Salute mentale e sovraffollamento, Cartabia lancia l’allarme per le carceri di Maurizio Carucci Avvenire, 16 giugno 2021 Le situazioni esplosive dietro le sbarre e quelle caotiche nelle aule dei tribunali sollecitano una riforma totale della giustizia. Una necessità richiesta anche dall’Unione Europea, in vista dei fondi del Pnrr-Piano nazionale di ripresa e resilienza da assegnare all’Italia. Lo ha sottolineato anche il ministro della Giustizia, Marta Cartabia, nel suo intervento alla cerimonia per i 204 anni della fondazione della Polizia penitenziaria: “Il Recovery plan ci offre l’occasione di agire su vari fronti. Senza scelte adeguate sul vostro organico, sulla formazione del personale, sulle vostre dotazioni materiali, informatiche, sugli spazi e sulle strutture non ci può essere una realtà carceraria degna di un Paese moderno”. Per il Guardasigilli, quindi, ci sono “due priorità da affrontare tra i tanti, tantissimi, problemi che affliggono i nostri istituti di detenzione: il problema della salute psichica e il problema del sovraffollamento, che torna a destare grave preoccupazione”. Situazioni che si portano appresso un altro fenomeno seguito con “crescente preoccupazione, quello delle aggressioni agli agenti: 397 episodi in sei mesi del 2021 sono cifre altissime, come lo sono le 837 avvenute nell’intero 2020. Nessuna violenza - ha sostenuto Cartabia - può mai trovare giustificazione, né tolleranza. Ogni violenza dovrà sempre essere condannata, fermata e punita. E soprattutto, prevenuta”. In una nota Massimo Vespia, segretario generale della Fns-Federazione sicurezza della Cisl, ha ricordato che “per evitare le aggressioni continue agli agenti, chiediamo azioni e provvedimenti strutturali e non misure episodiche”. “Per risollevare il comparto - ha precisato il sindacalista - c’è veramente tanto da fare: mettere mano alla carenza degli organici, rinnovare e ammodernare molte carceri assai vecchie, alcune dell’epoca borbonica, del tutto inadeguate, creare spazi per il personale e ausili tecnologici per migliorare il servizio. Apprezziamo le parole della Cartabia sull’utilizzo delle risorse del Recovery”. Intanto, non riesce a decollare, nonostante le sollecitazioni dello stesso premier Draghi in chiave Recovery, l’iter delle tre riforme della giustizia ferme in Parlamento. In attesa proprio degli emendamenti del governo, a questo punto il rinvio a metà luglio dell’approdo in aula dei “nuovi” processi penale e civile diventa una realtà. Sulla riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario si presenta invece un nuovo nodo, visto che sono stati riammessi i tre emendamenti di Enrico Costa (Azione) sulla responsabilità civile dei magistrati. In commissione Giustizia del Senato la sottosegretaria Anna Macina ha riferito ieri che la materia è ancora sotto la lente della Ragioneria generale dello Stato, anche se, ha assicurato, siamo “alle fasi finali”. Quindi tra oggi e domani i testi dovrebbero arrivare. A quel punto, si darà una decina di giorni ai gruppi per i sub emendamenti, poi si inizierà a votare con l’obiettivo di un sì prima della chiusura estiva. Alla Camera la riforma del processo penale è calendarizzata in aula per il 28 giugno, ma anche lì non sono ancora giunti gli emendamenti della ministra. Il capogruppo di Fi, Pierantonio Zanettin, si è detto “stupito per il ritardo”. Il presidente della commissione Mario Perantoni (M5s) ha assicurato comunque che non si procederà “con la fretta”, anche perché sul processo penale “il cantiere è aperto”. In particolare la questione della prescrizione è tuttora irrisolta, con M5s assai perplesso sulle due soluzioni proposte dalla Commissione ministeriale. De Fazio (Uil-Pa): “Siamo preoccupati per il sovraffollamento e le violenze agli agenti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 giugno 2021 “Sono lieto di formulare, a nome di tutta la Nazione e mio personale, le più sentite espressioni di gratitudine e apprezzamento alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria per il costante e generoso impegno che pongono nell’adempimento dei loro doveri”. È il messaggio del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, inviato al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Bernardo Petralia, in occasione del 204esimo anniversario della costituzione del Corpo di polizia penitenziaria. “La Polizia Penitenziaria opera con spirito di servizio e dedizione per garantire il mantenimento dell’ordine e la sicurezza dei detenuti. In sinergia con gli altri operatori del settore, si adopera in modo significativo nel percorso di rieducazione dei detenuti, in attuazione del principio previsto in tal senso dalla Costituzione. Nell’esercizio dell’attività di vigilanza, la Polizia Penitenziaria è chiamata a fronteggiare situazioni di tensione e di sofferenza, sempre più frequenti anche a causa dell’emergenza sanitaria in atto. La capacità di intervento e l’indiscussa professionalità degli appartenenti al Corpo hanno consentito di superare con tempestività ed efficacia i gravi disagi emersi negli istituti penitenziari del Paese”, aggiunge il capo dello Stato. “In questo giorno di solenne celebrazione, nel rendere omaggio alla memoria dei caduti nell’esercizio del loro dovere, esprimo ai loro familiari la vicinanza del Paese e rinnovo a nome dell’intera Nazione a tutti voi, ai colleghi non più in servizio e alle vostre famiglie sentite espressioni di apprezzamento e ringraziamento”, conclude Mattarella. Parliamo, come detto, della cerimonia celebrativa del 204° anniversario della Fondazione del Corpo di polizia penitenziaria che si è tenuta presso la scuola di Formazione e Aggiornamento Giovanni Falcone di Roma e alla quale sono intervenuti, oltre ai rappresentanti istituzionali come la guardasigilli Marta Cartabia, numerose autorità politiche, militari, civili e religiose. C’è Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, il quale spiega che con la loro peraltro doverosa partecipazione, intendono “rendere omaggio alle donne e agli uomini del Corpo di polizia penitenziaria in un momento simbolico che, tutti auspichiamo, potrebbe segnare l’inizio della svolta e del rilancio dopo la pandemia che ha visto le carceri pesantemente colpite in via diretta, per il tributo di vite umane e di contagiati che ha pagato e che sta ancora subendo, e in via indiretta a causa delle rivolte che poco più di un anno fa hanno messo a nudo tutta l’impreparazione e l’inefficienza dell’amministrazione penitenziaria del tempo e rispetto alle quali si sono certamente fatti dei progressi, ma moltissimo c’è ancora da realizzare”. Prosegue De Fazio: “Organici, equipaggiamenti, modello custodiale, gestione dei detenuti infermi di mente, aggressioni agli operatori, sicurezza e salubrità dei luoghi di lavoro e architettura del Corpo sono solo alcune fra le questioni che devono essere compiutamente affrontate e urgentemente risolte”. Il segretario della Uilpa conclude: “La festa del Corpo segni la progettualità e la crescita dell’amministrazione penitenziaria tutta e non si trasformi nell’ennesima passerella per politici, alti dirigenti e potentati di turno, proprio a discapito della Polizia penitenziaria che formalmente viene omaggiata”. Ma la ministra della Giustizia Marta Cartabia non sta a guardare e non si nasconde dietro un dito. È intervenuta alla cerimonia sottolineando che “il problema del sovraffollamento nelle carceri torna a destare grave preoccupazione”. Fa sapere che il suo ministero della Giustizia ha sollecitato il governo e tutti gli altri ministeri coinvolti per “affrontare urgentemente il problema della tutela della salute mentale, a partire dalla carenza di presidi territoriali attenti alle persone detenute e dall’insufficienza delle strutture esterne”. La Guardasigilli Marta Cartabia, spiega che segue “con attenzione e crescente preoccupazione” il fenomeno delle aggressioni agli agenti negli istituti penitenziari: “397 episodi in 6 mesi del 2021 - ha osservato Cartabia nel suo intervento - sono cifre altissime, come lo sono le 837 avvenute nell’intero 2020”. Secondo Cartabia, “nessuna violenza può mai trovare giustificazione, né tolleranza. Ogni violenza dovrà sempre essere condannata, fermata e punita. E soprattutto, prevenuta”. Aggiunge che il Recovery plan “ci offre l’occasione di agire su vari fronti” per il sistema penitenziario. La ministra Cartabia ha inoltre sottolineato, rivolgendosi agli agenti, che “senza scelte adeguate sul vostro organico, sulla formazione del personale, sulle vostre dotazioni materiali, informatiche, sugli spazi e sulle strutture non ci può essere una realtà carceraria degna di un paese moderno”. E Massimo Vespia, segretario Generale della Fns Cisl, esprime apprezzamento per “le parole della Cartabia sull’utilizzo delle risorse del Recovery per migliorare una situazione non più sostenibile e torniamo a chiedere proprio al ministero della Giustizia ed al Dap soluzioni concrete ed immediate: basta misure tampone che non risolvono il problema. È tempo di passare dalle parole ai fatti”. Giuseppe Graviano scrive una lettera alla ministra ed è subito “febbre” da trattativa di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 giugno 2021 Non c’è nulla di scandaloso o allarmante nella lettera inviata da Graviano alla ministra: lo fanno numerosi ergastolani ostativi - oltre ai detenuti ordinari - e la corrispondenza viene controllata dal Gom. Giuseppe Graviano, dal suo 41 bis, ha mandato una lettera alla ministra della Giustizia Marta Cartabia e si crea l’ennesima suggestione. Dopo che ne ha dato notizia Il Fatto Quotidiano, subito - come da copione - si muove il presidente della commissione antimafia Nicola Morra e i pm di Firenze che indagano sulle stragi. Numerosi ergastolani ostativi mandano quotidianamente lettere al ministero della Giustizia - Ma quale sia lo scandalo non è dato sapere, visto che numerosi ergastolani ostativi - oltre ai detenuti ordinari - mandano quotidianamente missive al ministero della Giustizia per evidenziare le problematiche della loro carcerazione. Il teorema giudiziario della trattativa spada di Damocle per ogni governo - Ma se a farlo è Graviano, scoppia il caso. Non si sa per quale motivo, il Fatto Quotidiano chiede alla guardasigilli di renderlo pubblico e addirittura - senza però rivelare il contenuto - parla di avvertimento. Ai nostri occhi, l’avvertimento sembra provenire da chi rende nota questa notizia, quasi facendo intendere che ci sia una trattativa in corso. Un teorema giudiziario che è diventata una spada di Damocle per qualsiasi governo, per qualsiasi uomo delle istituzioni, per qualsiasi funzionario del Dap che compie il suo lavoro. Non se ne esce, ogni gesto, ogni cosa fatta secondo le regole penitenziarie, diventa oscuro, quasi losco. Oramai, lo Stato di Diritto è diventato ostaggio dell’infinito teorema giudiziario. Si rievoca anche una lettera scritta da Graviano nel 2013 all’allora ministra della Salute Lorenzin - D’altronde, nel medesimo articolo, si rievoca un fatto risalente al 2013 quando Giuseppe Graviano scrisse una missiva indirizzata all’allora ministra della Salute Beatrice Lorenzin, parlando tra le altre cose della necessità dell’abolizione dell’ergastolo ostativo citando le dichiarazioni di Umberto Veronesi e di costituzionalisti. Ma quale sarebbe lo scandalo? E cosa sarebbe così scandaloso? Ma l’argomento principale della missiva erano le sue condizioni di salute, il problema del cibo non adatto alle sue esigenze, del trattamento inumano e degradante che secondo lui subisce. E quindi? La ministra Lorenzin, da parte sua, ha già spiegato di non averne mai saputo nulla e che di solito questo tipo di corrispondenza non passa dalle scrivanie dei ministri, ma viene smistata agli uffici competenti. Infatti funziona così. Dalle parole di Graviano per qualcuno si potrebbe ipotizzare l’ennesimo papello - Ma i colleghi giornalisti lo ignorano. Il che è grave visto che a questo punto, fare il giornalista oramai è improvvisare, trattare argomenti non conosciuti e quindi non offrire un bel servizio alla collettività. Giuseppe Graviano, durante il processo ‘ndrangheta stragista, ha detto che il ministero gli avrebbe risposto che stava portando avanti tutto quello che aveva chiesto. Da come scrive il Fatto, sembra quasi che il ministero di allora avrebbe dato seguito alla presunta richiesta di un presunto papello. Siamo di nuovo ai retropensieri dettata dall’ignoranza del diritto penitenziario, delle regole di procedura, della decontestualizzazione degli eventi. Ogni lettera di un detenuto al 41 bis è visionata dal Gom - Punto primo. Ogni lettera che proviene dal 41 bis è sottoposta al visto ed eventualmente alla censura, se i Gom individuano eventuali messaggi criptici. Quindi, se è giunta a destinazione, vuol dire che non c’era nulla di sconvolgente. Punto secondo. Nel 2013 era in corso la battaglia politica del Partito Radicale, in particolare da Marco Pannella, per l’abolizione dell’ergastolo ostativo. Se ne parlava in tv, si era creato un movimento da parte di numerosi detenuti ergastolani. Carmelo Musumeci in primis con i suoi libri, appelli sottoscritti da numerose autorevoli personalità dello spettacolo, della politica, del mondo intellettuale. Ci fu soprattutto l’azione referendaria dei Radicali su questo tema e altri riguardanti la giustizia in generale. Giuseppe Graviano non ha mai nascosto la sua insofferenza al 41 bis - Graviano che non ha mai nascosto la sua insofferenza nel 41 bis, ha inviato una lettera come tanti altri detenuti che erano, e sono tuttora, nella sua condizione. Nessun messaggio criptico, nessun indicibile patto. Punto terzo. Non sappiamo cosa gli ha testualmente risposto il Dap nel 2013 e se effettivamente una risposta ci sia stata. Ma chi è a digiuno di come funziona il mondo, complicato, del sistema penitenziario (quasi tutti, a partire dal Fatto Quotidiano e L’Espresso), non sa che il Dap - ora molto meno frequentemente - risponde formalmente alle richieste dei detenuti con una dicitura del tipo: “Le sue richieste saranno sottoposte all’attenzione degli uffici competenti”. Nulla di strano, ma a chi ignora la prassi, potrebbe apparire “singolare”. Sarebbe strano e malevolo il contrario che il Dap si disinteressasse delle segnalazioni. Il Dubbio pubblica molte lettere inviate da detenuti a via Arenula - E purtroppo accade, visto che Il Dubbio spesso pubblica in contenuti di numerose lettere o appelli dei detenuti rimaste inevase. All’epoca, tra l’altro, parliamo del 2013, c’era al Dap come responsabile del 41 bis il magistrato Roberto Piscitello. Di certo non si può dire che fosse morbido con i reclusi al carcere duro. Figuriamoci con Graviano condannato per le stragi. Tanti ergastolani ostivi hanno ripongono speranze nella ministra Cartabia - Punto quarto. Che Giuseppe Graviano scriva alla ministra Cartabia una volta insediata, non c’è da meravigliarsi. Tanti ergastolani ostativi, così come i detenuti ordinari, avevano - e hanno - riposto speranza in un carcere dal volto umano, e più vicino alla Costituzione. Marta Cartabia è l’incarnazione della speranza per ovvi motivi. Chi ha letto le intercettazioni di Graviano al 41 bis, un giorno sì e un giorno no, parla di come vive nell’afflizione del 41 bis. Quando fu ascoltato dai pm che lo intercettarono, espose nuovamente il problema. Nulla di trascendentale, nulla di “indicibile”. È naturale che riponga la speranza nella nuova ministra. Cosa c’è di sconvolgente o oscuro? Non è solo lui, ma il nome di Graviano fa effetto, serve per creare nuove suggestioni. Qualcuno vorrebbe ricreare il caso “scarcerazioni”? Magari ricreare il caso “scarcerazioni”: mesi e mesi di polemiche su quella circolare del Dap che è stata in realtà apprezzata dai magistrati di sorveglianza e non da ultimo dal procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi. Ancora una volta si punta alla morbosità del lettore fuorviato da una propaganda mediatica basata su illazioni. Un retropensiero, l’ennesimo, che aiuta ad asseverare ipotesi che rasentano l’inverosimile: non ne abbiamo bisogno. Non è da cane di guardia della democrazia come dovrebbe essere un giornalista, ma è da cane di guardia di taluni procuratori, politici e dell’indotto che si è creato. Un concetto difficile farlo accettare e soprattutto farlo capire. Vogliamo vietare anche la speranza di scrivere una lettera alle istituzioni? Tutti, anche i peggiori criminali che magari si sono ravveduti, hanno diritto alla speranza. Vogliamo vietare anche la speranza di scrivere una lettera alle istituzioni? Se una lettera dal 41 bis, passa al vaglio della censura, vuol dire che non c’è nulla di oscuro. Ma abbiamo bisogno di proseguire con quelle teorie fantasiose che Giovanni Falcone stigmatizzava già ai sui tempi. Evidentemente, non è cambiato nulla. E forse, mai nulla cambierà. Il carcere sembra l’unica risposta per chi è in difficoltà: serve una società più inclusiva di Marco Maria Freddi* Il Fatto Quotidiano, 16 giugno 2021 Qualche giorno fa sono uscito di casa per andare in ufficio. Passo davanti alla mia auto, la riconosco ma vedendo una persona alla guida tiro diritto pensando che l’auto fosse più avanti. Improvvisamente mi giro, guardo la targa e realizzo che si tratta effettivamente della mia auto. Busso al finestrino e un giovane ragazzo apre lo sportello dell’auto, esce e trafelato mi spiega di non aver toccato nulla, l’ha trovata aperta, ci ha semplicemente dormito. Cercava continuamente spiegazioni nonostante continuassi a dirgli che andava tutto bene e alla fine, ringraziando, dinoccolando estraniato si allontana dall’auto. Un episodio come tanti, un episodio che ha lasciato un segno, l’odore della povertà dei senza fissa dimora, una percezione sensoriale che non è solo un acre odore d’alcol, di fumo ed escrementi, è l’odore della mancata umanità e solidarietà di una società ricca, la cui povertà è ricchezza ai loro occhi. Un episodio come tanti, un episodio come quello di una madre disperata che, come ad Ardea ma sempre a Parma, ha denunciato il figlio, di tutta evidenza malato psichiatrico, per averla picchiata. È finito, neppure a dirlo, nella discarica sociale che è il carcere, carcere come unica soluzione per chi - malato - non trova, come quotidianamente accade nella città di Mario Tommasini, risposte dai servizi territoriali psichiatrici. Ora, che l’istituto del carcere sia inutile e dannoso, un istituto che rappresenta la negazione dei principi di umanità e dei nostri principi costituzionali, da Radicale non mi dice nulla di nuovo; ma i due episodi, due episodi così dolorosi, dicono di quanto ancora ci sia da fare in tema di diseguaglianze e di risposte dovute a chi è così fragile. Questo è un altro tema: i rapporti del sistema psichiatrico territoriale in raccordo con gli altri soggetti istituzionali, oggi inesistente, cui il prossimo candidato sindaco di Parma dell’area del centrosinistra dovrebbe declinare. Il mio vuole essere un grido in antitesi a chi orgogliosamente brandisce come vittoria dei forti sui deboli in consiglio comunale, il daspo urbano e le richieste di certezza della pena, per i poveri figli di poveri e malati psichiatrici, ignorando la differenza tra carcere preventivo e sentenze passate in giudicato e soprattutto ignorando il senso di umanità come principio base di convivenza civile che si deve a chi ha più bisogno. Enrico Letta ha segnato un distinguo, piccoli segni che definiscono chiaramente ciò che separa la visione della