In carcere 26.385 detenuti con una pena inferiore ai tre anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 giugno 2021 Sono i dati della relazione annuale che Mauro Palma, presidente del collegio del Garante nazionale delle persone private della libertà, illustrerà lunedì prossimo in Parlamento. Lunedì prossimo, 21 giugno, ci sarà la relazione annuale al Parlamento del Garante nazionale delle persone private della libertà. Alle ore 11 il saluto del presidente della Camera Roberto Fico, dopodiché verrà presentata la relazione da Mauro Palma, presidente del Garante nazione, infine cisarà il saluto di chiusura della ministra della Giustizia Marta Cartabia. La relazione si articola in varie sezioni. La relazione del Garante Mauro Palma, prima parte: il “populismo penale” - La prima parte di divide in diversi capitoli. Nello specifico, il primo riguarda l’analisi del fenomeno del cosiddetto “populismo penale” che secondo il Garante ha trovato espressione nel contrasto alle detenzioni domiciliari concesse per consentire al sistema penitenziario di prevenire il contagio all’interno degli Istituti. Il secondo è quello relativo all’adozione delle navi quarantena per le persone migranti che arrivano irregolarmente in Italia. Il terzo è sulle Residenze sanitarie assistenziali per persone anziane che con il Covid sono divenute manifestamente dei luoghi chiusi. Il quarto capitolo riguarda l’introduzione, in base al decreto-legge 21 ottobre 2020 n. 130, del diritto di reclamo per i migranti trattenuti. Il quinto capitolo dal titolo “Ordine dentro, ordine fuori” è sul rapporto tra le forze di polizia interne agli Istituti penitenziari e quelle che agiscono all’esterno, questione emersa con forza nel dibattito successivo ai gravi disordini scoppiati in carcere nel marzo 2020. Infine si affronta il tema riguardante la designazione in norma primaria del Garante nazionale quale National preventive mechanism (Npm) in base al Protocollo Onu sulla prevenzione della tortura-Opcat e la modifica del nome del Garante nazionale con l’eliminazione del riferimento al termine “detenuti”. I dati: la popolazione detenuta è in flessione - Veniamo ai dati che riguardano il tema penale. Il Garante nazionale ne anticipa alcuni. Se il 2020 era iniziato con 60.971 presenze negli Istituti penitenziari, il 2021 è iniziato con 53.329. La popolazione detenuta, quindi, ha avuto una flessione. La decrescita, secondo il Garante, ovviamente è dipesa dai minori ingressi dalla libertà e dal maggiore ricorso alla detenzione domiciliare (principalmente dovuta a maggiore attività della magistratura di sorveglianza, piuttosto che all’efficacia dei provvedimenti governativi adottati). Il Garante nazionale sottolinea la pur limitata ripresa della crescita dei numeri che determina l’attuale registrazione di 53.661 (al 7 giugno 2021) persone, anche se il numero di coloro che sono effettivamente presenti è 52.634, usufruendo gli altri della licenza prolungata nella semilibertà. La capienza è di 50.781 posti, di cui effettivamente disponibili 47.445. La durata delle pene - Il Garante anticipa anche due questioni sulla durata delle pene che possono essere utili al dibattito attuale: 26.385 devono rimanere in carcere per meno di tre anni (di questi, 7.123 hanno avuto una pena inflitta inferiore ai tre anni). Gli ergastolani sono 1.779 di cui ostativi 1.259; la liberazione condizionale di cui molto si dibatte è stata data a un ergastolano (ovviamente non ostativo) nel 2019, a quattro nel 2020, a nessuno nel 2021. Degna di nota la quarta parte denominata “Orizzonti”. Lo sguardo è rivolto al futuro e alle linee di azioni che il Garante intende aprire o sviluppare nel dialogo con il Parlamento. Il primo tema riguarda l’intervento legislativo che dovrà seguire nel corso dell’anno la pronuncia della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo; il secondo tratta la nota questione del riconoscimento della cittadinanza delle cosiddette “seconde generazioni”; il terzo è relativo alla necessità di portare a compimento il Regolamento unico dei Centri per il rimpatrio; il quarto concerne l’esigenza di rivedere complessivamente il sistema delle misure di sicurezza e in particolare di superare le problematicità delle Residenze per le misure di sicurezza di tipo psichiatrico (Rems) senza snaturarne le caratteristiche che hanno segnato il superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, ciò anche in considerazione dell’imminente pronuncia della Corte europea dei diritti umani. L’ultimo argomento attiene alla necessità di un intervento regolativo che renda effettiva applicazione ai principi della cosiddetta “Legge Zampa” sulla determinazione dell’età dei minori stranieri non accompagnati. I giudici l’hanno condannato: ora l’ergastolo va abolito davvero di Matteo Zamboni Il Riformista, 18 giugno 2021 Il Consiglio d’Europa ha chiesto all’Italia di presentare entro il 15 dicembre un piano di riforma, la Consulta ha dato al parlamento un anno. Va assicurato che le vittorie nelle corti portino a un cambiamento reale per 1.700 sepolti vivi. Il 7 giugno si è aperta dinnanzi al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europea a Strasburgo la procedura di supervisione dell’esecuzione della sentenza Viola contro Italia del giugno 2019, con la quale la Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha sancito che l’ergastolo ostativo viola l’articolo 3 della Convenzione. Abilitato a monitorare lo stato della sua applicazione in concreto, Nessuno tocchi Caino ha inviato aggiornamenti al Comitato, risposto al piano presentato dal (precedente) Governo italiano, sollecitato l’apertura di un dibattito pubblico sulle possibili alternative al regime del carcere ostativo, chiesto al Parlamento di calendarizzare un progetto di riforma dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Non è un caso che sia la Cedu sia la Corte costituzionale abbiano demandato al Parlamento il compito di elaborare una riforma dell’art. 4-bis in grado di superare la equiparazione fra collaborazione e ravvedimento, garantendo il bilanciamento di tutti gli interessi in gioco. Come è noto, i giudici della Consulta hanno concesso al Legislatore un anno di tempo per approvare una riforma rimandando a maggio 2022 la scure della dichiarazione formale di illegittimità costituzionale. La Cedu, invece, non ha il potere di annullare la legge, ma quello di indicare all’Italia, se non altro per evitare condanne a catena, le modifiche necessarie volte a superare le violazioni gravi sofferte dal ricorrente che discendono direttamente dall’applicazione della legge. Le procedure, dunque, sono diverse. Ma è innegabile che siano intimamente connesse. Per questo Nessuno tocchi Caino ha intrapreso iniziative in entrambi i procedimenti, trasmettendo un intervento amicus curiae alla Consulta e partecipando attivamente alla procedura di supervisione dell’esecuzione della sentenza Viola aperta di fronte al Comitato dei Ministri che “controlla” le misure proposte dai Governi nazionali. Nel caso Viola, Nessuno tocchi Caino ha richiesto al Comitato dei Ministri di “assicurare un dibattito sobrio, aperto e costruttivo” in merito alle possibili alternative al regime ostativo, senza fughe in avanti, ma anche senza rimettere in discussione le decisioni raggiunte dalla Cedu e dalla Corte costituzionale, “nello spirito di massima trasparenza e collaborazione fra istituzioni e società civile”. Inoltre, Nessuno tocchi Caino ha chiesto ai delegati europei di imporre all’Italia un termine preciso entro il quale presentare un progetto di riforma della disciplina. Tali esortazioni sono state di fatto accolte dal Comitato, tant’è che il 9 giugno ha chiesto al Governo di presentare un piano di riforma del regime ostativo entro il 15 dicembre 2021, un termine evidentemente pensato come passaggio interlocutorio per l’approvazione di una legge entro maggio 2022, come chiesto dalla Corte costituzionale. Il discorso dei diritti umani sta progressivamente spostando l’attenzione dalla fase del contenzioso alla fase dell’esecuzione. In questo ambito, tutti gli studi dimostrano che, se non sono condivisi ai diversi livelli del corpo sociale (dalle istituzioni, alla società civile, ai media, alle scuole e alle Università), i principi sanciti nelle sentenze delle più alte giurisdizioni nazionali e internazionali rimangono lettera morta. Per questo, Nessuno tocchi Caino considera il procedimento di esecuzione della sentenza Viola di fronte al Comitato dei Ministri una ulteriore occasione per portare avanti un serio tentativo di superamento del regime ostativo. Tutta la giurisprudenza della Cedu e della Corte costituzionale in materia di ergastolo sono basate sul presupposto che non solo le persone cambiano ma che cambiano anche le società stesse, e pratiche che un tempo erano comuni, come per esempio l’esecuzione capitale, da un certo momento in poi diventano inaccettabili. Questo processo di sedimentazione e cambiamento passa anche dalle, ma non si esaurisce nelle, sentenze. Per questo, occorre passare dalla pars destruens alla pars construens, assicurare che le vittorie giuridiche di questi anni portino a un vero cambiamento della realtà, in questo caso, del destino delle oltre 1.700 persone che stanno ancora scontando la pena senza speranza dell’ergastolo ostativo. A tutela delle persone private della libertà di Anna Lisa Antonucci L’Osservatore Romano, 18 giugno 2021 La modifica del nome del Garante nazionale. Potrebbe sembrare inessenziale ma la modifica del nome della figura del “Garante nazionale delle persone detenute” da cui è stato cancellato, per decreto, il termine “persone detenute” in favore della dizione “persone private della libertà personale” ha un significato importante. Il cambiamento riconosce infatti l’estensione del mandato del Garante rispetto alle diverse e differenti aree di intervento, come i centri di accoglienza per immigrati o le residenze sanitarie assistenziali, superando il rischio che i suoi compiti rimangano ancorati a uno solo degli ambiti della sua azione, quello appunto della detenzione penale. E il 2020 ha dimostrato come l’opera del Garante sia stata importante, ad esempio, nel sollevare il velo sulla situazione di inaccessibilità delle Case di riposo, dove il Covid ha colpito più duramente, ma che la necessità di distanziamento e isolamento ha trasformato in fortezze impermeabili all’esterno. Ciò ha compromesso il benessere degli ospiti, anziani e persone con disabilità, privati dell’opportunità di relazionarsi con gli altri e con i propri cari. “Ne è risultata una tutela essenzialmente biologica della vita, in molti casi nel suo tratto terminale, svincolata dal concetto ampio della persona e della vita stessa a cui fanno riferimento gli strumenti di tutela dei diritti umani” rileva la Relazione annuale al Parlamento, che verrà presentata lunedì alla Camera dal Garante, Mauro Palma. Una realtà “dimenticata’” questa delle residenze per anziani e disabili, con un totale di 420.329 posti letto, di cui 312.656 per anziani - 85.932 posti in Lombardia - 44.555 in tutto il Sud, che la drammaticità dell’ultimo periodo vissuto ha dimostrato, secondo il Garante, necessitare di maggiore attenzione. Così come, secondo il Garante, necessità di maggiore solidarietà la salute dei detenuti messa a rischio, nell’anno appena trascorso, da un “populismo penale” che si è scatenato contro le detenzioni domiciliari concesse per consentire al sistema penitenziario di prevenire il contagio all’interno degli Istituti. Garantire un distanziamento sociale all’interno delle carceri in cui nel febbraio 2020 erano recluse oltre 61 mila persone era, infatti, impensabile. Ma alle misure e ai provvedimenti deflattivi adottati dal governo e dalla magistratura si è immediatamente contrapposta la campagna mediatica della politica, “particolarmente pervasiva su una collettività inasprita dalle sofferenze e dalle privazioni della pandemia che ha veicolato l’idea di scarcerazioni facili a vantaggio di chi avrebbe ricevuto un beneficio dal Covid”. Si è trattato di “un messaggio crudo e brutale - rileva il Garante - del tutto indifferente alla realtà che ha investito il sistema penitenziario italiano mettendolo di fronte alle sue carenze strutturali, igieniche e organizzative”. Nonostante ciò, “grazie all’operato responsabile della magistratura di sorveglianza”, sottolinea il Garante, si è arrivati ad una riduzione sensibile della popolazione detenuta che a dicembre 2020 è scesa a 53 mila persone recluse. Riguardo ai migranti la Relazione affronta due diverse novità introdotte, la prima la quarantena in mare per coloro che arrivano irregolarmente in Italia e la seconda l’introduzione del meccanismo di reclamo, che le persone trattenute nei centri per immigrati possono rivolgere ai Garanti per contestare le modalità esecutive della misura restrittiva. La prima, secondo il Garante, pur essendo una soluzione comprensibile in un momento di crisi sanitaria “non può costituire un modello per le procedure di ingresso, replicabile al di fuori del periodo di emergenza epidemiologica”. Il 2020 però, secondo quanto rileva la Relazione, ha anche “segnato un cambio di direzione nella tutela delle persone migranti presenti nel Paese”. Tra queste appunto il dare voce a coloro che varcano la soglia dei luoghi di detenzione amministrativa che ora, con l’introduzione del reclamo, “hanno la possibilità di autodeterminarsi rispetto alla tutela della propria dignità e delle condizioni di vita patite all’interno delle strutture”. Una realtà quella dei Centri di permanenza per i rimpatri in Italia con solo il 50,88 per cento delle persone in essi trattenute effettivamente rimpatriate. “Un dato che pone seri interrogativi circa la legittimità di un trattenimento finalizzato a un obiettivo che si sa in circa nella metà dei casi non raggiungibile”, conclude il Garante. Perché lo Stato di diritto non vale per Cesare Battisti? di Nicola Mirenzi huffingtonpost.it, 18 giugno 2021 L’ex terrorista in sciopero della fame. Forse sulla nostra giustizia i francesi non avevano tutti i torti. Sabato Cesare Battisti è svenuto. È in sciopero della fame nel carcere di Rossano Calabro da undici giorni, per protestare contro il regime carcerario di alta sicurezza che gli è stato attribuito. Il suo avvocato, Davide Steccanella, che oggi ha avuto una videochiamata con lui, dice che è “visibilmente abbattuto” e che “ha perso circa 8,5 chili dall’inizio della protesta”. Battisti ha sessantasei anni ed è affetto da varie patologie. Tuttavia, dice Steccanella, “parla con totale lucidità dell’idea di non tornare indietro dalla sua decisione di uscire, vivo o morto, dal corridoio dell’Isis”. Cinque giorni fa, Battisti ha scritto una lettera ai propri cari, per chiedergli un ultimo sforzo: “Quello di comprendere le ragioni che mi spingono a lottare fino all’ultima conseguenza in nome del diritto alla dignità”. Le sue parole, pubblicate dal “Riformista”, hanno suscitato qualche ironia sulla “gauche caviar” e un titolo liquidatorio del Secolo d’Italia, che dice: “Cesare Battisti frigna ancora sul trasferimento”. In solidarietà, su Facebook, è stato promosso un “Digiuno staffetta per Cesare Battisti”. Il gruppo, al momento, ha ottantanove iscritti. Le altre coscienze democratiche del Paese non sono state scosse dalla vicenda. Anche se di mezzo c’è una questione che riguarda il diritto. Dunque, ciascuno di noi. Battisti è stato condannato all’ergastolo, nel 1993, dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano. È stato ritenuto responsabile di quattro omicidi, più furti, rapine, violenze private, detenzione illegale di armi, tutti reati commessi tra il 1978 e il 1979, come militante dell’organizzazione Proletari armati per il comunismo. Quando, all’inizio del 2019, è stato riportato in Italia, il suo avvocato ha chiesto che la sua pena venisse commutata a trent’anni di carcere. Il tribunale di Milano ha rigettato l’istanza e ha scritto che “sarà la magistratura di sorveglianza a valutare se e quando Cesare Battisti potrà godere dei benefici penitenziari”. Il tribunale di Milano ha ribadito che Battisti sconterà l’ergastolo, specificando che dovrà stare in isolamento sei mesi. Il dettaglio giuridicamente significativo è che i sei mesi sono passati, ma il regime di isolamento in cui Battisti è detenuto no, da oltre due anni. “Secondo la legge - dice l’avvocato Steccanella - dal 14 giugno 2019 Cesare Battisti dovrebbe essere detenuto in regime ordinario”. Tuttavia, fino al settembre del 2020, Battisti è stato detenuto a Oristano, in regime di alta sorveglianza, in un carcere in cui non c’erano altri detenuti classificati come lui, dunque di fatto in isolamento, perché quel regime impedisce il contatto con detenuti diversamente classificati. Battisti, scrive l’avvocato Steccanella in una lettera inviata al Ministero della giustizia, ha passato più di un anno “in palese violazione di quanto stabilito dal giudice e dalle leggi italiane”. Ora Cesare Battisti si trova nel carcere di Rossano Calabro. Il ministero dell’interno l’ha trasferito lì dopo le proteste del detenuto e un piccolo clamore che la vicenda ha avuto sui media. “Questo carcere - dice il suo avvocato - è ancora più distante e difficile da raggiungere del precedente, sia per i familiari, sia per me, che sono il suo legale”. Ma il problema più rilevante - dice l’avvocato - è che è stato collocato nello speciale “padiglione di massima sicurezza riservato agli accusati di terrorismo islamico”, pur essendo Battisti estraneo al jihadismo, dunque “di fatto isolato” ancora una volta. L’avvocato Steccanella descrive la cella in cui Battisti è rinchiuso “minuscola” e “priva di luce solare” e sostiene che nel carcere di Rossano “risulta privato della possibilità di svolgere attività alcuna, compresa l’ora d’aria per camminare”. A febbraio di quest’anno, Steccanella ha scritto l’ultima volta al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per chiedere quali sono le ragioni che hanno spinto il Dipartimento del ministero dell’interno a classificare Cesare Battisti nel regime di “Alta sorveglianza 2”, dal momento che i reati per cui è stato condannato risalgono a più di quarant’anni fa e sono avvenuti in un contesto politico e sociale completamente diverso da quello attuale. Nessuno, però, ha mai risposto alle domande dell’avvocato Steccanella. Così il 12 maggio, dopo l’arresto in Francia di sette ex terroristi, e approfittando di un’intervista alla ministra Marta Cartabia, in cui Cartabia spiegava che lo stato italiano non vuole vendetta, bensì giustizia, Steccanella ha scritto anche a lei. “Spettabile Ministro...”