L’articolo 27 e il garantismo: due elementi troppo spesso dimenticati di Luigi Camilloni Il Riformista, 15 giugno 2021 Vale la pena ogni tanto rileggere la nostra Costituzione perché le soluzioni ai tanti problemi italici risiedono proprio in questa grande Carta fondamentale ed in questo caso l’articolo 27. Oggi, nonostante l’articolo 27 della Costituzione stabilisca che “l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva” assistiamo a dei messaggi ‘diseducativi’ provenienti conferenze stampa ‘show’ da parte dei Pubblici ministeri dove viene calpestato il principio di non colpevolezza dell’imputato. E bene ha fatto la Corte Costituzionale ad intervenire al riguardo. Altro aspetto che è oggetto di dibattito in Italia è sempre contenuto nell’art. 27 C co. 3 dove recita che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al seno di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Nell’articolo 27 Costituzione sono contenuti due principi fondamentali del nostro ordinamento penale: la presunzione di non colpevolezza e la funzione rieducativa della pena. Il concetto di pena è uno dei concetti chiave del diritto penale e della criminologia ma quello che più è sbalorditivo è che oggi in Italia, la più afflittiva, la più punitiva delle pene, è quella detentiva. Rieducazione e funzione della pena - Non si può parlare di rieducazione e di funzione rieducativa della pena senza parlare di pena detentiva, cioè senza parlare di carcere. Il carcere resta tuttora, in Italia, la forma di pena più diffusa, con tutte le problematiche ad esso collegate: sovraffollamento, carenza di personale, mancanza di fondi per le attività, assenza di risposte concrete, ecc. Oggi il carcere è visto per l’opinione pubblica come un luogo di sofferenza, mentre di fatto è il ‘parcheggio’ dei delinquenti se non addirittura un’Università della delinquenza. Ecco perché il reinserimento sociale non può che avvenire tramite il lavoro anche per risarcire le vittime dei loro reati. L’applicazione della pena intesa come lavoro, trasformerebbe l’attuale sistema carcerario da “pozzo senza fondo” in una sorgente di guadagno per lo Stato e quindi per la collettività, fermo restando il diritto delle vittime ad essere risarcite. Ricordiamoci che il lavoro carcerario non deve avere carattere afflittivo, deve essere previsto in modo da tenere il detenuto attivamente impiegato per una normale giornata lavorativa e dovrebbe conservare o incrementare la capacità del detenuto di guadagnarsi onestamente la vita dopo la scarcerazione con un’organizzazione e con metodi del lavoro negli istituti uguali a quelli fuori. Valorizzare le attività - Ecco perché è necessario valorizzare dunque sempre di più le varie attività da svolgere all’interno dell’istituto penitenziario, prima tra queste quella di stampo lavorativo professionale. Serve un nuovo approccio sulla questione della pena rieducativa, cioè quello di una visione del lavoro in carcere che è un diritto dei detenuti: un diritto vero e proprio e non come una concessione di favore. Misure cautelari, nel 2020 circa 8mila persone sono state detenute ingiustamente di Simona Musco Il Dubbio, 15 giugno 2021 I dati “nascosti” della relazione di Via Arenula sull'ingiusta detenzione. Costa (Azione): “Troppi i tribunali che non trasmettono i dati al ministero”. Il 24% dei tribunali non ha risposto al ministero della Giustizia, che ha quindi dovuto ricavare i dati sulle ingiuste detenzioni e le misure cautelari per altra via. Un dato emblematico, che si aggiunge ad un altro particolare: nonostante sia l’extrema ratio, la misura cautelare più utilizzata rimane quella carceraria, risultando ingiusta in un caso su 10. Dato che raddoppia se alle assoluzioni si sommano i casi in cui, a prescindere dall’esito del processo, le misure cautelari potevano essere evitate, essendo facilmente prevedibile, sin dalla genesi dell’inchiesta, la concessione della sospensione condizionale: è capitato in ben 4.548 casi. Tutto questo si evince dalla relazione sulle “Misure cautelari personali e riparazione per ingiusta detenzione” riferita al 2020, relazione che il governo avrebbe dovuto consegnare alle Camere, per legge, entro il 31 gennaio. Ma per partorirla è stato necessario attendere il 9 maggio scorso, giorno in cui è apparsa sul sito del ministero della Giustizia. Su quelli delle Camere, invece, non c’è traccia, nonostante sia stata consegnata alle rispettive presidenze. A chiederne conto, ieri, è stato il deputato di Azione Enrico Costa, che con un tweet aveva bacchettato l’esecutivo sul mancato rispetto delle tempistiche prevista dalla legge 47 del 16 aprile 2015. La colpa, però, pare essere altrove: sul sito del Senato di tale relazione, infatti, non c’è traccia, su quello della Camera, nonostante la voce sia presente, il link risulta inaccessibile, rimanendo, di fatto, invisibile. Il documento, come detto, è però disponibile ed è stato anticipato, qualche settimana fa, dalle elaborazioni fatte dal sito errorigiudiziari.com. Stando al documento, a inviare i dati richiesti da via Arenula è stato il 76% dei tribunali, meno degli anni precedenti, quando la risposta superava l’80%, ma “i dati di taluni uffici che non hanno risposto sono stati ad ogni modo stimati”, scrive il ministero. Tale percentuale spiega la riduzione delle misure cautelari rispetto agli anni precedenti, dato al quale bisogna aggiungere anche il rallentamento delle attività degli uffici causa pandemia. Ma ad indignare Costa è proprio il silenzio ostentato alle richieste di via Arenula. “È incredibile che i Tribunali non rispondano nemmeno al ministero - spiega il deputato al Dubbio -. Ed è per questo che ho presentato un emendamento alla riforma del Csm prevedendo un’ipotesi di illecito disciplinare per i capi degli uffici che non trasmettono tempestivamente i dati statistici richiesti”. La relazione risulta aggiornata ad aprile: risale dunque a quella data il completamento della raccolta dati e la loro elaborazione, tenuto conto anche del cambio del governo. In totale sono state 82.199 le misure cautelari, delle quali 24.928 in carcere, 19.331 ai domiciliari senza braccialetto elettronico e 2.618 con braccialetto elettronico. In un anno, dunque, il numero di incarcerazioni è sceso di circa 6mila unità, ma i dati sono parziali. Le misure cautelari custodiali costituiscono, in totale, il 58% circa di tutte le misure emesse. Una su tre è quella carceraria (32%), mentre uno su quattro finisce ai domiciliari (25%). Misure che nei tre quarti dei casi (61.514) vengono stabilite dal gip mentre la restante parte viene emessa nelle sezioni dibattimentali. A detenere il record di misure cautelari in carcere, per distretto, è Roma, con quasi 10mila casi (12%), mentre per singolo tribunale a prevalere è Napoli, dove la percentuale è del 53,2%. La maggiore quota delle misure, in ogni caso, si concentra al nord (39,2%). Ma come si concludono le vicende processuali iniziate con un arresto? Per quanto riguarda i casi con misure cautelari coercitive - in totale 31.455 -, le condanne, nel 2020, sono state 28.586. Nove processi su 10, dunque, si sono conclusi con una condanna, definitiva in poco più di 7mila casi, ma il dato interessante è, come anticipato, un altro: quasi 5mila “casi” si sono conclusi con la sospensione condizionale della pena, tra processi definitivi e non, esito spesso prevedibile, ma che non ha evitato comunque l’applicazione della misura cautelare. E ciò nonostante sia la legge a vietarlo. Il Dipartimento per gli Affari di Giustizia sottolinea, infatti, che “il giudice non dovrebbe emettere le misure cautelari custodiali degli arresti domiciliari e del carcere in quei procedimenti ove ritenga possa essere concessa, con la sentenza di condanna, la sospensione condizionale della pena (ex art. 275, comma 2 bis, c.p.p.); tuttavia - si legge nella relazione - vi sono molteplici casi in cui tale norma risulta non essere stata osservata”. Per il ministero il dato è “quantitativamente trascurabile”. Per Costa, però, questa è ormai diventata una clausola di stile: “Nelle ordinanze di custodia cautelare spesso si dice che manca la prognosi della sospensione condizionale della pena. Ma in tanti casi lo stesso gip che firma l’ordinanza che poi fa patteggiare con la sospensione condizionale. Se sommiamo questi casi alle assoluzioni, circa il 20% delle misure cautelari risulta ingiustificato. Ma si parla di numeri come se non fossero persone”. In realtà il dato è ancora più alto: sommati alle assoluzioni, che riguarda circa il 10% delle persone finite in carcere o ai domiciliari, la percentuale di custodie cautelari ingiuste schizza al 25%. Il totale degli assolti ammonta a 3.331, di cui 462 con sentenza definitiva, 1.745, invece, con sentenza non definitiva di assoluzione, 289 definitiva per altro e 662 definitiva e non definitiva per proscioglimento a vario titolo. Altro capitolo della relazione è quello riferito ai provvedimenti di riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. Nel 2020 sono stati 1.108 i procedimenti aperti, la maggior parte dei quali a Napoli (143), Roma (137), Catanzaro (106) e Reggio Calabria (101). Di questi, 283 sono stati accolti e non sono più impugnabili, mentre sono 133 quelli accolti ma ancora soggetti ad impugnazione, circa 296 in meno rispetto al 2019. La maggior parte degli accoglimenti si registra a Reggio Calabria (43 casi). In 80 casi, la riparazione dipende dall’illegittimità dell’ordinanza di custodia cautelare, in 203 casi, invece, da sentenze di proscioglimento. Errori per i quali lo Stato, lo scorso anno, ha sborsato 36.958.291 euro, circa sette milioni in meno rispetto all’anno precedente, in riferimento a 750 ordinanze, con un importo medio, però, più alto rispetto al 2019: 49.278 euro contro i 43.487. La città che detiene il record di risarcimento è Reggio Calabria (7.907.009, con una media di 87.856 euro a testa), seguita da Catanzaro, con 4.584.530 euro, e Palermo, con 4.399.761 euro. Ma i magistrati, spiega il ministero, poco c’entrano con questi errori. “Appare evidente come Il riconoscimento del diritto alla riparazione per ingiusta detenzione - si legge - non possa essere ritenuto, di per sé, indice di sussistenza di responsabilità disciplinare a carico dei magistrati che abbiano richiesto, applicato e confermato il provvedimento restrittivo risultato ingiusto”. E ciò perché “la riparazione può riconnettersi ad ipotesi del tutto legittime di custodia cautelare accertata ex post come inutiliter data: di frequente, la richiesta e la conseguente adozione di misure cautelari si basa su emergenze istruttorie ancora instabili e, comunque, suscettibili di essere modificate o smentite in sede dibattimentale”. Sono pochi, nel 2020, i procedimenti disciplinari aperti, tutti relativi, di base, all’affaire Palamara: 21, nessuno dei quali concluso. Ma in totale, nell’ultimo triennio, sono stati 61 i fascicoli aperti, 57 dei quali su iniziativa del ministero, la maggior conclusi con un nulla di fatto: sono 12 le assoluzioni, 17 i provvedimenti di non doversi procedere. Solo 4 le censure, nessun ammonimento. In attesa della conclusione dei 25 ancora in ballo. Per Costa, il punto è che l’azione disciplinare sulle ingiuste detenzioni non esiste: “Vengono fatte solo in caso di mancata scarcerazione nei termini - spiega -, ma quando c’è riparazione per ingiusta detenzione nessuno va a ritroso a verificare chi ha sbagliato. Per questo ho proposto una legge che prevede il passaggio automatico del fascicolo al titolare dell’azione disciplinare. Ci sono casi in cui in istruttoria dibattimentale cambia tutto e non c’è errore. Ma tutto questo va analizzato, necessariamente”. Morire di Covid nelle carceri italiane. Il caso di Erio Pettinari di Luigi Mastrodonato Internazionale, 15 giugno 2021 L’ultima volta che Daniela Ernesti ha sentito la voce di suo marito era il 26 febbraio 2021. Alle 13.58 è squillato il telefono, la chiamata arrivava dal carcere di Orvieto. Erio Pettinari, 62 anni, le aveva telefonato anche qualche ora prima e il motivo era sempre lo stesso: non stava bene. Da qualche giorno era scoppiato un focolaio di covid-19 nella struttura umbra ed Ernesti temeva per la salute del marito. Aveva ragione di preoccuparsi. La sera del 27 febbraio Pettinari è stato portato all’ospedale di Terni: “Polmonite sars-cov-2 relata”, si legge nel verbale di ricovero. Il giorno prima, al telefono, non sapeva nemmeno di essere positivo. Tre settimane dopo, il 22 marzo, è morto da solo nell’ospedale di Terni, dov’era stato trasferito d’urgenza. “Lo stato non ha tutelato mio marito”, denuncia Ernesti, 60 anni, paziente oncologica e disoccupata. Quando in autunno il marito era stato condannato, nel bel mezzo della seconda ondata del 2020, lei sperava che avrebbe ottenuto una pena alternativa, dice al telefono da Zagarolo, dove vive. Del resto era stato portato in carcere per vecchi reati, aveva 62 anni ed era già gravemente malato. Ma niente è riuscito a fargli evitare la galera: ha passato gli ultimi giorni della sua vita in cella, così com’è successo ad altri 18 detenuti morti di covid-19. Dal febbraio 2020 le persone detenute che si sono ammalate sono state migliaia. Spazi stretti, poca pulizia e assenza di dispositivi di protezione individuale hanno favorito la circolazione del nuovo coronavirus molto più che all’esterno. Nel dicembre 2020 in media ogni diecimila detenuti c’erano 179 positivi, mentre fuori i positivi erano 110 ogni diecimila persone; nel febbraio 2021 c’erano 91 positivi ogni diecimila detenuti, mentre fuori il rapporto era di 68 positivi ogni diecimila persone. Alle morti dei detenuti si aggiungono quelle degli agenti della polizia penitenziaria, che sono state dodici. Nella storia di Erio Pettinari si ritrovano i limiti di un sistema che non ha saputo o potuto proteggere né chi ci lavorava né chi ci era rinchiuso. Raccontarla dall’inizio aiuta a capire perché. La prima volta in cella e la malattia - Da giovane Erio Pettinari aveva lavorato come ambulante in un mercato rionale di Roma. Negli anni novanta aveva perso la licenza e per guadagnarsi da vivere si era messo a rubare automobili e a rivenderle con le targhe cambiate. Nel 2001 e nel 2011 era stato condannato per ricettazione, ma visto che si trattava di reati non particolarmente gravi e di condanne brevi, le pene gli erano state sospese. Nel 2013 invece l’avevano arrestato in flagrante mentre rubava un’auto ed era entrato per la prima volta in carcere, in attesa del processo. A Rebibbia però era rimasto poco. Lamentava dolori lancinanti alla testa, causati dalla sindrome rara di cui soffriva, la Arnold Chiari, una malformazione cranica caratterizzata dalla discesa della parte inferiore del cervelletto nel canale spinale, tanto da provocare la riduzione o il blocco del passaggio del fluido cerebro-spinale. “Non ci sono medicine per curarla, può essere asintomatica o comportare forti mal di testa, difficoltà a camminare, insensibilità alle mani e ai piedi, percezione di scariche elettriche su tutto il corpo”, spiega Carlo Celada, presidente dell’Associazione italiana siringomielia e Arnold Chiari. “È una malattia che può rendere difficile la vita di tutti i giorni”. Celada dice che “per chi è sintomatico è difficile che i problemi passino, il più delle volte ci si porta dietro un malanno che si aggrava con l’età”. A leggere i certificati medici di Pettinari sembra che la sua malattia sia stata segnata da questa traiettoria. Era anche lui sintomatico, nel 2007 l’avevano operato alla testa per cercare di alleviare i sintomi, ma il suo stato di salute peggiorava in modo costante. Quando ha messo per la prima volta piede a Rebibbia aveva 54 anni e, visti i