società delle “destre” dalla “sinistra liberale” che aspira ad una società aperta ed inclusiva e questo segno lo vorrei sentire da chi intende rappresentare tutta l’area liberaldemocratica, socialista ed ambientalista a Parma. Vorrei avere anch’io una percezione sensoriale, sentire l’odore della giustizia, della solidarietà, dell’equità e della capacità di esprimere umanità. *Radicale, militante dell’Associazione Luca Coscioni e Eumans, Consigliere Comunale di Parma Ingiusta detenzione, i dati del ministero confermano che la mia battaglia è giusta di Giulio Petrilli* laquilablog.it, 16 giugno 2021 Dal ministero della giustizia arrivano per la prima volta i dati sui risarcimenti da ingiusta detenzione. Vedendoli con attenzione capisco che la battaglia che da sempre conduco per me e gli altri “invisibili” è giusta, giustissima. I dati parlano da soli. Nel 2020 sono state presentate 1108 istanze per la riparazione da ingiusta detenzione. Di queste ne sono state accolte 283 in via definitiva, 133 accolte ma con il ricorso in atto, comunque fanno un totale di 416. Ben 692 sono state rigettate, quasi il 65%, per le valutazioni sui “comportamenti morali” che i magistrati danno agli assolti. Un potere che non esiste in nessun paese d’Europa solo qui. Sei assolto, dopo anni di carcere, ma non basta per avere il risarcimento. C’è poi il giudizio su chi sei, chi hai frequentato, se ti sei avvalso della facoltà di non rispondere. Giudizi che i magistrati danno sulla valutazione della persona, in base a questo poi decidono pollice positivo o negativo. Incredibile. Abroghiamo il comma 1 dell’art. 314 del codice di preceduta penale, che dice di non concedere il risarcimento per ingiusta detenzione per dolo e colpa grave. Un comma anticostituzionale da “inquisizione” introduce il “giudizio morale”. Il parlamento abroghi questo comma. *Portavoce del Comitato per il diritto al risarcimento per tutti gli assolti L’Italia riapre, la giustizia è rimandata a settembre di Giulia Merlo Il Domani, 16 giugno 2021 Le misure straordinarie sono ancora in vigore e lo rimarranno fino al 31 luglio. La gestione dei tribunali è demandata ai capi degli uffici e varia da città a città. Per questo l’ordine di Roma ha chiesto l’intervento della ministra Marta Cartabia perché “coordini la ripartenza, evitando questo effetto a macchia di leopardo che penalizza prima di tutto i cittadini che chiedono giustizia”. Per ora il ministero attende di vedere come prosegue l’emergenza sanitaria. Poi, alla scadenza del 31 luglio, farà le sue valutazioni di modifica e coordinamento di eventuali riaperture dei palazzi di giustizia. Il governo Draghi sta gradualmente allentando in tutti i settori le limitazioni dovute alla pandemia. Tutti tranne che la giustizia, dove la gestione dei tribunali è ancora la stessa vigente nei mesi di lockdown e rimarrà tale fino al 31 luglio per effetto di due disposizioni del 4 maggio scorso. Vale a dire che i tribunali rimarranno in assetto emergenziale fino a settembre, visto che agosto è il mese di sospensione feriale. Durante la pandemia, i servizi nei palazzi di giustizia - dalle udienze alle aperture delle cancellerie - si sono svolti in modo contingentato e regolato, per evitare assembramenti e maggiore diffusione del contagio. Le regole gestionali però non sono state fissate in modo omogeneo direttamente dal ministero della Giustizia, ma l’allora guardasigilli Alfonso Bonafede aveva delegato le scelte ai capi degli uffici giudiziari. Questa decisione, presa nel marzo 2020, era giustificata dal fatto che ogni territorio aveva le sue peculiarità in termini di diffusione del virus: per esempio i tribunali lombardi erano luoghi certamente più a rischio e dunque necessitavano di norme di sicurezza più stringenti rispetto a quelli di altre regioni. Col passare dei mesi, tuttavia, l’autonomia decisionale dei singoli tribunali ha fatto sì che l’Italia si trasformasse nel paese dei mille campanili anche nella giustizia. Ogni sede giudiziaria, infatti, continua a regolarsi in modo autonomo nella gestione non solo delle udienze - che stanno tornando ad essere celebrate in presenza - ma soprattutto nell’accesso al pubblico del tribunale e negli orari di cancelleria. Una situazione che si sta facendo sempre più insostenibile in particolare per gli avvocati, che subiscono le conseguenze di una riduzione del servizio e anche i disagi di doversi informare sulla prassi di ogni tribunale in cui si spostano. Ogni città a modo suo - Dai piccoli ai grandi fori, ogni ufficio giudiziario è una repubblica a sè. “Per poter accedere alle cancellerie bisogna mandare la Pec, ma spesso l’appuntamento arriva a distanza di più giorni”, racconta il presidente dell’ordine degli avvocati di Roma, Antonio Galletti, che per primo ha lanciato l’allarme di una giustizia ancora chiusa “mentre il governo riapre le discoteche”. Quanto alle udienze, nella Capitale quelle celebrate telematicamente sono state pochissime “perché non ci sono le infrastrutture necessarie”, quindi “si svolgevano solo con trattazione scritta nel civile, in presenza quando si poteva nel penale oppure venivano rinviate”. Con l’effetto di accumulare nuovi ritardi sui precedenti mai smaltiti. Dai grandi tribunali a uno più piccolo, anche a Trento la situazione è simile: “Le udienze sono ancora trattate molto spesso per iscritto, con termini per depositi che le cancellerie fanno fatica a gestire tempestivamente”, racconta il presidente del consiglio dell’ordine, Michele Russolo. Per entrare in cancelleria serve la prenotazione e il tempo per ottenerla varia da due giorni a una settimana. Anche gli accessi al tribunale sono contingentati e si può accedere solo con prenotazione o in caso di udienza. Meglio va invece a Bari. Qui i vertici del tribunale hanno permesso “una certa elasticità per gli accessi agli uffici” e le udienze sono riprese anche in presenza, ha detto il presidente dell’ordine, Giovanni Stefanì. In Puglia ma anche nel resto d’Italia, tuttavia, il problema principale riguarda i giudici di pace: per loro il processo telematico non è ancora attivo e le norme anti-covid limitano il lavoro in presenza, riducendo drasticamente il numero di udienze. “A Napoli esistono dei provvedimenti restrittivi che limitano a dieci fascicoli per giudice di pace le udienze. Questo comporta rinvii d’ufficio a tempi immemorabili, impossibilità di trattare nuove cause e arretrato decuplicato”, ha raccontato il presidente Antonio Tafuri. Secondo l’orientamento del presidente del tribunale, però, la situazione non subirà cambiamento almeno fino a settembre e a nulla vale il miglioramento della situazione epidemiologica. Milano, infine, ha condizioni ancora diverse. A seconda degli uffici, alcune cancellerie stanno tornando alla normalità: nel penale l’accesso è libero mentre alla sezione lavoro è ancora necessario appuntamento. “Con il personale amministrativo il clima è stato di collaborazione. Siamo riusciti a gestire con elasticità la situazione di anormalità e a programmare la normalità futura, che sarà comunque diversa da quella pre-Covid”, ha detto il presidente Vinicio Nardo. A differenza soprattutto dei piccoli tribunali, tuttavia, quello di Milano ha praticamente sempre mantenuto libero l’accesso al palazzo di giustizia. La situazione è diversa da tribunale a tribunale ed è influenzata dal grado di collaborazione tra avvocatura e vertici degli, dalla scopertura di organico delle cancellerie e dalla disponibilità di risorse informatiche. Non solo: la difficoltà più concreta è quella per i singoli capi degli uffici di assumersi in proprio la decisione di imporre al proprio personale di cancelleria un ritorno stabile in ufficio, quando non esiste un obbligo generale di farlo. Per questo l’ordine di Roma ha chiesto l’intervento della ministra Marta Cartabia perché “coordini la ripartenza, evitando questo effetto a macchia di leopardo che penalizza prima di tutto i cittadini che chiedono giustizia, soprattutto ora che il paese sta riaprendo”. Sentito da Domani, per ora il ministero attende di vedere come prosegue l’emergenza sanitaria. Poi, alla scadenza del 31 luglio, farà le sue valutazioni di modifica e coordinamento di eventuali riaperture dei palazzi di giustizia. Quindi un ritorno alla normalità nell’ambito del lavoro nei tribunali non avverrà di certo prima di settembre. Una tempistica, questa, che stonerebbe però con il fatto che il resto del paese si sta lentamente riadattando alla normalità. L’exit strategy sulla prescrizione nascosta nell’emendamento Pd di Errico Novi Il Dubbio, 16 giugno 2021 Nella proposta dem, la norma cara al M5S resta in vigore, ma il giudizio d’appello “muore” se dura troppo: un’opzione più accettabile per i grillini, fa notare il Nazareno alla ministra. Ci sono gli incontri allargati a tutta la maggioranza, passati al setaccio dalla stampa. Ci sono poi le interlocuzioni informali, meno visibili ma comunque utili. Il discorso vale per tutti, anche per una ministra attenta al rigore delle forme (sia politiche che giuridiche) come Marta Cartabia. E nelle scorse settimane, in un’occasione d’incontro appunto “non collegiale”, alcuni rappresentanti del Pd hanno sottoposto alla guardasigilli una riflessione, più o meno così sintetizzabile: “Lei dovrà avanzare a breve una proposta di emendamento governativo sulla prescrizione. La commissione Lattanzi ha prospettato due soluzioni: un ripristino delle norme approvate nel 2017, con un lieve allungamento del tempo in cui la prescrizione è sospesa dopo la condanna in primo grado, e una soluzione cosiddetta processuale. Ecco, quest’ultima”, è stato il ragionamento sottoposto dai dem a Cartabia, “è abbastanza assimilabile a un nostro emendamento depositato alla Camera a fine aprile. E la nostra soluzione, in particolare, potrebbe essere politicamente più accettabile per lo stesso Movimento 5 Stelle”. Da qui a dire che la ministra seguirà il suggerimento del Pd ce ne passa. Ma di sicuro intende trovarla a breve, una soluzione. Anche considerato l’approssimarsi di alcune scadenze, ricordato ieri in un articolo del Fatto quotidiano: la riforma penale, con dentro la “nuova” prescrizione, sarebbe in teoria attesa per il 28 giugno nell’aula di Montecitorio, ma quel termine è a questo punto impossibile da rispettare. Non vuol dire, però, che un dossier importante come il restyling del ddl Bonafede sul penale sia destinato ad andare in coda. E infatti non è cosi. Da quanto si apprende, la guardasigilli è tuttora al lavoro per completare la propria azione di sintesi politica, in modo da depositare poi in commissione Giustizia alla Camera le proposte di emendamento. Ed è possibile che quelle soluzioni, innanzitutto sulla prescrizione, “siamo anche diverse, su alcuni aspetti, dalle opzioni suggerite dalla commissione Lattanzi”, si fa notare da via Arenula. Insomma, sul penale si lavora. Ma in quale direzione? E qui vale la pena di tornare alla proposta del Pd, per capre se potrebbe essere presa in considerazione, almeno in parte, da Cartabia. L’emendamento dem sulla prescrizione introduce la “improcedibilità” per i giudizi troppo lunghi, prevista anche dalla “Ipotesi B” della commissione Lattanzi. Tra la proposta del Nazareno e quella degli esperti ci sono alcune differenze. Innanzitutto, secondo i tecnici guidati dall’ex presidente della Consulta (e predecessore, in quella carica, della stessa Cartabia), la prescrizione del reato cesserebbe di avere efficacia, una volta che il pm ha esercitato l’azione penale, dunque dalla richiesta di rinvio a giudizio. A quel punto, la ragionevole durata del processo (che in alcuni casi rischierebbe di essere comunque compromessa) sarebbe sanzionata da una sopravvenuta improcedibilità. In particolare, la cosiddetta “prescrizione processuale” arriverebbe col superamento di limiti anche più dilatati di quelli per i quali scattano i risarcimenti ex legge Pinto. Più precisamente, ipotizza la commissione Lattanzi, il processo “morirebbe” dopo 4 anni in primo grado, 3 anni in appello e 2 in Cassazione. Il Pd dice una cosa leggermente diversa: la prescrizione del reato resterebbe disciplinata esattamente come previsto dalla legge Bonafede, verrebbe cioè di fatto abolita con la pronuncia di primo grado. E come recita la norma approvata all’interno della “spazza-corrotti”, lo stop varrebbe per tutti, condannati e assolti. Ecco il primo pregio, dal punto di vista politico, della proposta dem: non elimina la norma cara ai 5 Stelle. Poi però rimedia alla più insopportabile stortura causata da quella disciplina: prevede che per chi è stato assolto in primo grado, si dichiari l’improcedibilità, in appello, se viene superato il limite di fase previsto nel ddl penale firmato sempre da Bonafede (al massimo due anni). E chi in primo grado era stato condannato? L’emendamento del Pd suggerisce di “prevedere un termine più lungo oltre il quale l’improcedibilità operi” pure per chi ha subito una condanna in primo grado. E attenzione: visto che si tratta di legge delega, vuol dire che a “prevedere” il termine superato il quale il processo “muore” anche per i condannati dovrà essere la parte attuativa della riforma. Cioè, il decreto legislativo da emanarsi, dopo l’approvazione del ddl delega in Parlamento, ad opera di Cartabia. E chiaro a tutti l’ulteriore vantaggio della soluzione dem, dal punto di vista del M5S: il limite massimo alla durata dei processi verrebbe in ultima istanza fissato non da un voto a maggioranza in commissione Giustizia, ma dalla ministra e, soprattutto, non subito. Il che darebbe a Giuseppe Conte il tempo di prendere meglio possesso del dossier. Allo stesso modo, un muro invalicabile verrebbe comunque ripristinato per qualsiasi processo. Non se ne può certo dedurre, è il caso di ripeterlo, che Cartabia seguirà una ipotesi del genere. Ed è anche vero che la ministra potrà proporre emendamenti, ma che poi saranno pur sempre i deputati della commissione a dover scegliere, sia fra le proposte governative sia fra quelle dei partiti. Di sicuro, un’exit strategy dalla prescrizione arriverà. “Le riforme non possono morire per eccesso di discussione”, fa notare Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia che ha partecipato in prima persona anche ai lavori della commissione Lattanzi. E in effetti, in tempi di urgenze legate al Recovery, far morire le riforme sarebbe in realtà un suicidio. Csm, contro il declino della giustizia è il tempo della responsabilità di Luciano Violante La Repubblica, 16 giugno 2021 L’eventuale occultamento di prove che avrebbero favorito gli imputati nel processo Eni costituisce il più recente segnale di allarme sulla affidabilità della magistratura. Se l’accusa fosse fondata sarebbe compromessa la reputazione professionale di una parte della Procura di Milano. Se così non fosse, sarebbe compromessa la serietà professionale dei magistrati di Brescia che hanno ordinato alla polizia giudiziaria di acquisire il contenuto dei pc dei colleghi di Milano. Si aggiungono le vicende del gip di Bari arrestato per corruzione e possesso di armi da guerra, il caso del procuratore di Firenze che avrebbe aggredito sessualmente una collega, le questioni Palamara, lo strano caso dei verbali segreti consegnati al dottor Davigo, il processo contro il procuratore di Taranto e altre vicende meno note ma altrettanto gravi. È il tempo della responsabilità per tutti. La magistratura è una istituzione decisiva per qualsiasi democrazia e ancora di più per la nostra, che alla magistratura ha affidato, sconsideratamente, una parte del sistema di governo del Paese. La Commissione sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, nominata dalla ministra Cartabia e presieduta dal professor Luciani, ha proposto due interventi costituzionali ricostruttivi che possono determinare un cambio di fase: la nomina del vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura da parte del presidente della Repubblica, che del Csm è presidente, e la costituzione di un’alta Corte che giudichi dei ricorsi contro i provvedimenti disciplinari e amministrativi del Csm e dei Consigli di presidenza delle altre magistrature. La Commissione Luciani non si è limitata a proporre riforme costituzionali; è intervenuta sui nodi principali con misure che possono essere criticate ma alle quali nessuno può togliere il pregio della serietà. Si tratta della nuova legge elettorale, delle candidature di magistrati alle elezioni politiche e amministrative, dei giudizi sulla professionalità. La proposta più interessante riguarda il rinnovo parziale periodico del Csm. Chi conosce le dinamiche istituzionali sa che il rinnovo totale degli organi, soprattutto quando c’è disparità di esperienze tra i componenti, nuoce alla istituzione perché impedisce la sedimentazione delle prassi e favorisce i componenti con maggiore esperienza. Una delle ragioni dei difetti del Csm sta proprio nel rinnovo totale. I magistrati eletti dai loro colleghi sanno tutto del Csm e della magistratura; i laici eletti dal Parlamento, in genere, sanno poco o nulla. Questo divario di conoscenze favorisce eccessivamente i magistrati e penalizza i membri laici. La Commissione propone di estendere il numero dei componenti elettivi dagli attuali 24 a 36 e di eleggere i dodici in più dopo due anni dalla elezione dei primi. Poiché in base alla Costituzione la durata di ciascun componente del Csm è di quattro anni, avremmo una rotazione che rispetta la Costituzione ed evita il predominio della componente giudiziaria. Il Parlamento, il governo, i partiti devono sentire la responsabilità che grava su di loro dopo la redazione di questo documento. La legislatura ha ancora due anni davanti; se spesi bene sono sufficienti. Chi non si muove favorisce il declino della giustizia, con il rischio che domani qualcuno, da qualunque parte provenga, possa impadronirsene. “I giudici sono succubi dei pm, per questo le carriere vanno separate” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 16 giugno 2021 Referendum sulla Giustizia, parla il vice presidente leghista del Senato Roberto Calderoli: “La legge Severino? Un obbrobrio giuridico, costituzionale e soprattutto umano”. Nei giorni scorsi ha invitato la guardasigilli Marta Cartabia a sottoscrivere i referendum sulla giustizia, ora il vice presidente leghista del Senato, Roberto Calderoli, spiega: “Era un invito provocatorio nel senso che probabilmente la ministra, di cui ho stima, non può alzare bandiera bianca davanti al processo di riforme che sta affrontando. Ma avrà a che fare con un Parlamento e una maggioranza che la potrebbe indurre in futuro a venire a sottoscrivere i nostri referendum”. Il processo di riforme è destinato a fallire? Non so sarà fallimentare no, ma lo vedo lungo e difficile. E soprattutto figlio di un Parlamento che esce dalle urne riforme nel 2018, con una composizione che non corrisponde neanche lontanamente a quello che è oggi il volere popolare. Nel 2018 la Lega andò al governo col M5S, sostenendo in una prima fase anche la riforma della prescrizione. Poi cosa è successo? Io rispondo per me ovviamente. Io tendo a dar fiducia al mio compagno di viaggio, il mio alleato. Se uno mi dice: intanto facciamo la riforma della prescrizione ma entrerà in vigore l’anno prossimo perché nel frattempo farò la riforma penale, io mi fido. Se poi però quella riforma non arriva mi rendo conto di essere stato truffato. Per questo non mi sento responsabile. Perché vuole cancellare con un referendum la legge Severino? Considero la legge