. Oggi invece una buona parte del volontariato è anche laico e gestito da un numero considerevole di associazioni e cooperative di varia natura. Durante il periodo pandemico la nostra Associazione è riuscita comunque a mantenere i contatti con i detenuti, ed in particolare con quelli in detenzione domiciliare, portando avanti laboratori di scrittura e siamo riusciti a pubblicare una Antologia Letteraria “Pensieri Reclusi e oltre” che ha riscosso notevole successo. *Presidente Associazione Happy Bridge Odv “A tempo debito”: riabilitazione in carcere attraverso la forza del cinema di Giovanni Convertini periodicodaily.com, 1 giugno 2021 Emera Film torna su Chili (www.chili.com) con “A tempo debito”, scritto e diretto da Christian Cinetto, prodotto da Marta Ridolfi per Jengafilm. I protagonisti sono 15 detenuti della Casa Circondariale di Padova, di 7 differenti nazionalità, tutti in attesa di giudizio e scelti per realizzare un film. Di cosa parla “A tempo debito”? Il documentario, accompagna lo spettatore nel conoscere le storie di questi uomini diversi tra loro e, tra momenti divertenti e altri commoventi, ci si pone una domanda fondamentale: le persone sono l’espressione del proprio reato? A tempo debito è un’occasione per uscire dalla sala facendosi delle domande scomode. Non sul carcere, ma su se stessi. Un racconto che non aderisce al solito cliché del carcere duro e della violenza, ma che offre un’altra prospettiva, più interessante. Anche dal punto di vista umano. Il regista - “Uno è portato a pensare che i film ambientati in carcere parlino di carcere, di sbarre, di violenza, di soprusi. Da un documentario ambientato in carcere ci si aspetta di vedere il lato oscuro di un luogo, di sentire parlare i detenuti sulla libertà o sulla presunzione di innocenza. Tutto ciò è comprensibile, è anche confortevole come esperienza di spettatore allenato. Eppure A tempo debito ha molto poco di tutto ciò”. E invece A tempo debito racconta, a chi sta fuori, la storia vera di 15 detenuti di diversa nazionalità, che hanno colto l’opportunità di mettersi in gioco con un corso di cortometraggio”. Il documentario - “Parla di incertezza, di come sia difficile, quasi impossibile, realizzare un progetto di riabilitazione con detenuti che possono sparire da un giorno all’altro, senza preavviso né per noi né per loro. Abbiamo trascorso 5 mesi alla Casa Circondariale di Padova e li abbiamo filmati, abbiamo filmato le storie di vita dei detenuti, la loro testimonianza di attori e di uomini. E alla fine, solo alla fine, si scopre se e come la realizzazione del cortometraggio sarà stata possibile…”. Chi vorrà vederlo dovrà essere disposto a farsi delle domande scomode. Non sul carcere, ma su se stesso. 82 minuti per cambiare prospettiva. Almeno un po’”. A tempo debito: Sinossi - Ottobre 2013, Casa Circondariale di Padova. Una mini-troupe entra in carcere per vivere a contatto con i detenuti e farli realizzare un cortometraggio. Si presentano al casting in 40, quasi tutti in attesa di giudizio. A tempo debito racconta il dietro le quinte di questa produzione e l’incontro tra 15 detenuti di 7 nazionalità diverse attraverso lezioni di recitazione e di sceneggiatura. Non si conosce la ragione della loro reclusione, ma guidati dalla fiducia dei loro sguardi e dall’istinto, si procede settimana dopo settimana tra momenti divertenti, attimi commoventi e qualche tensione. Dopo 5 mesi di intensi incontri e di prove, finalmente si gira. E qualcosa è cambiato. L’ipocrisia occidentale e i nostri dati di Simone Pieranni Il Manifesto, 1 giugno 2021 Sorveglianza di massa. Siamo stati abituati a sentirci raccontare che a spiare sono i cinesi e per lo più le “piattaforme”, le grandi protagoniste del “capitalismo di sorveglianza”, come se gli Stati occidentali, invece, non lo facessero. Se provaste a cercare su un qualsiasi motore di ricerca informazioni su spionaggi e sorveglianza di Stato, è quasi certo che arrivereste su pagine che descrivono i meccanismi securitari della Cina o le operazioni - talvolta spregiudicate - degli ormai celebri hacker russi. Si tratta di due realtà che nessuno nega: Cina e Russia da tempo dedicano attenzione e risorse al controllo dei propri cittadini e al tentativo di irrompere in sistemi di sicurezza altrui. Solo che per quanto riguarda la Cina, ad esempio, sul fronte “esterno” di prove non ne ha mai fornito nessuno (neppure gli Usa che sulle accuse di spionaggio alla Huawei hanno costruito le attuali traiettorie geopolitiche). Questo è un primo aspetto: la narrazione dell’era Biden, con la quale gli Usa provano a tornare alla testa dei propri alleati che si erano un po’ persi durante gli anni di Trump, si basa proprio su questo assunto: non potete fidarvi della Cina perché tutti i cinesi sono spioni o sono al soldo del partito comunista (un leit motiv ripreso anche da media italiani ogni volta che si presenta l’occasione). Solo che su Biden, vice presidente all’epoca dell’ennesimo scandalo aperto sull’abitudine americana a spiare anche i propri alleati, si sprecano meno inchiostro e meno “inchieste” con l’eccezione dei media che hanno tirato fuori l’ennesimo rivolo delle tante rivelazioni di Snowden, trattato come un appestato dalla stampa di mezzo mondo perché rivelò - con tanto di prove e non solo sospetti - le metodologie di sorveglianza di massa degli Usa. Ma non è solo questo che le ultime rivelazioni ci consegnano: siamo abituati a sentirci raccontare che a spiare sono i cinesi e per lo più le “piattaforme”, le grandi protagoniste del “capitalismo di sorveglianza”. Anche in questo caso non si può certo negare la capacità “estrattiva” delle aziende tech, che utilizzano i nostri dati in funzione - anche, potenzialmente - di controllo. Ma ben poco si dice degli Stati e degli ingenti acquisti di tecnologia di Intelligenza artificiale per il riconoscimento facciale, un business nel quale nonostante il protagonismo cinese dominano ancora gli americani. In questo senso, infine, va