. Anche stavolta, nessuna risposta. Vittorio Sgarbi, che è l’unico parlamentare che è andato a far visita a Battisti a Rossano, mi dice che il “Battisti che ho incontrato è un altro uomo rispetto a quello che ha compiuto quei crimini”. E chissà se ci si rende conto che il rischio è di dare ragione a chi ha avuto torto. Più di quindici anni fa, Guillame Perrault (oggi capo delle pagine dei commenti del Figaro) scrisse in Francia un libro, “Génération Battisti”, in cui accusava la politica, il giornalismo e gli intellettuali francesi di aver disconosciuto per anni il dolore delle vittime del terrorismo italiano e la storia del nostro Paese. Nessuno di loro parlava mai di chi era morto, della speciale situazione storica in cui si trovò l’Italia in quegli anni. Erano tutti troppo presi a considerare le leggi italiane come illiberali e lesive dei diritti individuali. Quando i sette ex terroristi italiani sono stati arrestati in Francia, Perrault è tornato sull’argomento denunciando “il delirio ideologico” che ha accompagnato culturalmente la vicenda degli ex terroristi in Francia e confidando che, una volta consegnate nelle mani dello stato italiano, quelle persone sarebbero state trattate secondo le regole di uno stato di diritto. Oggi l’Italia chiede l’estradizione di quegli uomini e di quelle donne. E sarebbe sgradevole smentire la fiducia che Perrault ha risposto nelle nostre istituzioni, e anche macchiare la credibilità che l’Italia si è conquistata all’estero, per il trattamento che invece sta riservando a Cesare Battisti. Soprattutto, dopo che è passata liscia la parata che Salvini e Bonafede organizzarono quando Cesare Battisti venne riportato in Italia, mostrando bene all’opinione pubblica che la preda era ormai in gabbia. O bisogna pensare che si trattava, in realtà, di un manifesto programmatico nazionale? Più efficienza, più garanzie. La riforma della giustizia secondo la commissione Lattanzi di Giovanni Fiandaca Il Foglio, 18 giugno 2021 Per indagini e processo maggiore trasparenza e rapidità. Dalla revisione del giudizio abbreviato alla prescrizione, una svolta nella giusta direzione. La commissione ministeriale di studio nominata dalla ministra Cartabia nello scorso marzo, e presieduta dall’ex presidente della Consulta Giorgio Lattanzi, ha già elaborato un insieme di proposte di riforma della giustizia penale che meritano grande attenzione. 1. La prima parte della relazione della commissione contiene le proposte di revisione del processo penale, sulle quali è destinata a concentrarsi gran parte dell’interesse dei commentatori, considerato che in questa contingenza storica il problema dell’efficienza della macchina giudiziaria è divenuto - a torto o a ragione - preoccupazione prioritaria (mentre è forse sottovalutato l’altro versante del problema, relativo cioè al tipo di cultura giudiziale che tende a predominare tra i magistrati penali, come ho più volte rilevato anche su queste colonne). Nelle linee ispiratrici, le innovazioni progettate appaiono accomunate dall’obiettivo di ridurre i tempi di durata del processo grazie ad un articolato spettro di modifiche che - nella scia di indicazioni provenienti dalle fonti europee e dall’evoluzione sia della giurisprudenza costituzionale sia della dottrina processualistica - mirano a coniugare recupero di efficienza, maggiore adeguamento delle strutture processuali alla logica del processo accusatorio e potenziamento delle garanzie individuali. Questa apprezzabile ispirazione di fondo sfocia - tentando una sintesi pur sommaria dei punti più qualificanti - in proposte volte, innanzitutto, a disciplinare con maggiore rigore i tempi e a rafforzare la dimensione garantistica delle indagini preliminari, prevedendo in proposito un adeguato controllo giurisdizionale e definendo meglio i presupposti dell’iscrizione dell’indagato nel registro delle notizie di reato. Inoltre, è in linea di principio meritevole di molta considerazione la proposta (già avversata, non a caso, per preconcetta rigidità ideologica dal Movimento 5 stelle) di garantire maggiore trasparenza alla gestione delle notizie di reato, affidando al Parlamento il potere di stabilire periodicamente i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale. Degna della massima attenzione appare, poi, la previsione innovativa di una “archiviazione meritata” (applicabile alla fascia dei reati sanzionati con pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni) quale strumento di desistenza dall’azione penale, nei casi in cui l’indagato scelga liberamente di compensare gli interessi lesi dal reato mediante prestazioni a favore della vittima o della collettività: il pregio di questo modello archiviatorio consiste, a ben vedere, nel combinare la funzione deflattiva con quella riparativa. Coerente con le finalità di politica processuale prese di mira è, altresì, il novero di proposte tendenti in vario modo ad ampliare l’accesso ai cosiddetti riti alternativi (patteggiamento e giudizio abbreviato), fino a oggi purtroppo largamente sottoutilizzati a smentita della ottimistica previsione del legislatore del 1988, così da potere ripuntare all’obiettivo di destinare al dibattimento un numero il più possibile circoscritto di casi. In questa prospettiva, ad esempio la disciplina del patteggiamento viene riveduta anche nei termini di una più ampia negoziabilità, tra la difesa e il pubblico ministero, del trattamento sanzionatorio complessivo (incluse le pene accessorie e le ipotesi non obbligatorie di confisca). Molto innovativa la revisione del giudizio abbreviato, imperniata su di una distinzione netta tra l’abbreviato cosiddetto secco (richiesta di definizione allo stato degli atti) e l’abbreviato cosiddetto condizionato (richiesta subordinata cioè all’integrazione probatoria), con corrispondente differenziazione dei giudici destinatari della richiesta e altresì degli sconti di pena. Proposte tutte meritevoli di considerazione, queste, a prescindere da eventuali riserve su singoli punti passibili di correzione. Infine, è disegnata una organica riforma del sistema delle impugnazioni mirante a ristrutturarne la disciplina alla stregua delle fonti europee e di un’interpretazione costituzionale evolutiva del principio del contraddittorio, quale architrave del processo accusatorio. Richiamando le proposte principali, va subito evidenziata la previsione della inappellabilità delle sentenze di condanna e di proscioglimento da parte del pubblico ministero, cioè una proposta che può peraltro risollecitare la non nuova obiezione che finisce in questo modo con l’essere violato il principio della “parità delle armi” tra accusa e difesa quale presupposto di un giusto processo (cfr. ad esempio le obiezioni di Gustavo Zagrebelsky, su Repubblica del 14 maggio 2021). Senonché, come è disposto a riconoscere anche un valoroso ex magistrato d’accusa (cfr. l’articolo di Nello Rossi ne Il dubbio del 29 maggio 2021), la stessa giurisprudenza costituzionale ha di recente sempre più sottolineato la “diversa quotazione costituzionale” del rispettivo potere di impugnazione della parte pubblica e della parte privata. Nel senso che, mentre l’appello dell’imputato funge da strumento di esercizio del diritto costituzionale di difesa, il potere di impugnazione del pm è da concepire come finalizzato soprattutto ad assicurare la corretta applicazione della legge nel caso concreto: per cui - secondo l’orientamento prevalente dei commissari - esso può essere adeguatamente esercitato con un mezzo diverso dall’appello, vale a dire con il ricorso in Cassazione. Si tratta, invero, di una tesi che non ha mancato di ricevere condivisioni autorevoli, anche all’interno dell’ordine giudiziario. L’altra proposta degna di nota, che presta il fianco però a comprensibili riserve critiche in particolare da parte dell’avvocatura, consiste nella concomitante introduzione di limiti e vincoli alla facoltà di appellare della stessa pare privata: per un verso, precludendo l’appellabilità delle sentenze di condanna a pena di attenuata afflittività; per altro verso, trasformando il giudizio di appello in uno “strumento a critica vincolata” della pronuncia di primo grado, e ciò grazie alla previsione legislativa dei motivi per i quali - a pena di inammissibilità - l’appello stesso può essere proposto. A uno sguardo d’insieme, tutte le ipotesi di riforma in materia processuale sopra accennate - al di là della maggiore o minore condivisibilità del contenuto specifico di ciascuna- appaiono frutto di una elaborazione propositiva di livello tecnico sempre notevole. 2. La seconda parte della relazione Lattanzi è dedicata al tema controverso, e anche politicamente molto divisivo, della prescrizione. Forse non è inutile premettere, a beneficio del lettore comune, che si tratta di un istituto giuridico incentrato sui rapporti tra il reato e il decorso del tempo, il quale è presente in pressoché tutti gli ordinamenti moderni, ma che riceve discipline differenziate da paese a paese nonostante esso abbia sempre alla base fondamenti giustificativi analoghi: rilevanti da un lato sul piano del diritto penale cosiddetto sostanziale - cioè del sistema dei delitti e delle pene - e, dall’altro, sul piano processuale (tra i giuristi, il rispettivo peso dei fondamenti riconducibili all’uno e all’altro dei due versanti è soggetto a variazioni connesse alle mutevoli contingenze storiche e all’evoluzione della riflessione dottrinale, per cui non sorprende troppo che oggi in Italia venga in primo piano il nesso tra prescrizione e durata del processo). In sintesi, le ragioni sostanziali si basano sul duplice rilievo che, più tempo decorre dalla commissione del reato, più la memoria sociale del fatto criminoso tende a sbiadire e, nello stesso tempo, una pena ritardata rischia di perdere senso e di risultare superflua in conseguenza dei possibili cambiamenti positivi sopravvenuti nella persona dell’autore. Mentre le ragioni processuali poggiano sulla presa d’atto che, più tempo passa, oggettivamente più difficile diventa l’accertamento probatorio di un reato ormai lontano, nonché sulla ineludibile esigenza di garantire al cittadino la tutela del suo diritto fondamentale a una ragionevole durata del processo. Orbene, una equilibrata disciplina o (riforma) della prescrizione dovrebbe in ogni caso misurarsi con l’insieme complessivo delle giustificazioni adducibili a suo fondamento; ragion per cui un legislatore saggio dovrebbe guardarsi dalla tentazione di privilegiare unilaterali estremismi, spiegabili magari nel quadro di politiche penali contingentemente orientate ad assecondare pulsioni repressive diffuse, ma poco compatibili in realtà con i principi costituzionali che dovrebbero in teoria presiedere alla regolamentazione dell’istituto in discorso. Fatte queste premesse, va detto subito che la commissione Lattanzi lascia immutata la norma del codice penale (art. 157) che fissa per così dire le soglie temporali dell’oblio, ricollegando il tempo prescrizionale - per effetto della nota quanto criticabile riforma del 2005 - al massimo della pena edittale legislativamente prevista per ogni reato. Tuttavia, nella relazione i commissari rilevano giustamente che una riforma di più ampio respiro dovrebbe, in linea teorica, includere anche una revisione razionalizzatrice degli attuali termini prescrizionali, in modo da rimediare ai più volte segnalati effetti negativi derivanti dalla cosiddetta legge ex Cirielli. Il punto su cui invece la commissione ministeriale interviene riguarda la sospensione del decorso della prescrizione durante lo svolgimento del processo: è questo il versante cruciale che ha dato luogo ai maggiori problemi pratici a causa della diffusa patologia della lungaggine dei processi, che ha in non pochi casi appunto come conseguenza la maturazione del termine prescrizionale del reato prima che la verifica processuale giunga a compimento. Non a caso, in proposito il legislatore è intervenuto più di una volta e, da ultimo, con la radicale e contestatissima riforma Bonafede di cui alla l. n. 3/2019, che ha com’è noto bloccato in via definitiva il decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Ispirata a un estremismo punitivista foriero del rischio concreto di futuri processi senza fine (qualcuno è giunto, non a torto, a evocare icasticamente l’angosciante fantasma di un “ergastolo processuale”!), questa drastica soluzione è andata comprensibilmente incontro fuori dall’area pentastellata a un coro crescente di voci critiche, di fonte sia politica che tecnica. Orbene, in luogo del blocco dopo la sentenza di primo grado la commissione Lattanzi prospetta due proposte di riforma della prescrizione formulate in alternativa (e destinate a riscrivere l’art. 14 d.d.l. A.C. 2435): la prima incide sulla sospensione del termine prescrizionale, ponendosi fondamentalmente in linea di continuità con le precedenti riforme Orlando del 2017 e Bonafede del 2019; la seconda proposta si colloca invece in una prospettiva di più radicale innovazione, delineando un modello di disciplina che riecheggia quello di altri ordinamenti (ad esempio statunitense). a) Più in particolare, l’ipotesi di riforma A riscrive il secondo comma dell’art. 159 del codice penale, prevedendo che dopo la sentenza di condanna di primo grado, e dopo la sentenza di appello che conferma la condanna, la prescrizione rimane sospesa - rispettivamente - per due anni e per un anno. Se entro i periodi suddetti non sopravviene la pubblicazione della sentenza di appello o di quella della Corte di Cassazione, la prescrizione riprende il suo corso e il periodo di sospensione viene computato ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere. Considerata nell’insieme, la previsione di questa “sospensione condizionata” alla definizione in tempo utile del processo tende a contemperare l’esigenza di ridurre l’impatto negativo della prescrizione con quella di prevenire il rischio di processi irragionevolmente lunghi. b) L’ipotesi alternativa di riforma B è, invece, più radicale e innovativa perché spezza il collegamento tra il tempo entro cui lo Stato mantiene in vita la sua pretesa punitiva e i tempi del processo: consentendo così che l’accertamento processuale segua tutto il suo corso, indipendentemente dallo scadere del termine prescrizionale del reato (tempo c.d. dell’oblio). Pertanto, la commissione ministeriale propone di aggiungere all’art. 158 del codice penale un terzo comma del seguente tenore: “Il corso della prescrizione del reato cessa definitivamente, in ogni caso, con l’esercizio dell’azione penale”. Ma, per scongiurare anche questa volta il rischio di processi senza fine, ecco che vengono predeterminati i tempi di durata considerati ragionevoli per ciascuna fase processuale (4 anni per il primo grado, 3 anni per l’appello e 1 anno per la Cassazione), il cui superamento determina l’improcedibilità dell’azione penale. Non è possibile qui dilungarsi ad argomentare pro o contro ciascuna delle due ipotesi di riforma sopra sintetizzate. Entrambe sono meritevoli di apprezzamento, e la seconda (ipotesi B) può apparire più affascinante proprio per la sua maggiore innovatività. Di contro, può invece sembrare preferibile l’ipotesi A appunto in considerazione del suo porsi più in linea con la concezione della prescrizione radicata nella tradizione penalistica italiana, quale si è finora rispecchiata anche nella giurisprudenza costituzionale. A completare il quadro concorre un ulteriore e importante elemento di novità, costituito dalla proposta di introdurre - nella scia di quanto già previsto in altri ordinamenti - rimedi compensativi e risarcitori conseguenti al mancato rispetto dei termini di ragionevole durata del processo, e indipendenti in linea di principio dal tempo di prescrizione dei reati. Da segnalare, in particolare, la previsione - apprezzabilissima - di detrarre dalla pena che il condannato deve espiare i periodi di tempo successivi alla ragionevole durata del processo. 