dolori, dopo qualche mese gli avevano fatto delle risonanze magnetiche. I risultati avevano convinto il magistrato prima a trasferirlo ai domiciliari e poi, nel febbraio 2014, a liberarlo in attesa della sentenza definitiva. L’Arnold Chiari peraltro non era l’unica malattia di cui soffriva. Nel tempo aveva dovuto fare i conti con delle ernie e delle ischemie. Nel 2018, dopo aver perso un figlio di 25 anni per un linfoma, alle sofferenze fisiche si erano aggiunte quelle psicologiche, con vuoti di memoria e difficoltà a parlare. I certificati medici parlano di “sindrome depressiva reattiva di entità severa”. Per le sue patologie aveva un’invalidità del 67 per cento, ma nel 2020 aveva chiesto l’aggravamento. Non ha fatto in tempo a ricevere la risposta perché intanto era arrivata la sentenza definitiva, e così la notte del 19 ottobre 2020 Pettinari è finito di nuovo in carcere, questa volta a Orvieto. Oltre ai quattro anni e dieci mesi per i reati del 2013, il procuratore generale aveva ripristinato anche le pene che gli erano state sospese in passato, e così per il cumulo di pena gli anni erano saliti a otto. Pettinari ha avuto un crollo e dopo appena una settimana nel carcere umbro ha tentato il suicidio. Non era la prima volta che provava a togliersi la vita. Tutto faceva pensare che potessero essere concesse misure alternative alla detenzione, ma così non è stato. Il contagio in Italia - Intanto, in tutte le carceri d’Italia i contagi si moltiplicavano in maniera preoccupante. Per evitare il peggio il ministero della giustizia ha approvato una serie di provvedimenti che hanno diminuito le carcerazioni preventive e permesso di finire di scontare pene per reati non gravi a casa o in comunità. In totale, nell’anno della pandemia, i detenuti sono passati da 61mila - per circa 47mila posti disponibili - a 53mila. Ma i provvedimenti, oltre a generare molte polemiche, non hanno risolto il problema del sovraffollamento cronico delle carceri in Italia, e così i contagi alla fine del 2020 sono cresciuti. Alla metà dell’ottobre 2020, quando Pettinari è stato portato a Orvieto, i positivi nelle carceri italiane tra detenuti e agenti erano circa 200. A dicembre dello stesso anno quasi duemila. Nel febbraio 2021, quando nella struttura umbra è scoppiato un focolaio, più di mille. Il focolaio in Umbria - A Orvieto le cose hanno cominciato a precipitare il 20 febbraio, quando ai tamponi sono risultate positive 13 persone: otto agenti della polizia penitenziaria, quattro detenuti e un medico. Nel giro di pochi giorni i casi erano 47, 22 tra il personale penitenziario e 25 tra i detenuti, di cui due gravi. Erio Pettinari era uno di loro. Inizialmente era stato messo in isolamento perché era stato a contatto con un positivo. “Il tampone rapido era risultato negativo, poi gli hanno fatto il molecolare”, racconta Daniela Ernesti. “Continuava a lamentarsi. Quando ci siamo sentiti, il 26 febbraio, stava male ma ancora non sapeva di essere positivo”. La sera del 27 febbraio Ernesti riceve una chiamata dall’ospedale di Terni: il marito è arrivato in ambulanza dopo che l’hanno trovato nella cella privo di sensi, con del sangue per terra. “Ha un polmone liquefatto”, le dice un medico. “Non sono mai più riuscita a parlargli né a vederlo. Ha passato tre settimane ricoverato, poi il 22 marzo è morto”, racconta. Quando Ernesti raggiunge l’ospedale il medico legale le conferma il decesso per covid-19. Erio Pettinari è solo uno dei tanti morti di coronavirus delle carceri italiane. Scorrendo la lista di chi non ce l’ha fatta ci si imbatte in storie di tutti i tipi: un detenuto di 82 anni con patologie croniche è morto nel carcere di Livorno; uno di 76 anni, cardiopatico, diabetico e con problemi polmonari non ce l’ha fatta a Bologna; uno di 56 anni era malato terminale ma ha passato i suoi ultimi giorni a Opera. E così via, in una conta che riguarda carcerati due volte vulnerabili di fronte al virus, perché in molti casi anziani e malati. “Il carcere è un luogo dove in generale ci si ammala, è un luogo patogeno, e le condizioni sanitarie dei detenuti sono peggiori di quelle dei cittadini liberi”, dice Claudio Paterniti, ricercatore dell’associazione Antigone. “La salute dipende anche dalle condizioni socioeconomiche, e in galera sono quasi tutti poveri e con tassi d’istruzione bassi. Il covid-19 ha aggravato una situazione già difficile. Ci si è trovati di fronte alla necessità di bilanciare diritto alla salute ed esigenze di sicurezza. La soluzione più ricorrente è stata quella di tenere i detenuti in cella, mentre si poteva fare più ricorso alle misure alternative. Ricordiamoci che la costituzione parla di pluralità delle pene, ma è stato fatto troppo poco”. Da quando è scoppiata la pandemia 18 persone ne hanno pagato le conseguenze, morendo. Paradossalmente, Pettinari non è conteggiato tra loro. Il 5 marzo, mentre era in ospedale, il magistrato di sorveglianza ha infatti emesso un’istanza di scarcerazione. E così, formalmente, Pettinari è morto da uomo semi-libero, quella libertà che la famiglia chiedeva da tempo proprio per evitare il peggio. L’asse sulla giustizia tra Di Maio e Letta è sempre più forte di Giulia Merlo Il Domani, 15 giugno 2021 Luigi Di Maio ha parlato della necessità di confrontarsi sulle riforme in modo non ideologico, anche sulla giustizia. Parole che farebbero pensare a un ripensamento sulla prescrizione, che però non è seguito dai gruppi parlamentari. La sintonia tra Di Maio e Letta è sempre più forte, a partire dal caso sull’ex sindaco di Lodi Uggetti. L’obiettivo dei dem è di portare piano piano i Cinque stelle a convergere anche in parlamento sulle loro posizioni. Il tutto andrebbe a beneficio della ministra Marta Cartabia, che punta a portare in Aula la riforma del penale entro giugno. Le difficoltà, tuttavia, sono ancora molte e dovute anche al dualismo interno al Movimento tra Di Maio e Giuseppe Conte. E’ in corso un doppio riposizionamento in materia di giustizia. Il primo passo è stato fatto dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, con le scuse per la gogna mediatica di cui è stato parte nei confronti dell’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti. Ha seguito il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, che ha avuto parole di apprezzamento per le dichiarazioni di Di Maio, per poi cesellare una dichiarazione che è stata una mano tesa ai grillini: “Basta guerra dei trent'anni tra giustizialisti e impunitisti (coloro che elevano impunità a bandiera e la confondono col garantismo)”. Infine, Di Maio sulla Stampa ha spinto ancora oltre il suo spostamento verso un campo moderato: “Crediamo nella riforma fiscale e in quella della giustizia. Tutti temi che non possono essere affrontati in modo ideologico”. Esattamente le due stesse riforme che anche Letta cita sempre come il faro che deve guidare l’attività di questo governo. L’asse per certi versi è inedita: il cambiamento maggiore è quello di Di Maio, che colloca soprattutto se stesso su posizioni impensabili per il Movimento di qualche anno fa che al grido di “onestà” si faceva fotografare con le arance in mano ad ogni avviso di garanzia per un politico di schieramento opposto. Anche Letta, tuttavia, ha scelto di non sterzare troppo per approfittare dell’apertura di Di Maio: le sue dichiarazioni non hanno mai stigmatizzato i comportamenti dei grillini, è stato più che cauto in tema di prescrizione e ha auspicato un superamento dello scontro sulla giustizia. Inoltre per farlo ha scelto un termine - “impunitisti” - accettando il rischio di far storcere il naso a una parte del suo partito ma anche a mondi culturali collegati. Tutto per consolidare una sinergia che, almeno a parole, è sempre più solida tra i due leader. Il rischio, però, è che questo collegamento sia più forte nelle dichiarazioni che poi nella vita