in crisi anche la posizione di chi ritiene che questi strumenti dovrebbero essere statali: lo sono già. Semplicemente se ne parla poco o si tende a evidenziare il percorso inquietante e innegabile di posti lontani (la Cina) senza accorgerci che anche qui in Occidente siamo sorvegliati: dalle aziende e dagli Stati. A meno che non si ritengano gli odierni strumenti di sorveglianza in mano alle polizie occidentali - che già usano modelli predittivi con tutti i bias più volte messi in evidenza da esperti e organizzazioni non governative - operanti in un mondo altro e non - invece - nel nostro. La legge Zan e l’Italia che non sa dialogare di Gabriella Imperatori Corriere del Veneto, 1 giugno 2021 Non tutti sanno nei dettagli di cosa parla, ma tutti ne parlano, come spesso avviene. In sostanza il progetto di legge Zan, bloccato per ora al Senato dopo essere passato alla Camera, sostiene che è penalmente punibile chi offende, aggredisce o discrimina qualcuno a motivo del suo sesso. Oppure a causa della sua non adesione alle modalità di comportamento convenzionalmente legate all’appartenenza di genere. Chi rifiuta l’identità sessuale assegnatagli alla nascita e dunque all’anagrafe (il transgender) è in realtà spesso vulnerabile, bisognoso di protezione, almeno finché il processo di cambiamento non è concluso ed è ancora possibile cambiare idea. Perciò questa protezione deve contemplare un rispetto che includa il diritto a non subire discriminazioni e offese. Sembrerebbe una cosa ovvia, eppure non lo è per tutti, tanto che l’argomento continua a suscitare dibattiti feroci. Ogni popolo ha, o sembra avere, caratteri distintivi. Per cui gli vengono attribuiti qualità e difetti (a volte sedimentati nel tempo fino a diventare iperboli o caricature). Degli italiani, per fermarci alla nostra gente, si dice che sono particolarmente portati al dibattito, tuttavia per molti il dibattito è teso a dimostrare soprattutto di aver sempre ragione. Il che, come affermato da un noto intellettuale “è un obiettivo misero, infantile o fanatico”. Infatti la ragione non è qualcosa di assoluto e immutabile o un attestato di virtù che permetta di sputare, nemmeno metaforicamente, addosso agli altri. Ma è un percorso, una conquista, qualcosa che si può imparare, talvolta perfino da chi sostiene idee diverse dalle nostre. Basta invece ascoltare un qualsiasi talk show per imbatterci in persone che s’interrompono a vicenda, gridano come aquile o addirittura insultano per far emergere, più che il proprio pensiero che non sempre c’è, le proprie passioni. È così se si parla di vaccini, di aperture e chiusure, di immigrazione. Figurarsi cosa succede se il tema di un dibattito riguarda la bioetica, com’è successo per l’aborto, come accade ancora per la pillola del giorno dopo, per l’utero in affitto, e anche per la legge Zan (derivata dal cognome del parlamentare padovano del Pd Alessandro Zan), che difende il diritto di comportarsi come ci si sente di essere e non come certifica la carta d’identità. Per esempio per quanto riguarda il cambio di genere, o il diritto di amare chi si ama senza doverne rendere conto ai familiari, agli amici, alla società di guardoni pronta a giudicare con l’aggravante dell’odio (pensiamo a espressioni tipo “sporco frocio”, “tr... di m…a” e simili), oltraggiando una persona non per ciò che bene o male fa (o non fa), ma per ciò che è o sente di essere. A questo punto tutto può diventare lecito, anche le cose più assurde, e ogni gruppuscolo può combattere a suo modo la propria guerriglia ideologica. C’è chi sostiene il diritto a usufruire della gravidanza surrogata e chi la ritiene una forma di prostituzione i cui committenti sono spinti da egoismo o delirio di onnipotenza. C’è chi ipotizza i guasti che un cambio di genere potrebbe portare se, per esempio, il “trans” chiedesse di essere trasferito (com’è successo in America) da un carcere maschile a uno femminile, o viceversa. Chi, ancora, come alcune femministe storiche, non accetta che la marginalizzazione delle donne sia equiparata a quella di un transgender o di una coppia omosessuale. Chi vuole la castrazione certificata. Chi brucerebbe in forno un eventuale figlio gay. Chi, in sintesi, non vuole cambiare le cose perché a lui, a lei, a loro le cose van bene così. Insomma il dibattito sulla legge finisce per essere una cartina al tornasole che fa emergere soprattutto l’esigenza narcisistica di aver sempre ragione, e che siano gli altri ad avere torto. Abbiamo bisogno dei migranti. È ora di uscire dall’emergenza di Mauro Calderoni Il Domani, 1 giugno 2021 Saluzzo, 17mila abitanti, provincia di Cuneo, profondo nord ovest al confine con la Francia, uno dei principali distretti frutticoli del paese che si estende per migliaia di ettari ai piedi del Monviso. È un comune che vive quotidianamente, da anni, al centro delle molteplici forze che si sprigionano laddove vi sono migrazioni, per motivi economici, di massa. Nel Saluzzese, ogni anno da maggio a novembre, operano 12mila braccianti, di cui oltre un terzo di origine sub sahariana. Il resto degli stagionali agricoli sono est-europei e italiani, che non sono tornati nei campi in massa, come in molti sostenevano un anno fa. Alcuni dati ufficiali, ricavati dai centri per l’impiego, per provare a spiegare il contesto: nel 2018 sono stati registrati nel settore primario della nostra zona 12.063 contratti, di cui 3.711 di italiani, 3.655 di stranieri extra-Ue, 4.697 di subsahariani. Nel 2019 siamo passati a 18.496 contratti (3.809 italiani, 7.890 extra Ue, 6.797 africani). Nel 2020, anno della pandemia, 18.128 contratti (5.102 italiani, 5.882 extra Ue, 7.144 africani). Il fabbisogno di manodopera cresce e la percentuale di migranti africani è sempre più decisiva. La proposta - Per quanto ancora gli italiani potranno sopportare la bagarre politico-mediatica monopolizzata da sempre dallo scontro tra “buonisti” e “rigoristi”? Una gazzarra indegna che affronta in modo parziale e ideologico il