3. La terza parte della relazione Lattanzi è infine dedicata alle proposte di riforma del sistema sanzionatorio, orientate nell’insieme a obiettivi di fondo così sintetizzabili: estendere e potenziare, in applicazione del principio della pena detentiva quale extrema ratio, il catalogo delle sanzioni diverse dal carcere, ammodernando nel contempo quelle già esistenti (a cominciare dalla pena pecuniaria, poco valorizzata da noi rispetto ad altri paesi); concepire la riforma delle sanzioni extra detentive anche in funzione di incentivo ai riti processuali alternativi, a loro volta da rendere maggiormente appetibili in vista della deflazione del carico giudiziario e della riduzione dei tempi di durata dei procedimenti penali. Senza potere qui illustrare il contenuto specifico delle singole proposte, vanno accennate due ulteriori novità rilevanti, l’una dotata di valenza strategica come potenziale strumento deflattivo, l’altra ispirata al lodevole proposito di valorizzare modelli di giustizia diversi dalla tradizionale giustizia punitiva: si allude, da un lato, alla estensione dell’ambito di applicabilità della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis del codice penale) e, dall’altro, alla introduzione di una disciplina organica in materia di giustizia riparativa che risulti conforme alle indicazioni internazionali. Concludendo questo ormai lungo - ancorché incompleto - excursus, non può non prendersi atto che il complessivo lavoro svolto dalla commissione Lattanzi, al di là di singoli punti eventualmente suscettibili di correzione o migliore definizione, pone la ministra Cartabia nella condizione di disporre di una ampia, solida e anche raffinata piattaforma progettuale per presentare al Parlamento emendamenti in vista della programmata riforma della giustizia penale. Il merito forse principale da riconoscere ai componenti della commissione ministeriale consiste, ad avviso di chi scrive, nell’avere puntato ad un potenziamento dell’efficienza processuale come valore non disgiunto dal contestuale rafforzamento delle garanzie individuali. Una svolta in una direzione giusta, questa, che l’insieme delle forze politiche dovrebbe far propria, rinunciando finalmente alle pregiudiziali contrapposizioni di parte e tentando di sviluppare una collaborazione la più virtuosa possibile: a vantaggio di un sistema penale che necessita non solo di funzionare più efficacemente, ma anche (e soprattutto) di uniformarsi sempre più ai principi del costituzionalismo nazionale ed europeo. La guerriglia nei Cinquestelle tiene in ostaggio anche il ddl penale di Errico Novi Il Dubbio, 18 giugno 2021 Rinvio a luglio (se va bene) per la riforma del processo: con l’addio alla prescrizione di Bonafede, l’ex premier Giuseppe Conte sarebbe travolto dai dissidenti. Vince la politica: a voler essere ottimisti, si potrebbe leggere così lo slittamento a luglio (se tutto va bene) della riforma penale. Il rinvio della discussione in aula sul ddl delega, fissata al 28 giugno, è praticamente ufficiale. Due giorni fa il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni ha scritto a Roberto Fico per chiedere la modifica del calendario. Ha spiegato la scelta anche con la necessità di convocare in audizione Giorgio Lattanzi, presidente del gruppo di esperti che ha consegnato (quasi un mese fa) a Marta Cartabia le proposte per gli emendamenti governativi. È vero che l’incontro con Lattanzi ha trovato d’accordo tutti, dal Movimento 5 Stelle alle prime linee del fronte garantista, cioè Pierantonio Zanettin di FI ed Enrico Costa di Azione. Ma è difficile negare che il rallentamento del percorso riformatore sia anche di origine politica. Può spiegarsi con due ordini di motivi: le difficoltà dei pentastellati nel metabolizzare la riforma della prescrizione, che Cartabia certamente proporrà, e la prova delle Amministrative, che esaspera quegli affanni. Tanto per essere chiari, non si tratta solo dell’agitazione del Movimento per l’inevitabile addio alla norma Bonafede: di mezzo c’è anche il rodaggio della leadership di Giuseppe Conte, che rischia di vedersi tarpate le ali da un clamoroso insuccesso, quale sarebbe considerata la modifica della prescrizione. Certo, parliamo di una débacle più percepita che reale: i grillini sono comunque minoranza, nella coalizione di governo, e non possono pretendere di imporre la linea sul processo penale. Sono però i militanti e, ancor di più, i molti parlamentari tentati dalla dissidenza, a vedere nel cedimento su quella norma il segno dell’apocalisse. È un quadro un po’ surreale, ma che complica il lavoro della guardasigilli. Cartabia ha le idee molto chiare, sa che le riforme possono prevedere tante variabili ma non prescindere dalla Costituzione. E già col celebre primo ordine del giorno stilato subito dopo la fiducia a Draghi, la ministra chiarì ai partiti che la norma Bonafede sulla prescrizione collide coi principi della presunzione d’innocenza (articolo 27) e del giusto processo (articolo 111). La relazione Lattanzi ha ribadito il concetto. E ha formulato tempestivamente (addirittura un mese fa) due possibili exit strategies sulla prescrizione. Una, assai urticante per i grillini, equivarrebbe al ripristino di quella legge Orlando spazzata via da Bonafede. L’altra, più tollerabile dal punto di vista del Movimento, è basata sulla cosiddetta “prescrizione processuale”. Già il 25 maggio scorso, Lattanzi e Cartabia illustrarono le ipotesi ai partiti di maggioranza, 5 stelle inclusi. Se quasi un mese dopo ancora non c’è la traduzione di quelle ipotesi nei veri e propri emendamenti governativi, davvero è solo perché i partiti hanno bisogno di riparlarne con Lattanzi? La verità è che si deve fare i conti pure con un’oggettiva inagibilità politica. Perché? Facile dirlo. Intanto, Giuseppe Conte ha incontrato nelle scorse settimane la ministra. Ha ribadito le perplessità già espresse sulla prescrizione (e, in modo più sfumato, sul divieto d’appello per i pm) da altri big del Movimento: Alfonso Bonafede, Vittorio Ferraresi, Mario Perantoni. Come leader, l’ex premier ha problemi di natura “giuridico- formale” ancora non del tutto risolti. E gli ostacoli allontanano anche il redde rationem fra lo stesso Conte e i parlamentari 5 stelle sul delicato nodo del doppio mandato. Quest’ultimo aspetto è una bomba pronta a esplodere: diversi deputati e senatori, di fronte alla certezza di non poter essere ricandidati, sarebbero spinti verso l’area della dissidenza. Nell’attesa, i versamenti delle quote, necessarie a pagare Casaleggio, sono praticamente fermi. Ora, se in quadro simile, aggravato dall’ansia per le Amministrative, precipitasse anche l’addio alla prescrizione, Conte rischierebbe di restare inchiodato ai blocchi di partenza. La sua sfida da leader del Movimento 5 Stelle ne uscirebbe pietrificata. E non è che una simile crisi politica nel partito di maggioranza relativa sarebbe irrilevante per il governo. Potrebbe creare seri ostacoli al cammino delle altre riforme e soprattutto all’attuazione del Piano di ripresa. A saperlo non è solo Marta Cartabia, ma anche Mario Draghi. Giustizia, riforme al palo. Il referendum è la strada di Angela Stella Il Riformista, 18 giugno 2021 M5S di traverso sul ddl penale, l’Unione camere civili sulle barricate. Da Cicchitto a Nencini, da Bonino a Giachetti, cresce il fronte dei sostenitori dei quesiti referendari promossi da Partito radicale e Lega: “Altro che ostacolo a Cartabia, sono un’occasione”. “Se anche il Presidente della Repubblica tace a fronte di un Csm indecoroso, ben vengano i referendum” promossi dal Partito Radicale e Matteo Salvini. A fare la sintesi dell’incontro “Le ragioni dei sei referendum per la riforma della giustizia” tentatosi ieri in Senato è l’ex parlamentare Fabrizio Cicchitto: “Dal 1990 in poi sostanzialmente il ramo requirente della magistratura si è impadronito del potere in questo Paese; non di quello giudiziario ma di quello politico, avendo potuto distruggere cinque partiti e ricattare quelli che erano sopravvissuti. Oggi poi tutti hanno scoperto il sistema Palamara: ebbene la magistratura invece di ammettere l’errore e di fare autocritica, si limita a far fuori Palamara e andare avanti”. Gli fa eco la senatrice di +Europa Emma Bonino: “Abbiamo poco da spiegare ma molto da fare. Credo che, al di là delle buone intenzioni della Ministra Cartabia che magari riuscirà a farà qualche passo in avanti in tema di riforme della giustizia che io appoggerò comunque, i referendum possano essere l’occasione, se non verranno assorbiti dalle fatture riforme, di condurre i cittadini a confrontarsi su questi temi, sperando che il servizio pubblico televisivo promuova un dibattito serio. Mi dispiace se anche la parte più garantista del Pd o di altri partiti tace o peggio si esprime contro. Non hanno mai amato il referendum però in questa situazione una peretta qualunque non basta”. Ad intervenire anche l’onorevole di Italia Viva Roberto Giachetti che in apertura ha ricordato come il dibattito si sia tenuto “non a caso a 38 anni esatti dall’arresto di Enzo Tortora. La giustizia dovrebbe essere riformata strutturalmente nel nostro Paese, noi invece ora abbiamo la riforma Cartabia che è molto limitata e, per essere chiari, è finalizzata soprattutto al recepimento dei fondi europei. In questo contesto i temi referendari, salvo che per la riforma del Csm, non hanno nulla a che vedere con le proposte di riforme di cui discuterà Parlamento. Quindi chi sostiene che paralizzano la riforma della giustizia lo fa strumentalmente, forse allo stesso modo di un segretario di partito che ha ben pensato di dire che sostenere i referendum significa buttare la palla in calcio d’angolo. Se questi sono i presupposti della guida di un partito che si dice democratico”. Per ora Giachetti parla a titolo personale ma non detto che il suo partito possa prendere una posizione favorevole sui referendum, date le parole di qualche settimana fa di Matteo Renzi “Spero che il Parlamento legiferi prima del referendum, ma se ci saranno voterò a favore”. Il segretario del Psi, Enzo Maraio, ha aggiunto: “Non abbiamo avuto nessun imbarazzo a sostenere subito i referendum sulla giustizia. Anzi, la pluralità delle forze politiche che li sostengono è un buon segno”. Riccardo Nencini ha concluso: “Usciamo da un periodo in cui si era verificato un connubio terribile: un ministro della giustizia si definiva populista e poi i fatti accaduti nel Csm e narrati da Palamara. Di fronte a tutto questo possiamo essere critici rispetto alla forma di alcuni quesiti ma ne condividiamo l’impianto generale. Bisogna andare alla sostanza dei referendum e non perdersi nelle sottigliezze dei singoli quesiti”. Al di là dei contenuti dei quesiti è chiaro che i referendum possano essere un apporto alla riforma, soprattutto se quella Cartabia non decollasse come sperato. E gli indizi ci sono tutti al momento. Ieri l’Unione nazionale delle Camere civili ha espresso “ferma contrarietà” agli emendamenti del Governo sul processo civile, preannunciando “lo stato di agitazione, riservandosi di segnalare all’Unione europea il rischio di provocare ulteriori ritardi della giustizia civile, e di proclamare l’astensione, nel rispetto del codice di autoregolamentazione”. Due giorni fa il presidente della commissione giustizia alla Camera, l’onorevole del M5s Mario Perantoni, ha annunciato “che la data del 28 giugno per l’inizio dell’esame in aula del ddl penale non potrà essere rispettata” e che “audiremo il professor Lattanzi come chiesto da quasi tutti i gruppi”. Una mossa bizzarra considerato che alcuni membri della Commissione ministeriale, compreso il Presidente Lattanzi, a maggio avevano incontrato proprio i capigruppo per illustrare la riforma. Sembrerebbe che il Movimento Cinque Stelle, non riuscendo ad accettare che occorre superare la riforma Bonafede e tendere a quella della Cartabia, stia facendo tino ostruzionismo non solo sulla prescrizione ma anche sulle indagini preliminari per le quali, come ci ha detto il professor Vittorio Manes, sono state avanzate “soluzioni tutte pervase dallo sforzo di rispettare le direttrici - e dunque anche le garanzie - costituzionali”. A tutto ciò si aggiunge, infine, che proprio nelle conclusioni della proposta di riforma sull’ordinamento giudiziario, presieduta dal professor Massimo Luciani, abbiamo letto: “La Commissione ritiene che la soluzione dei molteplici problemi che riguardano l’organizzazione della magistratura e il funzionamento del Csm possa essere trovata solo all’interno di un più complessivo sforzo di analisi e di riforma, che tuttavia richiederebbe tempi assai lunghi, incompatibili con le esigenze di rapidità connesse all’attuale crisi pandemica e all’attuazione del PNRR”. Processo civile, la sfida di Cartabia: sconti sulle tasse per chi usa la mediazione di Liana Milella La Repubblica, 18 giugno 2021 Arrivano al Senato 24 emendamenti della ministra della Giustizia. Riti semplificati, attenzione particolare alla famiglia e ai figli. Entro la fine di luglio Palazzo Madama approverà la riforma. La Rossomando garantisce l’impegno del Pd. Alla Camera slitta il processo penale. Costa protesta. Prossima l’audizione dell’ex presidente della Consulta Lattanzi. Ventiquattro emendamenti firmati Marta Cartabia riscrivono il futuro del processo civile. Sono arrivati ieri al Senato. Rappresentano la prima scommessa della Guardasigilli rispetto alla promessa fatta all’Europa di tagliare la durata dei dibattimenti civili del 40% nei prossimi cinque anni. Il 9 maggio Repubblica aveva anticipato le linee principali della riforma che oggi vengono confermate dalle parole della stessa Cartabia: “L’obiettivo è rendere più immediata e sicura la risposta di giustizia nei tribunali e, aspetto tutt’altro che secondario, stimolare una cultura della ricomposizione consensuale dei conflitti, contrastando gli eccessi di litigiosità. Per questo si valorizzano con importanti incentivi fiscali gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie”. E stiamo parlando della mediazione. Già, la formula magica è proprio questa, evitare di arrivare in aula, di giungere al processo, rinviando le decisioni da un grado di giudizio all’altro, ma cercare di anticipare la risoluzione della controversia, qualunque essa sia, con strumenti di conciliazione. Via Arenula descrive così il mood della riforma: “Il suo spirito risiede nell’idea di un processo agile, all’insegna della collaborazione tra le parti, i difensori e il giudice”. Con un duplice obiettivo, “tutelare i bisogni quotidiani dei cittadini oltre che quelli degli operatori economici” come dice Cartabia. I 24 emendamenti giunti al Senato, e che integrano il disegno di legge dell’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, sono il frutto del gruppo di lavoro istituito da Cartabia. Al vertice Paolo Luiso, ordinario di diritto processuale civile all’università di Pisa, e Filippo Danovi, il vice capo dell’ufficio legislativo di via Arenula. Il 2 luglio arriveranno i sub emendamenti dei senatori. Partirà l’esame della commissione Giustizia. Per la fine del mese si andrà in aula per il primo e decisivo passaggio parlamentare. Dal Pd arriva il primo impegno politico. Lo dà Anna Rossomando, la responsabile Giustizia: “Siamo pronti a dare il nostro contribuito a una riforma fondamentale per cittadini e imprese. Obiettivi: efficienza e tempi celeri per dare certezze alla ripresa”. Contemporaneamente però alla Camera il processo penale rallenta e slitterà l’arrivo in aula previsto per il 28 giugno. Mentre in commissione Giustizia sarà ascoltato Giorgio Lattanzi, l’ex presidente della Consulta che ha presieduto il gruppo di lavoro sul penale, da cui Cartabia trarrà le proposte di modifica. Scrive Enrico Costa di Azione: “Il rinvio di un mese, se utile per meglio definire gli emendamenti del governo a un provvedimento così significativo non è un dramma. Lo sarebbe se l’inerzia fosse determinata dalla resistenza del M5S rispetto alla riforma della prescrizione”. Vedremo che accadrà quando, anche in questo caso, le modifiche di Cartabia arriveranno ion commissione. La magia della mediazione - Ma torniamo alla riforma del processo civile, nella quale c’è, innanzitutto, una parola chiave: “mediazione”. È uno dei punti su cui la Guardasigilli Cartabia punta di più. Vuol dire favorire una “cultura della ricomposizione”, nello spirito di non affollare i tribunali, ma risolvere le controversie in anticipo. Con l’inserimento questa volta, per rendere appetibile la soluzione, di un potente incentivo, la possibilità di scalare le spese dalle tasse. Si valorizzano, dunque, forme di giustizia alternativa, proprio come Cartabia vorrebbe fare anche nel penale. La mediazione dovrebbe essere volontaria, ma nella prima fase, per farne comprendere l’importanza strategica, verrà resa obbligatoria in modo da radicarla nelle abitudini di chi si rivolge alla giustizia civile. Per cinque anni ci sarà anche un monitoraggio. Dal primo grado alla Cassazione - Ma ripercorriamo i passaggi chiave della riforma. Accanto alla mediazione saranno potenziati i ricorsi sia alla negoziazione assistita (con il gratuito patrocinio dello Stato), sia all’arbitrato. La prima verrà estesa anche alle