Severino un obbrobrio giuridico, costituzionale e soprattutto umano. Non puoi distruggere la vita e la carriera politica di una persona, di un eletto, a fronte di una sentenza di primo grado. Alcuni quesiti referendari che la Lega sostiene insieme ai Radicali sono molto tecnici, come quello che interviene sui meccanismi di candidatura al Csm. Sarà complicato spiegare all’opinione pubblica il motivo di una consultazione del genere… L’esempio che lei ha citato, che sembra una cosa tecnica buttata lì, è in realtà uno strumento fondamentale per combattere il correntismo nel Csm, è il “fucile da caccia grossa”. Attualmente ogni magistrato solo per potersi candidare al Csm è obbligato a raccogliere tra le 25 e le 50 firme. Con questo sistema, un magistrato indipendente, non iscritto ad alcuna corrente, non può neanche pensare di presentarsi alle elezioni. Noi proponiamo di rimuovere quell’obbligo e consentire a tutti di correre alle consultazioni. I cittadini lo capiranno? Sembra tutto campato in aria, ma avrò tre mesi di tempo per spiegare ai cittadini perché si è arrivati allo scandalo Palamara e non solo. Perché a me non sembra normale nemmeno il caso Eni. E non mi sembra neanche normale che alcune carte finiscano nelle mani di Davigo che le accetta e poi le ripropone anche a qualcun altro. Non mi sembra neppure normale che il presidente di un organo come la Commissione Antimafia debba farsi carico di mettere pace tra i due leader in una determinata corrente del Csm perché non compete a lui. Insomma, di cose anormali mi sa che ce ne sono un po’ troppe. E basta separare le carriere della magistratura per evitare questo cortocircuito? Non basta, ma è assolutamente indispensabile. La convivenza tra magistratura requirente e giudicante non garantisce la terzietà. Chi giudica è succube dei colleghi pm. Un pubblico ministero può mettere nel mirino chiunque, persino un giudice. E il peso politico dei procuratori nel Csm è molto più forte di quello dei giudicanti. Ma allora come è possibile, nella situazione attuale, garantire la terzietà di un giudice rispetto ad accusa e difesa quando saranno i pm a decidere della sua carriera all’interno del Csm? Riuscirete a spiegare alla gente anche il quesito sui consigli giudiziari? Il Csm su cosa basa le proprie valutazioni? Anche sulle decisioni dei consigli giudiziari territoriali. Si tratta di Csm piccolo in cui però la parte laica ha diritto di voto per decidere se mettere la macchinetta dell’acqua minerale, non sulla valutazione dei magistrati. Ecco, noi proponiamo che i laici possano esprimersi anche sulla valutazione delle toghe. È un concetto molto semplice che serve a cambiare davvero le cose, senza toccare di una virgola la Costituzione, mettendo nel mirino i punti sensibili del sistema. Con i referendum la Lega ha già ottenuto qualche risultato politico: ha messo in discussione l’asse giallo-rosso sulla giustizia (vedi Bettini) e ridimensionato il potere contrattuale del M5S al tavolo delle riforme. Dietro questa mossa c’è il suo zampino? Io le garantisco che l’ultimo mio pensiero è l’influenza politica. Io sono molto più semplice, a me queste cose francamente sfuggono. Con Bonafede ho un buon rapporto, abbiamo avuto modo di collaborare quando abbiamo scritto il contratto di governo, e penso che il problema non sia la sua riforma della prescrizione, ma la durata dei processi. Nel momento in cui garantisci una ragionevole durata dei processi allora puoi parlare della prescrizione. Invece qui si è agito in modo inverso: si è prima riformata la prescrizione e ancora siamo in attesa della riforma del processo. Quindi la Lega garantista a giorni alterni non esiste più? A me questa definizione fa anche incazzare. Noi abbiamo una linea molto semplice: chi ha sbagliato paghi a condizione che ci sia un giudizio in via definitiva. Che effetto le ha fatto ascoltare le scuse di Di Maio a Uggetti? Mi ha fatto un’impressione positiva. Non rispetto al caso Uggetti in sé, quanto rispetto all’atteggiamento che loro hanno sempre avuto sulla questione giustizia. Anche la Lega non ci andò leggera con Uggetti, sente anche lei l’esigenza di chiedere scusa? Mi son chiesto se fosse il caso di chiedere scusa, visto che anche io all’epoca ho partecipato a un comizio sul caso Uggetti. Ma io, da politico, mi son fidato di chi aveva deciso di mettere in carcere una persona. Quindi niente scuse? Devo chiedere scusa io che non ho attaccato direttamente l’interessato? Oppure deve chiedere scusa chi alla fine nel suo operato è stato sconfessato, visto che questa persona è stata assolta? Forse entrambi? Vero, ma prima deve farlo la magistratura. Perché la politica non si è mossa autonomamente. La giustizia resta il terreno più delicato che potrebbe portare persino Mario Draghi a inciampare nel percorso? Vedo Draghi razionale, logico e distante rispetto agli inciampi. Se io fossi il ministro della Giustizia di un governo con così ampia maggioranza porterei un testo blindato in Parlamento, cioè solo dopo aver avuto tutti i necessari confronti con le forze politiche. In questo momento tutti i partiti, forse tranne i Cinque Stelle, vogliono risolvere in un modo o in un altro problemi della giustizia, a maggior ragione oggi che alle riforme sono vincolati i fondi del Recovery. Con le bandierine non si va da nessuna parte. Quando si tornerà al voto? Risposta sincera? Certo... Penso nel 2023. Draghi di cose da fare da qui al febbraio 2022 ne ha tante probabilmente troppe. Quindi non può andare al Quirinale nel frattempo… No, ma soprattutto conoscendolo come persona, so che non lascia le cose a metà. “La separazione delle carriere non è affatto contro i principi costituzionali” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 16 giugno 2021 Intervista al professor Alessio Lanzi, ordinario di Diritto penale all’università di Milano Bicocca e attuale componente del Csm. “L’asserita incostituzionalità della separazione delle carriere, o meglio delle funzioni, nella magistratura è un argomento che viene ciclicamente proposto nel dibattito sulla riforma dell’ordinamento giudiziario”, è la premessa da cui parte il professor Alessio Lanzi, ordinario di Diritto penale all’università di Milano Bicocca e attuale componente del Csm, eletto su indicazione di Forza Italia. La campagna referendaria alle porte e la recente proposta della commissione Luciani - voluta dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia per studiare modifiche all’ordinamento giudiziario - di limitare solo a due i passaggi di funzione consentiti durante la carriera del magistrato, hanno nuovamente infiammato la discussione sulla “separazione” fra pm e giudici. Il Dubbio ha ospitato sul punto in questi giorni diversi contributi di autorevoli giuristi, avvocati e magistrati. Fra i più contrari alle ipotesi formulate dal governo e dai quesiti referendari, si segnala l’ex presidente dell’Anm, il pm romano Eugenio Albamonte, segretario di Area, il gruppo della magistratura progressista. Professor Lanzi, perché la previsione della separazione delle carriere, anzi, come dice lei delle funzioni fra giudicante e requirente, non sarebbe incostituzionale, diversamente da quanto sottolineato dal dottor Albamonte? Guardi, tralasciando per un momento le solite polemiche e le prevedibili strumentalizzazioni, vorrei che l’attenzione si concentrasse sulla lettura di tre articoli della Costituzione: il 101 comma 2, il 107 comma 3, ed il 112. Iniziamo dal primo... “I giudici sono soggetti solo alla legge”. I giudici, non i pm. Si tratta di una norma a garanzia dei cittadini. Viene escluso che i giudici nella loro attività possano subire condizionamenti da soggetti esterni. Il 107 comma 3? “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”. Questa è una disposizione di tipo ‘ amministrativo’ che serve a dare pari dignità fra tutti i magistrati, in particolar modo per quanto concerne lo stipendio. A parità di anzianità di servizio non cambia l’emolumento del procuratore o del semplice sostituto. E infine l’articolo 111: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”... È la norma che prevede l’obbligatorietà dell’azione penale nel nostro Paese. Quindi non c’è nessuna preclusione, nella Carta, a una separazione di funzioni? A supporto del mio ragionamento invito anche alla lettura dell’articolo 111 comma 2: “Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale”. Non credo ci possano essere dubbi. Scusi, ma allora perché queste continue polemiche? Guardi, per dirla tutta, è essenzialmente un problema di potere. Possiamo fare degli esempi? Adesso i pm, nei Consigli giudiziari, si esprimono sulle valutazioni di professionalità relative ai magistrati giudicanti, pur essendo i pm stessi una parte del processo. Perché queste valutazioni, allora, non dovrebbero poter essere fatte dall’altra parte del processo, quindi dagli avvocati? Un ‘ mantra’ che viene ripetuto spesso riguarda poi l’asserita unicità della giurisdizione. I fautori della carriera unica ripetono che il pm, essendo un magistrato, svolge accertamenti anche a favore dell’imputato. Lei si riferisce all’articolo 358 del codice di procedura penale... Sì. Quell’articolo, secondo cui appunto “il pm svolge accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”, è una grande mistificazione. Qualcuno deve avere il coraggio di dirlo. Spieghiamo il motivo? Certo. L’esperienza insegna il contrario. Senza andare troppo lontano è sufficiente leggere le cronache degli ultimi giorni su alcune intercettazioni a favore degli imputati fatte sparire in un importante processo. Mi pare di tutta evidenza quanto questa disposizione venga disapplicata nella prassi. Anche perché, aggiungo, non prevede alcuna sanzione nei confronti del pm inadempiente, di quello che indaga a “senso unico”… Esatto. Citare l’articolo 358 del codice di procedura penale in una discussione del genere rappresenta una tesi di comodo. Io, ripeto, non vedo in giro tutti questi pm ‘ imparziali’ nello svolgimento delle indagini. I pm, oltre all’asserita incostituzionalità, dicono che se ci fosse la separazione delle carriere finirebbero sotto il controllo dell’esecutivo, con conseguenti abusi di ogni tipo... Anche questa obiezione francamente mi sorprende. In che senso? Si dà per scontato che il pm inserito in un diverso assetto ordinamentale commetta illeciti di ogni genere. Ma chi lo ha detto? Come è possibile avere queste certezze? In conclusione, quale contributo si sente adesso di dare? Io credo che serva una riflessione serena, senza preconcetti. Prendendo atto da quello che normalmente accade nelle aule dei tribunali, dall’esperienza di tutti i giorni. Invece, ed è questa la mia opinione, è forte il sospetto che i pm non vogliano perdere il loro potere. Sinceramente non mi sentirei di affermare che anche i giudici siano, allo stesso modo dei magistrati requirenti, tutti contrari alla separazione delle funzioni. Giustizia terremotata, Cartabia invia gli ispettori a Milano e Verbania di Simona Musco Il Dubbio, 16 giugno 2021 La ministra vuole fare luce sulla presunta omissione di prove nel processo Eni-Nigeria e sulla sostituzione della gip Banci Buonamici. Tra la procura di Milano e il Tribunale di Verbania ci sono 80 chilometri. Due città diverse, ma simili, perché finite al centro, nelle ultime settimane, degli scontri interni alla magistratura. Scontri violenti, veleni, accuse pesanti, che hanno spinto la ministra della Giustizia Marta Cartabia a spedire gli ispettori in entrambi i posti, per avviare un’inchiesta amministrativa e verificare cosa sia accaduto durante le indagini Eni-Nigeria e sulla tragedia della funivia del Mottarone. “Dopo la diffusione di notizie in merito all’iscrizione nel registro degli indagati di due pm della Procura di Milano - si tratta del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e del sostituto Sergio Spadaro, ndr - e alla luce del deposito delle motivazioni della sentenza del Tribunale di Milano, il ministero ha chiesto all’ispettorato di svolgere accertamenti preliminari, al fine di una corretta ricostruzione dei fatti, attraverso l’acquisizione degli atti necessari”. Stessa storia a Verbania, dove a far discutere, invece, è stata la sostituzione della gip Donatella Banci Buonamici, prima presa di mira per aver scarcerato due degli indagati e mandato ai domiciliari il terzo, poi cambiata in corsa proprio mentre stava per accogliere la richiesta di incidente probatorio avanzata da una delle difese. Dei fatti in questione sono stati informati anche il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, titolare dell’azione disciplinare, e il Csm, che nel caso di Verbania ha già aperto una pratica per verificare se sia stato o meno legittimo il provvedimento preso dal presidente del Tribunale Luigi Maria Montefusco. L’obiettivo è quello di fare chiarezza e fugare ogni dubbio. Gli ispettori di via Arenula, dunque, chiederanno ora ai vertici degli uffici giudiziari competenti sul caso Eni-Nigeria e sulla tragedia del Mottarone la trasmissione di una serie di atti, sulla base dei quali verrà stilata una relazione finale su quanto accaduto. Quel che è certo, intanto, è che i due tribunali sono diventati epicentro di veri e propri terremoti all’interno della magistratura. A Milano, in particolare, nei corridoi di procura e tribunale “si respira una brutta aria”, fanno sapere gli addetti ai lavori. I pm chiedono al procuratore Francesco Greco un confronto, così come già avevano fatto dopo la sentenza di assoluzione dei 15 imputati del processo Eni. Ma tutto, ai piani alti della Procura, tace. L’indagine sui due pm, che hanno visto l’inchiesta crollare sotto il peso della “mancanza di prove certe ed affidabili dell’esistenza dell’accordo corruttivo”, come hanno scritto i giudici in sentenza, nasce dal fuoco incrociato tra magistrati della stessa procura. Fuoco rimasto, fino ad un certo punto, sotto la cenere, per poi diventare un grande incendio. Ad accusare De Pasquale e Spadaro di aver omesso alcune prove fondamentali, infatti, è un altro pm, Paolo Storari, anche lui indagato a Brescia per rivelazione di atti d’ufficio, per aver consegnato i verbali dell’ex avvocato esterno dell’Eni, Piero Amara, a Piercamillo Davigo. Tutto nasce, infatti, proprio dalla gestione di Amara e del grande accusatore del processo Eni, Vincenzo Armanna, all’epoca da poco licenziato dalla compagnia ma comunque attivo negli investimenti all’estero nel settore petrolifero. Storari aveva infatti segnalato attraverso alcune mail inviate a De Pasquale, Spadaro, l’aggiunta Laura Pedio (con la quale stava gestendo l’inchiesta sul “Falso complotto Eni”) e il procuratore Francesco Greco l’inattendibilità di Armanna. Inattendibilità sancita anche dai giudici, che hanno pesantemente criticato la scelta dei due pm di non produrre come prova il video registrato di nascosto da Amara che dimostrava l’intento di Armanna di gettare fango sull’Eni. Elemento, questo, non conosciuto da Storari, in possesso comunque di informazioni importanti: il presunto pagamento, da parte di Armanna, di un teste, al quale avrebbe versato 50mila dollari in cambio di una testimonianza al processo, e la presenza di chat false, prodotte dallo stesso Armanna, comunque finite a processo, nonostante i pm fossero consapevoli di questa circostanza. Quel materiale, secondo De Pasquale, Spadaro, Greco e Pedio, era infatti stato acquisito da Storari senza seguire le procedure del caso, così come le comunicazioni inviate sarebbero state inutilizzabili in quanto spedite in via informale, sotto forma di documenti word privi di firme. Di tutto ciò Storari ha parlato nel corso dei due interrogatori avvenuti a Brescia nell’inchiesta che lo vede indagato per il caso verbali. E lì il pm meneghino - per il quale il Csm ha già avviato l’azione disciplinare - ha spiegato anche quelle che, a suo dire, sarebbero le ragioni del comportamento dei colleghi. Secondo Storari, infatti, la posizione di Amara non doveva essere compromessa da una sua possibile iscrizione nel registro degli indagati per calunnia in relazione alle sue dichiarazioni sulla presunta “Loggia Ungheria” - della quale farebbero parte magistrati, politici, ufficiali delle forze dell’ordine e vertici delle istituzioni, capaci di gestire le nomine a proprio piacimento - per non minare la sua credibilità come possibile teste nel processo del caso Nigeria. De Pasquale e Spadaro, infatti, hanno tentato di inserire Amara tra le persone da sentire al processo, una scelta dettata sempre dalle sue dichiarazioni, secondo le quali i legali di uno degli imputati sarebbero stati in grado di avvicinare il presidente del collegio giudicante, Marco Tremolada. Così, mentre Storari raccoglieva le dichiarazioni di Amara sulla presunta “Loggia Ungheria” e chiedeva ai vertici dell’ufficio di poter effettuare le prime iscrizioni nel registro degli indagati e tabulati telefonici, Greco e Pedio portavano a Brescia il verbale di Amara sulle presunte “interferenze” delle difese Eni sul giudice. Da lì venne aperto un fascicolo, poi archiviato. La versione di Storari, dunque, è chiara: la linea dei vertici dell’ufficio era quella di evitare possibili indagini su Amara affinché potesse essere sentito durante il processo. Così come non poteva essere screditato Armanna, architrave dell’intera inchiesta. Ma a distruggere la solidità delle sue dichiarazioni ci ha pensato il tribunale: “Il suo atteggiamento opportunista rivela una personalità ambigua, capace di strumentalizzare il proprio ruolo processuale a fini di personale profitto e, in ultima analisi, denota un’inattendibilità intrinseca che certamente non avrebbe potuto essere sanata dalla testimonianza di Piero Amara”. Eni, Ilva e magistrati: cosa resta dei veri depistaggi sui grandi processi di Stefano Feltridi Il Domani, 16 giugno 2021 L’Eni è stata assolta dal grande processo per corruzione a Milano, ma ora i due pm dell’accusa sono indagati per non aver inserito subito nel processo un video che indicava la scarsa attendibilità di un teste chiave. Un video girato da Piero Amara. L’ordinanza di arresto di Amara a Potenza ricostruisce le sue manovre per depistare il processo di Milano: fin dall’inizio vengono informati i manager Eni che si occupano di processi, pur informati delle strane manovre continuano a tenere Amara tra i legali esterni del gruppo. Nei due anni dopo l’inizio dl depistaggio, ottiene oltre 700mila euro da Eni. Amara prova a interferire anche sull’inchiesta Ilva a Taranto dove va il suo amico procuratore Capristo, anche dall’Ilva ottiene consulenze. Piero Amara sarà pure agli arresti, come chiesto dalla procura di Potenza, ma questa è l’unica cosa che (forse) non si augurava, tutto il resto ha preso la piega che da anni auspicava. Dopo aver provato per anni a depistare il processo a Milano per corruzione internazionale che vedeva accusata l’Eni e i suoi manager, oggi Amara vede non solo l’azienda assolta ma i pm sbeffeggiati dai giudici nella sentenza e due di loro pure indagati per aver omesso dalla documentazione processuale un video che lui stesso aveva girato nel 2014 e che mette in dubbio la credibilità di Vincenzo Armanna, accusatore - a fasi alterne - dei vertici Eni. Quello che sta succedendo a Milano, però, va incrociato con quanto ricostruito dall’ordinanza di arresto di Amara a Potenza per capire cosa resta dei depistaggi di questi anni. Partiamo però prima da Milano. Il 28 luglio 2014 Amara registra di nascosto un incontro nella sede del gruppo di Enzo