tema delle migrazioni internazionali, senza collegarlo ad una attenta analisi demografica delle nostre comunità e a una seria prospettiva di sviluppo. In un paese che ogni anno ha bisogno di 370mila lavoratori stranieri per il solo comparto agricolo (la fonte è Coldiretti) ha ancora senso una legge che regola il settore come la Bossi-Fini, vecchia di oltre 20 anni? Si potrebbe, ad esempio, aggiornare il sistema di programmazione delle quote di ingresso dei lavoratori stagionali, a seguito di una definizione puntuale dei fabbisogni occupazionali per aree geografiche determinate e per specifici settori economici. Occorre far emergere i casi di marginalità di coloro che versano in condizioni di irregolarità amministrativa (richiedenti asilo diniegati o in assenza di rinnovo del titolo di soggiorno), nonostante siano presenti e attivi nel nostro paese da anni, poiché ciò comporta precarietà strutturale e potenziale ricattabilità. Non sarebbe forse più efficace introdurre un permesso di soggiorno per lavoro stagionale che regolarizzasse, almeno temporaneamente, la situazione di tanti migranti irregolari? Oltre un quarto del made in Italy a tavola è ottenuto grazie a mani migranti. La presenza nei campi italiani di occupati stranieri è un fenomeno strutturale che copre il 27 per cento della manodopera a livello nazionale. In molti distretti agricoli i lavoratori migranti sono una componente ben integrata nel tessuto economico e sociale. Usciamo dalla logica dell’emergenza che sperpera milioni di euro in progetti inefficaci. Questo governo investa la sua autorevolezza internazionale in una proposta concreta e coordinata tra politiche migratorie e fabbisogni lavorativi. Migranti. Sbarchi, nel 2021 finora in 30mila dalla Libia di Marco Ludovico Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2021 Nella stima degli addetti ai lavori del Governo, arrivi triplicati rispetto al 2020. Dalla Libia in 30mila, da tutte le coste africane in totale sbarchi in Italia a fine anno paria quasi 70mila migranti. La stima circolatagli addetti ai lavori del governo. A ieri, dati del cruscotto statistico giornaliero del ministero dell’Interno, eravamo a 14.412. Il dato in assoluto non dice molto, ma siamo quasi al triplo degli arrivi 2020. Ieri a Roccella Jonica sono giunti in porto 232 stranieri. “Altre centinaia di sbarchi di clandestini che si continuano a registrare in queste ore: sollecitiamo il ministero dell’Interno a intervenire” sottolinea il leader della Lega Matteo Salvini. Il punto non è il bilancio attuale ma la tendenza in atto. Un crescendo costante e inarrestabile. I 5.399 sbarchi di maggio sono un flusso enorme rispetto ai 1.654 del corrispondente mese dell’anno scorso. In “condizioni meteo favorevoli”, come dicono in gergo, i viaggi della disperazione nel Mediterraneo si moltiplicheranno. Non d sono dubbi. I numeri, dunque, restano privi di equivoci o false interpretazioni. La stima degli arrivi complessivi a fine anno vede 30mila migranti dalla Libia, 12mila dalla Tunisia, 2mila dall’Algeria e 20mila da tutto l’Est Mediterraneo. Dalla Libia, finora, sono arrivati circa 9mila immigrati, 2.500 trasportati con imbarcazioni delle Ong (organizzazioni non governative). Gli stranieri partiti dalla Tunisia perle nostre coste sono 3mila. I tunisini approdati sul nostro territorio sono quasi 2mila, superati però dai bengalesi, in testa alla classifica delle nazionalità di sbarco, pari a 2.500. Sui traffici e i soccorsi in mare lavorano a tutto campo il ministero dell’Interno, la Guardia Costiera e la Guardia di Finanza. I dati fanno risaltare il valore strategico dell’incontro tra il presidente del Consiglio, Mario Draghi, e il primo ministro del governo di unità nazionale libico Abdul Hamid Dbeibah. “Il supporto dell’Italia è molto importante” ha detto ieri il premierlibico.1125 maggio l’Italia ha consegnato al governo di Tripoli una motovedetta da 25 metri rimessa a nuovo nei cantieri tunisini di Biserta e poi inviata alle autorità della Gacs (General administration for coast security) libica. Resta il tema generale, molto delicato vistala trattativa incorso, della ripartizione degli sbarchi. Ancora più cruciale vista la probabile ampia massa di nuovi arrivi. Un confronto dove gli snodi dell’intesa passano innanzitutto dall’accordo coni francesi e i tedeschi. Ieri il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha incontrato alViminale il collega libico, Khaled al-Taj ani Mazen. Il Viminale in un comunicato evidenzia nell’incontro “la necessità di assicurare il pieno rispetto dei diritti umani dei migranti” così come “in sede Ue la lotta alle organizzazioni criminali di trafficanti di migranti” e la “cooperazione tra i due ministeri dell’Interno nel campo delle politiche di sicurezza e della lotta al terrorismo”. Sullo sfondo resta lo scenario africano, teatro delle partenze dalle nazioni più povere. Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, è stato alcuni giorni fa in Mali e in Niger insieme al capo di Stato maggiore della Difesa, Enzo Vecchiarelli, e il comandante del Coi (comando operativo vertice interforze) Luciano Portolano. Ma in Mali ora il governo è stato abbattuto da un colpo di stato. Secondo fonti qualificate, i gruppi salafiti e jihadisti operanti nell’area di Mali, Niger e Burkina Faso hanno tuttora una forte capacità operativa. I gruppi Jnim-Jama’a Nustrat al Islamwa al Muslimeen, Isgs- Islamic State in Greater Sahara e Al-Ansar al Islam, operano insieme nel Sahel con l’intesa di cacciare la presenza occidentale. Ben radicati e integrati, sottolineano le analisi, tra le popolazioni locali sfruttate e sollecitate facendo leva sulla loro fragilità economica. Per tradizione coloniale storica la Francia resta protagonista sul terreno. Il ministro Guerini intende rafforzare il nostro contingente militare a Takuba nello stato nigerino. In funzione di addestramento delle forze locali antiterrorismo e in contrasto ai traffici di migranti. Ma bisognerà fare i