parlamentare, dove la ministra della Giustizia Marta Cartabia sta faticosamente portando avanti le tre maxi riforme del civile, penale e ordinamento giudiziario. Tra i gruppi grillini, soprattutto parte della commissione Giustizia, la sensazione è che le aperture di Di Maio non vadano lette in diretto collegamento con l’attività d’aula, dove la linea non è cambiata. Per i parlamentari le parole del ministro non andrebbero declinate in chiave parlamentare ma fanno parte di un percorso individuale di chi le ha pronunciate. Soprattutto le ultime sull’approccio “non ideologico” alla giustizia, che lascerebbero pensare per esempio ad un ammorbidimento delle posizioni in materia penale e in particolare sulla modifica alla legge Bonafede sulla prescrizione. Sulla legge, considerata proprio baluardo ideologico dei Cinque stelle, invece, la chiusura rispetto all’ipotesi di modifica non sta cambiando. Anzi, il Movimento ha fatto più passi avanti che indietro, presentando un emendamento che elimina anche la mediazione trovata nel precedente governo di dividere la strada tra assolti in primo grado, per cui la prescrizione riprenderebbe a decorrere, e condannati. Di più, i grillini stanno spingendo perchè si porti avanti prima di tutto la riforma del civile, su cui è molto più facile trovare una sintesi di tutta la maggioranza, poi quella del Csm e di mettere in coda il ddl penale. “E sul penale ci confronteremo con tutti, ma partendo dalle nostre posizioni”, è il ragionamento. Dentro al Pd, invece, si continua a sposare la logica dei piccoli passi. Gli avvicinamenti di Di Maio sono una svolta insperata e giustificano le mosse di Letta, il quale continua a ribadire fiducia nei confronti della ministra e non cede a chi vorrebbe che il partito ragionasse di un appoggio ai referendum targati Lega-partito radicale. L’obiettivo è quello di non spaventare i grillini, di cui i dem percepiscono tutte le difficoltà: il post-Bonafede è stato una fase traumatica da gestire e ha fatto sbandare il gruppo, che è anche confuso dalla dialettica tra Di Maio e il leader in pectore Giuseppe Conte. L’ex premier, infatti, ha dovuto discostarsi - pur con il suo ormai eloquio complicato da sciogliere - dalle posizioni di Di Maio e rivendicare invece una linea più intransigente sulla giustizia e soprattutto sulla prescrizione, che pur poco si attagliano al suo profilo. Al netto delle dichiarazioni dei leader, le certezze del Pd sono che il Movimento è saldamente seduto al tavolo delle riforme e, anche se sul penale le difficoltà sono maggiori, i suoi parlamentari hanno dimostrato di apprezzare l’impostazione di lavoro della ministra. Impostazione, quella di Cartabia, che è molto vicina a quella del Pd anche nel merito delle riforme. Dunque, l’obiettivo è quello di condurre i grillini a convergere sulla linea Cartabia, ma senza suonare la grancassa di dichiarazioni pubbliche, che rischiederebbero di produrre riflessi di chiusura. Anche perchè i tempi stanno stringendo, se davvero la guardasigilli punta a portare il ddl penale in Aula entro giugno. L’Anm: “I referendum sulla Giustizia? Inutili. Sì alla riforma Cartabia” di Davide Varì Il Dubbio, 15 giugno 2021 Il presidente del sindacato delle toghe Santalucia: “Temo che si voglia un referendum sui magistrati. Sul tradimento che l’opinione pubblica sente di avere patito, sulla base di quello che si sente e si legge. E questa non è una cosa buona”. “Le proposte della ministra saranno oggetto di approfondimento nell’ambito dei nostri gruppi di studio. In linea molto generale, posso dire che l’impianto illustrato dalla ministra Cartabia ci vede d’accordo. Sia sul processo penale che sul processo civile non abbiamo contrarietà particolari”. Così il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Giuseppe Santalucia in un’intervista a La Stampa. “Capiamo l’esigenza di garantire tempi certi del processo all’imputato. E perciò siamo favorevoli”, aggiunge sul ritorno della prescrizione, mentre sui referendum lanciati da Lega e radicali sottolinea: “Vengono presentati come uno stimolo alle riforme del governo Draghi. Se così è, mi sembra uno stimolo inutile perché la ministra sta dimostrando di voler dare tempi rapidi alle riforme. Temo invece, tenendo conto del clima generale, che si voglia un referendum sui magistrati. Sul tradimento che l’opinione pubblica sente di avere patito, sulla base di quello che si sente e si legge. E questa non è una cosa buona. Le riforme vanno fatte con freddezza e razionalità, avendo davanti l’obiettivo del miglioramento e non spirito di rivalsa o peggio di punizione. Non penso che sia interesse di alcuno indebolire la magistratura italiana, che svolge una funzione essenziale per la vita democratica del Paese”. Sulla bufera che ha investito la magistratura con rivelazioni e inchieste, “invito tutti, però, ad aspettare l’esito degli accertamenti prima di balzare alle conclusioni. Non accontentiamoci delle prime indagini”, è l’appello di Santalucia, “consiglierei prudenza. Non per pavidità, ma per abitudine mentale. I fatti devono ancora essere sviscerati. Molti commentatori invece, da fatti ancora non accertati, traggono la conclusione che il sistema è marcio e che servono soluzioni radicali, demolitive”. “Il problema -rimarca - è di non ridurre i processi alle indagini. Ma siccome i processi sono lunghi, vediamo tutti che c’è fretta di sapere, di commentare, di affermare… Ovviamente io mi rendo conto che i processi vanno fatti in tempi più veloci, e per questo le riforme sono necessarie, perché altrimenti se il processo arranca e ha tempi indefiniti, qualche cosa bisogna raccontarla, e ci si sofferma sulle indagini preliminari. Ma se riusciremo ad avere un processo con tempi ragionevolmente rapidi, che non significa sommari, io sono convinto che l’importanza mediatica delle indagini preliminari si sgonfierà. Vede, è tutto un problema di efficienza. Se il sistema diventa inefficiente, e le sentenze arrivano alle calende greche, allora prevalgono le distorsioni. Una è questa”. Letta: “Il Csm? È ora di cambiare il sistema: indipendenza non vuol dire autogoverno” di Davide Varì Il Dubbio, 15 giugno 2021 “Se vogliamo l’imparzialità della giustizia è fondamentale che ci sia un elemento di separazione tra giustizia e politica”, ha ribadito il segretario del Pd. “La giustizia è lenta e inefficace. Finora discussioni tante, riforme poche. Il momento di fare le riforme è adesso”. Sul terreno della giustizia Enrico Letta non ha dubbi: la via per riformare il sistema è quella segnata dalla guardasigilli Marta Cartabia, nella quale il leader del Pd ha piena “fiducia”. Già qualche settimana fa il segretario dem aveva liquidato le proposte di Lega e Radicali sulla Giustizia, ritenendo “sbagliato” lo strumento referendario e confermando il sostegno del Pd a Draghi e Cartabia. “Perché un referendum abbia successo bisogna che voti il 50% dei cittadini - aveva spiegato Letta. In 25 anni mi sembra che uno solo abbia superato il quorum, sull’acqua una decina di anni fa. È una strada sbagliata, semplicemente uno strumento per fare lotta politica. Anche perché i tempi sono molto lunghi. A Salvini preferisco Cartabia e Draghi”. “Ho incontrato la ministra e l’ho incoraggiata”, ha quindi confermato ieri il leader del Pd, ribadendo la necessità di “rendere più evidente uno iato tra politica e coloro che esercitano le funzioni della giustizia”. Ospite al programma Omnibus su La7, Letta ha poi lamentato le troppe “contrapposizioni” sui temi portanti della giustizia. Divisioni che ricadono sui cittadini e finiscono per penalizzare l’economia, considerando che in Italia “non arrivano investimenti dall’estero perché il sistema li scoraggia”, ha aggiunto Letta. “Ci sono tutti i temi della velocizzazione e della digitalizzazione, che secondo me è essenziale”, ha spiegato il segretario dem, secondo