Bigotti, imprenditore vicino a Denis Verdini, con Vincenzo Armanna, Paolo Quinto, collaboratore dell’allora senatrice Pd Anna Finocchiaro, e Andrea Peruzy, vicino a Massimo D’Alema. In quella fase Armanna è un rancoroso ex manager Eni, appena licenziato per scorrettezze rilevanti sulle spese. Da poco è iniziata l’inchiesta della procura di Milano sull’acquisto nel 2010 del giacimento in Nigeria OPL245, seguita a lungo da Armanna sul posto: l’Eni e Shell hanno pagato al governo nigeriano oltre un miliardo di dollari che poi è finito in gran parte nelle tasche di politici nigeriani, non un euro è andato allo stato. I pm pensano sia corruzione internazionale e cercano anche mazzette di ritorno a manager Eni (le troveranno solo per Armanna, 1,2 milioni). Il tribunale, poche settimane fa, accoglierà la tesi difensiva dell’Eni: operazione legittima, Eni ha trattato col governo senza essere parte di uno schema corruttivo. Armanna, in quel video del 2014, parla di affari in Nigeria, dice di voler mettere le mani sul “50 per cento delle raffinerie dell’Eni”, vede come ostacoli due manager del gruppo: Ciro Antonio Pagano e Donatella Ranco. Armanna evoca “una valanga di merda che io faccio arrivare”, parla di far consegnare “un avviso di garanzia a Pagano”. Sembra, insomma, che Armanna intenda abusare del suo ruolo di indagato e accusatore nel processo Nigeria per regolare conti personali. Pagano sarà indagato molto tempo dopo, da una posizione marginale, e prosciolto, Donatella Ranco non è mai stata indagata. Armanna non parla dell’ad Eni Claudio Descalzi e neppure della vicenda OPL245, ma nelle polemiche seguite alla assoluzione nel processo principale, e pure secondo i giudici che hanno esteso la sentenza, i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro hanno nascosto il video di Armanna perché minava la credibilità di Armanna come accusatore. Un possibile reato per il quale ora sono indagati a Brescia. Il video nel processo in realtà ci è entrato da tempo, nel luglio 2019, portato dai difensori di Roberto Casula, altro manager dell’Eni nigeriana sotto accusa in quel momento. Quel video non era stato acquisito nelle indagini di De Pasquale e Spadaro, ma in quelle parallele sul depistaggio di Amara, De Pasquale e Spadaro ne erano a conoscenza ma si sono limitati a dire che per acquisirlo bisognava chiedere ai pm titolari del fascicolo. Certo, dal punto di vista di De Pasquale e Spadaro non c’erano grandi incentivi a usarlo: Armanna parlava di altre vicende, ma dimostrava - come ha fatto in mille altre occasioni - di essere un personaggio incline a manipolare la realtà e le dichiarazioni a seconda delle sue esigenze. Come riportato da Gianni Barbacetto sul Fatto Quotidiano, De Pasquale spiega in aula nell’udienza del 23 luglio del 2020 perché considerava il video irrilevante: tra l’altro, perché Amara sosteneva di averlo girato su mandato dell’Eni per incastrare Armanna, all’epoca nella fase delle accuse a Descalzi. Queste le parole di De Pasquale: “Amara dice che aveva avuto l’incarico di registrarlo qualora Armanna dicesse qualcosa di utile per incastrarlo… Detto questo, non ho nessuna difficoltà al deposito, però non posso giuridicamente farlo senza avere il consenso dei colleghi che stanno gestendo quell’indagine”. Tuttavia i giudici di primo grado nelle motivazioni della sentenza di assoluzione considerano il video un elemento rilevante e che avrebbe dovuto essere portato all’attenzione della corte. Nella sentenza scrivono che “risulta incomprensibile la scelta del pubblico ministero di non depositare fra gli atti del procedimento un documento che, portando alla luce l’uso strumentale che Armanna intendeva fare delle proprie dichiarazioni e dell’auspicata conseguente attivazione dell’autorità inquirente, reca straordinari elementi in favore degli imputati” e che la decisione dei pm, “se portata a compimento, avrebbe avuto quale effetto la sottrazione alla conoscenza delle difese e del Tribunale di un dato processuale di estrema rilevanza”. Se il comportamento di De Pasquale ha sollevato molte polemiche, nessuno ha commentato quello di Eni che non sembra indicare la convinzione che il video fosse decisivo ai fini del processo. Eni ottiene il video già a febbraio 2018, dalla difesa del suo dirigente Massimo Mantovani. Eppure, l’azienda che avrebbe in mano la prova regina, non la usa. E quando viene finalmente acquisito nel processo Nigeria, oltre un anno dopo, Eni rinuncia a contro-interrogare Armanna in aula, anche se aveva l’occasione di minarne la credibilità definitivamente. Comunque, tutto è bene quel che finisce bene per l’Eni: la sentenza di primo grado del tribunale di Milano nega la corruzione internazionale in modo così assertivo che le dichiarazioni di Armanna, tanto care ai pm, poco spostavano. In estrema sintesi, i giudici dicono che anche se una parte di quei soldi sono diventati effettivamente qualcosa che assomiglia molto a mazzette dopo che l’Eni aveva pagato (quasi mezzo miliardo cambiato in contati), non c’è evidenza di un accordo esplicito tra le parti coinvolte e neppure degli atti contrari ai doveri di ufficio di un pubblico ufficiale. C’è, in pratica, una lettura plausibile degli eventi nella quale le pratiche contestate dai pm di Milano sono perfettamente legittime. L’Eni sarebbe quindi vittima di uno dei più clamorosi abbagli giudiziari della storia e dell’azione di due pm scorretti che hanno tentato - senza peraltro riuscirci - di escludere dal processo prove cruciali che minavano la credibilità di uno degli accusatori dei vertici, Armanna. La nota stonata in questa narrazione è che nel processo Nigeria sono state escluse anche le evidenze che dimostrano invece un tentativo di depistaggio acclarato di cui l’Eni era la beneficiaria - inconsapevole e addirittura parte offesa, ribadisce l’azienda in ogni occasione - orchestrato però da persone pagate da Eni, a cominciare dal solito Amara. Vale la pena quindi di ripercorrere quello che emerge dall’ordinanza del giudice di Potenza che convalida le richieste di arresto nei confronti di Amara e altri. Il 23 gennaio 2015, quindi pochi mesi dopo aver registrato il video che dovrebbe servire a compromettere Armanna, Amara consegna al suo amico e sodale Carlo Maria Capristo, procuratore capo di Trani ora arrestato per la seconda volta, un esposto “anonimo” pieno di accuse inventate: un improbabile complotto contro Claudio Descalzi, ordito, tra gli altri, dai consiglieri di amministrazione Lugi Zingales e Karina Litvack che in quella fase stavano facendo domande sgradite proprio sul dossier Nigeria. Nulla si sa in pubblico di quella patacca di Amara, le prime notizie filtreranno il 10 luglio 2015 quando sempre Amara fa scrivere un articolo ad Agir, un’agenzia di stampa. Uno degli obiettivi di Amara è far aprire a Capristo una indagine specchio di quella di Milano, sul finto complotto, che permetta di accedere agli atti di quella principale. Stando a quello che dichiara Amara a verbale nel 2018, era una sua iniziativa per accreditarsi con i vertici dell’Eni, azienda con la quale lavorava da anni, e ottenere l’incarico a seguire l’indagine fittizia che stava facendo aprire all’amico Capristo. La cosa all’inizio sembra funzionare: con tempi fulminei per la giustizia italiana, il 20 febbraio Capristo chiede all’Eni nientemeno che tutti i verbali dei consigli di amministrazioni, documenti molto sensibili per una società quotata. Sta iniziando l’operazione per sabotare il processo Nigeria da Trani. Pochi giorni dopo Amara ha già organizzato un incontro a Trani con gli avvocati interni dell’Eni, il capo dell’ufficio legale Massimo Mantovani e il responsabile del penale, Vincenzo Larocca, che arrivano per discutere del dossier anonimo sul complotto. C’è un intoppo nel piano di Amara: Larocca chiede che la questione Trani venga affidata ad Amara. Ma Mantovani si oppone e l’incarico va al famoso penalista Carlo Federico Grosso (poi scomparso) per una questione di “standing”. Qui succede una delle tante cose assurde della storia. Se Amara ha montato tutto il finto complotto per ottenere l’incarico di occuparsene da Eni, dopo che il piano è fallito dovrebbe disinteressarsene. Invece no, Amara continua a trafficare ed Eni, che pure ha ritenuto di tenerlo a distanza dall’affare Trani, continua ad avere rapporti con lui e a stipendiarlo per centinaia di migliaia di euro in vari procedimenti legali. A maggio 2015 il professor Grosso, Mantovani e Larocca atterrano a Bari, diretti a Trani e trovano ad aspettarli Amara in persona. “Sono certo che fu lo stesso Larocca a informare Amara del nostro arrivo”, dice Mantovani a verbale nel 2021, perché Larocca “non voleva escluderlo del tutto” dall’affare Trani. Ma niente da fare, l’affare Trani non genera consulenze. Ma Amara, che pure formalmente sarebbe stato scaricato dall’Eni sul finto complotto, continua a industriarsi e addirittura rilancia. Quando capisce che a Trani non si va da nessuna parte, per la resistenza di alcuni pm e della polizia giudiziaria ad approfondire l’indagine patacca, riesce a spostare il suo depistaggio sul caso Eni a Siracusa, dove può contare su un altro pm, Giancarlo Longo (che poi ha patteggiato una pena per corruzione). A Siracusa Amara diventa più creativo: invece che scrivere un “esposto” anonimo, attiva le indagini sul falso complotto Eni per sabotare il processo Nigeria di Milano con un testimone che si presta a raccontare un sequestro di persona mai avvenuto connesso al grande complotto contro Descalzi. Longo si autoassegna il fascicolo e lo usa per accedere ad altre informazioni sensibili: a gennaio 2016, per esempio, riesce a farsi consegnare da Eni tutte le mail interne che riguardano le segnalazioni di presunti illeciti commessi dai manager Eni sul caso Nigeria. Poi, con una mossa mai vista prima nella cronaca giudiziaria, manda un avviso di garanzia ai consiglieri scomodi Zingales e Litvack contestando la diffamazione prima che il soggetto diffamato sporga denuncia e prima che il diffamatore diffami. Il diffamato, cioè l’Eni, non poteva denunciare perché niente era uscito sui giornali: le prime notizie divulgate sul presunto complotto riguardano proprio l’inchiesta di Longo, su una diffamazione che mai si è consumata. Nonostante i traffici di Trani fossero ben conosciuti dall’Eni, l’azienda guidata da Claudio Descalzi si libera di Amara? Assolutamente no. Racconta Vincenzo Armanna, la cui attendibilità è sempre scarsa, che Amara nel 2016 gli propone di rivedere le sue accuse al processo Nigeria in un patto con il numero tre del gruppo, Claudio Granata. L’Eni smentisce tutto. Anche ignorando l’opaco Armanna, l’ordinanza della gip di Potenza chiarisce che nel 2016 quattro diverse società del gruppo Eni pagano comunque compensi rilevanti ad Amara per un totale di 533mila euro. Nel 2017 ne ottiene altri 230.000. L’azienda ha sempre spiegato che Amara difendeva singoli manager del gruppo, perché Eni si avvale spesso di legali esterni, nessuna connessione con i traffici illeciti dell’avvocato. Resta il fatto che Amara continuava a essere nel giro di Eni nonostante le sue strane manovre fossero ben note ai vertici dell’azienda. E non soltanto sul fronte Nigeria. Mentre Amara traffica a Siracusa, si adopera anche perché il suo amico Carlo Maria Capristo passi dalla procura di Trani alla guida di quella di Taranto. Amara muove tutta la sua rete che, tramite il misterioso ex poliziotto Filippo Paradiso, riesce a far arrivare la richiesta anche a Maria Elisabetta Alberti Casellati, all’epoca membro del Csm e oggi presidente del Senato. Anche l’ex ministro del Pd Francesco Boccia, pugliese, si informa della nomina. A marzo 2016 il Csm vota all’unanimità e Capristo va a Taranto. Un attimo dopo pure Amara inizia a occuparsi di Taranto e del processo più sensibile in città: l’inchiesta Ambiente Svenduto sull’Ilva. Capristo si dimostra subito favorevole a un’ipotesi di patteggiamento che, in estrema sintesi, avrebbe preservato l’attività degli stabilimenti e limitato le conseguenze penali per gli azionisti, la famiglia Riva (il predecessore di Capristo, Franco Sebastio, si era sempre opposto). Amara punta probabilmente ad accreditarsi con la famiglia Riva come uno che può far andare le cose nel verso giusto e il primo passo è ottenere una consulenza dall’Ilva, in quel momento in gestione commissariale e affidata al commercialista Enrico Laghi (oggi ad Atlantia dei Benetton). Nel 2020, già fuori da Eni, l’ex responsabile degli affari penali del gruppo petrolifero Larocca racconta di aver partecipato a una cena per festeggiare la nomina di Capristo a Roma, organizzata da Amara, a inizio 2016. Lì, oltre a Capristo, c’era Nicola Nicoletti, manager della società di consulenza Pwc, già consulente di Eni, e in quel momento consulente dell’Ilva su cui Capristo avrebbe dovuto indagare. A Taranto si replica lo schema di Trani. Vari testimoni raccontano che Nicoletti si dà subito da fare per assegnare incarichi ad Amara nel processo Ilva, come intermediario con Capristo. Chi glieli dia non è chiaro: il commissario Laghi nega di averlo ordinato lui, ma Amara viene comunque pagato dall’Ilva 60.000 euro nel 2016 e 30.000 nel 2017. Stando all’ordinanza di arresto di Potenza, questi contratti vengono approvati - da chi? - violando le norme che il comitato di sorveglianza doveva far rispettare. E in quel comitato c’era uno che Amara lo conosceva bene, cioè il solito Massimo Mantovani, in quel momento sempre responsabile degli affari legali dell’Eni. Mantovani nega di aver approvato la consulenza ad Amara che però viene deliberata dal comitato di sorveglianza a giugno e poi a settembre 2016. Capristo poi viene arrestato una prima volta a maggio 2019 con l’accusa di aver provato ad aggiustare un processo a Trani in tutt’altre vicende, poi gli viene imposto l’obbligo di dimora nei giorni scorsi, sempre dalla procura di Potenza che considera corruttivi i suoi rapporti con Amara. In mezzo c’è la condanna a secoli di carcere per tutti gli imputati nel processo Ambiente svenduto. A Milano, invece, il depistaggio di Amara continua a far danni: le sue manovre per il finto complotto non sono entrate nel processo principale su Eni e Nigeria, anche se quello volevano influenzare, però hanno contribuito a creare una nebbia di false verità e ricatti che include il tentativo di infangare i giudici del processo (Amara aveva sparso vaghe accuse sul presidente del collegio giudicante Marco Tremolada, la procura di Brescia ha aperto un fascicolo e l’ha chiuso subito archiviando), poi i verbali sulla presunta loggia Ungheria che hanno innescato la rottura tra il pm Paolo Storari - che indagava con la collega Laura Pedio sulle manovre di Amara - e il procuratore capo Francesco Greco. Così ci sono Spadaro e De Pasquale indagati, la procura criticata da tutti per la gestione del processo e derisa dalla sentenza. Eni, che nel frattempo si è liberata di tutti i manager toccati da queste vicende (da Nicoletti a Mantovani a Larocc) esce illibata e rigenerata. Amara, che sta dando da lavorare a procure di mezza Italia, continua a rimanere un enigma: avvocato di provincia che, mentre riceve parcelle dall’Eni, smuove mezzo mondo per depistare un processo cruciale per Eni, cercando incarichi da un amico nell’ufficio legale di Eni ma alle spalle di Eni e del suo amministratore delegato Claudio Descalzi che ha ottenuto da poco il terzo mandato e già pensa a un ulteriore rinnovo, quasi risarcitorio. Eni esce rigenerata da questa vicenda e la magistratura a pezzi, spaccata anche dalle rivelazioni del solito Amara di una fantomatica “loggia Ungheria” che governa in modo occulto il sistema giustizia. Non tutto questo disastro è responsabilità di Amara, ma certo questo è lo scenario che Amara sperava di vedere quando ha iniziato a trafficare intorno ai più delicati processi italiani. Scandalo magistratura, a casa del corvo del Csm spuntano gli atti di Palamara di Giuliano Foschini e Maria Elena Vincenzi La Repubblica, 16 giugno 2021 Nell’abitazione di Marcella Contrafatto, la dirigente del Consiglio superiore della magistratura indagata per la diffusione dei verbali segreti di Piero Amara, trovati fascicoli di procedimenti disciplinari e documenti sull’ex capo dell’Anm. Le nuove accuse nel provvedimento del Riesame. A casa di Marcella Contrafatto, la dirigente del Csm indagata per la diffusione dei verbali segreti di Piero Amara, sono state trovate “rassegne stampa a cura del Consiglio superiore della magistratura con chiave di ricerca Palamara”, un “estratto del libro Il Sistema”, i fascicoli di due procedimenti disciplinari e la stampa della posizione disciplinare del dottor Palamara”, un “avviso di conclusione delle indagini di un procedimento romano con annesse notizie stampa”. È questo il particolare più interessante delle tre pagine di provvedimento con cui il tribunale del Riesame ha respinto il ricorso dei legali della Contrafatto confermando così il sequestro e l’impostazione che la Procura di Roma ha dato dell’inchiesta sui verbali di Amara. Roma indaga sulla calunnia ai danni del procuratore di Milano, Francesco Greco. Tutto parte infatti dal plico fatto recapitare al consigliere del Csm, Antonino Di Matteo: c’erano due dei verbali di Amara e “una missiva anonima - si legge nel provvedimento - con cui si incolpava il dottor Greco di “occultare” i verbali di interrogatorio dell’avvocato Amara dinanzi alla procura di Milano”. Secondo il tribunale del Riesame, Di Matteo è da considerarsi a tutti gli effetti un pubblico ufficiale. E, dunque, chi ha spedito quel plico ha commesso una calunnia. Motivo per cui l’indagine è della procura di Roma. Che è convinta che “l’anonimo” sia in realtà la Contrafatto: già segretaria di Piercamillo Davigo, che ricevette quando era al Csm quei verbali dal pm milanese Paolo Storari, sarebbe stata lei a inviare i verbali ai giornali e a Di Matteo. Resta da capire il perché lo abbia fatto: la donna fino a questo momento non ha voluto rispondere alle domande. Né ha chiarito il giallo emerso dalla perquisizione: ha raccontato di aver interrotto da tempo i rapporti cin Fabrizio Centofanti, di cui conservava però alcuni atti giudiziari a casa. Non è chiaro invece il perché di tutta quell’attenzione a Palamara che la Contrafatto aveva conosciuto bene nel corso della sua esperienza al Consiglio superiore. Il pm da educare alla legalità di Vincenzo Vitale L’Opinione, 16 giugno 2021 Lo premetto subito: Fabio De Pasquale, procuratore aggiunto di Milano e il suo collega Sergio Spadaro credo proprio non abbiano per nulla dolosamente occultato la registrazione che, se depositata in atti, sarebbe stata un aiuto per i difensori dei dirigenti Eni, accusati di corruzione internazionale in Nigeria. Eppure, per questa omissione entrambi sono indagati dalla Procura di Brescia. Orbene, allo stato non abbiamo prove di un loro comportamento intenzionalmente scorretto e preordinato a danneggiare le difese. Tuttavia, il fatto rimane certo e indubitabile: è assodato cioè che quella registrazione è rimasta nei cassetti della Procura mentre avrebbe dovuto transitare nel fascicolo del Tribunale chiamato a decidere il caso. Infatti la sentenza del Tribunale, mandando assolti tutti gli imputati, ha definito “incomprensibile” quella omissione. Che dire allora di fronte alla giustificazione dei due pubblici ministeri, i quali - sorpresi dalle critiche ricevute - hanno candidamente affermato di non aver ritenuto quella registrazione rilevante dal punto di