L’Italia che butta la chiave: 1.779 ergastolani, il 70% sono “ostativi” di Antonio Lamorte Il Riformista, 17 giugno 2021 Il rapporto sul 2020 del Garante nazionale Mauro Palma - Ben oltre due su tre, quasi il 71%, la stragrande maggioranza insomma dei detenuti ergastolani in Italia sono ergastolani ostativi. Ovvero detenuti che non possono accedere ai benefici penitenziari perché non collaborano. La Corte Costituzionale lo scorso maggio si è espressa sulla specificità: entro il maggio 2022 toccherà al Parlamento intervenire e modificare la materia. C’è tempo. E comunque la liberazione condizionale sulla quale si litiga e si dibatte è stata data a quattro ergastolani in tutto nel 2020. Il dato intanto emerge dalla relazione consegnata in Parlamento dal Garante Nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma. Il documento si sofferma naturalmente anche sui numeri, sui rimpatriati e sulle conseguenze sugli Istituti di Pena della pandemia da coronavirus - soprattutto a marzo 2020, dopo l’esplosione dell’emergenza, si erano verificati episodi di rivolta, soppressione, anche vittime. Quella dell’ergastolo ostativo è la legge che non concepisce la pena, e quindi la Giustizia, e quindi il tempo uguale per tutti. Agli ostativi sono negati i permessi premio, l’assegnazione del lavoro all’esterno, le misure alternative alla detenzione, l’affidamento in prova, la detenzione domiciliare e via dicendo. È dedicato specialmente ai condannati per associazione mafiosa, sequestro con estorsione, associazione finalizzata al traffico di droga e altri reati gravi. Il dato del report: sono 1.779 gli ergastolani in Italia, 1.259 dei quali ostativi, il 70,77%. E questo nonostante gli articoli 3 e 27 della Costituzione che dettano rispettivamente come “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge” e che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. L’ergastolo è previsto dall’articolo 22 del codice penale. Nonostante la pena sia perpetua, a vita, dopo i 26 anni il detenuto può richiedere la libertà condizionale per buona condotta. Salvo quell’eccezione. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per l’ergastolo ostativo. Per tornare alla libertà condizionale: è stata accordata a un ergastolano (ovviamente non ostativo) nel 2019, a quattro nel 2020, e a nessun detenuto nel 2021. Sovraffollamento - Erano 53.329 le persone detenute nelle carceri italiane all’inizio del 2021. La popolazione è scesa rispetto all’inizio del 2020, quando erano 60.971. La flessione è dipesa “dai minori ingressi dalla libertà e dal maggiore ricorso alla detenzione domiciliare (principalmente dovuta a maggiore attività della magistratura di sorveglianza, piuttosto che all’efficacia dei provvedimenti governativi adottati - ha sottolineato il Garante - colpisce la pur limitata ripresa della crescita dei numeri che determina l’attuale registrazione di 53.661 (al 7 giugno 2021) persone”. Il dato dei detenuti in cella scende se si tiene conto di quelli che usufruiscono della licenza prolungata nella semilibertà, e quindi è paria a 52.634. Niente di tutto ciò risolve il problema del sovraffollamento: il limite massimo degli Istituti è di 50.781 posti, “di cui effettivamente disponibili 47.445”. Il dato sfiora il 111%. Una fetta consistente dei detenuti, 26.385 per l’esattezza, devono rimanere in carcere per meno di tre anni e di questi, 7.123 hanno avuto una pena inflitta inferiore ai tre anni. Coronavirus - È stato un anno ancora più difficile per le carceri italiane, per i detenuti e anche per i lavoratori degli Istituti, per via della pandemia da coronavirus. Dopo l’esplosione della prima ondata a fine febbraio 2020 le visite sono state bloccate. Sono esplose proteste, anche violente, diversi detenuti sono morti. “Complessivamente il sistema penitenziario ha retto all’impatto del contagio - argomenta comunque il Garante - rispetto al rischio potenziale di un ambiente chiuso. Va comunque tenuto presente che in un giorno della seconda ondata si è raggiunto il picco di 849 contagi rispetto a una popolazione di 53.608 il che significa che proporzionato agli oltre 59 milioni di italiani corrisponderebbe avere avuto in una giornata 938 mila contagiati. Vero è che il numero di sintomatici è stato bassissimo”. Procede intanto la campagna vaccinale. Tutti gli Istituti minorili sono stati vaccinati e “si mantiene un tasso di presenza negli Istituti per minori molto basso, pari a 319 con una capienza di 478, a fianco di 13.871 in varie misure alternative”. Rispetto all’istruzione “colpiscono i due dati simmetrici di 858 analfabeti e 1034 iscritti all’università”. CPR - Il 50,88% delle persone trattenute nei Centri di permanenza per i rimpatri, sono state effettivamente rimpatriate l’anno scorso. “Un dato che pone seri interrogativi circa la legittimità di un trattenimento finalizzato a un obiettivo che si sa in circa nella metà dei casi non raggiungibile”. Complessivamente i rimpatri di migranti nel 2020 sono stati 3.351. Una cifra che deve tenere conto del periodo di lockdown e quindi di chiusura delle frontiere. Il dato fornito oggi dal Garante non si discosta da quello degli anni precedenti. Il rapporto offre una cronologia degli anni scorsi: 50% nel 2011, 2012 e 2013; 55% nel 2014; 52% nel 2015; 44% nel 2016; 59% nel 2017; 43% nel 2018; 49% nel 2019; 50% nel 2020. Negli ultimi 3 anni soltanto 5 ergastolani hanno ottenuto la libertà condizionale di Federica Olivo huffingtonpost.it, 17 giugno 2021 La relazione del Garante dei detenuti: “Tanti suicidi, poche sezioni salute mentale. Su Covid in carcere abbiamo rischiato, ma retto”. “Per mafiosi e assassini l’ergastolo non si tocca, dicano quello che vogliono. E basta!”. Matteo Salvini, il 15 aprile, commentava con queste parole la sentenza della corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo per i condannati per mafia e altri reati gravi. Non era stato certo il solo a spendere pensieri di questo genere su una decisione che impone al Parlamento di superare il regime attuale. A urlare al rischio di trovarsi pericolosi criminali in giro per le strade d’Italia. Eppure, forse, a spegnere i timori di chi paventa la possibilità che abolendo l’ergastolo ostativo - e concedendo ai condannati per reati più gravi la possibilità di accedere alla liberazione condizionale - ci si possa trovare di fronte a orde di criminali in libertà, basterebbe guardare i dati. Li serve, chiarissimi, su un piatto d’argento, il Garante dei detenuti Mauro Palma, nelle anticipazioni della relazione che farà al Parlamento lunedì 11 giugno. Ovviamente riguardano gli ergastolani non ostativi. Le persone, cioè, a cui nonostante il fine pena mai è consentito dalla legge chiedere di accedere a tutti i benefici penitenziari, liberazione condizionale compresa. Ma sono utilissimi a inquadrare la questione. E spiegano che chiedere al magistrato di sorveglianza un beneficio penitenziario - possibilità prevista dalla legge, che risponde a un principio costituzionale - non significa automaticamente ottenerlo. Se questa regola vale per gli ergastolani non ostativi, è lecito pensare che varrà per tutti. Ma andiamo ai numeri, dunque. Ad oggi su una popolazione di 53.661 detenuti gli ergastolani sono 1.779. Di questi 1.259 sono ostativi e quindi non possono avere diritto alla liberazione condizionale. Almeno fino a quando - entro maggio 2022 - il Parlamento non legifererà. Tra quelli che invece possono accedere al beneficio, i via libera si contano sulle dita di una mano: la liberazione condizionale è stata concessa a una persona sola nel 2019, a quattro persone nel 2020 e, per ora, a nessuno nel 2021. Altro che liberi tutti, dunque. Solo l’applicazione, attenta e rigorosa, della legge. Le anticipazioni del Garante non ne fanno menzione, ma una tendenza simile si può trovare per quanto riguarda i permessi premio. Aveva suscitato tanto clamore la sentenza della corte Costituzionale del 2019 che dava la possibilità anche ai detenuti all’ergastolo ostati di ottenere permessi premio. Bene: su circa 1250 detenuti in quanti li hanno ottenuti? La risposta a questa domanda è stata fornita dal Dubbio a metà aprile: cinque. Questo perché la Consulta con la sua decisione del 2019 non ha aperto le porte delle celle in maniera indiscriminata. Ha solo detto, in sostanza, che il detenuto ostativo può chiedere il permesso premio. Ma lo può ottenere solo se viene provato che non ha più rapporti con l’associazione criminale. Si tratta di una valutazione non da poco, che spesso ha esito negativo. Ed ecco l’effetto temuto da alcuni, l’allarme lanciato da altri, non esiste. Esistono, invece, e persistono alcuni problemi annosi del carcere. Dalle anticipazioni della relazione di Mauro Palma emerge come il sovraffollamento delle carceri si sia ridotto di molto nell’anno della pandemia. Il 2020 era iniziato con 60.971 detenuti, è finito con 53.329. La riduzione, dovuta alle norme adottate per l’emergenza, è evidente. Ma il sovraffollamento resta: al 7 giugno i detenuti erano 53.661 a fronte di una capienza è di 50.781 posti, di cui effettivamente disponibili 47.445. Sovraffollamento ridimensionato, insomma, ma certamente non azzerato. Il Garante fa poi notare come le sezioni per la salute mentale sono solo 34, un numero certamente non insufficiente se si considera che - come raccontato da Huffpost - quattro detenuti su dieci hanno problemi psichiatrici di varia natura e gravità. Pesa poi, ancora una volta, il dato dei suicidi. Nel 2020 - come già rilevato da Antigone nel suo rapporto annuale - è stato registrato un numero elevato di persone che si sono tolte la vita. Sessantadue, scrive il Garante, mai così tante da 20 anni. Una cifra a cui le istituzioni dovrebbero prestare attenzione. Il 2020 è stato l’anno del Covid, anche nelle carceri. E ora che la vaccinazione corre spedita anche tra detenuti e operatori si possono trarre le somme dell’impatto che il virus ha avuto nei penitenziari. “Il sistema - sostiene Palma - ha retto all’impatto del contagio, rispetto al rischio potenziale di un ambiente chiuso”. Ma i contagiati, soprattutto se si fa il confronto con l’esterno, sono stati molti: “Va comunque tenuto presente - precisa Palma - che in un giorno della seconda ondata si è raggiunto il picco di 849 contagi rispetto a una popolazione di 53.608 il che significa che proporzionato agli oltre 59 milioni di italiani corrisponderebbe avere avuto in una giornata 938 mila contagiati. Vero è che il numero di sintomatici è stato bassissimo”. Il virus ha fatto vittime, tra i detenuti e tra gli operatori, i focolai sono stati vari, in molte carceri italiane, e la paura che la situazione potesse precipitare è stata manifestata da chi conosce bene il mondo penitenziario. La campagna di immunizzazione sta arrestando la corsa del Covid anche in cella. I problemi presenti da ben prima della pandemia restano in parte irrisolti. Se lo Stato sottopaga i detenuti che lavorano di Claudia Osmetti Libero, 17 giugno 2021 Il caso è questo: un ex detenuto del carcere di Lecce, in Puglia, ha fatto ricorso al Tribunale del lavoro, e l’ha vinto, perché le sue mansioni (svolte durante la detenzione) sono state sottopagate. Lo scandalo è che di scandalo non ce n’è proprio stato, nessuno s’è indignato (se non il giudice che ha condannato il ministero della Giustizia a pagare 7.537,44 euro per compensargli sia la retribuzione che i contributi) e la notizia è passata in sordina. D’altronde, sono in tanti coloro che pensano: già sono in galera, che cosa vogliono, pure essere pagati? Per avere un quadro più completo della situazione, occorrono altri dati. Occorre sapere, per esempio, che il lavoro carcerario è uno dei pochissimi modi che i detenuti hanno per racimolare qualche soldo e (aspetto assai più importante) per costruirsi un futuro dignitoso, si spera lontano dalla delinquenza. Occorre sapere che il numero dei carcerati con un impiego - quasi sempre alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria che li ospita - cresce ogni anno; che i compensi economici devono, per legge, essere erogati nel rispetto dei contratti nazionali di categoria e che, una volta usciti di cella, contrariamente a quel che pensano i manettari più irriducibili, lo Stato chiede agli ex galeotti le spese del mantenimento che hanno sostenuto. Con questa cornice, pensiamo, il fatto si fa più evidente. Se “la pena tende alla rieducazione del condannato” (lo dice la Costituzione, mica Libero), allora bisogna avere anche l’onestà intellettuale di ammettere che una “retribuzione non adeguata” non è proprio il viatico migliore per insegnare a chi ha sbagliato che la legalità “paga” sempre. Insomma, il lavoro va pagato, ma va pagato il giusto. Altrimenti è un’altra cosa. Vero è che, negli ultimi anni, il budget stanziato per coprire gli stipendi delle “mercedi” (si chiamano così i lavori dietro le sbarre) è quasi raddoppiato: ma forse non è ancora sufficiente. Tant’è che il ricorso di Lecce, promosso da un signore di 56 anni che, al fresco, ha fatto il barbiere e l’inserviente in cucina, non è unico nel suo genere. Giustizia, i nodi cruciali di una riforma di Giuseppe Pignatone La Repubblica, 17 giugno 2021 “Non si rinvia a giudizio senza prove granitiche”. Sono parole di Giovanni Falcone, ricordate dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, il 23 maggio scorso, nell’anniversario della strage di Capaci. Non si può che concordare sul principio espresso da Falcone, il quale precisava che questo è specialmente valido proprio quando a essere giudicati sono importanti boss mafiosi, uomini politici, personaggi di rilievo o figure insospettabili agli occhi della società. Proprio in questi casi, diceva, un’assoluzione dovuta all’intrinseca debolezza dell’accusa avrebbe un doppio effetto boomerang: rafforzare la nomea di intoccabilità e invincibilità degli imputati e offrire facili argomenti per screditare l’operato di polizia giudiziaria e magistratura, cioè dello Stato. Eppure quelle parole sarebbero oggi tecnicamente sbagliate. O, per essere più precisi, esse si pongono, come ben sa la ministra, contro la legge attuale, diversa da quella vigente all’epoca del maxi processo. Oggi il pm è tenuto a richiedere il rinvio a giudizio quando ritiene che vi siano elementi sufficienti per sostenere l’accusa in dibattimento. Se chiedesse l’archiviazione del procedimento ritenendo di non avere le “prove granitiche” di cui parlava Falcone, il gip avrebbe il diritto-dovere di ordinargli di procedere. A sua volta, il giudice per l’udienza preliminare deve disporre il rinvio a giudizio a meno che (art. 425 Cpp) il futuro dibattimento non si prefiguri già del tutto inutile per l’assoluta inadeguatezza degli elementi di accusa. La modifica radicale di questo snodo processuale sembra riscuotere largo consenso. Secondo le proposte formulate dalla Commissione Lattanzi ci sarebbe anzi un completo capovolgimento, poiché il giudice dovrebbe pronunciare la sentenza di “non luogo a procedere” laddove gli elementi acquisiti non siano tali da determinare la condanna. Lo stesso criterio dovrebbe essere adottato dal pm e dal giudice per decidere, al termine delle indagini preliminari, sull’eventuale richiesta di archiviazione del procedimento. Come è evidente, si tratterebbe della modifica di un punto fondamentale del codice varato nel 1989, perché andrebbe a valorizzare ancora di più quanto è stato acquisito nella fase delle indagini: un risultato paradossale, nel momento in cui si insiste sulla natura accusatoria del processo. Tuttavia, credo anch’io che siano ormai necessarie le modifiche sopraindicate al fine di limitare il numero abnorme dei dibattimenti e tentare di ridurre la durata dei processi e gli effetti gravissimi del loro protrarsi. Si deve infatti prendere atto dell’impossibilità, nelle attuali condizioni politiche, di adottare rimedi più radicali quali una drastica depenalizzazione, e dell’incertezza sull’effettiva riduzione del numero degli appelli degli imputati, che la Commissione Lattanzi persegue attraverso il sistema della “impugnazione a critica vincolata”, criterio che potrebbe essere esteso anche all’appello del pm. Un’ultima considerazione che attiene ad alcune tra le polemiche più accese di questi mesi. Proprio la modifica proposta dalla Commissione Lattanzi dimostra quanto siano ingannevoli le ripetute considerazioni critiche circa la sproporzione tra il numero delle richieste di rinvio a giudizio e quello delle condanne, anche solo in primo grado. Questa sproporzione, calcolata intorno al 40% per i processi avanti il giudice monocratico, decisamente meno per i giudizi collegiali, è ottenuta infatti mettendo in rapporto elementi eterogenei dato che, si ripete, attualmente il pm non può e non deve archiviare se ha elementi idonei a sostenere l’accusa in dibattimento, criterio ben diverso dall’avere “elementi tali da determinare la condanna”, come indicato nella proposta Lattanzi. Senza considerare che solo al dibattimento si formerà, nel contraddittorio, la prova valida per il giudizio, con possibili modifiche, anche sostanziali, di quanto era risultato nel corso delle indagini. Per lo stesso motivo trovo irrazionale, almeno finché non cambierà la legge, la tesi secondo cui si dovrebbe tenere conto del divario tra richieste di rinvio a giudizio e numero di condanne ai fini delle valutazioni di professionalità dei magistrati. Non c’è dubbio che anche su questa materia sono necessarie modifiche significative, tese a evitare l’ingiustificato livellamento verso l’alto cui si assiste oggi, e un passo significativo sarebbe, secondo me, quello di prevedere che i rappresentanti degli avvocati nei Consigli Giudiziari possano partecipare alla discussione su queste valutazioni. Resterebbe tuttavia la necessità di ricorrere a criteri di valutazione meno suggestivi, e meno ingannevoli, di quello sopra indicato. Criteri che, soprattutto, non implichino un inammissibile sindacato sulle singole decisioni di giudici e pubblici ministeri, perché si correrebbe il serio rischio di metterne a rischio l’indipendenza, che non è un privilegio del magistrato, ma una garanzia democratica per tutti i cittadini. Luigi Manconi: “Che errore paragonare garantisti e giustizialisti” di Angela Stella Il Riformista, 17 giugno 2021 “Stimo Cartabia, ma ha sbagliato: non sono due categorie speculari. Il garantismo è dalla parte della legge, delle sue forme e delle sue regole. Il giustizialismo è un’idea regressiva, che nega la Costituzione e che può diventare patologia emotiva e pulsione nevrotica”. Per il professor Luigi Manconi, già docente di Sociologia dei fenomeni politici, già presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato, editorialista di Repubblica e La Stampa il garantismo e un sistema di regole che “deve valere, nella stessa identica misura, per l’innocente e per il colpevole. Dunque, anche per il responsabile delle azioni più riprovevoli. Proprio perché, in questa sua imparzialità e assolutezza risiede la sua forza”. La Ministra della Giustizia Cartabia ha invitato a non far “diventare un derby, esasperando le posizioni per vedere chi ha la meglio” “la dialettica tra giustizialisti e garantisti”. È d’accordo? Ieri, leggendo un quotidiano, mi è venuto da piangere: si parlava di “partiti ipergarantisti”, a proposito di Forza Italia, Lega e Italia Viva. Pensi quale slittamento del linguaggio e quale alterazione del senso abbia raggiunto il discorso pubblico. Oggi, la Lega è, forse più di Fratelli d’Italia, un partito compattamente giustizialista; il leader di Italia Viva è lo stesso che propose il procuratore Nicola Gratteri come Ministro della Giustizia, e non è la sua sola responsabilità; Forza Italia è l’espressione, per così dire, più luminosa del “garantismo classista” che, per sua natura, è la negazione del garantismo stesso. Questo, infatti, o è un assoluto o non è. Ma per rispondere alla sua domanda, dico che considero Marta Cartabia, se posso permettermi, un’amica e, allo stesso tempo, una speranza e un’opportunità. Si dovrà a lei se si riuscirà a ottenere una decorosa riforma della giustizia. Eppure, trovo quella frase un errore. Garantisti e giustizialisti, infatti, non costituiscono due categorie opposte e speculari. Il garantismo è l’espressione del dettato costituzionale e di una concezione illuminista e liberale del diritto. Il garantismo è dalla parte della legge, delle sue forme e delle sue regole. Il giustizialismo è un’idea regressiva, che nega la Costituzione e che può diventare patologia emotiva e pulsione nevrotica. E si manifesta spesso come sordo umore collettivo, rancore sociale e voglia di rivalsa Dunque, non c’è alcun derby e nemmeno uno scontro politico tra due schieramenti II garantismo è in primo luogo rispetto intransigente delle regole. Ma non si può ignorare che, a ispirarlo, c’è una opzione culturale e morale, che è tale perché pone al centro la persona, la sua dignità inviolabile e i suoi diritti irrinunciabili Per questo, è una scelta molto difficile, direi ardua, che non vale una volta per tutte. È, piuttosto, una conquista. A me è capitato, più di una volta, di non essere garantista, e me ne sono pentito. Pentito in senso proprio. Circa trent’anni fa, scrissi un articolo sciagurato contro Bestino Craxi, criticato non per i suoi tantissimi errori, ma per la sua figura, il suo carattere, la sua personalità. Il fatto che, talvolta, mi venga ancora rimproverato, è per me una sorta di espiazione. In altre parole, se volessi tentare una definizione, direi così: il garantismo è l’impegno alla piena applicazione di tutti i vincoli e le prescrizioni dello Stato di diritto e, in particolare, del quadro di tutele assicurate al cittadino nei confronti di tutte le istituzioni dello Stato nel corso delle diverse fasi del processo. In questo senso il garantismo si collega alla tradizione classica del pensiero penale liberale ed esprime l’istanza, propria dell’illuminismo giuridico, della minimizzazione del potere punitivo, per il massimo rispetto possibile dei diritti di ognuno. Crede nella presunta svolta garantista di Luigi Di Maio? Io, ovviamente, non indago le coscienze. Penso che quella lettera di scuse verso l’ex sindaco di Lodi sia stato un atto politico importante. Ma non posso dimenticare che viene dopo quindici anni di giustizialismo militante e che, finora, non ha avuto alcun seguito. Per capirci, non ha modificato