il quale però il nodo chiave resta la separazione “tra giustizia e politica”. “Se vogliamo l’imparzialità della giustizia è fondamentale che ci sia questo elemento”, ha sottolineato Letta. Quindi l’affondo: “Dobbiamo distinguere l’indipendenza della magistratura, che è un mantra, ma sul tema dell’autogoverno credo che sia importante fare delle riforme. Autogoverno non significa indipendenza, l’autogoverno non ha funzionato, c’è bisogno di sistemi di autogoverno che funzionino meglio”. Manes: “Basta col mito dell'atto dovuto, finire indagati rovina la vita” di Angela Stella Il Riformista, 15 giugno 2021 Riforma penale. Il professore avvocato Vittorio Manes, Ordinario di Diritto penale presso l’Università degli Studi di Bologna, è tra i componenti della Commissione Lattanzi. “Le proposte di riforma avanzate puntano ad affermare il principio del minimo sacrificio necessario” spiega il giurista. Il professore a Vittorio Manes, Ordinario di Diritto penale presso l'Università degli Studi di Bologna, è tra i componenti della Commissione Lattanzi, istituita presso il Ministero della Giustizia per elaborare proposte in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in tema di prescrizione del reato. Professore la riforma riesce a conciliare efficienza della giustizia e rispetto delle garanzie? Premesso che una migliore efficienza nei tempi della giustizia è di per sé funzionale anche a garantire la durata ragionevole del processo, a me pare che nel perseguire questo obiettivo primario le proposte avanzate dalla Commissione - sulle quali, è bene sottolinearlo, la Ministra deve ancora fare le proprie scelte - abbiano cercato di avanzare soluzioni tutte pervase dallo sforzo di rispettare le direttrici - e dunque anche le garanzie - costituzionali: tra queste, principio di legalità, anche in punto di iscrizione della notizia di reato; riserva di legge, affidando al Parlamento le scelte in tema di priorità dell'esercizio dell'azione penale; sussidiarietà ed extrema ratio, potenziando gli istituti di deflazione sostanziale e processuale; finalità rieducativa della pena, assumendo il carcere ad ultima ratio. Nelle proposte - come è stato evidenziato da Maestri del diritto, come i professori Fiandaca e Pulitanò - c'è un ritorno ad una precisa idea del diritto e della giustizia penale, che vede il processo e la pena come strumenti altamente rights-sensitive, da utilizzare secondo il principio del “minimo sacrificio necessario”, cercando nella Costituzione la linea d'arco che sorregge ogni proposta. Prescrizione: fra le due proposte quale sarebbe più fattibile? Le opzioni prospettate sono molto articolate, ma entrambe volte a superare il 'blocco” della prescrizione dopo la sentenza di primo grado. L'idea di un processo senza fine, che abbandoni l'imputato nella morsa del potere punitivo senza alcun termine - co me un suddito in balia del Leviatano - è una idea che ai più appare incompatibile con principi basilari di civiltà del diritto, come del resto è ormai avvertito - anche grazie all'impegno culturale dell'Unione delle Camere penali - da una crescente opinione, anche sul fronte politico. Per questo, la proposta che ha attratto maggiori consensi è quella che sospende la prescrizione solo in caso di condanna in primo grado, al contempo fissando un termine entro il quale dovrà intervenire la sentenza di appello, termine varcato il quale il periodo sospeso verrebbe ricomputato nel calcolo complessivo della prescrizione. Diversa la seconda proposta, che impone tempi fissi e predeterminati per lo svolgimento delle diverse fasi processuali a pena di improcedibilità. Si prevede di affidare le valutazioni di politica criminale al Parlamento, con una relazione del Csm… È un punto importante: da un lato si prende alto che l'obbligatorietà dell'azione penale, da tempo, è un valore asimmetrico rispetto alla realtà ed ampiamente derogato nella prassi, anche solo perché il sistema non è in grado di processare un abnorme numero di richieste di attivazione della giustizia penale; dall'altro, si rimette all'unico organo democraticamente legittimato la scelta sull'ordine di importanza da seguire, “anche” sul la base di una relazione del Csm, che dunque avrà un compito meramente consultivo, ma anche di eventuale raccordo con le indicazioni che proverranno dai diversi Uffici delle Procure, in modo da prestare attenzione anche alle specifiche esigenze dei diversi contesti territoriali. Impugnazioni: il pm non potrebbe appellare le sentenze di assoluzione e l'appello sarebbe per la difesa a critica vincolata… L'idea di riproporre l'inappellabilità dell'appello del pm in caso di assoluzione non ha solo una finalità di deflazione, ma anche un significato culturale e giuridico sul terreno dei principi, perché valorizza nel modo più compiuto il criterio del ragionevole dubbio, che rischierebbe di residuare sempre a fronte di una precedente assoluzione. Per cercare di considerare le indicazioni offerte, in diverse occasioni, dalla giurisprudenza costituzionale si è ritenuto di bilanciare questa importante modifica introducendo presupposti più stringenti all'impugnazione anche per il difensore. È un terreno dove l'equilibrio è molto difficile, e forse di necessario compromesso: ma immagino che su questo punto la discussione potrà essere significativa, e personalmente spero possa sollecitare opzioni e soluzioni ulteriori. Indagini preliminari: il pm chiederebbe l'archiviazione quando gli elementi acquisiti non sono tali da determinare la condanna. Si tende a responsabilizzare di più il pm? La stessa idea che ispira la modifica dei poteri del Gup? In entrambi i casi si propone di potenziare il filtro rimesso ai singoli magistrati, inquirente e giudicante, ad evitare l'instaurazione o la prosecuzione di un processo che non merita di essere portato avanti: un costo economico e organizzativo inutile per lo Stato, a cui corrisponde un costo sociale altissimo per l'indagato. Il pm dovrà propendere per l'archiviazione, in assenza di elementi che lasciano intravedere la probabilità della condanna, ed il Gup dovrà fare altrettanto, di fronte ad imputazioni malferme o “azzardate”, ovvero basate su indagini incomplete. Proprio per rivitalizzare l'udienza preliminare - nella gran parte dei casi, un passaggio obbligato che si traduce solo in una ulteriore afflizione per l'imputato -, si prevede che il Gup debba pronunciare sentenza di non luogo a procedere se gli elementi raccolti non sarebbero sufficienti a motivare una condanna. Se questa proposta trovasse spazio, le indagini non potrebbero più essere un “semilavorato”, e l'imputazione non potrebbe essere più vista come una crisalide destinata a trasformarsi in farfalla nell'istruttoria dibattimentale. Si esclude di procedere a un'iscrizione esclusivamente formale di fatti, soprattutto di soggetti la cui posizione sia quasi certamente estranea a profili di responsabilità penale… Si tratta di un passaggio molto significativo, perché l'idea è quella di subordinare l'attivazione della macchina processuale-punitiva solo se ricorrano 'specifici elementi indizianti”, sfatando così il “mito” dell’atto dovuto, che non è affatto tale per l'inquirente, che dovrebbe separare con sorvegliata attenzione, e sin da subito, il grano dal loglio, visto che anche la semplice iscrizione nel registro degli indagati innesca conseguenze gravemente pregiudizievoli per il singolo, e spesso una immediata capitis deminutio, non solo in termini di onore e reputazione, ma con ricadute immediate anche sulla vita familiare, lavorativa, come sulle carriere politiche e sulle sorti economiche di una impresa. Per la stessa ragione, del resto, si è proposto di prevedere che la semplice sottoposizione ad indagini non determini alcun effetto pregiudizievole sul piano civile e amministrativo. Si potrà dire che tutto questo dovrebbe essere