vista processuale? Da dire c’è una cosa di rilevantissima gravità politica e istituzionale: oggi in Italia diversi pubblici ministeri (non tutti ovviamente), in perfetta buona fede, si comportano con assoluta spregiudicatezza, ritenendo di essere i soli depositari della verità e che perciò loro possono tutto e il contrario di tutto. Ma non è colpa loro. Appena vinto il concorso e ancor prima di assumere le prime funzioni, essi vengono letteralmente bombardati in modo continuo e crescente da ammonimenti, insegnamenti, lezioni, esemplificazioni, indicazioni, tutti senza eccezione destinati a far loro intendere che loro, e soltanto loro, sono i difensori della legalità e della compagine sociale contro la criminalità e che a questo compito devono rimanere fedeli a qualunque costo. Se a questo bombardamento pseudo-pedagogico si aggiunge la sovraesposizione mediatica di alcuni di essi - complice una stampa ed una opinione pubblica che, seguendo i fatti di cronaca nera come si trattasse di un film, non vede l’ora che i “buoni” arrivino a punire i “cattivi” - allora si capisce dove si possa giungere. Si giunge ad una sorta di ipertrofia dell’ego - di cui essi neppure si rendono conto - in forza della quale, costoro (lo ripeto, non tutti, per fortuna) si sentono investiti di una funzione più sacra che profana - in quanto salvifica - e perciò tale da giustificare ogni abuso, anche quello di non far conoscere alla difesa elementi ad essa favorevoli. E se lo fanno, quando lo fanno, il bello è che neppure ne sono consapevoli, infarciti come sono di idee come quelle sopra esposte, a scorgere l’assurdità delle quali basterebbe una sola considerazione. Il loro ministero, infatti, non è privato, ma “pubblico”: ciò vuol dire che essi non sono al servizio di nessuno - neppure dello Stato - ma unicamente della giustizia e che perciò son tenuti a tutelare egualmente la posizione delle persone accusate. Questo nelle leggi vigenti viene precisato, ma nella realtà accade rare volte. Tanto che, quando si vede che il pubblico ministero in mancanza di prove chiede l’assoluzione dell’imputato, ci si stupisce, avvezzi come si è ad un atteggiamento ostinatamente e pregiudizialmente a lui avverso. Che fare allora? Un’opera di autentica educazione alla legalità verso costoro pare indispensabile da condurre, anche se paradossale: chi si comporta in modo troppo spregiudicato, come fosse il padrone delle leggi, ha perso il senso stesso dell’identità del proprio ruolo. Anche perché l’origine storica della figura del pubblico ministero risiede nella necessità di offrire un presidio al cittadino contro possibili abusi da parte della Polizia giudiziaria in ambito investigativo. Ma se colui che deve proteggere dagli abusi li commette lui stesso, e per giunta in buona fede, cioè senza neppure avvedersene, siamo messi davvero male. Che ne dice il ministro Marta Cartabia? Stato di diritto e Stato di-storto di Pietro Di Muccio de Quattro L’Opinione, 16 giugno 2021 Scrivevo qui il 7 giugno che contrapporre il garantismo al giustizialismo costituisce un paragone impossibile. Forse utile a dare una patina politica ma inutile a chiarire l’essenza dell’uno e dell’altro concetto. Parlando in generale, alla definizione di un nome giova molto il significato del nome opposto. Il dizionario dei sinonimi e dei contrari aiuta davvero a “tornire” il senso di una parola al di là della spiegazione che ne dà il vocabolario. Garantismo e giustizialismo non solo sono nomi che rimandano a complessi concetti, ma sono anche allusivi, nel senso che chi li pronuncia può voler dire cose diverse da chi li ascolta, in tutto o in parte. Quindi contrapporre due allusioni è umoristico oltre che sterile. Inoltre, usare i due nomi con riguardo ad un caso concreto costituisce una truffa semantica. Per evitarla, bisogna dichiararsi colpevolisti o innocentisti. Proclamarsi “garantisti-innocentisti” dopo la sentenza di assoluzione pare un’assurdità, non meno che “giustizialisti-colpevolisti” dopo una condanna. Il garantista è un innocentista in servizio permanente fino alla sentenza di condanna, il giustizialista è un colpevolista in servizio permanente prima della sentenza di condanna. A parte la malafede di dichiararsi tali per lisciare il pelo dell’opinione pubblica in voga o della fazione amica. Il concetto opposto del garantismo non è, dunque, il giustizialismo, ma lo Stato di-storto ovvero Stato distorto cioè quello Stato di diritto che, tale di nome, non lo è di fatto. La contrapposizione, pertanto, è tra liberalismo e “illiberalismo”. Sbagliano coloro che affermano di essere garantisti o giustizialisti come se dicessero: “Sono carnivoro, non vegetariano”. Mentre non esiste il falso giustizialismo, esiste invece il falso garantismo. Per esempio, garantismo non può voler dire che l’imputato possiede il diritto di cavillo, con cui impedire la conclusione del processo e l’emanazione della sentenza definitiva. La presunzione d’innocenza viene assimilata, dai falsi garantisti, ad uno scudo contro il processo, mentre significa che l’accusa è sempre aleatoria prima del giudicato. Se no, il garantismo cessa di essere ciò che è, per nome e sostanza: equo processo secondo giusta legge. Per converso, quando una pena è stata irrogata, dev’essere scontata, perché la certezza del diritto è parte integrante del garantismo. E se le leggi non la favoriscono, bisogna accordarle allo scopo. Anche l’umanità della pena è parte integrante del garantismo. Ma la norma costituzionale, secondo cui la pena tende alla rieducazione del reo, non può essere applicata nel senso di vanificare di fatto la sanzione. L’anno dei condannati già dura nove mesi, anziché dodici, in galera. Il garantismo non confonde l’effettività con l’umanità della pena. La pietà verso il colpevole è nobile, ma le lacrime della vittima, se può ancora piangere, moralmente valgono di più. Garantismo e giustizialismo sono separati. Farli scontrare come tori aizzati è una specie di tauromachia che fa comodo perché distrae dalla giustizia. Mettiamocelo bene in testa: la pistola ti cambia il cervello di Ferdinando Camon Avvenire, 16 giugno 2021 Ad Ardea, Roma, un uomo ha ucciso per strada tre persone che neanche conosceva, e la domanda che tutti dobbiamo porci è: perché aveva una pistola? Suo padre era stato un vigilante, e dunque il padre la pistola l’aveva legalmente, ma dopo la morte del vigilante l’arma non doveva venir consegnata ai Carabinieri? Una pistola è un’arma pericolosissima, più pericolosa di ogni altra, e scrivo questo articolo per dimostrarlo. Si scrive spesso (anch’io) che gli Stati Uniti d’America sono incoscienti, con la loro politica del libero acquisto di armi da guerra da tenere poi in casa. Mitra, mitragliatrici, perfino bazooka, che è un lanciarazzi individuale, e serve contro i carri armati. Quella americana è una politica da guerra civile, quando ognuno si considera nemico di tutti, ma in tempo di pace è assurdo avere in casa un fucile che spara a raffica, a che ti serve? A sterminare i caprioli in branco? Però noi, che disapproviamo la facilità con cui un americano può munirsi di un mitra, non ci accorgiamo della facilità con cui da noi uno può munirsi di una pistola. Quest’uomo che ha fatto la strage di Ardea la pistola l’ha ereditata. Ma sul passaggio dell’arma da padre a figlio non s’è interposta la Legge? No? Errore. La prima origine della strage è lì. Quest’uomo che ha fatto i tre morti non aveva nessuna ragione di farne neanche uno. È la pistola che ti fa s-ragionare. Se hai una pistola in tasca pensi sempre che puoi uccidere. E prima o poi lo fai. La pistola diventa una protesi del tuo cervello. Qualunque discussione in cui ti trovi impelagato, e che non sai come concludere, se hai una pistola in tasca hai sempre la tentazione di tirar fuori la pistola e risolverla con quella. Se hai una pistola, ti senti ultrapotente, e hai sempre la tentazione di farlo sapere a tutti. Ti senti temibile, e vuoi che tutti abbiano timore di te. È bello sentirsi temibile, è gratificante. Non succede mai che l’uomo che ha una pistola più o meno illegalmente la tenga nascosta e la usi la prima volta per ammazzare: no, prima la userà alcune volte per spaventare, gli altri tremano e lui gode a vederli tremare. Anche quest’uomo di Ardea ha litigato più volte con la gente per strada e per zittirla ha sparato in aria. Era allora che bisognava intervenire, ritirargli l’arma e ammonirlo. È così logico, che penso i carabinieri l’abbiano fatto, io non lo so ma ci dev’essere una lacuna nelle mie informazioni. La pistola in tasca ti fa sentire potente mentre mangi, cammini, entri in un negozio, parli con gli altri: stiano attenti, tu li puoi sterminare in qualsiasi momento. Parli con una mano in tasca, con le parole maneggi i concetti, non sai con quale concludere, e intanto con la mano tasti la pistola, con le dita maneggi l’arma, con quell’arma puoi sempre concludere da vincitore. La Beretta è fatta apposta per essere carezzata, per questo è zigrinata. La pistola è una droga. Non puoi stare in astinenza. Neanche quando dormi. Perciò la tieni accanto al letto, in un cassetto che puoi raggiungere stendendo una mano, nel caso che ti svegli di soprassalto. Quand’ero soldato (figlio di contadini, ho fatto il mi-litare, ero un tenente), il gesto più importante che compivo nella giornata era mettermi o togliermi il cinturone al quale era appesa la fondina con la Beretta calibro 9 corto. Ne sentivo il peso, e quella sensazione passava dai nervi al cervello. Quest’uomo di Ardea, che si sottoponeva a qualche Tso, non doveva sentire questa sensazione. Il momento per evitare la strage era quello. Solo quello. Dopo, era troppo tardi. Umbria. Consiglio regionale, eletto il nuovo Garante dei detenuti umbria24.it, 16 giugno 2021 È l’avvocato perugino Giuseppe Caforio il nuovo Garante regionale dei detenuti. Caforio, che è anche presidente dell’Aucc, ha ottenuto 16 voti su 18 presenti (una scheda bianca e una a favore di un altro candidato), e prende il posto di Stefano Anastasia, ricercatore di filosofia e sociologia del diritto nell’Università di Perugia e tra i fondatori dell’associazione Antigone, della quale è stato presidente dal 1999 al 2005. Anastasia, autore di molti libri sui temi che riguardano il diritto e le carceri, era stato eletto nel 2016. L’avvocato, che ha anche insegnato Diritto commerciale europeo e Diritto industriale all’Università di Perugia, alla fine del 2019 è stato anche tra i papabili per un posto nella giunta di Donatella Tesei. L’elezione è arrivata dopo che nella precedente seduta non era stata raggiunta la maggioranza dei due terzi prevista dalla legge istitutiva del garante (dalla terza votazione basta quella assoluta). Il Garante, che dura in carica 5 anni e non è rieleggibile, “in armonia con i principi fondamentali della Costituzione, delle Convenzioni internazionali sui diritti umani ratificate dall’Italia, della normativa statale vigente e nell’ambito delle materie di competenza regionale - spiega palazzo Cesaroni -, contribuisce a garantire i diritti delle persone negli istituti penitenziari, in esecuzione penale esterna, sottoposte a misure cautelari personali, in stato di arresto o presenti nelle strutture sanitarie in quanto sottoposte a trattamento sanitario obbligatorio”. Alla figura è assegnata un’indennità mensile che non può essere superiore al 20% di quella lorda di un consigliere regionale”. Lecce. Giovane detenuto morto in carcere: aperta un’indagine di Francesco Oliva Corriere Salentino, 16 giugno 2021 Morto in carcere a 33 anni. Tragedia lunedì 14 giugno all’interno del penitenziario di Borgo “San Nicola” di Lecce. La vittima si chiamava Matteo Luperto ed era originario di Galatone. Il giovane è stato ritrovato privo di vita all’interno di una cella della cosiddetta zona filtro, nel nuovo padiglione. Il giovane è stato trovato con una bomboletta da campeggio, che vengono fornite in dotazione ai detenuti, e un sacchetto di plastica. E secondo una prima ricostruzione il detenuto avrebbe volontariamente inalato il gas, infilando la testa nel sacchetto. A nulla sono valsi i soccorsi che le guardie penitenziarie e il personale medico hanno prestato al detenuto. Il decesso dovrebbe ricondursi ad un infarto ma saranno soltanto gli accertamenti medico-legali a stabilire le cause con esattezza. La pm Rosaria Petrolo ha infatti aperto un fascicolo d’indagine al momento a carico di ignoti con l’accusa di omicidio colposo mentre la la salma del giovane è stata trasferita presso l’obitorio del “Vito Fazzi” in attesa che venga disposta ed effettuata l’autopsia La madre del giovane, appresa la notizia del figlio, ha accusato in malore ed è stata condotta al pronto soccorso. Luperto era detenuto nel carcere di Lecce dopo un periodo trascorso in una Comunità di Crispiano (nel Tarantino). Con precedenti per spaccio, nel 2018 era stato condannato a 2 anni e mezzo di reclusione per un tentativo di estorsione 140 euro ai danni di un uomo di Castrignano dei Greci per non rubargli l’auto. Vicenda, per la quale, mesi prima era stato arrestato con un complice. Di buona famiglia e “refrattario alle regole”, dice chi lo conosce, non voleva rimanere in comunità dove, per un certo periodo, aveva anche lavorato. In più occasioni, il Direttore della Comunità aveva riferito dell’insofferenza dell’ospite a rimanere all’interno della struttura ma l’unica alternativa sarebbe stata rappresentata dal carcere dove, purtroppo, ha trovato la morte. Frosinone. Assolti tutti i detenuti che parteciparono alla rivolta ciociariaoggi.it, 16 giugno 2021 La protesta era scaturita per le disposizioni adottate dalle autorità carcerarie per la prevenzione della diffusione del Covid-19. I ventuno detenuti sono stati assolti. Ventuno detenuti sono comparsi ieri davanti al dottore Antonello Bracaglia Morante per l’udienza preliminare riguardo la rivolta in carcere per paura del Covid che avvenne l’8 marzo dello scorso anno nel carcere di Frosinone. Sono stati tutti assolti dal reato contestato, quello della devastazione. Reggio Calabria. “Coinvolgere i detenuti in progetti di inclusione sociale” reggiotoday.it, 16 giugno 2021 Il progetto “Mi riscatto per Reggio” mira al reinserimento della persona reclusa con un’attività orientata al decoro e al rispetto dell’igiene urbana. Entrambe le attività sono rivolte a detenute e detenuti ammessi ad uscire dagli istituti penitenziari”. Nell’ambito dei progetti utili alla collettività (PUC), l’impegno del movimento La Strada ha contribuito “a raggiungere un risultato estremamente significativo nell’ottica dell’inclusione sociale e dell’inserimento in lavori di pubblica utilità dei detenuti, con l’approvazione nelle Commissioni di due PUC elaborati dai gruppi di lavoro del movimento. L’impegno di Antonello Faraone, Antonio Catanese, Antonio Guerrieri, Chiara Tommasello, Flavio Carricato, Giò Pronestì, Giovanni Mannarella, Jenny Anghelone, Livia Guarniera e Stefano Tommasello ha portato all’elaborazione delle iniziative e al raggiungimento di questo significativo risultato”. È quanto si apprende da una nota del movimento civico che spiega ancora: “Queste attività progettuali, rivolte al mondo ristretto, si ispirano agli articoli 3 e 27 della Costituzione, essendo orientate tanto alla formazione e al pieno sviluppo della persona, quanto al reinserimento e alla rieducazione dei soggetti condannati per reati vari. Il progetto denominato “La strada giusta” intende creare una relazione tra il mondo dell’istruzione e quello penitenziario, consentendo uno scambio di umanità e di esperienze con un forte intento pedagogico. Il progetto denominato “Mi riscatto per Reggio” mira al reinserimento della persona reclusa con un’attività orientata al decoro e al rispetto dell’igiene urbana. Entrambe le attività sono rivolte a detenute e detenuti ammessi ad uscire dagli istituti penitenziari e indicati dalla direzione degli Istituti medesimi”. Per i rappresentanti de La Strada “il rapporto tra il mondo ristretto e la città può e deve essere concreta testimonianza di reinserimento e di umanità. Una società che dialoga col mondo ristretto è una società più sicura, più giusta, più equa. Sia per l’una che per l’altra iniziativa il Comune stipulerà dei protocolli d’intesa; in particolare, per il percorso che impegnerà le persone coinvolte nella pulizia e nella manutenzione di aree verdi pubbliche, si procederà al rinnovo del protocollo già meritoriamente stipulato nella passata amministrazione. Sul piano della formazione, auspichiamo che l’incontro tra mondo della scuola e mondo ristretto possa stimolare presto ulteriori iniziative ad opera della Città metropolitana”. La Strada con Saverio Pazzano conferma dunque “il proprio impegno coerente e costante verso gli ultimi. Impegno che ha trovato l’attenzione e il sostegno delle commissioni presiedute dai consiglieri Romeo e Novarro, dei consiglieri componenti di minoranza e maggioranza, della garante per i detenuti Russo, degli assessori Scopelliti e Delfino. Attraverso il fattivo impegno dei gruppi di lavoro de La Strada, le misure volte all’inclusione sociale e alla realizzazione di lavori di pubblica utilità hanno trovato e troveranno spazio tra le attività della macchina amministrativa comunale, con ricadute positive sull’intera comunità cittadina”. Ascoli. Il Garante dei diritti dei detenuti in visita al carcere di Marino picenonews24.it, 16 giugno 2021 Riprendono le visite in presenza del Garante dei diritti, Giancarlo Giulianelli, negli istituti penitenziari marchigiani. Per venerdì già in agenda quello a Marino del Tronto di Ascoli. “È più che mai necessario - specifica Giulianelli - avere un quadro dettagliato della situazione nei suoi molteplici aspetti, anche e soprattutto alla luce di alcune problematiche emerse negli ultimi mesi e che questa Autorità di garanzia ha già rappresentato, tramite lettera, al Ministro competente ed ai diversi rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria”. Nell’ambito della ripresa dell’attività complessiva del Garante anche alcuni incontri di settore. Nei giorni scorsi Giulianelli ha affrontato le tematiche legate al volontariato in carcere attraverso un confronto diretto con Silvano Schembri, attuale presidente della Conferenza Regionale Volontariato. In primo piano i percorsi di reinserimento nella società per i detenuti che si avviano alla fine della pena detentiva, le possibilità occupazionali e la ricerca di abitazioni stabili per tornare a vivere. Previsti ulteriori appuntamenti per attivare iniziative su più fronti. Caserta. Carceri, presentato il report su criticità e buone prassi di Raffaele Sardo La Repubblica, 16 giugno 2021 Una relazione con molte criticità quella presentata dal garante regionale dei detenuti, Samuele Ciambriello, nella sala consiliare del Comune di Caserta. Nel Report annuale, relativo ai luoghi di privazione della libertà personale della provincia di Caserta 2020, redatto in collaborazione con l’Osservatorio Regionale sulla detenzione, Ciambriello ha messo in luce insieme alle buone prassi, anche numerosi problemi che la popolazione carceraria vive. Tra quelli che appesantiscono una situazione già molto difficile in tempo di Pandemia, sicuramente c’è la mancanza di figure professionali come gli educatori, gli psicologi, o addirittura mancanti come i mediatori culturali. Mancano anche i medici specialistici negli istituti penitenziari, non sono sufficienti ad accogliere tutte le richieste sanitarie dei detenuti. Ad