controversie di lavoro e a quelle sull’affidamento e il mantenimento dei figli nati fuori del matrimonio. In questo modo sarà possibile per i coniugi pattuire l’assegno divorzile in unica soluzione, con la formula “una tantum”. Per i processi che comunque giungono in udienza parte una forte semplificazione, sin dal primo grado, dove i contendenti dovranno anticipare subito le richieste di prove in modo da consentire al giudice di andare a sua volta in decisione nel più breve tempo possibile. Ovviamente, dopo le esperienze fatte in tempi di Covid, l’uso delle udienze a trattazione scritta e da remoto saranno ampiamente utilizzate. Tra le novità del processo di primo grado ci sarà anche l’ordinanza immediata di accoglimento o di rigetto. Mentre in appello, dove peseranno di più i filtri di ammissione, sarà più difficile sospendere l’efficacia della sentenza di primo grado. Verranno semplificati i riti in Cassazione, seguendo sempre il principio della necessaria chiarezza e sinteticità degli atti. Non ci sarà più la “sezione filtro”, ma tutte le sezioni potranno esercitare a loro volta un filtro. Verranno ridotte le decisioni con pubblica udienza. Ma soprattutto il giudice - e questa è un’importante novità - potrà chiedere il rinvio pregiudiziale in Cassazione, cioè potrà investire direttamente la Corte per ottenere una valutazione vincolante per questioni di diritto nuove e di particolare importanza, che presentino gravi difficoltà interpretative, e soprattutto abbiano un carattere seriale, cioè tali da ripresentarsi in numerose controversie. Per evitare un uso eccessivo di questo sistema sarà il primo presidente della Cassazione a dichiarare ammissibile la richiesta. Il tribunale della famiglia - Ma la novità più importante riguarda la famiglia che vedrà decollare un rito unitario al posto dell’attuale frammentazione in tanti riti differenti. In via Arenula la definiscono “una grande innovazione”, in cui il giudice potrà anche emanare provvedimenti diversi rispetto alle richieste delle parti per la tutela dei figli minori. Ci saranno maggiori tutele e garanzie nei casi di violenza familiare e domestica. Quanto ai divorzi sarà possibile presentare la domanda anche nel giudizio di separazione che sarà esaminata solo quando saranno decorsi i termini di legge e sarà passata in giudicato la sentenza parziale sulla separazione. In questo modo si andrà a una semplificazione rispetto ai doppioni di oggi. Avrà un ruolo importante la mediazione familiare, con la figura del curatore speciale a tutela del minore quando la sua figura dovesse essere a rischio. Gli emendamenti di Cartabia prevedono anche maggiori garanzie patrimoniali nella separazione e nel divorzio, soprattutto a tutela dei minori. I processi di lavoro - Per chiudere le novità sul processo del lavoro. Sarà cancellato il doppio binario creato dalla legge Fornero, e ci sarà un unico procedimento per i licenziamenti, con la previsione di una corsia preferenziale per le richieste di reintegro nel posto del lavoro. A Montecitorio protesta in piazza contro l’allontanamento dei figli per alienazione parentale di Liana Milella La Repubblica, 18 giugno 2021 Manifestazione a Montecitorio per chiedere “l’immediata sospensione dei procedimenti di allontanamento di minori che si rifanno al censurato costrutto dell’alienazione parentale”. Per il sit-in “Sui bambini non si passa” organizzato questo pomeriggio contro la Parental Alienation Sindrome (ovvero Pas, anche detta sindrome della madre malevola) si sono mossi la Cgil, il Comitato “La Pas non esiste, ma il fatto non sussiste” e la Uil. I casi di cronaca - Diversi i casi di cronaca citati dai promotori della manifestazione per accendere i fari su le diverse storie in tra cui quella di Laura Massaro, sottoposta a procedimento presso il Tribunale per i minori di Roma con decreto di allontanamento del figlio undicenne e decadenza dalla responsabilità genitoriale. Oppure quella successa a Perugia dove un bambino di otto anni è stato portato recentemente via dalla madre. E poi ancora: “A Pisa un altro bambino è stato prelevato da undici poliziotti e allontanato dalla mamma, seguita da un centro anti-violenza, in seguito all’improvviso rifiuto del ragazzo a vedere il padre”, spiegano. Una “deriva preoccupante” per gli organizzatori della manifestazione “in corso già da molti anni, come dimostrano i casi di Michela, nota come ‘la mamma di Baressa’, a cui venne sottratta la figlia di tre anni, Ginevra a cui fu tolta la figlia di 18 mesi, figlia che non poté più né rivedere né sentire, e quello di Antonella considerata madre alienante, il cui figlio, costretto a vedere il padre, venne ucciso dall’uomo in un incontro protetto”. La Parental Alienation Syndrome - L’alienazione parentale “declinata anche in sindrome della madre malevola, madre simbiotica, madre fusionale o conflitto di lealtà, è erede di quella Parental Alienation Syndrome (Pas) del controverso medico americano Richard Gardner nel 1985”. Nel corso degli anni “la Pas è stata censurata sia dal Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali sia dalla Organizzazione Mondiale della Sanità, e in Italia a più riprese anche dalla Corte di Cassazione che qualche settimana fa l’ha definita una teoria nazista, ovvero “tätertyp”. Nonostante ciò, ha attecchito e continua a essere praticata nei tribunali come modalità di risoluzione degli affidi in cui vi è conflitto o violenza (spesso ridotta a conflitto)”. Il manifesto - Realizzato anche un manifesto in sette punti nel quale il comitato chiede, tra l’altro, l’immediata applicazione della Convenzione di Istanbul che è vigente e ha valore costituzionale, il divieto da parte dei giudici di emettere decreti di sospensione della responsabilità genitoriale o decadenza o allontanamento del minore dal suo ambiente familiare sulla base di costrutti non riconosciuti dalla scienza, l’obbligo per il giudice di garantire sempre un giusto processo senza rifarsi a costrutti ascientifici come l’alienazione parentale che non comportano l’onere della prova, il rispetto da parte del giudice dell’obbligo di ascolto del minore e il divieto di prelievi forzosi di allontanamento dalla famiglia di un minore. Gli interventi - “Il presidio di oggi è l’ennesima protesta contro i prelievi forzati dei minori da parte dei tribunali: la peggiore delle punizioni per quelle madri che hanno la forza di denunciare violenze domestiche e che invece di essere sostenute si ritrovano accusate di aizzare i figli contro i padri, in nome di una teoria ascientifica il cui nome primario è alienazione parentale, ma che viene nascosta dietro decine di altre fantasiose formulazioni”, ha spiegato Laura Boldrini, deputata del Pd, ricordando come “dietro alcuni provvedimenti e sentenze c’è misoginia” e per questo “insieme a esperte ed esperti, ho depositato una proposta di legge, ora in commissione Giustizia, per riformare l’affido nei casi di violenza domestica. La proposta- spiega- mette in primo piano l’ascolto diretto del bambino da parte del giudice senza che sia sistematicamente delegato ai consulenti tecnici d’ufficio” e “garantisce un rigido intervento che contrasti l’uso giudiziario di teorie ascientifiche come l’alienazione parentale”. E Susanna Camusso, responsabile nazionale del Comitato pari opportunità della Cgil, di cui è stata segretaria, a margine della manifestazione ha rimarcato: “Si parla tanto di donne ma poi si fanno poche cose concrete e questo lo vediamo su molti aspetti. Qui c’è un uso di quest’affermazione antiscientifica e antigiuridica, la Pas, che va in contrasto alla libera volontà dei minori che dovrebbero essere sempre tutelati dalle norme”. Csm, il sistema non cambia per nulla di Tiziana Maiolo Il Riformista, 18 giugno 2021 Da un po’ di anni si sente dire che, se una certa magistratura militante (o quello che noi chiamiamo il Partito dei Pm) ha acquisito tanto potere fino a esercitare un ruolo di supplenza rispetto al compito dei partiti, la responsabilità è tutta del ceto politico. Le toghe sarebbero in un certo senso state costrette a riempire un vuoto lasciato da altri. Un vuoto politico riempito con la “loro” politica. Che è fatta delle loro carriere, ma anche della loro giurisprudenza, essendo il successo di tanti pubblici ministeri intriso delle une e dell’altra. Tanto da far balzare i più popolari non solo su qualche scranno in Parlamento, ma soprattutto a governare grandi città. In un tripudio di popolo e con la passività muta della gran parte del mondo politico. Poi è arrivato Luca Palamara a dire che anche nel mondo delle toghe il re era nudo e che tanti magistrati passavano il tempo a brigare per le proprie carriere e promozioni, e anche che ordivano complotti per impallinare qualche avversario che sedeva in Parlamento o al governo. I nomi più gettonati erano quelli di Berlusconi e di Salvini. Così chi voleva capire aveva capito quale era la vera “casta”. Altro che autonomia e indipendenza della magistratura! Il “Sistema” ha scompaginato un po’ le carte, aprendo gli occhi a migliaia di cittadini che non immaginavano che quel mondo fosse fatto di piccoli uomini più che di eroi. E ha iniettato quel po’ di coraggio che serviva al mondo politico per rialzare la testa. Anche perché -e forse la coincidenza non è così peregrina- era nel frattempo crollato il governo della maggioranza vestita in toga che sempre meno gridava “onestà-onestà”, avendo trovato altro tipo di “ideali” molto più concreti da portare a casa. Era arrivato Mario Draghi, con Marta Cartabia come guardasigilli. Così ora ci troviamo a un bivio. Da una parte un Csm che il lunedì pare fatto di pugili suonati e poi il martedì trova la forza di spedire in pensione il recalcitrante Davigo senza più subirne il fascino. Ma che compie poi il passo falso, con la radiazione di Palamara. Un gesto imprudente, perché di questo magistrato ex-potente la casta togata non si libererà facilmente, e non stiamo parlando di ricorsi. Stiamo dicendo che l’Italia intera conosce la persona ed è al corrente di quel che ha disvelato. E si domanda come mai lo Stato abbia coccolato e riverito fior di criminali “pentiti”, consentendo loro di dire verità e bugie, a volte persino, da liberi, di consumare vendette, anche con omicidi. E come mai, se il “pentito” accusava i politici era un eroe, e se invece disvela fatti gravi commessi dalle toghe viene addirittura cacciato. Tanta paura da arrivare a zittire lui e i suoi testimoni? Ma sarà difficile liberarsi di lui. Passo falso. Sembra che scatti una specie di giustizia sommaria, quella della fretta. La stessa che ha di fatto espulso dalla magistratura un uomo come Otello Lupacchini. Chi ha ascoltato a Radio Radicale lo svolgimento delle sedute della commissione del Csm che ha processato l’ex procuratore generale di Catanzaro non può non aver notato il senso di fastidio del presidente Fulvio Gigliotti e del procuratore Marco Dall’Olio mentre il dottor Lupacchini parlava. Avrebbero dovuto rispettare la sua competenza, la sua cultura. Invece avevano fretta. Ma la magistratura intera, quella associata nel sindacato unico e quella presente nel Csm, farà bene a riflettere su queste due (ancora) toghe, sulla frettolosità con cui li ha spinti fuori come fossero zanzare fastidiose. Perché, come ha detto quello più anziano, “non avranno pace”. Anche perché non sta passando inosservato il fatto che, mentre il Csm pare avvitato in modo corporativo su se stesso, la ministra Cartabia non sta con le mani in mano. Sono pronti gli ispettori sugli uffici giudiziari di Verbania per verificare se nell’inchiesta sul grave incidente della funivia, la gip Donatella Banci Buonamici, che aveva scarcerato, sia stata tolta di mezzo perché troppo garantista. E sulla procura di Milano per capire per quale motivo il vertice dell’ufficio abbia impedito al pm Paolo Storari di arrestare per calunnia l’avvocato Piero Amara e l’ex manager Eni Vincenzo Armanna, preferendo preservarli come testi d’accusa nel processo Eni, quello in cui gli imputati sono stati poi assolti, nonostante una serie di prove loro favorevoli non fossero state presentate dai pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. I quali, oggi indagati a Brescia, avrebbero però voluto far entrare nel processo Eni la testimonianza dell’avvocato Amara, il quale aveva definito il presidente del tribunale Marco Tremolada come “avvicinabile” dagli avvocati della difesa. Il che avrebbe costretto il presidente ad astenersi. Fatti molto gravi, su cui vedremo a che cosa porteranno le ispezioni della ministra. Ma anche che cosa avrà il coraggio di fare questo Csm ancora avvitato sulla propria storia di Casta. La sconfitta di Palamara: le intercettazioni con il trojan si possono usare di Federico Marconi Il Domani, 18 giugno 2021 Tutte le richieste dei legali dell’ex magistrato sono state rigettate dal Gup di Perugia: gli audio e i messaggi intercettati si potranno utilizzare a processo. Le intercettazioni realizzate con il trojan si potranno utilizzare a processo. È stata rigettata dal giudice per le udienze preliminari (gup) del tribunale di Perugia la richiesta di inutilizzabilità della copia forense del cellulare e delle intercettazioni telefoniche e telematiche dell’ex magistrato e presidente dell’Anm Luca Palamara. È stata rigettata anche la richiesta di una nuova perizia sul virus- captatore informatico utilizzato per catturare, appunto, le conversazioni dell’ex toga. La decisione è stata presa dal giudice che si sta occupando del troncone d’inchiesta che vede Palamara accusato di corruzione insieme ad Adele Attisani e al lobbista Fabrizio Centofanti. Dopo due ore di camera di consiglio, il gup ha sposato la tesi della procura, che ha sempre considerato legittime e utilizzabili tutte le intercettazioni. Nel corso dell’udienza dello scorso 23 aprile, la difesa di Palamara aveva richiesto di rendere inutilizzabili la copia forense dello smartphone dell’ex magistrato sotto processo poiché incompleta: mancavano, secondo i periti di parte, le tracce del trojan utilizzato e le informazioni di connessione al server a cui era collegato. Per il giudice però “la paventata incompletezza della copia forense estratta non dà luogo ad alcuna sanzione processuale di inutilizzabilità o nullità”, e quindi sono state rispettate “le garanzie difensive previste dalla norma a tutela dell’indagato in sede di accertamento irripetibile”, come è appunto una copia forense di un dispositivo elettronico. Per quanto riguarda l’utilizzo di un trojan per captare e ascoltare le conversazioni e i messaggi di Palamara, che in alcuni momenti non avrebbe registrato, il gup sostiene che “il parlato degli 8 file non spediti rinvenuti sul server CSS non consente in alcun modo di giungere alla conclusione che il complessivo flusso intercettato messo a disposizione della difesa sia incompleto, non genuino o alterato nei suoi significati”. Gli audio non inviati, non costituendo parti di conversazione, non avrebbero alterato colloqui intercettati e “per la loro stringatezza e palese irrilevanza contenutistica, risultano inidonei a porre una questione di lesione dei diritti di difesa”. La difesa di Palamara aveva anche sollevato una “generale “illegalità” e conseguente “inutilizzabilità dei risultati” delle intercettazioni, per via delle forme in cui sono state autorizzate ed eseguite. Il giudice però ritiene che non ci sia stata “nessuna irrituale utilizzazione” delle risultanze investigative, inclusi gli audio captati. Sulla richiesta di nuova perizia sul trojan, il giudice la ritiene “non meritevole di accoglimento in quanto superflua e meramente esplorativa, oltre che giuridicamente incongrua con riferimento a taluno dei profili di accertamenti indicati”. Insomma, quella di Palamara è una sconfitta su tutta la linea: le intercettazioni andranno a processo. L’induzione indebita di fare si consuma quando si ottiene la condotta richiesta di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2021 Quando i vertici di una società pubblica inducono i tecnici della società incaricata dei lavori a riaprire senza collaudo una strada, il momento consumativo è quello dell’adozione del provvedimento amministrativo regionale che la consente. Quando i vertici di una società pubblica - al fine di intestarsi un successo manageriale - inducono i tecnici della società incaricata dei lavori a riaprire senza collaudo una strada, il momento consumativo del reato non è quello della materiale apertura del tratto autostradale, ma quello dell’adozione del provvedimento amministrativo regionale che la consente. Infatti i manager “infedeli” è da quel momento che ottengono il vantaggio perseguito di poter pubblicizzare il risultato di aver agito in tempi brevi e il luogo di adozione del provvedimento radica la competenza territoriale del giudice chiamato ad accertare le responsabilità per il mancato collaudo e il connesso crollo del tratto stradale. La Corte di cassazione, con la sentenza n. 23887/2021, affronta il noto caso del crollo di un viadotto autostradale siciliano avvenuto a pochi giorni dalla sua riapertura. Il processo è rimasto da ormai più di 5 anni nel limbo che precede il rinvio a giudizio, proprio in ragione del conflitto negativo di competenza tra il giudice del luogo dove insiste la strada e quello dove è stata