conti, senza dubbi, con la presenza francese. Gran Bretagna. Dopo la Brexit italiani fuorilegge? di Luigi Ippolito Corriere della Sera, 1 giugno 2021 C’è un mese per ottenere lo status per gli stranieri residenti. Il 1° luglio scade il termine per richiedere il “settled status”: chi non lo ottiene perderà il diritto all’assistenza sanitaria, al lavoro, alla casa, e rischia l’espulsione. “Molti non lo sanno, decine di migliaia a rischio”. È una bomba a tempo che rischia di mandare a gambe all’aria l’intera esistenza di decine di migliaia di cittadini italiani che vivono in Gran Bretagna. Fra un mese, il 30 giugno, scade il termine per richiedere il “settled status”, lo status da “insediato” che dopo la Brexit è obbligatorio per continuare a risiedere legalmente nel Regno Unito: per chi dovesse mancare all’appello, il 1° luglio scatterebbe una tagliola che comporta la perdita del diritto all’assistenza sanitaria, al lavoro, alla casa. E in caso estremo, si può arrivare all’espulsione, anche se magari si vive Oltremanica da venti o trent’anni. È innanzitutto un problema di numeri, che riguarda tutti i cittadini europei. Al momento della Brexit si riteneva che in Gran Bretagna vivessero 3 milioni di persone provenienti dall’Unione: ma dagli ultimi dati pubblicati dal ministero dell’Interno britannico si scopre che sono già ben 5 milioni quelli che hanno fatto richiesta del “settled status”. Dunque la presenza degli europei era enormemente sottostimata. La comunità - Prima della Brexit la valutazione per gli italiani era di una comunità forte di 700 mila persone, di cui solo la metà registrate presso il nostro consolato: ma ad oggi hanno fatto richiesta del “settled status” solo 500 mila nostri connazionali. I diplomatici della nostra ambasciata spiegano che in realtà, di quei 700 mila, tanti avevano anche la cittadinanza britannica (e dunque non necessitano del “settled status”), mentre molti altri sono tornati in Italia a causa della pandemia. Ma sarebbe curioso scoprire che mentre la presenza degli europei in generale era del tutto sottovalutata, proprio quella degli italiani era esagerata. “Col numero reale dei cittadini europei in Gran Bretagna sconosciuto - spiegano da “3million”, l’organizzazione che rappresenta gli immigrati dalla Ue - il governo non saprà chi ha mancato la scadenza del 30 giugno. La campagna informativa ufficiale ha una portata limitata e molti cittadini europei non sono a conoscenza dei cambiamenti nella loro situazione legale”. Dimitri Scarlato, rappresentante italiano di “3million”, stima che il 5% per cento degli italiani possa mancare la scadenza: una percentuale bassa, ma che si traduce in decine di migliaia di persone. “Molti non sono a conoscenza della normativa - spiega Scarlato - o non hanno i documenti in regola. Poi ci sono tanti anziani, che magari sono qui da una vita, che pensano di essere già a posto e di non dover fare nulla. E invece non è così”. In regola - Le conseguenze rischiano di essere pesanti. Dal 1° luglio i datori di lavoro sono obbligati a controllare che il proprio personale sia in regola: altrimenti sarebbero accusati di impiegare dei “clandestini”. Anche i padroni di casa, prima di affittare un appartamento, devono assicurarsi che gli inquilini abbiano il diritto di vivere in Gran Bretagna. E in realtà i problemi sono già cominciati: nella confusione legale, piccole aziende o proprietari, non sapendo bene come regolarsi, hanno iniziato a rifiutare gli europei. E le difficoltà sono esacerbate dal fatto che il “settled status” non consiste in un documento fisico, ma è solo digitale: e quindi a volte può essere complicato dimostrarlo. È per questo che l’organizzazione dei “3million” ha chiesto di estendere la scadenza del 30 giugno, o quanto meno di minimizzarne l’impatto. E la richiesta di una proroga è stata rilanciata nei giorni scorsi anche dal governo autonomo scozzese: “I cittadini europei che mancano la deadline - ha detto Jenny Gilruth, ministra per l’Europa nel governo di Edimburgo - non potranno lavorare, studiare, ricevere assistenza, guidare una macchina o aprire un conto in banca: la loro vita andrà sottosopra. Sappiamo che a migliaia devono ancora presentare la domanda: chiedo al governo britannico di estendere la scadenza”. Flessibilità - Ma è una posizione che al momento non sembra essere fatta propria dal governo italiano: quella della proroga “è una richiesta fuori misura”, dice il sottosegretario agli Esteri Benedetto della Vedova, che nei giorni scorsi è stato a Londra per incontrare, tra gli altri, il ministro britannico competente per il Settlement Scheme. “Abbiamo posto il tema di cosa accadrà dopo il 30 giugno - spiega Della Vedova - e auspichiamo che i britannici gestiscano la situazione con pragmatismo e flessibilità. Quella scadenza non va considerata definitiva in tutti i casi”. Il governo italiano non esclude che ci si possa coordinare con gli altri Paesi europei per agire di concerto. Ma augurarsi flessibilità da parte dei britannici può apparire rischioso, se si guarda a come hanno cominciato ad applicare il nuovo regime di immigrazione: chi arriva adesso dall’Europa senza visto viene fermato, “impacchettato” e rispedito indietro senza tanti complimenti. Dal 1° luglio partirà la caccia all’”italiano fuorilegge”? Libia. L’anarchia delle deportazioni di migranti nel deserto di Sara Creta Il Domani, 1 giugno 2021 La delega ai libici per il controllo delle frontiere europee ha riportato forzatamente a Tripoli oltre 10mila persone dall’inizio dell’anno. Sono circa una decina i centri ufficiali di detenzione nel paese, e oltre 5mila le persone arbitrariamente detenute, tra cui centinaia di bambini. Impossibile riformare il sistema di detenzione. I rapporti europei parlano ancora di stupri, estorsioni e lavoro forzato. E negli ultimi mesi sono stati aperti nuovi centri nel deserto libico, lontani dalla capitale e delle visite ufficiali delle organizzazioni internazionali. Stretta del Governo di