Quasi dimezzato il lavoro in carcere di Luca Cereda Vita, 19 giugno 2021 Nell’anno della pandemia i detenuti impiegati da aziende esterne all’amministrazione penitenziaria sono passati da circa 2mila a 1.200. Un crollo del 40% che avrà gravi ripercussioni sui tassi di recidiva. “In carcere non c’è solo l’articolo 27: certo, c’è quello che parla del compito rieducativo della pena in carcere, ma all’interno dei penitenziari vigono tutti gli articoli della Costituzione. Compreso il primo, per cui l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”, spiega Nicola Boscoletto, presidente e fondatore della cooperativa sociale Giotto che opera nel carcere di Padova. Ma il lavoro sembra non trovare terreno fertile dietro le sbarre, soprattutto al tempo del Covid. Questo nonostante il lavoro rappresenti uno dei pilastri della rieducazione dei condannati, e anche un investimento sulla sicurezza fuori dalle mura dei penitenziari. Infatti, stando ai numeri raccolti dall’inchiesta di Vita sul lavoro in carcere, la pandemia ha dimezzato i detenuti che lavorano dentro o fuori dagli istituti di pena. Carcere e lavoro: diamo i numeri - Nicola Boscoletto è uno che la materia del lavoro in carcere la conosce bene e ci invita a consultare la relazione al Parlamento sul lavoro in carcere presentata a metà 2020: al 31 dicembre 2019 su 60.769 detenuti presenti nelle carceri del Belpaese, lavoravano in 18.070, cioè il 29,7 per cento. Di questi quasi 2.500 erano sotto contratto con aziende e cooperative per lavorare dietro le sbarre o fuori, se in regime di semilibertà o in articolo 21 del codice penitenziari. Nonostante la pandemia, i dati riferiti all’anno 2020 e presenti nella relazione presentata qualche settimana fa indicano un aumento del numero di detenuti impiegati alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. E i numeri sono impressionanti, perché a fonte di un calo di quasi 8mila persone in carcere nell’anno dell’inizio della pandemia, sarebbero comunque 17mila i detenuti impegnati in attività lavorative nel 2020, pari a quasi il 32% dei presenti negli istituti di pena. Di questi solo 2mila però sono gli assunti con contratto regolare da imprese e cooperative sociali. Per questo tipo di detenuti ci sarebbe stato comunque un calo - di circa un quinto - anche stando ai numeri della relazione al Parlamento. Per comprendere meglio questi numeri c’è da aggiungere un ulteriore elemento: di quei 2mila detenuti, sono poco più di 800 quelli in semilibertà o in articolo 21 che quindi lavoravano fuori dai cancelli degli istituti di pena. Ma chi di loro ha davvero continuato a lavorare con la pandemia? Sulla base dell’incrocio tra le cifre fornite a Vita dal Dap (il dipartimento di amministrazione penitenziaria), con i dati del Ministero della Giustizia e le stime di Nicola Boscoletto, il numero reale di detenuti alle dipendenze di datori che non fossero l’amministrazione penitenziari tra il 2020 e il 2021 sono: 400 detenuti attivi lavorativamente durante la pandemia in carcere anziché quasi 700, mentre dei quasi 1.300 detenuti che lavoravano pre-pandemia regolarmente all’esterno del carcere, sono rimasti operativi tra gli 800 e i 900 detenuti. A fronte di questa situazione - a dispetto del rapporto presentato in Parlamento - si può parlare di quasi un dimezzamento dei detenuti-lavoratori durante la pandemia. I numeri reali dei detenuti che lavorano sono molto diversi - “C’è di più, c’è un “lato oscuro” che riguarda i numeri dei quei rapporti, e lo conosce bene chi vive il carcere e chi in carcere dà lavoro: quei 16-17mila detenuti segnalati come impegnati, non lavorano, svolgono attività alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria. Attività di addetti alle pulizie, alla lavanderia e alla cucina, cuochi e manutentori. Ma nessuna agenzia di pulizie e nessuna cucina assumerebbe questi detenuti che in cambio di qualche centinaia di euro all’anno svolgono queste mansioni, delle vere e proprie corvè delle carceri. In questo modo viene data loro, in cambio di qualche ora di servizio una “paghetta” per le sigarette e per tenere impegnati i detenuti, non per rieducare condannati e formare cittadini che usciti non dovranno tornare a delinquere per sopravvivere, ma cercarsi un lavoro”, spiega in Nicola Boscoletto. Quanto ha inciso la pandemia su questo sistema - La pandemia ha fatto tornare non solo il “mondo del lavoro” del carcere, ma il sistema-carcere per interno indietro di anni: queste persone sono state confinate in cella o con al massimo la libertà di girare nel “braccio” in cui sono detenute, senza le attività formative, educative, senza incontri con i parenti o con i volontari e senza lavoro. “Molte delle filiere lavorative delle cooperative o delle aziende in carcere si sono interrotte, e solo alcune sono riuscite a convertire la produzione in attività essenziali. Di conseguenza, essendo pochi anche all’esterno del carcere i lavori essenziali che i detenuti in regime di semilibertà o in articolo 21 hanno continuato a svolgere, molti di loro si sono trovati in cella tutto il giorno, quando erano abituati a lavorare 8 ore”. L’unica “nota lieta”, ammette con un sospiro Boscoletto, è che con l’avvento della pandemia, le persone in semilibertà o articolo 21 che continuavano a lavorare sono state messe in licenza prolungata sulla base dell’articolo 124 del 17 marzo 2020 - contenuto nel decreto Cura Italia - così che non entrassero in carcere la sera portando eventualmente il contagio. Alcuni di loro sono riusciti a vivere nella propria abitazione, altri hanno dovuto scegliere di state in una casa accoglienza o un alloggio concordato con il giudice di garanzia. Questa licenza è concessa, salvo proroghe che non sono in vista, fino al 30 giugno 2020, salvo che il magistrato di sorveglianza decida altrimenti. La geografia del lavoro in carcere ci dice qualcosa sul non-funzionamento del sistema - Per “tirare le somme” sul lavoro dei detenuti, si può parlare di solo un 4 per cento dei reclusi che in carcere fa un lavoro vero, con una formazione pregressa, un contratto e un vero e proprio stipendio. Se la percentuale è di per sé miserrima per un sistema penitenziario che affonda le radici nell’articolo 27, per cui la pena non è un modo per ‘stoccarè il reo, ma un percorso rieducativo, il dato ancora peggiore arriva dalla disposizione geografica di quel 4% di detenuti che lavorano: “Sono quasi tutti nelle carceri milanesi, a Padova, a Torino o a Roma, con pochissime altre eccezioni”, illustra il presidente e fondatore della cooperativa Giotto che lavora in carcere a Padova dal 1986. Questo racconta un sistema complessivo che non funziona e tiene il lavoro lontano dalla maggior parte dei detenuti. Al tempo del Covid-19 la situazione si è ulteriormente complicata: infatti non solo le carceri hanno interrotto le visite coi parenti e i volontari non sono più entrati, ma anche la maggior parte delle attività lavorative dei detenuti si sono fermate. “Far svolgere qualche mansione interna e utile al cercare è un modo per tenere calmi i detenuti, per dare uno scopo, perché con quei lavoretti si racimolano i soldi con cui comprarsi il cibo o le sigarette. Il lavoro, quello vero, è quello con la formazione e lo stipendio, quello che può migliorare le condizioni delle carceri, ma non sembra interessare alla politica”, spiega Boscoletto. La recidiva in Italia è altissima: quella reale, ancora di più - Sul tema del lavoro in carcere c’è un silenzio assordante. E per Nicola Boscoletto è chiaro il motivo: “Per la politica - sia di quella “centrale”, romana, che di quella che lavora specificatamente con gli istituti di pena - non è un argomento che paga. Così dal carcere le persone escono peggiori di come sono arrivate. Questo è un fallimento e non si può far finta di niente. Il carcere oggi è come un hotel al contrario: in albergo per far tornare il cliente lo tratti bene, in carcere per farli tornare, li tratti male. È questo che si fa nei nostri penitenziari”. Il carcere, intenso come sistema e per come funziona, è un costante ostacolo al suo stesso progetto di rieducazione dei condannati, lo si è visto anche nel modo - non solo alla prim’ora, ma soprattutto nei mesi successivi - in cui ha tenuto fuori i volontari. È a questo punto, e fatta questa ampia analisi, che occorre parlare della recidiva: “La recidiva nei detenuti che escono dalle carceri italiane sia del 70%, altissima - evidenzia Boscoletto - ma la recidiva reale è intorno al 90%. Questo perché se del 79% dei reati italiani non viene trovato il colpevole, quest’ultimo raramente è uno “nuovo”, più probabilmente è qualcuno che ha già commesso un reato, rilasciato dal carcere che non ha saputo rieducarlo. In definitiva dai penitenziari solo 1 su 10 esce rieducato. È come se solo 1 ponte su 10 restasse in piedi al passaggio delle auto, e nove crollassero. Una tragedia disumana. Solo che quella dei ponti fa più rumore di quella che si consuma in carcere”. E a risentirne è la sicurezza di tutti. Sia quando cadono i ponti, sia quando un ex detenuto delinque e rientra in carcere. Tutto questo pesa sulle casse del sistema-Paese: “Riducendo anche solo dell’1 per cento la recidiva, si risparmierebbero un mucchio di soldi dello Stato, dei cittadini, perché a ogni punto corrisponde un costo di circa 40 milioni di euro di spesa pubblica che sarebbe risparmiato, ma il Covid ha addirittura peggiorato una situazione desolante anche prima della pandemia”, specifica Boscoletto. La burocrazia rende la vita delle imprese e delle cooperative in carcere, impossibile - Il carcere Due Palazzi di Padova, dove lavora la cooperativa di Nicola Boscoletto, è una delle strutture più all’avanguardia per il lavoro. Qui i detenuti rispondono come call center delle Asl della zona, rispondono per le società di luce e gas, e per le Camere di Commercio. E ancora, i detenuti della cooperativa Giotto producono tacchi per l’alta moda e assemblano valigie per la nota azienda Roncato. In questo periodo di pandemia alcuni hanno riconvertito l’attività creando mascherine certificate. Pe non parlare della pasticceria Giotto: “Qui non facciamo assistenzialismo, ma portiamo avanti attività che sappiamo stare sul mercato”, spiega Boscoletto. “Se prima si fa formazione con un tirocinio pagato, poi le persone vengono assunte con il contratto, così si reinseriscono nella società, devono essere allenate per farlo. E quando al detenuto offri il bene, lui in qualche modo lo coglie”. Ma la vita degli imprenditori dietro le sbarre però è resa quasi impossibile da infiniti ostacoli di carattere burocratico. “Le imprese, proprio come i detenuti e gli stessi volontari penitenziari, devono fare una ‘domandina’ all’amministrazione penitenziaria per ogni cosa che fanno, e questo uccide il lavoro in carcere, perché cercano di adattare i tempi del carcere al mercato del lavoro, non viceversa”. I controlli sono necessari, ma è chiaro anche a chi imprenditore non è, che in questo contesto, impostare il lavoro, spostare una filiera o una linea produttiva in carcere è molto difficile e c’è di più: “Basti pensare che la giornata carceraria finisce alle 15.30, dopo quell’ora non si possono fare attività: un imprenditore che investe non può sottostare a questo tipo di logica”. Il mondo del lavoro, usciti dal carcere: quali prospettive? Intanto, i detenuti in semilibertà o in articolo 21 potranno restare fuori fino a luglio 2021. Ma chi esce dal carcere oggi? Il mondo del lavoro con la pandemia per i detenuti è e sarà ancora più problematico. “Tutti gli operatori in campo dovrebbero adoperarsi per programmare e cercare di leggere la situazione per aiutare il reinserimento dei detenuti, ma questo non è quello che sta accadendo”, conclude Boscoletto. Chi esce dal carcere vive una vera e propria “lotta tra poveri” e “nuovi poveri” per l’accesso al mondo del lavoro, con il rischio - concreto - che il carcere diventi sempre più una discarica sociale per chi “perde” quella sfida. È fondamentale quindi che ai detenuti sia data oggi anche la possibilità di formarsi all’utilizzo delle tecnologie, e che esse siano applicate al lavoro, non fini a se stesse, altrimenti diventano un passatempo o un modo per ammazzare il tempo dietro le sbarre: perché se escono “analfabeti tecnologici”, i detenuti hanno chiusa - a doppia mandata - ogni porta nel mondo del lavoro. Carceri, Sisto: “Servono più risorse per l’assistenza sociale dei detenuti” agenparl.eu, 19 giugno 2021 “Gli operatori dedicati all’assistenza ai detenuti sono in tutto 1600, a fronte di un’utenza di 15 mila persone: un numero palesemente insufficiente per un ruolo divenuto sempre più complesso”. Così il Sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto intervenendo al webinar “Giustizia e servizio sociale. Quale Italia dopo il Pnrr?”, promosso dal Consiglio Nazionale Ordine degli Assistenti Sociali. “La complessità di una realtà in costante evoluzione - ha proseguito - impone di intraprendere un percorso di formazione continua che consenta all’assistente sociale a contatto con i detenuti un aggiornamento costante. Ed è parimenti necessario individuare dei fondi, ove possibile all’interno del Pnrr, per il potenziamento del ruolo. Garantire piena assistenza sociale ai detenuti - ha concluso - è indispensabile per massimizzare il valore rieducativo della pena sul quale il governo sta investendo con primaria attenzione”. I dati relativi alle ordinanze di ingiusta detenzione? “Semplicemente” non ci sono di Valter Vecellio Italia Oggi, 19 giugno 2021 Il ministro Franco non può darli alla Commissione giustizia della Camera perché non ce li ha. Si ha un bel dire: “Male non fare, paura non avere”. Impossibile non esser preda di inquietudine quando si apprende che il ministro dell’economia Daniele Franco non può fornire alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati i dati relativi alle ordinanze di ingiusta detenzione degli ultimi anni. È un inviolabile segreto di Stato? La conoscenza di questa documentazione mette a repentaglio l’incolumità di qualcuno, pregiudica l’esito di importanti indagini? Magari. Niente di tutto ciò. La documentazione non è disponibile “semplicemente” perché, pur vivendo nel tempo dei computer e della telematica, raccoglierla in modo organico richiederebbe un titanico sforzo che manderebbe in tilt gli uffici preposti del ministero della Giustizia. Da ciò due ammissioni, fonti di ulteriore inquietudine: si tratta di una copiosa documentazione; e versa in desolante, imperante disorganizzazione: documenti solo in parte digitalizzati, per lo più sparsi in mille faldoni, cartellette, fascicoli. Comunica il ministro Franco ai parlamentari della Commissione: “Pur disponendo delle ordinanze integrali…le stesse non sono detenute in una base dati strutturata, bensì classificate all’Interno dei singoli fascicoli di pagamento, solo in parte digitalizzati”. Traduzione del burocratese: le carte ci sono; ma metterle in ordine, renderle accessibili, comporta un dispendio di energie e di risorse che non si ritiene di dover sostenere. E infatti: “Per poterle trasmettere a codesta Commissione occorre uno sforzo organizzativo e operativo che porterebbe a impegnare l’Ufficio competente per diverse settimane, in considerazione dell’elevato numero di ordinanze (circa 5.900)”. Comunque parte di un più vasto iceberg: pare che non poche procure non si diano pena di trasmettere i loro dati al ministero. Quello che si apprende, comunque basta per farci arrossire di vergogna: quei quasi seimila casi, si riferiscono al quinquennio 2015-2020: più di mille casi l’anno, tre errori/orrori al giorno, comprese le domeniche e le feste comandate. Nulla di nuovo sotto il sole, obietterà un “addetto ai lavori”. Vero, ma questa non è un’attenuante, è un’aggravante. Già trent’anni fa, nella prefazione a un mio volumetto che raccoglieva storie di sventurati incappati nelle maglie della giustizia (da qui, il titolo: “Storie di ordinaria ingiustizia”), Leonardo Sciascia con lucida amarezza annotava: “L’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia (e crisi è forse parola troppo leggera) deriva principalmente dal fatto che parte della magistratura non riesce introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio”. Poi, un possibile rimedio: il magistrato, superate le prove d’esame e vinto il concorso, trascorra qualche giorno fra i comuni detenuti, in carceri come il palermitano Ucciardone o il napoletano Poggioreale. “Sarebbe indelebile esperienza, da suscitare acuta riflessione e doloroso rovello ogni volta che si sta per firmare un mandato di cattura o per stilare una sentenza”. Suggerimento paradossale, ma non tanto. Nicola Graziano, magistrato del Tribunale di Napoli, si chiede: quanto ne sanno di carcere i magistrati? Quanto conoscono il mondo in cui finiscono i condannati e molto spesso persino gli indagati, i presunti innocenti, i cittadini in attesa di giudizio? Quanti sono andati oltre la saletta dei colloqui per vedere con i propri occhi come si vive dietro le sbarre, nei luoghi della pena che secondo la Costituzione dovrebbero servire soprattutto a responsabilizzare l’autore di un reato e sostenerlo nel percorso di reinserimento sociale? La risposta a queste domande è che “un tirocinio all’interno delle carceri dovrebbe far parte del percorso formativo di ciascun magistrato”. Graziano questa esperienza l’ha fatta: ha voluto trascorrere, d’intesa con i responsabili dell’allora carcere psichiatrico di Aversa qualche giorno da “detenuto”. Un tirocinio formativo all’interno degli istituti di pena, lo definisce: “Un’esperienza