adotta l’ordinanza amministrativa di apertura al traffico. Questo il conflitto ora risolto dalla Cassazione che indica come competente il giudice del luogo dove è stata adottata la decisione di riaprire il tratto non collaudato. Nel caso concreto però la vicenda sulla competenza potrebbe non finire qui, raggiungendo il compimento del termine di prescrizione dei reati ascritti ai diversi e numerosi imputati. Infatti, questi ultimi - attraverso le dichiarazioni degli avvocati - sostengono la competenza dei giudici di Roma, dove ha sede legale la società responsabile della strada e che ha affidato i lavori di rifacimento. Ma a oggi la presa di posizione della Cassazione dà rilevanza al luogo dove si è autorizzata l’apertura al traffico piuttosto che a quello di rimozione dei cartelli di divieto di transito all’imbocco della strada. Infatti, è nel primo dei due luoghi che scatta il momento in cui i vertici aziendali corrotti incaricati di pubblico servizio ottengono l’utilità perseguita: di essere formalmente meritevoli di riconoscimenti da parte dell’azienda per la celerità del compito svolto. Se l’assegnatario consegna le chiavi dell’appartamento non scatta il reato di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 18 giugno 2021 Chi subentra nel possesso per volontà di chi aveva precedentemente il titolo può subire solo conseguenze amministrative. Se si riceve l’immobile di un ente pubblico da chi ne era legittimo assegnatario, non scatta la responsabilità penale del nuovo possessore anche nel caso in cui non abbia i requisiti per ottenerne l’assegnazione. In caso di carenza dei requisiti le conseguenze saranno esclusivamente di carattere amministrativo e civilistico. Se l’immissione nel possesso avviene senza introduzione dall’esterno manca l’arbitrio e l’eventuale condotta violenta che sono alla base del reato di invasione di edifici, come previsto dall’articolo 633 del Codice penale. E l’immissione nel possesso - senza commissione di alcun reato - è confermata dalla pacifica consegna delle chiavi. Come dice la Cassazione con la sentenza n. 23758/2021 la norma incriminatrice non è posta a tutela di un diritto, ma contro l’arbitraria introduzione dall’esterno in un immobile. Sintomo specifico del reato può essere l’effrazione di sigilli, che ovviamente non si realizza in caso di pacifica consegna delle chiavi. La norma penale, in conclusione, tutela la relazione tra la cosa e il possessore. Quindi in caso di volontaria consegna della cosa da parte del possessore si può piuttosto propendere per l’instaurazione di un rapporto di comodato, per quanto si possa così verificare la violazione amministrativa delle regole di assegnazione degli immobili pubblici. La Corte accoglie il ricorso dando seguito a un precedente del 2006. Campania. Sovraffollamento, Covid e caldo rendono le celle un inferno di Viviana Lanza Il Riformista, 18 giugno 2021 Dopo il Covid è il caldo la nuova minaccia nelle carceri. Come ogni anno l’arrivo dell’estate ripropone, infatti, l’annoso problema del caldo asfissiante che rende più difficile la vita dei detenuti e il lavoro degli agenti penitenziari all’interno delle prigioni campane trasformando la vita nelle celle e nei padiglioni in un vero e proprio inferno. Il sovraffollamento non aiuta. Così come nel periodo di picco dell’emergenza pandemica, il problema del numero spropositato di persone presenti nelle celle rischia di essere aggravato dall’arrivo del caldo estivo. Vivere in sei o in otto in uno spazio di pochi metri quadrati, d’estate, diventa ancora più insostenibile. Quali diritti saranno tutelati? Se lo chiedono i garanti e tutti coloro che non riescono a restare indifferenti di fronte ai drammi del mondo penitenziario pensando che la pena non debba essere solo afflizione e che la Costituzione vada rispettata anche quando stabilisce che la reclusione deve tendere alla responsabilizzazione e alla rieducazione del condannato. Sarà assunta qualche iniziativa in tal senso oppure la politica continuerà a essere orba? I report sulle criticità e sulle buone prassi di ciascun istituto penitenziario campano, stilati nell’ultimo mese dal garante regionale dei detenuti della Campania Samuele Ciambriello, fotografano la realtà del “mondo carcere” nella sua attuale complessità. Uno spiraglio di luce nel buio dei vari problemi irrisolti sembra essere l’iniziativa presentata proprio ieri per dare lavoro ad alcuni detenuti delle carceri di Poggioreale e Secondigliano. Nei prossimi due anni i detenuti a basso indice di pericolosità, provenienti dalle case circondariali Pasquale Mandato e Giuseppe Salvia, saranno impiegati in lavori di manutenzione e conservazione del decoro nello stadio militare Albricci, occupandosi principalmente di pulizia delle aree esterne e della cura del verde. Lo stabilisce il protocollo firmato da garante, Esercito, Dap e Tribunale di Sorveglianza di Napoli: un primo passo importante, a patto che non resti l’unico. Napoli - Niente chance di reinserimento social ma ora una speranza per i reclusi c’è. Poggioreale e Secondigliano, le due grandi realtà carcerarie di Napoli, diventano protagoniste di un progetto di reinserimento sociale dei detenuti presentato proprio ieri dai vertici dell’amministrazione penitenziaria e il garante regionale, con il Tribunale di Sorveglianza e il Comando delle forze armate del Sud. Una novità nel panorama di criticità e sovraffollamento, difficoltà sanitarie e problemi di vivibilità, che si vive in cella. Il progetto prevede che per i prossimi due anni i detenuti a basso indice di pericolosità saranno impiegati in lavori di manutenzione e conservazione del decoro nello stadio militare Albricci, occupandosi del verde e delle aree esterne. L’obiettivo del progetto è fare “rete” sul territorio e promuovere azioni concrete per il recupero sociale delle persone detenute che si impegnano a cambiare il proprio percorso di vita e in un certo senso a restituire alla collettività ciò che stato tolto con il reato. Salerno - Troppi detenuti, pochi educatori e agenti in cella boom di atti di autolesionismo. Nelle carceri salernitane il rapporto è di un agente ogni due reclusi. Il report sui numeri e sulle criticità dei penitenziari salernitani (Salerno, Fuorni, Eboli, Vallo della Lucania) svela i nodi irrisolti sul fronte controlli e sicurezza. E la sproporzione è evidente se si considera che, a fronte di un numero di agenti pari alla metà di quelli che sarebbero necessari (e la carenza negli organici è altrettanto seria anche per quanto riguarda il personale socio-educativo), ci si ritrova a fare i conti con un numero di detenuti che è più alto di quello previsto. Ed ecco che con una popolazione detenuta di 537 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 482 posti, il sovraffollamento diventa la principale piaga che, sommata ad altre criticità, genera un cocktail scarsamente sostenibile. Solo nel carcere di Fuorni, il quarto della Campania, nell’ultimo anno si sono contati 122 atti di autolesionismo, un suicidio, 93 casi di sciopero della fame. Caserta - Le violenze denunciate a Santa Maria Capua Vetere sotto la lente d’ingrandimento dei pm. Tre suicidi, 59 tentati e poi gli episodi di violenze denunciati da alcuni detenuti e ora al centro di un’inchiesta della Procura che dovrà accertare se e come sono avvenuti quei fatti. Nelle carceri casertane sono i numeri a descrivere la realtà della vita in cella. Una realtà che condividono 1.527 persone, divise tra le strutture di Carinola, Santa Maria Capua Vetere, Arienzo, Aversa e la rems di Calvi Risorta. Praticamente un mondo, un mondo ancora a parte, distante dal territorio circostante per le criticità e le carenze che ancora non si è riusciti a risolvere. L’avvio dei lavori per la condotta idrica nel carcere sammaritano, inaugurato qualche mese fa dopo oltre vent’anni di attesa, è sembrato una grande conquista. Ma la vera sfida sarà dotare queste strutture di personale a sufficienza per rendere la pena in linea con la funzione di rieducazione prevista dall’articolo 27 della Costituzione repubblicana. Benevento e Avellino - Attività rieducative e assistenza sanitaria bloccate dalla solita burocrazia “Il campo sportivo - ricorda il garante Samuele Ciambriello - fu occupato quasi trent’anni fa da paletti perché si temeva che potesse arrivare lì un elicottero e favorire la fuga di un boss all’epoca detenuto. Da allora sono trascorsi trent’anni e il campo sportivo è ancora inutilizzabile”. Il riferimento è al campo sportivo di Avellino, esempio di situazioni rimaste invariate da troppo tempo, di una criticità legata agli spazi della pena che da Avellino si estende a molte altre strutture detentive della Campania. Stesso discorso per l’assistenza sanitaria, soprattutto in campo psichiatrico. A Sant’Angelo, per esempio, potrebbero esserci sette detenuti malati di mente e ce n’è uno solo perché manca lo psichiatra. Stesso discorso per il carcere di Benevento dove sanità e attività di rieducazione devono essere la priorità se si vuole evitare il bilancio dello scorso anno: due suicidi, decine di tentati suicidi, scioperi della fame, atti di autolesionismo. Lazio. Carceri, nuova convenzione per il diritto allo studio avantionline.it, 18 giugno 2021 Garante dei detenuti, Rettore dell’Università della Tuscia, Provveditore dell’amministrazione penitenziaria sottoscrivono un apposito protocollo d’intesa. Garantire il diritto allo studio della popolazione detenuta è il fine del protocollo d’intesa sottoscritto a Viterbo dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio, Stefano Anastasìa, dal Rettore dell’Università della Tuscia, Stefano Ubertini, e dal Provveditore dell’amministrazione penitenziaria per il Lazio, Abruzzo e Molise, Carmelo Cantone. Presente anche Alessandra Troncarelli, assessora regionale alle Politiche sociali e ai servizi alla persona, la quale ha attestato “la volontà della Regione Lazio di perseguire la strada dell’inclusione ad ogni livello”. “Lo studio universitario - ha sottolineato Anastasìa, - è una straordinaria opportunità per le persone detenute. Arriva spesso al termine di un lungo percorso, che porta tante di loro a completare interi cicli di istruzione in carcere, e dà loro non solo la possibilità di accrescere le proprie competenze e di migliorare le possibilità di reinserimento, ma anche di riempire il tempo di detenzione di occasioni di riflessione sul proprio vissuto e sulle proprie capacità. Con questo protocollo - ha proseguito Anastasìa - i detenuti che si iscriveranno all’Università della Tuscia potranno essere esentati dalle tasse regionali di iscrizione all’Università, riceveranno gratuitamente i libri e il materiale didattico necessario alla preparazione degli esami e l’università potrà ricevere i contributi regionali per il tutoraggio degli studenti detenuti”. La legge regionale n. 7 del 2007, “Interventi a sostegno della popolazione detenuta della Regione Lazio”, fissa, tra gli obiettivi della Regione Lazio, quello della creazione di poli universitari nelle carceri. La convenzione con l’Università della Tuscia si aggiunge ai tre protocolli d’intesa con l’Università Roma Tre, l’Università Tor Vergata e l’Università di Cassino e del Lazio meridionale. Tali intese, sottoscritte da Garante, università e amministrazione penitenziaria, hanno il fine di favorire l’accesso agli studi universitari delle persone detenute e supportarle nel loro percorso formativo. Con la delibera della Giunta regionale 829 del 10/11/2020, la Regione ha stanziato 50 mila euro, per le attività di tutoraggio didattico dei detenuti studenti. Inoltre, un apposito protocollo tra Garante e DiSCo prevede che l’Ente regionale per il diritto allo studio fornisca il materiale didattico e i libri di testo alle biblioteche penitenziarie, esonerando altresì i detenuti studenti dal pagamento delle tasse universitarie per la parte di competenza regionale. Agli uffici del Garante nel 2020 risultavano 121 iscritti agli atenei laziali, così suddivisi: Sapienza, Università degli studi di Roma 19 Università degli studi di Roma Tor Vergata 41 Università degli studi di Roma Tre 55 Università degli studi di Cassino e del Lazio meridionale 5 Università della Tuscia 1. Modena. Otto detenuti morti nella rivolta in carcere: il caso è archiviato di Valentina Reggiani Il Resto del Carlino, 18 giugno 2021 Il Gip ha respinto le opposizioni presentate dall’associazione Antigone, dal Garante e dai parenti di una delle vittime. Il gip Andrea Romito ha respinto le opposizioni all’archiviazione del fascicolo relativo al decesso di otto detenuti morti a seguito della rivolta avvenuta nel carcere di Sant’Anna l’8 marzo del 2020. Respinte dunque le opposizioni dell’associazione Antigone onlus, dal Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale e dai parenti di una delle vittime, Chouchane Hafedh. Per il decesso di quest’ultimo, di Methnani Bilel, Agrebi Slim, Bakili Ali, Ben Mesmia Lifti, Hadidi Ghazi, Iuzu Artur e Rouan Abdellah non ci saranno ulteriori indagini; il fascicolo che ipotizzava l’omicidio colposo e morte o lesioni come conseguenza di altro delitto sarà appunto archiviato. Il gip ha dichiarato inammissibili gli atti per l’opposizione all’archiviazione presentati da Antigone e dal Garante nazionale, trattandosi “di soggetti privi della qualifica di persone offese in riferimento ai reati ipotizzati o, pur solo astrattamente enucleabili”. Lo stesso gip sottolinea come la “causa unica ed esclusiva” del decesso dei nove carcerati (la nona vittima è Salvatore Piscitelli morto dopo il trasferimento ad Ascoli, dove sono ancora in corso indagini) sia stata l’asportazione violenta e l’assunzione di “estesi quantitativi di medicinali correttamente custoditi all’interno del locale a ciò preposto”. Un profilo, quello della causa dei decessi che Romito sottolinea essere “debitamente approfondito nel corso delle attività di consulenza e non investito di alcuna contestazione”. Rimarcando anche la “sproporzione in termini numerici fra rivoltosi e guardie penitenziarie” e “il contesto sanitario nel quale gli accadimenti ebbero luogo”, il gip rileva che “alcuna responsabilità è ascrivibile in capo ai soggetti intervenuti nel complesso iter procedimentale che conduceva, il 9 marzo, alla definitiva cessazione dei tumulti”. “Non è accettabile che una vicenda così grave che ha visto la morte di otto detenuti si chiuda con un provvedimento così motivato”. L’associazione Antigone, per voce dell’avvocato Simona Filippini commenta così l’archiviazione firmata dal gio di Modena. “Stiamo valutando quale sia l’azione più opportuna da prendere ma sicuramente l’associazione andrà avanti affinché - aggiunge Filippini - venga fatta chiarezza sulle ragioni della morte di tutte queste persone”. Ad esprimere sorpresa ed amarezza è anche l’avvocato Luca Sebastiani che rappresenta i parenti di una delle vittime: “Dalla lettura del provvedimento del giudice modenese, si evince come siano stati ignorati una serie di elementi e criticità sollevate nell’atto di opposizione depositato, che avrebbero meritato più attenzione e la dovuta considerazione. Sono troppe le zone d’ombra che - dice l’avvocato - non sono state chiarite in questa triste vicenda e questo non possiamo accettarlo. Pertanto siamo pronti a ricorrere nelle opportune sedi, confidando che prima o poi i familiari di queste giovani vittime avranno le risposte che meritano”. Modena. Sui morti in carcere non bisognava chiudere così presto di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2021 Due notizie di segno opposto arrivano dal mondo penitenziario italiano. A Firenze il pubblico ministero chiede il rinvio a giudizio per tortura per dieci agenti di polizia penitenziaria accusati di aver usato violenza contro alcuni detenuti in tre diversi episodi, avvenuti tra il 2018 e il 2020. Chiede, inoltre, il rinvio a giudizio per falso in atto pubblico per due medici che avrebbero mentito sulle reali condizioni di salute dei detenuti portati in infermeria dopo i presunti pestaggi, al fine di coprire i poliziotti. A Modena, invece, il giudice per le indagini preliminari dispone l’archiviazione del procedimento relativo alla morte di otto persone detenute (i morti sono stati in tutto nove) avvenuta all’indomani delle note rivolte del marzo 2020. Otto persone, tutte di origine straniera, per le quali le famiglie non sapranno mai quel che è accaduto. Come si ricorderà, all’indomani dell’improvvisa chiusura dei colloqui con i famigliari a causa del lockdown scoppiarono rivolte in circa cinquanta istituti di pena italiani. Il terrore si era diffuso tra chi viveva in carcere, sia per l’impossibilità di rispettare le norme di igiene e distanziamento sociale che venivano indicate dalle autorità quali essenziali per la prevenzione del virus, sia per la mancanza di notizie sullo stato di salute dei propri cari. Durante le rivolte, in alcune carceri furono assaltate le infermerie, luoghi che nell’immaginario carcerario custodiscono pezzetti artificiali di felicità e oblio. Alcuni detenuti ingerirono dosi eccessive di metadone. Un comportamento tragico e ignorante dei propri effetti, evidente segno di un’umanità disperata. Sono stati presentati alcuni esposti relativi alla presunta repressione violenta delle rivolte in diverse carceri. Ci