unità nazionale libico sulle organizzazioni internazionali che operano nel paese. Bloccati i voli di evacuazione di rifugiati fuori dal paese. Centinaia di eritrei, etiopi e somali trattenuti nel centro di detenzione di Kufra. Rischiano l’espulsione nel deserto. Il pavimento del centro di detenzione di Tarik Al-Sika è ricoperto di materassi, uno spiraglio di luce entra nel grande capannone principale dove sono rinchiuse oltre 400 persone, così strette da non riuscire nemmeno a sdraiarsi. L’aria è irrespirabile, impossibile camminare senza calpestare i corpi. Centinaia sono condannati alle malattie e alla fame, rinchiusi da mesi. Un gruppo di subsahariani è arrivato da poche ore, intercettato dalla guardia costiera libica al largo. Sui vestiti strappati e intrisi di salsedine, i resti del viaggio verso l’Europa. Interrotto. A più riprese. Respinti all’inferno - Nel centro di Tarik Al-Sika vige l’arbitrio. “Ci fanno uscire se riusciamo a pagare il riscatto”, sussurra Ibrahim, un ragazzo nigeriano imprigionato da oltre 3 mesi. Una donna di origine Etiope chiede di poter tornare a casa. Lo sguardo indifferente, nel vuoto. Continua a ripetere “I am sick, help me, help me”. Sono malata, aiutami. Per uscire, le guardie del centro chiedono 700 dollari, ma il prezzo varia a seconda delle nazionalità. Le pratiche di estorsione nei centri di detenzione libici sono note anche ai funzionari della delegazione dell’Unione europea a Tunisi. “I riscatti vengono pagati a un libico attraverso uno schema circolare: arresto, riscatto, pagamento, rilascio”, si legge nel verbale interno di una riunione dello scorso maggio. La delega ai libici per il controllo delle frontiere europee ha riportato forzatamente a Tripoli oltre 10mila persone dall’inizio dell’anno. Una partita truccata da accordi e protocolli operativi stipulati dall’Italia con la Libia. Formazione, finanziamenti e attrezzature alla Guardia costiera libica per intercettare richiedenti asilo e migranti che tentano di lasciare il paese via mare. E in particolare, alimentare il sistema di estorsione e traffico. Frontex: “Salviamo vite”, ma i nuovi video mostrano le violenze libiche - “L’Europa ha preferito trasferire il problema sulle nostre spalle anziché farsene carico”, accusa Nabil Abdallah Elsaro, 28 anni, una delle guardie del centro di Tarik Al-Sika di Tripoli. Il centro, utilizzato come “modello” per le visite ufficiali di giornalisti e delle delegazioni europee, è controllato dalla milizia di al-Khoja sotto il comando dal comandante Naser Hazam: i pasti, le distribuzioni di kit-igienici delle organizzazioni umanitarie, un container per le visite mediche finanziato dalla cooperazione italiana. Tutto come da copione. E a qualche metro di distanza, la base della milizia di Mohamed al-Khoja, vice capo del Dcim, l’agenzia governativa responsabile dei centri di detenzione. Al-Khoja è la dimostrazione delle logiche libiche nella distribuzione del potere locale. Rappresenta come le politiche inefficienti della Libia, siano troppo abituate a legittimare attraverso l’etichetta del controllo della migrazione. Negli ultimi anni, il vice del Dcim, ha guadagnato milioni di euro in contratti per cibo e aiuti ai migranti, ma anche legittimità ed inviti a Roma per partecipare a riunioni ufficiali con le Nazioni Unite e il governo italiano sulla migrazione. La riforma del sistema di detenzione - In Libia al momento ci sono una decina di centri di detenzione ufficiali dove - secondo alcune stime - sarebbero rinchiuse arbitrariamente circa cinquemila persone, tra cui centinaia di bambini. L’incapacità - e continua riluttanza - di migliorare le condizioni disastrose nei centri di detenzione ha da sempre creato un problema di immagine negli sforzi europei per contenere la migrazione. Nonostante le visite ufficiali e i tentativi di riabilitare la reputazione dell’agenzia governativa responsabile dei centri di detenzione - cercando di renderla un partner più attraente per i donatori internazionali, in particolare l’UE - i gruppi di milizie che controllano i centri e le aree circostanti continuano ad opporre resistenza. Mondo “Prove concrete di respingimenti illegali” nei documenti contro Frontex - I cartelli delle milizie di Tripoli lottano per mantenere il controllo delle risorse statali, i gruppi rivoluzionari continuano a chiedere risarcimenti e sanzioni per i crimini di guerra commessi dal Haftar. Il Consiglio presidenziale libico - che dovrebbe portare il paese ad elezioni il prossimo 24 dicembre - ha ancora sede all’Hotel Corinthia a Tripoli. Le agenzie delle Nazioni Unite presenti nel paese incapaci di imporre il loro mandato. E i migranti: restano l’arma di ricatto tra lotte di potere locale, ritorsioni internazionali e nuovi equilibri di potere. In Libia, - per ora - il conflitto si è placato, ma i gruppi armati continuano a plasmare la politica. Lo scorso 28 febbraio, un tentativo di fuga dal centro di Abu Salim è costato la vita ad un minore sudanese, morto con un colpo alla testa. Il comandante Abdel Ghani al-Kikli, a capo dell’Autorità di sostegno alla stabilità di Tripoli e anche uno dei combattenti tripolini più noti, è alla testa della milizia di Abu Salim che controlla il centro di detenzione. Il Dcim ha promesso che avrebbe aperto un’indagine per punire i responsabili. Poche settimane più tardi, l’8 aprile, un’altra sparatoria; questa volta all’interno del centro di detenzione Al-Mabani di Tripoli inaugurato a fine anno. Il bilancio: un morto e due feriti, di cui un minore. Il Centro di Al-Mabani, nella zona di Ghut Shaal, a ovest di Tripoli è ufficialmente sotto il controllo del Dcim, ma a pochi metri c’è la sede l’Agenzia di Pubblica Sicurezza, gestita da una milizia affiliata al governo. L’area è quella della ex-fabbrica di tabacco, conosciuta a Tripoli come un luogo losco, dove i libici stessi vengono fatti sparire. A gestire il centro - nella pratica - il colonnello NourEddine al-Gritli, descritto come una persona all’avanguardia