formativa molto utile che può sicuramente dare un valore importante. Soprattutto quando si è all’inizio della carriera, si arriva un po’ troppo giovani a funzioni che sono molto importanti. Il magistrato entra nella vita delle persone. Per questo un tirocinio formativo penitenziario sarebbe da riprendere e incentivare”. Per credere, sfogliare “Matricola zero zero uno”, il libro che da questa esperienza ha ricavato. Sempre pronti a invidiare l’erba che cresce nel giardino del vicino, si potrebbe prendere esempio dai “cugini” francesi: la loro “Ècole nationale de la magistrature” prevede stage penitenziari obbligatori per gli aspiranti magistrati: una settimana vissuta all’interno di una prigione assieme agli agenti della penitenziaria, e così osservare con i propri occhi la realtà dietro le sbarre. Vedi mai che quei mille errori/orrori giudiziari che si consumano ogni anno si riducano drasticamente? Cesare Battisti, lo sciopero della fame e quel carcere dove non dovrebbe stare di Giulia Merlo Il Domani, 19 giugno 2021 Battisti è in sciopero della fame e sta scontando la pena nel carcere di Rossano in cui sono detenuti solo jihadisti ed è in isolamento di fatto da 27 mesi, “dei quali gli ultimi otto senza mai espormi alla luce solare diretta”, ha scritto in una lettera. Cesare Battisti, ex leader dei Pac, dal 2 giugno è in sciopero della fame e ha interrotto le terapie mediche a cui è sottoposto: è dimagrito di 9 chili e le sue condizioni di salute, già non ottimali al momento dell’arresto, stanno peggiorando, hanno detto i suoi legali. Dopo l’estradizione del gennaio 2019, l’ex latitante era stato portato nel carcere di massima sicurezza in Sardegna per scontare i 6 mesi di isolamento previsti dalla sua condanna. Passati i 6 mesi, però, Battisti era stato mantenuto in isolamento e per questo aveva cominciato un altro sciopero della fame. Dalla Sardegna, poi, è stato spostato a Rossano Calabro, in provincia di Cosenza. Dove Battisti sarebbe costretto a un isolamento di fatto, come ha denunciato lui stesso in una lettera prima di cominciare un nuovo sciopero della fame. Il carcere duro - La ragione dello sciopero infatti, sono le condizioni di detenzione in cui si trova. Nel carcere di Rossano, infatti, sono detenuti solo terroristi legati alla jihad, contro i quali in passato Battisti si era espresso criticamente e con i quali quindi non può condividere nè gli spazi comuni nè le ore d’aria. Dunque Battisti sta scontando la pena in isolamento di fatto da 27 mesi, “dei quali gli ultimi otto senza mai espormi alla luce solare diretta”, ha scritto in una lettera, in cui racconta anche le condizioni di detenzione: “L’AS2 di Rossano una tomba, lo sanno tutti. È l’unico reparto sprovvisto persino di mattonelle e servizi igienici decenti, dove nessun operatore sociale mette piede. Il famigerato portone “Antro Isis” è tabù perfino per il cappellano, che finora ha regolarmente ignorato le mie richieste di colloquio. Qui tutto è predisposto per tenere a bada dei ferventi musulmani, ai quali, se pure in condizioni esecrabili, è stato concesso il diritto di pregare insieme”. La richiesta del difensore - “Chiediamo solo che venga trasferito in una struttura dove possa scontare la detenzione senza trattamenti inumani, senza un isolamento non previsto dalla legge”, ha detto l’avvocato Gianfranco Sollai, legale di Battisti. La vicenda, infatti, è oggetto di un procedimento penale che però presto potrebbe venire chiuso: la pocura di Roma, infatti, ha chiesto l’archiviazione dell’indagine per abuso d’ufficio a carico della dirigente del Dap Caterina Malagoli, direttrice dell’Ufficio Alta sicurezza del Dipartimento penitenziario, per l’isolamento cui era stato sottoposto Cesare Battisti. I legali di Battisti, che hanno annunciato l’opposizione alla richiesta di archiviazione, contestavano a Malagoli proprio il fatto di aver tenuto illegittimamente l’ex latitante in regime di isolamento, pur passati i sei mesi. Secondo il pm l’indagine dovrebbe essere archiviata perché era stato lo stesso Battisti a chiedere di restare nel carcere sardo. I difensori, invece, oppongono il fatto che non si può sottoporre un detenuto a un trattamento pregiudizievole, nemmeno con il suo consenso. Inoltre, Battisti aveva chiesto di restare in Sardegna ha ricordato Sollai, “a condizione che gli venissero garantite ora d’aria e socialità”. I problemi detentivi - La questione è legata al tipo di pena che Battisti deve scontare. I primi sei mesi dovevano essere svolti in isolamento diurno come previsto dalla sentenza di Cassazione, successivamente invece il detenuto avrebbe dovuto continuare a scontare l’ergastolo in regime carcerario normale. Invece, di fatto, è stato trasferito in una struttura detentiva in cui è impossibile che queste condizioni possano esistere, per il tipo di detenuti presenti e per le condizioni ambientali. Questo tipo di situazione non permetterebbe di dare esecuzione all’ordinanza della corte d’appello di Milano, in cui si chiarisce che Battisti “non soggiace a regime diverso da quello ordinario, per il principio di irretroattività”. Questo significa che Battisti avrebbe diritto a un percorso di trattamento in carcere e soprattutto che non è sottoposto al regime ostativo dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, nè a quello del 41 bis. Nonostante questo, il Dap gli ha attribuito la classificazione di Alta Sicurezza 2, a causa del suo passato terroristico. Questo significa che nel carcere può incontrarsi solo con suoi omologhi, che non erano presenti nel carcere di Oristano e nemmeno in quello di Rossano. Isolamento Cesare Battisti, chiesta l’archiviazione per la dirigente Dap di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 giugno 2021 Chiesta l’archiviazione nell’ambito dell’indagine per abuso d’ufficio aperta a carico della dirigente del Dap Caterina Malagoli, direttrice dell’Ufficio Alta sicurezza del Dipartimento penitenziario, per l’isolamento cui era stato sottoposto Cesare Battisti. L’indagine era nata su richiesta dei difensori dell’ex leader dei Pac, proletari armati per il comunismo, secondo i quali il regime d’isolamento disposto nel carcere di Massama (Oristano) era illegittimo. Ora gli stessi legali si oppongono alla richiesta d’archiviazione. Nel gennaio 2019, dopo l’arresto e l’estradizione, l’ex latitante era stato trasferito nella struttura di massima sicurezza in Sardegna, dove doveva scontare, per sentenza, sei mesi d’isolamento. Ma, stando a quanto denunciato, al termine dei sei mesi Battisti è rimasto in isolamento e per questo aveva iniziato lo sciopero della fame. Una protesta estrema, ripresa anche 16 giorni fa per contestare la detenzione in un carcere che lo costringerebbe a un isolamento di fatto. A Rossano, in provincia di Cosenza, dove Battisti si trova ora, sono detenuti prevalentemente jihadisti, figure contro le quali l’ex esponente dei Pac si espresso criticamente in passato e con le quali dunque non può condividere spazi comuni e ore d’aria. Un problema, quello delle sezioni di alta sicurezza miste, messo in luce proprio dal garante nazionale delle persone private della libertà tramite un rapporto tematico. Il collegio del Garante ha visitato tutte quelle Sezioni del sotto- circuito di As2 che sono attualmente caratterizzate dalla diversità delle categorie delle persone ristrette, relativamente al contesto del reato commesso. In particolare, nelle sezioni di Alta sicurezza oggetto di visita sono compresenti persone detenute per reati commessi nel contesto delle azioni armate degli anni Settanta e Ottanta, persone detenute perché imputate o condannate per reati inquadrabili nel complessivo fenomeno del terrorismo internazionale legato a integralismo religioso e persone prevalentemente imputate e in alcuni casi condannate per recenti azioni di antagonismo politico anche di tipo anarchico. In particole le persone detenute nel sotto-circuito As2, nei quattro casi esaminati a Roma- Rebibbia Femminile, Rossano Calabro, Terni e Ferrara, sono detenute in relazione a reati legati a tre diversi macro- fenomeni: quello del radicalismo violento di matrice islamica, quello dell’antagonismo politico anche di tipo anarchico e quello residuale dei movimenti armati degli anni Settanta e Ottanta. “Tale disomogeneità rende vago ogni riferimento a possibili percorsi di reinserimento”, ha osservato il Garante nel rapporto. La situazione di Cesare Battisti ha la stessa problematica. Si trova a convivere forzatamente con detenuti jihadisti. È costretto, quindi, ad auto isolarsi. Nessuna ora d’aria, zero momenti di socialità difficoltà ad avviare quindi un percorso trattamentale che è finalizzato, non essendo ostativo, alla riabilitazione come prevede l’articolo 27 della Costituzione. Da 16 giorni e in sciopero della fame e della terapia. Rischia seriamente di morire. Csm, Cartabia: “Le riforme non bastano senza un rinnovamento dei costumi” di Errico Novi Il Dubbio, 19 giugno 2021 “Nessuna cornice normativa, per quanto innovativa e radicale, potrà di per sé generare quello stile e quella statura che i cittadini si attendono dal giudice”, dice la guardasigilli. Santalucia: “Anm attore importante di una ripresa del necessario rigore etico”. “Le riforme aiuteranno, ma non saranno risolutive se non saranno accompagnate da un rinnovamento dei costumi, da parte di ciascuno, sul piano personale, e da parte dell’intera categoria”. Lo sottolinea la ministra della Giustizia Marta Cartabia, nel suo discorso per l’evento in Cassazione organizzato dall’Anm in memoria di Rosario Livatino, il giudice, oggi beato, assassinato dalla mafia nel 1990. “Possiamo modificare l’organizzazione e i sistemi elettorali dell’organo di autogoverno, possiamo cambiare le regole per le nomine e rafforzare tutte le possibili incompatibilità e i divieti, possiamo rivedere i meccanismi dei giudizi disciplinari: possiamo discutere su ogni riforma possibile, lo stiamo facendo e lo faremo. Ma tutto questo, dobbiamo esserne consapevoli - ha sottolineato Cartabia - potrà al più aiutare a contrastare le patologie, ma nessuna cornice normativa, per quanto innovativa e radicale, potrà di per sé generare quello stile e quella statura che i cittadini si attendono dal giudice”. “In questa stagione storica segnata, non possiamo sottacerlo, da una profonda crisi della magistratura e da una altrettanto profonda e assai preoccupante lacerazione del rapporto di fiducia con i cittadini - “Ministro, come possiamo avere fiducia nella giustizia?” mi sento chiedere in ogni occasione, specie dalle più giovani generazioni - in questa stagione così difficile quelle parole- indipendenza, credibilità, travaglio - consegnateci dal beato giudice Livatino, possono essere una traccia per ripartire, così come la sua breve, riservata e operosa esistenza un punto di riferimento per contrastare lo smarrimento”, continua la guardasigilli. “Per ricominciare occorre avere negli occhi un modello positivo”, aggiunge. “L’indipendenza del giudice non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni; ma l’indipendenza del giudice - scriveva Rosario Livatino - risiede anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari: tuttora consentiti ma rischiosi. E nella rinuncia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza”. “Un testamento morale, che riletto oggi diventa una traccia da cui ripartire, per tornare ad essere innanzitutto “credibili”, agli occhi di quel popolo, nel cui nome viene amministrata la giustizia”, ha concluso. Santalucia: “Anm attore importante di una ripresa del necessario rigore etico” - “La crisi di credibilità di cui tutti oggi dicono non è solo questione di nuove regole e non chiama in causa soltanto il legislatore, affinché pensi e realizzi riforme che possano arginare il pericolo delle degenerazioni, ormai comunemente appellate come correntizie. È anche, se non soprattutto, una crisi culturale”, dice invece il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, nel corso dell’evento. “Su questo terreno, attore importante di una ripresa del necessario rigore etico è proprio l’Anm: una reazione alla capacità diffusiva di comportamenti eticamente discutibili sta anzitutto nella riaffermazione dei valori della professione attraverso l’esempio che proviene da quanti ne hanno saputo essere interpreti straordinariamente fedeli”. Livatino, ha ricordato il presidente dell’Anm, “tratteggiava la figura del magistrato, il profilo del dover essere, come persona seria, equilibrata e responsabile e aggiungeva che il magistrato deve essere ‘una persona umana capace di condannare ma anche di capire”. Un monito, secondo Santalucia, “di grande importanza: l’accento è non soltanto sulla capacità di essere rigorosi applicatori della legge, con tutto il carico di severità punitiva che a volta essa esprime, ma sull’attitudine alla comprensione dell’uomo che si ha difronte”. Per essere “all’altezza di un compito talmente arduo -ha osservato ancora il leader del sindacato delle toghe -occorre però essere indipendenti, realmente indipendenti, e quindi sperimentare l’indipendenza come forma mentale, costume di vita, coscienza di un’entità professionale, per mutuare le parole di una lontana ma attualissima sentenza della Corte costituzionale. Sembrano traguardi irraggiungibili, alla portata appunto di figure eroiche, come quella di Rosario Livatino. A noi per intanto - ha concluso - spetta il compito di non perderli di vista e di non smarrire la direzione che essi tracciano”. “Vivete con dignità e onore secondo la Costituzione. Questo stile più forte di ogni norma” di Liana Milella La Repubblica, 19 giugno 2021 Il messaggio di Cartabia ai magistrati. Alla vigilia delle riforme, commemorando il giudice Livatino proclamato beato, la ministra richiama le toghe ai propri doveri. Alla vigilia delle riforme sulla giustizia la Guardasigilli Marta Cartabia manda alle toghe un messaggio inequivocabile: “Possiamo discutere su ogni riforma possibile, e lo stiamo facendo. E lo faremo. Ma tutto questo, dobbiamo esserne consapevoli, potrà al più aiutare a contrastare le patologie, ma nessuna cornice normativa, per quanto innovativa e radicale, potrà di per sé generare quello stile e quella statura che i cittadini si attendono dal giudice”. Sceglie un parterre particolarmente significativo la ministra per fissare l’equazione su nuove leggi sì, ma esse non servono se la spina dorsale di ciascun giudice non sta diritta da sola. E anche la sede non è certo ininfluente, il ricordo che l’Associazione nazionale magistrati dedica a Rosario Livatino, il giudice ucciso dalla stidda e proclamato beato. L’esempio di come una toga debba vivere con “dignità e onore”, come dice la Costituzione. Ma sono parole che fanno riflettere quelle che Marta Cartabia pronuncia davanti ai massimi vertici della Cassazione e ai magistrati dell’Anm. Eccola lodare l’esempio di Livatino, un “modello di magistrato senza tempo con la sua vita e la sua professionalità, prima ancora che con il suo supremo sacrificio, quando il 21 settembre 1990 fu ucciso ad Agrigento”. Pesano, e sono assai significative, le considerazioni della ministra perché guardano a ieri, al modello Livatino, per indicare una strada alle toghe di oggi. Lui era “un testimone di giustizia per il suo quotidiano impegno di essere e apparire, ‘semprè, un magistrato degno della toga che indossava”. Pesano le virgolette nel testo scritto di Cartabia, quelle che incorniciano non solo il passaggio sul “magistrato degno”, ma anche le virgolette apposta prima e dopo quel “sempre”. L’indicazione di uno stile di vita individuale, sempre e comunque, nel lavoro come nella vita privata, che nessuna legge può imporre, ma che ogni toga deve rispettare se decide di indirizzarsi verso questa professione. Cartabia cita l’articolo 54 della Costituzione, laddove c’è la disposizione che lei considera “troppo spesso ignorata, dimenticata, trascurata”. La legge integralmente: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento”. E chiosa: “Disciplina e onore: nella professione e nella vita” e torna all’esempio di Livatino: “La preoccupazione dominante in lui, giorno per giorno, ora per ora, fu quello di ‘essere degno’ della delicatissima funzione del giudicare che aveva accettato di svolgere”. Cartabia cita Papa Francesco, la frase sull’essere “degno di giudicare non per condannare ma per redimere” pronunciata proprio durante la beatificazione di Livatino. La ministra torna ancora al suo esempio: “L’indipendenza del giudice è nella credibilità che il giudice riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni e in ogni momento della sua attività”. E alle toghe adesso Cartabia invia un chiaro messaggio: “Soppesiamo ogni parola: indipendenza, credibilità, travaglio”. Parole che secondo la ministra della Giustizia possono essere “una traccia per ripartire”. Da uno stile di vita, dalla disciplina e dall’onore, a prescindere dalle leggi che saranno cambiate. Non sono le riforme, che pure servono e ci saranno, che fanno il giudice, ma il suo essere individualmente e moralmente un vero giudice. Cartabia e Casellati e quei sonni agitati di molti giustizialisti di Francesco Damato Il Dubbio, 19 giugno 2021 Davide Varì, il direttore del Dubbio, si chiedeva giustamente qualche giorno fa se e cosa stesse sotto o dietro l’offensiva scatenata dal Fatto Quotidiano contro la ministra della Giustizia Marta Cartabia per una misteriosa lettera speditole dall’ergastolano e stragista di mafia Giuseppe Graviano. Come se, quasi attraverso la breccia aperta dalla stessa Cartabia alla Corte Costituzionale con una sentenza di