la posizione del partito di Di Maio nei confronti di quell’obbrobrio giuridico che è l’attuale prescrizione. Ed è stato Di Maio a definire “Taxi del mare” le ONG del soccorso nel Mediterraneo. Dopo le parole di Di Maio è intervenuto il segretario del Pd Enrico Letta: “Basta guerra dei trent’anni tra giustizialisti e impunitisti”… Letta voleva sottrarsi a quella stessa contrapposizione fittizia tra garantisti e giustizialisti, ma il risultato non mi sembra soddisfacente. Certo, in Italia, come ovunque, è assai diffusa la voglia di impunità, ma non mi sembra abbia mai assunto la consistenza e l’identità di uno schieramento ideologico. In realtà, l’impunitismo è la tentazione di chiunque abbia commesso reato. Ma stiamo attenti a non fare confusione: il garantismo deve valere, eccome, anche per il colpevole. Ed è proprio qui che si misura l’autenticità della posizione garantista, che - di conseguenza - è altra cosa dall’innocentismo, dal colpevolismo e, infine, dall’impunitismo. Secondo lei l’osmosi tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle in tema di giustizia che direzione sta prendendo? Chi sta influenzando chi? Oppure sono due realtà identiche, da sempre attraversate da potenti pulsioni giustizialiste? Per usare le sue parole, il M5S ha fatto tutt’uno con la pulsione giustizialista lungo l’intera sua vita politica. Il Pd è ben altra cosa: la componente garantista, certo minoritaria, è sempre stata vivace e battagliera. Purtroppo, spesso, è risultata sconfitta. Ricordo in particolare, come alla fine della diciassettesima legislatura, nel 2018, i coraggiosi provvedimenti per la giustizia e per il sistema penitenziario del Ministro Andrea Orlando furono sospesi, e così non diventarono legge. Una occasione davvero importante buttata via. Quale possa essere l’esito del rapporto tra Pd e M5s, nel procedere della loro alleanza, non sono in grado di prevederlo. Punto sul fatto che l’attuale condizione di smarrimento ideologico e politico dei grilli consenta un loro, almeno parziale, rinnovamento: e che sia il partito di Letta a condizionare quello di Conte, e non viceversa. Sarebbe una vera disgrazia. Condivide il fatto che alcune categorie di persone siano escluse a prescindere da ogni forma di tutela dello Stato di Diritto? Penso ai detenuti, ai Rom, agli immigrati? Ripeto: il garantismo o è assoluto o non è. E il garantismo classista, che vedo concentrato in particolare in Forza Italia è la negazione stessa di una concezione liberale della giustizia. Il garantismo dei ricchi (e dei potenti e dei privilegiati), è qualcosa di insopportabile: perché mai le guarentigie rivendicate giustamente per Silvio Berlusconi, e che la sinistra troppo faticosamente gli riconosce o non gli riconosce affatto, non devono valere per il richiedente asilo? Lo stesso richiedente asilo che, come nulla fosse, ha visto svanire un grado di giudizio nella procedura di ricorso contro il diniego all’acquisizione dello stato di rifugiato. E perché le tre condizioni, tassativamente fissate dal codice per l’applicazione della misura cautelare, diventano labili e non vincolanti quando il custodito è un povero cristo? E c’è un altro esempio dirimente. Ieri, in commissione Giustizia della Camera, è ripresa la discussione su una proposta di legge di Riccardo Magi, in materia di sostanze stupefacenti. Partendo dalla modifica dell’art. 73 del Testo Unico sulle droghe, si interviene per trasformare in fatto di lieve entità una fattispecie penale che produce il maggior numero di ingressi nel sistema penitenziario; e per affermare la non punibilità, anche amministrativa, della coltivazione di cannabis per uso personale. Una classica proposta liberale. Pensi che un quarto di secolo fa, l’allora parlamentare di Forza Italia, Marcello Pera, firmava con me articoli sul Sole 24 Ore, per argomentare il progetto di legalizzazione dei derivati della cannabis. Senza retorica, voglio dire che è garantista chi esige la tutela delle regole e delle forme, sia per Silvio Berlusconi e, mi voglio rovinare, persino per Matteo Salvini, sia per la persona con disturbo mentale, alla quale viene applicato un Trattamento sanitario Obbligatorio che assomiglia tanto a un violento fermo di polizia. Ricordo le vicende di Franco Mastrogiovanni, Andrea Soldi e Matteo Tenni. Renzi nell’aprile 2020 quando per motivi di salute alcuni detenuti dell’Alta sicurezza o al 41-bis vennero posti ai domiciliari disse: “Io sono un garantista convinto. Ma essere garantisti non significa scarcerare i super-boss”. Nunzia De Girolamo, 27 maggio 2021: “Sui casi di violenza sessuale smetto di essere garantista”. E potremmo continuare... In politica esiste una vera forza garantista senza il “ma”? È più interessante, direi, l’affermazione di De Girolamo perché, oltretutto, assai diffusa. Sono garantista, ma: e, poi, di seguito un elenco di deroghe che, a piacere, l’uno o l’altro indicano. Oltre a dimostrare la palese fallacia dell’autocertificazione di garantismo, quelle frasi rivelano, in realtà, un equivoco di fondo.11garantismo non è, in alcun modo, una dichiarazione di simpatia o di spregio per l’una o l’altra categoria di crimine o di criminale. E. ripeto. il sistema di regole deve valere, nella stessa identica misura, per l’innocente e per il colpevole. Dunque, anche per il responsabile delle azioni più riprovevoli. Proprio perché, in questa sua imparzialità e assolutezza, risiede la sua forza. Ovvero la sua universale validità. L’aver promosso con il Partito Radicale i referendum sulla giustizia ha portato qualcuno a credere nella svolta garantista di Matteo Salvini. Lei invece come analizza questo dato? Va da sé che non credo in alcuna svolta garantista della Lega Allo stesso tempo, tengo molto a dire che non trovo nulla di criticabile nel fatto che il Partito Radicale promuova i referendum unitamente al partito di Salvini. Da sempre i Radicali hanno adottato questa impostazione, rivelatasi spesso proficua E francamente non mi sento di contestarla: per ottenere risultati condivisibili, e da me condivisi, come quelli perseguiti dai referendum, qualsiasi alleato è il benvenuto. L’accezione prevalente di garantismo resta negli usi correnti quella di “garantismo penale”. Luigi Ferrajoli ne rintraccia due fattori di crisi: una “una patologica inflazione legislativa, in forza della quale le leggi penali speciali e le figure di reato si contano ormai in decine di migliaia” e “una profonda disuguaglianza penale, forse la più odiosa delle forme di disuguaglianza, attestata dalla composizione sociale della popolazione carceraria”. È d’accordo con questa analisi? Intanto, quando parla Luigi Ferrajoli, bisogna osservare il silenzio e ascoltare. Il mio garantismo è figlio del suo “Diritto e Ragione”, pubblicato per la prima volta nel 1989. E già negli anni precedenti Ferrajoli era editorialista della rivista Antigone, che dirigevo insieme a Rossana Rossanda e Massimo Cacciali. Dunque, come non essere d’accordo con le sue parole? È da questa analisi che altri, penso ai miei sodali Stefano Anastasia e Andrea Pugiotto, hanno elaborato la categoria di populismo penale, così adeguata alle nostre società e allo spirito del tempo. La sfida di Cartabia: cause civili veloci grazie alle vie stragiudiziali di Errico Novi Il Dubbio, 17 giugno 2021 La grande scommessa di Cartabia: “Abbattere del 40% la durata dei processi in 5 anni”. La legge delega in aula il 20 luglio. “Riforma ambiziosa”. Marta Cartabia la definisce così. Ed è vero: il ddl delega sul processo civile è un grande progetto non foss’altro per il risultato che si propone: “Abbattere del 40% la durata dei processi in 5 anni”. E per “rendere più immediata e sicura la risposta di giustizia nei tribunali”, la ministra della Giustizia dichiara di scommettere sulla rivoluzione sempre auspicata dall’avvocatura: “Stimolare una cultura della ricomposizione consensuale dei conflitti”. Ed è in vista del nuovo paradigma che “si valorizzano con importanti incentivi fiscali gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie”. Sono presupposti ribaditi dalla guardasigilli ancora una volta ieri, nel giorno in cui deposita a Palazzo Madama i propri 24 emendamenti al ddl civile, che ha come testo base l’articolato proposto dal precedente ministro, Alfonso Bonafede. Anche, se non soprattutto, con la “delocalizzazione strutturale dei conflitti” dalla scrivania del giudice al dialogo fra gli avvocati, Cartabia confida di offrire al Paese “un processo agile, all’insegna della collaborazione tra le parti, i difensori e il giudice”. D’altronde “dall’approvazione del ddl civile, come delle altre imminenti riforme che riguardano la giustizia”, ricorda ancora la guardasigilli, “dipende l’erogazione dei fondi previsti dal Piano di ripresa”. Ambiziosa è pure la tempistica che il governo intende darsi. Col deposito al Senato degli emendamenti, Cartabia porta a compimento un’opera in realtà già pronta da un mese e passa. Gli emendamenti suggeriti dalla commissione di esperti, che è stata presieduta dal professor Francesco Paolo Luiso, erano stati già “chiusi” dall’ufficio legislativo del ministero addirittura lo scorso 12 maggio. Poi però è subentrata la laboriosa fase della bollinatura in capo alla Ragioneria generale dello Stato, in un continuo scambio di bozze con i tecnici di via Arenula. Finché, ottenuto due giorni fa il via libera della Ragioneria, Cartabia è tornata in possesso del proprio pacchetto di modifiche e ieri l’ha consegnato nelle fidate mani di Anna Macina, sottosegretaria alla Giustizia M5S, avvocata civilista e prescelta per seguire d’ora in avanti i lavori in commissione al Senato. Proprio Macina ieri ha formalmente completato il deposito, “e adesso si deve correre”, ha detto. La commissione Giustizia entrerà nel vivo dopo il 2 luglio, data entro cui i partiti dovranno depositare i loro subemendamenti. In Aula ci si deve andare il 20 luglio: una corsa, perché la riforma è ampia e complessa. Tutto sta a capire se sia anche capace di stare in equilibrio fra pretesa (dalla Ue) efficienza del processo e tutela delle garanzie. Su quest’ultimo aspetto è difficile giudicare con assertività. Di certo Cartabia ha rafforzato l’investimento politico-normativo sulle “Adr” (come riportato con altri dettagli in un servizio a parte, ndr), valorizzate “con importanti incentivi fiscali”, assicura. Da una parte resta la “maggiore concentrazione delle attività nell’ambito della prima udienza di comparizione”, dall’altra c’è l’effettivo potenziamento della via stragiudiuziale affidata proprio alle difese. Sono due caratteri giustapposti: è nota la preoccupazione dell’avvocatura istituzionale (il Cnf) e associativa (innanzitutto l’Unione nazionale Camere civili) per i rischi di vedere le “garanzie sottratte ai cittadini e sacrificate all’efficienza”. L’impressione è che la guardasigilli abbia compiuto un ulteriore, reale sforzo anche finanziario sulle Adr: se questo secondo aspetto sarà sufficiente a bilanciare il primo, non è facile dirlo, appunto. Vanno tenute presenti altre questioni. Intanto, seppure si tratti di una legge delega, gli emendamenti di Cartabia rendono “immediatamente precettive” alcune norme relative al “rafforzamento della tutela del credito nel processo esecutivo” e all’ambito familiaristico. Riguardo alle impugnazioni dei licenziamenti, se c’è domanda di reintegra si assicura alla causa “carattere prioritario”. Oltre che sulla ormai nota “istituzione di un rito unitario in luogo della frammentazione dei procedimenti di famiglia, preservando le specificità della giustizia minorile”, si punta molto, per gli “score” di rapidità, su una “semplificazione” ottenuta anche col consolidamento delle “innovazioni telematiche introdotte durante l’emergenza Covid”. Cartabia spiega che la riforma del processo civile è “la prima tappa di un percorso impegnativo, che tocca molti settori: raggiunto questo traguardo, guardiamo con rinnovata fiducia al cammino anche delle prossime riforme”. Nel caso del ddl penale, si dovrà attendere luglio per l’approdo in Aula: ieri il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni ha chiesto a Roberto Fico una proroga: la scadenza era fissata al 28 giugno. Non è allarmante. Ma il peso delle sfide che attendono Cartabia, visto nell’insieme, è ai limiti del titanico. Riforma della giustizia, finalmente una vera cura per il processo civile di Priamo Siotto Il Riformista, 17 giugno 2021 La commissione per la riforma del processo civile, presieduta dal Prof. Luiso e voluta dalla Ministra della Giustizia Marta Cartabia, ha allo studio una serie di emendamenti da presentare al disegno di legge delega sul processo civile (atto Senato 1662). L’obiettivo della riforma, in armonia con le indicazioni contenute nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, è quella di abbreviare i tempi della giustizia civile assicurando decisioni da parte dell’Autorità Giudiziaria più rapide e quindi più incisive. Secondo quanto è dato leggere nella relazione di accompagnamento, la riforma si rende necessaria in quanto la durata dei processi civili incide negativamente sulla visione esterna della qualità della giustizia confermando il diffuso adagio secondo cui una giustizia ritardata equivale ad una giustizia denegata. È altresì noto che una delle ragioni per cui le imprese estere sono restie ad investire nel nostro Paese sia proprio quella della eccessiva lentezza del procedimento civile, specie per quanto riguarda le procedure per il recupero dei crediti e quindi la fase dell’esecuzione forzata e del procedimento fallimentare. Si consideri che un recente studio ha valutato che una riduzione dei tempi da nove a cinque anni delle procedure fallimentari può produrre un aumento della produttività della nostra economia in ragione dell’1,6 per cento. A differenza dei numerosi tentativi di riforma posti in essere dagli anni ‘90 in poi, a titolo esemplificativo si ricorda la L. n. 353/1990, (provvedimenti urgenti per il processo civile), a cui seguirono le modifiche contenute nella L. n. 374/1991, l’attuale progetto di riforma ha il merito di affrontare la materia secondo una visione completa ed organica, evitando l’errore in cui si è incorsi in passato di intervenire con mini riforme i cui rimedi spesso costituivano un peggioramento dei mali che si volevano curare. Il PNRR indica lo strumento della delega legislativa per l’attuazione della riforma che dovrà essere approvata dal Parlamento e poi attuata attraverso i decreti delegati. I punti principali della riforma sono diversi, dal momento che le modifiche da apportare al disegno di legge riguardano anche il giudizio di appello, quello di cassazione, il processo di esecuzione, i procedimenti in camera di consiglio e il procedimento arbitrale. In questa sede giova richiamare il potenziamento dei sistemi alternativi delle liti, c.d. ADR (Alternative Dispute Resolution). Per quanto riguarda la mediazione, introdotta nel nostro ordinamento con il D.Lgs. N. 28/2010, la stessa viene estesa in via obbligatoria, previa conferma delle materie per le quali era già prevista, anche ai contratti di opera, di associazione in partecipazione, di somministrazione e per quanto attiene ai rapporti nelle società di persone, introducendo incentivi di carattere fiscale ed economico in favore delle parti che vi ricorrano con successo. Sul punto si rileva l’opportunità che la c.d. mediazione obbligatoria venga invece sostituita con la mediazione delegata, cioè disposta dal Giudice, ogni qualvolta nella trattazione della causa si ravvisi l’opportunità di rinviare le parti ad un mediatore, valutando caso per caso la concreta possibilità di composizione della singola controversia. Si tratterebbe quindi di passare da un criterio di obbligatorietà ope legis ad una visione di obbligatorietà ope judicis. Così come, sempre in un’ottica di deflazione del contenzioso, assume rilievo portante la proposta di conciliazione formulata dal Giudice in qualunque stato della causa, con l’obbligo delle parti di assumere una precisa posizione che non potrà poi non avere conseguenze in ordine al riparto delle spese processuali. Il progetto di riforma tende altresì a potenziare l’istituto della negoziazione assistita, con l’obbligatoria presenza degli avvocati, estendendola anche in materia di diritto di famiglia (separazioni consensuali, divorzi congiunti, rapporti all’interno delle famiglie di fatto). L’istituto della negoziazione assistita viene valorizzato, inoltre, prevedendo che gli accordi avvenuti costituiscano titolo idoneo per la trascrizione ed estendendo l’istituto alla crisi delle coppie di fatto, per i procedimenti di affidamento e mantenimento dei figli minori o di quelli maggiorenni non autosufficienti. Sotto il punto di vista procedurale la legge delega, in un’ottica di semplificazione, prevede un unico rito per i procedimenti a domanda congiunta di separazione dei coniugi, di divorzio e dei figli nati al di fuori del matrimonio. Altro punto saliente è costituito dalla riesumazione dell’ufficio del processo (art. 12 Bis) che benché previsto dalla Legge 11.8.2014, n. 114, non ha mai avuto una seria attuazione. L’obiettivo è evidente: si tratta di offrire un supporto al Giudice, attraverso la costituzione di un team di personale qualificato che si occupi della ricerca dei precedenti giurisprudenziali, una lettura preventiva delle carte processuali e un fattivo collegamento tra il Giudice e gli uffici di cancelleria. Ed ancora appare positivo il richiamo al calendario del processo, di cui all’ art. 81-bis delle disposizioni di attuazione del c.p.c., peraltro già oggetto di modifica con la L. 148/2011. Sul punto la Corte Costituzionale con ordinanza del 18.7.2013, n. 216, ha avuto modo di chiarire che il calendario del processo costituisce una diretta emanazione dell’art. 175 del c.p.c. che nell’affidare al GI la direzione della causa consente di determinare preventivamente la durata del processo secondo precise scansioni. Una piena adesione all’idea che la trattazione delle cause avvenga in forma scritta, così trasformando quella che era una eccezione temporanea, dovuta alla emergenza sanitaria, in una regola ordinaria, salvo le ipotesi in cui una o entrambe le parti, ravvisino l’opportunità della trattazione orale e il Giudice reputi opportuna la richiesta. A giudizio di chi scrive la trattazione scritta ha comportato dei risultati positivi, sia in termini meramente logistici, con la scomparsa delle lunghe file di legali avanti all’uscio del Giudicante, sia in termini di chiarezza processuale attribuendosi alle parti la facoltà, entro precisi termini, di dedurre e controdedurre in maniera sintetica e puntuale (vedasi art. 12 lettera g quinquies del provvedimento di delega). Tutto ciò con l’ovvia considerazione che il processo civile deve rimanere processo di parte, connotato dalla disponibilità della materia e non può trovare preclusioni di censo. Ed ancora con la doverosa precisazione che una seria riforma del processo civile, volta ad una maggiore efficienza, non può passare solo attraverso interventi codicistici a costo zero ma deve comportare investimenti economici, che devono essere di lunga prospettiva e durata, e perciò oggetto di un lavoro il più possibile comune tra tutte le forze politiche, con il necessario ascolto di chi ogni giorno opera nei Tribunali. Investimenti economici volti all’introduzione nell’ordinamento di un maggior numero di magistrati, di personale amministrativo e di interventi di edilizia giudiziaria, ove necessaria. La tragedia della funivia e la pornografia del dolore di Simona Musco Il Dubbio, 17 giugno 2021 Tv e testate web diffondono il video della tragedia. L’ira della procuratrice Bossi: “Atto coperto da segreto. I familiari non avevano visto quelle immagini”. “Quelle immagini non erano state portate a conoscenza dei familiari”, dice con mestizia, in un comunicato secco ma efficace, la procuratrice di Verbania Olimpia Bossi. Immagini che durano poco più di un minuto: la cabina che sale, sembra essere arrivata a destinazione, ma poi scivola velocemente verso giù e cade nel vuoto. E dentro, visibili, le 15 persone che sono precipitate giù, 14 delle quali hanno perso la vita. Un’immagine drammatica che tutti, mentalmente, avevamo ricostruito dopo il resoconto giornalistico della tragedia della strage della funivia del Mottarone. Ma oggi alla descrizione si aggiunge qualcosa di più: il video, pubblicato in esclusiva dal Tg3 e rilanciato da tutte le testate, in una sorta di corsa alla condivisione per non rimanere indietro su nulla. Ma inaspettatamente, forse, i commenti indignati da parte degli utenti social dei canali di ognuna delle testate che hanno fatto questa scelta si sono moltiplicati in pochi secondi. Da lì ne è partita un’altra di corsa: quella a giustificare la propria iniziativa, spiegata con l’obbligo di informare. “Ecco perché abbiamo pubblicato quel video”, si legge ovunque, “le immagini sono più potenti di mille parole”, si aggiunge qui e lì, “nessuna delle vittime è identificabile”, si prosegue. Parole che hanno il gusto di una giustificazione che, comunque, fa acqua da tutte le parti. Ma è Bossi a spiegare quanto fuori luogo, se non illegittimo, sia stato pubblicare quelle immagini, consegnate alla stampa dai carabinieri, secondo quanto sostiene il Post. Le immagini sono state estrapolate dall’impianto di videosorveglianza della funivia e messe a disposizione delle parti già a fine maggio scorso, all’atto della richiesta di convalida del fermo e di applicazione di misura cautelare. “Si tratta, tuttavia, di immagini di cui, ai sensi dell’articolo 114 comma 2 c.p.p., è comunque vietata la pubblicazione, anche parziale, trattandosi di atti che, benché non più coperti dal segreto in quanto noti agli indagati, sono relativi a procedimento in fase di indagini preliminari”, spiega la procuratrice. Ma se non bastasse la legge - i giornali non si sono mai fatti problemi, d’altronde, a pubblicare qualsiasi cosa, anche se coperta dal più vincolante dei segreti -, c’è una questione etica che avrebbe dovuto spingere le testate coinvolte ad aspettare un attimo. È sempre Bossi - che pure aveva fondato sulla “risonanza internazionale” e soprattutto mediatica della vicenda il pericolo di fuga dei tre indagati - a spiegare il perché. “Ancor più del dato normativo - si legge in una nota della procura -, mi preme sottolineare la