auguriamo che le relative indagini facciano al più presto chiarezza sull’accaduto. L’associazione Antigone è coinvolta in vari di questi procedimenti. Così come era coinvolta in quello relativo al carcere di Modena, dove si è vissuta la situazione più drammatica con la perdita di nove vite umane. Cinque persone sono morte nel medesimo istituto, mentre altre quattro dopo essere state trasferite altrove con il consenso medico. Il 18 marzo del 2020, pochi giorni dopo l’accaduto, Antigone aveva depositato un esposto contro la polizia penitenziaria e il personale sanitario per omissioni e colpe per il decesso dei detenuti. Antigone è stata più volte ammessa come parte civile nei procedimenti che riguardavano gravi episodi accaduti in carcere. Un’associazione che da tanti anni si occupa di tutelare i diritti delle persone recluse, è sempre stato il ragionamento dei magistrati, è parte in causa quando accadono fatti che, qualora accertati, costituirebbero una grave violazione di tali diritti. Nel disporre l’archiviazione, il Gip di Modena ha invece scritto che né Antigone né il Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute e private della libertà personale hanno voce in capitolo nella questione in oggetto. Entrambi si erano opposti all’archiviazione, ma il Gip afferma che deve essere dichiarata l’inammissibilità di tali atti oppositivi in quanto provenienti da soggetti privi della qualifica di persone offese in riferimento ai reati ipotizzati. Una visione ristretta se riferita a decessi avvenuti in custodia della pubblica autorità, ma soprattutto in conflitto con altrettante decisioni di segno opposto prese da altri tribunali. Otto vite umane sono andate perdute, alcune delle quali durante un trasferimento verso altre carceri, nei giorni dopo la rivolta. Non vogliamo pensare che valgano di meno perché erano vite di persone detenute. Otto vite umane, una in fila all’altra. Nessuno voleva anticipare le indagini e puntare il dito su responsabilità specifiche di qualcuno. Ma non bisognava chiudere così presto, così rapidamente. *Coordinatrice associazione Antigone Milano. Il caso di Luca Campanale arriva alla Cedu: si suicidò in carcere 12 anni fa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 giugno 2021 Il giovane era affetto da seri disturbi psichici. In primo grado furono inflitti otto mesi di reclusione per omicidio colposo a una psichiatra: per la prima volta un tribunale italiano riconobbe una responsabilità di questo tipo. È da 12 anni che il padre Michele e i fratelli Andrea e Vincenzo chiedono che sia fatta giustizia sulla morte di Luca Campanale che morì impiccandosi nel 2009 a 28 anni nel carcere di San Vittore dove era recluso per uno scippo. Ora, attraverso un ricorso firmato dall’avvocato Andrea Del Corno, la vicenda approda alla Corte europea dei diritti dell’uomo chiamata a dirimere un caso con esiti giudiziari “storici” e controversi. Nel 2014, in primo grado, una psicologa venne assolta mentre a una psichiatra furono inflitti otto mesi di reclusione per omicidio colposo. Inoltre, il Ministero della Giustizia fu condannato al pagamento di una provvisionale da 529mila euro. Fu, quella, la prima volta che un tribunale italiano riconobbe una responsabilità di questo tipo per un suicidio dietro le sbarre. Ma in appello, confermato dalla Cassazione, entrambe le imputate furono scagionate con la revoca delle statuizioni civili. Il ricorso punta su una “sequenza degli avvenimenti ritenuta di per sé esplicativa: Campanale si suicida il 12 agosto 2009 a mezzanotte e mezzo, dopo l’esecuzione del provvedimento di revoca della Sorveglianza a vista e della permanenza nella zona delle celle a rischio, quindi con declassamento del regime di controllo”. Responsabili sarebbero state, nella lettura della parte civile, le dottoresse R.D.S., psicologa, e M.M., psichiatra, perché avrebbero sottovalutato il rischio che il giovane si suicidasse. In particolare, non avrebbero dato il giusto peso al fatto che Campanale fosse affetto da seri disturbi psichici e avesse compiuto “numerosi gesti autolesivi” nel carcere di Pavia dove era detenuto in precedenza. Dalla ricostruzione di Del Corno emerge che il 30 luglio del 2009 la psicologa “aveva revocato la sorveglianza a vista e l’inserimento nelle celle a rischio”, mentre la psichiatra “non aveva disposto alcun regime di sorveglianza ma aveva ridotto il presidio farmacologico sulla base di una non riscontrata alleanza terapeutica”. Il 2 e il 4 agosto Campanale aveva compiuto “numerosi gesti autolesivi” senza che venisse cambiatala scelta di non sottoporlo a un’osservanza più stretta. In totale nel ricorso si citano nove episodi, documentati, di “reiterati gesti autolesionistici, aggressivi nei confronti di altri e tentativi di suicidio tra il maggio e l’agosto dell’anno in cui il giovane si tolse la vita. Treviso. “L’hub dei migranti come un carcere” di Denis Barea Corriere del Veneto, 18 giugno 2021 A processo tre accusati per la rivolta del giugno 2020. Il quarto si è ucciso in cella. Sul banco degli imputati, i tre profughi che, la scorsa estate, si sarebbero resi responsabili della sommossa all’interno dell’hub per richiedenti asilo all’ex caserma Serena di Dosson di Casier. Ma il procedimento iniziato ieri, con lo stralcio della posizione di uno degli accusati per cui servirà una traduzione degli atti in un dialetto del Mali, sarà in realtà il processo alle condizioni di vita imposte agli stranieri dal gestore della struttura, la Nova Facility, e soprattutto al modo in cui fu gestita l’emergenza Covid. “Era come un carcere - spiegano i difensori, gli avvocati Martina Pincirolli e Barnaba Battistella - quello che è successo era ampiamente prevedibile. Vogliamo che nel corso del giudizio tutto questo emerga, il che permetterà di mettere i fatti sotto una luce completamente diversa”. I tre richiedenti asilo sono Amadou Toure, gambiano di 26 anni, Abdourahmane Signate, 31enne senegalese e Mohammed Traore, maliano di 25 anni. I primi due si trovano agli arresti domiciliari mentre il terzo resta nel carcere trevigiano di Santa Bona. Erano stati arrestati e indagati dalla Procura per saccheggio, devastazione e sequestro di persona, avendo bloccato, usando anche violenza, gli operatori della Nova Facility e il personale medico. Con loro era finito in manette anche Chaka Outtara, ivoriano di 23 anni, che si è suicidato a novembre nel carcere di Verona dove era recluso in regime di isolamento. Il ragazzo aveva sofferto molto l’allontanamento dalla Marca, tanto da chiamare ripetutamente il suo avvocato il giorno prima di togliersi la vita alla luce delle difficoltà a richiedere i domiciliari non avendo un luogo dove poter risiedere. L’1 aprile gli atti del processo erano stati erano stati rispediti alla Procura perché fossero tradotti in francese. Ma Traore non è in grado di leggerlo: parla un dialetto molto diffuso in Mali, per cui il collegio, formato dai giudici Francesco Sartorio, Leonardo Bianco e Cristian Vettoruzzo, ha disposto il rinvio delle carte al gip per la traduzione. La posizione del 25enne è stata stralciata, mentre per gli altri due il processo è stato rinviato al 14 ottobre. La rivolta era scoppiata quando il personale medico dell’Uls 2 era all’interno dell centro per comunicare l’esito dei tamponi effettuati il giorno prima. Alla notizia di una positività e del rischio di quarantena qualcuno ha reagito con violenza: alcuni operatori di Nova Facility e personale della Uls 2 si rifugiarono in una stanza dove gli immigrati avrebbero impedito loro di uscire con violenze e minacce. Poi arrivò la decisione delle forze dell’ordine di intervenire in tenuta anti sommossa per sedare la protesta. Milano. La dignità umana è l’unica cosa che non entra nel Cpr di via Corelli di Luigi Mastrodonato Il Domani, 18 giugno 2021 Nel centro di via Corelli sono state segnalate violenze, cure inadeguate e diritti calpestati in ogni modo. “Sono stanco. A volte penso di prendere una corda e farla finita, come quel ragazzo di Torino”. A parlare è Mohammed, uno degli ospiti del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Milano. È dentro da diversi mesi, ma proprio poche ore dopo essersi messo in contatto con noi è stato liberato. Della tragedia di Musa Balde, il 23enne che si è tolto la vita nella struttura torinese dove era finito dopo aver subito una violenta aggressione, si è venuto a sapere anche nel centro del capoluogo lombardo. E nessuno è rimasto sorpreso. Autolesionismo e tentativi di suicidio da tempo scandiscono la quotidianità al suo interno. “Vediamo sangue di continuo, ogni giorno diverse persone finiscono in ospedale”, racconta Mohammed. Il materiale che ci inoltra lo conferma: un video mostra le pareti dei bagni coperte di schizzi rossi, un altro un ragazzo pieno di tagli sulle braccia e sulle gambe che si lamenta, il sangue che cola. Il Cpr di via Corelli ha aperto il 28 settembre scorso dopo mesi di proteste da parte delle reti solidali e delle organizzazioni per i diritti umani. Si trova tra la linea ferroviaria e il cavalcavia della tangenziale est, lì dove in passato c’erano state altre esperienze di accoglienza. La gestione è stata vinta tramite appalto da Versoprobo e Luna Scs, realtà attive nell’ambito dell’immigrazione ma anche in strutture di tutt’altro tipo, legate al turismo. Il meccanismo del bando è stato quello dell’asta al ribasso, la dignità di trattamento degli ospiti sacrificata in nome del risparmio. Oggi al suo interno ci sono una cinquantina di persone, per lo più tunisini, mentre gli operatori sono solo due durante il giorno e uno di notte. Chi entra non ha commesso un reato, trattasi di detenzione amministrativa per i migranti senza permesso di soggiorno da tradursi nel più breve tempo possibile - massimo 90 giorni a parte alcune eccezioni - in rimpatrio. Nei fatti la situazione è peggiore di quella di una penitenziario. “In carcere ci sono dei diritti stabiliti, durante la giornata si fanno delle attività, ci sono delle regole. Nel centro milanese no, è un luogo di passaggio vuoto dove le persone vengono parcheggiate anche per diversi mesi, in condizioni critiche”, sottolinea l’avvocato Nicola Datena. Per riempire il tempo c’è giusto una scacchiera e una tv quasi sempre spenta, anche se sarebbe prevista l’organizzazione di attività. Secondo Datena il problema più grave del centro di via Corelli è l’assenza di una convenzione stipulata con l’Agenzia di tutela della salute (Ats), un unicum tra i Cpr italiani e una violazione dell’articolo 3 del Regolamento unico. “Manca un ospedale di riferimento e questo comporta tutta una serie di problematiche per le persone rinchiuse”, spiega. “Al momento dell’ingresso non ricevono un’adeguata visita medica di compatibilità alla vita nella struttura, può sembrare una formalità ma per la legge è una condizione fondamentale per entrare. Ci sono poi persone che hanno bisogno di accedere a terapie che non sono quelle di urgenza del pronto soccorso e che se le vedono negate”. Un esempio è quello dei tossicodipendenti, ce ne sono diversi in via Corelli. Il metadone spesso viene somministrato in ritardo e con terapie abbozzate e occasionali, manca ogni collaborazione con i Servizi per le dipendenze patologiche (Serd). Praticare autolesionismo diventa una strategia per finire in ospedale e cercare di avere accesso ad altre terapie negate nel Cpr, nelle ultime settimane diverse persone si sono lanciate dal tetto per fratturarsi le gambe e poter uscire. Stesso discorso per i disturbi psichici, sempre più diffusi ma spesso ignorati a causa dell’assenza di uno psichiatra che segua gli ospiti in maniera continuativa. L’unica cosa che non manca, dalle testimonianze interne che abbiamo raccolto, sono i tranquillanti, somministrati con la manica larga anche a chi non ha disturbi. “Ho visto ragazzi entrare sani e poi diventare zombie, al primo appuntamento erano determinati e combattivi ma negli incontri successivi sempre più passivi e apatici”, conferma Datena. Una situazione sanitaria esplosiva, che Mohammed ha vissuto sulla propria pelle nel periodo passato lì dentro, tra pensieri suicidi e molto altro. Il ragazzo ha una profonda ferita che non gli è stata curata, le croste insanguinate gli macchiano il corpo, come mostra in un video. Gli ultimi giorni nella struttura poi li ha fatti con una caviglia rotta. Le numerose rivolte susseguitesi in questi mesi hanno fatto sì che i migranti venissero sottoposti a continue perquisizioni, denudati e privati degli oggetti considerati pericolosi. Le stampelle sono tra questi e Mohammed la notte, quando nessuno poteva trascinarlo in bagno, si è trovato a doversi urinare addosso. Quando è stato liberato lo hanno lasciato fuori dal centro senza stampelle, ci hanno pensato alcuni attivisti a soccorrerlo. Nei bagni interni la situazione è altrettanto critica: la privacy degli ospiti è negata, non ci sono le porte e dalle immagini che abbiamo visionato le toilette alla turca sono tutte intasate, i pavimenti e i muri sporchi e ammuffiti. Ma i problemi non finiscono qui. All’ingresso del centro vengono sequestrati i telefoni cellulari e se negli ultimi mesi agli ospiti è stato concesso fare chiamate - una decina di minuti al giorno, non garantiti a tutti - è solo perché a marzo è intervenuto il tribunale di Milano con una sentenza ad hoc. Al Cpr si finisce per stare per troppo poco o per troppo tempo. Inizialmente le persone entravano e venivano espulse in pochi giorni senza nemmeno riuscire ad avere assistenza legale, una violazione del Regolamento. Non gli veniva dato modo di comunicare con l’esterno e l’unica via che avvocati e associazioni avevano per poter fare qualcosa era contattare i familiari, se riuscivano a rintracciarli. Ora invece c’è chi si trova bloccato in questo inferno da ormai sei mesi: il rimpatrio non arriva per motivi burocratici ma la libertà sotto forma di rilascio con foglio di rimpatrio volontario entro sette giorni raramente è contemplata. Lo sciopero dei tamponi delle ultime settimane sta poi prolungando ulteriormente i tempi di detenzione. Altre testimonianze che abbiamo raccolto parlano di riscaldamenti spenti durante l’inverno, cibo scaduto o di qualità infima servito in mensa, acqua calda assente per diversi giorni, minori trattenuti illegalmente a causa di test anagrafici tardivi e approssimativi, violenze ripetute da parte degli agenti. “Ti portano negli ambienti dove non ci sono le telecamere, ti sbattono contro il muro e partono con i manganelli”, ci racconta un ospite, che si sofferma su una delle ultime perquisizioni subìte, con tanto di Corano buttato in terra e calpestato a sfregio. Il 25 maggio scorso decine di agenti antisommossa sono entrati nel centro per calmare una protesta sul cibo, ci sono state violenze e alcuni migranti sono finiti in ospedale. “Siamo stati trattati peggio degli animali, avrei preferito morire che passare altro tempo lì dentro”, sottolinea un ex ospite. Ora si trova in Tunisia e si dice felice di essere stato rimpatriato, qualunque cosa è meglio di quello che chiama “il lager di via Corelli”. Che nella struttura tante cose non funzionino non lo si capisce solo raccogliendo le testimonianze di chi ci è stato rinchiuso. Gli avvocati penalisti di Milano hanno definito la situazione “disumana”, una delegazione di palazzo Marino ha evidenziato diverse criticità, mentre i parlamentari Gregorio de Falco e Simona Nocerino, in visita nel centro nei giorni scorsi, hanno detto di aver provato “un senso di vergogna” a causa di “situazioni di trattenimento incomprensibili”. Perfino il sindacato di polizia ha parlato di una situazione “surreale”. Per i giornalisti entrare è praticamente impossibile nonostante sia consentito dal Regolamento, la nostra domanda di ingresso alla Prefettura è stata accolta dopo diverse sollecitazioni, per poi venire cancellata su ordine del ministero dell’Interno. Un rifiuto che stanno riscontrando tutti quelli che vogliono entrare in questo periodo, parlamentari a parte. Stesso discorso per la richiesta di chiarimenti al direttore del centro, Federico Bodo: “La prefettura di Milano ha invitato a non rilasciare ulteriori interviste”, ci ha scritto. Nelle scorse settimane però Bodo ha rilasciato su Facebook alcune dichiarazioni che rendono bene l’idea di quanto critica sia la situazione interna. “La permanenza prolungata all’interno della struttura ha provocato ripercussioni pesanti sulla condizione psicologico-psichiatrica degli ospiti”, ha sottolineato, confermando poi che “per persone che rimangono un tempo limitato (seppure per loro infinito) presso la struttura risulta pressoché impossibile accedere a visite specialistiche attraverso il sistema sanitario nazionale”. Il trattenimento prolungato degli ospiti nel momento in cui il rimpatrio è impossibile viene infine da lui stesso definito “un trattenimento senza scopo, in violazione delle basilari norme costituzionali in materia di tutela della salute e dei Diritti fondamentali dell’uomo”. Tra gestori, Prefettura e Questura non è chiaro quando iniziano le responsabilità dell’uno e finiscono quelle dell’altro. Il problema è a monte in un sistema, quello dei Cpr, scarsamente regolamentato, ma ora a Milano si è messa in moto la strategia dello scaricabarile. A questo si aggiungono le poche