allentamento, diciamo così, del cosiddetto ergastolo ostativo, ci fosse aria, puzza e non so cos’altro di una nuova trattativa fra lo Stato e la mafia, dopo quella su cui si sta svolgendo il processo d’appello a Palermo. Dal quale peraltro la pubblica accusa teme tanto di uscire male che ha preso l’assai singolare iniziativa di contestare la sentenza definitiva di assoluzione emessa dalla Corte di Cassazione, a proposito di quella stessa trattativa, nei riguardi dell’ex ministro democristiano Calogero Mannino. Dalle cui preoccupazioni o sollecitazioni, essendo stato minacciato di morte dalla mafia, sarebbe partito il negoziato del biennio 1992- 93, finalizzato a scongiurare o contenere la stagione delle stragi mafiose. Una risposta alla curiosità, chiamiamola così, del direttore del Dubbio l’ho intravista in un passaggio dell’ennesimo editoriale dedicato a un’altra donna delle istituzioni e della politica presa di mira dal Fatto Quotidiano. Che è la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati Alberti, seconda carica dello Stato essendo costituzionalmente titolare della supplenza in caso di impedimento del presidente della Repubblica. Già non gradita di suo per la provenienza o appartenenza politica al mondo berlusconiano di Forza Italia e, più in generale, del centrodestra di qualsiasi trazione possibile o immaginabile, per non parlare della passata esperienza di consigliere superiore della magistratura, per la quale nelle cronache giudiziarie del Fatto Quotidiano si è più volte cercato di coinvolgerla nel cosiddetto e pur successivo affare Palamara; già sgradita di suo, dicevo, la presidente del Senato è ora diventata agli occhi di Travaglio le peggiore candidata al Quirinale. L’” ideale” - ha egli scritto sarcasticamente - per “la metamorfosi” imposta al Festival dei due Mondi di Spoleto in “festival dei due Casellati grazie alla contemporanea presenza dei due rampolli”, maschio e femmina, Alvise e Ludovica, l’uno alle prese con la musica e l’altra con le attività promozionali. “Chi può meglio simboleggiare la festosa Restaurazione italiana?”, ha chiesto Travaglio dicendo che “non manca nulla” alla presidente Casellati: “il vitalizio extralarge che ingloba anche il periodo in cui fece danni al Consiglio Superiore della Magistratura, seguito per par condicio dalla restituzione degli assegni ai senatori pregiudicati, i voli di Stato per qualunque spostamento anche minimo (un giorno il suo parrucchiere se la vedrà atterrare sul tetto) e la prestigiosa ascesa sociale dei due figli, di pari passo alla sua”. E così via recriminando. Con la Cartabia la polemica nei giorni scorsi è stata meno personale e tranchant ma ugualmente riconducibile, secondo me, alla paura di certi ambienti politici affini alla linea del Fatto di una candidatura della prestigiosa guardasigilli al Quirinale per una successione di genere, diciamo così, al presidente in scadenza della Repubblica. Di genere, perché comporterebbe l’arrivo della prima donna al vertice dello Stato. E, in quanto tale, potrebbe essere facilitata paradossalmente dalle enormi difficoltà di trovare una soluzione tutta politica sia per la frantumazione dei partiti, e dei rapporti fra di loro, al di là e contro i confini pur larghi della maggioranza di emergenza formatasi attorno al governo Draghi, sia per le circostanze istituzionalmente eccezionali in cui sta maturando la corsa al Quirinale. Che si concluderà come sempre in una volata parlamentare, ma stavolta in un Parlamento sostanzialmente delegittimato dalla riforma tanto voluta dai grillini, e concessa loro prima dai leghisti e poi anche dal Pd. La riduzione di più di un terzo dei seggi parlamentari sconvolgerà le nuove Camere, da rinnovare massimo l’anno dopo le elezioni presidenziali. E ciò in un equilibrio, o squilibrio, di forze scontatamente diverso da quello già molto anomalo uscito dalle urne nel 2018. Risulterà per forza di cose offuscata o quanto meno ridotta, sotto la crosta di una Costituzione indifferente a questo problema, la rappresentatività politica del capo dello Stato destinato a succedere a Mattarella. A meno che quest’ultimo non ci sorprenda con una scelta generosa, che sarebbe quella di accettare una rielezione sostanzialmente a termine per lasciare in pratica la scelta del successore alle nuove Camere. Se una soluzione di genere, ripeto, dovesse invece far superare l’incrocio garantendo stabilmente al Quirinale, per sette anni, una donna fra le due oggi meglio piazzate nella corsa, ci sarebbe da immaginare la preoccupazione o lo sconcerto di un certo giustizialismo penale e persino culturale. Che avrebbe motivo di temere, per esempio, una resistenza sia della Casellati sia della Cartabia alla promulgazione di leggi o norme anomale, e a rischio serio di incostituzionalità, come quella imposta dai grillini all’epoca della loro alleanza con i leghisti sulla cosiddetta prescrizione breve. Con le due donne suonerebbe davvero al Quirinale tutt’altra musica. Separazione delle carriere: se non ora quando? di Gian Domenico Caiazza Il Domani, 19 giugno 2021 Nulla accade per caso. Se a Verbania un Gip, indifferente come un giudice deve essere alle emozioni ed allo sdegno, smentisce il pubblico ministero, negli stessi giorni nei quali a Milano un tribunale, nel motivare una clamorosa assoluzione, accusa i pm nientedimeno che di avere occultato prove decisive della non colpevolezza degli imputati, beh state certi che qualcosa sta accadendo. Ovviamente molto origina dalla esplosione del cosiddetto “caso Palamara”, cioè dal disvelamento pubblico di un sistema da tempo ben noto a tutti noi addetti ai lavori. Tra le tante nefandezze disvelate, una è a mio avviso la più deflagrante, anche se la meno considerata nei commenti e nei dibattiti non sempre utili: nella magistratura italiana, il giudice non conta nulla. Ohibò, il giudice? Cioè quello che pronuncia la sentenza? Quello che dice: colpevole o innocente? Sissignore, proprio lui. Chi opera, trastulla con la politica la sera negli alberghi o nei ristoranti, decide ciò che va fatto e ciò che non, disegna mappe di potere giudiziario e ministeriale, sceglie le indagini da fare e ne determina o condiziona l’esito, sono i Pubblici Ministeri. Vale a dire scarso il 20% dell’intera magistratura italiana. Tu giudice vuoi fare la tua bella carriera, anche a prescindere dal merito? Da me devi passare, e saprai essermene grato. L’anomalia italiana - Ecco, magari la magistratura giudicante italiana sta lentamente e perfino inconsapevolmente prendendo coscienza di questa abnorme anomalia italica, che ha impancato il pubblico ministero sullo scranno del giudice. Le ordinanze di custodia cautelare, per dire, le decide un Gip, perché il pm può solo rispettosamente chiederle, spiegando anche molto bene perché. Ma nella narrazione quotidiana, le retate sono dei Gratteri, dei De Pasquale, insomma dei pm. I Gip spesso non meritano nemmeno una fugace citazione. E se è così, deve esserci qualcosa di vero, giusto? Per dire: quante volte un Gip avrà detto no ad una richiesta di intercettazione, o di misura cautelare, del dottor Gratteri, per restare nell’esempio? Non lo sapremo mai, statene certi, altrimenti accettare scommesse sarebbe talmente facile da essere vietato. Quindi, è ben vero che gutta cavat lapidem, ma insomma un bel terremoto aiuta. Ed allora, forse è venuto il momento di parlarne sul serio, di separazione delle carriere, nel solo modo che abbia senso: riforma costituzionale dell’ordinamento giudiziario. Due concorsi separati, due Csm separati, due scuole di formazione separate. Pm e giudice ognuno per la sua strada, ma soprattutto pm a rispettosa distanza dal Giudice. La commissione Luciani - O davvero pensiamo che la magistratura italiana possa uscire da una crisi di queste rovinose dimensioni, con i pannicelli caldi della Commissione Luciani? Qualche banalità sulle “porte girevoli”, qualche inutile diavoleria nel sistema elettorale, qualche timido e del tutto inadeguato ripensamento sui giudizi di professionalità, gli avvocati che parlano ma non votano nei Consigli giudiziari, nulla sui fuori ruolo. Ed è davvero incredibile che una simile, disarmante prospettiva di riforma sia stata concordata e condivisa dalla Commissione Luciani con la sola Anm. Quella stessa Anm che arranca -confusa, lacerata e delegittimata- tra quei marosi che non riesce a governare, pretende ed ottiene di scrivere la riforma della magistratura a quattro mani con la Commissione Ministeriale, senza “estranei” a disturbare! Occorre allora che la politica rialzi la testa, e dimostri di saper essere all’altezza delle urgenti necessità del Paese. Una democrazia senza una magistratura forte e credibile è un’anatra zoppa. Ma ora basta con l’equivoco che tragicamente confonde la forza, l’indipendenza e l’autorevolezza della magistratura con l’intangibile ed inattaccabile strapotere delle procure. Il Paese ha bisogno di un giudice forte, non di un pm intoccabile, padre padrone della giurisdizione. Un giudice forte significa un giudice che goda della incondizionata fiducia dei cittadini, i quali hanno bisogno di essere certi che egli decida senza alcuna forma di condizionamento, tanto della politica quanto degli uffici di procura. Un Giudice terzo, realmente equidistante dalle parti processuali, dunque necessariamente estraneo all’ordinamento giudiziario dei pubblici ministeri, come lo è rispetto alla professione ed all’ordine forense. La strada è chiara, e lo ha ripetuto Giovanni Maria Flick: la riforma costituzionale della giustizia. Non ci sono illusorie scorciatoie alternative. Ben vengano i sondaggi degli umori popolari, ma sia chiaro che nessuna separazione delle carriere potrà mai gemmare da un referendum abrogativo di qualche marginale norma dell’ordinamento giudiziario. Ben 75mila cittadini hanno firmato la proposta di legge costituzionale per la separazione delle carriere proposta dall’Unione delle Camere Penali Italiane, ora ferma in Commissione Affari Costituzionali della Camera. È giunta l’ora di farla ripartire. Tabulati telefonici, nonostante l’Ue i pm possono ancora fare come vogliono di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 19 giugno 2021 Nessuna svolta “garantista”. L’ordinanza del gip del tribunale di Tivoli: in attesa di un intervento del legislatore valgono le vecchie regole. Che effetti ha avuto la sentenza dello scorso marzo della Corte di Giustizia europea sulle richieste di acquisizione dei dati relativi al traffico telefonico e telematico dei soggetti sottoposti ad indagine? Una prima risposta è contenuta nella recente ordinanza depositata il 9 giugno dal gip del Tribunale di Tivoli, Chiara Miraglia. In attesa di interventi del legislatore nazionale, si devono continuare ad applicare le norme attualmente previste che fissano la competenza al pm e non al giudice. Il pm è già una autorità “indipendente”. Nessuna svolta “garantista” come era stato auspicato da più parti. La Corte europea, come si ricorderà, aveva affermato il principio secondo cui la direttiva 2002/ 58/ CE del Parlamento europeo sul trattamento dei dati personali doveva essere interpretata in senso ostativo ad una normativa nazionale che avesse consentito l’accesso delle autorità ai dati relativi al traffico per finalità di accertamento dei reati, senza che tale accesso fosse circoscritto a procedure aventi per scopo la lotta contro “forme gravi di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica”. “L’impostazione della Corte - si legge nel provvedimento del gip del Tribunale di Tivoli - deve essere confrontata con l’assetto normativo attualmente delineatosi nel nostro ordinamento e, in particolare, con il consolidato orientamento della Suprema Corte secondo cui, in tema di acquisizione dei dati contenuti nei cd. tabulati telefonici, la disciplina italiana di conservazione dei dati di cui all’art. 132 d. lgs. 196/ 2003 deve ritenersi compatibile con le direttive in tema di privacy, e ciò poiché la deroga stabilita dalla norma alla riservatezza delle comunicazioni è prevista dall’art. 132 cit. per un periodo di tempo limitato, ha come esclusivo obiettivo l’accertamento e la repressione dei reati ed è subordinata alla emissione di un provvedimento di un’autorità giurisdizionale indipendente (come è in Italia il pm)”. “Vi è, dunque, un contrasto - prosegue il gip - tra la Corte di Cassazione e la Corte Edu in ordine alla compatibilità dell’art. 132 d. lgs. 196/ 2003 con la Direttiva 2002/ 58/ CE, almeno laddove tale norma nazionale prevede la competenza del pm ad autorizzare (con “decreto motivato”) l’acquisizione dei tabulati telefonici”. Pertanto, se, da un lato, “è indubitabile che debba attribuirsi ai principi espressi nelle sentenze Corte Edu il valore fondante del diritto comunitario con efficacia erga omnes nell’ambito della Comunità”, dall’altro, “l’attività interpretativa del significato e dei limiti di applicazione delle norme comunitarie, operata nelle sentenze Corte Edu, può avere efficacia immediata e diretta nel nostro ordinamento limitatamente alle ipotesi in cui non residuino, negli istituti giuridici regolati, concreti problemi applicativi e correlati profili di discrezionalità che richiedano l’intervento del legislatore nazionale, tanto più laddove si tratti di interpretazioni di norme contenute in direttive”. “L’interpretazione proposta dalla Corte Edu - prosegue allora l’ordinanza - appare generica nell’individuazione dei casi nei quali i dati di traffico telematico e telefonico possono essere acquisiti (“lotta contro le forme gravi di criminalità” o “prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica”), essendo evidente che tali aspetti non possono essere disciplinati da singole (e potenzialmente contrastanti) decisioni giurisprudenziali, dovendosi demandare al legislatore nazionale il compito di trasfondere i principi interpretativi delineati dalla Corte in una legge dello Stato che provveda ad individuare l’autorità competente a decidere”. “Per tali ragioni - conclude quindi il gip - deve ritenersi che la sentenza della Corte Edu non possa trovare immediata e diretta applicazione nel procedimento in esame, con la conseguenza che, in attesa di un intervento del legislatore, deve ritenersi applicabile l’art. 132 d.lgs. 196/ 2003, dovendosi dare continuità all’orientamento giurisprudenziale ormai consolidatosi e prima richiamato”. Basta gridare alla mafia dove la mafia non c’è di Miriam Romeo Il Riformista, 19 giugno 2021 La parola è l’arma più potente del mondo. Essa può ferire e distruggere vite umane senza lasciare alcun segno visibile sul corpo ed è, al contempo, in grado di guarire l’animo umano offrendosi come dono gentile all’ascoltatore bisognoso di conforto. È potente anche perché ha il potere di plasmare ciò che ci circonda. Wittgenstein sosteneva, infatti, che i limiti del proprio linguaggio sono i limiti del proprio mondo, nel senso che la nostra stessa capacità di intendere il mondo è dettata dalle parole che utilizziamo per descriverlo. Ho passato anni a domandarmi perché la mia terra natia, la Sicilia, fosse considerata solamente come la culla della mafia, terra di Caino. Crescendo, mi sono resa conto che vi è una narrazione tipica - utilizzata specialmente nei momenti in cui si tratta di raccontare le vicende giudiziarie legate agli imprenditori del posto - che, per farla breve, è un po’ così: in Sicilia, se hai un’impresa florida, se hai superato l’asticella del reddito sufficiente ad alimentare sospetti, vuol dire che sei un mafioso o che hai fatto affari con la mafia. Tertium non datur. Io ingenua non lo sono mai stata e non ho mai pensato di negare l’esistenza di questo terribile cancro, tuttavia, sono sempre stata intimamente convinta che questa non fosse l’unica narrazione possibile e che il linguaggio utilizzato negli ultimi vent’anni sia stato causa di una gravissima mistificazione della realtà. La mia intima opinione è divenuta concreta certezza nel momento in cui mi sono ritrovata a studiare le misure di prevenzione e le assurdità di un sistema in cui il sospetto fa da padrone e il cui procedimento rinnega le garanzie fondamentali. In questo settore, infatti, il linguaggio utilizzato dagli “esperti” per descrivere le operazioni in atto è stato il peggiore possibile: “beni sequestrati alla mafia”, “maxi-sequestro ai mafiosi” … e chi più ne ha più ne metta. Nessuno che si premurava di spiegare che si trattasse soltanto di clickbaiting, che nei procedimenti di prevenzione non si svolge l’accertamento di alcun reato e che, se si vuole essere certi di aver sequestrato dei beni alla mafia, quella vera, bisogna agire tramite un processo penale. Le storie sulle misure di prevenzione vedono spesso come protagonisti soggetti assolti in un processo penale o mai rinviati a giudizio ma considerati, allo stesso tempo, “socialmente pericolosi”, con buona pace del principio di presunzione di innocenza. Eppure, queste storie sono passate troppo spesso in sordina, inabissate da un linguaggio che ha trasformato le vittime in carnefici, macchiate per sempre da parole infamanti come “mafioso” trasformatesi in lettere scarlatte, pronte a sottolineare in ogni tempo un’indefinita nube di sospetto, anche quando sentenze e decreti urlano a gran voce l’estraneità da ogni forma di criminalità. Io con le misure di prevenzione non c’entravo nulla o, quantomeno, non le ho mai conosciute personalmente. La mia storia non si aggiunge a quella delle vittime di certa antimafia ma è quella di una studentessa di Giurisprudenza che ha deciso di stare dalla loro parte. Per questo mi sono iscritta a Nessuno tocchi Caino, per