assoluta inopportunità della pubblicazione di tali riprese, che ritraggono gli ultimi drammatici istanti di vita dei passeggeri della funivia precipitata il 23 maggio scorso sul Mottarone, per il doveroso rispetto che tutti, parti processuali, inquirenti e organi di informazione, siamo tenuti a portare alle vittime, al dolore delle loro famiglie, al cordoglio di una intera comunità. Portare a conoscenza degli indagati e dei loro difensori gli atti del procedimento a loro carico nelle fasi processuali in cui ciò è previsto, non significa, per ciò stesso, autorizzare ed avallare l’indiscriminata divulgazione del loro contenuto agli organi di informazione, soprattutto, come in questo caso, in cui si tratti di immagini dal fortissimo impatto emotivo, oltretutto mai portate a conoscenza neppure dei familiari delle vittime, la cui sofferenza, come è di intuitiva comprensione, non può e non deve essere ulteriormente acuita da iniziative come questa”. Paolo Persichetti e il complottismo eterno delle procure di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 17 giugno 2021 L’ex membro dell’Unione dei Comunisti Combattenti è indagato per il suo lavoro di ricercatore storico sul caso Moro avrebbe divulgato documenti “riservati” che tutti conoscevano. Che il complottismo demenziale animi lo spirito dei tempi non stupisce più di tanto, alimentato e moltiplicato dalla rete, incubatrice di paranoiche visioni e leggende metropolitane, esso offre rifugio e conforto alle frustrazioni di tutti noi fornendo risposte pronte a qualsiasi quesito.Cedere alle lusinghe intellettuali delle sirene cospirazioniste è una tendenza molto umana, incarnata dal cosiddetto “popolo del web”, autore collettivo delle più strampalate teorie su congiure, misteri e diaboliche macchinazioni. Una letteratura “dal basso” che come un telefono senza fili passa di bocca in bocca. Fa però molta più impressione quando il complotto viene agitato e avallato dalle autorità; personaggi politici, ufficiali di polizia, e immaginifici procuratori della repubblica. Ci sono in tal senso pagine della nostra storia costantemente annebbiate dal morboso retropensiero complottista, con la sua fanatica ricerca della “verità”, sempre e immancabilmente diversa da quella ufficiale. Una di queste riguarda la “controstoria” del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro nutrita dalle lisergiche pubblicazioni dell’ex senatore Sergio Flamigni (già membro della Commissione parlamentare d’inchiesta) che da decenni insegue le ipotesi più pittoresche su quella tragedia, evocando trame oscure, intelligence deviate e connivenze politiche nel tentativo di far passare le Brigate Rosse come una succursale dei servizi segreti. Suggestioni che non hanno mai avuto lo straccio di un riscontro nella realtà, ispirando per lo più la schiera dei dietrologi in servizio permanente e filmacci come l’ineffabile Piazza delle cinque lune del sovranista Renzo Martinelli, ma evidentemente hanno estimatori anche nel variegato mondo delle toghe. Quel che è accaduto a Paolo Persichetti, ex membro delle Br-Ucc (ha scontato una condanna di 22 anni di reclusione per concorso morale dell’omicidio del generale Licio Giorgieri). Oggi uomo libero e ricercatore storico, è un caso emblematico di questo inesauribile filone. Almeno dieci agenti della Digos della Polizia postale gli sono piombati in casa di prima mattina e, per un’intera giornata, hanno rovistato tra i suoi archivi, sequestrando computer, telefono, tablet, hard disk, pendrive, fotocamere, quaderni, appunti e le bozze di un saggio che avrebbe dovuto essere pubblicato nei prossimi mesi. Si sono portati via persino i certificati e referti medici che appartengono al figlio disabile. Persichetti, che sul caso Moro ha pubblicato diversi libri spesso polemici con le sommarie supposizioni della Commissione d’inchiesta, è ufficialmente indagato per un reato gravissimo: associazione sovversiva finalizzata al terrorismo e favoreggiamento. E per aver diffuso documenti “riservati” “acquisiti e/o elaborati dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro”, come recita l’ordinanza del sostituto Eugenio Albamonte. Secondo la procura di Roma farebbe parte di un’organizzazione attiva dal 2015 volta a realizzare un indefinito disegno terrorista di cui “non si conoscono ancora il nome, i programmi, i testi e proclami pubblici e soprattutto le azioni concrete”, scrive lo stesso Persichetti in un intervento sul suo sito web Insorgenze, in cui racconta la surreale violenza con cui gli hanno portato via anni di ricerca storica, l’irruzione, brutale nella sua vita privata. “Oggi sono un uomo nudo, non ho più il mio archivio costruito con anni di paziente e duro lavoro, raccolto studiando i fondi presenti presso l’Archivio centrale dello Stato, l’Archivio storico del senato, la Biblioteca della Camera dei deputati, la Biblioteca Caetani, l’Emeroteca di Stato, l’Archivio della Corte d’appello e ancora ricavato da una quotidiana raccolta delle fonti aperte, dei portali istituzionali, arricchito da testimonianze orali, esperienze di vita, percorsi”, continua Persichetti, tuonando contro la doppiezza e la malafede dei suoi accusatori. Perché lo scopo dell’indagine non è certo smantellare un’organizzazione criminale che non c’è, quello è soltanto un artificio giuridico per far scattare l’articolo 270 bis del codice penale sull’associazione con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico. Uno strumento “speciale” che autorizza l’impiego di metodi di indagine invasivi figli della legislazione di emergenza che limitano il diritto alla difesa e le tutele degli indagati. L’obiettivo della procura è chiaramente il lavoro storico di Persichetti, tutto incentrato nella minuziosa ricerca sul periodo degli anni 70, anche per contrastare e le sue eterne fake news che regolarmente aleggiano attorno alla vicenda Moro (dal covo di via Gradoli che sarebbe appartenuto al Sisde, alla grottesca circostanza della “scopa nella vasca da bagno” al ruolo ambiguo di Mario Moretti). Ma c’è chi non si rassegna, forse per narcisismo intellettuale, forse per sincere manie di protagonismo e continua a rovistare nel pozzo senza fondo del complottismo. Sempre la procura di Roma, in un’inchiesta parallela, ha fatto prelevare lo scorso marzo un campione di Dna ad una decina di persone tra cui l’ex br Giovanni Senzani e Paolo Baschieri per confrontare il codice genetico con quello presente sui mozziconi di sigarette trovati in una delle auto utilizzate il 16 marzo del 1978 per sequestrare il presidente della Dc. Carcere ai giornalisti, sarà la Consulta a decidere: in arrivo una pronuncia di incostituzionalità di Liana Milella La Repubblica, 17 giugno 2021 Il 22 giugno la Corte deciderà dopo aver dato (inutilmente) un anno di tempo al Parlamento. Caduto nel vuoto il pressing della Guardasigilli Cartabia che più volte ha esortato il Senato ad andare avanti. Il veto di Italia viva sulle liti temerarie ha bloccato anche le norme sulla diffamazione, reclusione compresa. Il Parlamento, nella fattispecie il Senato, ha perso un’altra occasione per decidere. Era accaduto per il suicidio assistito, il ben noto caso Cappato. Questa volta succederà - martedì prossimo 22 giugno - sulla pena del carcere per i giornalisti che diffamano. Fino a sei anni, secondo la vecchia legge del 1948, e fino a tre in base all’articolo 595 del codice penale. Norme che ormai hanno però le ore contate. Una scontata pronuncia di incostituzionalità le butterà via dal parterre delle nostre leggi. La decisione, tuttavia, sarà attribuibile ancora una volta alla Consulta e non al legislatore. Proprio come come nel caso Cappato. E forse tra un anno ci si ritroverà costretti a raccontare un iter analogo pure per l’ergastolo ostativo. Sono caduti nel vuoto anche gli insistenti inviti della Guardasigilli Marta Cartabia ai senatori. Come dicono molte “voci” a palazzo Madama. Inviti giunti più volte da quando Cartabia è entrata in via Arenula. Un’esortazione a fare un passo avanti sul carcere ai giornalisti scontato per l’ex presidente della Consulta che il 22 giugno 2020, in pieno Covid, aveva firmato l’ordinanza del collega Francesco Viganò. Un testo che, in una decina di pagine, suonava come una pietra tombale su una misura ormai irrealistica e soprattutto respinta più volte dalla Corte dei diritti dell’uomo. Dal 2013 in poi si succedono a Strasburgo decisioni che bocciano senza appello una pena che contrasta con l’articolo 10 della Convenzione in tema di libertà d’espressione, in quanto intimidiscono il giornalista e lo rendono meno libero di informare. Due pronunce - quella per Maurizio Belpietro, allora direttore del Giornale, è del 2014; quella per Alessandro Sallusti, all’epoca del caso direttore di Libero, è del 2019 - riguardano l’Italia e comportano multe salate e la piena cancellazione del carcere. La linea europea è chiara, l’ordine è quello di archiviare una volta per tutte la pena della galera per la stampa. Sarebbe potuto bastare questo. Ma non è bastato. Tant’è che la Consulta, quando affronta l’anno scorso i dubbi costituzionali dei tribunali di Salerno e di Bari sulla legittimità della pena detentiva prevista in caso di diffamazione a mezzo stampa, indica già chiaramente la strada dell’incostituzionalità. Potrebbe bocciare subito. Non lo fa per una ragione che il giudice Viganò spiega con dovizia nella sua ordinanza. Per dirla in modo semplice l’intervento della Corte si risolverebbe in un taglio, in una pronuncia di incostituzionalità appunto, ma mancherebbe la necessaria ricostruzione della norma. La Corte non legifera. La Corte svolge il suo mandato di giudice delle leggi. Il resto tocca al Parlamento. Una volta c’erano i “moniti”, per lo più anche in questo caso inascoltati. Adesso c’è una pronuncia che ha l’effetto di una tagliola. Un anno di tempo per fare una legge. Un tempo ben congruo. Di fatto buttato via dal Senato. Adesso la Corte decide, e taglia. Nel nostro caso, proprio per il ruolo di Cartabia come ministra della Giustizia ed ex presidente della Consulta, il governo si è mosso, ha svolto il suo ruolo di suggerimento e stimolo per i senatori. Ma non è servito a nulla. Eppure le parole della Corte già contenevano una soluzione possibile, in cui al carcere si poteva ricorrere, ma solo limitatamente ai casi “di eccezionale gravità dal punto di vista oggettivo e soggettivo, tra i quali si inscrivono segnatamente quelli in cui la diffamazione implichi un’istigazione alla violenza ovvero convogli messaggi d’odio”. Il carcere ultima ratio insomma per i casi gravissimi. Per tutti gli altri invece il suggerimento era quello di “disegnare un equilibrato sistema di tutela dei diritti in gioco”, in cui prevedere il ricorso a sanzioni penali “non detentive”, nonché “a rimedi civilistici e in generale riparatori adeguati (come in primis l’obbligo di rettifica), ma anche ad efficaci misure di carattere disciplinare”. Che cos’ha fatto il Senato dove pure, dal 2018, esisteva un disegno di legge del forzista Giacomo Caliendo sulla diffamazione e un ddl del giornalista dell’Espresso Primo Di Nicola sulle liti temerarie? Relatore, per entrambi, Arnaldo Lomuti di M5S. Palazzo Madama ha lavorato con la lentezza di sempre. Con l’idea che i due disegni di legge dovessero, sempre e comunque, marciare assieme. Sembrava giunto all’arrivo quello sulle liti temerarie, con un compromesso per chi perde, un risarcimento pari “a un quarto della domanda risarcitoria”, rispetto alla metà iniziale. Pareva proprio fatta. Ma quando, nell’autunno scorso, l’accordo doveva consentire al testo di andare in aula assieme alla diffamazione, ecco che Italia viva fa saltare il tavolo. Lamenta che la cifra dell’accordo è troppo alta. Non manca chi tuttora dice che Matteo Renzi non voleva e non vuole rinunciare alle sue tante richieste “temerarie” presentate nelle querele. Fatto sta che questo stop ha fermato tutto, anche il ddl sulla diffamazione, dove pure un compromesso sembrava raggiunto su un emendamento del Pd, da 5 a 25 mila euro per una diffamazione semplice, da 10 a 40 mila (anziché 50 mila) “se viene attribuito un fatto determinato falso con la consapevolezza della sua falsità”. E l’appello della Consulta del 22 giugno 2020? Ha prevalso l’oblio. Dovrebbe essere una priorità eliminare una norma incostituzionale. E dove vogliamo mettere la tanto citata “leale collaborazione” tra Consulta e Parlamento? Forse sarà scritta nei libri. Magari negli articoli dei costituzionalisti. Ma certo non se ne ricordano i senatori. Che plaudono a Cartabia prima donna presidente della Consulta, ma poi ignorano i suoi consigli, come quello, lanciato l’anno scorso, di creare un ufficio ad hoc nelle due Camere per monitorare le decisioni e lo stato dei rapporti tra la Corte e il Parlamento. Al Senato l’avrebbero anche realizzato questo ufficio, ma solo come modesto archivio delle decisioni della Consulta. Quando poi la Corte scrive che la punizione del carcere per i giornalisti è contro la Costituzione, e quindi bisogna al più presto cambiare la legge, il Senato fa orecchie da mercante. Carcere per i giornalisti: è urgente una nuova legge sulla diffamazione di Martino Liva e Giuliano Pisapia Corriere della Sera, 17 giugno 2021 Il prossimo 22 giugno è prevista l’udienza della Corte Costituzionale per discutere il tema, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha condannato l’Italia nell’ultimo quindicennio ben quattro volte. A leggere la relazione annuale del Presidente della Corte Costituzionale del 13 maggio scorso e il relativo Annuario 2020, tra i molti dati riportati ve n’è uno di particolare interesse. Si tratta dell’aumento (da 20 a 25) dei moniti della Corte al Legislatore. Una tecnica con cui i giudici costituzionali non si pronunciano sull’incostituzionalità di una norma ma, allo stesso tempo, incoraggiano il Parlamento a intervenire per cambiarla. Troppe dichiarazioni di incostituzionalità, infatti, lasciano “buchi” nel sistema normativo. Così, saggiamente, sono nate negli anni le sentenze additive, ablative e interpretative. Si rende incostituzionale una norma senza cancellarla ma semplicemente aggiungendone o togliendone alcune parti in via interpretativa. Esistono casi, però, in cui l’operazione non è possibile perché non esiste nel tessuto normativo un’unica soluzione interpretativa capace di rimuovere il problema di incostituzionalità. Così la Corte talvolta si limita a sospendere il giudizio, rimettendosi alla discrezionalità del Parlamento, unico interprete della volontà collettiva, mandando inviti e moniti. Spesso, per la verità, disattesi. Oggi ne pendono 25, tra cui si annovera un caso in “incostituzionalità prospettata”. Che significa? È una novità introdotta con l’ordinanza 207/2018 (cd. caso Cappato sull’aiuto al suicidio). La Corte non dichiara subito l’incostituzionalità di una norma - pur facendola intendere - ma rinvia di un anno l’udienza di trattazione nel merito dando così tempo al Parlamento di disciplinare la materia, che richiede quella discrezionalità nel contemperare i diversi diritti coinvolti che solo il legislatore può esercitare. Poi però il giorno dell’udienza arriva e, con essa, se la norma non è mutata, la declaratoria di incostituzionalità. Il meccanismo è stato replicato lo scorso anno con l’ordinanza 132/2020, che ha innescato una clessidra di un anno per il Parlamento, ora giunta quasi al termine. Il prossimo 22 giugno è infatti prevista l’udienza per discutere il tema dell’incostituzionalità del carcere ai giornalisti per il delitto di diffamazione (art. 595, comma 3, cod. penale). L’antefatto è noto: la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha condannato l’Italia nell’ultimo quindicennio ben quattro volte (l’ultima, è il caso Sallusti vs Italia) per la non compatibilità delle pene detentive per i reati di diffamazione a mezzo stampa con la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo. Una sproporzione tra pena e comportamento che è arrivata anche agli occhi della Corte Costituzionale grazie ai Tribunali di Salerno e Bari che hanno sollevato la questione direttamente sulla norma “sospetta” del codice penale. E la Consulta ha già fatto capire come la pensa. Si legge nell’ordinanza 132/2020 che il “bilanciamento è divenuto ormai inadeguato” e che è importante “non dissuadere, per effetto del timore della sanzione privativa della libertà personale, la generalità dei giornalisti dall’esercitare la propria cruciale funzione di controllo sull’operato dei pubblici poteri”. L’incostituzionalità ora è solo “prospettata” ma con ogni probabilità diverrà effettiva il prossimo 22 giugno. E il Parlamento? Purtroppo è probabile che farà scadere il timer senza agire. Il ddl Caliendo - testo criticato dalle associazioni di settore (FNSI e FIEG) - pende in Commissione Giustizia del Senato, lontano dall’approvazione e, soprattutto, non pare in grado di rispondere puntualmente a tutti i richiami della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Sarà dunque la Corte Costituzionale a dover eliminare il pericoloso residuo del “carcere per i giornalisti”, a dimostrazione del difficile e delicato rapporto tra la giustizia costituzionale e il legislatore. Ma alla sentenza si dovrebbe aggiungere un nuovo monito. Un nuovo sforzo legislativo. Serve che i diritti “contesi” della garanzia della libertà giornalista e la tutela della reputazione di chi da questa libertà viene leso siano bilanciati dalla legge. E, possibilmente, al più presto. L’Asl deve verificare le condizioni di un malato perché ottenga l’eutanasia di Giulia Merlo Il Domani, 17 giugno 2021 Per la prima volta in Italia, un giudice ha imposto ad una Asl di verificare la sussistenza delle condizioni enucleate dalla Corte costituzionale per poter accedere al suicidio assistito. Un malato di 43 anni residente in un paesino delle Marche potrebbe ottenere per la prima volta in Italia il diritto all’eutanasia, in applicazione della sentenza Cappato della Corte costituzionale. Il caso - L’uomo, tetraplegico e con altre patologie da 10 anni dopo un incidente stradale che gli ha provocato la frattura della colonna vertebrale, versa in condizioni mediche irreversibili. Il 28 agosto del 2020 ha chiesto alla struttura sanitaria di riferimento di verificare se nel suo caso sono presenti le condizioni fissate dalla Corte costituzionale per poter accedere al suicidio assistito. A ottobre gli viene comunicato il parere negativo, senza tuttavia che siano state attivate le procedure previste, ovvero la verifica delle quattro condizioni fissate dai giudici costituzionali: il fatto di essere tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale; la presenza di una patologia irreversibile e fonte di intollerabili sofferenze; la piena capacità di prendere decisioni libere e consapevoli. La Asl, nel suo diniego, non ha nemmeno attivato le procedure di verifica, che dovrebbero essere effettuate da parte di una struttura pubblica del Servizio Sanitario Nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. Per questo l’uomo, assistito dai legali dell’associazione Luca Coscioni, ha presentato un ricorso di urgenza al tribunale di Ancona. Il primo esito è stato di conferma della decisione della Asl, perché, anche se “il paziente ha i requisiti previsti dalla Corte Costituzionale”, non sussistono motivi per ritenere che “la Corte abbia fondato anche il diritto del paziente, ove ricorrano tali ipotesi, ad ottenere la collaborazione dei sanitari nell’attuare la sua decisione di porre fine alla propria esistenza; né può ritenersi che il riconoscimento dell’ invocato diritto sia diretta conseguenza dell’individuazione della nuova ipotesi di non punibilità, tenuto conto della natura polifunzionale delle scriminanti non sempre strumentali all’esercizio di un diritto”. La pronuncia favorevole - Dopo la prima ordinanza di diniego e il successivo reclamo, il tribunale di Ancona ha modificato la sua cesione e ha stabilito di ordinare all’azienda sanitaria delle Marche di provvedere, previa acquisizione del relativo parere del Comitato etico territorialmente competente, ad accertare: a) se reclamante sia persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili; b) se lo stesso sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; c) se le modalità, la metodica e il farmaco prescelti siano idonei a garantirgli la morte più rapida, indolore e dignitosa possibile (rispetto all’alternativa del rifiuto delle cure con sedazione profonda continuativa, e ad ogni altra soluzione in concreto praticabile, compresa la somministrazione di un farmaco diverso) La decisione del tribunale non permette ancora al malato di ricorrere all’eutanasia, ma riconosce il suo diritto a che gli accertamenti previsti dalla Consulta vengano svolti. Una procedura, questa, che una volta eseguita con esito favorevole alla richiesta del malato, farà sì che chiunque lo aiuti nell’eutanasia non sia imputabile del reato di aiuto al suicidio, come è successo invece a Marco Cappato. L’Avvocato Filomena Gallo, Segretario dell’Associazione Luca Coscioni e coordinatore del collegio difensivo ha spiegato: “Sono serviti 10 mesi passando per 2 udienze e 2 sentenze per vedere rispettato un suo diritto, nelle sue condizioni. Non è possibile costringere gli italiani a una simile doppia agonia. Occorre una legge”. Manca la legge - La Corte costituzionale, infatti, aveva chiarito che serviva una legge per regolare la pratica del fine vita. Il parlamento, però, non ha ancora preso iniziative univoche in tal senso, dunque a fare fede a livello giurisprudenziale è solo la sentenza dei giudici di palazzo della Consulta. Di fronte a questa inerzia del legislatore, l’associazione Luca Coscioni insieme al partito radicale, Più Europa e altre sigle sta promuovendo un referendum per l’eutanasia legale, che propone l’abrogazione di una parte dell’articolo 579 del codice penale, prevedendo che il reato avvenga solo se il suicidio assistito avviene contro una persona minore degli anni diciotto; contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti; contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno. L’astensione del difensore dalle udienze non risponde alle regole del legittimo impedimento di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2021 Il differimento che sospende il decorso della prescrizione non è contingentabile entro i 60 giorni previsti per l’impossibilità fisica a presenziare. Non viola il diritto dell’imputato a una ragionevole durata del processo, la sospensione del processo e del decorso della prescrizione dovuta all’adesione dei difensori all’astensione dalle udienze regolarmente proclamata dalla categoria. E non viola i diritti dell’imputato la sospensione per un periodo - pari al differimento delle udienze - del decorso della prescrizione. La Corte di cassazione, su tale ultimo punto, ha respinto le argomentazioni del ricorrente relative a una lamentata illegittimità costituzionale del regime della prescrizione e in particolare dei casi di sospensione del suo decorso. In particolare il ricorso faceva rilevare come incongruo un diverso regime in caso di astensione rispetto a quello previsto per i casi di legittimo impedimento di cui è stabilito esplicitamente il termine di durata: l’udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell’impedimento, dovendosi avere riguardo in caso contrario al tempo dell’impedimento aumentato di sessanta giorni. Ma la richiesta di rinvio dell’avvocato a causa dello sciopero della categoria non è fondato sull’assoluta impossibilità a partecipare all’attività difensiva. La sentenza n. 23293/2021 nel respingere il ricorso ha così precisato le differenze ontologiche tra il legittimo impedimento del difensore e la sua volontaria astensione dalle udienze nell’esercizio del proprio peculiare diritto di “sciopero”. Dice la Cassazione che il legittimo impedimento rappresenta l’impossibilità fisica di presenziare in udienza determinando il diritto del difensore (ma anche delle parti) a ottenere la sospensione del processo. Un diritto fondato sull’avvenuta certificazione della circostanza impeditiva insormontabile, mentre l’astensione rappresenta l’esercizio di una libertà costituzionalmente garantita. Trattandosi di liberi professionisti tale libertà non è un’articolazione del diritto di sciopero garantito dalla nostra Carta all’articolo 40 bensì una declinazione della libertà di associazione prevista dall’articolo 18 della Costituzione. Presupposto di un corretto esercizio di tale libertà è la legittima proclamazione della forma di protesta lanciata dalle rappresentanze della categoria e il rispetto delle regole di pubblicità e diffusione in tempi certi della notizia dell’astensione. Sui limiti perciò - ammette la Cassazione - l’astensione è vincolata ai medesimi adempimenti previsti per lo sciopero nell’ambito dei servizi pubblici essenziali. Il giudice valutata la sussistenza dei presupposti di legge per una legittima astensione del difensore conseguentemente differisce l’udienza, ma senza i limiti temporali previsti dall’articolo 159 del Codice penale in caso di legittimo impedimento. Infine, la sentenza, ripercorrendo diversi precedenti di giurisprudenza di legittimità, ha testualmente recitato: “l’astensione dall’attività difensionale proclamata dall’Unione delle Camere non si configura come diritto di sciopero e non ricade sotto la specifica protezione dell’art. 40 Cost. trattandosi invece di libertà riconducibile al diverso ambito del diritto di associazione (art. 18 Cost.)”