da chi lo conosce personalmente, un ufficiale legittimo, ma necessario per allontanare l’attenzione indesiderata. Il capo del Dcim, il colonnello Mabrouk Abd al-Hafiz, ha provato a ristrutturare la gerarchia della sua agenzia, almeno sulla carta, e promosso quella che lui chiama una rivoluzione all’interno del DCIM. “Il problema non sono solo i miliziani o gli individui che approfittano della situazione, ma la lobby che è ancorata alle istituzioni statali. Questo include persone nella mia stessa agenzia”, ha raccontato durante un’intervista a Tripoli lo scorso dicembre. Negli ultimi mesi, il DCIM ha sviluppato un piano per la chiusura di alcuni noti centri di detenzione tra cui Al-Khoms, Zintan e Zawya. L’ultimo è da sempre conosciuto come il centro di Osama Milad Rahuma, il cugino del guardacoste libico più noto in Italia, Abd al Rahman Milad detto al-Bija. Negli anni, individui delle due famiglie più influenti a Zawiya, il clan dei Buzriba e dei Koshlaf hanno lavorato a braccetto nell’amministrazione del centro di detenzione Al-Nasr di Zawya e nella gestione delle partenze. Dalla costa al deserto, oggi nessuna autorità libica ha il pieno controllo dei suoi uomini. Il colonnello Mabrouk Abd al-Hafiz lo sa bene; alle spalle ha una carriera nella polizia libica. “Stiamo aprendo centri in aree fuori dal controllo delle milizie o fuori città dove sono attivi trafficanti di esseri umani”, ha raccontato dal suo ufficio nella periferia di Tripoli. Ma come sempre la realtà è più complessa. Tra le scelte di al-Mabrouk, la creazione di un’unità di pattugliamento nel deserto per fermare i migranti che transitano sulle montagne occidentali della Libia, e l’apertura di centri ancora più lontani dalla costa. Il piano prevede l’utilizzo di centri isolati nel deserto - a Gharyan e Batn al-Jabal, e la ristrutturazione di un vecchio centro a Tuwaysha. I pattugliamenti nel deserto fino alle città di Derji e Ghadames sono iniziati ufficialmente il 25 ottobre, ma i mezzi sono stati consegnati dall’Italia il 9 luglio scorso, conferma una fonte del Ministero degli interni libico. Trenta Toyota Land Cruiser, modello GRJ76 e GRJ79 forniti dall’impresa italiana Tekne e costati all’Europa quasi 2 Milioni di Euro tramite il Fondo Fiduciario per l’Africa, nell’ambito del quale l’Italia accresce il proprio ruolo. La logica di controllo prevede sostegno per intercettare i richiedenti asilo: sorvegliare i confini marittimi e terrestri, fornire motovedette, creare il centro di coordinamento marittimo di Tripoli, e progettare la famosa polizia del deserto. Un rapporto commissionato dalle Nazioni Unite all’istituto olandese di relazioni internazionali Clingendael ha evidenziato come la maggior parte dei membri dell’unità di pattugliamento nel deserto provenga da gruppi armati di Zintan. Il documento segnala che membri delle pattuglie sono in coordinamento con le reti locali di trafficanti per garantire un flusso costante di arresti e detenzioni. Le Nazioni Unite hanno inoltre espresso preoccupazioni che questi pattugliamenti possano aumentare le deportazioni forzate nel deserto. “I migranti intercettati nel deserto vengono portati in un centro di detenzione a Dirj”, si legge in un documento interno redatto dalla delegazione europea a Tunisi. Secondo quanto emerge dal documento ottenuto da Domani “le condizioni a Dirj sono squallide, non ci sono coperte, materassi, acqua potabile, cibo. I migranti sono costretti a pagare il riscatto per essere liberati”. Le condizioni sono note e non hanno l’aria di scioccare le delegazioni europee in Tunisia. Nel centro di Gharyan, riaperto da qualche mese con il piano di riforma del Dcim, i migranti sono raddoppiati nel giro di poche settimane. “Due sudanesi sono rimasti feriti durante un tentativo di fuga lo scorso primo aprile. Le guardie ora si concentrano sui nuovi detenuti arrivati, in particolare su quelli più redditizi come gli eritrei, gli etiopi e i bengalesi”, si legge nel documento interno. E nelle ultime settimane sono aumentate le restrizioni per le agenzie delle nazioni unite che lavorano nel paese. Anche sui corridoi umanitari dalla Libia verso altri paesi, altro elemento che il governo e l’Europa promette di potenziare, ci sono tensioni. Una lettera di aprile inviata dal Dcim alle organizzazioni internazionali in Libia impone nuove procedure per le visite ai centri di detenzione. “Dall’inizio dell’anno sono stati evacuati solo 201 richiedenti asilo e rifugiati. Sono state bloccate le evacuazioni di rifugiati dalla Libia verso altri Paesi. Ora il rischio è che più persone si affidino ai trafficanti”, ha detto un funzionario delle Nazioni unite. Ci sarebbero 3 voli per il Rwanda e il Niger, oltre a un volo verso l’Italia: 600 persone pronte per essere evacuate e 300 con i documenti di viaggio in attesa per andare in altri paesi. Non solo arresti arbitrari, abusi fisici, detenzioni prolungate e arbitrarie in condizioni precarie. Le deportazioni forzate nel deserto continuano. Ci sono 191 eritrei, etiopi e somali trattenuti nel centro di detenzione di Kufra. Rischiano l’espulsione nel deserto. L’anno scorso, oltre 5.000 persone sono state espulse dal deserto. Abbandonati in una remota città alla frontiera con il Ciad o riportati in Sudan. Il direttore del centro, Mohamed Ali al-Fadil, ha ribadito, “deportiamo più persone e più velocemente che mai”. Medio Oriente. Hamas pronto a negoziare con Israele per consegnare i prigionieri a Gaza di Sharon Nizza La Repubblica, 1 giugno 2021 La dichiarazione di Yahya Sinwar arriva dopo l’incontro tra il capo dell’intelligence egiziana con il premier Netanyahu e la leadership dell’organizzazione palestinese. In precedenza il vice capo aveva affermato che l’accordo sui detenuti non dovrebbe essere collegato alle questioni palestinesi. La mediazione egiziana per consolidare la tregua tra Israele e Hamas dopo 11 giorni di conflitto potrebbe portare a una svolta anche rispetto alla trattativa in corso da anni tra le parti su