risorse disponibili in un meccanismo di bando dove l’unica cosa che conta è il risparmio per lo stato. Il risultato è una situazione esplosiva, abbandonata a sé, come abbandonate a sé sono state le centinaia di persone che in questi mesi sono state rinchiuse in via Corelli, private anche dei più basilari diritti umani. Un fallimento su tutti i fronti che non sembra destinato a cambiare: nel nuovo bando per la gestione del Cpr, da cui Versoprobo e Luna Scs hanno deciso di tirarsi fuori, si parla addirittura di un ampliamento della capienza della struttura. Teramo. Manutenzione del verde affidata ai detenuti di Castrogno cityrumors.it, 18 giugno 2021 Otto detenuti del carcere di Castrogno, per quattro giorni al mese e per un anno intero, si occuperanno della manutenzione del verde, lavorando fianco a fianco con i dipendenti dell’ente provinciale. È quanto prevede il nuovo progetto di rieducazione e reinserimento sociale contenuto nella convenzione che sarà stipulata dalla Provincia di Teramo, il Ministero della Giustizia e la Fondazione Ricciconti. “Quello di oggi” spiega il vicepresidente Renato Rasicci “è un importante risultato, frutto di un lavoro iniziato quasi un anno fa: l’idea di fondo è quella di ricostruire quel canale di comunicazione con l’esterno, con il mondo produttivo e l’ambiente sociale che al detenuto viene a mancare e che può rappresentare una prima leva sulla quale costruire un reinserimento. Il dato interessante è che la recidiva dei reati cade dal 70% al 18% se i detenuti sono accompagnati in un progetto di recupero; questo ci stimola ad attivarci, sia come cittadini che come amministratori per dare il nostro contributo alla comunità anche in termini di sicurezza sociale. È questo il concetto chiave che sta alla base di questo protocollo e che guiderà le nostre azioni future”. L’idea, condivisa dall’Assessorato sociale e dall’Istituto di pena è che la vera riabilitazione avvenga quando si è “gratificati dalla propria attività lavorativa” ed è anche per questo che il progetto della Provincia ha voluto arricchirsi della collaborazione della Fattoria sociale di Rurabilandia ad Atri, dove i detenuti pranzeranno insieme ai ragazzi della cooperativa sociale e trascorreranno il pomeriggio con loro aiutandoli nella gestione della fattoria. Bologna. I detenuti del Coro Papageno scrivono a Mattarella Corriere di Bologna, 18 giugno 2021 Appreso della chiusura delle attività della Mozart14, della quale facevano parte fin dalla nascita nel 2014, i detenuti del carcere D’Amato (ex Dozza) di Bologna appartenenti al Coro Papageno dell’associazione voluta da Claudio Abbado, hanno scritto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al ministero della Giustizia, al Tribunale di sorveglianza e ad alcuni organi di informazione per lamentare che sono rimasti allibiti nell’apprendere la notizia. “Proprio adesso - scrivono i detenuti - che aspettavamo di poter riprendere, dopo il Covid, le attività. Non conosciamo a fondo la natura dei problemi che hanno portato a questa infausta decisione, ma sappiamo che l’esperienza del Coro Papageno è stata una delle più belle e interessanti”. Arienzo (Ce). Musica e solidarietà nel carcere csvnapoli.it, 18 giugno 2021 Il prossimo 21 giugno, l’associazione L’Incrocio delle Idee entrerà nel carcere di Arienzo per celebrare “La Festa della Musica”. Si tratta di una manifestazione internazionale, nata in Francia nel 1982, che vede tantissimi musicisti professionisti e dilettanti invadere le strade per esibirsi nelle piazze, giardini, cortili, musei ma anche sui treni, negli ospedali, e nelle carceri. In Italia sono tante le città che da 25 anni aderiscono a questa giornata coinvolgendo centinaia di musicisti, che in luoghi e scenari differenti e anche improbabili, “offrono” musica di ogni genere, dalla classica al reggae, dall’elettronica al pop, dal folk al jazz, dal blues al rock, suonando e ascoltando musica festeggiando l’arrivo dell’estate. Testimonial dell’edizione 2021 sarà Edoardo Bennato, una figura iconica del rock italiano che, come nei suoi esordi da busker e one man band per le strade di Londra, rappresenta pienamente lo spirito della Festa della musica. Come affermano gli organizzatori, “La Musica è vita, è un invito a respirare un’aria nuova, ricca di adrenalina e di speranze per il futuro”. L’evento è finalizzato a promuovere la cultura e lo sviluppo della musica e sostenere l’emergere nuovi talenti ma anche a sottolineare il suo valore per favorire la coesione sociale. E così la musica diventa lo strumento per trasmettere valori positivi in un ambiente, come quello di un istituto di pena, che si pone l’obiettivo di cambiare le persone. L’associazione con i suoi volontari sarà presente in questo palcoscenico “rinchiuso” con due artisti d’eccezione Anna Spagnuolo e Michele Bonè, che hanno prontamente risposto all’invito e che proporranno un repertorio di canzoni napoletane dal ‘500 ai giorni nostri. Noi e il Covid, le illusioni che vanno scacciate di Aldo Cazzullo Corriere della Sera, 18 giugno 2021 Fino a quando non saremo vaccinati quasi tutti, non potremo stare tranquilli. E fino a quando non sarà vaccinato il resto del mondo, ci sarà sempre il pericolo che il virus ritorni, in qualche forma. Il Daily News, quotidiano di New York, titola a caratteri cubitali: “It’s over”, è finita. E anche molti di noi ne sono convinti. Stiamo cioè commettendo lo stesso errore di un anno fa, in questi stessi giorni: pensare che la pandemia sia un brutto ricordo, e che tutto possa ricominciare come prima. Purtroppo non è così. Lo confermano le notizie che arrivano da Londra, con i casi in aumento, la diffusione della variante indiana, il rinvio delle riaperture. Intendiamoci: è giusto ricominciare a vivere. Tornare al cinema, a teatro, al ristorante. Recuperare quel gusto della socialità, quel calore delle relazioni umane che rende dolce la vita, in particolare in Italia, in particolare d’estate. Più che gli assembramenti, preoccupa la sensazione che si sta diffondendo: che ormai ne siamo fuori, e quindi non ha senso fare la seconda dose del vaccino, e iniettare la prima ai giovani. Purtroppo non è così. Gli esperti possono anche essersi contraddetti in questi mesi, ma su un dato sono concordi: il vaccino serve. Eviterà che il virus torni a diffondersi tra qualche mese con la forza dell’autunno scorso. Protegge dalle varianti. Se anche non può immunizzarci al cento per cento, ci salva dalle forme più gravi della malattia, e quindi previene l’intasamento degli ospedali e il blocco del sistema sanitario, da cui deriverebbe l’esigenza di richiudere tutto. Eppure si continuano a enfatizzare i rischi. Di un morto per il vaccino - evento funesto e doloroso, certo da non sottovalutare - si discute per settimane; le decine di morti al giorno per il Covid sono citate così, en passant, giusto per rimarcarne la diminuzione. Non è un atteggiamento un po’ schizofrenico? Certo, tutti siamo stanchi, quando vediamo un virologo in tv cambiamo canale, quando sentiamo nominare la “variante Delta” sbuffiamo come fosse un brutto film di spionaggio. I francesi possono girare senza mascherina all’aperto, presto potremo farlo anche noi. Ma illuderci che sia finita ci porterebbe a un’amara disillusione. Fino a quando non saremo vaccinati quasi tutti, non potremo stare tranquilli. E fino a quando non sarà vaccinato il resto del mondo, ci sarà sempre il pericolo che il virus ritorni, in qualche forma; perché ormai si è capito che nessun blocco dei voli, nessun limite - per quanto necessario - è risolutivo. Questo non significa reagire con esasperazione e isteria. Al contrario, si può e si deve allentare la rigidità dei mesi peggiori mantenendo il controllo di noi stessi, per preparare nel migliore dei modi l’unica ripartenza possibile, per le relazioni umane, per il turismo, per l’economia: quella graduale e duratura, non destinata a essere interrotta dal prossimo allarme. Per questo la cosa più importante è completare la campagna di vaccinazioni. La variante della paura di Elena Stancanelli La Stampa, 18 giugno 2021 Un’estate in bilico tra libertà e nuove ansie da Covid. Dopo aver fatto tutto quello che dovevo fare - vaccinazione, seconda vaccinazione, Spid, certificato vaccinale e persino un tampone - sono andata a una festa. A un pranzo, all’aperto per carità. Senza più un briciolo di disinvoltura, accaldata, più vecchia di due anni che sembrano cento, volevo incontrare gli amici che non vedevo da allora, da quando temevamo che la fine del mondo avrebbe avuto l’aspetto di un’onda, o un lunghissimo incendio. Qualcosa di eroico ed eclatante, non certo la malattia dei pipistrelli. Ero goffa e arrugginita, negli ultimi due anni, come quasi tutti, mi ero rivolta soprattutto al mio cane: faccio le vocine, i fischi, e grido automaticamente “a cuccia” se mi esaspero. Mi sentivo anchilosata, come tutti, ma non avevo paura. Da quando ho fatto il vaccino ho smesso di avere paura. Il giorno successivo alla prima dose sono uscita di casa con le spalle dritte e la sicurezza che non sarei morta di quella roba dei pipistrelli. Una sensazione bellissima. Ma una festa è diverso, non c’entra la paura. Una festa è quando passi da una conversazione all’altra, scambi il bicchiere sul tavolo, accarezzi una mano come fosse per caso, ridi vicinissimo al naso di qualcuno che non ti conosce. Una festa è disinvoltura, e giovinezza. Non per età, ma per quella dabbenaggine per cui se sbagli pazienza, era solo una festa. Ero carina, ero troppo ubriaca? Questo importa. Importava, prima del pipistrello. A quella festa tutti parlavamo di Covid. E va anche bene. Il fatto è che un paio di noi sapevano tutto della variante Delta. Io della variante Delta non sapevo quasi niente. Perché nel frattempo, come dicevo, ho fatto il vaccino. E quindi, questo avevo patteggiato con l’incubo, da quel momento nessuna cosa che avesse a che fare col pipistrello poteva farmi del male. Nessuna variante: ero fuori, basta. Ho una fiducia cieca nella scienza e nella medicina, e quando dico cieca intendo una cosa che solo chi è cresciuto senza i social conosce, e un atteggiamento infantile verso le decisioni. Non decido quello che è meglio, non mi basta, ma quello che è bello, entusiasmante, risolutivo. Così, con questo spirito, ho fatto tutto quello che dovevo fare. Sono stata brava, e ora non voglio sapere più niente della variante Delta né di nessuna altra variante. Avrei dovuto, se fossi stata coerente con me stessa, non ascoltare quelle due, tre persone che sapevano tutto della variante Delta. A quella festa avrei dovuto leccare i cucchiaini degli altri, baciare chiunque fosse senza mascherina, gridare che ce l’abbiamo fatta, li abbiamo fottuti i pipistrelli. Invece sono tornata a casa abbacchiata, e mi sono messa a leggere quello che c’era da sapere di questa ennesima, maledetta variante Delta. Non riusciremo mai più essere scemi, scemi com’eravamo prima? Siamo stati la generazione più scema da quando esiste il termine generazione, siamo stati mammoni, fannulloni, bamboccioni, siamo stati i più bravi scemi della Storia. Ma ci sembrava insopportabile, ci vergognavamo. E adesso lo rimpiangiamo. La pandemia potrebbe essere l’occasione per riflettere su quello che eravamo, la nostra bulimia, l’inconsapevolezza, persino i pipistrelli. Boh, forse. Di sicuro è un enorme, gigantesco, imprevedibile, trauma. Poco importa che abbia riguardato tutto il mondo, poi siamo noi, ognuno di noi, che deve riprendere a comportarsi in maniera normale, uscire di casa, andare alle feste, leccare i cucchiaini. Come si guarisce da un trauma? Affrontandolo, attraversandolo, e a un certo punto, finalmente, lasciandoselo alle spalle. Le varianti del trauma no, per favore. Le lezioni della pandemia: il vaccino e il principio di fratellanza di Cristina Dell’Acqua Corriere della Sera, 18 giugno 2021 Ricordando la lezione contro l’odio di Antigone, sempre con noi per rammentarci che il principio di fratellanza ci lega, ci fa uscire dall’io nella pagina di storia che ci è stata assegnata dal destino: un vaccino è sinonimo di senso di fratellanza e di futuro. Se avessi la lampada di Aladino esprimerei un solo desiderio: tornare tutti d’incanto al 23 febbraio 2020. Rivivere dove eravamo quel giorno, e, soprattutto, come eravamo quando un virus sconosciuto si è impossessato delle nostre vite, chiudendoci prima nelle nostre case, poi dentro noi stessi. E visto che la lampada di Aladino tutto può, faccia pure durare quella giornata tutto il tempo che serve per poi, una volta tornati alla primavera 2021, farci mantenere vivo il ricordo di quel giorno, cioè farcelo riportare nel nostro cuore e lì lasciarlo, interrogarlo. Alla luce di quel giorno, a partire dal quale la vita del pianeta è stata travolta in ogni sua piega, il numero dei morti a oggi supera i tre milioni, incalcolabile il numero di chi è morto dentro e fatica a far zampillare nuovamente dalla propria anima la voglia di lottare. Con quel giorno ben impresso, davvero pensiamo di poterci liberare dalle catene di un virus per imprigionarci in quelle dell’arrogante illusione di tornare esattamente da dove siamo partiti? Immagino che nessuno pensi di paragonare la vita a una eterna partita a Monopoli dove di tanto in tanto basta ripartire dal via. La vita è piuttosto un perenne ritrovarci attraverso il cambiamento. E penso basti guardare e vedere i nostri ragazzi e le persone che abbiamo la fortuna di avere intorno, penso basti tornare a scuola, a teatro, in ufficio, a una mostra, un concerto, in un negozio e in un ristorante, comprare il biglietto di un treno (mai avremmo pensato che un gesto tanto semplice potesse procurarci una gioia così nuova) per capire che il nostro vocabolario emotivo ha subito una modificazione genetica. Quando ritroviamo persone e luoghi, dopo la gioia del momento e insieme alle norme di sicurezza che devono far parte di noi, tutti ora ci ritroviamo in un vaccino. Una delle prime emozioni che ci scambiamo è quella di averlo dentro di noi (o di essere in procinto di averlo). Un elisir di fratellanza che ci fa tornare nel mondo. Fratellanza non è solo una inestimabile risorsa affettiva che va ben oltre il legame di sangue, la fratellanza è un modus vivendi. Distrutta da Caino, l’immagine della violenza per definizione, dell’uomo che, messo alla prova sulla dimensione del senso della fraternità uccide suo fratello Abele. Perché gli è impossibile la convivenza, perché è vittima di una pulsione che non sa dominare. Quando sentimenti come l’invidia o l’ira si impadroniscono di noi ci devastano e ci chiudono in noi stessi e nelle nostre paure, come se l’altro potesse solo toglierci ossigeno anziché donarcelo. Pensare che sono fermamente convinta che sia esattamente l’opposto. Noi funzioniamo solo nella relazione con gli altri, nel sentirli fratelli e dunque nel volerci proteggere a vicenda. Come Antigone, la figlia di Edipo, sorella di Eteocle e Polinice, entrambi morti dopo essersi uccisi reciprocamente in una guerra in cui in vincitore sarebbe stato il nuovo re di Tebe, la loro patria. Nella tragedia di Sofocle (del 442 a.C), che prende il suo nome, Antigone si trova a dover scegliere se obbedire ciecamente alla volontà del nuovo re, lo zio Creonte, che con editto ufficiale vieta di seppellire i nemici, dunque anche Polinice, oppure se onorare il fratello Polinice della sepoltura. Il suo dilemma è terribile. Come avviene nello straordinario mondo delle tragedie greche, davanti ai nostri occhi si stagliano domande di senso, risposte possibili. Quello che è certo è che la giovane, non potendo adempiere ad entrambi i doveri, deve scegliere (non è forse questo la nostra vita, un susseguirsi di scelte attraverso cui crescere?). Antigone rende immortale la sua scelta, quella di seppellire il fratello spargendo sul cadavere una manciata di polvere, quanto basta per essere coerente con il suo vincolo alle leggi dell’amore e non a quelle dell’odio. Obbedendo in cuor suo alle leggi non scritte e incrollabili degli dei, che reclamano l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti agli Dei. Igino, prezioso mitografo romano ci racconta che i sacrifici per la morte di Eteocle e Polinice furono celebrati in una giornata ventosa. Persino il fumo che si alzava dal rogo funebre si divideva e andava in due diverse direzioni. Solo Antigone è riuscita ad oltre l’odio, il dolore e il tempo. È con noi, compagna di vita. Lo è ovunque vi siano ingiustizie e prevaricazioni, lo è stata in momenti difficili come durante il periodo del processo di Norimberga, quando abbiamo avuto bisogno di dare un nome all’indicibile, e anche grazie al suo esempio, è nato il principio giuridico i dei crimini contro l’umanità. È ora è con noi per rammentarci il principio di fratellanza, che ci lega, ci fa uscire dall’io per ricordarci che nella pagina di storia che ci è stata assegnata dal destino, un vaccino è sinonimo di senso di fratellanza e di futuro. Un’epigrafe che la pandemia sta scrivendo in modo indelebile per raccontare un giorno che noi siamo passati da qui e abbiamo imparato. Lavoro, aumentano gli infortuni: l’ansia di ripartenza a scapito della sicurezza di Giulio Sensi Corriere della Sera, 18 giugno 2021 In quattro mesi gli infortuni mortali sono aumentati del 60 per