aiutare i numerosi imprenditori innocenti a uscire dal cono d’ombra nel quale per molto tempo si sono rifugiati. È giunto il momento di cambiare la narrazione, di squarciare il velo di Maya e far conoscere la vera realtà ma per farlo bisogna essere in molti, unirsi in “social catena”. È per questo che è stato ufficialmente istituito il Comitato di Nessuno tocchi Caino sulle Misure di Prevenzione, di cui ho l’onore (e l’onere) di essere la Segretaria, insieme a Massimo Niceta in qualità di Presidente e Pietro Cavallotti nel ruolo di Portavoce. La costituzione è avvenuta, simbolicamente, all’Abbazia di Santa Anastasia di Castelbuono, un bene prezioso creato e custodito con amore dall’ingegnere Francesco Lena e dalla moglie Paola, all’improvviso sequestrato e, dopo un lungo calvario giudiziario, restituito ai suoi legittimi proprietari con un mare di debiti. La parola come dono, come conforto, è lo strumento che Pietro e Massimo utilizzano da tanti anni per supportare altri imprenditori come loro, ricordandogli, come nel dialogo di Plotino e di Porfirio, l’importanza del confortarsi e incoraggiarsi per “compiere nel miglior modo questa fatica della vita”. La nostra forza è la nonviolenza che non è mai protesta ma proposta, dialogo con il potere. Per affrontare questo dialogo bisogna, però, conoscere. È necessario informare per riformare, perché nessun cambiamento sarà mai possibile se prima non avremo sensibilizzato l’opinione pubblica su quest’amara realtà. Fra i nostri strumenti: la realizzazione di un docu-film sulle misure di prevenzione e di un libro dal titolo “Quando prevenire è peggio che punire”, e la predisposizione di ricorsi alle alte giurisdizioni in collaborazione con l’Università di Ferrara. Ci impegneremo in tutto questo. Lo faremo avendo cura delle parole da usare, scegliendole sempre con cautela ma con la giusta dose di ribelle coraggio. La mia azienda uccisa dallo Stato per reati che mio padre non ha mai commesso di Desiré Gloria Vasta Il Dubbio, 19 giugno 2021 “Mi escludete dalle gare eppure le accuse di mafia erano un’invenzione”. Pubblichiamo ampi stralci della lettera inviata nei giorni scorsi da Desiré Vasta, imprenditrice di Riesi, in Sicilia, al prefetto di Caltanissetta, Chiara Armenia. Vasta ha deciso di rivolgersi al prefetto dopo che l’azienda di cui è titolare è stata esclusa dagli elenchi per la partecipazione alle gare (la “White list”) in virtù di accuse di mafia mosse 16 anni fa contro suo padre, Filippo. Che non solo è stato assolto da tutto, ma è stato formalmente dichiarato vittima dei boss. Egregia Sua Eccellenza Signor Prefetto, mi chiamo Desiré Gloria Vasta, ho 27 anni e sono amministratore unico di una piccola impresa. Si tratta della Divina Service srls, un’azienda alla quale è stata insensatamente negata, dalla prefettura di Caltanissetta, l’iscrizione alla “White list”. Ciò che risulta veramente avvilente e mortificante è il dato argomentativo su cui si fonda il Vostro diniego, sintetizzabile in due assunti evidentemente privi di logica: a) mi si ritiene troppo giovane per svolgere attività imprenditoriale; b) sono figlia di mio padre! Si, sono figlia di mio Padre, Filippo Vasta, cioè sono figlia di un uomo innocente, vessato e devastato dall’estorsione mafiosa prima e poi definitivamente annientato dalla “ingiustizia” italiana! Ebbene, io sono fiera di mio padre, un uomo riconosciuto “vittima di mafia” con sentenza passata in giudicato. Vede, Eccellenza, io avevo soltanto 12 anni quando, in una notte del novembre 2005, degli uomini in divisa mi privarono di mio padre per circa quattro anni. Di quella notte ricordo tutto: la casa sottosopra a causa della perquisizione, lo smarrimento e la tensione provata nel vedere degli agenti che si muovevano all’interno e all’esterno con una determinazione e una padronanza che ci ha fatti sentire dei perfetti estranei nella nostra stessa abitazione. Insomma, un arresto degno di un capomafia! Peccato che il destinatario del provvedimento dell’autorità giudiziaria fosse un uomo innocente, che a quei tempi subiva danneggiamenti di ogni genere ad opera della criminalità organizzata, dai furti agli incendi, e che puntualmente denunciava tutto alle autorità competenti. In quella terribile notte furono molte le cose che mi segnarono indelebilmente. Ricordo i lampeggianti che illuminavano le nostre stanze e le parole che mio padre mi disse, abbracciandomi, prima di essere portato via: “Non vergognarti mai di me, cammina a testa alta e stai vicina alla mamma, tutto si risolverà in pochi giorni”. Quei giorni, in realtà, durarono anni. Ma soprattutto ricordo la mia corsa per raggiungerlo quando stava salendo sull’auto che lo avrebbe portato via: a un certo punto mio fratello afferrandomi tra le sue braccia, mi tappa gli occhi: un gesto che tutt’oggi rimane a me incompreso ma carico di amore fraterno. All’epoca mio fratello aveva 19 anni, studiava Ingegneria idraulica ed eravamo tutti fieri e fiduciosi del fatto che presto avremmo avuto in famiglia un ingegnere specializzato in quel settore che è sempre stato la passione di mio padre. Ma quella notte tutto cambiò anche per mio fratello: dovette immediatamente abbandonare gli studi per prendere il posto di mio padre in azienda. Non durò molto, e le cose continuarono ad andare di male in peggio: appena un paio di mesi dopo l’arresto, l’azienda venne sequestrata! Si, uno dei tanti casi di quell’ormai tristemente famoso “sequestro preventivo”. E ovviamente, come in un copione già scritto, il “caro” amministratore giudiziario trasformò un’azienda in splendida salute in un cumulo di macerie! Capimmo subito che tutto sarebbe andato in rovina, dopo i primi due mesi il nominato amministratore giudiziario smise di pagare gli stipendi, il tutto senza alcuna autorizzazione del Tribunale! Ci trovammo quindi senza mezzi di sussistenza e fummo costretti a trasferirci a casa dei miei nonni materni (super nonni!) che in quel periodo ci sostennero economicamente e moralmente. Furono anni duri, che segnarono inevitabilmente le nostre vite: la mia e quella della mia famiglia. Un percorso di dolore e disperazione che non scorderemo mai. Un pomeriggio di febbraio, mentre stavamo pranzando, sentimmo squillare il telefono: dall’altra parte del filo mio padre tra le lacrime, con la voce rotta dall’emozione, annunciava la sua libertà. Finalmente era un uomo libero, era stata accertata e dichiarata la sua indubitabile innocenza. Il 29 marzo 2010 la Corte d’Appello di Caltanissetta assolve il Vasta Filippo da tutti i reati con revoca immediata del sequestro dei beni. Io avevo 16 anni, da poco ero diventata madre di una bellissima bambina che abbiamo deciso di chiamare Gloria Divina. Sembrava un meraviglioso segnale di rinascita e di speranza e, sull’onda dell’entusiasmo e felici di aver riposto la dovuta fiducia nelle istituzioni, nel luglio del 2010 mio fratello decide di costituire una nuova società: la Divina Acquedotti srl. Ci siamo messi subito all’opera con l’obiettivo di recuperare il tempo perduto, senza lesinare energie e sacrifici: eravamo felici, la nostra vita sembrava poter riprendere il proprio corso. Nella realtà continuavamo a fare i conti con gli effetti devastanti della sciagurata gestione dell’amministratore giudiziario. Quest’ultimo aveva addirittura smesso di pagare il mutuo di casa nostra (che era stata precedentemente data in garanzia per un prestito aziendale), così dopo la revoca di sequestro dell’impresa, venute meno le tutele previste dalla legge, la banca la mise all’asta. Non è dato comprendere, e credo rimarrà un mistero, il modo in cui l’amministratore giudiziario possa aver gestito le sostanze di mio padre e della mia famiglia. Decidiamo comunque di farci coraggio e tornando ad indebitarci, riusciamo a venire a capo anche di quest’altro problema. Tornando alla storia dell’azienda, il lavoro sembrava andare per il meglio tanto da far registrare una costante crescita, che permetteva addirittura di assicurare stabilità a ben quindici dipendenti. Fu anche studiato un programma aziendale che si poneva l’obiettivo di partecipare a qualche bando di gara: i requisiti c’erano tutti, mancava soltanto l’iscrizione alla “White list”, la cui disciplina era entrata in vigore da poco. Ma, ahimè, viene subito immotivatamente negata. Infatti, la prefettura di Caltanissetta disponeva un’interdittiva a mio fratello, quindi alla società di cui era a capo, per il semplice fatto che mio padre era il direttore tecnico dell’impresa! Faccio tutt’ora fatica a comprendere il criterio utilizzato dalla Prefettura, dato che non riesco a spiegarmi come sia possibile che un Tribunale assolve mio padre con formula piena mentre la prefettura lo considera un criminale. Appare evidente, e assolutamente illogico, il contrasto tra la decisione giudiziale e quella della stessa Prefettura. A questo punto mio fratello, sentendosi perseguitato da un sistema vessatorio che lo ha segnato nella mente e nel fisico, decide di mollare: si dimette da amministratore (...). Lì capisco che io non posso arrendermi. Costituisco una nuova società: la Divina Service srls, e inizio a portarla avanti con coraggio, determinazione e ottimi risultati. Provo a richiedere l’iscrizione alla “White list”, certa che uno Stato democratico come l’Italia, fondato sul lavoro, avrebbe premiato la volontà e la tenacia imprenditoriale di una ragazza con voglia di fare. Pare finanche superfluo specificare che avevo e ho bisogno di lavorare con gli enti pubblici (...). Nelle more della decisione della Prefettura, mio padre riceve addirittura la notifica di sentenza del Tribunale di Caltanissetta che lo dichiara vittima di estorsioni mafiose. Proprio così, la giustizia ha fatto il proprio corso: mio padre, inizialmente considerato presunto mafioso, viene alla fine riconosciuto vittima del sodalizio criminale. Ma ciò non sembra interessare alla Prefettura, e infatti anche per me e per la mia azienda arriva puntuale, e inesorabile, il diniego dell’iscrizione alla “White list”. Provo a resistere e faccio subito ricorso ma (...) la Prefettura si limita a rispondermi con un altro rigetto (...). Ecco Eccellentissimo Prefetto, quest’ulteriore cataclisma abbattutosi sulle mie speranze, sul mio impegno e sui miei sacrifici, oltre a non trovare alcuna spiegazione giuridica, rischia di annientare definitivamente il mio futuro, quello dei miei 3 bambini e delle famiglie dei lavoratori dell’impresa. Come detto, nel Vostro provvedimento di diniego non mi vengono imputate particolari colpe se non quella di essere la figlia di un uomo che è risultato vittima di un mastodontico errore giudiziario e che è stato poi addirittura riconosciuto, con sentenza passata in giudicato, “vittima di estorsioni mafiose”. Ed ecco il paradosso: la Prefettura di Caltanissetta non sente ragioni, e non tiene conto delle sentenze, negando a me l’iscrizione alla “White list” per colpe che mio padre non ha (...). Oggi ho deciso di affidare a queste pagine la mia disperazione, cercando di tratteggiare i contorni del senso di vuoto e del dolore che provo nel veder morire il futuro della mia impresa. Il Vostro immotivato rifiuto potrà avere per voi il risibile rilievo di un mero e freddo adempimento burocratico, ma nel mondo reale assume un peso specifico che soffoca la speranza e distrugge le legittime aspettative di un’impresa e dei suoi dipendenti che vogliono solo lavorare. Nulla potrà restituirmi gli anni della mia vita senza mio padre, però, perlomeno, chiedo a Lei di aiutarmi a poter sperare di non dover vivere ancora incastrata in questo incubo terribile in cui il mostro cattivo sembra, per assurdo, essere lo Stato: che da un lato ti assolve riconoscendo la correttezza del tuo passato e dall’altro condanna i tuoi figli a un futuro senza possibilità di salvezza. In attesa di riscontro, le invio i migliori distinti saluti. Mottarone. Il video della funivia: diritto di cronaca o giornalismo sciacallo? di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 19 giugno 2021 Il video della funivia di Mottarone, con le telecamere di sicurezza che inquadrano gli ultimi, drammatici momenti della cabina che cade nel vuoto della valle, ha generato una tempesta di polemiche e di interrogativi sulla deontologia del nostro giornalismo. Era giusto pubblicare quelle immagini? Aggiungono qualcosa alla comprensione pubblica della tragedia o sono solo uno spettacolo morboso e crudele? Non si tratta di un’inutile violenza nei confronti dei parenti delle vittime? O al contrario: nasconderle non significa rinunciare al proprio diritto di cronaca? E non è forse un esercizio ipocrita gridare allo sciacallaggio quando da decenni nuotiamo letteralmente nella “tv del dolore”? Domande che non possono trovare risposte univoche perché la ragione non pende quasi mai tutta da un lato. Nel mondo degli adulti non sempre trovi i buoni schierati tutti da una parte e i cattivi tutti dall’altra, la realtà non è una favola manichea e a volte richiede uno sforzo di immedesimazione. Per esempio: fanno bene a scandalizzarsi i parenti delle vittime: chiunque al loro posto reagirebbe indignato di fronte a quello strazio reiterato. Ma allo stesso tempo le ragioni di chi si è assunto la responsabilità di divulgare il video non sembrano pretestuose. In un certo senso sono nel giusto entrambi. Poi ci sono le valutazioni di merito, di opportunità, di decenza, anche di limite, ma riguardano la sfera individuale, lo stile che il giornalismo si vuole dare, non certo la morale pubblica. Invece, come sempre accade l’opinione si è divisa a metà, due fazioni simmetriche e munite di elmetto duellano da giorni, insultandosi, gridando chi all’indecenza cannibale de mezzi d’informazione chi all’ipocrisia e alla censura. Anche nella nostra redazione la vicenda ha acceso un vivo confronto e, per ragioni di sensibilità, abbiamo scelto di non pubblicare quel video. Ma la deontologia non c’entra. Sarebbe stato del tutto legittimo metterlo in rete, come ha fatto la stragrande maggioranza dei media a cominciare dal servizio pubblico. Accantoniamo per il momento le accuse lanciate dalla procuratrice di Verbania Olimpia Bossi che cita l’articolo 114 del Codice di procedura penale sul divieto di rendere noti atti non coperte dal segreto prima della fine delle indagini preliminari. Tecnicamente è nel giusto (l’Agcom sta peraltro verificando se la Rai abbia rispettato il contratto di servizio), ma quante volte giornali, tv e altri media hanno infranto le regole, magari per proteggere una fonte anonima, o, nel caso contrario, nel divulgare intercettazioni messe in quel caso a disposizione dalle stesse procure? Oppure, come nel caso di Mottarone, nel diffondere una testimonianza visiva che ritengono importante? Probabilmente il video della funivia che sprofonda giù nel vuoto non ha un grande valore giornalistico (di certo ha un valore investigativo per gli inquirenti) ma non è un’imposizione: siamo tutti liberi di non guardare quella sequenza da film horror, di “cambiare canale” come si diceva un tempo. Ma difficilmente cambiamo canale, anzi, non lo abbiamo mai fatto. Dalla tragica morte di Alfredino Rampi avvenuta oltre quarant’anni fa come una diretta televisiva durata oltre 36 ore, lo “spettacolo” della morte ha inondato i nostri schermi, ha accompagnato le nostre serate, esteso a dismisura la nostra soglia di tolleranza. Abbiamo sezionato cadaveri, osservato a loop le scene più spaventose e catastrofiche del nostro tempo, l’uccisione di Muammar Gheddafi, selvaggiamente linciato dalle milizie di Misurata, l’impiccagione di Saddam Hussein trasmessa praticamente in mondovisione o lo scempio del cadavere dei suoi figli Uday e Qusay da parte dei marines americani. Pensiamo alle truculente decapitazioni degli ostaggi di al Qaeda come il povero Daniel Perle, o alle ossessive messe in onda degli attentati dell’11 settembre 2001 contro il World Trade Center di New York. Quante volte abbiamo visto le vittime gettarsi nel vuoto per non venire mangiate dal fuoco che stava divorando le torri gemelle? Poi ci sono i grandi casi di cronaca nera con i relativi “mostri” e le vittime uccise mille volte dalle occhiute ricostruzioni dei programmi più “pulp”, i dettagli morbosi illuminati solo per ottenere audience, i plastici, i criminologi di latta, le raccapriccianti interviste realizzate a caldo ai familiari dei defunti. Uno show ininterrotto in cui la morte è la protagonista assoluta. Con l’avvento dei social network, che trasformano questo show in uno spettacolo globale, pensare di censura per giornali e televisioni è semplicemente impossibile, per non dire ridicolo. Spetta alla sensibilità individuale di chi fa questo mestiere selezionare il materiale che ha tra le mani, separare l’utile dal superfluo, le informazioni dal gossip, le notizie dalle patacche. E assumersi sempre la responsabilità delle proprie scelte. Mottarone, Var di una strage. Così la stampa viola le leggi per una manciata di click di Cataldo Intrieri Il Dubbio, 19 giugno 2021 Quarant’anni dopo la morte in diretta da Vermicino del povero Alfredino vegliato oscenamente nella sua disperata agonia da un popolo di voyeur, arriva, in parallelo con lo sviluppo tecnologico, il Var di una strage. Assistiamo tutti ipnotizzati alla ripetizione rallentata degli ultimi istanti delle povere vite umane intrappolate nella funivia e spazzate via, immaginandoci cosa debbano aver provato nel momento in cui si sono sentite mancare la terra sotto di loro, i lunghi istanti del volo finale prima dello schianto. La cosa più oscena non sono tuttavia le immagini ma i commenti con