scontato, in un sistema incentrato sul principio della presunzione di innocenza: ma sappiamo bene che, nella realtà, non è affatto così. Patteggiamento e riti speciali saranno ancora più appetibili per l'imputato? In un sistema accusatorio come il nostro, l'ampliamento dei riti speciali è funzionale a restituire effettività e pienezza al dibattimento, sviluppo processuale che - per le notevoli risorse che impegna - un approccio realista impone di considerare quale “risorsa limitata”. In questa prospettiva, oltre ad estendere il raggio applicativo del patteggiamento e a proporre una maggiore diminuzione di pena, si propone di includere nell'accordo la pena accessoria e la confisca, consentendo anche di “patteggiare” una pena già sostituita dalla misura alternativa alla detenzione (come l'affidamento in prova ai servizi sociali), e si propone anche di precludere ogni effetto della sentenza di patteggiamento sul piano extra-penale e, in particolare, nel giudizio disciplinare. L'intento è chiaro: per rendere appetibile il patteggiamento - che per l'imputato implica una dolorosa rinuncia a difendersi bisogna assicurare allo stesso una effettiva convenienza, e soprattutto garantirgli di poter voltare pagina, una volta per tutte, rispetto all'errore commesso. C'è una chiave di lettura comune a queste proposte? A mio avviso possono individuarsi diverse chiavi di lettura: la riduzione dei tempi di risposta della giustizia penale, per soddisfare le aspettative di giustizia e assicurare le doverose garanzie agli imputati; la deflazione dei procedimenti e la diversificazione delle risposte sanzionatone, perché la giustizia penale è una risorsa scarsa, e la pena un'arma a doppio taglio che cura e, al contempo, distrugge; su entrambi i fronti, la responsabilizzazione dei diversi protagonisti del processo, pubblico ministero, giudice e avvocato, fino allo stesso reo negli spazi aperti alle esperienze di giustizia riparativa. A quest'ultimo riguardo, le proposte sono volte a migliorare non solo l'efficienza, ma anche l'accountability del sistema, la sua capacità di generare quel “public value” che è la fiducia dei cittadini nella giustizia, corresponsabilizzando tutti gli attori del processo. Ed anche l'avvocato, di fronte ai nuovi istituti che ampliano le possibilità e le opzioni processuali, vede fortemente amplificato il proprio molo, e la propria funzione di controllo critico: una funzione essenziale e vitale in uno Stato di diritto. I bambini e le sevizie della giustizia di Claudio Cerasa Il Foglio, 15 giugno 2021 “Erano tutte bugie, fui costretto a inventare gli abusi sessuali”. Sono sconvolgenti le rivelazioni fatte a Repubblica da Davide Tonelli, il “bambino zero” dell’inchiesta sui “Diavoli della Bassa modenese”. Aveva appena sette anni quando, nel 1997, raccontò di aver subìto abusi dal padre e dal fratello, e di essere stato coinvolto con altri bambini in riti satanici nei cimiteri. Le sue testimonianze, unite a quelle di altri bambini, portarono all’allontanamento dalle rispettive famiglie di sedici minori, molti dei quali non rividero più i propri genitori. Decine di persone furono accusate di pedofilia e incarcerate. Alcuni imputati vennero poi condannati (come i genitori di Davide), altri assolti quando lo scandalo aveva già stravolto le loro esistenze. Ora, a distanza di 24 anni, il racconto di Tonelli conferma i sospetti (già sollevati da Pablo Trincia nel podcast “Veleno”) circa le pressioni subite dai bambini da parte degli psicologi: “La psicologa Valeria Donati e le assistenti sociali che mi seguivano iniziarono a martellarmi di domande - dichiara Davide - Ricordo diversi colloqui anche di 8 ore. Non smettevano finché non dicevo quello che volevano loro. Mi chiesero di dire dei nomi e io inventai dei nomi a caso, su un foglio. Per disperazione. Ho inventato che mio fratello aveva abusato di me, che c’erano persone che facevano dei riti satanici. Ma non c’era nulla di vero. Mi sono inventato tutto. Perché se dicevo che stavo bene non mi credeva nessuno. A forza di insistere ho detto quello che si volevano sentir dire”. Davide poi racconta di essere stato portato in anni recenti dalla madre affidataria (da sempre convinta degli abusi) dallo psicologo Claudio Foti, a Bibbiano: “Anche lui ha provato a farmi dire che avevo subito gli abusi”. L’incontro avvenne poco prima che nel 2019 scoppiasse il caso Bibbiano, anch’esso incentrato su un presunto sistema illecito di gestione dei minori in affido, che si sarebbe sorretto sulla manipolazione delle testimonianze dei bambini da parte di assistenti sociali e psicologi. Mafia, la lettera di Graviano a Cartabia: l'acquisiranno i pm di Firenze di Conchita Sannino La Repubblica, 15 giugno 2021 Il ministero della Giustizia: non ci sarà una risposta diretta. Ma la Guardasigilli ha già detto in Antimafia: “Zero permessi ai mafiosi al 41 bis”. La lettera del capomafia Giuseppe Graviano alla ministra Cartabia? È stata già da settimane inoltrata al Dap. Ma l’unica certezza che filtra da via Arenula è che “non c’è stata e non ci sarà alcuna risposta” al boss che fu uno dei mandanti delle stragi del 1993: 10 morti e 106 feriti, oltre al gravissimo danno per il patrimonio d’arte del Paese. L’unica, del tutto indiretta, “reazione” della titolare della Giustizia si può tuttavia leggere nelle nette parole che la ministra ha pronunciato, solo cinque giorni fa, dinanzi alla commissione Antimafia: “Zero (permessi) al 41 bis”, un accento più fermo del solito, illustrando in generale l’esame delle richieste pervenute da alcuni detenuti, evidentemente mafiosi, destinati al regime di carcere duro, mentre si soffermava sul tema dell’ergastolo ostativo e del lavoro sulla nuova norma di cui deve sentirsi investito fino in fondo il Parlamento, se non si vuole che sia la Consulta a procedere direttamente all’abrogazione. E intanto, da quanto risulta a Repubblica, la missiva indirizzata da Graviano a Cartabia potrebbe essere acquisita dai pm della Procura di Firenze, nelle prossime ore. Proprio come è stato fatto dagli stessi inquirenti con quei fogli che lo stesso ergastolano aveva inviato, ormai 8 anni fa, all’allora ministra Beatrice Lorenzin. Che cosa significano quegli scritti? Recano messaggi o avvertimenti sotterranei? Sono segno di minacce, dopo la stagione di tritolo e sospetti, di macerie e innocenti a terra che puntava a piegare il Paese nei primi anni Novanta? Anche a queste domande, evidentemente, potrebbe rispondere l’istruttoria dei magistrati fiorentini. Era il 10 giugno scorso quando la ministra Cartabia è arrivata a Palazzo San Macuto, in audizione dinanzi alla commissione parlamentare Antimafia. Nessun riferimento ufficiale alla lettera inviata dal mafioso Graviano, di cui ha dato notizia lunedì scorso Il Fatto. Ma l’ex presidente della Consulta, toccando il tema della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sull’ergastolo ostativo, e del conseguente “appello” della Consulta al Parlamento, aveva consegnato un dettaglio numerico tra gli altri, a proposito delle richieste globalmente pervenute ed esaminate da detenuti della massima sicurezza. Cartabia aveva infatti ricordato come i detenuti destinati al carcere duro, quelli sottoposti appunto al 41 bis, non potessero usufruire dei permessi premio (né, ovviamente, della libertà condizionale) proprio perché ritenuti ancora collegati al sistema criminale, considerati socialmente pericolosi e per questo isolati in regime speciale. “Può essere interessante sottolineare - aveva dunque detto Cartabia - che, dopo la decisione della Corte 253 del 2019 sui permessi premio, dal 41 bis, sei detenuti ergastolani hanno chiesto la possibilità di fruire dei permessi premio. Ad oggi nessuno - dal 41bis - l’ha ottenuto. Zero dal 41bis”. Non solo. Precisando inoltre che allo stato, in Italia, “i detenuti sottoposti” al carcere