appesantire una situazione che la pandemia ha reso sicuramente più complicata, sono arrivate anche le rivolte, le proteste, in varie forme, ma anche tanti atti di autolesionismo e finanche 59 tentativi di suicidi di cui 3, purtroppo, riusciti. Si è tolto la vita anche un minore, Vincenzo, 16 anni, ospite di una comunità per minori, a Villa di Briano. Ci sono stati dei morti anche tra gli agenti di polizia penitenziaria, ma dovuti al Covid, in seguito ad alcuni focolai scoppiati nel carcere di Carinola e Santa Maria C.V. “Se ad Arienzo e nell’istituto militare di Santa Maria CV, la vita comunitaria è stata caratterizzata da un sostanziale mantenimento della socialità - ha evidenziato Ciambriello - che è riuscita a contenere un numero di eventi quantificabili in uno o due episodi, la situazione negli altri istituti del territorio provinciale è decisamente diversa. Infatti gli atti di autolesionismo sono stati 42 ad Aversa, 92 a Carinola, 196 a Santa Maria CV. Rilevante il numero degli scioperi della fame e/o sete risultati in 262 e l’aumento delle infrazioni disciplinari registrate che sono 893. Nel 2020, inoltre, si sono verificati in questi istituti 59 tentativi di suicidio e 3 persone hanno deciso di togliersi la vita in carcere (due a Santa Maria Cv e una ad Aversa). In Campania i suicidi sono stati 9 nel corso del 2020” Ciambriello, ha sottolineato che oltre al pianeta carcere, il mandato istituzionale del Garante regionale dei detenuti prevede anche che si occupi di coloro che sono sottoposti a Trattamento Sanitario Obbligatorio (Tso), dei ricoverati nelle Rems (residenze per l’esecuzione delel misure di sicurezza) e nella RsA (Residenze per Anziani) e di tutti coloro che si trovano in una condizione di limitazione della propria libertà personale, come accade anche agli stranieri nei centri per gli immigrati. Ma soprattutto ha messo in risalto che la pandemia ha aumentato l’isolamento che le persone vivono nei luoghi di restrizione, causando una limitazione di contatti all’esterno e, in alcuni casi addirittura una cessazione delle attività. Un aiuto fondamentale è arrivato dall’uso delle nuove tecnologie. “Rivolte, mini rivolte e proteste hanno caratterizzato questo lungo anno segnato dalla pandemia - ha spiegato Ciambriello - A Carinola a Santa Maria Cv, così come a Poggioreale e a Salerno, sono note le proteste durante la diffusione dei primi contagi e la sospensione dei colloqui. In particolare a Santa Maria C.V. sono in corso indagini in seguito a presunti pestaggi che si sarebbero verificati per contenere le proteste”. Nel dibattito che è seguito alla relazione di Ciambriello, sono intervenuti il Prefetto di Caserta, Raffaele Ruberto; Maria Antonietta Troncone, procuratore a Santa Maria C.v. Gabriella Maria Casella, presidente del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere Antonio Fullone, provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Emanuela Belcuore, Garante dei detenuti della provincia di Caserta, Francesco Piccirillo, avvocato. Le conclusioni sono state affidate a Francesco Chiaromonte, magistrato di Sorveglianza. Reggio Calabria. Carcere di Arghillà, dopo la visita del neo vescovo parlano i Garanti di Paola Suraci reggiotoday.it, 16 giugno 2021 Giovanna Russo e Agostino Siviglia raccontano le impressioni avute durante la visita del presule Morrone all’istituto penitenziario nella periferia nord della città. “È stato un incontro lontano dai formalismi, vero, toccante e di testimonianza della parola”, racconta la Garante dei detenuti dell’Amministrazione comunale Giovanna Russo, dopo l’incontro con il neo vescovo Fortunato Morrone nel carcere ad Arghillà. “La scelta che ha compiuto il vescovo Morrone è senza dubbio insolita, - prosegue Russo - nel giorno del suo insediamento ha voluto andare ad incontrare, subito, gli ultimi dentro le mura di un carcere ed anche nella periferia abbandonata come quella di Arghillà. Durante la visita ha mostrato il volto della misericordia, ha parlato con i detenuti, chiamandoli per nome, si è fermato a dialogare con loro interessandosi realmente a come stanno. Il vescovo ha incontrato, nel dialogo, i detenuti. È stata un’esperienza forte, bellissima, che porterò sempre nel mio cuore”. “Penso che sia necessario ancora, - sostiene la Garante - sensibilizzare la città e non solo ai problemi delle carceri, a cosa vuol dire reinserimento per i detenuti e questo si può fare solo attraverso la conoscenza di questa realtà e soprattutto cercando di reinserire i detenuti attraverso il lavoro. C’è molto da fare ma sono fiduciosa. In questo cammino dobbiamo essere insieme anche con la polizia penitenziaria, e il direttore, che mi sento di ringraziare per il grande lavoro quotidiano che fanno all’interno delle carceri”. Anche il Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà personale Agostino Siviglia è molto soddisfatto del pomeriggio trascorso insieme al vescovo Morrone. “Sono state due ore intense - racconta Siviglia - che ci indicano la strada da percorrere. Il vescovo ha avuto nei confronti dei detenuti parole filiali, richiamandoli al bene che c’è in ognuno di noi e alla forza di cambiare strada per ritrovare la via giusta. Ecco la funzione della pena, così come previsto dal nostro ordinamento, è quella di rieducare e reinserire chi delinque nella società. Bisogna sconfiggere i pregiudizi. Sono molto grato al vescovo che ha dato testimonianza del bene. Sono certo che ci ritroveremo a lavorare insieme, in altri incontri, per il bene dei detenuti e delle loro famiglie. Mons. Morrone nel suo incontro ha messo al centro la persona, che va oltre la pena, e da qui bisogna partire per un percorso comune”. Torino. Con “Zona luce” il calcio fornisce un assist ai giovani detenuti di Daniele Vaira gazzettadalba.it, 16 giugno 2021 Il progetto si chiama Zona luce e attraverso il calcio vuole “illuminare” le prospettive dei giovani detenuti. L’iniziativa, promossa dal Settore giovanile e scolastico della Figc e dalla fondazione Scholas occurrentes, è stata presentata nei giorni scorsi presso all’istituto penale minorile Ferrante Aporti di Torino. Lo scopo è di tutelare e rafforzare il valore educativo, morale e culturale del calcio attraverso un percorso per la formazione di istruttori sportivi, che dia ai giovani detenuti le necessarie competenze per poter proseguire un’attività nel mondo del calcio a fine pena. Parteciperanno al progetto dodici ragazzi dell’istituto penitenziario individuati dalla direzione, ma anche cinque agenti di polizia penitenziaria. Durante i corsi saranno presenti gli educatori dell’associazione Essereumani, il coordinatore regionale del Settore giovanile scolastico del Piemonte e Valle d’Aosta Luciano Loparco e tutto lo staff tecnico della Figc che svolgerà le attività pratiche con i ragazzi durante i 10 incontri. “È un progetto prima di tutto umano, piuttosto che tecnico. Vogliamo dare ai ragazzi uno strumento e una serie di conoscenze che permettano loro di guardare al futuro con più fiducia. Stiamo già parlando con le società del nostro territorio per fare in modo che un domani ci possa essere un percorso costruttivo per i partecipanti. Ringrazio la fondazione Scholas occurrentes, l’associazione Essereumani, ma soprattutto Gabriella Picco, direttrice dell’unità operativa dell’istituto penale minorile Ferrante Aporti per il grande sostegno e per la disponibilità”, ha affermato Luciano Loparco. Bari: “Facciamo i fantasmi” in scena all’Istituto penitenziario minorile di Lello Tedeschi baritoday.it, 16 giugno 2021 Va in scena “Facciamo i fantasmi”, lo spettacolo molto liberamente ispirato a “I giganti della montagna” di Pirandello, realizzato dai detenuti attori dello spazio teatrale “Sala prove”, curato da Lello Tedeschi all’interno dell’Istituto penitenziario minorile ‘Fornelli’ di Bari. “Facciamo i fantasmi” è in programma per tre repliche il 23, 24 e 25 giugno alle ore 20.30 in un apposito spazio all’aperto del Fornelli, in via Giulio Petroni 90, con i giovani detenuti che hanno preso parte al progetto di Teatri di Bari realizzato in collaborazione con Compagnia CasaTeatro. L’accesso è previsto esclusivamente su prenotazione fino a esaurimento posti, inviando una mail a botteghino@teatrokismet.it, scrivendo il proprio nome e cognome, numero di telefono e il giorno della replica a cui si intende assistere e allegando copia del documento di identità entro giovedì 17 giugno. Info 080.579.76.67 Scheda spettacolo: da I Giganti della Montagna di L. Pirandello in scena Haisè, Noemi Alice Ricco, Davide Sgamma ideazione e regia Lello Tedeschi. Nessuno di noi è nel corpo che l’altro ci vede, ma nell’anima che parla chi sa da dove... Facciamo i fantasmi. Tutti quelli che ci passano per la mente... e ce ne lasciamo incantare... E non è più un gioco, ma una realtà meravigliosa, quella in cui viviamo. L. Pirandello, I giganti della montagna - Nelle parole che Pirandello ha scritto dando voce a Cotrone, il mago della Villa degli Scalognati ne “I giganti della montagna”, abbiamo incontrato, detenuti e non, il senso del nostro lavoro in Sala Prove. Fino ad averne quasi paura: giochiamo con così tanto gusto e piacere a fare i fantasmi, in sala Prove, che alla fine rischiamo di credere più a questi che a noi, fino a confonderci tra di essi, a smarrirci, a ritrovarci felici ma a volte anche lontani e soli, proprio come gli Scalognati della Villa. Questo lavoro nasce da questo sentimento, quasi una dichiarazione identitaria, in chiave poetica, del nostro fare teatro in un carcere minorile. Il nucleo artistico della Sala Prove è mobile, composto da attori di fuori e attori di dentro. Introduce di continuo giovani detenuti che incontrano il teatro per la prima volta, mossi da una scintilla di desiderio che nasce anzitutto dalla curiosità e dal bisogno di trascorrere diversamente parte del proprio tempo di detenzione. Dopo qualche tempo qualcuno va, qualcuno resta. Il nucleo si stabilizza per un tempo determinato e si comincia davvero, insieme agli attori di fuori, per un lavoro di scena che è una scoperta imprevedibile, una sorpresa, un incontro che è rigore e fatica ma anche dono inatteso, cosa mai vista né vissuta accolta come uno spiazzamento, accogliendo una diversa visione e possibilità di sé. In questa condizione il teatro, da spazio di intrattenimento, pare a volte proprio trasformarsi in luogo di manifestazione dei fantasmi evocati da Pirandello, ovvero della nostra “anima che parla chi sa da dove”. Ed è quest’anima che proviamo a restituire agli spettatori, felici dell’incontro ma con un lieve sentimento di solitudine, come se l’eco delle mura dell’Istituto in cui vive il nostro teatro in parte ci divori e ci isoli tutti, fino a crederci davvero un po’ come i fantasmi che abbiamo evocato. Ricette dietro le sbarre: il primo libro scritto dai detenuti delle carceri italiane di Roberta Rampini Il Giorno, 16 giugno 2021 Ci sono le ricette delle lasagne light, del tiramisù, delle arancine siciliane e della Miascia, un dolce tipico lombardo. Frammenti di vite dietro le sbarre. Emozioni e ricordi. C’è tutto questo nel libro “Cucinare al fresco” scritto dai detenuti e dalle detenute di dodici istituti di pena italiani, tra cui Como-Bassone, Bollate, Opera, Varese, Sondrio, Alba, Pavia, Monza, edito da L’Erudita, in vendita da oggi in tutte le librerie italiane. Il progetto è stato ideato da Arianna Augustoni, giornalista e volontaria in carcere, “Cucinare al fresco è iniziato in sordina tre anni fa nel carcere del Bassone di Como, grazie all’allora direttore Carla Santandrea. Poco alla volta è entrato in altre carceri - spiega - non è solo un laboratorio, ma ha un valore più profondo, in quanto i detenuti durante le lezioni raccontano le loro emozioni, le speranze, le difficoltà e, seppur con difficoltà, assaporano la libertà attraverso i sorrisi che si condividono o le notizie che vengono raccontate. L’iniziativa è nata proprio per portare all’esterno i sapori e i profumi della cucina vissuta dietro le sbarre”. La prima raccolta di ricette preparate dietro le sbarre è stata presentata a Palazzo Pirelli alla presenza del presidente del Consiglio regionale della Lombardia Alessandro Fermi, della coordinatrice del progetto Augustoni, del direttore del carcere comasco Fabrizio Rinaldi, di Giorgio Leggieri direttore del carcere di Bollate e della Presidente della Commissione speciale sulla situazione carceraria Antonella Forattini. “Si tratta di un’iniziativa molto bella e molto valida, che offre stimoli intelligenti a chi sta scontando pene all’interno delle carceri - ha sottolineato il Presidente Fermi - Un modello di collaborazione tra agenti, persone ristrette e agenti di Polizia penitenziaria che può essere replicato in altri istituti e che offre opportunità concerete di formazione professionale per il post detenzione”. Centoventi pagine, ricette e profumi che raccontano storie. “Abbiamo ricominciato a vivere, ad assaporare la libertà. Cucinare al fresco non è semplicemente un ricettario, ma una speranza, un percorso per comprendere meglio un cammino di riabilitazione - racconta Luigi, un detenuto che partecipa al progetto - È una testata giornalistica ideata e scritta da persone che hanno perso la libertà, ma che non si sono perse d’animo e hanno deciso di rimettersi in gioco per fare qualcosa di buono attraverso il cibo, spiegando i metodi utilizzati nelle stanze di reclusione per cucinare con le risorse a loro disposizione”. Ricette che riportano all’infanzia, alla propria madre, “che, seppure in difficoltà, non ha mai fatto mancare nulla ai figli, quel panino con lo zucchero o con una fetta sottilissima di formaggio, perché doveva bastare per tutti”. Ma anche ricette che evocano ricordi amari, “ho approcciato i gruppi di lavoro con grande leggerezza cercando di mettere al centro di ogni lezione loro, i detenuti e le detenute, coloro che mi hanno dato fiducia e stimolata a proseguire - conclude la coordinatrice Augustoni - Ho lasciato a loro il compito di organizzare il progetto in base alle singole esigenze, ma sempre con un solo obiettivo: raccontare le proprie esperienze in cucina attraverso un linguaggio corretto e preciso. Dal racconto alla scrittura il passo è stato breve, in quanto le tante nozioni sono state organizzate per dare vita a una pubblicazione che raccontasse queste esperienze anche all’esterno”. Con il cuore di padre oltre le sbarre di Davide Dionisi L’Osservatore Romano, 16 giugno 2021 “La luce dentro”, un documentario, prodotto da Apulia Film Commission e Fondazione “Con il Sud”, vincitore del Social Film Fund Con il Sud, che racconta il Meridione attraverso il sociale. La pellicola, girata tra le mura della Casa Circondariale di Lucera. “Il nostro papà è una persona speciale perché cerca di far sentire sempre la sua presenza. Quando è fuori, giochiamo e ci divertiamo insieme tutto il giorno. Una volta il giudice gli ha permesso di trascorrere un mese con noi e lui si è dato da fare per realizzare con le sue mani una stanza tutta nostra”. Gianni e Simone parlano del loro padre, Mario, in carcere da 14 anni, e i loro occhi si illuminano quando lo descrivono come “uomo alto, intelligente, cuoco provetto e anche spiritoso. Quando è dietro ai fornelli ci racconta un sacco di storie divertenti”. L’entusiasmo lascia il posto alla tristezza, invece, quando sperano che al più presto “venga assunto in un negozio”. Motivo? “Così passa più tempo con noi”. Per i due ragazzini, il loro papà ha una marcia in più: “Ci sorprende la sua forza” rivelano. “Quando deve tornare dentro, non si mostra dispiaciuto, perché non vuole che soffriamo”. La storia di Mario è quella di tanti ospiti costretti a dividersi tra la cella e gli affetti familiari, dove da una parte figura il reato, dall’altra la pena, in mezzo i figli condannati a pagare per colpe che non hanno. Giornate trascorse a ridere, stupirsi, gridare e ad abbracciarsi solo nella fredda e asettica sala colloqui perché oltre il muro la paternità è “a distanza”. Ma Mario è un papà diverso e della sua voglia di riscatto se ne è accorto il regista Luciano Toriello che lo ha voluto tra i protagonisti de “La luce dentro”, un documentario, prodotto da Apulia Film Commission e Fondazione “Con il Sud”, vincitore del Social Film Fund Con il Sud, che racconta il Meridione attraverso il sociale. La pellicola, girata tra le mura della Casa Circondariale di Lucera, in provincia di Foggia, affronta proprio il delicato tema della genitorialità vissuta dietro le sbarre, proponendosi come una delicata riflessione intorno alle esigenze affettive ed educative dei bambini figli di padri detenuti, nonché del desiderio di riscatto e cambiamento di questi ultimi. L’eco dell’opera e la valenza del suo messaggio ha raggiunto anche i palazzi del potere tanto che, il 20 marzo dello scorso anno, è stata proiettata all’interno della nuova aula del Palazzo dei gruppi parlamentari della Camera dei Deputati. “Mi hanno proposto di partecipare a un docufilm e all’inizio non ero certo di farlo perché raccontare se stessi non è mai facile” commenta Mario ricordando con commozione quei momenti. “Ma poi ho pensato che sarebbe stato un modo per far capire ai miei figli e a chi mi osservava la voglia di riscatto che c’è in me e per questo devo ringraziare chi mi ha offerto questa opportunità. All’inizio ero titubante - continua -. Ero bloccato dalla paura. Poi così non è stato perché hanno avuto molto rispetto per la mia figura e questo mi ha fatto rivedere in maniera positiva alcuni miei pensieri sui progetti che si svolgono in carcere con le associazioni. Ora partecipo molto di più, e più volentieri”. Tra le iniziative che oggi Mario apprezza di più “è quando ci permettono di passare un pomeriggio a giocare con i bambini nel cortile o nelle zone previste per lo svolgimento di queste attività”. L’esperienza della proiezione alla Camera dei Deputati ha suggellato la voglia di cambiamento. “Vedere tanta gente credere in me (mia moglie su tutti) e regalare un sorriso ai miei figli è stata la spinta decisiva. Il mio percorso di riabilitazione passa soprattutto attraverso la volontà di recuperare il tempo perso con loro ed essere di aiuto alla mia compagna che in tutti questi anni ha gestito da sola questa difficile situazione. Le sono davvero molto grato”. Secondo il regista de La luce dentro: “A me piace pensare che in realtà il cambiamento di Mario sia dovuto, seppur in minima parte, a questo progetto perché il cinema può essere inserito a pieno titolo nelle cosiddette attività trattamentali”. Toriello rivela, inoltre: “Ho avuto modo di intrattenere con lui una corrispondenza epistolare amichevole, di incontrare la moglie e i suoi figli. È sua ferma volontà di offrire a loro prospettive migliori rispetto a quello che hanno vissuto e, in parte, continuano a vivere”. Chiaro il riferimento del regista alla realtà particolarmente dura soprattutto per i ristretti i cui figli risiedono in altre città perché a causa dell’emergenza epidemiologica i colloqui visivi sono stati sospesi, sostituiti con le videochiamate, e la presenza del genitore detenuto, per i figli minori, nel 2020, è stata ancora di più a distanza. Mentre il ruolo di genitore, come dimostra la vicenda di Mario, è una molla per andare avanti in tanti percorsi rieducativi attivi negli istituti di pena: nello studio, nella formazione professionale, nel lavoro. Un detenuto che è genitore studia, lavora e “recita” non solo per se stesso: lo fa anche per essere un padre migliore. L’11 