cui tutti i responsabili dei media (tra le poche eccezioni questo giornale) hanno giustificato la scelta “pecorona” di accodarsi al Tg3 nel pubblicare la sequenza. Retorica a fiumi e solenni richiami al diritto di cronaca, senza avere il coraggio di ammettere che l’unica molla era una manciata di click e copie in più cui in questi tempi di magra non si può rinunciare. Spiccano tra le giustificazioni quelle del quotidiano di Torino diretto da Massimo Giannini, che una volta prima della svolta anti- 5 stelle del giornale dove allora scriveva (La Repubblica) guardava con simpatia al populismo giudiziario dei seguaci di Grillo e Casaleggio (non è un mistero che a votarli furono anche insospettabili liberals “de noantri” come Galli della Loggia, lui almeno confesso). Scrive il commento di accompagnamento de La Stampa “che la potenza delle immagini… che non lasciano spazio ad irricevibili guardonismi (sic!) è più forte di mille parole e chiarisce come l’intervento dei freni avrebbe potuto impedire il disastro”. Dopo la morte alla moviola abbiamo la sentenza in presa diretta, senza quelle inutili formalità come perizie e processi, roba da “impunitisti”, “come direbbe un altro cristallino liberal come Enrico Letta. Secondo Giannini “la scelta di disarmarli (i freni) ha avuto come conseguenza ciò che si vede e se qualcuno non avesse capito lo spiega lui: il filmato “definisce una responsabilità umana di cui sarà necessario chiedere conto”. Toni che sarebbero stati bene in bocca ad un Saint Just o ad un Viscinski, quando invocavano la ghigliottina ed i gulag per direttissima contro i nemici della rivoluzione, invece li usa il direttore di un giornale democratico e liberale. Per combinazione di taglio nella stessa pagina vi è un commento sulla questione dell’ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati che spiega come in realtà il profilo delle responsabilità sia una cosa assai più complessa di come la metta giù l’ottimo Giannini. Ad esempio prima di attribuire la patente di infamia e di colpevoli bisognerebbe stabilire “oltre ogni ragionevole dubbio” che sarebbero bastati i freni ad evitare la tragedia ed ancora, come sottolinea l’ex magistrato, che l’evento fosse prevedibile per i responsabili. Tutte cose un po’ tecniche e assai difficili (come gli effetti dei vaccini) su cui occorrerebbe si pronunciassero prima non dico qualche straccio di giudice, ma almeno un perito. Certo le mani prudono di fronte alle immagini ma la ragione ronza fastidiosamente nella mente umana e dovrebbe frenare l’istinto, almeno per un illuminato liberal. Se non bastasse il parere di Bruti c’è anche l’opinione del procuratore capo di Verbania, Olimpia Bossi, che in un comunicato in cui, tanto per cambiare, riversa sui difensori l’addebito di aver diffuso i filmati (forse per alimentare la “giocosa macchina da linciaggio” dei propri assistiti) ma dice una cosa, una volta tanto, condivisibile. La dottoressa Bossi spiega correttamente che l’art. 114 del codice di procedura penale vieta la pubblicazione non solo degli atti di indagine espressamente coperti da segreto ma anche di quelli depositati ai difensori che non possono comunque essere divulgati alla pubblica opinione. È una tesi cara agli avvocati ed ai garantisti: mi è capitato di scriverne in un’altra vicenda assai meno drammatica, quella degli esami taroccati del calciatore Luis Suarez, di cui vennero diffusi verbali e filmati mentre erano in atto ancora le prime investigazioni. Qualcuno eccepirà che i filmati non sono atti di indagine priori della polizia ma documenti in possesso di un indagato e come tali pubblicabili secondo anche una sentenza della Cassazione. Non è questo il punto: non si tratta di pubbliche registrazioni utilizzabili da chiunque, ma registrazioni ad uso privato come quelle delle video- camere di sicurezza che secondo la legge e le direttive del garante della privacy (https://protezionedatipersonali. it/videosorveglianza-e-tutela-dei-cittadini) hanno finalità strettamente limitate e non sono divulgabili. Su tale tesi procure ed organi di polizia hanno fatto sempre orecchie da mercante perché avrebbe stroncato sul nascere il fiorente mercato dei verbali clandestini e delle intercettazioni, telefoniche ed ambientali, ai giornalisti amici. Invece è proprio così e correttamente sul punto lo spiega la procura di Verbania: la pubblicazione di quei filmati è un atto illegale che deve essere sanzionato in quanto gli atti di indagine, segreti e non, devono restare riservati sino almeno alla richiesta di rinvio a giudizio e non pubblicabili neanche per estratti parziale fino a che degli stessi non venga a conoscenza il giudice nel processo. Il punto è che tale illecito viene punito con multe risibili per cui i giornali se ne infischiano e pubblicano impunemente la vita intima come la morte oscena di poveri cittadini, sia imputati che vittime. State certi che di fronte a sequestri di copie e siti, oltre che del pagamento di salatissime sanzioni, i cultori della libertà di stampa sarebbero ben attenti: non sarebbe male che uno degli emendamenti alla riforma penale di Cartabia se ne occupasse. Un’ultima cosa: colpisce stamani la diffusa auto- solidarietà e l’indulgenza plenaria della stampa al gran completo sulla questione. Non mancano speciosi distinguo da pseudo giuristi: il segnale che in questo paese, liberali o meno, alla fine contano interessi di prossimità. Sostiene uno che se ne intende, come Giuliano Ferrara, che la rivoluzione (liberale e non) in Italia non sia possibile: “ci conosciamo tutti”. Credo ci sia del vero. Non commette reati da 40 anni, ma per la procura è un “delinquente abituale” di Frank Cimini Il Riformista, 19 giugno 2021 Il Tribunale di sorveglianza di Milano rigettando il ricorso della difesa ha confermato la dichiarazione di “delinquenza abituale” per Luigi Bergamin uno dei nove rifugiati politici in Francia fermati il 28 aprile scorso poi rimessi in libertà e che l’Italia chiede siano estradati. Per la prima volta nella nostra storia giudiziaria un provvedimento del genere viene emesso a oltre quarant’anni dai fatti per i quali erano state pronunciate sentenze di condanna, gli omicidi di un maresciallo Antonio Santoro e di un agente di polizia Andrea Campagna che risalgono al 1978 e al 1979. Da allora Bergamin a Parigi non aveva più commesso reati rifacendosi una vita e ottenendo un dottorato di ricerca, come affermato dall’avvocato Giovanni Ceola. Ma le parole del legale non sono state prese minimamente in considerazione dai giudici che hanno sposato la tesi della pm Adriana Blasco. I giudici aggiungono che Bergamin aveva dimostrato “prontezza nel disattendere le prescrizioni limitative della libertà personale nel sottrarsi in tal modo al rispetto del principio di legalità dimostrando di essere in grado di avvalersi di una rete di protezione da parte di persone disponibili in caso di necessità a sostenerlo e aiutarlo a sottrarsi all’esecuzione della pena”. Ma c’è di più. Da parte dei giudici di sorveglianza di Milano c’è in sede di motivazione una sorta di “rimprovero” alle autorità francesi che non avrebbero indagato sui comportamenti di Bergamin nel violare le prescrizioni limitative della libertà personale. I giudici di Milano cioè vanno anche oltre il loro compito “sentenziando” in pratica quello che le autorità parigine avrebbero dovuto fare e non hanno fatto. Il Tribunale di sorveglianza sottolinea che la stessa decisione di costituirsi a fine aprile sarebbe stata strumentale a sfuggire all’esecuzione della pena considerando che la situazione non era mutata rispetto al 1986. Secondo l’avvocato Ceola invece Bergamin si è sempre presentato una volta la settimana all’ufficio della gendarmeria vicino casa sua. Il provvedimento di delinquenza abituale per Bergamin sembra comunque rivolto soprattutto alle autorità francesi affinché incida in merito alla decisione sull’estradizione che sarà discussa a partire dal prossimo 30 giugno e che comunque è prevista in tempi molto lunghi come per gli altri rifugiati. Il prossimo 23 giugno sarà discussa la posizione di Giorgio Pietrostefani condannato per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Pietrostefani in caso di estradizione rischia di scontare la pena a 50 anni dal fatto che risale al 17 maggio del 1972. Un altro record in questa operazione “Ombre rosse” che in realtà è la caccia alla banda dei nonnini di Parigi nel segno della vendetta. Campania. Prodotti “made in carcere”, al via il concorso per il logo di Viviana Lanza Il Riformista, 19 giugno 2021 Un logo per i prodotti “made in carcere”. È l’idea alla base del concorso bandito dal Provveditorato dell’amministrazione penitenziaria della Campania e dal Carcere possibile, la onlus della Camera penale di Napoli che si occupa di tutela dei diritti dei detenuti. Il concorso è rivolto a giovani al di sotto dei 36 anni di età i quali, entro il 31 agosto prossimo, dovranno inviare la loro idea progettuale di logo, con un claim o un’immagine accompagnata da un claim, per i prodotti realizzati dai detenuti nei vari laboratori gestiti dall’amministrazione penitenziaria, dalle associazioni e dalle cooperative sociali. Si tratta, dunque, di creare un segno distintivo che identifichi la provenienza dei prodotti realizzati dai detenuti e ne accresca l’interesse commerciale. Sarà scelto il progetto più votato dalla giuria composta da componenti dell’amministrazione penitenziaria e del Carcere possibile, nonché da esperti di comunicazione pubblicitaria. La proclamazione del vincitore avverrà il 15 ottobre e a lui sarà corrisposto un premio di 1.500 euro. Il progetto è curato dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Antonio Fullone, e dal direttivo del Carcere possibile, guidato dall’avvocato Anna Maria Ziccardi, in particolare con la collaborazione degli avvocati Sabina Coppola e Sergio Schlitzer. La finalità del concorso è legata alla constatazione che negli istituti penitenziari della regione Campania i detenuti realizzano prodotti di diverse categorie merceologiche, molti dei quali di significativa qualità e che tuttavia raramente riescono ad avere il risalto che meritano dal punto di vista commerciale. “Per tale ragione - si precisa nel bando - il concorso intende valorizzare e promuovere la diffusione dei suindicati prodotti e le relative attività di formazione e di reinserimento che ne rendono possibile la realizzazione, mediante l’apposizione di un segno distintivo idoneo a identificarne la provenienza”. Al concorso potranno partecipare giovani under 36 e potranno presentarsi anche in gruppi di più persone, purché nessuna di esse abbia superato il limite di età stabilito nel bando. L’obiettivo è quello di valorizzare il lavoro che alcuni detenuti svolgono all’interno dei laboratori delle carceri campane e provare a incrementare queste attività che sicuramente rappresentano un ponte tra il mondo dietro le sbarre e il mondo esterno e sicuramente possono essere un passo in avanti concreto nel percorso di rieducazione e riabilitazione di chi deve scontare una pena. Creare un logo per i prodotti “made in carcere” vuol dire anche dare un’identità al lavoro dei detenuti, dare loro un peso sul mercato, e quindi un futuro. Del resto in prigione si realizzano prodotti di qualità, soprattutto di tipo artigianale, artistico e alimentare. Individuare un segno distintivo per tali prodotti vuol dire dare una forma, dare un nome, un colore, un’immagine a ciò che viene realizzato dai detenuti durante le ore di lavoro in cella, e tutto questo va di certo in un’ottica di recupero sociale di chi ha commesso un reato e sconta per questo una pena in carcere. Modena. Inchiesta archiviata, ma restano i dubbi per gli 8 morti della rivolta in carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 giugno 2021 L’avvocata Simona Filippi: “Antigone andrà avanti affinché venga fatta chiarezza sulla morte di queste persone”. L’avvocato Luca Sebastiani che rappresenta i parenti di Chouchane Hafedh: “Troppe le zone d’ombra”. Otto i detenuti morti per la rivolta dell’8 marzo 2020 del carcere Sant’Anna di Modena. Otto morti definitivamente archiviati dal Gip che ha accolto la richiesta dalla procura modenese, dichiarando addirittura inammissibile gli atti d’opposizione dell’Associazione Antigone e del Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà.Parliamo di Chouchane Hafedh, Methnani Bilel, Agrebi Slim, Bakili Ali, Ben Mesmia Lofti, Hadidi Ghazi, Iuzu Artur e Rouan Abdellah. Alcuni ritrovati morti dentro al carcere per overdose di psicofarmaci e metadone, altri deceduti mentre venivano trasferiti in altre carceri a ore di distanza, altri ancora una volta giunti a destinazione. Per il Gip la vicenda ha trovato “compiuta ricostruzione nella relazione degli agenti” Ma secondo il Gip, la vicenda oggetto del procedimento “ha trovato compiuta ricostruzione, nella sua genesi e nel conseguente sviluppo in termini spaziali e temporali, nelle relazioni redatte dalla Polizia penitenziaria e dalla Squadra Mobile della Questura modenese”. Eppure, a leggere il provvedimento di archiviazione di due pagine e mezzo, non sono stati chiariti una serie di elementi e criticità sollevate nell’atto di opposizione depositato. Basti pensare a Chouchane Hafedh. Una storia amara la sua, visto che al ragazzo tunisino, con l’eventuale ottenimento dei benefici, gli sarebbero mancate due settimane per uscire finalmente dal carcere, un istituto del tutto fallimentare per ragazzi che commettono reati dovuti dalla tossicodipendenza. Nel carcere di Modena il sovraffollamento era del 147% - La situazione del carcere di Modena era di sovraffollamento particolarmente grave, con una percentuale pari al 147%. Era prevedibile uno sviluppo così violento, quello della rivolta, in presenza di parametri fortemente lontani da quelli ordinari? Proprio la posizione di garanzia richiesta a tutto il personale presente in Istituto impone che negli istituti penitenziari i medicinali (quali il metadone) siano messi al sicuro e contenuti all’interno di casseforti o armadi blindati. Si ha il dovere di non lasciare incustodito l’armadietto dei medicinali - Si ha quindi il dovere di non lasciare incustodito questo tipo di sostanza poiché l’uso scorretto può portare ad una overdose. È stato fatto tutto ciò? L’amministrazione penitenziaria, come suo dovere, ha vigilato affinché il detenuto non compia determinati atti che, soprattutto se tossicodipendente, sono prevedibili in situazioni di rivolta? Il metadone si trovava all’interno di un armadio blindato, trovato aperto e non scassinato, di cui manca la prova che fosse stato chiuso a chiave quella mattina e la cui chiave si trovava, comunque, all’interno di una presunta cassetta di sicurezza. Discrepanze temporali nei racconti degli infermieri - Vi sono poi delle discrepanze temporali tra i racconti delle infermiere presenti durante la rivolta di Modena, che davano contezza della chiusura dell’armadio contenente il metadone fino alle 16 circa, e l’intervento del 118, che già dalle 14 e 30 operava su soggetti in preda ad overdose. Non solo. Sono emerse anche delle incongruenze tra le dichiarazioni dei detenuti e quelle degli agenti di polizia penitenziaria. Ma tutto ciò, nel provvedimento di archiviazione, non è stato chiarito approfonditamente. “Non è accettabile che una vicenda così grave che ha visto la morte di otto detenuti si chiuda con un provvedimento così motivato”. L’associazione Antigone andrà avanti per fare chiarezza - L’associazione Antigone, per voce dell’avvocata Simona Filippi, commenta così l’archiviazione firmata dal gip di Modena per il caso dei detenuti morti nella rivolta di marzo 2020. “Stiamo valutando quale sia l’azione più opportuna da prendere ma sicuramente l’associazione andrà avanti affinché - aggiunge l’avvocata Filippi - venga fatta chiarezza sulle ragioni della morte di tutte queste persone”. A esprimere sorpresa e amarezza è anche l’avvocato Luca Sebastiani che rappresenta i parenti di una delle vittime, il tunisino Chouchane Hafedh: “Sono troppe le zone d’ombra che non sono state chiarite in questa triste vicenda e questo non possiamo accettarlo. Pertanto siamo pronti a ricorrere nelle opportune sedi, confidando che prima o poi i familiari di queste giovani vittime avranno le risposte che meritano”. Pistoia. Il Garante dei detenuti boccia il carcere di via Macelli valdinievoleoggi.it, 19 giugno 2021 Nell’ultima seduta del consiglio regionale della Toscana è stata approvata una proposta di risoluzione che esprime apprezzamento per i risultati conseguiti dal garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. Dal momento dello scoppio della pandemia, si sono vissuti quindici mesi davvero molto problematici all’interno delle carceri toscane e, ovviamente, anche a Pistoia perché sono stati compromessi i percorsi di riabilitazione attraverso la limitazione degli ingressi esterni, utili per portare avanti progetti di supporto da sempre realizzati con il fondamentale sostegno del mondo del volontariato. Il dossier ha posto in evidenza anche gli ultimi dati aggiornati sulla situazione della struttura di via dei Macelli a Pistoia: al 31 dicembre erano presenti 74 detenuti, e di questi 44 stranieri, su una capienza complessiva a regime di 56 persone e, nel corso dell’anno passato, si sono registrati anche ben trentacinque atti di autolesionismo. Sempre nel report, risalente allo scorso marzo, si segnala che a Pistoia, oltre al garante, mancano purtroppo anche gli educatori: quelli regolamentari sarebbero due, al momento entrambi assenti (uno in malattia, l’altro in congedo