uno scambio di prigionieri. Israele pone come condizione che, nei negoziati in corso, vengano consegnati i corpi dei due soldati Oron Shaul e Hadar Goldin - uccisi a Gaza durante l’Operazione Margine Protettivo del 2014 - nonché rilasciati Avera Mengistu e Hisham al-Sayed, due civili mentalmente instabili che hanno attraversato il confine con Gaza e sono detenuti in ostaggio da anni. Hamas finora si è rifiutato di legare la questione alle trattative per la ricostruzione di Gaza in seguito all’ultimo conflitto, sostenendo che faccia parte di un dossier separato che deve includere il rilascio di prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Negli anni sono fallite numerose mediazioni in merito. Negli ultimi giorni, che hanno visto un picco di intensità nell’interventismo del Cairo per cementare il cessate il fuoco, la questione sembra essere tornata di primo piano. Ieri il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, ha affermato che Hamas è pronto a condurre negoziati immediati e indiretti con Israele in merito a un accordo per lo scambio di prigionieri. “Ricordatevi il numero 1111, capirete più avanti cosa significa”, ha detto Sinwar, in un chiaro riferimento al “Shalit deal”, con il quale nel 2011 Israele ha rilasciato 1.027 prigionieri palestinesi, tra cui centinaia di condannati per atti terroristici, in cambio del soldato Gilad Shalit, rapito nel 2006 da una forza di commando di Hamas infiltratasi in Israele attraverso un tunnel sotterraneo. Secondo fonti riportate dal Canale israeliano Kan 11, Israele avrebbe consegnato a Hamas un mese e mezzo fa - quindi prima dell’ultimo conflitto - un elenco con nomi di prigionieri che sarebbe disposto a rilasciare come parte di un nuovo accordo, senza ricevere riscontro. L’elenco comprendeva “più di qualche dozzina e meno di centinaia di prigionieri”. Non è noto se includesse prigionieri “con sangue sulle mani”. Sinwar sostiene che i contatti si sono interrotti a causa dello stallo politico in cui si trova Israele da mesi. Domenica il ministro degli Esteri Gabi Ashkenazi ha affrontato il dossier prigionieri durante l’incontro al Cairo con il suo omologo Sameh Shoukry. Si è trattato della prima visita alla luce del sole di un ministro degli esteri israeliano dal 2008: un chiaro segnale - diretto in primis all’amministrazione Biden - della volontà del presidente al-Sisi di porsi come figura chiave nello scacchiere mediorientale. Zambia. Ergastolani con “buona condotta” liberi per 14 giorni: approvata la legge agenziadire.com, 1 giugno 2021 Il permesso per visitare le famiglie varrà solo per chi avrà meritato una segnalazione da parte dei responsabili dei servizi penitenziari. Ma sui social scoppia il dibattito. Due settimane di libertà, per visitare le famiglie, per chi sconta l’ergastolo: le prevede una legge promulgata dal presidente dello Zambia, Edgar Lungu, a beneficio di detenuti che si siano distinti per “buona condotta”. Nel testo, del quale informano quotidiani e testate online di Lusaka, si precisa che per godere del permesso i prigionieri dovranno aver meritato una segnalazione da parte dei responsabili dei servizi penitenziari. L’ultima parola spetterà comunque al capo dello Stato. La legge, promulgata in settimana, sta suscitando dibattito. Alcuni utenti sui social network l’hanno criticata denunciando il rischio di evasioni o “vacanze” dei detenuti a spese dei contribuenti. Altri, ad esempio dal profilo di Maggie Chi Silwizya, hanno sottolineato la necessità di favorire il “reinserimento sociale” dei detenuti e di non pensare al carcere come a un sistema “punitivo”. Birmania. I gironi infernali di Insein, la prigione dove l’esercito tortura i dissidenti di Raimondo Bultrini La Repubblica, 1 giugno 2021 Sono migliaia i militanti passati nelle celle del regime dei militari dopo le grandi proteste dell’88 e del 2007. E ora la prigione, costruita dagli inglesi a fine Ottocento, si riempie nuovamente di oppositori della giunta golpista. La più infame prigione birmana, tristemente celebre nel mondo col nome del quartiere Insein dove sorge fuori Rangoon, fu costruita dagli inglesi nel 1887. A quel tempo la vecchia Central Gaol, anche questa di loro costruzione, era stracolma e sebbene non ci fossero indipendentisti o dissidenti come i giovani della disobbedienza civile di oggi, l’alto numero di truffatori, assassini e banditi di strada richiedeva sempre nuovi spazi. I detenuti di Insein vivevano come ora ammassati in cameroni di cemento che formavano tante fette di un complesso circolare, una sorta di grande pizza architettonica - o Panopticon - ispirata al filosofo e teorico sociale britannico del XVIII secolo Jeremy Bentham, secondo il quale si poteva così controllare ogni movimento con una sola guardia di vedetta e truppe pronte all’esterno della “pizza”. Situata al termine di una strada ribattezzata col nome dell’eroe e martire della patria Aung San, padre di Suu Kyi che oggi è agli arresti in luogo sconosciuto, Insein è ancora la stessa prigione con le stesse strutture murarie e gli stessi gironi infernali divisi a spicchi. Si dice che qualche ripulitura e ritocco è avvenuto dopo l’avvento 6 anni fa del governo civile di Aung San Suu Kyi, che autorizzò una tv in ogni cella da 20, 30 ospiti e qualche ora d’aria in più. Anche sotto la sua fugace gestione durata 5 anni c’erano però detenuti politici soprattutto a Insein: 36 arrestati a maggio 2018 e 57 in attesa di giudizio, come rivelò quell’anno il leader dell’Associazione di assistenza ai prigionieri politici U Bo Kyi al Frontier Post. Ma era un numero risibile rispetto a quello delle migliaia e migliaia di militanti passati nelle celle del regime dei generali specialmente dopo le grandi proteste dell’88 e del 2007, anche quelle domate nel sangue. Lo stesso Bo Kyi ha detto al New York Times che “ci sono più dissidenti ora rispetto a decenni fa”, ovvero nei tempi più bui del regime. Tra questi risultano anche tre stranieri, due giornalisti americani