. Il diritto del difensore all’astensione non è assimilabile al legittimo impedimento neanche sotto il profilo delle fonti normative, mentre quest’ultimo è contemplato dal Codice lo “sciopero” degli avvocati è regolato da una legge speciale e dal relativo codice di autoregolamentazione dell’Avvocatura. Non è quindi la norma del codice, che espressamente prevede la sospensione della prescrizione nel caso del legittimo impedimento del difensore o delle parti, a poter regolare l’astensione e i tempi di durata del differimento che incide sullo svolgimento del processo. L’udienza può quindi essere differita anche oltre i sessanta giorni - in caso di astensione - con la parallela sospensione del termine di prescrizione pari a tutta la durata del differimento. Truffa all’Inps, sospensione condizionale senza restituzione se non si è costituita la parte civile di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 17 giugno 2021 La ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 23290 depositata oggi. Nel caso di truffa aggravata ai danni dell’Inps, la sospensione condizionale della pena non può essere subordinata alla restituzione dell’importo indebitamente riscosso - nel caso oltre 8mila euro -, se l’istituto di previdenza non si è costituito parte civile. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 23290 depositata oggi annullando (senza rinvio perché il reato si è prescritto) la decisione della Corte di appello di Salerno che aveva condannato la ricorrente a quattro mesi di reclusione e ancorato la sospensione alle restituzioni. La giurisprudenza prevalente, spiegano i giudici di Piazza Cavour, contrariamente all’opinione della Corte di merito, è infatti ferma nel ritenere che il giudice non può subordinare la sospensione condizionale della pena, in difetto della costituzione di parte civile, all’adempimento dell’obbligo delle restituzioni di beni conseguiti per effetto del reato, “perché queste, come il risarcimento, riguardano solo il danno civile e non anche il danno criminale, che si identifica con le conseguenze di tipo pubblicistico che ineriscono alla lesione o alla messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma penale e che assumono rilievo, a norma dell’art. 165 cod. pen., solo se i loro effetti non sono ancora cessati” (n. 3958/2013). Si è dunque chiarito, prosegue il ragionamento della Seconda Sezione penale, quali siano i rapporti che intercorrono fra l’obbligo restitutorio di cui all’art. 165 c.p., comma I, prima parte, e l’obbligo di eliminare le conseguenze dannose o pericolose di cui all’art. 165 c.p., comma I, seconda parte, che, invece, può essere imposto d’ufficio dal giudice anche in assenza di costituzione di parte civile. Si è infatti evidenziato, con riguardo al tenore letterale della disposizione, che la locuzione “risarcimento danni e obbligo di restituzioni” si trova invariabilmente abbinata alle pretese della parte civile (artt.74, 538 e 578 c.p.p.) mentre con l’espressione “eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato”, introdotta con la L. n. 689 del 1981, il legislatore ha inteso tutelare il bene giuridico protetto dalla norma penale violata mediante la riparazione del “danno criminale”. Del resto, prosegue la Corte, la differenza fra danno criminale e danno civilistico mentre è di immediata percezione per alcune tipologie di reati, in altri casi, come ad esempio con riguardo ai reati contro il patrimonio, può essere “più sfuggente”. Ma è, comunque concettualmente enucleabile ove si consideri che la norma, facendo riferimento “all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato” ha, evidentemente inteso riferirsi agli effetti del reato che si protraggono nonostante il suo perfezionamento e che il reo ha la possibilità di far cessare”. Pertanto, mentre gli obblighi della restituzione e del risarcimento del danno di cui all’art. 165 c.p., comma 1, prima parte, devono essere riferiti al solo danno civilistico, con la conseguenza che, indipendentemente dalla natura giuridica del reato commesso, la sospensione condizionale della pena può essere subordinata all’adempimento degli stessi solo ed esclusivamente nelle ipotesi in cui vi sia stata costituzione di parte civile e questa abbia formulato espressa domanda al riguardo, l’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato di cui all’art. 165 c.p., comma I, seconda parte, concerne il danno criminale e la subordinazione del beneficio della sospensione condizionale della pena all’assolvimento del relativo obbligo può essere disposta dal giudice anche ove non vi sia costituzione di parte Civile, sempre che si tratti di reati permanenti o di reati che, benché consumati abbiano provocato un danno criminale che continua a perpetuarsi anche dopo la consumazione (come nei reati istantanei ad effetti permanenti) e che l’imputato ha la possibilità di eliminare. Appare dunque impropria la riconduzione dell’obbligo di restituzione all’eliminazione delle conseguenze dannose del reato e non condivisibile l’orientamento minoritario fatto proprio dalla sentenza impugnata (n. 1324/2014). In conclusione, in aderenza alla giurisprudenza dominante, “deve ritenersi che l’imposizione dell’obbligo delle restituzioni o del risarcimento del danno sia inscindibile dall’accertamento in sede penale di un credito del danneggiato che postula, nel sistema vigente, l’introduzione e la positiva delibazione nel processo della relativa domanda civile mediante l’atto di costituzione di parte civile”. Umbria. Carceri, le priorità del Garante: “Rems e organici polizia” di Erika Pontini La Nazione, 17 giugno 2021 Intervista a Giuseppe Caforio eletto, dall’Assemblea legislativa Garante dei diritti dei detenuti. “Il grado di civiltà di un Paese si misura anche dallo stato di salute delle prigioni”. Nel carcere di Perugia ci sono 120-150 detenuti con problemi psichiatrici su una popolazione di 380400 persone. È uno degli aspetti che creano maggiori problema. È un tema in agenda? “È un problema reale e attuale che peraltro si scontra con una quotidianità da cui emerge che persone mentalmente instabili non possono essere ricollocate all’interno della società in maniera affrettata, attesi i fatti di cronaca sotto gli occhi di tutti”. Nel recente passato anche i sindacati di polizia hanno denunciato l’invio massiccio di reclusi con problematiche proprio a Capanne... “Una ridistribuzione sul territorio nazionale è la soluzione migliore. Per quanto riguarda l’Umbria in tutte e quattro le carceri - Perugia in particolare - c’è una carenza di personale notevole, anche specializzato per le persone psichiatricamente deboli e questo mal si concilia con questa concentrazione che, in percentuale, è abnorme”. Cosa serve ai detenuti e alle carceri umbre, a suo avviso? “Sotto il profilo strutturale l’Umbria è in salute mentre uno dei obiettivi principali che perseguirò nel mio mandato è quello di cercare di riequilibrare il rapporto tra risorse e presenze, in particolare di persone con fragilità”. L’Umbria sconta un’altra grande carenza: manca una Rems e spesso i detenuti restano in carcere solo perché non c’è un altro posto... “Fermo restando che la principale funzione del carcere è riabilitativa - e quando serve anche terapica - per i detenuti con problemi psichiatrici è ormai indifferibile la creazione di una Rems che possa rendere la regione autonoma. Questo credo debba rientrare nei programmi di accordo tra il ministero di Giustizia e la Regione. Quando sarà formalizzato il mio incarico sarà tra i primi obiettivi in agenda”. Era un problema che già conosceva... “Ho già avuto un primo scambio su tanti temi compreso questo con la presidente Tesei con la quale c’è un’ottima sintonia. Dell’argomento ho parlato anche con il rettore (Maurizio Oliviero): ho ottenuto il coinvolgimento dell’Università sui tanti temi della detenzione e anche su questo aspetto specifico. Ricordo che all’interno dell’Università abbiamo eccellenze, anche in campo sanitario, che possono essere utilizzate sinergicamente per la soluzione di problematiche delicate”. Presto dovrebbe vedere la luce il repartino-detentivo dentro l’ospedale di Perugia ma resta il nodo del personale... “La carenza di personale è una delle ragioni principali delle tensioni dentro il carcere. La polizia penitenziaria svolge ruolo difficilissimo, spesso in situazione non accettabili che vanno ben oltre le funzioni e quindi riequilibrare questo rapporto significa ridare serenità all’interno del carcere. Mi sono riproposto di visitare i 4 istituti per avere piena conoscenza della situazione. Nella mia professione mi sono trovato a visitare detenuti in condizioni quasi idilliache e, altri costretti a vivere in contesti di inciviltà”. Perché si è candidato a questo ruolo delicato? “Un paese civile si misura anche sulle carceri, oltre che su sanità e cimiteri. Ma tutt’ora ci sono diverse criticità: se riusciamo a risolverle potremmo fare un vero salto di qualità sul grado di civiltà della nostra comunità. Fermo il principio della certezza della pena dobbiamo dare l’opportunità a quanti pagano per quanto commesso di riabilitarsi”. Milano. Da 12 anni una famiglia lotta per la verità sulla morte del figlio in carcere di Manuela D’Alessandro agi.it, 17 giugno 2021 Arriva alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo il caso di Luca Campanale, il 28enne che si impiccò a San Vittore. Nel 2014 per la prima volta ci furono delle condanne per i presunti responsabili di una morte in carcere, ma poi la sentenza venne ribaltata. La famiglia prova l’ultima carta. È da 12 anni che il padre Michele e i fratelli Andrea e Vincenzo chiedono che sia fatta giustizia, dal loro punto di vista, sulla morte di Luca Campanale che si suicidò impiccandosi nel 2009 a 28 anni nel carcere di San Vittore dove era recluso per uno scippo. Ora, attraverso un ricorso firmato dall’avvocato Andrea Del Corno, la vicenda approda alla Corte europea dei diritti dell’uomo chiamata a dirimere un caso con esiti giudiziari ‘storici’ e controversi. “Suicida perché gli fu tolta la sorveglianza a vista” - Nel 2014, in primo grado, una psicologa venne assolta mentre a una psichiatra furono inflitti otto mesi di reclusione per omicidio colposo. Inoltre, il Ministero della Giustizia fu condannato al pagamento di una provvisionale da 529mila euro. Fu, quella, la prima volta che un tribunale italiano riconobbe una responsabilità di questo tipo per un suicidio dietro le sbarre. Ma in appello, confermato dalla Cassazione, entrambe le imputate furono scagionate con la revoca delle statuizioni civili. Il ricorso punta su una “sequenza degli avvenimenti ritenuta di per sé esplicativa: Campanale si suicida il 12 agosto 2009 a mezzanotte e mezzo, dopo l’esecuzione del provvedimento di revoca della Sorveglianza a vista e della permanenza nella zona delle celle a rischio, quindi con declassamento del regime di controllo”. “Numerosi atti autolesionistici prima del suicidio” - Responsabili sarebbero state, nella lettura della parte civile, le dottoresse R.D.S., psicologa, e M.M., psichiatra, perché avrebbero sottovalutato il rischio che il giovane si suicidasse. In particolare, non avrebbero dato il giusto peso al fatto che Campanale fosse affetto da seri disturbi psichici e avesse compiuto “numerosi gesti autolesivi” nel carcere di Pavia dove era detenuto in precedenza. Dalla ricostruzione di Del Corno emerge che il 30 luglio del 2009 la psicologa “aveva revocato la sorveglianza a vista e l’inserimento nelle celle a rischio”, mentre la psichiatra “non aveva disposto alcun regime di sorveglianza ma aveva ridotto il presidio farmacologico sulla base di una non riscontrata alleanza terapeutica”. Il 2 e il 4 agosto Campanale aveva compiuto “numerosi gesti autolesivi” senza che venisse cambiata la scelta di non sottoporlo a un’osservanza più stretta. In totale nel ricorso si citano nove episodi, documentati, di “reiterati gesti autolesionistici, aggressivi nei confronti di altri e tentativi di suicidio tra il maggio e l’agosto dell’anno in cui il giovane si tolse la vita. Firenze. Torture nel carcere, chiesto processo per 10 agenti e due medici di Giovanni Pisano Il Riformista, 17 giugno 2021 Chiesto il rinvio a giudizio per dieci agenti della polizia penitenziaria e due medici in servizio tra il 2018 e il 2019 nel carcere fiorentino di Sollicciano per i presunti pestaggi ai danni dei detenuti. La richiesta arriva da Christine Von Borries, sostituto procuratore della procura del capoluogo toscano. Le accuse, contestate a vario titolo, sono quelle di tortura e falso in atto pubblico. Secondo la procura fiorentina, i due sanitari avrebbero redatto falsi certificati in relazione alle condizioni dei detenuti vittime delle presunte violenze da parte degli agenti. Lo scorso gennaio tre agenti penitenziari, tra i quali un’ispettrice, sono finiti ai domiciliari, mentre per altri sei è stata disposta la misura cautelare dell’interdizione dall’incarico per un anno e dell’obbligo di dimora nel comune di residenza. Stando a quanto emerso nelle indagini, nell’ufficio dell’ispettrice 50enne sarebbero avvenuti almeno due episodi di pestaggi ai danni di altrettanti detenuti. L’episodio più violento, datato il 27 aprile 2019, sarebbe avvenuto nell’ufficio della donna ai danni di un uomo di origini marocchine che aveva insultato un agente in segno di protesta. “Ti massacriamo” avrebbero reagito gli agenti con il detenuto portato nell’ufficio dell’ispettrice e pestato con pugni e calci. Non contenti, gli agenti avrebbe portato l’uomo in un’altra stanza, lasciandolo nudo per diversi minuti prima di condurlo in infermeria. “Ecco - gli avrebbe detto uno degli agenti - la fine di chi vuole fare il duro”. A seguito dell’episodio il detenuto ha riportato 20 giorni di prognosi per la frattura di due costole. Sempre secondo le ricostruzioni del pm, per coprire il pestaggio avvenuto davanti a lei nel suo ufficio, l’ispettrice avrebbe redatto una relazione in cui dichiarava che i colleghi erano stati costretti a intervenire perché il marocchino aveva cercato di aggredirla sessualmente. Nel dicembre 2018 un altro detenuto, italiano, sarebbe stato immobilizzato da otto agenti nell’ufficio del capoposto e picchiato fino a perforargli un timpano. Qui entrano in gioco i medici, un 33enne straniero e residente a Siena, e una 62enne di Prato. Secondo l’accusa, entrambi, in due distinti episodi, hanno coperto gli autori dei pestaggi senza visitare i detenuti che venivano portati in infermeria dopo le violenze, certificando come lievi lesioni quelle che erano violenze pesanti. Napoli. L’inclusione con il lavoro: i detenuti impiegati presso le strutture militari di Rossella Grasso Il Riformista, 17 giugno 2021 Sentirsi utili per il miglioramento della collettività come viatico verso il cambiamento. È questo l’obiettivo del Protocollo d’Intesa per lo svolgimento di attività di lavoro volontario e gratuito per progetti di pubblica utilità da parte dei detenuti siglato presso il circolo Unificato di Presidio a Palazzo Salerno. L’accordo ha la finalità di favorire il reinserimento sociale delle persone detenute nelle case circondariali di Secondigliano e Poggioreale, che saranno impiegate in lavori di pubblica utilità ed è un esempio di sinergia e collaborazione tra le istituzioni, che si impegnano reciprocamente per il recupero delle persone sottoposte a misure di privazione della libertà. Il Protocollo d’Intesa è stato siglato dal Generale di Corpo d’Armata Giuseppenicola Tota per il Comando delle Forze Operative Sud, dal Provveditore Antonio Fullone per il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria, da Angelica Di Giovanni per il Tribunale di Sorveglianza di Napoli e dal Garante dei Diritti delle Persone private della Libertà Personale Samuele Ciambriello. Nei prossimi due anni, i detenuti a basso indice di pericolosità, provenienti dalle Case Circondariali “Pasquale Mandato” di Secondigliano e “Giuseppe Salvia” di Poggioreale, saranno impiegati in lavori di manutenzione e conservazione del decoro nello Stadio Militare “Albricci”, occupandosi principalmente di pulizia delle aree esterne e di cura del verde. Il principio alla base del Protocollo è che, attraverso il lavoro a favore della collettività, i detenuti possano nuovamente sentirsi membri produttivi della società e contemporaneamente acquisire competenze ed abilità utili ad un reinserimento lavorativo, al termine della pena. Il protocollo prevede anche la possibilità di organizzare eventi, manifestazioni ludiche, conferenze a favore dei detenuti e dei loro figli per promuovere i valori della legalità e del vivere comune. “La firma di oggi sancisce l’inizio di un’attività molto significativa” ha commentato il Comandante delle Forze Operative Sud Gen C.A. Giuseppenicola Tota “il lavoro è, infatti, un mezzo privilegiato per il recupero e la formazione della persona. Auspico che, attraverso le attività che svolgeranno allo stadio “Albricci”, i detenuti possano formarsi professionalmente e sviluppare quel senso di responsabilità, fondamentale per vivere nella società civile”. Il Provveditore regionale Antonio Fullone ha evidenziato l’importanza del fare “rete” sul territorio per promuovere azioni concrete per il reinserimento sociale delle persone detenute che si impegnano per il cambiamento del proprio percorso di vita e per restituire alla collettività ciò che stato tolto dalla commissione del reato. “Su questo punto l’impegno del PRAP è molto determinato, l’accordo firmato oggi con il Comando delle Forze Operative Sud ne è testimonianza tangibile”. Il Garante Regionale Campano delle persone private della libertà personale, Samuele Ciambriello ha ringraziato il Comando Forze Operative Sud per aver offerto a decine di detenuti diversamente liberi, un lavoro di pubblica utilità che coniughi certezza della pena e qualità della pena che passa attraverso il diritto al lavoro, la tutela della salute e il diritto all’istruzione, evidenziando che “La giustizia deve sempre esprimere un volto umano, ciò significa come dice l’art. 27 della Costituzione, che la pena non deve mai essere contraria al senso di umanità e deve tendere al reinserimento sociale del recluso”. Torino. Il Garante: “Al Cpr di la situazione è ancora critica” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 giugno 2021 Lunedì scorso, 14 giugno, una delegazione del Garante nazionale delle persone private della libertà, composta da Mauro Palma ed Emilia Rossi, rispettivamente presidente e componente del Collegio del Garante nazionale e da Elena Adamoli, componente dell’Ufficio, ha visitato il Centro di permanenza per i rimpatri di Torino. Il Garante, in una nota, rende pubblico che, purtroppo, ha dovuto constatare che molte delle criticità rilevate negli anni precedenti all’interno del Centro permangono tuttora. Per esempio, l’area del cosiddetto Ospedaletto continua a essere una peculiarità gravemente problematica della struttura del capoluogo piemontese, sia per le degradate condizioni materiali in cui versa, sia per la posizione in cui si trova - in una condizione di separatezza e distanza dal resto della struttura - configurando una segregazione di fatto delle persone che vi si trovano. “Va ricordato - si legge nella nota del Garante -, a questo proposito, che eventuali esigenze di separazione, di tutela delle vulnerabilità individuali non possono mai determinare situazioni di isolamento, peraltro senza alcuna garanzia in ordine alla durata di una simile collocazione e senza l’obbligatoria vigilanza medica”. Osserva che, in generale, la tutela della salute è apparsa gravemente deficitaria soprattutto per quanto riguarda l’assistenza delle persone affette da un disagio psichiatrico, le quali, anziché veder tempestivamente rivalutata la compatibilità delle loro condizioni individuali con la misura restrittiva imposta e, comunque, vedersi somministrata un’adeguata terapia, attendono settimane e anche mesi prima di essere visitate da un medico specialista. “Nell’attesa - denuncia sempre il Garante nazionale -, la gestione di simili complessità viene affrontata solamente con l’allontanamento della persona che si trova a trascorrere la propria quotidianità in una condizione di segregazione e distanza dalla restante popolazione trattenuta e dal personale preposto all’erogazione dei servizi all’interno del Centro”. Sono molte altre le osservazioni che il Garante nazionale formulerà nel consueto Rapporto che invierà alle Autorità responsabili evidenziando ancora una volta come la custodia di una persona implichi enormi responsabilità per le figure istituzionali e i soggetti coinvolti a vario titolo nelle procedure di privazione della libertà e pertanto richieda un sistema tassativo di garanzie, regole e procedure uniformi a tutela della persona privata della libertà. “Attualmente, invece, il sistema è fortemente carente”, rivela il Garante. Inoltre, il Garante nazionale ha acquisito informazioni e documenti relativamente al recente suicidio di Moussa Balde, ospite del Centro. Successivamente alla visita, il Garante nazionale si è incontrato con la Procuratrice Capo di Torino, Anna Maria Loreto, per riferirle le proprie valutazioni in merito alla tragica vicenda. Molte delle criticità rilevate a Torino sono comunque presenti anche negli altri Cpr del Paese, come il Garante avrà modo di illustrare nella Relazione annuale al Parlamento, che si terrà il prossimo 21 giugno alla Camera dei Deputati e nella quale il Garante nazionale sollecita i decisori politici a procedere a un ripensamento complessivo del sistema della detenzione amministrativa per persone migranti. Torino. Suicidio di Moussa Balde, lettera della Chiesa valdese a Draghi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 giugno 2021 “Caro Presidente, sono la pastora della Chiesa valdese di Torino e sento di doverle scrivere, anche a nome degli altri colleghi della chiesa valdese, e delle chiese battiste e luterana della nostra città, e a nome di molti membri delle nostre chiese, in merito al suicidio del giovane Moussa Balde, un ragazzo di 23 anni proveniente dalla Guinea, morto nel Cpr, Centro per il Rimpatrio, della mia citta”. Con queste parole la pastora Maria Bonafede apre una lunga lettera rivolta al presidente del Consiglio Mario Draghi, per ritornare sulla drammatica vicenda della morte nel Centro per il rimpatrio di Torino del giovane richiedente asilo Moussa Balde. “Sono giunta a Torino nell’estate del 2013 e una delle prime istituzioni che mi è capitato di visitare invitata da un piccolo gruppo di avvocati dell’associazione “LasciateCI Entrare” è stata quella che allora si chiamava Cie (Centro di Identificazione ed Espulsione) di corso Brunelleschi, oggi Cpr - prosegue la pastora Bonafede. Non ho mai potuto dimenticare il senso di desolazione e di orrore che quel luogo ha lasciato in me. Molto superiore delle impressioni ricevute nelle molte carceri che ho conosciuto sul territorio italiano. Gli ‘ ospiti’, come la direzione chiamava i reclusi, erano in casette che spuntavano nello sterrato polveroso e assolato, squallide e collocate, ciascuna, all’interno di enormi gabbie”. La pastora valdese, continua con la drammatica descrizione: “I reclusi vedendo passare il piccolo gruppo di visitatori e visitatrici che si interessavano alle Ioro condizioni di vita, si aggrappavano alle grate per parlare con noi. Nell’istituto non avevano assolutamente nulla da fare, non c’era una biblioteca, né una palestra, né alcuna attività prevista che potesse occuparli. I loro panni erano stesi ad asciugare su corde improvvisate con le lenzuola arrotolate e precariamente tese tra la maniglia di una porta e due sedie all’esterno. L’impressione di essere di fronte a persone assolutamente smarrite e prive di diritti era palese. Forse anche per questo il suicidio del giovane Moussa Balde mi ha colpito tanto. Perché ho visto il luogo in cui è maturata la sua disperazione. Sulla questione è aperta un’inchiesta e non sta a me intervenire su un procedimento giudiziario che farà il suo corso”. La lettera prosegue ricordando la tragica concatenazione di eventi che ha portato Balde alla morte, dalla precarietà durata anni, al terribile pestaggio patito a Ventimiglia finito in tutte le nostre case perché filmato da un cittadino, fino alla chiusura forzata nel Cpr. Una persona fragile, che viveva nel terrore del rimpatrio in Guinea e che, mentre era sotto custodia da parte dello Stato italiano, non è stata protetta. “Nei giorni passati al Cpr Musa ha chiesto con insistenza perché, dopo essere stato malmenato e ferito, fosse stato rinchiuso in una struttura che lui percepiva come un carcere - continua Maria Bonafede - nessuno gli ha risposto adeguatamente e, nella solitudine della disperazione, si è tolto la vita. Qualche riga di cronaca, le consuete parole di circostanza e poi il caso è stato dimenticato”. Ricordiamo che la morte di Moussa Baldi nel Cpr, il Centro per il rimpatrio di Torino, è l’ennesima ferita che certifica ancora una volta il fallimento delle politiche migratorie e di accoglienza, italiane ed europee. Era arrivato con un barcone nel 2017 e aveva subito presentato la domanda di asilo politico ad Imperia ed era ancora in attesa della convocazione di una Commissione territoriale che doveva valutare il suo caso. Un tempo assurdamente lungo, si sentiva evidentemente in un limbo senza uscita. Balde aveva imparato l’italiano in pochi mesi e aveva raggiunto il diploma di terza media al centro di formazione territoriale per adulti di Imperia. Poi ancora il vuoto. Aveva anche tentato il passaggio in Francia, dalla frontiera di Ventimiglia, ma era stato respinto dalla polizia francese. Avrebbe tentato ancora nella speranza di proseguire il proprio personale progetto di vita. Ma è stato pestato barbaramente da tre italiani all’uscita di un supermercato, come si vede fin troppo bene in un video girato da un cittadino. Per lui dopo le cure in ospedale è giunto il trasferimento al Cpr di Torino, senza spiegazioni, un carcere da cui sarebbe uscito solo per vedersi rispedire in Africa. La disperazione lo ha portato ha impiccarsi. Perugia. Presto attivo un mini-reparto per detenuti all’ospedale di Maurizio Troccoli umbria24.it, 17 giugno 2021 Dopo ritardi di ogni genere e rinvii legati non solo alla pandemia, forse questa è la volta buona per l’ospedale di Perugia per rendere attivo il servizio dell’unità degenza dei detenuti. Nelle prossime ore sarà effettuato un sopralluogo da personale sanitario e vertici di polizia Penitenziaria per individuare eventuali criticità legate anche alla inattività delle apparecchiature e procedere a individuare la data di attivazione di un servizio che servirà a rendere migliore la tutela degli altri pazienti e ottimizzerà i controlli della polizia per i detenuti ricoverati. Le due stanze con annesso lo spazio che monitorerà 24 ore su 24 tutto ciò che avviene al letto dei pazienti, si trovano al piano superiore al pronto soccorso, sono dotate di apparecchiature sofisticate sia per quanto attiene la sicurezza dei pazienti che i relativi controlli. Il progetto, che risale a più di cinque anni fa, è costato oltre 200 mila euro e fu voluto, in rispetto alla normativa riguardate l ‘assistenza ospedaliera dei detenuti, dall’autorità penitenziaria, in accordo con gli organismi della Regione. Intoppi di carattere burocratico, carenza di personale e pandemia hanno rallentato l’apertura del servizio. A sollecitare l’esecuzione del progetto è stato direttamente l’assessore alla Salute Luca Coletto, che ha riconosciuto la validità dell’opera realizzata durante la gestione Duca. Ad occuparsi dell’assistenza, sarà il personale della clinica che prenderà in carico il paziente. Come detto l’attivazione della mini struttura dovrebbe avvenire entro un paio di settimane. Pordenone. Un’Oasi per tornare a essere liberi di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 17 giugno 2021 Don Piergiorgio e la casa d’accoglienza per ex detenuti a Cordenons. Se il carcere ha cessato di essere un luogo di emarginazione per diventare una realtà sociale e se si va verso un aumento delle misure alternative alla detenzione, molto si deve al volontariato. Nel tempo è divenuto un punto di riferimento per tanti ospiti che hanno compiuto un radicale cambiamento del pensare e dell’agire. Questo grazie al ruolo innovativo che ha svolto, e continua a svolgere, in una concezione della pena non limitata alla detenzione. Ne sono convinti i volontari della casa d’accoglienza “Oasi 2” a Cordenons (Pordenone) che ospita adulti in situazioni di difficoltà, con un’attenzione speciale nei confronti degli ex detenuti. L’avventura del gruppo muove i primi passi nel 1991 con l’associazione “Carcere e Comunità” grazie all’allora cappellano della Casa circondariale di Pordenone, don Luigi Tesolin. Oggi, a presiedere e guidare la struttura c’è il suo successore, don Piergiorgio Rigolo. “Non un servizio per i soci”, si legge nello statuto, “ma esclusivamente per i reclusi, così da rispondere alle loro richieste per quanto ci è possibile”. Le finalità? “Coadiuvare le preposte attività istituzionali nell’attuazione del trattamento rieducativo dei detenuti e tendere anche al reinserimento sociale degli stessi”. La casa d’accoglienza è nata in un momento nel quale la Chiesa diocesana si chiedeva come lasciare segni importanti di solidarietà, fraternità, giustizia e impegno. E così nel 2014 “è venuta l’idea di aprire questa struttura per accogliere persone che noi conoscevamo poiché le incontravamo abitualmente in carcere o nel gruppo degli alcolisti anonimi”, spiega don Rigolo, chiarendo i motivi della scelta: “Ci siamo resi conto che non potevamo accontentarci di qualche buon gesto o di una buona parola, ma era necessaria una condivisione, un impegno al di là di ogni calcolo, con una fiduciosa speranza anche nell’attività e che destasse nella diocesi intera un’attenzione particolare a persone che vengono guardate con diffidenza e rimangono sconosciute ai più”. I volontari organizzano ogni settimana incontri culturali con esperti all’interno dell’istituto di pena, si adoperano per la donazione di beni di prima necessità, denaro, cancelleria, si preoccupano di chiamare i parenti e i legali. E, a proposito dei loro cari, è nata recentemente, quale attività complementare, la “Comunità multifamiliare” e ogni mese i detenuti e i loro familiari trovano un’occasione di ascolto e aiuto reciproco affinché non si sentano soli ad affrontare un momento così delicato della vita. Poi ci sono gli eventi dell’anno più importanti: la festa della mamma (viene donato un fiore a ciascuno con un messaggio di speranza), la messa in suffragio per i detenuti e i soci defunti, il 2 novembre, e la Giornata dell’educazione alla legalità, il 15 novembre, che si celebra nelle scuole, nelle parrocchie e nelle associazioni. “Il nostro percorso comincia con un primo colloquio con l’educatore della Casa circondariale e con l’avvocato per capire le prospettive che potrebbero aprirsi dopo un nostro intervento a sostegno del ristretto”, prosegue il cappellano, rivelando che “si sta sviluppando un’attenzione e una sensibilità particolari sia da parte dei sacerdoti sia dei laici. Tra l’altro ogni settimana chiamo i parroci proprio per favorire e attivare una rete di solidarietà e un contatto più diretto con chi è fuori. Molti di essi scoprono persone completamente diverse da come le immaginavano. I volontari stessi rimangono stupiti delle riflessioni e della profondità dei discorsi dei detenuti. Devo dire che tutto questo è possibile grazie al sostegno del vescovo di Concordia-Pordenone, Giuseppe Pellegrini, che non fa mai venir meno il suo incoraggiamento e il suo supporto”. Salvare la dignità dei detenuti, lottare per la loro emancipazione e il rispetto dei loro diritti, ma anche trovare nuove vie che prevedano alternative alla reclusione sistematica: mentre la situazione altrove resta critica, “Oasi 2” continua il suo servizio anche con il conforto morale e spirituale. “Quando sono stato chiamato dal cappellano del carcere, non ho esitato un minuto, anche in virtù dell’esperienza maturata nel cammino neocatecumenale”, racconta Italo Sist, una delle colonne dell’associazione. “Lì ho appreso che il Signore non devo cercarlo in cielo, ma nella vita di tutti i giorni. Ha il volto dei miei fratelli, in particolare quelli sofferenti”, continua. “Al resto ha pensato la pastorale di mediazione, tappa prevista da questa esperienza di fede, che mi ha invitato a farmi prossimo”. La scelta del carcere, ricorda il volontario, risale a diversi anni fa e oggi cerca di trasferire la sua esperienza spiegando ai giovani cosa vuol dire prestare servizio al fianco dei detenuti: “È necessario soddisfare il più possibile i loro bisogni materiali e morali. Incontrare i familiari che si sono trovati ad affrontare questo imprevisto della vita. È fondamentale cercare di riattivare il circuito comunicativo con i loro cari e mantenere vivi i contatti con gli avvocati di riferimento. Il tutto per arrivare a ottenere una forma alternativa di detenzione o aiutarli quando hanno scontato la pena”. Che è poi l’obiettivo principale di “Oasi 2” che, secondo Sist, “è un presidio ottenuto grazie all’aiuto della Provvidenza per dare una chance a chi è rimasto solo e vuole tornare alle pratiche di vita buona nella società”. Ancona. I prodotti dell’orto sociale di Barcaglione alle famiglie in difficoltà economiche di Antonio Carletti youtvrs.it, 17 giugno 2021 Il lavoro per scontare la pena e puntare al reinserimento sociale era già una realtà. Ora l’agricoltura all’interno del carcere diventa anche un modo per dare un aiuto alla comunità con i prodotti dell’orto sociale di Barcaglione che saranno destinati alle famiglie in difficoltà economiche. Merito dell’ottimo lavoro che si sta facendo tra le mura della struttura carceraria dove i circa 60 detenuti che partecipano ai lavori sono seguiti dal tutor di Coldiretti, Antonio Carletti, e dall’occhio vigile di Sandro Marozzi, l’agronomo di Barcaglione. Una vera e propria azienda agricola e zootecnica. I detenuti coltivano frutta e verdura, producono olio extravergine di oliva dall’oliveto e miele dalle arnie, allevano 20 pecore (con la vendita di carne di agnello affidata al punto vendita dell’azienda Giangiacomi) e gestiscono un laboratorio caseario. Ora parte dei prodotti dell’orto saranno destinati al Mercato Dorico di Campagna Amica, recentemente aperto in via Martiri della Resistenza, da dove Coldiretti è impegnata già da tempo in progetti di solidarietà per dare una mano alle persone in difficoltà economiche. Nel corso dei mesi, con la crisi pandemica che ha colpito le famiglie già bisognose e ne ha abbracciate di nuove, Coldiretti ha avviato varie iniziative e, tra “spesa sospesa” e i pacchi della solidarietà, ha consegnato nella sola provincia di Ancona oltre 11mila chili di prodotti alimentari Made in Italy, a chilometro zero e di altissima qualità. A questi si aggingerà anche il contributo fattivo del carcere di Barcaglione, i cui prodotti saranno periodicamente regalati alle famiglie indigenti, con l’intento da parte dei detenuti di restituire alla società qualcosa di concreto e ricostruirsi un percorso di socialità. Arienzo (Bn). Due detenuti si diplomano in Finanza e Marketing di Simonetta de Chiara Ruffo ilcrivello.it, 17 giugno 2021 Quando il carcere non è solo una misura repressiva nei confronti di chi ha sbagliato ma viene ritenuto uno strumento per recuperare gli individui e reintrodurli nella società, accade anche questo, e cioè che i detenuti studino con profitto fino a diplomarsi in materie molto attuali come Finanza e Marketing che premettono anche il reinserimento nel mondo del lavoro di oggi. È successo questa mattina nella casa circondariale di Arienzo “G. De Angelis” diretta dalla dottoressa Annalaura De Fusco dove, per la prima volta nella storia del carcere da quando è stata istituita la scuola superiore, due detenuti hanno affrontato brillantemente la prova di maturità. I due detenuti hanno sostenuto il colloquio nella parte dell’Istituto dedicato alla scuola, al primo piano della struttura con la commissione esaminatrice composta dai docenti dell’Istituto Comprensivo Vittorio Bachelet. E se per gli studenti di 18 anni questo è un giorno di grandissima emozione possiamo semplicemente immaginare che cosa sia successo ai due protagonisti di questa mattinata insolita nella casa circondariale di Arienzo. Anche la commissione era soddisfatta e gli esaminatori erano visibilmente compiaciuti ed emozionati assieme a tutto il personale del carcere che ha tifato per i due maturandi. Cosa aspetta i due neodiplomati che hanno dimostrato un così grande impegno una volta che saranno usciti di prigione? Su questo occorre lavorare, perché bisogna rafforzare le reti che danno l’opportunità di continuare l’operazione di reinserimento sul territorio attraverso il mondo del lavoro. Per questo motivo è necessario che istituzioni, operatori scolastici e le tante associazioni che si occupano del reinserimento dei detenuti continuino a lavorare gomito a gomito. Del resto, se loro, i protagonisti di queste belle storie ce la mettono tutta, vuol dire che siamo su un’ottima strada e che come si suol dire, chi ben comincia è alla metà dell’opera. Ferrara. Le farmacie donano prodotti ai detenuti di Marcello Pulidori La Nuova Ferrara, 17 giugno 2021 Consegnati integratori, occhiali, detergenti e repellenti L’assessore Coletti: solidarietà e salvaguardia della salute. Un consistente numero di occhiali da lettura, prodotti per l’igiene personale, articoli sanitari e altri prodotti di vario genere tra cui alcuni integratori, per i detenuti della casa circondariale di via Arginone. A consegnarli, ieri mattina, in una iniziativa caratterizzata anche da un alto valore simbolico legato alla solidarietà, sono stati Luca Cimarelli e Paola Nocenti rispettivamente presidente della Holding Ferrara Servizi e direttrice generale dell’azienda Afm, le cosiddette Farmacie Comunali. Oltre ai dirigenti dell’Afm era presente l’assessore alle politiche sociali Cristina Coletti la quale ha parlato di “iniziativa di grandissima rilevanza perché va incontro alle esigenze di chi al momento è recluso”. Due donne come padrone di casa, la comandante della Polizia Penitenziaria, Annalisa Gadaleta e la direttrice della struttura carceraria Maria Nicoletta Toscani. Trova così concretizzazione l’iniziativa dell’azienda Afm che ha accolto tempestivamente l’appello di solidarietà lanciato in più occasioni dai dirigenti medici della struttura carceraria. Lo scopo è di contribuire al miglioramento delle condizioni di salute dei detenuti, attenuando le difficoltà dovute alla reperibilità di materiale sanitario, conseguenza dell’elevato numero di carcerati. Peraltro va considerata anche la stagione calda ormai esplosa e la necessità di contribuire a proteggersi dalle conseguenze che talora le elevate temperature possono generare. “Salvaguardare la salute è un diritto di tutti, anche dei detenuti - ha detto ancora l’assessore Coletti - e un grande grazie va all’azienda delle farmacie comunali per il raggiungimento di tale obiettivo”. Ma va detto che l’intero tessuto politico-amministrativo di Ferrara ha preso a cuore le situazioni di quelle persone che, costrette nelle loro celle, non hanno mezzi per potersi permettere quel minimo di cure e attenzioni per il proprio benessere. Così come va ricordato che l’Afm, è stato sottolineato da Cimarelli, non è nuova ad iniziative di solidarietà, e già in passato è intervenuta con l’acquisto di ausili sanitari a sostegno di detenuti non in condizioni di fronteggiare le spese per l’acquisto di materiale. “Quest’anno abbiamo preferito donare un maggior numero di occhiali per la lettura, di diversa gradazione - ha detto ancora Cimarelli - Riteniamo che la lettura occupi un ruolo molto importante soprattutto in una situazione di detenzione”. Renderlo umano è solo un’illusione: il carcere va abolito di Elisabetta Zamparutti Il Riformista, 17 giugno 2021 Lo spiegano Ferrari e Mosconi nel libro “No Prison”. Serve un cambio di paradigma, mettere al centro la persona, non il reato. Il fine è una società meno violenta? Il mezzo non può essere una violenza come la privazione della libertà. “Perché abolire il carcere - Le ragioni di No Prison” è il titolo di un libro di recente pubblicazione che Livio Ferrari e Giuseppe Mosconi hanno scritto insieme sospinti dal vento, che spira sempre più forte, dell’abolizionismo carcerario. Il titolo è perentorio. Induce però a una domanda: perché leggere oggi un libro sull’abolizione del carcere? Il carcere è cementato nella nostra cultura, nella nostra educazione, nel modo in cui ci siamo socialmente organizzati. È lo strumento con cui ci relazioniamo al “male” e pensiamo di governarlo. È l’appendice, per dirla con Marco Pannella, o l’effetto, per dirla con i meccanicisti, di una “causa” incentrata sull’accertamento della colpevolezza a fronte di ciò che viene considerato reato. È manifestazione, per dirla con Ferrari e Mosconi, di un paradigma ben preciso: quello sanzionatorio, che poi, in fondo, è quello patibolare. Così è stato, così è e così sarà fino a quando la reazione al delitto è penale, cioè una pena. Pensiamo all’uso delle parole: chiamiamo penale una branca del diritto e penitenziari gli istituti dove mettiamo coloro che priviamo della libertà per un tempo calibrato sul calcolo astratto del danno arrecato. Terrificante! Eppure, all’idea di abolire il carcere ci sentiamo come si sarebbe sentito Tolomeo davanti a Copernico