ex legge 104), evidenziando come questa sia davvero una delle questioni più rilevanti unitamente ai problemi emersi per la gestione e le comunicazioni verso l’esterno durante la fase di emergenza. “Questo report annuale - ha commentato la consigliera regionale del Partito Democratico, Federica Fratoni - ci presenta una fotografia preziosa, ricca di elementi sui quali indagare al meglio: dai numeri del sistema penitenziario, alle istanze ricevute dai detenuti e da altri soggetti privati della libertà personale, al monitoraggio dei tso effettuati, alla ricerca sul tema dell’affettività in carcere. Non può che essere condivisibile il richiamo e la sollecitazione rivolta ai Comuni da parte del garante, avvocato Fanfani, per la copertura di questo ruolo delicato ed estremamente importante. Pistoia è in grave ritardo: solo recentemente, e grazie in particolar modo agli appelli dei gruppi consiliari di opposizione, ha modificato il regolamento ma adesso mi auguro che si proceda speditamente verso la sua nomina”. Ascoli Piceno. Il Garante in visita al carcere di Marino del Tronto lanuovariviera.it, 19 giugno 2021 “Situazione Covid sotto controllo, ma c’è carenza di personale”. Nel corso del sopralluogo, come consuetudine, effettuati diversi colloqui con i detenuti. Secondo appuntamento per il Garante dei diritti dopo la ripresa delle visite in presenza negli istituti penitenziari delle Marche. In agenda il sopralluogo presso la Casa circondariale di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno, dove ha incontrato il direttore Eleonora Consoli e gli attuali responsabili della polizia penitenziaria e dell’area trattamentale. Un confronto diretto che ha permesso di mettere in luce vecchie e nuove criticità. “La carenza di personale - specifica Giulianelli - investe diversi fronti. A risentirne sono soprattutto la polizia penitenziaria, l’area trattamentale e quella medica. Proprio su quest’ultimo aspetto abbiamo più volte posto l’attenzione, anche attraverso la dovuta informativa al Prap. Per quanto riguarda l’emergenza da Coronavirus si registra, comunque, una situazione sotto controllo con vaccinazioni effettuate a largo raggio”. Il Garante non manca di evidenziare carenze per quanto concerne l’adeguamento dell’edificio alle mutate esigenze dopo la chiusura del 41 Bis, sezione rimasta operativa fino al 2018 e destinata al circuito dei detenuti in regime di massima sicurezza. “Un problema che - sottolinea - va ad incidere sulla vivibilità dei luoghi per i quali si ravvisa la necessità di importanti interventi strutturali”. Nel corso del sopralluogo, come consuetudine, effettuati diversi colloqui con i detenuti. Intanto, nei giorni scorsi proprio l’attuale situazione sanitaria negli istituti penitenziari marchigiani è stata posta in primo piano nel corso dell’incontro a cui hanno partecipato il Garante Giancarlo Giulianelli; il coordinatore dell’Osservatorio permanente della sanità penitenziaria, Filippo Masera; il responsabile dei servizi sanitari in carcere, Franco Dolcini e la dirigente Sanità della Regione Marche, Lucia Di Furia. Un primo confronto a tutto campo, nell’ambito del quale Giulianelli ha rappresentato le maggiori criticità riscontrate nei primi mesi del suo mandato. Catania. Carceri e inclusione, tirocini lavorativi alla Dusty per 15 detenuti sicilianetwork.info, 19 giugno 2021 Stanno per partire a Catania e in tutta la provincia etnea i tirocini lavorativi retribuiti promossi dal progetto Fuori le Mura all’interno dell’azienda Dusty, leader nel settore dell’igiene urbana. Così come prevede il progetto realizzato dalla cooperativa catanese Prospettiva Futuro, con il sostegno di Fondazione con il Sud, inizia il percorso di reinserimento socio-lavorativo di quattro donne, e undici uomini, due dei quali segnalati dall’ufficio di servizio sociale per i minorenni. L’impegno all’interno di Dusty prevede quattro mesi di lavoro a tempo pieno che sono stati preceduti da un percorso di formazione mirato alla raccolta, al riuso e al riciclo dei rifiuti. Il percorso formativo sta per concludersi anche nelle città di Palermo, Messina e Caltanissetta dove a breve saranno attivati, nelle diverse sedi provinciali dell’azienda, altri tirocini lavorativi. Con la volontà di costruire una rete territoriale tra impresa, terzo settore e servizio pubblico il progetto Fuori Le Mura ha siglato la partnership con il Centro per l’impiego di Catania diretto dalla dottoressa Salvatrice Rizzo che afferma: “La nostra mission ci avvicina sempre ai soggetti più fragili. Siamo felici quindi di poter dare il nostro contributo all’interno di un progetto così importante, capace di fornire un’occupazione stabile, in un momento complesso come questo, a chi merita una seconda possibilità. Non è facile per chi ha commesso un errore ritrovare posto nella società e noi come centro per l’impiego faremo di tutto per supportare chi ha bisogno di sostegno nel ricostruire la propria vita”. “I primi tirocini saranno avviati nei territori comunali della provincia di Catania dove Dusty effettua il servizio di igiene urbana - afferma l’amministratore Rossella Pezzino de Geronimo - Nel corso dei tre anni previsti dal progetto si proseguirà poi nelle altre province: Caltanissetta, Messina e Palermo. Dusty predilige i progetti inclusivi come questo perché sono uno strumento concreto per superare le diseguaglianze e riabilitare risorse umane. Cambiare una mente attraverso l’istruzione e la comprensione può cambiare in meglio il mondo. Il lavoro nobilita l’uomo ed è per questo che, se tutti gli imprenditori insegnassero un mestiere a chi ha sbagliato, molte più risorse umane potrebbero “rinascere” e guardarsi allo specchio sapendo di avere l’opportunità di ricominciare nella giusta direzione”. Dusty si è impegnata a inserire in azienda 60 candidati in qualità di tirocinanti. Di questi, 50 verranno assunti con un contratto di lavoro a tempo determinato per 6-12 mesi con orario part-time. Ad almeno 5 soggetti che avranno svolto con ottimo esito sia il tirocinio che il rapporto di lavoro, Dusty riserverà un contratto a tempo indeterminato per 24 ore settimanali. Il rischio della bomba sociale di Francesco Manacorda La Repubblica, 19 giugno 2021 Una settimana fa gli scontri a Tavazzano, vicino a Lodi, con un lavoratore finito in ospedale in codice rosso. Ieri mattina il morto, il sindacalista del Si Cobas Adil Belakhdim, ucciso da un Tir che voleva superare un picchetto di manifestanti davanti al deposito Lidl di Biandrate, nel Novarese. C’è voluto poco, pochissimo, perché in questa estate del virus che arretra e della povertà che avanza, i peggiori presagi si trasformassero in realtà. E non è un caso che il prezzo del lavoro diventi la vita proprio là dove quel lavoro è meno qualificato, meno garantito, meno pagato e spesso anche meno “italiano”, con una fortissima presenza di immigrati che più difficilmente riescono ad affermare i propri diritti. Ma quei diritti sono in ogni caso difficili - impossibili, nella circostanza peggiore - da difendere per molti. Così è stato, del resto, anche per l’italianissima ventiduenne Luana D’Orazio, assunta come apprendista in una fabbrichetta tessile di Prato e poi mandata a morire da sola il 3 maggio scorso negli ingranaggi di un orditoio dopo che - sostengono i periti della Procura - da quel macchinario erano stati levati gli apparati protettivi. Di Adil Belakhdim, del suo Marocco e della sua lotta per i lavoratori della logistica, ieri abbiamo già saputo molto. Dell’autotrasportatore campano che lo ha ucciso conosciamo ancora poco. Quel che possiamo dire è che lo scenario in cui si è consumata la tragedia che è costata la vita al primo è uno scenario comune. È il mondo della produzione e del trasporto delle merci “hard discount”, l’alimentare o gli oggetti per la casa a prezzi bassissimi, che in questi mesi hanno rappresentato la scelta necessaria per tanti espulsi dal mondo del lavoro, ma che possono offrire quei prezzi anche perché applicano un “hard discount” a tutto quello che sta prima dello scaffale del supermercato e che i consumatori non vedono: le materie prime, il costo dei trasporti, gli stipendi degli addetti. E “hard discount”, stretta fra la concorrenza dei prezzi dei rivali in Asia e quella dei cinesi di Prato, campioni di autosfruttamento e di elusione delle regole, in fondo era pure la fabbrica tessile dove è stata fatta morire Luana D’Orazio. Al netto dei diritti violati in nome della produttività e del profitto o dei comportamenti che implicano scientemente la possibilità di commettere un omicidio - sarà la magistratura a pronunciarsi sui singoli casi - ciò che è accaduto ieri a Biandrate non è certo un episodio isolato. Da settimane e mesi si combatte - senza che finora ci fosse scappato il morto - una guerra tra poveri per il lavoro in quelli che ci appaiono i margini del sistema produttivo e che invece stanno molto più al centro, molto più vicini agli scaffali dei supermercati e ai nostri consumi, di quanto pensiamo e fanno parte di un tessuto comune della nostra società. Anche ieri Mario Draghi - a Barcellona per un incontro con il suo omologo spagnolo - ha parlato di “coesione sociale”, della necessità che i soldi e i progetti del Recovery Fund servano anche a ricementare quello che prima la crisi economica di oltre un decennio e poi la pandemia hanno contribuito a disgregare, aumentando le differenze di reddito e consegnando - stime Istat - 5,6 milioni di persone a un livello di consumi che sta sotto l’essenziale, sotto la soglia di povertà assoluta. Quella coesione sociale oggi è ad alto rischio. La fine del blocco dei licenziamenti minaccia, come è ovvio, di acuire le tensioni, di innescare la rabbia di chi si troverà fuori dal sistema produttivo - che siano 70 mila, come calcola l’Ufficio parlamentare di bilancio, o il triplo come prevedeva a dicembre la Banca d’Italia, non è il problema principale - e di mettere subito un’ipoteca pesante su quello che si spera sia un periodo di ripresa dopo una caduta del Pil mai vista nel Dopoguerra. Congelare i licenziamenti sine die non è possibile. Forse ci potrà essere qualche mediazione ulteriore tra la decisione del governo che darà il via libera alle prime uscite da luglio e le richieste dei sindacati che chiedono una proroga complessiva del blocco fino a settembre, ma il ritorno alla normalità dovrà passare anche dalla possibilità per le imprese di affrontare il tema del lavoro senza i vincoli d’emergenza finora imposti. Quel che è sicuro, però, è che il salto verso la normalità che ci prepariamo a fare sul fronte della pandemia e della crisi che ne è derivata non può essere un salto nel vuoto per i lavoratori meno garantiti. In sede internazionale gli appelli alla prudenza nel levare i sostegni all’economia risuonano dappertutto. Giovedì ne ha parlato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco; ieri lo stesso Draghi ha avvisato i “falchi” dell’Unione europea che le politiche di bilancio non possono tornare ad essere restrittive. E il momento che le buone intenzioni enunciate si trasformino in azioni, a partire dalle politiche attive per chi perde il lavoro: un sistema che prevede la possibilità di licenziare deve anche mettere gli espulsi dal mondo del lavoro in condizioni di tornarvi con nuove competenze e opportunità. Il dramma di Adil, ucciso per difendere i diritti dei facchini di Mauro Ravarino Il Manifesto, 19 giugno 2021 Novara, sindacalista di base di 37 anni travolto da un tir durante un presidio al centro direzionale della Lidel nel giorno dello sciopero. A tarda sera, giovedì, aveva inviato un messaggio vocale per invitare i lavoratori al presidio di Biandrate, in provincia di Novara, davanti al centro distribuzione della Lidl, per una delle iniziative dello sciopero nazionale della logistica proclamato da alcune sigle di base - tra cui il Si Cobas, il suo sindacato - contro “le aggressioni squadristiche”, “il sistema degli appalti” e “lo sblocco dei licenziamenti”. Ma a quei cancelli, Adil Belakhdim, ieri mattina ha trovato la morte, travolto da un tir che ha forzato il picchetto davanti allo stabilimento di via Guido il Grande. Originario del Marocco, aveva 37 anni, una moglie, Lucia, e due figli di sei e quattro anni; viveva a Vizzolo Predabissi (Milano) ed era il coordinatore della sede di Novara del Si Cobas e membro del coordinamento nazionale. Generoso e tenace, lottava contro le ingiustizie: “Da quando si era sentito sfruttato lui stesso al lavoro - racconta Fulvio Di Giorgio, amico e compagno sindacalista - aveva capito che bisognava fare qualcosa. Ma non solo per lui stesso, anche per tutti gli altri. Era nato così, nel 2013, il suo impegno nel sindacato”. Era in prima fila nella lotta dei facchini, un mondo che conosceva bene, avendo lavorato diversi anni alla Tnt di Peschiera Borromeo. Un vero far west dei diritti che sta vivendo un’escalation di tensioni e violenze. E Adil ci ha rimesso la pelle. L’autista che l’ha ucciso, investendolo e trascinando il corpo per venti metri, prima di fuggire, ha 25 anni ed è casertano. È stato arrestato con l’accusa di omicidio stradale, resistenza e omissione di soccorso: si sarebbe costituito a un equipaggio dei carabinieri all’altezza del casello autostradale Novara Ovest sulla A4. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, durante il picchetto dei lavoratori, l’uomo era in coda dietro ad altri mezzi all’interno del centro di distribuzione ma, spazientito dall’attesa, avrebbe improvvisamente imboccato contromano la corsia di entrata, compiendo alcune accelerazioni nonostante i manifestanti fossero davanti al veicolo. E ha svoltato a destra per raggiungere la strada, urtando prima due lavoratori che sono riusciti a salvarsi e sono stati ricoverati in ospedale e, poi, ha travolto Adil Belakhdim. Ed è scappato via a bordo del mezzo pesante. Nonostante i soccorsi immediati, per il sindacalista non c’è stato nulla da fare. “Per quanto ancora increduli ed esterrefatti - commenta a caldo il Si Cobas nazionale - non possiamo tacere la nostra rabbia per una tragedia che non è in alcun modo derubricabile come un semplice incidente, né tantomeno come la semplice opera di un folle isolato. L’omicidio di Adil avviene infatti all’apice di una escalation di violenza organizzata contro il Si Cobas, che si trascina da mesi ed è oramai senza limiti. Le cariche alla FedEx Tnt di Piacenza, gli arresti, i fogli di via e le multe contro gli scioperi, le aggressioni armate di body guard e crumiri a San Giuliano e Lodi, passando per i raid punitivi alla Texprint di due giorni fa, sono parte di un unico disegno che vede i padroni e la criminalità organizzata (che fa giganteschi affari nella logistica) agire in maniera unita e concentrica per schiacciare con la forza e la violenza gli scioperi dei lavoratori contro il super sfruttamento e in difesa delle conquiste strappate negli anni dal sindacalismo conflittuale. La morte di Adil rende ancor più evidente ciò che era già chiaro alla luce della crescita esponenziale delle morti sul lavoro registrate in questi mesi di crisi pandemica: per i padroni i profitti valgono più della vita umana”. La vicenda di Belakhdim riporta alla memoria un’altra tragedia capitata cinque anni fa a Piacenza, quando, nel settembre del 2016, Abd Elsalam Ahmed Eldanf, facchino 53enne, fu travolto da un tir all’esterno della Gls, mente era in corso una vertenza tra il sindacato Usb e i vertici dell’azienda. Un episodio al centro di numerose polemiche perché per la procura si era trattato di una fatalità, un incidente, mentre il sindacato di base lo denunciò come “omicidio padronale”. La settimana scorsa a Tavazzano (Lodi), alla Zampieri, vigilantes hanno imbracciato lunghi pezzi di legno ricavati da bancali spezzati e hanno attaccato a colpi di bastoni il presidio del Si Cobas dei lavoratori Tnt Fedex di Piacenza, hub chiuso dalla multinazionale. E solo pochi giorni fa si è verificato a Prato un assalto a colpi di mattone al picchetto che denunciava le condizioni di lavoro alla stamperia Texprint. Sono tutte storie di operai, sfruttati, mal pagati e molti sono stranieri. Come ha denunciato ieri a Biandrate Pape Ndiaye del Si Cobas di Milano: “C’è un regime di sfruttamento totale in luoghi dove entri e non sai quando esci. La Lidl non ha risposto alle nostre richieste. Quello della logistica è un comparto che a livello nazionale è abbandonato dallo Stato e ricattato dai padroni”. Un altro tema che preoccupa è “la liberalizzazione dei subappalti” contenuta nel Dl semplificazioni. Le categorie del terziario di Cgil, Cisl e Uil hanno dichiarato tre giorni di sciopero, da ieri a domenica, per i lavoratori del sito di Biandrate: “Non è possibile morire mentre si esercita il diritto costituzionale ad esprimere la propria opinione e non si devono mai mettere lavoratori contro lavoratori”. Manifestazioni di solidarietà si sono svolte da Torino a Palermo. Ora nessuno può più ignorare la lotta degli schiavi invisibili della logistica di Carmen Baffi e Giovanna Faggionato Il Domani, 19 giugno 2021 Quando Pape Ndiaye, detto Papis, sindacalista dei Si Cobas, prende la parola nello spiazzo di fronte al magazzino Lidl di Biandrate, a Novara, il suo collega Adil Belakhdim è stato ucciso da poche ore. Investito da un autista di un fornitore della azienda, un 25enne campano che ha forzato il presidio organizzato dai sindacati di base, travolgendolo e ferendo un altro lavoratore. Le sigle di base denunciano il silenzio dei grandi sindacati e della politica. “La libertà e i diritti non ve li regaleranno mai, vanno strappati, dobbiamo