maggio del 2015, durante l’incontro con i bambini de “La Fabbrica della pace”, rispondendo ad una figlia di un detenuto che domandava se ci fosse una possibilità di perdono “per chi ha fatto cose brutte”, Papa Francesco rispose: “Siamo noi a non trovare strade di perdono, tante volte per incapacità o perché è più facile riempire le carceri che aiutare ad andare avanti chi ha sbagliato nella vita. Sei caduto? Alzati! Io ti aiuterò ad alzarti, a reinserirti nella società. Sempre c’è il perdono e noi dobbiamo imparare a perdonare, ma così: aiutando a reinserire chi ha sbagliato”. Nel ricordare il testo di una canzone degli Alpini, Francesco disse: “Nell’arte di salire, la vittoria non sta nel non cadere, ma nel non rimanere caduto. Tutti cadiamo, tutti sbagliamo. Ma la nostra vittoria su noi stessi e sugli altri, per noi stessi, è non rimanere caduti e aiutare gli altri a non rimanere caduti”. Il cuore di padre ha consentito a Mario di rialzarsi e di aiutare Gianni e Simone a crescere insieme ad un uomo alto, intelligente, spiritoso, forte e che sa cucinare. Un alpino “speciale”. Il dovere di decidere sui vaccini di Roberto Gressi Corriere della Sera, 16 giugno 2021 Dire che gli italiani vengono usati come cavie non è vero. E soprattutto non dà soluzioni, semina solo incertezze. Siamo tutti un po’ stanchi, provati dalle tante vite - persone, non numeri - perdute nella battaglia contro il virus. Logorati per le libertà negate e l’economia in affanno. Ma non è una buona ragione per perdere lucidità, razionalità, o addirittura per tornare al fai da te, alla demagogia, alle liti pretestuose, ai protagonismi inaccettabili, alle furbizie, addirittura alle divisioni sanguinose che hanno funestato la prima stagione della pandemia. Non adesso che la svolta c’è già, non ora che grazie ai vaccini abbiamo cominciato a riprenderci la vita, il diritto a lavorare serenamente, a riguadagnare il tempo perduto. Siamo un Paese che ha pagato un prezzo altissimo, 127.101 decessi, ma che ora è secondo in Europa solo alla Germania nelle somministrazioni dell’antidoto. Il negazionismo è stato spazzato via e tutti sappiamo che cosa sarebbe successo se avesse vinto. Gli italiani si sono messi in fila per vincere il morbo e le regioni, il sistema sanitario, seppure con risultati diversi, si sono impegnati perché le code fossero ordinate, il più possibile veloci, quasi sempre con operatori instancabili ed educati alla gentilezza. Sarebbe insopportabile ora dover tornare anche solo a discutere con i terrapiattisti del vaccino. Non lo meritano le persone che con fiducia hanno permesso che in pochi mesi le morti e i contagi crollassero, non lo merita la scienza che, non dimentichiamolo, ci ha messo in mano l’arma per sconfiggere il Covid in un solo anno. Oggi possiamo addirittura permetterci che i negazionisti continuino a pensare e a agire come vogliono, perché la scelta compiuta dalla stragrande maggioranza degli italiani è sufficiente a proteggere anche loro. E adesso bisogna decidere come andare avanti. Stabilire quali siano i farmaci più adatti per quella parte della popolazione che non ha raggiunto i sessanta anni, con particolare attenzione ai giovanissimi e soprattutto alle giovani donne. Il dramma di Camilla, la ragazza morta di trombosi dopo aver ricevuto la prima dose di AstraZeneca, impone a tutti scelte consapevoli. Ieri ci sono stati 1.255 contagi e 63 morti. Molti, moltissimi in meno rispetto ai giorni bui, ma 27 in più del giorno precedente. La sfida non è finita, anche se il tasso di positività è sceso allo 0,6%, il più basso di sempre. Oltre 28 milioni di italiani hanno ottenuto la prima iniezione vaccinale, più di 14 milioni hanno completato il percorso con il richiamo. C’è pieno motivo per essere ottimisti e per non concedersi pause. Domani, stando a quello che pare deciso al momento, si riuniranno il governo e i presidenti delle Regioni. Hanno un dovere irrinunciabile: discutere, non nascondere nulla, fare chiarezza con tutti i dati che hanno a disposizione e alla fine decidere. Scegliere la via migliore per proseguire la campagna vaccinale, in modo assolutamente unitario, vietati trucchi e smarcamenti. Questo Paese, di fronte alla pandemia, ha scelto la strada dell’unità nazionale proprio per impedire che interessi personali o di partito potessero gettare ombre sul percorso migliore da seguire. È anche miope pensare che strizzare l’occhio alle legittime paure di chi aspetta la seconda dose del farmaco possa recare dei vantaggi. Dire che gli italiani vengono usati come cavie non è vero. E soprattutto non dà soluzioni, semina solo incertezze, timori, sfiducia. Governare vuol dire scegliere, assumersi la responsabilità ed essere pronti a risponderne, non ci sono scorciatoie, mai. Di sicuro non ci sono quando si affronta una partita come questa. Droghe, il rischio di una conferenza fuori tempo di Susanna Ronconi* Il Manifesto, 16 giugno 2021 Abbiamo aspettato la notizia di una delega politica sulle droghe e della convocazione di una Conferenza nazionale per 12 anni, o meglio per 21 a Genova con don Gallo, se consideriamo che la Conferenza 2009 a Trieste non è stata che una claque di consenso alla legge Fini - Giovanardi. La notizia dell’avvio del percorso di organizzazione della Conferenza entro l’anno non può che essere una buona notizia, e anche una nostra vittoria: per anni l’abbiamo inclusa nella nostra agenda politica, fino a diffidare nel 2017 il governo per inadempienza. E tuttavia le buone notizie si stanno incagliando in ciò che apprendiamo, per altro, in tanti, in modo informale, perché manca qualsiasi dispositivo partecipativo trasparente e pubblico, precondizione minima. Il Dipartimento Politiche Antidroga sembra pensare che gli attori titolati alla partecipazione siano Ser.D e comunità, che sono importanti ma gli attori sono ben di più, società civile esperta, ricercatori indipendenti, le persone che usano droghe: non siamo a 30 anni fa, loro ci sono, sono organizzati e sono i primi “portatori di interessi”. Uno dei temi proposti circa il sistema di intervento recita “SerD, comunità e volontariato”: sono decenni che non è più così, il sistema ha setting, approcci e protagonisti diversi, solo uno sguardo in difesa dello status quo può non vederlo. La finalità generale recita, “la programmazione delle politiche relative alle dipendenze patologiche”. No, non siamo a 30 anni fa: a parte il linguaggio vetusto (e le parole sono pietre), non abbiamo alcuna possibilità di programmare se prima non valutiamo 30 anni di politiche penali, sociali, e sanitarie dagli esiti inefficaci quando non infausti. Nulla al di sotto di questo compito di valutazione. Non si possono poi centrare politiche che ricadono su milioni di persone che usano droghe secondo molti diversi modelli, limitandole alle cosiddette “dipendenze patologiche”, che meritano tutte le attenzioni ma sono una minoranza del fenomeno: lo scenario del consumo è radicalmente cambiato, e una Conferenza 2021 deve calibrarsi su consumi sempre più normalizzati, che non sono patologici ma che richiedono politiche innovative che si curino della sicurezza di chi consuma (“safety first”) e creino contesti che facilitino un uso sicuro, minimizzando rischi e danni. Ecco, la riduzione dei danni e dei rischi (RdD): nei lavori della Conferenza semplicemente la RdD non è nemmeno menzionata. Sembra un ritorno all’editto di Serpelloni del 2009, la RdD non s’ha nemmeno da citare. La RdD si pratica in Italia dagli anni 90, è nei LEA (sebbene inapplicati), ci lavorano centinaia di servizi, è pilastro delle politiche Europee; e soprattutto è il futuro, se si assume un principio di realtà e con esso la responsabilità politica di tutelare e promuovere la salute e il benessere di chi usa. La Strategia europea 2021-2025 le attribuisce un ruolo strategico, portandola fuori dalla generale “riduzione della domanda”, questa è la via. Nulla al di sotto di questo. E, poi, il mondo è cambiato: le politiche alternative avanzano nel solco della decriminalizzazione dei consumi e della regolazione legale di alcuni mercati. Vogliamo parlarne o la Conferenza sceglierà di librarsi in un tempo fuori dal mondo? Nulla al di sotto di questo. Noi - movimento per la riforma delle politiche sulle droghe - lavoriamo per una Conferenza nazionale all’altezza dei tempi e mettiamo a disposizione le nostre competenze. Insieme, riprendiamo l’iniziativa di una Conferenza autoconvocata, rinviata a causa della pandemia, per elaborare e comunicare ciò che in una agenda politica e scientifica deve esserci. Starà al processo partecipativo in corso stabilire se si tratterà di fruttuosa sinergia o se, e non lo vorremmo, ci ritroveremo di fronte a una nuova Trieste. *Forum Droghe Il Parlamento ha numeri e proposte. Sulla cannabis facciamo come gli Usa di Marco Perduca* Il Riformista, 16 giugno 2021 Riprende alla Camera la discussione delle pdl sui fatti di lieve entità per consumo di sostanze. Sulla carta c’è il favore per rivedere le pene. Il proibizionismo arranca, in un terzo degli Stati uniti la marijuana è legale. Basta ideologia: una questione di salute e scelte personali non può essere gestita col carcere. Oggi in Commissione Giustizia della Camera riprende il dibattito su proposte di legge concernenti fatti di lieve entità legati al consumo di sostanze stupefacenti proibite. Tra i testi presentati, quello del radicale Riccardo Magi prevede, tra le altre cose, anche la depenalizzazione della coltivazione domestica di cannabis. Sulla carta i numeri per rivedere le pene per consumi minimi sembrerebbero favorevoli, come favorevole è il contesto internazionale. Non solo: nella patria del proibizionismo un terzo degli Stati ha legalizzato la marijuana, ma dal dicembre 2020 la pianta (anche medica) è stata cancellata dalla IV tabella delle sostanze che la Convenzione Onu del 1961 ritiene pericolose. L’esempio degli USA e l’attenuata attenzione del controllo globale sulla cannabis dovrebbero incoraggiare quei parlamentari che, al momento delle decisioni, si fanno prendere dal timore di abbassare la guardia in tema di “salute” e “ordine” pubblico. Ai timorosi o timidi, ma anche ai contrari, occorre ricordare che se (anche) in Italia non s’è fatto alcun passo avanti per contenere il fenomeno è (anche) perché da 30 anni si persegue la via della penalizzazione piuttosto che quella della regolamentazione di produzione e consumo delle “droghe”. Rispetto al passato ci sono novità importanti anche a livello nazionale: la Ministra Fabiana Dadone ha annunciato l’intenzione di organizzare finalmente la Conferenza Nazionale sulle Droghe e la Ministra Marta Cartabia ha parlato in termini netti di “proporzionalità della pena” e “carcere come extrema ratio”. Niente come la penalizzazione di comportamenti che nella stragrande maggioranza non causano vittima necessita d’una revisione delle sanzioni (penali e amministrative) e niente come un problema, anche di salute, di scelte personali consapevoli dovrebbe esser gestito fuori dalle mura carcerarie. Infine, niente come una conferenza sulle droghe convocata dopo 12 anni dovrebbe far tesoro del contributo di chi, in modo indipendente e disinteressato, critica leggi e politiche che hanno contribuito a cristallizzare il problema invece che governarlo. La presenza delle sostanze proibite in Europa è stata presentata la settimana scorsa dall’Osservatorio sulle droghe e le dipendenze di Lisbona. Anche se i dati non sono omogenei e poco dettagliati, in nessuno dei capitoli della relazione c’è di che rallegrarsi. I dati relativi al 2017 e 2018 registrano un aumento di sequestri di tutte le sostanze, ampliamento delle infiltrazioni criminali maggiore purezza e aumento di decessi per overdose, spesso da policonsumo, in particolare tra gli ultra 50enni. In tutta l’Unione Europea, che conta mezzo miliardo di persone, nel 2018 le morti sono state 8300, in Italia 334. Il rapporto non prevede schede per Paese ma per quanto riguarda la cannabis in Italia si conferma che il 30% della popolazione (20 milioni di persone!) l’ha provata nell’arco della propria vita. Che ci sia qualcosa che non va è indubbio ma occorre un cambio controcorrente. Le proposte ci sono. I numeri, e forse i tempi, pure. Riuscirà la pragmaticità a prevalere su ideologia o tatticismi da “larghe intese”? *Associazione Luca Coscioni Ma l’alleato Erdogan nella Nato non era un dittatore? di Piero Ignazi* Il Domani, 16 giugno 2021 La presenza nell’alleanza atlantica di paesi di problematica democrazia, e persino “dittatoriali” secondo la definizione di Mario Draghi, come la Turchia, indebolisce la narrazione proposta da Joe Biden. Quando si fa finta di nulla sulla torsione illiberale e autoritaria di Recep Tayyp Erdogan e non si richiede nemmeno un gesto simbolico come la liberazione di giornalisti, intellettuali e politici critichi - come giustamente si pretende dalla Russia e dalla Cina - crolla la visione della Nato come alleanza a difesa della democrazia. Un dittatore - se così si considera Erdogan - non può sedersi accanto a leader democratici. La cascata di commenti entusiastici per i recenti meeting dei G7 e della Nato rischia di far perdere di vista alcuni gravi e persistenti problemi che affliggono tanto le democrazie occidentali quanto l’alleanza militare del Patto atlantico. Anche se abbiamo salutato con un enorme sospiro di sollievo la vittoria, sofferta, di Joe Biden alle elezioni americane, non possiamo altresì dimenticare cosa è successo nei mesi precedenti e successivi alla competizione elettorale, fino all’apice dell’assalto a Capitol Hill. Le democrazie sono ancora sotto stress ovunque, il test finale della loro resistenza verrà dalle elezioni francesi dell’anno prossimo e da quelle italiane, paesi nei quali partiti che coabitano nello stesso gruppo estremista al parlamento europeo hanno buone possibilità di vincere. E poi vedremo cosa succederà nelle altre nazioni in mano a governi “autocratizzanti” come Polonia e Ungheria: ritroveranno la retta via democratica o si inclineranno verso una deriva turco-russa? Il sentimento antipolitico e antipartitico in Occidente non è scomparso. Tuttavia la presidenza Biden ha innalzato il sistema e i valori democratici a vessillo delle nazioni del G7, in contrapposizione ai regimi autoritari. E finalmente, dopo le porte aperte degli anni Novanta, ha riconosciuto nella Cina il vero avversario strategico, relegando implicitamente la Russia a problema regionale. Del resto, un paese con nemmeno 150 milioni abitanti e un Pil che non lo colloca nemmeno nei i primi 10, potrà creare tensioni regionali e “nel cortile di casa”, o al limite nel Mediterraneo, ma niente di più. Del tutto diversa la sfida della Cina per le sue dimensioni, la sua economia e la sua crescente assertivita sul piano internazionale. Di fronte a questo scenario l’America ha riproposto una politica estera fondata sui valori. L’insistenza su questo aspetto non riesce però a celare che esistono anche interessi e convenienze tattiche che, inevitabilmente, ottundono l’enfasi sui grandi principi. La riunione Nato dell’altro giorno ha dato una prova plastica di come le dichiarazioni ufficiali possano essere contraddette dalla pratica. La presenza nell’alleanza atlantica di paesi di problematica democrazia, e persino “dittatoriali” secondo la definizione di Mario Draghi, come la Turchia, indebolisce la narrazione proposta da Joe Biden. Quando si fa finta di nulla sulla torsione illiberale e autoritaria di Recep Tayyp Erdogan e non si richiede nemmeno un gesto simbolico come la liberazione di giornalisti, intellettuali e politici critichi - come giustamente si pretende dalla Russia e dalla Cina - crolla la visione della Nato come alleanza a difesa della democrazia. Un dittatore - se così si considera Erdogan - non può sedersi accanto a leader democratici. Va emarginato e messo al bando. Se poi, come sostiene il nostro presidente del consiglio, la Turchia costituisce un partner affidabile, allora lasciamo perdere i grandi proclami. Ed evitiamo gaffes. *Politologo Il sogno infranto dei tunisini di Jacopo Lentini Il Manifesto, 16 giugno 2021 Non solo migranti. Sono infatti molti i giovani che in patria studiano lingua e letteratura italiana ma poi, una volta qui, scoprono un Paese diverso da quello immaginato da adolescenti. Una passeggiata al mercato di Porta Palazzo a Torino. È bastata questa ad Abir Shili, 27enne tunisina, per capire che l’Italia non è dorata come sembrava dalle immagini che vedeva da bambina su Rai 1, che fu trasmessa in Tunisia fino a metà degli anni Novanta. “Mentre smontavano le bancarelle vidi un signore marocchino raccogliere il cibo rimasto a terra per portarlo a casa. Rimasi scioccata perché non pensavo di vedere queste scene anche qui”, spiega questa giovane originaria di Sfax, 300 km a sud-est di Tunisi. Secondo lei, quest’immagine del 2016, quando si trasferì per un anno in Piemonte grazie a una borsa di studio, non sarebbe stata così spiazzante se a quel tempo avesse già fatto gli studi di italianistica. Shili ha cominciato solo l’anno successivo la facoltà di Lingua, letteratura e civiltà italiana all’Università de La Manouba di Tunisi, dove ha capito che “ci sono differenze tra quello che sognamo e ciò che esiste veramente”. Anche Abou El Alaa Dabboussi ha rivisto la sua idea dell’Italia. È un ex studente della stessa facoltà, oggi 30enne e insegnante di italiano in un liceo di Tunisi. Si ricorda quando da ragazzo gli italiani dalla Sardegna venivano a comprare il corallo a Tabarka, la sua città costiera del nord-ovest tunisino. “Mi davano l’idea di un mondo lontano, felice ed esotico, di cui non capivo quasi nulla nonostante i miei cugini vi fossero emigrati”, spiega accusandone la mancanza di comunicazione. “Sapevo solo se avevano ottenuto i documenti, trovato lavoro o comprato una macchina”. Nel corso degli anni Dabboussi ha ridimensionato l’esotismo delle sue memorie adolescenziali sull’italianità, ma di quest’ultima “solo all’università ne ho compreso la dimensione concreta”, spiega lui. Come quando ha studiato letteratura comparata, ad esempio analizzando “Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio”, libro del 2006 di Amara Lakhous, scrittore algerino naturalizzato italiano. I protagonisti del racconto, condomini di varie culture di una palazzina romana, offrono agli inquirenti la propria versione dei fatti dell’omicidio di un uomo trovato morto nell’ascensore. Le differenti ricostruzioni di ciascuno evidenziano stereotipi e pregiudizi verso l’altro, che faticano ad accettare. “Ho capito che la società italiana è complessa, a volte polarizzata, non sempre così diversa da quella tunisina, anche se è più conservatrice”, spiega l’insegnante. La facoltà de La Manouba è l’unica nel Paese che offre una formazione magistrale di italianistica e dal 2016 ne fa parte anche la Cattedra Sicilia, la prima al mondo di lingua e cultura sicula. “Sapevo che ci fossero molti tunisini in Italia, ma non che i rapporti tra le due sponde del Mediterraneo fossero così stretti”, spiega Shili che l’ha frequentata. Ha scoperto che Mazara del Vallo, nel trapanese, è casa della più identitaria comunità tunisina d’Italia. Ora sa che qui, anche per i tunisini stabilitisi un tempo per lavorare nella pesca, il progetto migratorio di fare fortuna e tornare in patria è fallito. “Adesso capisco perché a Mahdia - cittadina costiera a 200 km sud-est di Tunisi - c’è un quartiere soprannominato “Mazara”, dove ci sono le case degli emigrati