cento. Sono gli ultimi dati di Anmil, ma l’allarme è la conferma di un problema strutturale. Edilizia, agricoltura e industria i settori più colpiti, sale il prezzo pagato dalle donne. Andrea Lanari abita in provincia di Ancona, ha 44 anni e da 9 vive con due protesi al posto delle mani. La sua missione è convincere aziende e lavoratori a investire in sicurezza: da testimonial di Anmil, l’associazione nazionale che riunisce i mutilati e gli invalidi sul lavoro, tiene corsi in scuole e fabbriche per raccontare l’esperienza vissuta. Per lui ogni notizia di cronaca su infortuni o morti sul posto di lavoro è un cazzotto nello stomaco che lo riporta a quel 4 giugno 2012. Fu il giorno in cui una pressa sprovvista dei sistemi di sicurezza partì di colpo mentre stava inserendo una lamiera da collaudare, schiacciandogli irrimediabilmente le mani. “Non giriamoci intorno: le notizie dei tanti infortuni mortali di questi giorni - ci dice con voce preoccupata - fanno temere. E non poco. La nostra paura è che la ripresa economica del post-pandemia venga pagata a caro prezzo di vite umane”. E sono proprio i primi dati sulle morti a confermare i timori. “È uno stillicidio di episodi - spiega Franco D’Amico, responsabile dell’ufficio statistico di Anmil - coincidente con la forte ripresa delle attività economiche. Nel bimestre marzo-aprile c’è stato un aumento del 17 per cento degli infortuni e nei primi 4 mesi del 2021 quelli mortali sono cresciuti del 60 per cento rispetto al 2020. Trentadue vittime in aziende di costruzioni e 25 in agricoltura, solo per citare due settori”. La pandemia ha scombinato un po’ le carte e confuso i contorni di un fenomeno che per l’Italia stava assumendo toni meno drammatici rispetto agli anni precedenti. “Il Covid - spiega D’Amico - ha agito in due direzioni: da una parte il lockdown e il rallentamento delle attività produttive hanno portato nel 2020 a una riduzione per i settori a più alta pericolosità, dall’altra il fatto che il contagio fosse riconosciuto come infortunio sul lavoro assimilato a causa “violenta” ha portato a un aumento del rischio, in particolare fra gli operatori sanitari”. Le prime ore del mattino - Ma i pericoli più frequenti continuano ad arrivare dalla strada, sia perché il settore dei trasporti è uno di quelli più soggetti, sia perché è nel tragitto casa - lavoro - casa che si è più esposti. E anche qua sono le donne a pagare il prezzo più caro. “Perché hanno i maggiori carichi di cura - aggiunge D’Amico - e più difficoltà nella conciliazione dei tempi di lavoro e vita privata. Tali incidenti stradali sono dovuti spesso all’appannamento dei riflessi e si verificano con frequenza nelle prime ore del mattino, quando una donna raggiunge il posto di impiego già stanca a causa della cura dei figli”. Oltre alla strada sono ancora i classici settori produttivi come l’edilizia, l’agricoltura, la metallurgia e la sanità a esporre i lavoratori a più pericoli. Prevenzione e formazione rimangono i punti saldi. “Più è alto il livello di rischio - ricorda il presidente nazionale di Anmil, Zoello Forni - più serve attenzione. L’ansia della ripresa non può far trascurare l’attenzione alla sicurezza e i segnali che stanno arrivando dal governo Draghi e in particolare dal ministro Andrea Orlando sono positivi”. Livelli regionali - “C’è più attenzione e nel decreto sostegni bis - aggiunge il direttore generale Sandro Giovannelli - è prevista una maggiore spesa per l’assunzione di tecnici della prevenzione e medici nelle Regioni. Sono proprio i livelli regionali ad avere maggiori responsabilità nell’esercizio dei controlli, perché l’Ispettorato del lavoro a livello nazionale si occupa di grandi rischi e di grandi realtà produttive”. Ma, secondo i dati dell’Inail, il 90 per cento degli infortuni avviene proprio nelle aziende più piccole che hanno meno risorse economiche per investire in formazione e adeguamenti. “Ogni giorno - aggiunge Giovannelli - ci si deve chiedere cosa si è fatto per evitarli. Le azioni sono note: più formazione fin dalla scuola, più controlli, forme di impiego regolari e certezza del riscontro delle responsabilità, con pene e tempi di giustizia certi e adeguati”. E guardare alla sicurezza non solo come ad un costo. “Si deve capire - spiega ancora Andrea Lanari - che invece è un investimento. A volte si disattivano o boicottano sistemi di prevenzione per guadagnare qualcosa in più. Io sono stato fortunato perché vivo ancora e continuo a pensare a Luana D’Orazio e a tutti gli altri che non sono potuti tornare a casa dai propri cari. Ma trasformare le cose è possibile: vicino a casa mia esiste un’azienda che dopo la notizia del mio incidente ha deciso di dare più attenzione alla sicurezza. E certamente all’inizio ha speso molto. Ma oggi ha aumentato il suo fatturato, perché i lavoratori si sono sentiti più sicuri e valorizzati e hanno anche fatto meno assenze per infortunio. Ci vogliono più controlli, determinazione, consapevolezza e formazione”. Fondamentale per aumentare la consapevolezza è anche la testimonianza di persone che portano addosso i segni. “Se prima del 4 giugno di nove anni fa avessi potuto beneficiare dell’occasione di ascoltare uno come me - conclude Lanari - ci avrei pensato cento volte a mettere le mani sotto quella pressa”. Migranti. Non abbiamo accolto il grido di libertà di Saman. Ferocia? no, fragilità di Roberto Saviano La Repubblica, 18 giugno 2021 Lo straniero non ci fa paura perché temiamo possa derubarci o trovare lavoro al posto nostro. Lo temiamo perché abbiamo paura del suo dolore. Che immenso equivoco pensare che essere in disaccordo - in disaccordo palese, aperto, inequivocabile - con la politica ti migliori la vita. Non è così. Non porta vantaggi. Crea solo problemi, perché tutti temono chi è in politica; tutti sanno che prima o poi chiunque potrà ricoprire cariche importanti e, dalla vetta, magari guarderà in basso ricordando gli amici… e soprattutto i nemici. Però, se di mestiere fai lo scrittore, non è che puoi trincerarti dietro le pagine dei tuoi libri. Non è che puoi dire: tutto quello che dovevo l’ho scritto lì, ora lasciatemi in pace. Non funziona così perché la realtà è complessa e dobbiamo tutti dare il nostro contributo, soprattutto quando ci sono politici che ogni giorno setacciano il web alla ricerca di notizie di crimini commessi da immigrati per poter dare in pasto, a chi li segue sulle loro piattaforme social, la disperazione che diventa crimine, vero o presunto, accertato o mera calunnia. Chi mai chiederà conto di quelle parole feroci? Difficile, molto difficile che chi vive con scarsi mezzi possa far valere le proprie ragioni, rivolgersi a un legale, intraprendere una causa per diffamazione. Ecco il “vantaggio” di fare a brandelli con chi non ha niente: non può difendersi, è inerme, totalmente esposto. Spesso leggiamo testi infarciti di condizionali: “avrebbe ferito”, “avrebbe brandito”, “avrebbe aggredito” insieme a foto, a nomi e cognomi. Nessun processo e nessuna condanna: il colpevole dato in pasto a chi crede di trovare una soluzione ai propri problemi coltivando l’odio razziale. Una fitta rete ci separa da loro e rende i loro contorni sfumati, le loro abitudini lontane. Io mi sono dato una spiegazione che non ha niente a che vedere con la ferocia, e nemmeno con il razzismo, ma con una forma di egoismo che non ha nulla di sano. Lo straniero non ci fa paura perché temiamo possa usare violenza, derubarci o trovare lavoro al posto nostro. No, niente di tutto questo. Lo straniero lo temiamo perché abbiamo paura del suo dolore, della sua immensa sofferenza, che i suoi racconti possano spezzarci dentro. Sappiamo che non saremmo in grado di farcene carico e al contempo mantenere distanza. Quando entri nella vita di chi ha lasciato la propria terra, fai il tuo ingresso in un mondo che ha perso le proprie radici, un buco nero senza appigli, senza aiuto. Nessun parente sulla cui spalla poter piangere, nessun amico d’infanzia che possa venirti in soccorso o luogo familiare che possa darti sicurezza. Ecco, quel velo non ci protegge dal timore di essere depredati, ma da una sofferenza a cui non vogliamo partecipare. E allora si cede al racconto facile: sono criminali, ecco perché ne sto alla larga, ecco perché non devono venire e chi sta qua se ne deve andare. Meglio mostrarsi feroci che fragili. E così quella rete diventa un muro, un muro alto, impossibile da valicare. Così viviamo negli stessi luoghi e non ci conosciamo, osserviamo lo stesso cielo ma non insieme. Potremmo dare aiuto, ma nemmeno ci accorgiamo di chi ne ha bisogno. Non ci siamo accorti di Saman Abbas, non l’abbiamo aiutata a emanciparsi dalla sua famiglia. Tra noi e Saman, vittima di femminicidio, c’era una fitta rete, come quella della foto. Saman voleva essere libera di decidere della propria vita, glielo hanno impedito e nessuno di noi è stato lì ad accogliere il suo grido d’aiuto. Ciò che è accaduto a Saman ci dice che dobbiamo costruire ponti, lavorare perché gli stranieri che decidono di stabilirsi in Italia trovino possibilità di integrazione: la politica che criminalizza quotidianamente gli immigrati rema contro tutto questo, e la consapevolezza che la storia di Saman abbia trovato spazio sulle pagine social di Giorgia Meloni e Matteo Salvini solo perché è morta per mano di parenti stranieri è sconfortante. Eutanasia, al via la campagna per il referendum di Marina Della Croce Il Manifesto, 18 giugno 2021 Al via a Roma e Milano. 500 mila firme entro il 30 settembre: “Basta con l’immobilismo del parlamento”. Daniela non ce l’ha fatta. Malata di una grave forma di tumore al pancreas avrebbe voluto scegliere come morire ma è rimasta vittima della burocrazia e dell’assenza di una legge. Se ne è andata il 5 giugno scorso senza riuscire a portare fino in fondo la sua scelta. Mario, invece, tetraplegico da dieci anni in seguito a un incidente stradale, forse riuscirà a far valere la sua volontà. Due giorni fa il tribunale di Ancona ha finalmente ordinato alla Asl locale di verificare le condizioni del paziente per accedere al suicidio assistito, come richiesto da lui. Due storie recenti di cronaca, dietro le quali ne esistono migliaia sconosciute, drammi vissuti all’interno delle mura domestiche. “È inaccettabile che chi è nelle condizioni di Daniela sia costretta a un simile calvario. I malati non possono aspettare i tempi della burocrazia”, hanno detto ieri Filomena Gallo e Marco Cappato, segretario e tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, presentano a Roma l’avvio della campagna per il referendum sul suicidio assistito: 500 mila firme autenticate e certificate da consegnare in Corte di Cassazione entro il 30 settembre, grazie anche al lavoro di 5.000 volontari che si sono già registrati e di centinaia di autenticatori. I primi tavoli si sono aperti ieri a Roma, in largo Argentina, e a Milano all’angolo tra Corso Garibaldi e via Statuto, ma entro la fine di giugno saranno allestiti in tutta Italia. “Se entro il 30 settembre non saranno consegnate in Cassazione almeno 500 mila firme, non sarà più possibile in questa legislatura approvare il referendum”, ha spiegato Cappato. Il che significherebbe, ha aggiunto, “avere una legge tra 4 o 5 anni, forse 7-8 anni”. Il quesito referendario prevede una parziale abrogazione dell’articolo 579 del codice penale (“omicidio del consenziente”) che impedisce la realizzazione di ciò che comunemente si intende per eutanasia attiva (sul modello olandese o belga). In caso di abrogazione si passerebbe dal modello dell’indisponibilità della vita e dell’autodeterminazione individuale, già introdotto dalla Costituzione, ma che deve essere tradotto in pratica anche per persone che non siano dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, per i quali è invece intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza Cappato-Antoniani. Il referendum non è però l’unica iniziativa che punta a rompere l’immobilismo con cui da anni il parlamento si rifiuta di discutere una legge sul suicidio assistito. Nelle commissioni Giustizia e Affari costituzionali della Camera è stato depositato a maggio un testo base che, partendo dalla legge di iniziativa popolare, è il frutto tra le varie posizioni dei partiti il sui esame dovrebbe entrare nel merito a partire dalla prossima settimana, anche se un accordo tra le varie forze di maggioranza sembra ancora lontano. Alla presentazione della campagna ieri erano presenti anche Mina Welby e il deputato ex M5S Giorgio Trizzino, rimosso dal ruolo di relatore della legge, insieme ai partiti che hanno aderito all’iniziativa referendaria: +Europa, Radicali italiani, M5S, Sinistra italiana e Psi. Silenzio per ora, dal Pd, al quale ieri il segretario di Radicali italiani Massimiliano Iervolino ha rivolto un invito a sostenere la raccolta delle firme. “Mi rivolgo al segretario Enrico Letta - ha detto - affinché dia un segnale nella direzione giusta e porti il Pd ad aderire alla campagna referendaria”. Per ora l’unica adesione arrivata, a titolo individuale, è quella della senatrice Valeria fedeli, capogruppo dem in commissione Diritti umani. Canada. Trudeau ora imita Trump: migranti isolati e in catene di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 18 giugno 2021 Le detenzioni dei “clandestini” prolungate a tempo indeterminato. Il governo promette “trattamenti umani” ma non cambia le regole. Il volto del Canada è anche quello sorridente e accattivante del primo Ministro Justin Trudeau. Giovane, progressista, schierato a favore dei diritti umani come ci raccontano i media mainstream. Ma le cose sono decisamente più sfumate. Amnesty International e Human Rights Watch hanno infatti pubblicato un rapporto titolato significativamente “Detenzione dell’immigrazione in Canada e il suo impatto sulla salute mentale”. Pagine e pagine che descrivono le condizioni dei migranti rinchiusi nei Centri di detenzione canadesi. Le organizzazioni in difesa dei diritti umani parlano di detenuti ammanettati, incatenati e sottoposti a isolamento. Le conseguenze sono quelle di danni psicologici ingenti che vengono aggravati dal fatto che gli internati non sanno quando saranno rilasciati. La legge canadese infatti non pone un limite per il tempo di detenzione. Una contraddizione in termini rispetto all’immagine inclusiva del Paese. Secondo Samer Muscati, direttore associato per i diritti dei disabili di Human Rights Watch “il Canada è orgoglioso di accogliere rifugiati e nuovi arrivati a braccia aperte, anche se è uno dei pochi paesi del nord del mondo in cui le persone in cerca di sicurezza rischiano di essere rinchiuse a tempo indeterminato. Questo lascia molti senza la certezza di sapere quando saranno di nuovo liberi, il che può avere un impatto devastante sulla loro salute mentale”. A far rispettare le norme sull’immigrazione è la Canada Border Services Agency (CBSA), nei centri di detenzione vengono portati tutti coloro che secondo le autorità rappresentano una minaccia per la sicurezza. Tuttavia, la CBSA può e deve considerare anche alternative all’internamento. Secondo i dati forniti dal rapporto il numero di detenuti immigrati è aumentato costantemente tra il 2016 e il 2020, raggiungendo un picco di 8.825 persone nell’anno 2019- 2020. Attualmente in Canada esistono tre centri (nelle province del Quebec, dell’Ontario e della British Columbia) ma i detenuti immigrati possono anche essere trasferiti nelle carceri provinciali. Il governo, alla luce della descrizione mostrata nella pubblicazione delle organizzazioni umanitarie, ha affermato ieri che la CBSA terrà conto della situazione. La portavoce dell’Agenzia, Gadbois- St- Cyr ha assicurato che verrà sostenuta “la Carta canadese dei diritti e delle libertà, nonché gli standard internazionali pertinenti stabiliti nella Dichiarazione universale dei diritti umani. L’Agenzia si impegna a garantire il trattamento dignitoso di tutte le persone detenute ai sensi della legislazione sull’immigrazione”. In questo senso, almeno a quanto emerge dalle dichiarazioni ufficiali, la salute mentale e la sicurezza sarebbero i criteri fondamentali sui quali lavora la CBSA, ma è sempre più forte la pressione affinché si ponga fine alla pratica della detenzione indefinita. Per Ketty Nivyabandi, segretaria generale di Amnesty International Canada infatti “il sistema abusivo di detenzione per immigrati è in netto contrasto con la ricca diversità e i valori di uguaglianza e giustizia per cui il Canada è noto a livello globale”. Intanto però studi portati avanti da diversi ricercatori parlano di “traumi, angoscia e senso di impotenza” che portano a depressione, ansia e stress post-traumatico. Nel rapporto infatti si può leggere che “molti detenuti immigrati sviluppano ideazione suicidaria quando iniziano a perdere la speranza, in particolare coloro che fuggono da esperienze traumatiche e persecuzioni in cerca di sicurezza e protezione in Canada. La detenzione per immigrati ha effetti particolarmente dannosi sulle comunità di colore, sui richiedenti rifugiati, sui bambini e sulle famiglie”. In molte testimonianze raccolte emerge come la data di rilascio diventa, per i detenuti, l’unica ragione di vita, una spirale che in diversi casi può essere configurata come vera e propria tortura. Quindi violazione dei diritti umani.