farlo solo auto-organizzandoci, i pacchi che muovono qua contano di più della vita del nostro compagno”. Quando Pape Ndiaye, detto Papis, sindacalista dei Si Cobas, prende la parola nello spiazzo di fronte al magazzino Lidl di Biandrate, a Novara, il suo collega Adil Belakhdim è stato ucciso da poche ore. Investito da un autista di un fornitore della azienda, un 25enne campano che ha forzato il presidio organizzato dai sindacati di base, travolgendolo e ferendo un altro lavoratore. Il Si Cobas ieri aveva proclamato lo sciopero nazionale della logistica, cui hanno aderito anche i sindacati di base Adl Cobas, Usb Logistica e Cub Trasporti. Belakhdim, italiano di origini marocchine, si occupava delle lotte della zona di Biella e Novara. In provincia di Milano, dove abitava, lascia una moglie e due figli di 4 e 6 anni. Il camion, secondo quanto riportato dagli altri membri del sindacato, lo avrebbe trascinato per una decina di metri. L’uomo alla guida dovrà ora rispondere di omicidio stradale e resistenza a pubblico ufficiale. Un agente della Digos, infatti, avrebbe tentato di evitare il peggio mostrando il tesserino, poco prima che Adil venisse travolto. Ma il camionista non si è fermato, proseguendo la corsa. I carabinieri lo hanno fermato all’ingresso dell’autostrada, dopo che lui stesso ha telefonato al 112 per costituirsi. La condizioni lavorative nel magazzino della protesta erano drammatiche. “I lavori più pesanti erano riservati ai migranti”, dice Attilio Fasulo, segretario generale della Cgil di Novara che parla di una situazione portata all’esasperazione. Le parole di Papis sono ben più fendenti: “Quello che sta succedendo nella logistica è razzismo istituzionale, lo stato si è girato dall’altra parte e ha lasciato i lavoratori da soli coi padroni”. Secondo il Si Cobas la paga arriva a novecento euro al mese per anche tredici ore di lavoro al giorno, per sei giorni a settimana. “Ci sono diversi contratti part time, ma i lavoratori sanno quando entrano e non quando escono, superano le 48 ore al mese di media consentite, sotto intimazioni di lavorare più veloci”, dice il sindacalista Luca Esestime. Cgil e Uil rivendicano di aver provato a fare presente la situazione, finché tre settimane fa non è intervenuto il sindacato di base, che ha deciso di organizzare picchetti continui davanti agli hub della logistica. Esestime spiega che anche Adil aveva chiesto un incontro all’azienda, non lo aveva mai ottenuto. In una nota diffusa ieri Lidl definisce la morte del sindacalista “un drammatico incidente” e rivendica “costanti relazioni con le principali organizzazioni sindacali, orientate al dialogo e al confronto reciproco”, confermando quanto la logistica sia percorsa da un profondo conflitto nella gestione delle lotte sul lavoro. Esestime, collega di Adil, riassume la situazione: “Loro, i sindacati confederali, si vantano di firmare i contratti collettivi, noi li facciamo rispettare”. Ieri Si Cobas ha organizzato un picchetto anche alla Dhl di Carpiano, Milano, dove la società Mutechi non vuole nemmeno sedersi al tavolo con loro. Sono settimane che nei loro presidi, che bloccano l’ingresso e l’uscita dei camion dai depositi di merci, accadono episodi di violenza. Il 16 giugno davanti a un magazzino della TexPrint, in provincia di Prato, in Toscana, due soci dell’azienda hanno ferito tre lavoratori colpendoli con pugni e mattoni. Si è rotto il silenzio - Ieri per la prima volta però il silenzio si è rotto a tutti i livelli. Il premier Mario Draghi ha chiesto che si faccia subito luce sulla morte di Adil. Il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha riconosciuto che “nel settore della logistica stiamo assistendo ad una escalation intollerabile di episodi di conflittualità sociale che richiedono risposte urgenti”. Ma intanto l’uomo che Orlando ha scelto nel giorno della morte di Luana D’Orazio per dirigere l’ispettorato nazionale del lavoro, Bruno Giordano, non ha ancora ricevuto il via libera del Csm per lasciare la Cassazione. “Nel mondo della logistica c’è sfruttamento e violazione dei diritti sociali e umani, ferie, aspettative, diritto al riposo e alle pause”, ci dice in attesa che si sblocchi la situazione, “anche la grande distribuzione si deve fare un esame di coscienza”. La Cgil spera che ora si apra il tavolo per il settore “che chiediamo da anni per discutere di sicurezza e appalti nella filiera”, dice il segretario generale della FitCgil Stefano Malorgio. Per incontrare Orlando a maggio i Si Cobas hanno deciso di occupare la sede del Pd. Lo chiamano “il sindacato combattivo”, quello che passa all’azione contro le violazioni dei diritti. Per oggi hanno indetto una manifestazione nazionale a Roma e nel comunicato che annuncia la protesta dichiarano che è in corso “una guerra a tutto campo contro la classe lavoratrice, alimentata dell’omertà delle istituzioni”, ma anche “dal collaborazionismo dei vertici confederali”. La questione generazionale è lo specchio dell’Italia di Tommaso Nannicini Il Domani, 19 giugno 2021 Hanno subito più di tutti, insieme alle donne, i costi della crisi del 2008 e della pandemia del 2020, per colpa di assetti gerontocratici e patriarcali. Sono i giovani italiani, a cui adesso qualcuno pretende di spiegare che la colpa è loro. Serve un “reddito di formazione” che funga da ammortizzatore sociale universale. Una Naspi rafforzata legata a un bilancio delle competenze e a servizi personalizzati di accompagnamento al lavoro. È l’opposto del “teorema Barilla”: un welfare più forte e più a misura di giovani. Non stiamo parlando di politiche per i giovani. Ma di un’altra idea di lavoro: emancipazione, non sfruttamento. E di un’altra idea di welfare: universale, non categoriale. Cornuti e mazziati. Non hanno partecipato al banchetto del debito pubblico e hanno ereditato un paese ingessato da un welfare e da un’organizzazione del lavoro, nel pubblico e nel privato, a uso e consumo delle generazioni più anziane. Hanno subìto più di tutti, insieme alle donne, i costi della crisi del 2008 e della pandemia del 2020, per colpa di assetti gerontocratici e patriarcali. Sono i giovani italiani, a cui adesso qualcuno pretende di spiegare che la colpa è loro. Che devono mettersi in gioco e accettare vecchi tirocini e nuovi voucher, versione Matteo Salvini. O che devono preferire quello che passa il convento ai sussidi, versione Guido Barilla. Dopo il danno, la beffa: nessuna opportunità e una narrazione tossica che li dipinge come bamboccioni. Peccato che il nostro welfare di sussidi ne preveda pochi per i giovani, e che proprio per questo l’unica scelta che rimane è tra venire sfruttati o andare all’estero. Qualcuno obietta: ma le nuove generazioni stanno meglio delle precedenti, c’è più ricchezza, c’è la casa dei genitori, c’è il parcheggio in qualche università. Peccato che non tutti abbiano genitori in grado di sostenerli. E peccato che chi li ha vorrebbe altro, quello che hanno avuto le generazioni precedenti: un ascensore sociale non completamente bloccato, che permetta di mettersi in gioco e costruire il proprio futuro. Il proprio, non quello di altri. Adulti bamboccioni - Salari che crescono solo con l’anzianità; tirocini non pagati e finte partite Iva; una formazione pensata solo per chi la fa; un welfare che si preoccupa di quando mandarti in pensione, non di aiutarti a rischiare e costruire una storia contributiva: sono tutti ingredienti di una ricetta che ha privato intere generazioni del diritto a sognare. I bamboccioni sono gli adulti che hanno fatto queste scelte, non chi le ha subìte. La questione generazionale è lo specchio della questione italiana, del perché il nostro paese non cresce e non investe sulla qualità del lavoro. Il nuovo Pd di Enrico Letta ne ha fatta la sua priorità, creando una “missione giovani” che non sta solo mettendo in fila politiche giovanili, ma sta ridisegnando il cuore dell’indirizzo politico che l’Italia dovrebbe darsi. Le prime partite su cui il Pd ha fatto sentire il suo peso vanno tutte in questa direzione: le condizioni a favore dell’occupazione giovanile e femminile nel Pnrr; la proposta di riformare l’apprendistato e cancellare i tirocini extracurricolari; una pubblica amministrazione che valorizzi l’impegno dei giovani e non un pezzo di carta; una dote universale per liberare la voglia di emancipazione dei diciottenni. Ora queste proposte vanno rafforzate nella discussione pubblica e, soprattutto, vanno inserite in una svolta su tutto: welfare, fisco, politiche industriali scuola e università. Solo se l’Italia riparte, i divari generazionali si riducono. E viceversa. Sul welfare, il reddito di cittadinanza non basta. Se perdi un lavoro, non devi diventare povero perché lo stato ti aiuti. Serve un “reddito di formazione” che funga da ammortizzatore sociale universale per chi perde un lavoro o lo cerca per la prima volta. Una Naspi rafforzata legata a un bilancio delle competenze e a servizi personalizzati di orientamento, formazione e accompagnamento al lavoro. È l’opposto del “teorema Barilla”: un welfare più forte e più a misura di giovani rafforza il loro salario di riserva, l’offerta minima che sono disposti ad accettare, sottraendoli al ricatto dello sfruttamento generazionale. Un’altra idea di lavoro - Non solo, dobbiamo rafforzare la buona contrattazione collettiva dei sindacati più rappresentativi, perché solo da lì può arrivare la garanzia di una giusta retribuzione. Se ci sono filiere produttive o aziende che non riescono a creare lavoro senza sfruttamento, l’Italia del dopo pandemia, e del dopo Pnrr, non deve fare per loro. Per questo quel piano di investimenti va rafforzato con politiche industriali che sostanzino un’idea diversa di qualità del lavoro. Servono politiche fiscali che favoriscano lavoro e investimenti, chiedendo un sacrificio in più a rendita e ricchezza, e che tornino a fare redistribuzione. Servono risorse permanenti su politiche per l’infanzia, scuola, ricerca e università, per combattere la povertà educativa e moltiplicare le opportunità delle nuove generazioni. Non stiamo parlando di politiche per i giovani. Ma di un’altra idea di lavoro: emancipazione, non sfruttamento. E di un’altra idea di welfare: universale, non categoriale. Passa da qui la soluzione alla questione generazionale. Alla questione italiana. La Dad permanente divide gli universitari. I rettori in allarme di Ilaria Venturi La Repubblica, 19 giugno 2021 Il Rapporto 2021 di Almalaurea: le matricole vorrebbero proseguire con la didattica online. I rischi del proliferare di atenei telematici. L’università ha retto l’onda della pandemia meglio della scuola, si è velocemente organizzata per garantire le lezioni. Ma ora all’orizzonte c’è una nube che agita i rettori: il timore che gli studenti, in particolare le matricole, non tornino nelle aule perché in fondo è comodo stare a casa e anche più economico. “Lo smartphone e il pigiama hanno fatto dei danni e noi ora abbiamo una responsabilità supplementare di fronte al Paese: dire alle famiglie e far capire ai ragazzi che devono tornare perché l’università è vita, respiro, contatto, ritmo” il grido di allarme di Ivano Dionigi, presidente di AlmaLaurea, che ieri ha presentato gli annuali rapporti sulla condizione occupazionale e il profilo dei laureati italiani. Non che gli studenti non ne siano convinti. Su oltre 110mila laureandi tra dicembre 2020 e maggio scorso, entrati dunque in università prima della pandemia, il 78,4% preferisce andare a lezione. Ma c’è anche un laurendo su cinque che promuove la formula digitale perché così può risentire le lezioni registrate, non si deve muovere, e si abbattono i costi degli studi. Si tratta di un giudizio che viene da chi è già alla fine del percorso, ma chi si è iscritto un anno e mezzo fa e ha conosciuto solo o in prevalenza la modalità a distanza? Questo il punto. Nell’ultimo mese e mezzo, quando si è potuti tornare in presenza, negli atenei lombardi il fenomeno si è visto: aule mezze vuote. Lo afferma il rettore di Bergamo, ma è un campanello d’allarme condiviso da molti, un dibattito che arriverà alla Conferenza dei rettori (Crui). Osserva il suo presidente, Ferruccio Resta: “La presenza è indispensabile, la didattica a distanza ha funzionato bene come giubbotto di salvataggio, ma ora è tempo di vincere pigrizie e comodità. Un discorso che vale per gli studenti, ma anche per i docenti”. Dunque l’invito è tornare ad affittare case, a spostarsi di nuovo perché fare l’università significa crescere in competenze nella relazione. Al politecnico di Milano Resta ha voluto tutti gli esami della sessione estiva in presenza: “La nostra sfida è essere un sistema di vita”. La paura sottotraccia è che prendano il volo le università telematiche e il tema non è banale perché comunque nessuno degli accademici demonizza il digitale. “Prenderà sempre più piede, ma non sottovalutiamo i giovani: non scelgono scappatoie, ma esperienze di qualità”. Ivano Dionigi, ex rettore di Bologna, leggendo i dati sui laureandi che promuovono le lezioni in presenza s’interroga su chi ha conosciuto l’università al pc: “Non capisco quanti s’incontrano all’apericena e poi non fanno l’esame in presenza”. Un problema politico incalza Dionigi: “Inutile predicare che ci vuole la relazione, bisogna creare le condizioni garantendo il diritto allo studio. I ragazzi hanno cicatrici, buchi culturali: tornare in presenza è il modo per sanarli”. Meno pessimista si dice il rettore di Trieste Roberto Di Lenarda, ma non nasconde: “Dobbiamo sapere come comportarci nel nuovo anno: indurre aspettative sul frequentare tutto un corso a distanza sarebbe sbagliato, non sarebbe sana competizione. La creazione del pensiero si fa dentro alle aule e nei laboratori. È un messaggio a cui non possiamo derogare”. Migranti. Unhcr: la pandemia non ferma la fuga da guerre e persecuzioni La Repubblica, 19 giugno 2021 Più di 82 milioni di profughi. Il doppio di dieci anni fa. Rapporto dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati. Nel 2020 superata di tre milioni di unità la cifra già record del 2019. Aumentato anche il numero degli sfollati interni. Nonostante la pandemia di Covid-19, il numero di persone in fuga da guerre e persecuzioni in tutto il mondo nel 2020 ha superato gli 82 milioni, un numero pari a più del doppio di quello registrato dieci anni fa. È quanto risulta dall’ultimo rapporto dell’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr). Lo scorso anno il numero di persone in cerca di asilo, si legge nel rapporto, è aumentato di altri 3 milioni rispetto a un 2019 già record. Si tratta del nono anno consecutivo di crescita del numero di rifugiati, con le nuove crisi in Etiopia e Mozambico che si sono aggiunte a quelle in corso da lungo tempo in Siria, Yemen, Afghanistan e Somalia, che continuano a causare sfollamenti. Durante la pandemia “tutto il resto si è fermato, comprese le economie, ma le guerre, i conflitti, la violenza, la discriminazione e la persecuzione, tutti fattori che hanno spinto queste persone alla fuga, sono continuati”, ha spiegato Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, all’agenzia Afp. “Nonostante la pandemia, nel 2020 il numero di persone in fuga da guerre, violenze, persecuzioni e violazioni dei diritti umani è salito a quasi 82,4 milioni”, si legge nell’ultimo rapporto annuale Global Trends dell’Unchr, “si tratta di un aumento del quattro per cento rispetto alla cifra record di 79,5 milioni di persone in fuga toccata alla fine del 2019”. Il 42% di tutte le persone costrette alla fuga hanno meno di 18 anni e tra il 2018 e il 2020 quasi un milione di bambini sono nati rifugiati. Il rapporto mostra che “alla fine del 2020 c’erano 20,7 milioni di rifugiati sotto mandato Unhcr, 5,7 milioni di rifugiati palestinesi e 3,9 milioni di venezuelani fuggiti all’estero. 