duro “sono 753, di cui 740 uomini e 13 donne”, la ministra sottolineava: “Del resto, l’applicazione del regime di cui all'articolo 41 bis presuppone l'attualità dei collegamenti con organizzazioni criminali; sicché, per chi è in regime di 41 bis, l'accesso ai benefici penitenziari non risulta possibile, perché non è compatibile con una valutazione di “sicuro ravvedimento” qual è quello richiesto dalla Corte costituzionale per la concessione dei benefici”. Insomma: ostacoli insormontabili su cui possono infrangersi le speranze di mafiosi e criminali. E ora il testo scritto da Graviano potrebbe essere esaminato nell’ambito dell’inchiesta fiorentina. I pm toscani che indagano infatti, come aveva raccontato tre mesi fa l’Espresso, su alcune dichiarazioni che il boss palermitano di Brancaccio ha reso a proposito dei suoi presunti rapporti con Silvio Berlusconi, avevano già allegato agli atti la missiva che lo stesso padrino ergastolano aveva inoltrato nel 2013 all’allora ministra della Salute. Cinque pagine fitte, scritte ovviamente a mano, in cui Graviano si dichiarava “innocente”, ma in carcere sottoposto al regime di massima sicurezza “solo per le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, senza riscontri”, aggiungendo poi rivolto a Lorenzin: “Come ben sapete voi esponenti del Pdl, perché dal primo giorno del mio arresto mi è stato detto che se non avessi accusato il presidente di Forza Italia e collaboratori, venivo accusato di tutte le stragi del 1993 in poi. Lo stesso i miei fratelli di altre accuse di associazione mafiosa, invitandomi a confermare le accuse dei collaboratori di giustizia nei confronti del senatore Berlusconi”. Racconto poi ribaltato quando è tornato ad accusare Silvio Berlusconi. Che, occorre precisare, è entrato nelle inchieste di mafia almeno per quattro volte, e ne è sempre uscito con una archiviazione. “Se è vero che Giuseppe Graviano ha scritto una lettera al ministro Cartabia, non ne sono al corrente, dunque non ne conosco il contenuto”, alza le mani anche il difensore di Graviano, l’avvocato Giuseppe Aloisio, lo stesso che tre mesi fa ha firmato per Graviano il ricorso in appello contro la sentenza della Corte d’assise di Reggio Calabria in cui era stato condannato all’ergastolo, nell’ambito del processo “'Ndrangheta stragista”, come mandante dell'agguato consumato il 18 gennaio 1994 sull'autostrada. All'altezza dello svincolo di Scilla, caddero uccisi due carabinieri: Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Continua il legale: “Se effettivamente l'ha scritta, non penso possa essere un messaggio, non lo credo. A questo punto dovrò parlarci nei prossimi giorni per capire. Ma naturalmente il nostro colloquio resterà riservato”. Ombre, mezze parole e ancora una missiva firmata da un boss che, stando alle sentenze, ha scritto pagine di sangue e morte nei dolorosi anni delle stragi. Ci furono 7 attentati in quei 14 mesi: dal 23 maggio del 1992 al 28 luglio 1993. Non solo le voragini di Capaci e via D’Amelio in cui morirono, con le donne e gli uomini delle scorte, Falcone e Borsellino, ma l’attentato contro Maurizio Costanzo, il raid a Firenze in via dei Georgofili, l’esplosivo a Milano in via Palestro, poi l’altro disegno stragista ancora nella capitale contro la Basilica di San Giovanni Laterano. E almeno un’altra dozzina di esplosioni ideate e non messe a segno. Un incubo che aspetta non lettere di ergastolani, ma pezzi di verità. Il caso Veleno. “Né abusi né riti satanici, 16 bimbi tolti ai genitori per le mie accuse inventate” di Valeria Teodonio La Repubblica, 15 giugno 2021 Parla Davide, il bambino zero dell'inchiesta sui “Diavoli della Bassa Modenese”: “Ricordo diversi colloqui anche di 8 ore. Psicologa e assistenti sociali non smettevano finché non dicevo quello che volevano loro. Mi dicevano che ero coraggioso”. Davide ha un sorriso disarmante. All’inizio è un po’ imbarazzato, ma poi si fa coraggio: “Sono pronto”. Ha 31 anni, è un ragazzo alto e magro, la voce profonda e gli occhi verde acqua, appena velati da un'ombra scura. Ha deciso di raccontare per la prima volta la sua storia. La sua verità. Rivelazioni sconcertanti su fatti che hanno distrutto la vita di decine di persone alla fine degli anni '90. Era uno scricciolo biondo quando, nel 1997, le assistenti sociali e la psicologa che lo seguivano iniziarono a fargli tante domande sulla sua famiglia. In quei colloqui Davide raccontò di aver subito abusi sessuali da parte di suo padre e di suo fratello, nella loro casa nella campagna di Massa Finalese, in provincia di Modena. Non solo. Disse che nei cimiteri della sua zona avvenivano delle strane cerimonie, parlò di messe sataniche in cui i grandi facevano del male ai piccoli. In cui i bambini venivano violentati ed erano costretti perfino a uccidere altri bambini. I racconti di Davide - il “bambino zero” di questa storia - diedero il via a un'inchiesta che durerà anni, quella sui “Diavoli della Bassa Modenese”. Un'inchiesta su cui “Veleno”, il podcast firmato da Pablo Trincia e pubblicato da Repubblica nel 2017 (su cui Amazon ha realizzato una docu-serie), ha gettato nuova luce. L'indagine, dopo le testimonianze di altre presunte vittime, portò 16 bambini ad essere allontanati dai loro genitori. Alcuni imputati, tra cui i familiari di Davide, vennero condannati a molti anni di carcere per pedofilia. Altri vennero assolti. In ogni caso i genitori non riebbero mai più i loro figli. E una mamma si suicidò. Prima d'ora Davide non aveva mai rilasciato un'intervista. Ha deciso di farlo “perché - ha spiegato - non può più tenersi dentro la verità”. Quando iniziarono i colloqui? E perché? “Iniziarono quando avevo 7 anni. I miei genitori erano poveri e venni affidato a un'altra famiglia. Ogni tanto però, come prevedeva la prassi, tornavo dalla mia famiglia d'origine. Una volta vidi mia madre naturale molto triste. E divenni cupo anche io. Così, quando tornai dalla famiglia affidataria, la donna che poi diventò la mia mamma adottiva mi chiese se fossi stato maltrattato. Ha insistito tanto che alla fine le dissi di sì. Anche perché avevo paura di essere abbandonato, se non la avessi accontentata. Senza rendermi conto delle conseguenze di quello di quello che stavo facendo”. Cosa succedeva durante i colloqui? “La psicologa Valeria Donati e le assistenti sociali che mi seguivano iniziarono a martellarmi di domande. Ricordo diversi colloqui anche di 8 ore. Non smettevano finché non dicevo quello che volevano loro. Mi chiesero di dire dei nomi e io inventai dei nomi a caso, su un foglio. Per disperazione. Ho inventato che mio fratello aveva abusato di me, che c'erano delle persone che facevano dei riti satanici. Ma non c'era nulla di vero. Mi sono inventato tutto. Perché se dicevo che stavo bene non mi credeva nessuno. A forza di insistere ho detto quello che si volevano sentir dire”. E cosa successe dopo quei colloqui? “Vennero convocati altri bambini e anche loro fecero quei racconti. Loro mi dicevano che ero coraggioso, che ero il primo a parlare. “Coraggioso” era la loro parola preferita. Un giorno la psicologa mi fece fare un incontro con gli altri ragazzi, e lei disse che li avevo salvati. Ma io non avevo salvato proprio nessuno. Mi sono sentito morire dentro. Una volta cercò anche di farmi accusare una donna che mi aveva accolto quando ero piccolo, Oddina Paltrinieri. Ma non lo feci”. Sua madre per prima era convinta che gli abusi fossero reali? “La mia mamma affidataria era sicura che mi facessero del male, ma non era vero. Mio fratello è andato in galera, ma in realtà eravamo molto legati, avevamo un ottimo rapporto. Guardavamo la televisione. Non riesco ad accettare di aver detto queste cose sulla mia famiglia. Mi dispiace tanto”. Perché lei era così convinta? “Secondo lei è impossibile che un bambino possa inventarsi cose del genere. Ma vi assicuro