oppure Newton, padre della fisica meccanicista, davanti ai fisici tedeschi Max Planck o Karl Heinsenberg, pionieri della fisica quantistica. In una parola ci sentiamo disorientati. Livio Ferrari e Giovanni Mosconi ci orientano allora verso un “salto di paradigma” che spiegano così: “Si tratta nella sostanza di abbandonare la centralità del reato come fatto negativo che si proietta sulla persona, stigmatizzandola e devastandone soggettività, esperienza e appartenenza sociale tramite l’afflizione detentiva”. Occorre invece “riportare al centro la persona, come titolare di diritti, troppo spesso già disattesi prima del verificarsi del reato, come portatore di bisogni e depositario di praticabili e da praticarsi, potenzialità riabilitative. Si tratta evidentemente di una verità diversa rispetto a quella processualmente definita e costruita, che affonda le sue radici ben prima del fatto reato, e che può essere fatta riemergere a pieno, nella sua sostanza e nelle sue potenzialità, nell’approccio alternativo alla punitività penale”. I fautori di un carcere orientato ai principi costituzionali usano dire, a sostegno delle riforme necessarie, che in carcere entra l’uomo e non il reato. È vero. Ma proprio per questo mai farei entrare un uomo in un luogo di privazione della libertà, di isolamento, anaffettivo e afflittivo. È un’illusione riformista quella di voler umanizzare l’inumano. Come con la pena di morte c’è chi non la abolisce ma la infligge in modo “dolce”, non con la sedia elettrica ma con l’iniezione letale, così con il carcere c’è chi pensa di far soffrire con liberalità e dolcezza. Se si vuole davvero contenere la violenza diffusa nella società non vanno usati mezzi violenti, luoghi mortiferi. Non è mai vero che il fine giustifica i mezzi. Al contrario, sono i mezzi che prefigurano i fini: se il fine del carcere è una società meno violenta i mezzi per perseguirlo non possono essere violenti. La verità è che una società senza prigioni è più sicura, come più sicura è una società senza pena di morte. Noi di Nessuno tocchi Caino amiamo l’ordine e la sicurezza, e non intendiamo lasciare queste parole bellissime a quelli della “legge e ordine”, quelli del potere fine a se stesso, quelli del “disordine costituito” per dirla con Pannella. Il nostro ordine è sinonimo di coerenza e armonia tra idee, sentimenti e comportamenti orientati ai valoro umani universali. Non si tratta di andare alla ricerca di un carcere migliore ma di cercare qualche cosa di meglio del carcere stesso. Abolire il carcere non è un’utopia, è una necessità perentoria della storia che evolve e si eleva a gradi sempre più alti di coscienza. Assecondiamo, grazie anche a questo libro, questo corso. Zagrebelsky e i dilemmi del diritto. L’umiltà che serve alla giustizia di Ferruccio De Bortoli Corriere della Sera, 17 giugno 2021 Esce giovedì 17 giugno un saggio dell’ex presidente della Corte costituzionale che esamina senza sconti i comportamenti di tutti gli operatori del settore giuridico. A un grande giurista come Gustavo Zagrebelsky, che ci fa apprezzare con i suoi scritti la bellezza inarrivabile del diritto - complessità della vita non solo aridità della norma - possiamo rimproverare un solo errore. Quello di aver pubblicato “La giustizia come professione” (Einaudi) troppo tardi. Se questo testo, che esplora più i difetti che le virtù di magistrati, avvocati, accademici, fosse uscito prima delle miserevoli cronache degli ultimi mesi, forse avrebbe costretto molti a un esame di coscienza. Meglio, a un bagno di umiltà. A vedere la propria immagine riflessa, come un puntino infinitesimale, nello specchio della storia e della filosofia anziché in quello deforme della propria vanità, interesse personale, bulimia corporativa. Ma c’è da augurarsi che il libro sia letto e discusso, almeno nelle conclusioni, proprio nel momento in cui il Paese si appresta a varare una riforma della giustizia non più rinviabile. Zagrebelsky cita il Vangelo di Matteo, in “un passo di solito ignorato” (sublime critica all’interpretazione dei testi sacri). “Dice il Cristo a un ipotetico discepolo che è in lite con qualcuno: fai presto un amichevole accordo con il tuo avversario mentre sei per la strada con lui: che non accada che ti metta in mano del giudice”. Perché, sostiene l’autore, andar dal giudice è sintomo di un fallimento. Non solo. “Andarci immediatamente, senza aver tentato altre strade, è sintomo di grettezza”. Trasforma la persona umana in persona giuridica. “E allora inizia la perversione della funzione del diritto”. E se la legge “si intromette in tutte le pieghe della vita, la vita così si affievolisce”. L’autore è convinto che la giustizia riconciliativa sia un “gradino della scala etica più in alto di quella punitiva”. Teme “l’autoreferenzialità dei soggetti, l’uso aggressivo e vendicativo dello strumento giudiziario”. Basta così. Il preambolo della riforma è già scritto. Autorevolmente. Però, gli aspiranti legislatori e tutti i partecipanti all’infinito dibattito sulla materia dovrebbero avere la pazienza - e insieme l’umiltà - di leggere anche il resto. Diffidare subito dei cultori del diritto, che sanno di culto, non di coltivazione. A maggior ragione di chi pensa, alla Ulpiano, di essere addirittura un sacerdote del diritto. La sacralità può degradare facilmente in maschera. E “cento buoni giuristi non fanno una buona opinione quanto un solo cattivo giurista ne fa una cattiva”. I professionisti della giustizia sono sensibili alle seduzioni e alle trappole della mondanità. Ed è amaro per chi scrive notare che Zagrebelsky, citando Balzac, indichi i giornalisti, insieme ai giuristi, come i più esposti a “una condizione corrosiva della loro credibilità”. Molti sono però comodi cliché, un po’ da smontare: cattivi cristiani, così legalitari da accantonare la coscienza (Carl Schmitt mise la scienza giuridica tedesca al servizio di Hitler) dogmatici, venali, rapaci e cortigiani. I simboli hanno una loro teatrale e storica importanza per ricordare, nell’iconografia del potere, che la giustizia ha una sua origine divina o regale. La giustizia è femminile. La bilancia non è una stadera che valuta un peso assoluto: mostra l’equilibrio delle parti. E non solo la necessità di comporre ragioni e torti, ma anche di conciliare rigore e clemenza. Un altro simbolo della giustizia è la spada. Non un pugnale che è più segno di “tradimento e cospirazione”. La spada è alzata e brandita. Ammonisce. Raffigura la decisione, la sovranità. La giustizia è poi bendata per evitare che cada “preda di influenze improprie”. Insensibile alle calunnie, all’opinione comune. “Al rumore della folla”. E, aggiunge Zagrebelsky, “dovremmo immaginarla senza orecchie e senza naso”. Ma a questo punto più che una leggiadra figura femminile sarebbe un mostro. L’avvocato è per l’autore soprattutto un intermediario, un mediatore. Opera nell’interesse pubblico, come “collaboratore della giustizia”, ma anche nell’interesse del suo assistito. Una duplicità che può trasformarsi in una “contraddizione lacerante”. Può usare stratagemmi ma non inganni. La parità in un processo, tra accusa e difesa, è un principio assoluto. “Ma quale parità può esserci se l’uso delle armi d’una parte è più potente, efficace, persuasivo, suggestivo dell’uso dell’altra parte”. Il processo moderno, nella visione di Zagrebelsky, esprime una concezione laica della giustizia. Non si stabilisce la verità, “ma si cerca di vedere le cose da diversi punti di vista”. Spesso le “questioni di coscienza sono eluse con vari argomenti”. Ma il processo non può trasformarsi in un’ordalia. Vanno difesi anche i peggiori criminali. “Gli avvocati dei grandi processi del Ventesimo secolo - scrive l’autore - non è detto che stessero dalla parte di Goering o Eichmann”. Ma l’avvocato di Mafia, si chiede, è ancora un libero professionista? Zagrebelsky difende con argomenti persuasivi l’indipendenza dei giudici dai quali “non ci si deve aspettare la rivoluzione o la reazione e neppure chissà quali riforme”. “La giuristocrazia - aggiunge - di cui tanto si parla per alimentare le polemiche contro l’indipendenza dei giudici e per renderli innocui, è un’invenzione”. La toga dovrebbe far percepire non solo autorevolezza, ma unità. “La giustizia non può apparire divisa; spesso lo è ma non deve mostrarsi così”. Alla coscienza del giudice - che non può sottrarsi all’esercizio della sua funzione, non può essere obiettore come un medico - è dedicato il capitolo più delicato e sofferto. La soggezione alla legge non è il solo metro di integrità professionale. “Nel passaggio dal diritto liberale a quello fascista, a quello democratico-costituzionale, se ci furono casi di coscienza, gli annali non li hanno registrati”. Non si salvano, ovviamente, nemmeno i colleghi professori di diritto. Qualche volta troppo engagé. I pareri pro veritate sono semplicemente di parte. E vi è chi ne ha dati due: uno contrario all’altro. Negli esami il voto può essere semplicemente assurdo. “Si deve accertare se la scintilla è scoccata: o sì o no”. E nell’era della didattica a distanza, Zagrebelsky non ha dubbi. “Occorre conoscersi, non basta vedersi”. E cita Pavel Florenskij: “Una lezione non è un tram che vi porta da un posto all’altro, ma una passeggiata con gli amici. È la passeggiata a essere importante, non la destinazione”. Esemplare. Anche se per i tanti, fortunati, studenti del professor Zagrebelsky, la frequentazione dei suoi corsi non dev’essere stata proprio una passeggiata. Tupac avrebbe compiuto oggi 50 anni: è ancora un’icona per i ragazzi delle carceri minorili di Kento* Il Fatto Quotidiano, 17 giugno 2021 Per i ragazzi delle carceri minorili, Tupac è un’icona. Una figura mitologica come Maradona, Bruce Lee, Scarface, Padre Pio. Non importa che sia morto parecchi anni prima della loro nascita, non importa che molti di loro non abbiano mai sentito una delle sue canzoni. La bandana annodata sulla fronte, il dito medio alzato, il “Fuck the world” urlato sorridendo fanno parte del loro immaginario collettivo in modo indelebile, e gli anni sembrano rafforzare anziché sbiadire questo ruolo. Quando tengo i miei laboratori di scrittura dietro le sbarre, ho quindi l’abitudine di citare ‘Pac molto spesso, specie considerando che anche lui è stato detenuto, e in cella ha scritto alcune delle sue liriche più importanti. Quando lo faccio, gli occhi si accendono, l’attenzione si fa totale. Una volta un ragazzo mi interruppe, raggiante, per farmi vedere il tatuaggio sull’addome: sotto un paio di cicatrici sfrangiate (che potevano essere o non essere vecchie coltellate) si leggeva, con tratto incerto ma ortografia ineccepibile, un grosso THUG LIFE: appunto lo stesso tatuaggio di Shakur. Tatuarsi è uno dei passatempi preferiti dei giovani reclusi. Il problema è che viene fatto con strumenti di fortuna e, ovviamente, dai ragazzi stessi. Quindi non c’è né la sterilità di un laboratorio professionale né la stessa garanzia di un risultato esteticamente accettabile. Le braccia e a volte anche la faccia di chi si tatua in prigione assomigliano a un foglio scarabocchiato a pennarello, il che crea dei grossi problemi a chi, una volta libero, ha la necessità di rendersi “presentabile” per un lavoro o un’opportunità di qualsiasi tipo. Ma mettermi a fare la predica in quel momento avrebbe ammazzato l’entusiasmo del giovane che avevo di fronte, e del resto un segno sull’addome - anche se mal fatto - è un problema minore che avere lo stesso segno sulla fronte. Quindi ho sorriso, ho annuito e gli ho chiesto: “Bello, ma sai che cosa significa?” “Certo! - mi ha risposto subito - Significa vita dura, vita criminale!” “Hai ragione, ma c’è anche un significato nascosto e più profondo…” e gli ho raccontato l’acronimo T.H.U.G.L.I.F.E. così come lo spiegava lo stesso Tupac: The Hate U Give Little Infants Fucks Everybody, l’odio che date ai bimbi piccoli fotte tutti. Da quel momento, il mio nuovo amico è stato ancora più fiero della scritta sulla sua pancia, che ha acquisito un significato fortissimo in quel luogo, dove ragazzi spesso poco più che bambini combattono con l’odio dato e ricevuto per la maggior parte della loro giovane vita. In questi giorni di metà 2021 in cui Tupac Amaru Shakur compirebbe cinquant’anni, mi ritrovo spesso a chiedermi cosa direbbe delle nuove e antiche questioni sociali che ancora ci accompagnano. Mi chiedo cosa direbbe ai miei ragazzi rinchiusi, che parole sceglierebbe per motivarli e incoraggiarli a non arrendersi. Lui che in soli 25 anni su questo pianeta ha tracciato un percorso che va dalle Black Panthers al gangsta rap, dalla poesia performativa alla passerella delle sfilate di Versace, attraversando buona parte della cultura popolare e della politica della fine del ‘900. Quando, al minorile, ci sediamo di fronte allo schermo a guardare i suoi videoclip, il primo è immancabilmente “Dear Mama”, dedicato appunto alla madre Afeni Shakur. Una canzone che ne celebra la forza e del coraggio (Afeni è stata una militante del Black Panthers Party e per questo è stata detenuta a sua volta) ma anche le cadute e la tossicodipendenza. Una storia famigliare in cui alcuni dei detenuti si possono rispecchiare in prima persona, e di cui tutti apprezzano la carica straordinaria di realtà. Buon compleanno Tupac Amaru Shakur. 16 giugno 1971 - 16 giugno 2021 - ? *Rapper e insegnante Il volontariato si candida a bene immateriale dell’Unesco: “Motore della società” Corriere della Sera, 17 giugno 2021 La candidatura è stata presentata ufficialmente mercoledì nella sala “Caduti di Nassirya” al Senato della Repubblica. Costituito il Comitato promotore. Il primo a lanciare un segnale era stato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: “Il volontariato è una energia irrinunziabile della società”. Così il Capo dello Stato aveva aperto l’anno che ha visto Padova come Capitale Europea del Volontariato. Ora questa occasione è finita, ma non è ancora terminato il percorso. Perché in occasione della cerimonia conclusiva, Emanuele Alecci, presidente di Padova Capitale, ha annunciato - come lascito dell’anno europeo - la candidatura del volontariato quale bene immateriale Unesco. E proprio mercoledì è stata presentata ufficialmente la richiesta all’Organizzazione delle Nazioni Unite, nella sala “Caduti di Nassirya” presso il Senato della Repubblica a Roma, presente il questore, senatore Antonio De Poli. Si tratta di “un patrimonio generato dalla comunità - aveva anche aggiunto Sergio Mattarella - che si riverbera sulla qualità delle nostre vite, a partire da coloro che si trovano in condizioni di bisogno, o faticano a superare ostacoli che si frappongono all’esercizio dei loro diritti”. Un “bene” prezioso, quindi. Come è stato possibile appurare anche in questi difficili mesi di pandemia: “Senza il volontariato non si sarebbe potuto far fronte al Covid-19. Non è una forzatura. È un dato di realtà”. Ecco il motivo di “questa proposta - ha sottolineato Emanuele Alecci -, che poggia su solide motivazioni. Il volontariato è un elemento di crescita morale e civile di ogni Nazione. È un bene prezioso, un capitale e un patrimonio che dobbiamo proteggere e sostenere. Per questo è necessario che il volontariato ottenga il riconoscimento Unesco quale bene immateriale. Questa candidatura vuole avere l’appoggio e il sostegno di tutte le forze attive in Italia a partire dal mondo istituzionale, politico, accademico e culturale. Perché soltanto correndo tutti insieme si potrà raggiungere questo importante risultato”. Alla presentazione della candidatura era presente anche Andrea Orlando: “Quella marcia in più di cui dispone l’Italia che è il volontariato è stata una delle ragioni per cui le nostre comunità sono ripartite e stanno ripartendo e hanno saputo resistere e reagire ai momenti più difficili della diffusione pandemica - ha evidenziato il ministro del Lavoro -. Credo che questa iniziativa non sia solo giusta, condivisibile, da sostenere ma sia anche molto tempestiva”, ha aggiunto il ministro, sottolineando che “se c’è un momento in cui questa scelta, e questa candidatura, una ragion d’essere, questo è proprio il momento migliore e più opportuno”. Per sostenere la candidatura è stato costituito un Comitato promotore composto, oltre che da Emanuele Alecci, da Giuliano Amato, vicepresidente Corte Costituzionale; Riccardo Bonacina, fondatore Vita Non-profit; Francesco Rocca, presidente Croce Rossa Italiana; Antonino La Spina, presidente nazionale Unpli; Fabrizio Pregliasco, presidente nazionale Anpas; Paola Capoleva, presidente Csv Lazio; Cristina De Luca, vicepresidente Fondazione Italia sociale; Giuseppe Lumia, associazione Luciano Tavazza; Andrea Carandini, presidente Fai; Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera, Marco Tarquinio, direttore di Avvenire; Ferruccio de Bortoli, presidente Vidas e altri ancora. “La candidatura - ha concluso Alecci - sarà transazionale e da subito continueremo ad avviare collaborazioni con le grandi reti europee di volontariato al fine di avviare congiuntamente la richiesta all’Unesco. Sarà compito di ogni Paese lavorare su un dossier che risponda al formulario previsto per le candidature immateriali all’Unesco. Il materiale predisposto da ogni Paese diverrà un unico documento che sarà consegnato all’Unesco a sostegno di questa simbolica, ma quanto mai attuale candidatura. Un lavoro che avrà bisogno di almeno 12 mesi di iniziative e di impegno per il Comitato Promotore e per quanti vorranno aiutarci in questa avventura”. Un milione di poveri in più nell’anno della pandemia di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 17 giugno 2021 Secondo l’Istat ecco i primi effetti della pandemia sociale in un paese privo di un Welfare che assicura il diritto dell’esistenza delle persone: 5,6 milioni in povertà assoluta. E il “reddito di cittadinanza” ne copre solo 2,6. 1,3 milioni di minori sono in povertà. Secondo la Garante per l’Infanzia Garlatti sono aumentati di 200 mila unità in un solo anno. 29,3 per cento: è l’incidenza della povertà assoluta tra i cittadini stranieri residenti, è il 7,5% tra gli italiani. I cittadini extracomunitari residenti da meno di 10 anni sono stati esclusi da una norma razzista di Lega e Cinque Stelle. Ora serve la trasformazione del loro “reddito” in un reddito di base incondizionato. Altrimenti il prossimo anno ci sarà l’aumento di un altro milione di poveri. Un milione di poveri assoluti in più nel primo anno della pandemia: da 4,6 milioni nel 2019 a oltre 5,6 nel 2020. Le famiglie in povertà sono oltre due milioni. Senza un’evoluzione del cosiddetto “reddito di cittadinanza” verso un reddito di base l’anno prossimo ci ritroveremo a commentare l’aumento di un altro milione di poveri. Questa misura può essere creata innalzando i criteri di accesso come l’indicatore della situazione economica equivalente (Isee) liberato da vincoli e condizionalità che oggi escludono i soggetti più colpiti: i lavoratori poveri che hanno perso il lavoro e i cittadini extracomunitari residenti da meno di dieci anni. Le stime comunicate ieri dall’Istat sono definitive. Mai questo livello era stato raggiunto dal 2005, anno in cui sono iniziate ad essere compilate le serie storiche. Rispetto alla crisi del 2007-2008, da cui l’Italia non si è ancora ripresa, quella innescata dal Covid si annuncia peggiore, mentre gli strumenti del Welfare restano inadeguati. I senatori dei Cinque Stelle in commissione lavoro ancora ieri hanno rilanciato l’idea per cui il “reddito di cittadinanza” - in realtà un sussidio di ultima istanza collegato a politiche attive del lavoro particolarmente feroci sulla carta e mai ancora applicate - è stato “un fondamentale strumento di protezione sociale in questo anno drammatico”. Più che una diga, questo “reddito” è stato un lenitivo che non ha raggiunto nemmeno tutta l’area della povertà assoluta preesistente al Covid. Secondo l’Istat nel 2019 gli individui in questa condizione erano poco più di 4,6 milioni, mentre l’anno prima erano poco superiori ai 5 milioni (un calo di poco più di 400 mila unità, dunque). Per l’Inps ad aprile 2021 il “reddito” (559 euro medi mensili) copriva 1,1 milioni famiglie, 2,6 milioni di persone, poco più della metà dei poveri assoluti nel 2019. Come si spiega questo fenomeno? Per i limiti restrittivi concepiti per escludere e non includere. Per ottenere il beneficio bisogna avere, tra l’altro, un Isee inferiore a 9.360 euro; un patrimonio finanziario non superiore a 6 mila euro; un reddito familiare inferiore a 6 mila euro moltiplicato per una scala di equivalenza che penalizza le famiglie numerose (le più colpite oggi). Questi criteri, già oggi, impediscono di raggiungere potenzialmente tutti i poveri assoluti. Non solo: escludono tutti coloro che hanno perso il lavoro, quindi una fonte di reddito, e quelle che non hanno perso il lavoro ma il reddito con la cassa integrazione. Il problema è stato posto inutilmente già durante i mesi più drammatici dei lockdown. Invece di modificare questi problemi strutturali il governo “Conte 2” ha inventato un’altra misura, il “reddito di emergenza”. Si tratta di un doppione del “reddito di emergenza” che risponde a criteri leggermente più ampi, ma pur sempre temporanei e occasionali, del tutto inadeguati per rispondere a un’emergenza strutturale che rischia di durare anni. Nella sua analisi l’Istat segnala come il “reddito di cittadinanza”, misure straordinarie come bonus erogati senza alcuna prospettiva e le casse integrazioni abbiano diluito “l’intensità della povertà assoluta”, ma in tutta evidenza non hanno fermato il suo aumento in termini assoluti. Sono stati persi molti redditi principali nelle famiglie, ma anche molti secondi redditi, quelli ad esempio delle donne che di solito permettono di mantenere la famiglia al di sopra la soglia della povertà. Insieme ai giovani la crisi le ha colpite molto duramente. L’Istat dimostra che la nuova povertà riguarda anche le famiglie che, pur pagando un mutuo, sono povere e non riescono ad affrontare le spese fondamentali per il sostentamento. I criteri del “reddito di cittadinanza” escludono molte di queste persone che non erano povere in termini assolute, ma erano in condizioni critiche. La crisi ha peggiorato la loro condizione. Oggi però non possono dimostrare di essere povere perché il sussidio viene erogato in base alla situazione economica di due anni