tra i quali il direttore del Frontier Post e un consigliere economico australiano di Suu Kyi. Da qui la riaccesa attenzione del mondo sul luogo di detenzione e tortura per eccellenza dell’esercito, che ha cancellato molte vestigia del passato coloniale, ma non Insein e certe severe leggi imperiali inglesi, prese a modello come certe estreme discipline militari apprese dagli ex alleati giapponesi e ancora oggi insegnate nelle caserme. Suu Kyi non è mai stata a lungo a Insein, la cui strada è intitolata proprio a suo padre “Bogyoke” Aung San, se non di passaggio e sempre in una cella speciale più confortevole. Gran parte del tempo lo ha passato agli arresti domiciliari presso la sua casa di famiglia sul lago Inya dove riceveva la Bbc e - a differenza di allora - le è precluso ogni contatto col mondo esterno nella località segreta della nuova capitale Naypyidaw dov’è rinchiusa, forse vicino al quartier generale dell’esercito. Secondo i legali è tenuta all’oscuro di ciò che sta accadendo nel Paese. Non sa degli 800 morti in strada uccisi dai militari golpisti perché chiedevano la sua liberazione e la democrazia, né del gran numero di arrestati, tra i 5000 e i 10mila, o delle torture che molti di loro subiscono per aver partecipato al movimento di rivolta cominciato fin dai primi giorni di febbraio. Attorno alla metà di quel mese la giunta militare - che aveva appena preso il potere arrestando leader e parlamentari della lega per la democrazia - concesse un’amnistia a ben 23mila detenuti perlopiù “criminali comuni” poi utilizzati per azioni di intimidazione contro i disobbedienti. Anche le celle di Insein come quelle di altre 55 carceri del Paese improvvisamente si svuotarono e molti presagirono che sarebbero presto state riempite da giovani della cosiddetta Generazione Z, scesi coraggiosamente in piazza a rischio non solo dell’arresto ma anche della vita. Infatti così sta accadendo. Le perquisizioni casa per casa in cerca di ribelli continuano giorno e notte e le celle di Insein hanno ripreso ad affollarsi di nuovi ospiti, spesso ancora sanguinanti per le percosse o le ferite d’arma da fuoco subite in questi mesi di repressione violenta dell’esercito. Molti degli interrogatori avvengono ancora nell’apposito centro del carcere dove si utilizzano parecchi metodi di tortura senza curarsi troppo delle conseguenze. Il poeta Khet Thi è morto durante una di queste crudeli sessioni a Shwebo e il suo corpo è stato restituito alla famiglia con gli organi asportati per nascondere ogni evidenza. In attesa di dettagli sulle nuove storie di orrore che racconteranno tanti altri detenuti del Movimento di questi mesi, per capire ciò che sta avvenendo basta rivedere i rapporti, le denunce e i racconti degli ospiti di Insein negli anni ‘80, 90 e inizio 2000, come il celebre U Win Tin, ex giornalista, fondatore della Lnd e confidente “critico” di Suu Kyi, che ha passato in carcere ben 19 anni. “Mi svegliavano continuamente per interrogarmi e sia che rispondessi o meno mi picchiavano al volto, così ho perso tutti i miei denti”. Altri come l’ex monaco leader della Rivoluzione di Zafferano del 2007 sono usciti dal carcere con severi problemi mentali. Nella sede dell’associazione degli ex prigionieri c’è un modello di Insein che ha 7 grandi reparti. In uno di questi, il numero 5 venne imprigionato U Bo Kyi con 140 detenuti in 30 metri per 15, ma in genere ogni stanza aveva ed ha circa 15 o 20 prigionieri. “C’era pochissimo spazio per dormire - ricorda Bo - dovevamo tutti stare coi corpi dritti e talvolta dormire sempre sui fianchi. C’erano solo 5 o 6 materassini in tutta la stanza, e dormivamo tutti sul pavimento di cemento”. Senza parlare del cibo, “brodaglie con le ossa del pollo e riso della più infima qualità”. Oggi molte delle famiglie dei ribelli anti-dittatura fanno avanti e indietro con la lontana prigione per portare cibo ai parenti in cella senza la garanzia assoluta che gli sarà consegnato. Dei loro cari sanno poco o nulla, inghiottiti nell’inferno di Insein dopo averli visti portare via o aver saputo del loro arresto da altri testimoni. È la storia che si ripete, già raccontata con indignazione dalla stessa Suu Kyi nelle sue “Lettere dalla Birmania” parlando dei molti compagni di lotta tenuti anni in celle e spesso usciti morti. Ma nonostante il suo ruolo di capo de facto del governo non fece o potè fare ben poco quando ad esempio nel 2018 vennero arrestati e tenuti 16 mesi a Insein nel 2018 i giornalisti della Reuters U Kyaw Soe Oo e U Wa Lone. Erano gli autori di uno scoop da premio Pulitzer che rivelò almeno uno dei massacri di musulmani Rohingya compiuti dall’esercito nello Stato di Rakhine durante il governo del’Lnd. Il New York Times riporta la storia del poeta satirico U Paing Ye Thu mandato a Insein nel 2019 - con Suu Kyi ancora al potere - per aver preso in giro i generali e condannato a sei anni. Quando è uscito di prigione ha raccontato dell’incessante arrivo di nuovi detenuti anche di alto profilo, compresi funzionari governativi estromessi. Ha visto decine di manifestanti della disobbedienza civile in attesa di cure mediche ed è rimasto scioccato nel vedere “così tante persone con ferite da arma da fuoco arrestate e mandate direttamente in prigione”. Di tutte le storie dei prigionieri politici passati dalle infami celle di Insein poche sono rimaste nella memoria dei più anziani e trasmesse ai giovani disobbedienti come quella di Tin Maung Oo. Era uno dei leader degli studenti che nel ‘74 trafugarono il corpo dell’ex segretario delle Nazioni Unite U Thant per rendergli gli onori che il regime negava. I carcerieri offrirono di risparmiargli la vita se avesse accettato di abbandonare l’attivismo politico e ammettere l’errore delle proteste, ma rispose con le parole divenute celebri e riprese da molti militanti di oggi: “Puoi uccidere il mio corpo ma non puoi mai uccidere le mie convinzioni e ciò che ho rappresentato. Non mi inginocchierò mai davanti ai vostri stivali militari!”.