in Italia”. Shili, Dabboussi e tanti altri come loro non cadono dalle nuvole. Non provengono dalle zone più remote della Tunisia, sono connessi in rete e sono di famiglie mediamente benestanti. Sanno che oggi, per molti tunisini, l’Italia è solo un ponte per raggiungere altre mete in Europa. E hanno anche studiato italiano al liceo, quando lo hanno scelto come terza lingua al penultimo anno. “Perché è considerato facile, come un francese maccheronico. In realtà affascina molti ragazzi”, spiega Mouin Camano, 25 anni, archivista dell’Istituto culturale Dante Alighieri di Tunisi e laurendo di italianistica a La Manouba. “Ma ai giovani mancano vere occasioni di confronto e dell’Italia vedono solo il volto dei professori che gli insegnano la lingua a scuola”. Camano, che viene da Gafsa, nell’entroterra tunisino, non aveva idea dell’esistenza dei dialetti italiani e delle differenze nord-sud dello Stivale, tanto da essere stata “una scoperta speciale” durante gli studi. E ripensa a quando un suo compaesano sbarcato a Lampedusa, insieme ad algerini e migranti di altre nazionalità, gli raccontò di essere stato tra i primi prelevati dalla polizia per il rimpatrio. Ora avrebbe potuto spiegargli che non si trattava di ostilità verso i tunisini, ma degli accordi bilaterali Italia-Tunisia. Eppure “spesso è più corretta la percezione che hanno i tunisini dell’Italia piuttosto che quella che hanno gli italiani della Tunisia, compresi alcuni della classe medio-alta”, spiega Alfonso Campisi, professore ordinario di filologia romanza all’Università de La Manouba, trapanese e fondatore della Cattedra Sicilia. “Una certa intellighènzia nostrana a volte ha persino paragonato la Tunisia agli scenari libici”. Anche se a La Manouba le materie di italianistica non vertono in primis sull’attualità, “gli spunti di riflessione sul presente sono ampi e il corso di cultura siciliana, in particolare, è uno dei pochi del panorama accademico locale che fotografa la realtà italiana di oggi”. Camano spera di vederla di persona: “l’Università di Bari mi ha offerto una borsa di studio per un corso di italiano di un mese, a settembre. Chissà se riuscirò ad andarci”. Ma le speranze muoiono spesso all’ambasciata italiana di Tunisi, dove studenti, professori e lavoratori vedono rifiutarsi il visto pur avendone i requisiti. E molti vanno in Francia o persino in Ungheria a studiare italiano Egitto. Zaki e il compleanno in cella: “Caro Patrick, ti puniscono perché sei libero” di Marta Serafini Corriere della Sera, 16 giugno 2021 Lo studente in carcere da 494 giorni compie 30 anni. L’amico e portavoce della campagna Patrick Libero: abbiamo paura di tornare in Egitto. “Ci siamo conosciuti in piazza Tahrir, all’epoca frequentavamo entrambi la Germany University del Cairo e avevamo creato un gruppo politico per portare le idee della rivoluzione all’interno dell’Università. Combattevamo soprattutto per un sistema educativo migliore e per la libertà”. Per Mohamed Hazem, ingegnere informatico, oggi di stanza a Berlino, parlare di Patrick non è facile. Soprattutto oggi che quell’amico caro compie 30 anni, lontano, rinchiuso in una cella da 494 giorni (il 2 giugno gli è stata per l’ennesima volta rinnovata la custodia cautelare di 45 giorni). Quando è stata l’ultima volta che vi siete visti? “Era aprile o maggio del 2019, all’improvviso me lo sono trovato alla porta, mi aveva fatto una sorpresa ed era venuto a trovarmi a Berlino. Patrick è così. Era molto preoccupato della sua sicurezza in Egitto, mi disse che era contento di trasferirsi a Bologna per studiare. Ci eravamo ripromessi di rivederci in Italia”. Lei oggi è uno dei portavoce della campagna Patrick libero, ogni giorno postate aggiornamenti in arabo, italiano e inglese. Quali sono le sue condizioni di salute? “Le prigioni egiziane sono tra le peggiori al mondo, se i familiari gli mandano del cibo il più delle volte non gli viene dato, anzi viene buttato o rubato. Ha problemi a dormire, soffre ancora dolori lancinanti alla schiena. E nell’ultimo mese la sua asma è peggiorata, temiamo a causa del Covid, per il quale non è stato vaccinato”. Patrick ha il Covid? “Non possiamo averne certezza, dato che in quella prigione non fanno i tamponi. Ma siamo certi che l’abbia avuto e che abbia indebolito la sua salute già fragile”. Psicologicamente come sta? “È frustrato, triste e depresso, come comprensibile. Spero che possa riabbracciare un giorno da suo padre che è molto malato e che possa tornare ad avere contatto con il mondo. Conoscendolo, immagino che la cosa che lo distrugga di più sia non sapere cosa succede qua fuori”. Molti studenti egiziani all’estero non rientrano più a casa per paura che capiti loro la stessa cosa... “Certo. E se ad un certo punto hai bisogno di farlo, sai che andare all’aeroporto significa avere il telefono controllato. Inoltre se ti rifiuti di mostrarlo, ti arrestano. Questa è la regione per cui molti chiudono i profili social prima di tornare. È pratica comune ed è un modo per silenziare le persone”. Questo vale anche per chi non fa attivismo? “Sì, perché il regime egiziano è imprevedibile. Possono decidere di arrestarti semplicemente per far paura agli altri. Con Patrick è stato così. Puniscono la libertà, di qualunque tipo sia”. Dunque difficile anche ipotizzare cosa succederà a Patrick... “Nessuno può dirlo ma non è molto difficile essere ottimisti. Quello che gli stanno facendo è contrario perfino alla legge egiziana. È detenuto in assenza di qualunque tipo di prova. Non c’è nulla contro di lui. E allora possiamo solo continuare a chiedere ai governi europei di smetterla di sostenere economicamente e militarmente quel regime che ha fatto questo ad un ragazzo di 30 anni, la cui unica colpa è esistere”. India. La Corte suprema chiude il caso dei marò: il risarcimento è sufficiente di Matteo Miavaldi Il Manifesto, 16 giugno 2021 I giudici supremi stabiliscono che il milione di euro pagati alle famiglie dei due pescatori uccisi nel 2012 e al proprietario del peschereccio bastano a interrompere qualsiasi procedimento penale contro Latorre e Girone. Giubilo di Di Maio e Gentiloni, ma dure critiche arrivano da Paola Moschetti, moglie di Latorre. Ieri mattina la Corte suprema indiana ha stabilito la chiusura di ogni procedimento penale sul territorio indiano a carico dei fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, accusati di aver ucciso i due pescatori Ajesh Binki e Valentine Jelastine al largo delle coste del Kerala il 15 febbraio 2012. La Corte ha applicato l’accordo raggiunto tra Italia e India nel luglio del 2020 presso il Tribunale arbitrale dell’Aja. Secondo l’arbitrato, i due fucilieri in servizio anti-pirateria a bordo della petroliera privata Enrica Lexie hanno agito “nell’esercizio delle loro funzioni militari” e pertanto è stata riconosciuta all’Italia la giurisdizione esclusiva del caso. Ma aprendo il fuoco contro il peschereccio St. Anthony, i militari italiani a bordo della Lexie hanno violato la libertà di navigazione dei pescatori indiani, causando anche due vittime. Per questo, l’arbitrato aveva disposto che Italia e India trovassero un accordo economico per risarcire il proprietario del peschereccio e le famiglie di Binki e Jelastine. La Repubblica italiana ha versato 100 milioni di rupie - pari a 1,1 milioni di euro - come “indennizzo” alle parti coinvolte. Una cifra che la Corte suprema ha giudicato “ragionevole e adeguata”. A ciascuna delle famiglie delle vittime andranno 40 milioni di rupie, mentre i restanti 20 milioni risarciranno il proprietario del peschereccio St. Anthony. Il ministro degli esteri italiano Luigi di Maio ieri ha commentato la vicenda in un tweet: “Chiusi tutti i procedimenti giudiziari in India nei confronti dei nostri due marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Grazie a chi ha lavorato con costanza al caso, grazie al nostro infaticabile corpo diplomatico. Si mette definitivamente un punto a questa lunga vicenda”. “Si chiude il caso con l’India. Un successo della diplomazia italiana”, ha twittato Paolo Gentiloni, commissario europeo all’Economia che durante il confronto diplomatico tra India e Italia ha ricoperto le cariche di ministro degli esteri e presidente del consiglio. Di tenore opposto la reazione di Paola Moschetti, moglie di Massimiliano Latorre, che ha spiegato all’agenzia Ansa: “Da nove anni sono costretta a parlare a nome di mio marito. A lui è stato fatto esplicito divieto di parlare pena pesanti sanzioni. È vincolato al segreto. È ora di chiedersi perché le autorità militari vogliono mantenere il segreto su ciò che sa e vuol dire. Quello che so è che per la politica italiana siamo stati carne da macello. Presto Massimiliano si presenterà alla procura di Roma”. Nel 2012 la procura di Roma aveva aperto un fascicolo per omicidio volontario scrivendo Latorre e Girone nel registro degli indagati. Nelle prossime settimane i pm riprenderanno le indagini e convocheranno entrambi i fucilieri per ascoltare la loro versione dei fatti. India. Le domande sul caso dei marò che finora nessuno ha fatto di Matteo Miavaldi Il Manifesto, 16 giugno 2021 In attesa del procedimento della procura di Roma, sorgono alcuni interrogativi. Chi ha deciso che il 19 febbraio, quattro giorni dopo l’incidente, Latorre e Girone dovevano consegnarsi spontaneamente alle autorità indiane? E perché proprio loro due? Latorre e Girone hanno sparato con armi non loro? Le risposte a queste domande chiamano in causa l’intera catena di comando politica e militare. Responsabile di aver mandato a bordo di una petroliera privata, in missione antipirateria, sei fucilieri di Marina Dopo quasi dieci anni, intorno al caso Enrica Lexie ci sono ancora troppe domande lasciate senza risposta. Il 2 giugno 2014 i due fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, dall’ambasciata italiana di New Delhi, si collegano in videoconferenza con il parlamento italiano in occasione della Festa della Repubblica. A un certo punto prende parola Salvatore Girone e dice: “Abbiamo obbedito a degli ordini, e oggi siamo ancora qui presenti. Abbiamo mantenuto una parola, quella che ci era stata chiesta di mantenere e che ancora con dignità e onore per la propria nazione, onore per tutti i soldati italiani, onore per tutti i popoli del mondo, continuiamo a mantenere”. Quello di Girone, si disse all’epoca, non era altro che uno sfogo di un militare costretto dalla legge indiana lontano dal proprio Paese da oltre due anni. Vittima di un complotto internazionale ordito contro “i nostri marò”. Sono passati più di sette anni, più di nove dalla morte dei pescatori Ajesh Binki e Valentine Jelastine, e cosa sia successo veramente quel 15 febbraio 2012 a pochi chilometri dalle coste dell’India meridionale ancora non lo sappiamo. Sappiamo solo che sono morti due pescatori indiani, innocenti. Per quasi un decennio, al netto della gazzara politico-mediatica imbastita in Italia intorno alla vicenda dei “due marò”, Italia e India hanno ingaggiato un durissimo scontro prima diplomatico, poi legale, senza nemmeno avvicinarsi alla materia vera e propria del contendere: determinare chi abbia premuto il grilletto che ha ucciso due pescatori innocenti. Da oggi, con la chiusura definitiva dei procedimenti a carico di Latorre e Girone in territorio indiano, la giustizia italiana ha l’opportunità non solo di far emergere la verità di quel giorno, ma anche di rispondere a moltissimi interrogativi che le parole di Girone sollevano da sette anni. “Abbiamo ubbidito agli ordini”. Di chi? E soprattutto, che ordini? Di sparare? O di scendere dalla petroliera Enrica Lexie e consegnarsi volontariamente alle autorità indiane, prendendosi la responsabilità di aver imbracciato fucili e fatto fuoco in direzione del peschereccio? “Abbiamo mantenuto la parola, quella che ci era stata chiesta”. Chiesta da chi? E quale parola data? Qual è stata la promessa di silenzio chiesta, e ottenuta, a Latorre e Girone, a cui da quasi dieci anni è stato proibito di parlare con la stampa o in pubblico, pena provvedimenti disciplinari? Come auspicato dal senatore Luigi Manconi dalle pagine di Repubblica lo scorso marzo e dall’avvocato Fabio Anselmi, che rappresenterà Massimiliano Latorre, il procedimento che si sta istruendo presso la procura di Roma sarà l’occasione per provare a chiarire i tanti lati oscuri del caso Enrica Lexie. Da queste colonne, ci permettiamo di sollecitare alcuni interrogativi. Chi ha preso la decisione di far fuoco sul peschereccio St. Anthony? E chi ha deciso di far proseguire la navigazione dell’Enrica Lexie dopo aver aperto il fuoco, per ore, senza fare rapporto alle autorità costiere del presunto “attacco pirata scampato”, finendo per farla inseguire dalla Guardia costiera indiana? Chi ha deciso che il 19 febbraio, quattro giorni dopo l’incidente, Latorre e Girone dovevano consegnarsi spontaneamente alle autorità indiane? E perché proprio loro due, se la perizia balistica svolta dalla scientifica del Kerala, affiancata da due carabinieri del Ros come osservatori, ha indicato che le matricole dei fucili che hanno esploso i proiettili rinvenuti sul peschereccio non sono quelle di Latorre e Girone, ma dei fucilieri Voglino e Andronico? Latorre e Girone hanno sparato con armi non loro? O a sparare quei proiettili italiani è stato qualcun altro? Le risposte a queste domande chiamano in causa non solo Latorre e Girone, i principali indagati dalla procura di Roma con l’accusa di omicidio volontario, ma l’intera catena di comando politica e soprattutto militare. Responsabile, con una legge del 2011 tuttora in vigore, di aver mandato a bordo di una petroliera privata, in missione antipirateria, sei fucilieri di Marina. Quando quasi la totalità della comunità internazionale, proprio per evitare questa odissea giudiziaria, ha delegato tale compito a contractor. Paola Moschetti Latorre, moglie di Massimiliano, ieri ha detto che Latorre e Girone e le rispettive famiglie sono stati trattati dalla politica italiana come “carne da macello”. È il termine di una parabola mediatica e politica che per anni, sulla stampa e in parlamento, ha depistato, mistificato e strumentalizzato la vicenda dei fucilieri di Marina per i fini più disparati. Meno che la ricerca della verità. India. “Il segreto di Stato per impedire a Latorre di dire cos’è accaduto” di Matteo Miavaldi Il Manifesto, 16 giugno 2021 Parla l’avvocato dei due marò Fabio Anselmo: “Se ci sono le prove, verranno dichiarati colpevoli; se fossero sparite, dovremo capire perché. La formazione della verità si fa con le indagini e un processo. La sentenza della Corte suprema indiana è lontana da questa realtà”. Nella giornata di ieri la Corte suprema indiana ha stralciato tutte le accuse rivolte ai due fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. Il governo italiano, secondo gli accordi stipulati tra Italia e India presso il Tribunale Arbitrale dell’Aja, ha pagato al proprietario del peschereccio e alle famiglie di Ajesh Binki e Valentine Jelastine - i due pescatori rimasti uccisi al largo delle coste del Kerala il 15 febbraio 2012 - un indennizzo pari a 1,1 milioni di euro. Abbiamo raggiunto telefonicamente l’avvocato Fabio Anselmo, che rappresenterà il fuciliere Massimiliano Latorre al processo che si istruirà - secondo Anselmo, “a breve” - qui in Italia. Avvocato Anselmo, come giudica la sentenza della Corte suprema indiana e il versamento di 1,1 milioni di euro da parte del governo italiano? La sentenza della Corte suprema indiana non ci sorprende. Però quello che diventa davvero surreale è che, di fatto, si fa una comunicazione il cui oggetto è un’affermazione di responsabilità a carico di persone che non hanno avuto nessun ruolo in quei procedimenti. Sono rimasti completamente estranei. Non se ne fa una responsabilità alla stampa, però di fatto a livello mediatico il messaggio è comunque che i due marò sono colpevoli e l’Italia ha pagato per questo. Quando, viceversa, si impedisce ai due marò, soprattutto a Massimiliano Latorre, di poter dire invece la sua su ciò che realmente è accaduto. Perché il fuciliere Latorre non ha potuto dire la sua finora? Perché vi sarebbe questo segreto di Stato la cui violazione esporrebbe il militare alle reazioni dell’istituzione. Non dimentichiamo che Massimiliano Latorre ha avuto anche grossi problemi di salute e quindi questa forca caudina della perdita del posto di lavoro rende particolarmente vulnerabile e legittimo il senso di frustrazione che Paola (Mossetti Latorre, moglie di Massimiliano Latorre, ndr) ha voluto esprimere con tutta la sua amarezza, parlando di “carne da macello”. Noi attendiamo con ansia il giorno in cui verremo chiamati dal procuratore della Repubblica, perché così Massimiliano potrà dire la sua. È un po’ surreale quello che sta succedendo. Cioè, si paga qualcosa che non ci riguarda. Quando dice “non ci riguarda” intende che non riguarda Latorre e Girone o non ci riguarda come Paese? Non ci riguarda nel senso di Latorre e Girone. Nello specifico ci entreremo più avanti, adesso ancora non ci possiamo entrare. Bisogna ricordare che sulla petroliera Enrica Lexie non c’erano solo Latorre e Girone: la squadra dei fucilieri di Marina era composta da sei uomini. E secondo le perizie balistiche svolte dagli inquirenti in Kerala, alla presenza di due carabinieri del Ros in qualità di osservatori, i fucili che hanno sparato non erano di Latorre e di Girone, ma di altri due fucilieri: Renato Voglino e Massimiliano Andronico... Io questi dettagli preferisco non commentarli. Posso dire che deve partire un processo. Se ci sono le prove, verranno dichiarati colpevoli; se non ci sono le prove, verranno dichiarati innocenti; se le prove dovessero essere sparite, allora bisogna capire perché. Le reazioni della politica e del governo, a partire dal ministro degli esteri Luigi Di Maio, sembrano voler considerare chiusa la questione... Si parla di successo diplomatico. Io, per carità, rispetto la valutazione politica, però non ho capito che cosa abbiamo pagato. Se i due marò fossero innocenti, che cosa è stato pagato? Un riscatto? Il problema è che la formazione della verità si fa attraverso le indagini e un processo, disciplinato da regole che devono essere uguali per tutti. Questo è il concetto. Ora, la sentenza della Corte suprema indiana è molto lontana da questa realtà. Così come lo è l’arbitrato dell’Aia. È un arbitrato, non è un accertamento di verità. Mi capisce? Sono tutti eventi rispetto ai quali noi siamo stati estranei, totalmente, estranei. Però questa era la strategia del governo italiano. Negli anni è stato chiaro che la strategia fosse quella di non arrivare a processo... Noi rispettiamo la strategia del governo italiano, per carità, però oggi non si dica che è stato un successo e che la questione è chiusa. Perché ci sono in ballo ancora le vite di queste due persone e delle loro famiglie, la loro dignità professionale, il loro onore. Insomma non è una questione chiusa. È una questione chiusa se si manca di rispetto ai due marò. E se si manca di rispetto anche alla verità giudiziaria. Quindi ci sarà un processo qui in Italia... Quello che posso dire è che c’è un fascicolo aperto da tempo, presso la procura di Roma, per omicidio. Stiamo parlando di un processo penale, però, non militare. Quindi ci saranno indagini, al termine delle indagini i pm stabiliranno se ci sono sufficienti elementi e prove per portare a giudizio gli indagati o se viceversa non ci sono queste prove e quindi se archiviarli.