fa e non in base di quella corrente. Altro dato fondamentale per capire la natura della crisi: sono colpite le famiglie con figli minori ed è aumentata la povertà assoluta dei bambini e degli adolescenti: 1,3 milioni di persone. Secondo l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza Carla Garlatti tra il 2019 e il 2020 i minorenni in povertà assoluta sono aumentati di 200 mila unità. L’incidenza di povertà assoluta è più elevata tra le famiglie con un maggior numero di componenti. E qui emerge il lato più inquietante, e meno discusso, della misura voluta da Lega e Cinque Stelle nel 2019: il suo razzismo. Per l’Istat le famiglie dei cittadini stranieri extracomunitari con figli sono le più colpite (29,3%). Tranne quelle residenti da più di dieci anni le altre sono escluse dal beneficio del “reddito” da una norma abnorme e incostituzionale. Bin Italia: “Ora il reddito di base” - “Dal 2020 il dibattito sul reddito di base ha ricevuto un interesse mai registrato prima in tutto il mondo. Il primo ministro del Galles ha avviato una sperimentazione su 5 mila persone - afferma Sandro Gobetti del Basic Income Network-Italia - Accadrà lo stesso in Scozia per superare le forme di reddito minimo condizionato come l’Universal Credit inglese, cioè la somma dei sostegni ma più bassa. È quello che vogliono istituire da noi con il reddito di cittadinanza. In Italia noi chiediamo già da 1 anno l’innalzamento dei criteri di accesso alla misura (Isee) così da estendere la platea per raggiungere anche la povertà relativa e anticipare il rischio della povertà assoluta. Tra un anno ci sarà 1 milione di poveri in più. La somma dev’essere dignitosa. Va fatto un vero investimento sul Welfare. È giunto il momento di fare un vero dibattuto sul reddito incondizionato come richiesto dall’iniziativa dei cittadini europei in corso”. Alleanza contro la povertà: “Interventi urgenti, modificare il Reddito di emergenza” - Il cartello di associazioni e sindacati “Alleanza contro la Povertà” (che comprende realtà che vanno dalla Caritas alla Cgil) chiede la riforma del “reddito di cittadinanza” inglobando una parte della platea dei percettori del “reddito di emergenza” e il superamento delle misure che penalizzano o escludono dal beneficio proprio alcune famiglie con i minori e/o composte da cittadini stranieri. Chiede inoltre di “potenziare i servizi sociali per assicurare “un’adeguata presa in carico della popolazione e l’attivazione di percorsi di inclusione sociale”. Chiede infine di “valutare con attenzione nella definizione dell’assegno unico ed universale a sostegno dei figli, introdotto il prossimo anno e nell’assegno temporaneo per figli di recente introduzione, modalità di integrazione con il reddito di Cittadinanza che tengano conto della drammatica incidenza della povertà tra le famiglie con minori”. I nuovi poveri della pandemia di Chiara Saraceno La Repubblica, 17 giugno 2021 Il record negativo del rapporto Istat: nel 2020 cresce chi non può sostenere le spese essenziali. Come avevano già anticipato a marzo le stime provvisorie dell’Istat, l’impatto della pandemia è stato fortissimo in termini di aumento della povertà assoluta, nonostante i diversi provvedimenti messi in campo dal governo per sostenere il venir meno del reddito siano stati consistenti. Senza di essi l’impatto sarebbe stato più severo sia in termini di incidenza sia in termini di intensità della povertà. Del resto, era difficile aspettarsi che le cose andassero diversamente. Tra lavoratori/lavoratrici in cassa integrazione, lavoratori/lavoratrici che hanno perso il lavoro nonostante il blocco dei licenziamenti, attività che hanno dovuto chiudere, molte famiglie hanno perso, o si sono viste ridurre, l’unico reddito disponibile, o hanno perso uno dei percettori di reddito. La piccola diminuzione nella incidenza della povertà assoluta registrata nel 2019 dopo anni di costante aumento si è rovesciata in un aumento di oltre un punto per le famiglie e quasi due punti per gli individui. Si tratta rispettivamente di 330 mila circa di famiglie e un milione di persone in più dell’anno prima. Si può discutere se, in un periodo eccezionale quale quello che abbiamo attraversato, in cui tutti abbiamo forzatamente diminuiti i consumi, l’indicatore della povertà assoluta costituito dal valore complessivo del paniere dei beni essenziali (alimentazione, spese connesse all’abitazione, abbigliamento e poco altro) non debba essere “spacchettato”, stante che alcune spese, come ad esempio l’abbigliamento, possono non essere state fatte non per mancanza di risorse, ma per mancanza di necessità, vista la mobilità e socialità ridotta cui tutti sono stati costretti. Ma con lo stesso ragionamento si potrebbe sostenere che alcuni beni, non compresi nel paniere, si sono rivelati viceversa essenziali e la loro mancanza ha costituito un elemento di povertà aggiuntiva. Si pensi agli strumenti informatici come un computer o un tablet e a giga sufficienti per seguire la didattica a distanza, la cui mancanza ha allargato ulteriormente le disuguaglianze tra bambine/i e adolescenti in termini di opportunità di apprendimento. Analogamente, il venir meno di alcuni servizi, quali la mensa scolastica, durante il lungo lockdown, ha ridotto la possibilità di bambine/i poveri di avere un pasto giornaliero nutrizionalmente adeguato. Anche senza considerare questi aspetti, bambine/i e adolescenti si confermano i soggetti più vulnerabili alla povertà, balzando al 13,5%, oltre 5 punti percentuali sopra la media. Con le loro famiglie sperimentano anche una maggiore intensità della povertà rispetto alla media. Sono inoltre i bambini/e che hanno fratelli e sorelle, specie più di uno, e le loro famiglie, a sperimentare più frequentemente la condizione di povertà assoluta rispetto a chi non ha fratelli o sorelle, o solo uno. Prima di preoccuparci dei tassi di natalità dovremmo preoccuparci delle condizioni di deprivazione e mancanza di opportunità in cui lasciamo cresca oltre un milione di bambine/i e adolescenti in un Paese che fa parte dei 7 più sviluppati al mondo. Proprio perché l’aumento della povertà assoluta è un effetto diretto delle misure prese per contrastare la pandemia, non deve stupire che l’aumento maggiore sia avvenuto nelle regioni settentrionali, sia perché lo scorso anno sono state colpite prima e più a lungo dal lockdown, sia perché hanno una maggiore concentrazione di imprese e attività che hanno dovuto chiudere o rallentare, anche se il Mezzogiorno continua a essere l’area con la più alta incidenza di povertà. Il gap Nord-Sud, quindi, si è ridotto non per un miglioramento della situazione nel secondo, ma per un allargamento dell’area della vulnerabilità anche a regioni e gruppi sociali che ne sembravano più protetti. Infine, nonostante la stragrande maggioranza delle famiglie in povertà assoluta sia composta solo da italiani, l’incidenza è molto più alta nelle famiglie in cui vi è almeno uno straniero (residente regolarmente in Italia), ove riguarda una famiglia su quattro, a differenza del 6% delle famiglie di soli italiane. Tra gli stranieri, infatti, si concentrano i lavoratori poveri, spesso senza o con scarse coperture previdenziali e assistenziali. Questi dati dovrebbero rimanere sul tavolo di chi gestirà il Pnrr, perché la ripresa che speriamo arrivi non lasci indietro chi già ha subito pesantemente gli effetti della pandemia, per evitare che le diseguaglianze e vulnerabilità di vario tipo di cui sono espressione non si cristallizzino ulteriormente. La guerra dei vecchi ricchi contro i giovani poveri di Stefano Feltri Il Domani, 17 giugno 2021 Il miliardario Warren Buffet, qualche anno fa, ha detto che negli Stati Uniti si stava combattendo una lotta di classe e che i ricchi stavano vincendo. Aspettiamo che prima o poi qualche sessantenne ammetta che anche in Italia, in questi anni e soprattutto durante la pandemia, si è combattuta una guerra generazionale: i giovani hanno perso, e i vecchi hanno vinto. La percentuale di famiglie in povertà assoluta tra famiglie giovani (18-34) anni è il doppio che tra le famiglie con la “persona di riferimento” sopra i 64 anni: 10,3 per cento contro 5,3. L’incidenza della povertà assoluta è all’11,3 per cento tra i giovani e al 5,4 tra gli over 65. Dopo la promessa dei Cinque stelle di abolire la povertà col reddito di cittadinanza, nel 2019 i dati sono migliorati ma nel 2020 è arrivata la pandemia. La fotografia dell’Istat è questa: la percentuale di famiglie in povertà assoluta tra famiglie giovani (18-34) anni è il doppio che tra le famiglie con la “persona di riferimento” sopra i 64 anni: 10,3 per cento contro 5,3. L’incidenza della povertà assoluta è all’11,3 per cento tra i giovani e al 5,4 tra gli over 65. Gran parte delle misure adottate nella pandemia hanno protetto i più adulti a spese dei più giovani: il blocco dei licenziamenti ha protetto i posti di lavoro esistenti e spinto le imprese a risparmiare sulle nuove assunzioni, i precari, le partite Iva. Durante il Covid, il debito pubblico è passato dal 134,6 per cento del Pil al 159,8 atteso per quest’anno: soldi spesi non per investimenti ma a integrare i redditi della generazione attuale, falcidiati dai lockdown. Una zavorra che peserà a lungo sul futuro, perché si tratta di debito forse inevitabile ma che non produrrà crescita futura, perché è spesa corrente e non investimenti. Chi oggi ha 20 anni, entrerà nel mercato del lavoro in un paese ostaggio della Bce e degli altri paesi europei: basta un cenno da Francoforte per far vacillare la fiducia nel debito italiano e far salire i tassi. Un problema per i prossimi anni o decenni che spaventa poco chi oggi ha più di sessant’anni e vivrà il resto della sua vita in un mondo di tassi di interesse bassi. Mentre il debito saliva, la Borsa si riprendeva: piazza Affari è tornata su valori pre-Covid e a investire sui mercati non sono certo i giovani che faticano ad avere il mutuo. Secondo dati 2017 di Deloitte, i baby boomer in Italia sono il 37 per cento della popolazione ma detengono il 63 per cento degli asset gestiti. I vecchi hanno tutelato il proprio reddito, aumentato i risparmi che hanno investito con buoni risultati, mentre i giovani perdevano ore di lezione, che determinano cali di reddito per il resto della vita, e accumulavano debito pubblico. Certo, possono consolarsi con il piano Next Generation Eu, a loro intitolato. Ma quando Enrico Letta ha provato a proporre di redistribuire risorse dai vecchi ricchi ai giovani, con un aumento della tassa di successione, o di dare il voto ai sedicenni, si è ben capito chi domina il dibattito pubblico e la gestione dei fondi. Un milione di minori stranieri senza cittadinanza. Integrazione necessaria di Fulvio Fulvi Avvenire, 17 giugno 2021 Il loro numero è in crescita (+15,6% tra il 2012 e il 2018), a fronte di un forte calo generalizzato della natalità. La centralità della scuola. Sono più di un milione i minori di origine straniera residenti nel nostro Paese. Un numero in crescita (+15,6% tra il 2012 e il 2018), a fronte di un forte calo generalizzato della natalità. Si tratta di bambini e ragazzi - l’11% dei minorenni che vivono in Italia - che, nella stragrande maggioranza, frequentano la stessa scuola dei loro coetanei italiani, parlano la medesima lingua, giocano insieme, hanno uguali speranze, paure e fragilità legate all’età. Ma, in base alla legge, non possono essere cittadini italiani. Molti di loro sono arrivati in Italia solo dopo la nascita, altri, quelli di “seconda generazione” sono nati sul suolo italiano da genitori stranieri. E poi ci sono i minori non accompagnati, bisognosi di una specifica assistenza. Tra le Regioni, la presenza di stranieri che hanno un’età compresa tra gli 0 e i 17 anni è diffusa soprattutto nel centro-nord e nelle città piuttosto che nei piccoli paesi: superano il 16% dei residenti in Emilia-Romagna e Lombardia, toccano il 14,5% in Toscana e il 13,7% in Piemonte, Veneto e Liguria. La provincia con la più alta concentrazione di bambini e adolescenti è Prato, con il 28,8%. Se si tiene conto inoltre che il 31,2% delle famiglie di stranieri con figli minorenni si trovano in povertà assoluta (la media nazionale, su dati 2019, è del 9,7%) ecco un’altra emergenza educativa a cui si deve far fronte. “Una sfida dell’inclusione”, la definisce in un’anticipazione di Avvenire il rapporto curato da “Con i bambini-impresa sociale” e Fondazione Openpolis nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. “L’integrazione è un vantaggio per tutti, non solo per i bambini e le famiglie straniere - è scritto nella ricerca - perché una società più inclusiva significa meno conflitti sociali e culturali e un miglioramento del clima di convivenza nel Paese”. Fallire la sfida, si precisa nel documento, può comportare allora gravi conseguenze: meno opportunità per chi è rimasto fuori dai percorsi educativi, redditi più bassi, maggiori diseguaglianze e, non ultimo, il rischio di segregazioni e marginalità. Nuovi ghetti, insomma. La scuola, l’istruzione di qualità, diventano quindi essenziali. E se è vero che al crescere del titolo di studio aumentano le possibilità di occupazione, due dati del Report fanno riflettere: il 36,5% dei giovani tra i 18 e i 24 anni senza cittadinanza italiana ha lasciato la scuola prima del tempo contro una media del 13,5% e solo il 24,4% degli alunni delle superiori con cittadinanza extra-Ue frequanta il liceo, a fronte del 48,8% degli italiani. Inoltre, l’abbandono scolastico, secondo lo studio elaborato da Openpolis-Con i bambini, fenomeno che in Italia tra il 2004 e il 20219 ha segnato un calo generale del 9,6%, “è il sintomo più evidente di un processo di inclusione che rischia di lasciare fuori ancora troppi ragazzi”. E tra i giovani stranieri il tasso di interruzione degli studi rimane 3 volte superiore rispetto a quello degli italiani: è un aspetto, questo, che incide sulla possibilità di integrazione perché la scuola è il luogo naturale non solo per apprendere la lingua ma anche per sviluppare una rete di socialità e di amicizie, necessità ancora più sentita per chi viene da Paesi lontani e ha contatti solo con la famiglia e la propria comunità di origine, quando c’è. Ma esistono anche difficoltà di apprendimento, spesso legate proprio al mancato inserimento in una classe o in un contesto scolastico. Per gli stranieri, infatti, può essere più difficile e faticoso seguire le lezioni in una lingua che non conoscono bene o perché si sentono “estranei” e lontani dagli argomenti trattati. E così, se il ritardo scolastico riguarda mediamente un alunno con cittadinanza italiana su 10 (cioè il 9,6%), per gli studenti di origine straniera il dato medio è, anche in questo caso, 3 volte superiore, ovvero il 30,70%. E può succedere che il maggior ritardo accumulato dagli studenti con cittadinanza non italiana si accompagni ad apprendimenti inferiori rispetto ai coetanei, fattore che può presentarsi lungo tutto il percorso di studi. “Con forti differenze tra gli alunni di prima e di seconda generazione” sottolinea il Report, i cui numeri mettono in evidenza che oltre la metà degli stranieri iscritti alle scuole superiori, ha almeno un anno di ritardo nel proprio percorso di studi. Ma c’è anche l’”altra faccia della medaglia”: è da rilevare infatti che nell’apprendimento della lingua inglese gli studenti stranieri (di prima e seconda generazione) tendono ad avere punteggi in media più alti rispetto ai coetanei italiani: 204,50 contro 199,50. Un dato, questo, che suggerisce come i vantaggi di una maggiore integrazione scolastica tra ragazzi provenienti da culture diverse potrebbero avere effetti positivi per tutti. Società, famiglie, scuola. Omofobia. Zan: “Una fake news che il ddl limiti libertà di espressione” di Paolo Morelli Corriere della Sera, 17 giugno 2021 “Quando c’è un pericolo per l’altro non è più solo un’opinione”. Alessandro Zan promotore dell’omonimo disegno di legge che punta a estendere il raggio d’azione della Legge Mancino, per punire i reati d’odio legati a omolesbobitransfobia, misoginia e abilismo sarà ospite del Lovers Film Festival. “Il mio ddl? È ancora fermo in commissione giustizia (al Senato, ndr) dopo che per mesi i partiti che l’hanno sostenuto alla Camera, e anche dei parlamentari di centrodestra, ne hanno chiesto la calendarizzazione”. A parlare è Alessandro Zan, promotore dell’omonimo disegno di legge che punta a estendere il raggio d’azione della Legge Mancino, per punire i reati d’odio legati a omolesbobitransfobia, misoginia e abilismo. Sarà ospite del 36° Lovers Film Festival, diretto da Vladimir Luxuria, nell’ultimo giorno della manifestazione: domenica 20 giugno alle 16.45 presso la Sala Rondolino del Cinema Massimo. Con il politico e attivista Lgbt interverranno, oltre alla direttrice, Costantino della Gherardesca, Alessandro Battaglia (coordinatore del Torino Pride) e Malika Chalhy, la giovane recentemente cacciata di casa perché lesbica. L’incontro è a ingresso gratuito. È un’occasione per discutere del disegno di legge e delle discriminazioni di cui sono vittima le persone ancora oggi in Italia, nelle ultime settimane è accaduto proprio nel territorio torinese. Alessandro Zan, a che punto siamo? “Il ddl è ancora fermo in Commissione Giustizia (al Senato, ndr) dopo che per mesi i partiti che l’hanno sostenuto alla Camera, e alcuni parlamentari di centrodestra, ne hanno chiesto la calendarizzazione. Il presidente Ostellari sosteneva ci dovesse essere l’unanimità dei gruppi per avviare l’iter, ma non c’era: Fratelli d’Italia e Lega hanno sempre mostrato ostilità”. Perché secondo lei? “Inizialmente per una ragione culturale. La destra sovranista è più vicina alle posizioni di Ungheria e Polonia. Poi si è resa conto della grande mobilitazione che c’è stata sui social in piena pandemia, le manifestazioni di piazza, l’adesione a questa battaglia da parte di personaggi del mondo della cultura, dello spettacolo, del giornalismo. Tutto questo ha messo in difficoltà Meloni e Salvini che hanno proposto un testo al Senato, è il tentativo di dire: non siamo omofobi. Ma è in realtà un attacco alla legge Mancino, propone una misura blanda: introducono l’aggravante comune che di solito viene bilanciata dalle attenuanti”. Si dice che il ddl limiti la libertà di espressione… “Questa è una fake news. Applichiamo una legge consolidata nel nostro ordinamento e collaudata da sentenze della Corte Costituzionale. Nella Legge Mancino si parla di istigazione all’odio. Dire “sono contro i matrimoni gay” è un’opinione, non la condivido ma è un’opinione. Dire su una pubblica piazza o nei social “se avessi un figlio gay lo brucerei nei forni” non è più un’opinione, ma istigazione alla violenza e all’odio. Quando c’è un pericolo per l’altro non è opinione. Per fare una legge contro l’omotransfobia ne abbiamo presa una che esiste già, ma la estendiamo ad altri gruppi sociali”. La società è più avanti della politica? “La società civile italiana è moderna come le altre europee, non è un caso che gli ultimi sondaggi dimostrino come la maggioranza degli italiani sia a favore del ddl Zan. I diritti riconosciuti ad altri aggiungono. La destra sovranista guarda invece alla Polonia e all’Ungheria, che ha appena approvato una legge omotransfobica. Le destre italiane mi fanno paura perché inseguono quel modello. Spero che l’Europa si faccia sentire con sanzioni pesanti, non è accettabile che i cittadini ungheresi e polacchi siano oggetto di discriminazione di Stato, si armano le destre ultranazionaliste che fanno retate per picchiare gli omosessuali per strada. L’Europa deve reagire con forza”. Quanto è importante un festival come Lovers in questo momento? “La cultura è il primo presidio contro ogni forma di discriminazione. Molti film parlano dell’omotransfobia e possono arrivare al cuore e alle menti di tante persone. Grazie alla produzione artistica e culturale si può comprendere fino in fondo cosa significhino sofferenza e discriminazione. La cultura e il cinema sono un cibo fondamentale in questo senso”. La retorica dei diritti umani di Moni Ovadia Il Manifesto, 17 giugno 2021 Giustizia internazionale. La condanna è stata emessa dalla Corte Internazionale dell’Aja dopo avere respinto l’appello presentato dall’accusato per avere ritenuto le prove dei crimini inconfutabili. Il pletorico flusso delle notizie che l’informazione main stream ci ammannisce con mediocre monotonia e priorità prevedibili, ogni tanto, suo malgrado, ci dà notizie di qualche interesse che tuttavia non suscitano ulteriori riflessioni che pure sarebbero estremamente importanti. La notizia a cui faccio riferimento in questa fattispecie è quella della condanna all’ergastolo comminata all’ex generale Ratko Mladic, comandante dell’esercito serbo-bosniaco, per le accuse di genocidio, massacri di massa, pulizia etnica. La condanna è stata emessa dalla Corte Internazionale dell’Aja dopo avere respinto l’appello presentato dall’accusato per avere ritenuto le prove dei crimini inconfutabili. Una buona notizia! Non perché un criminale di guerra è stato condannato alla pena che gli spetta, non ritengo cosa buona gioire della disgrazia di un essere umano anche se un efferato criminale. Ma perché come si suol dire: “c’è un giudice a Berlino”. I parenti delle vittime forse proveranno sollievo nel vedere che giustizia è fatta, anche se il dolore per ciò che hanno subito i loro cari è irredimibile. Tuttavia un atto di giustizia a cosi tanti anni da quello che fu il tragico macello della guerra della ex-Iugoslavia risarcisce l’idea di un senso a cui apparteniamo in quanto esseri umani. Bene, ma a quando il processo delle leadership politiche e militari turche per l’ininterrotto e perverso massacro del popolo curdo? Quando verranno condotti davanti alla corte internazionale dell’Aja George W. Bush e Tony Blair, non dico per essere condannati (non sono un giudice) ma almeno per essere giudicati per avere scatenato una guerra, basata su evidenti menzogne con conseguenze spaventose e centinaia di migliaia di morti innocenti del popolo iracheno. L’ex leader laburista Gordon Brown chiese al parlamento britannico l’istituzione di una commissione di inchiesta sul comportamento tenuto dall’allora premier nello scatenare quella guerra. L’Alta Corte fini per bloccare la richiesta di incriminazione di Tony Blair per quella aggressione criminale, ma forse una corte internazionale avrebbe potuto avviare la procedura. Ma gli amici degli Stati Uniti non corrono questo rischio in Occidente. La Cia la celebre agenzia, quando giudica un dittatore o un criminale ha l’abitudine di definirlo con un’espressione assai grezza: “he is son of a bitch, è un figlio di puttana!” Ma qualora il dittatore o il criminale sia alleato degli USA allora la definizione diventa: “yes hès a son of a bitch, but he is our son of a bitch, si è un figlio di puttana ma è il nostro figlio di puttana!”