48 milioni di persone erano sfollati all’interno dei loro paesi. Altri 4,1 milioni erano richiedenti asilo. Questi numeri ci dicono che nonostante la pandemia e l’appello per un cessate il fuoco globale, i conflitti hanno continuato a costringere le persone ad abbandonare le proprie case”. Il rapporto rileva anche come “al picco della pandemia nel 2020, oltre 160 paesi avevano chiuso le loro frontiere, con 99 Stati che non facevano eccezioni per le persone in cerca di protezione”. “Eppure, con misure adeguate - come screening medici alle frontiere, certificazione sanitaria o quarantena temporanea all’arrivo, procedure di registrazione semplificate e colloqui a distanza - sempre più paesi hanno trovato il modo di garantire l’accesso all’asilo cercando, allo stesso tempo, di arginare la diffusione della pandemia”, sottolinea l’Unhcr. Mentre la gente continuava a fuggire varcando i confini, altri milioni di persone sono state costrette alla fuga all’interno dei loro stessi paesi. Alimentato soprattutto dalle crisi in Etiopia, Sudan, paesi del Sahel, Mozambico, Yemen, Afghanistan e Colombia, il numero di sfollati interni è aumentato di oltre 2,3 milioni. Nel corso del 2020, circa 3,2 milioni di sfollati interni e solo 251.000 rifugiati sono tornati alle loro case - un calo rispettivamente del 40 e del 21 per cento rispetto al 2019. Altri 33.800 rifugiati sono stati naturalizzati dai loro paesi d’asilo. Il reinsediamento dei rifugiati ha registrato un crollo drastico - l’anno scorso sono stati reinsediati solo 34.400 rifugiati, il livello più basso in 20 anni - una conseguenza del numero ridotto di posti messi a disposizione dagli Stati per il reinsediamento e della pandemia. “Per trovare soluzioni adeguate occorre che i leader globali e le persone influenti mettano da parte le loro differenze, pongano fine a un approccio egoistico alla politica e si concentrino piuttosto sulla prevenzione e sulla risoluzione dei conflitti e sul rispetto dei diritti umani”, ha detto Grandi. Più di due terzi di tutte le persone che sono fuggite all’estero provengono da soli cinque paesi: Siria (6,7 milioni), Venezuela (4,0 milioni), Afghanistan (2,6 milioni), Sud Sudan (2,2 milioni) e Myanmar (1,1 milioni). La stragrande maggioranza dei rifugiati del mondo - quasi nove rifugiati su dieci (86%) - sono ospitati da paesi vicini alle aree di crisi e da paesi a basso e medio reddito. I paesi meno sviluppati hanno dato asilo al 27% del totale. Per il settimo anno consecutivo, la Turchia ha ospitato il numero più alto di rifugiati a livello mondiale (3,7 milioni di rifugiati), seguita da Colombia (1,7 milioni, compresi i venezuelani fuggiti all’estero), Pakistan (1,4 milioni), Uganda (1,4 milioni) e Germania (1,2 milioni). Le domande di asilo in attesa a livello globale sono rimaste ai livelli del 2019 (4,1 milioni), ma gli Stati e l’Unhcr hanno registrato collettivamente circa 1,3 milioni di domande di asilo individuali, un milione in meno rispetto al 2019 (43% in meno). Migranti. Bambini fatti passare per maggiorenni per poterli respingere di Marika Ikonomu Il Domani, 19 giugno 2021 Le denunce del nuovo rapporto di Save the Children “Nascosti in piena vista. Minori migranti in viaggio (attra)verso l’Europa”, realizzato lungo le rotte tra Oulx, Ventimiglia, Udine e Trieste. A fine aprile sono stati censiti sul territorio italiano 6.633 ragazze e ragazzi stranieri non accompagnati. A Mentone, in Francia, le forze di polizia francesi trasformano con un tratto di penna i minori stranieri in maggiorenni. Modificano, cioè, la data di nascita dei bambini, dei ragazzi e delle ragazze che attraversano il confine, perché possano essere respinti verso l’Italia. La denuncia è nel nuovo rapporto dell’organizzazione umanitaria Save the Children dal titolo Nascosti in piena vista. Minori migranti in viaggio (attra)verso l’Europa. Il report è stato realizzato lungo le rotte tra Oulx, Ventimiglia, Udine e Trieste, in occasione della Giornata mondiale del rifugiato. Allo stesso modo la polizia italiana, fino a pochi mesi fa, riammetteva i migranti nel territorio sloveno, senza che venisse effettuato alcun accertamento dell’età, come prevede la legge Zampa, introdotta nel 2017 a garanzia dei minori stranieri non accompagnati, che attraversano paesi e frontiere per raggiungere l’Europa senza genitori. Nel 2020 sono stati 1.301 i respingimenti dalle province di Gorizia e Trieste verso la Slovenia, tra questi c’erano anche minori. Il blocco su quel lato del confine ha modificato le modalità di ingresso in Friuli-Venezia Giulia: il passaggio si è spostato più a nord, nell’entroterra, nella provincia di Udine. I flussi nella regione, nei primi quattro mesi del 2021, sono aumentati del 20 per cento, rispetto agli stessi mesi dell’anno precedente. A fine aprile sono stati censiti sul territorio italiano 6.633 ragazze e ragazzi stranieri non accompagnati. “Ad aprile 2021 gli ingressi registrati in Italia sono stati 453, di cui 149 da sbarchi”, si legge nel rapporto. La maggior parte sono maschi, ma ci sono anche ragazze provenienti da paesi dell’Africa occidentale e il “rischio di tratta e sfruttamento è concreto”. Con l’aumento dei flussi aumentano anche i traumi psicologici, che secondo il rapporto sono legati alle esperienze subite lungo la rotta balcanica. Nelle testimonianze dirette raccolte da Save the Children è ricorrente il racconto di quello che i ragazzi chiamano game, ossia gli svariati tentativi di attraversamento delle frontiere, tra “settimane di cammino e mesi di attesa”. Il numero dei respingimenti è sempre più alto, spesso vengono respinti ai confini esterni dell’Unione europea, come ad esempio al confine croato-bosniaco. Sono stati 1.216 i respingimenti tra Croazia e Bosnia Erzegovina nel mese di aprile 2021, alcuni anche a catena su più confini: sono 170 i minori respinti a catena dalla Slovenia, 5 quelli respinti tra Italia, Slovenia e Croazia. In base alle 84 testimonianze raccolte l’ufficio di Save the Children dei Balcani nord occidentali stima che ogni minore abbia subito almeno sette “respingimenti da parte delle autorità croate per un totale di 451 tentativi di attraversamento della frontiera”. Nel report viene raccontata la storia di Gyasi, un ragazzo di diciassette anni nato in Ciad, ferito a una gamba da un poliziotto libico all’interno di un centro di detenzione. È arrivato in Italia via mare, dopo essere sopravvissuto tre giorni su un gommone in panne ed essere stato recuperato dalla Guardia costiera libica. Passato il confine a Ventimiglia, è stato fermato dalla polizia francese a Mentone, dove ha passato una notte in un container. La Francia, a partire dal 2015, ha reintrodotto i controlli alle frontiere, “giustificandoli con il rischio di infiltrazioni terroristiche”. I respingimenti - Le motivazioni del respingimento sono diverse: la maggiore età, senza che ci sia un adeguato accertamento, la mancanza di un tampone molecolare per rilevare eventuali contagi da Covid o l’insufficienza di denaro per il soggiorno in Francia. Anche Gyasi è stato respinto in Italia e ha raccontato la sua storia a Save the Children: “Ho dichiarato la mia data di nascita, 2004, quella con cui sono stato registrato allo sbarco in Sicilia. Ma non mi hanno creduto e mi hanno riportato in Italia scrivendo sul refus d’entrée una data che mi fa risultare maggiorenne”. Al confine italo-francese nel 2017 si contavano 50mila respinti, 15mila nel 2019 e 20mila nel 2020. Costa d’Avorio, Eritrea, Sudan, Mali, Nigeria, le nazionalità più diffuse tra i ragazzi e le ragazze che attraversano il confine tra Liguria e Francia. La terza via di transito studiata dal rapporto è quella di Oulx, una cittadina della Val di Susa, in provincia di Torino, dove si verificano i respingimenti, da parte della polizia francese, di almeno 60 nuclei familiari al mese. La direttrice dei programmi Italia-Europa di Save the children, Raffaela Milano, denuncia l’indifferenza dell’Unione europea, che nel 2012 ha peraltro ricevuto il premio Nobel nel 2012 per aver contribuito alla pace, alla riconciliazione, alla democrazia e ai diritti umani in Europa. “Non si può più dire “non sapevamo”, continua Milano, “e soprattutto è necessario cambiare rotta subito: gli Stati membri potrebbero gestire virtuosamente questi flussi di minori vulnerabili, non solo in nome della solidarietà, che è un valore fondante, ma anche per cogliere l’opportunità di rendere parte attiva della società tutti questi ragazzi determinati a costruirsi un futuro. La Commissione europea si deve impegnare per arrivare a una raccomandazione agli Stati membri”. Con il rapporto l’organizzazione umanitaria chiede dunque alle istituzioni europee “una protezione immediata, un monitoraggio efficace e indipendente delle frontiere e progetti di assistenza umanitaria nei luoghi di transito”, per i minori stranieri non accompagnati che rischiano la vita per superare confini blindati della fortezza europea. Francia. La nuova barbarie digitale di Bernard-Henri Lévy* La Repubblica, 19 giugno 2021 Il dibattito sul ruolo dei social network. Il presidente della Repubblica Macron ha ragione. Esiste sul serio un imbarbarimento collettivo ascrivibile al successo dei social network. E ciò è dovuto a cinque motivi. Il primo è l’istantaneità dei pensieri che vi si esprimono, il fatto che questi non conoscano più un minimo di distacco, di filtro e, letteralmente, di mediazione. Di conseguenza, i pensieri sui social sono affini a quel linguaggio troppo crudo, troppo presente a sé stesso, troppo intenso che Hegel considerava tra le cause di violenza e ferocia tra gli uomini. Il secondo è l’inganno di questi social che, lungi dal farci socializzare come starebbe a indicare il loro nome, in verità non fanno altro che desocializzarci, con la conseguente illusione di presunti amici che ci amano con un click, che smettono di amarci con un altro click e il cui incremento è segno, come per i non-cittadini di Saint-Just, del fatto che non abbiamo davvero più amici… Falsa ricchezza di autentiche parole a vanvera che si misura in like e follower che dovrebbero apportare maggior valore alle nostre esistenze e, al contrario, ci confinano in una solitudine senza precedenti. In sintesi, regno di un narcisismo che, con il pretesto della connessione, sottolinea la rottura rispetto a tutto quello che un tempo plasmava le comunità, la solidarietà, la fraternità. Terzo: conosciamo la storia del famoso vescovo Dionigi, decapitato dai barbari e che nondimeno attraversò a piedi la collina di Saint-Denis tenendo sottobraccio la sua testa mozzata. Con i meccanismi della Rete, assistiamo a un fenomeno dello stesso tipo, ma su scala planetaria e che interessa tutti gli esseri umani. Oggi non si tratta più della nostra testa, certo, ma della nostra memoria. Non la portiamo più con noi sottobraccio, ma nel palmo delle nostre mani, oppure in fondo a una tasca, considerato che sui nostri smartphone ci alleggeriamo dell’attenzione che consente di risalire consapevolmente a informazioni, situazioni e frammenti di ricordi che dimentichiamo tanto più di buon grado quanto più la tecnologia ci consente di recuperarli a nostro piacimento. In questa dislocazione, in questa esfiltrazione, in questo scaricabarile della nostra facoltà di ricordare affidata alle macchine c’è un fatto antropologico che conduce all’inesorabile atrofizzazione di una facoltà della memoria che, dai tempi di Platone, sappiamo essere uno dei legami più solidi tra gli esseri umani e uno di quelli più adatti a scongiurare il peggio. Quarto, la volontà di verità. Anch’essa crea un legame tra gli uomini. Nel riconoscimento di una verità - il cui amore, se non altro, è condiviso - vi è un’altra ragione concreta che impedisce loro di uccidersi a vicenda. E nondimeno, che cosa è un social network? È la sede di uno slittamento progressivo, di cui non si sono quantificate a sufficienza tutte le conseguenze. Si comincia con il dire: “Tutti hanno pari diritto di esprimere ciò in cui credono”. Poi si passa a: “Tutte le cose espresse in cui si crede godono del medesimo diritto a essere rispettate nello stesso modo”. E poi, ancora: “Se tutte sono rispettabili nello stesso modo, significa che sono tutte valide, importanti e apprezzabili nello stesso modo”. Ecco, è così che, a partire dal desiderio di democratizzare il “coraggio della verità” caro a Michel Foucault e pensando di offrire a tutti il mezzo tecnologico per contribuire all’avventura della conoscenza, si è creato un parlottio globale in cui nulla autorizza più a gerarchizzare o a distinguere tra intelligenza e delirio, tra informazione e fake news, tra ricerca della verità e passione per l’ignoranza. Si tratta di un ritorno, quasi ricalcando l’eleganza greca, di quei celebri sofisti che sostenevano che quella che un tempo chiamavano “la” Verità è un’ombra indistinta in una notte in cui tutte le illusioni sono grigie. E, in questa profusione oscura e assordante in cui si sono trasformati i social network, la verità di ognuno vale quanto quella del suo vicino e ha diritto a tutti i mezzi - assolutamente tutti, fossero pure violenti e financo feroci - atti a imporre la propria legge. E, infine, quinto. Ricordiamo tutti la struttura panoptica teorizzata per le prigioni dal filosofo utilitarista inglese del XVIII secolo Jeremy Bentham, basata su un osservatorio collocato in una torretta centrale che permetteva alle guardie di osservare senza essere viste e ai detenuti, sistemati in celle individuali poste a raggiera attorno a essa, di vivere sotto il loro sguardo. L’originalità dei social consiste nel fatto che quell’occhio non si chiude mai, sorveglia i corpi e penetra nelle anime, viola la loro interiorità rendendola evidente a chiunque e non è più l’occhio di una guardia, di un superiore, di un padrone, bensì di ciascuno di noi. La novità è che questo progetto consistente nel voler vedere tutto, sapere tutto e penetrare nello spirito e nell’intimità altrui è alla portata di qualsiasi nostro vicino in Rete. Nella misura in cui permette ai superiori di spiare i sottoposti, ma anche ai sottoposti di spiare i superiori, e indifferentemente a tutti di controllare o condannare chiunque altro, questo meccanismo neobenthamiano crea un regime politico nuovo che non si può definire né seriamente democratico né distintamente autocratico; che si sarebbe tentati di chiamare scopocratico, in ragione di questa teoria dello sguardo e del voyerismo gaudente a cui esso dà vita; e che viola una delle leggi più antiche della Storia, enunciata dai tempi dei tragici greci a Epidauro e Olimpia: “Uomini, non andate a guardare troppo da vicino - con il rischio di essere accecati o, peggio ancora, imbrattati dal loro sangue - da quel lato dello specchio che è il corpo animale dei vostri simili.” I tragici greci non avevano torto. Da questo furore scopocratico, infatti, nasce depredazione. Una rabbia accusatrice osservata di rado nella storia del genere umano. Un clima di giustizia popolare che viaggia alla velocità della luce virale di una Rete che funziona a pieno regime e crea un’umanità assetata, come gli dèi di Anatole France, non di sangue ma di chiacchiericcio. E, al termine di questa mischia - in cui a ogni istante, o quasi, un’altra testa cade nella cesta panoptica dei nuovi corvi - è in corso una guerra di tutti contro tutti, la cui ferocia nessun Hobbes ha mai immaginato. Come uscire da questo incubo? Lo ignoro. *Traduzione di Anna Bissanti Stati Uniti. Trasparenza anticorruzione di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 19 giugno 2021 L’iniziativa americana con ogni probabilità produrrà effetti anche sul nostro Paese. Nonostante il disciplinato scetticismo sulla possibilità di una effettiva concretizzazione dell’impegno contro la corruzione, annunciato dall’allora candidato alla presidenza degli Stati Uniti Joe Biden, con il saggio “Why America Must Lead Again” pubblicato nella edizione della primavera scorsa di Foreign Policy, bisogna prendere atto che la promessa è stata traslata nel memorandum recentemente firmato con il quale l’anticorruzione è stata posta come una questione di sicurezza nazionale. Si tratta di una iniziativa che con ogni probabilità produrrà degli effetti anche sul nostro Paese, quantomeno sotto due angolazioni. La prima è che, avendo acquisito piena consapevolezza che la corruzione esula dalla dimensione nazionale, potrà ora essere effettivamente realizzata una disciplina di contrasto uniforme a livello globale, partendo dalla “Convenzione delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata transnazionale” (Palermo 2020). In questa prospettiva si colloca opportunamente la Procura Europea, istituita nel 2017 ma operativa dal primo giugno scorso, incaricata di vigilare sull’utilizzo dei fondi europei e combattere frodi e corruzione. Inoltre, ma non meno importante, è l’implementazione anch’essa stimolata dal memorandum Biden del valore della “trasparenza” in quanto elemento fondamentale per la lotta alla corruzione. A ben vedere è proprio questo il punto più di altri meritevole di attenzione e analisi, al fine di approdare a una concezione più moderna ed efficace del concetto di trasparenza. Ovviamente non sono in discussione le riforme essenziali per le quali sono già stati avviati i lavori preparatori. Né tantomeno si intende ignorare ciò che è stato ben spiegato da Michele Corradino, ovvero che un’arma potente è il “controllo sociale diffuso” unitamente al metodo “Follow the money” elaborato da Giovanni Falcone. Tuttavia per quanto concerne espressamente la corruzione bisogna realisticamente prendere atto di quanto segnalato dal Greco (l’organo anticorruzione del Consiglio d’Europa) sul rischio di un suo aumento in ragione della forte immissione di denaro nell’economia e per i rilievi di lentezza dell’Italia nell’attuare iniziative legislative idonee per sconfiggerla. Sarebbe ingiustificato non dare atto che non pochi passi in avanti sono stati fatti. Basti considerare la elevazione della trasparenza a vero e proprio diritto quando nel passato rappresentava una mera concessione delle Pubbliche amministrazioni al cittadino allorquando lo stesso richiedeva di poter accedere alle informazioni concernenti la loro organizzazione e l’attività svolte. Un risultato che è stato possibile raggiungere anche grazie alla ispirazione del “Freedom Read Of Information Act” cioè la legge sulla libertà di informazioni emanata nel lontano luglio del 1966 dal presidente Lyndon B. Johnson che consente a chiunque di poter conoscere le modalità operative del governo federale. Come si diceva molta acqua è passata sotto i ponti, ma siamo ancora lontani dalla meta. La chiave di volta, anche in ragione della accelerazione sollecitata dall’Europa, passa proprio dalla interpretazione evolutiva del principio di trasparenza; uno strumento ancora limitato nel nostro ordinamento per ingiustificati motivi culturali anche se attraverso lo stesso, avvalendosi di regole già esistenti ma troppo spesso disapplicate, è possibile accertare casi di abuso da parte di soggetti che in forza del loro potere pubblico conseguono vantaggi privati. In altri termini un ragionevole e proporzionato utilizzo del principio di trasparenza, sia pure nel pieno rispetto della tutela della riservatezza, la cui violazione non può esservi in nessun caso, è il vero percorso da seguire.