. In quel caso tutti i suoi crimini, e le violazioni dei diritti umani diventano leciti. Per esempio: per la brutale repressione e per la carcerazione del dissidente russo Naval’ny, Joe Biden chiede sanzioni contro la Russia di Putin, invece le pluricinquantennali violazioni del diritto internazionale, i crimini commessi dall’Idf (le forze armate israeliane) sotto la guida dei governi israeliani, massacri di popolazione civile, colonizzazione di territori usurpati, occupazione interminabile di un intero popolo, decine e decine di migliaia di detenzioni amministrative senza processo anche di ragazzini, demolizioni di case, distruzione di risorse agricole, sadiche vessazioni arbitrarie sono rubricate come diritto alla difesa, senza pudore e senza vergogna. Intanto in questi giorni si sonoriuniti i “sette grandi” con la “novità”, dopo l’interregno del “villain” Trump, di riaffermare, grazie al buon sleepy Joe, Biden l’inossidabile fedeltà euroatlantica alla “più grande democrazia del mondo” che tradotto vuol dire: si fa quello che vuole lo zio Sam. Perché tanto l’Ue conta come il 2 di picche. Con l’occasione si fa il fervorino sui diritti umani alla Cina. I cinesi lasciano fare perché fondamentalmente se ne fottono. Diventeranno presto la prima economia mondiale, se già non lo sono, forse diventeranno i primi anche sul piano tecnologico e militare. Il filottino sui diritti è implicitamente rivolto anche a Putin, il quale verosimilmente lo irride. Lo Zar Wladimir è certo un autocrate, governa con pugno di ferro, ma è un politico di estrema capacità, conosce come le sue tasche il paese che governa, di cui gli occidentali capiscono poco o nulla. Ora, ci dicono che siamo usciti dall’epoca delle ideologie, dunque non siamo tenuti ad alcuna fedeltà di schieramento. Allora perché gli Stati Uniti continuano a spacciarsi per il regno del bene e i loro alleati fanno finta d crederci? Non sarebbe più saggio riconoscere sulla base dei fatti che il più pulito c’ha la rogna, rimettere il pallino al centro e ricominciare a pensare ad un modello di società fondato sulla giustizia sociale? Le lobby sabotano le norme Ue su diritti umani e ambientali di Francesca De Benedetti Il Domani, 17 giugno 2021 L’Europa prova a vincolare le corporation, e quindi le catene del valore globali, ai diritti di persone e ambiente. Ma le lobby della grande industria vanno all’assalto; non a caso la nuova iniziativa Ue è per ora rinviata. Da H&M che chiede a Bruxelles “un approccio pragmatico” ai big della cioccolata che chiedono di non “esporre le aziende a rischi eccessivi”, da Danone ai colossi dell’energia: ecco le prove dell’influenza esercitata dalle corporation. Sono nel dossier di Friends of the earth, European coalition for corporate justice e Corporate Europe observatory, che abbiamo visionato in anteprima. Se l’Europa prova a muoversi, i lobbisti delle multinazionali vanno all’assalto. L’Ue culla da tempo l’idea di imporre vincoli più stringenti alle corporation, perché rispettino lungo tutta la filiera i diritti delle persone e dell’ambiente; per evitare ad esempio che la cioccolata mangiata dai bimbi europei sia stata lavorata dai loro coetanei di altri continenti. Ma ogni tentativo di vincolare le catene del valore globali ai diritti dei lavoratori e al rispetto dell’ambiente si scontra con le lobby della grande industria. Ora ne abbiamo le prove: sono raccolte nel dossier che abbiamo visionato in anteprima e che verrà pubblicato oggi dalle tre ong Friends of the earth, European coalition for corporate justice e Corporate Europe observatory. La loro ricognizione rivela l’influenza esercitata dalle corporation, tattiche e obiettivi. Cominciamo dal finale: c’è una proposta della Commissione europea che doveva essere già sul tavolo e invece è congelata. Bruxelles promette che arriverà in autunno; il dato di fatto è che è rinviata, bisogna aspettare almeno settembre. Non è tutto. Il commissario europeo con delega alla Giustizia, Didier Reynders, che presidiava il dossier, da meno di un mese si ritrova affiancato dal commissario al Mercato interno. Thierry Breton, che prima di essere mandato a Bruxelles da Emmanuel Macron era a sua volta un super manager, porterà il punto di vista dell’industria. “Bisogna assicurarsi un equilibrio”, ha detto un portavoce della Commissione per spiegare i ritardi e il subentro di Breton. Ma che cosa deve produrre esattamente Bruxelles? Ad aprile 2020, la Commissione europea ha annunciato una sua iniziativa sulla “corporate due diligence”. Significa che, se vogliono avere accesso al mercato europeo, le aziende devono farsi carico di verificare il loro impatto su persone e ambiente lungo tutta la catena di valore, subappalti e sussidiarie inclusi. L’iniziativa è molto attesa dalla società civile: più di 700 organizzazioni, sindacati, ong, e mezzo milione di persone si sono spesi per chiedere regole stringenti. Come la stessa Ue prende atto nei suoi rapporti, il panorama legislativo attuale è percepito come “inefficiente, inefficace e incongruente”. Affidarsi alla buona volontà delle aziende (e quindi a iniziative volontarie di “corporate social responsibility”) non basta. L’europarlamento a marzo ha rivendicato con ampia maggioranza una iniziativa legislativa ambiziosa: le aziende devono essere obbligate a verificare e far rispettare i diritti, e risponderne in tribunale oltre che essere sanzionate se non lo fanno. Nel loro report Off the hook?, le tre ong Friends of the earth, European coalition for corporate justice e Corporate Europe observatory fotografano i tentativi delle corporation - e dei loro lobbisti - di indebolire l’iniziativa europea “sia apertamente che dietro le quinte”. L’accesso agli atti mostra ad esempio che BusinessEurope, la lobby delle imprese in Europa, ha usato tattiche svariate. Un anno fa, ha posto come argomento l’impatto della pandemia per avvertire Bruxelles che una legge avrebbe reso la vita ancor più dura alle imprese. A fine 2020, ha avvertito la direzione generale Giustizia (quella afferente al commissario Reynders) che “sarebbe meglio inserire una clausola safe harbour”. Il “porto sicuro” significa evitare azioni legali. Quando la società civile si è mobilitata con una petizione, la federazione degli industriali lussemburghesi ha allertato i suoi membri: l’iniziativa “va controbilanciata”. La associazione europea dei grandi marchi (Aim), i cui membri vanno da Coca Cola a Mars, da Danone a Nestlé, da Nike a Unilever, ha speso nel 2019 fino a 400mila euro per l’attività lobbistica in Ue. Lo scorso novembre ha bussato alle porte della direzione Giustizia per evitare che le corporation siano portate in tribunale, o perlomeno che siano legalmente perseguibili lungo l’intera catena del valore. Essere responsabili per tutta la catena sarebbe una sfida troppo grossa anche a detta di Amori, associazione di imprese con un budget per il lobbying pari a quello di Aim. La catena di abbigliamento H&m, che già nel 2018 è finita sui giornali per gli abusi sulle lavoratrici lungo la filiera, è andata a chiedere a Bruxelles “un approccio pragmatico” e un sistema “coi giusti incentivi”. Negli Usa, con l’aiuto dei difensori dei diritti umani, otto minorenni africani hanno sfidato in aula l’industria del cacao - Nestlé, Mars, Olam, Mondelez - per schiavitù infantile. A Bruxelles, Mars, Mondelez e l’associazione europea del cacao chiedono porti sicuri (clausole safe harbour) e di non “esporre le aziende a rischi eccessivi”. Una nuova, incisiva legge europea significherebbe nuove sedute di tribunale. La multinazionale francese Danone, che per il lobbying a Bruxelles nel 2019 ha speso 500mila euro, all’apparenza è per la sostenibilità ma - svela il report delle ong - dietro le quinte sabota la legge. L’impatto ambientale della sua filiera è cresciuto dal 2015 al 2018. Le grandi aziende puntano a scalfire i futuri vincoli anche sul clima. Non a caso, oltre a vestiti o cibo, i grandi slanci lobbistici vengono dal settore dell’energia. Il colosso Total ha bussato alle porte della Commissione per dirle che sarebbe difficile applicare una nuova legge europea lungo tutta la filiera. Il ricatto della Libia che blocca i soldati italiani a Misurata di Giovanni Tizian Il Domani, 17 giugno 2021 Un gruppo di militari dell’esercito italiano in missione in Libia aspetta il cambio con altri loro colleghi provenienti dall’Italia da quasi un mese, ai quali però l’ambasciata libica a Roma non ha ancora rilasciato i visti per i passaporti. Il risultato è che le nuove truppe non possono partire per garantire l’avvicendamento condannando i loro colleghi a restare in Libia. La task force che si trova a Misurata si chiama “Ippocrate”, che dipende dal comando di stanza a Tripoli. L’ospedale da campo è da tempo nel mirino del governo libico, in quel territorio l’influenza della Turchia di Erdogan ha raggiunto l’apice. Al ministero della Difesa e agli Esteri c’è il massimo riserbo. Il dossier è tra i più delicati. Fonti di entrambi i ministeri garantiscono che i ministri Guerini e Di Maio stanno collaborando con tutto il governo per ottenere i visti per riportare a Roma i soldati bloccati a Misurata. Ostaggi a Misurata non è un film. Ma la storia di un gruppo di militari dell’esercito italiano in missione in Libia che aspetta il cambio con altri loro colleghi provenienti dall’Italia da quasi un mese, ai quali però l’ambasciata libica a Roma non ha ancora rilasciato i visti per i passaporti. Il risultato è che le nuove truppe non possono partire per garantire l’avvicendamento condannando i loro colleghi a restare in Libia. Il limbo burocratico è diventato un caso diplomatico, che agita ministri e governo. I militari bloccati in attesa del cambio prestano servizio nell’ospedale da campo campo conosciuto con il nome “Role 2”. La task force che si trova a Misurata si chiama “Ippocrate”, che dipende dal comando di stanza a Tripoli. L’ospedale da campo è da tempo nel mirino del governo libico, in quel territorio l’influenza della Turchia di Erdogan ha raggiunto l’apice. L’esercito turco infatti ha dato una grande mano nella guerra contro il generale nemico Haftar e il campo dove ora c’è l’ospedale militare italiano potrebbe finire in mano loro. Il ricatto dei visti va letto nel contesto più ampio dei rapporti tra Roma e Tripoli. La questione migranti è ufficialmente in primo piano, con i milioni di euro dati dall’Italia e dall’Europa alla guardia costiera libica, che intercettando i barconi nel mediterraneo è diventata di fatto la polizia di frontiera di Bruxelles e di Roma. C’è, tuttavia, una partita più grossa, quella economica. Con la Turchia che la fa sempre più da da padrona in un’area strategica per porti e commercio. Misurata è il primo polo industriale. Dunque nella cordialità dimostrata dal premier libico Abdelhamid Dabaiba nei confronti del presidente del consiglio Mario Draghi e del ministro degli esteri Luigi Di Maio c’è molta forma e poca sostanza: a partire dal gioco sulla pelle dei soldati che vogliono rientrare a Roma dalle famiglie e che non possono farlo perché l’ambasciata libica a Roma non firma i visti. Al ministero della Difesa e agli Esteri c’è il massimo riserbo. Il dossier è tra i più delicati. Fonti di entrambi i ministeri garantiscono che i ministri Guerini e Di Maio stanno collaborando con tutto il governo per ottenere i visti per riportare a Roma i soldati bloccati a Misurata. L’umore è pessimo tra i soldati che erano pronti a ricevere il cambio dopo mesi di missione, ormai è palese che i libici non li vogliono a Misurata, e questo è l’ennesimo segnale ostile. Fonti sul territorio spiegano a Domani che la situazione è insostenibile, “ci sentiamo prigionieri in una missione ormai inutile, con i libici che non ci vogliono e stanno cercando di farcelo capire in tutti i modi”, è in sintesi il pensiero condiviso da alcuni “ostaggi”. Il cambio di personale sul campo segue regole precise. Alle volte si sostituiscono fino a 30 soldati per volta fino a completare il giro e far tornare in patria le persone che sono in Libia da sei mesi. Solo i medici restano meno, due o tre mesi al massimo. Non è la prima volta che con la scusa della mancanza del visto sul passaporto il governo libico crea problemi all’esercito italiano. Nel luglio 2020 erano stati bloccati dal governo 40 soldati atterrati a Misurata che avrebbero dovuto dare il cambio ai loro colleghi della missione Ippocrate. Il motivo? La mancanza di visti sul passaporto. Dunque le minacce scorrono sottotraccia da tempo. Con l’aggiunta che governo di Tripoli ha promesso alla Turchia, come emerso da notizie di stampa, una base a Misurata. Insomma, non sono pochi a credere che dietro la scortese mossa dei visti, una forma di pressione sull’Italia, ci possa essere l’impronta di Erdogan. Di certo nell’ultimo anno il campo “Role 2” è diventato scomodo. Il 5 agosto scorso il ministro della Difesa Guerini aveva annunciato al termine di un incontro bilaterale con l’allora premier Serraj la piena disponibilità a spostare la struttura in “un’area più funzionale”. Poco dopo questo annuncio la Libia annunciava un nuovo accordo con Turchia e Qatar per la formazione delle truppe nazionali libiche. L’operazione Ipppocrate - Sul sito della Difesa si legge che “l’operazione, dal 1° gennaio 2018, è stata riconfigurata nell’ambito delle attività di supporto sanitario e umanitario previste dalla “Missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia”. Le notizie ufficiali sulla missione riportano un contingente di circa 300 militari e oltre 100 mezzi terrestri. Il personale sanitario proviene dal policlinico militare del Celio di Roma e un team dedicato fornisce consulenza e addestramento per i medici libici. L’ospedale da campo è definito tecnicamente “Role 2”, con una capacità di 50 posti letto circa e reparti di pronto soccorso, terapia intensiva, radiologia, laboratorio di analisi. Oggi praticamente inutilizzato, chi ci ha lavorato ultimamente è ancora più netto: “Teniamo lì gente a non fare nulla, oltretutto a Misurata città c’è un ottimo ospedale civile”. Le frizioni con i libici - É capitato anche che libici ostacolassero l’arrivo delle derrate alimentari all’interno della base italiana e che alcune ditte, con contratti per la manutenzione, venissero bloccate all’esterno della base per diverse settimane. “Continuano a ricattarci perché ci vogliono fuori da qui”, è il sentimento diffuso tra il personale che è rientrato dalla missione. Fuori, cioè, dall’aeroporto militare sede dell’accademia militare libica di Misurata occupata dagli italiani da almeno 4 anni. Da tempo in maniera non troppo formale l’esercito libico chiede i nostri contingenti di lasciare l’area, senza grandi risultati. libici rivogliono tutte le cinque palazzine di tre piani dove alloggiano le forze armate italiane. Palazzine realizzate dai russi, poi ristrutturate dagli inglesi e successivamente dagli italiani all’epoca dell’istallazione del campo. Ora, però, arrivano i Turchi. Egitto. “Meglio il silenzio”, il governo affossa la cittadinanza italiana per Patrick Zaki di Laura Cappon Il Domani, 17 giugno 2021 Ieri il ricercatore ha compiuto 30 anni in una cella egiziana. Esponenti di tanti partiti spendono buone parole per lui ma l’iter per la concessione della cittadinanza italiana è fermo. Per ora vince la linea del basso profilo voluta dalla Farnesina. Patrick Zaki ha compiuto 30 anni e la politica è tornata attenta al ricercatore iscritto a un master dell’università di Bologna e rinchiuso in un carcere egiziano dal 7 febbraio del 2020. Ma l’iter per la concessione della cittadinanza italiana a Zaki non decolla. Filippo Sensi, deputato del Pd, ha chiesto ieri alla Camera la calendarizzazione della mozione per dare la cittadinanza per meriti speciali a Zaki. “C’è una rivendicata strategia del silenzio”, ha detto chiedendo al governo di agire perché “non c’è più tempo”. Una mozione identica era stata approvata all’interno di un ordine del giorno al Senato lo scorso 14 aprile. Sarebbe dovuto seguire un iter con la presentazione della richiesta di cittadinanza da parte del ministro dell’Interno, di concerto con il ministro degli Esteri, al Consiglio dei ministri. Una procedura che si sarebbe conclusa con la concessione della cittadinanza. Ma nulla di tutto questo è accaduto. Durante il dibattito al Senato, sulla cittadinanza a Zaki la viceministra agli Affari esteri Marina Sereni ha detto che c’erano alcune circostanze da verificare e potevano sussistere “possibili effetti negativi sul suo rilascio”. Due giorni dopo anche il presidente del Consiglio Mario Draghi ha gelato ogni entusiasmo: “Quella su Patrick Zaki è un’iniziativa parlamentare in cui il governo non è coinvolto al momento”. Un’affermazione poi stemperata dal sottosegretario agli Esteri Benedetto Della Vedova il 19 aprile: la Farnesina “comincerà oggi a verificare le condizioni per il riconoscimento della cittadinanza italiana a Patrick Zaki”. Sono passati quasi due mesi da quella girandola di dichiarazioni e, per ora, l’iter non registra alcuna accelerazione, anzi: è al palo. Non risulta che nessuna richiesta sia stata presentata al Consiglio dei ministri, cosa che invece è accaduta per Zakia Seddiki, la vedova dell’ambasciatore Luca Attanasio, ucciso in Congo. Per lei, di origine marocchina, il Cdm ha deliberato di attivare la procedura un mese dopo l’uccisione del marito. Ma rilasciare la cittadinanza a un prigioniero di coscienza egiziano ha ben altro valore. L’Egitto è un partner strategico dell’Italia e le partite su Fincantieri, Leonardo ed Eni sono pilastri non solo economici ma della nostra politica estera. Impossibile una linea dura, confermano le parole di Di Maio a maggio: “Per Zaki è meglio il silenzio”. La politica degli “zitti e buoni”: tenere basso il profilo per raggiungere l’obiettivo. Una posizione che ora la Farnesina rivendica dopo la scarcerazione di Marco Zennaro, l’imprenditore arrestato in Sudan, e l’archiviazione da parte della Corte suprema indiana per Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Secondo fonti vicine alla maggioranza, sul caso Zaki la Farnesina sarebbe divisa: la linea attendista si scontra con un’altra più propensa ad agire, soprattutto dopo l’ultima udienza al Cairo che, il 2 giugno, ha prolungato di altri 45 giorni la custodia cautelare. A quella seduta, per la seconda volta, le autorità egiziane non hanno ammesso il rappresentante dell’ambasciata italiana in Egitto. La nostra diplomazia cerca metodi più soft anche se, in futuro, non si sa quale delle due strategie prevarrà: non sono da escludere iniziative come la convocazione dell’ambasciatore egiziano in Italia. A chiedere risposte sono anche i parlamentari del M5s. La seconda mozione approvata al Senato il 14 giugno chiedeva la promozione dell’applicazione della Convezione delle Nazioni unite contro la tortura. Prima firmataria è Michela Montevecchi; già il mese scorso aveva chiesto che la commissione verificasse l’operato del governo. Ma anche sull’applicazione della Convenzione Onu non risulta che l’esecutivo si sia espresso. Montevecchi ha presentato ieri due interrogazioni a Draghi e Di Maio: chiede quali azioni intendano intraprendere. Arabia Saudita. Protesta a 17 anni, Riyadh lo condanna a morte di Chiara Cruciati Il Manifesto, 17 giugno 2021 Mustafa Darwish, sciita, era stato arrestato da adolescente. Dopo anni di carcere e una confessione estorta sotto tortura, è stato giustiziato martedì. La protesta delle organizzazioni internazionali. Nonostante imbarazzanti promozioni, l’Arabia saudita continua a non essere luogo di rinascimento. Martedì il ministero degli interni di Riyadh ha annunciato l’avvenuta esecuzione della condanna a morte comminata a Mustafa Darwish. Un giovane sciita (minoranza marginalizzata e repressa nel regno sunnita), sorride nelle foto che la famiglia ha messo a disposizione della stampa nel 2015. Perché Mustafa - tranne per un brevissimo periodo - era in carcere da allora, per presunti crimini commessi all’età di 17 anni. L’accusa: aver partecipato alle proteste nella provincia orientale della petromonarchia, in corso da decenni e poi riprese con più forza tra il 2017 e il 2019, con il loro carico di durissima repressione, arresti, condanne a morte e la distruzione di interi quartieri. Il giovane era stato arrestato nel maggio 2015 e in quell’occasione il suo telefono era stato confiscato dalla polizia. Poco dopo era stato di nuovo arrestato con l’accusa di avere foto delle proteste dell’anno precedente sul suo cellulare. La famiglia di Darwish non aveva ricevuto alcuna notifica dell’esecuzione, ha saputo della sua morte dalla rete. Pochi giorni fa il tribunale aveva confermato la pena capitale, nonostante le proteste delle organizzazioni per i diritti umani: all’epoca dei fatti Darwish era minorenne e il processo subito, dopo un lungo periodo di detenzione preventiva, è stato giudicato una farsa dall’associazione britannica Reprieve. “È stato messo in isolamento, picchiato così tanto da perdere conoscenza molte volte. Per far smettere le torture, ha confessato le accuse contro di lui”, aggiunge Reprieve. Confessione che in tribunale ha detto essergli stata estorta. Ora l’attenzione si concentra su altri prigionieri nelle stesse condizioni. Come Abdullah al-Howaiti, arrestato all’età di 14 anni e condannato a morte a 17. Non è la prima volta che l’Arabia saudita condanna a morte minorenni: nell’aprile 2019 era accaduto ad altri sei ragazzi, nonostante re Salman lo scorso aprile con un decreto reale (mai pubblicato in gazzetta ufficiale) abbia abolito la pena capitale per i minorenni. Gioco di magia: li condannano per crimini veri o presunti commessi da adolescenti, li uccidono dopo i 18 anni. Nel 2019 in Arabia saudita sono stati giustiziati 184 prigionieri, 27 nel 2020. Nel 2021 sono già 26 le pene capitali eseguite.