che dopo determinate domande un bambino dice quello che vuoi. Se a un bambino dici dieci volte che i genitori facevano cose brutte, alla fine lui dice, sì, facevano cose brutte”. Cosa ha provato quando è uscito Veleno? “Quando è uscito Veleno ho sentito il bisogno di chiedere scusa. Mi sentivo in colpa da una vita. Ho voluto riallacciare i rapporti con quello che resta della mia famiglia, i miei fratelli. Visto che i miei genitori sono morti dopo essersi ammalati in carcere. Ma mia madre adottiva ha detto che dovevo scegliere: o noi o loro. E ci sono stato molto male”. Lei è stato ricoverato più volte in questi anni, perché sentiva di non stare bene psicologicamente... “Mia madre mi ha portato anche dallo psicologo Claudio Foti, a Bibbiano. Anche lui ha provato a farmi dire che avevo subito gli abusi. E di stare lontano dai giornalisti. Nel mio ultimo ricovero, invece, sono entrato volontariamente. Perché io continuavo a dire che quegli abusi non erano mai avvenuti mentre la mia madre adottiva continuava a sostenere che invece erano avvenuti e che dovevo farmi curare. Non sapevo dove sbattere la testa e ho chiesto di essere ricoverato per qualche giorno. Ma invece mi hanno tenuto 41 giorni contro la mia volontà. Un avvocato mi ha aiutato a uscire”. Perché altri bambini parlarono anche loro di abusi e riti satanici? “Credo perché anche loro furono pressati, martellati con domande infinite”. E perché alcuni di loro, da grandi, continuano ad affermare di essere stati abusati? “Perché nelle loro menti si è ormai creato un falso ricordo. O perché è difficile raccontare la verità adesso, dopo tanti anni. Hai paura che se la possano prendere con te per tutte le bugie che hai detto. Anche io avevo paura di dire la verità”. Cosa vuole dire a sua madre? E ai ragazzi che sono nella sua situazione? “Vorrei dire a mia mamma che anche se non mi crede io le voglio bene. Ai ragazzi voglio dire di farsi forza, e di dire la verità. Perché nessuno ce l'ha con noi. Siamo vittime”. Ora come sta? “Sono contento, rivedo i miei fratelli. Avevo paura a ricontattarli. Pensavo che l'avessero con me. Non era così”. E da quanto non era contento? “Da quando avevo 7 anni”. Intercettazioni utilizzabili se il medesimo fatto è riqualificato in reato che non le consente di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2021 Il giudice deve verificare però che l'iniziale autorizzazione sia stata assunta legittimamente. La riqualificazione di un'ipotesi di reato, per il quale siano autorizzabili le intercettazioni telefoniche, in altro che non consenta tale strumento di indagine, non rende le captazioni automaticamente inutilizzabili se i fatti posti alla base dell'inchiesta sono i medesimi. Sempre però che l'autorizzazione del giudice all'originaria intercettazione sia stata fondata sui presupposti di necessità e gravità che regolano tale strumento di grande potenza invasiva nella sfera privata degli indagati. La Corte di cassazione - con la sentenza n. 23244/2021 - ripercorrendo l'orientamento nomofilattico delle sezioni Unite ribadisce, invece, l'inutilizzabilità delle intercettazioni per provare altro reato connesso, emerso nel medesimo procedimento, ma che per legge non è ammesso all'autorizzazione del Gip per l'utilizzo dello strumento di indagine altamente intrusivo. Alla base della correttezza di un'autorizzazione degli inquirenti a intercettare c'è, sempre e comunque, il rispetto delle ipotesi tassative previste per legge e l'espletamento di un esame da parte del giudice, incentrato sul contemperamento tra esigenze investigative per la persecuzione di reati di grave allarme sociale e la tutela del diritto costituzionalmente garantito alla segretezza della corrispondenza. La decisione della sentenza di rinviare il giudizio sull'utilizzabilità delle intercettazioni per un reato per cui non sono consentite - cioè l'abuso d'ufficio - ma inizialmente autorizzate in base all'originaria notitia criminis di corruzione contiene due precise indicazioni per i giudici di merito del rinvio: accertare se lo strumento d'indagine sia stato ab origine legittimamente autorizzato dal Gip e se i fatti posti a base dell'iniziale autorizzazione per il reato più grave siano realmente i medesimi su cui è stata formulata l'imputazione definitiva a seguito di riqualificazione della fattispecie di reato meno grave e non autorizzabile. Ciò corrisponde a esigenze di economia processuale e di finalità di giustizia che non possono essere disattese ponendo nel nulla fonti di prova almeno inizialmente legittimamente acquisite. Ugualmente però il vaglio di legittimità sui presupposti che consentono l'autorizzazione a intercettare deve essere stringente al fine di evitare la deriva degli inquirenti a qualificare i fatti oggetto di indagine sotto una delle fattispecie di reato autorizzabile determinando nei fatti la precostituzione di un'autorizzazione “in bianco”. No a protezione sussidiaria concessa solo per il superamento di una soglia minima di vittime di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2021 La domanda del rifugiato va esaminata in base alla complessità degli elementi anche individuali relativi al Paese di provenienza. La protezione sussidiaria al rifugiato - cui viene respinta da uno Stato membro la domanda di asilo - non può essere negata in base all'applicazione di un requisito automatico, quale il superamento nel Paese di provenienza di una soglia minima stabilita di vittime o persone ferite. La Cgue nella causa C-901/19 ha ricordato che la tutela che va accordata a chi fugge da scenari di guerra va concessa in base alla sussistenza di una minaccia grave e individuale. Non basta quindi la conta dei morti che determina il conflitto armato per affermare la necessità di proteggere i rifugiati. Perciò se un Paese nega il diritto d'asilo la domanda di protezione sussidiaria promossa dal richiedente va esaminata in base anche a criteri prospettici come l'entità del dispiego di forze armate sul territorio di provenienza. Rilevano inoltre eventuali tendenze politiche nei confronti di specifiche etnie sottoposte a vessazioni o condizioni strettamente personali del richiedente che ne mettano in pericolo la vita. La pronuncia si segnala per essere la prima a interpretare la direttiva 2011/1965 sulla protezione internazionale dei rifugiati. La Cgue precisa che è un complesso di norme che prevede il ravvicinamento delle legislazioni nazionali e perciò l'interpretazione ora fornita è fortemente rilevante per tutti gli Stati membri. Il ravvicinamento è necessario per evitare il cosiddetto forum shopping e i prevedibili movimenti secondari all'interno della Ue da parte dei migranti, rectius rifugiati. Locazioni, abuso del diritto per il locatore che esige arretrati mai chiesti in un'unica soluzione di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 15 giugno 2021 Lo ha affermato la Corte di cassazione con la sentenza n. 16743 depositata oggi affermando un principio di diritto. “In un contratto di locazione di immobile ad uso abitativo l'assoluta inerzia del locatore nell'escutere il conduttore per ottenerne il pagamento del corrispettivo sino ad allora maturato, protrattasi per un periodo di tempo assai considerevole in rapporto alla durata del contratto, e suffragata da elementi circostanziali oggettivamente idonei a ingenerare nel conduttore un affidamento nella remissione del diritto di credito da parte del locatore per facta concludentia, la improvvisa richiesta di integrale pagamento costituisce esercizio abusivo del diritto”. Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 16743 depositata oggi, affermando un principio di diritto. Con una lunga dissertazione giuridica, la Terza Sezione civile (Presidente Graziosi; Relatore Fiecconi), ha chiarito che a tale approdo si arriva per l'applicazione del principio di “buona fede nell'esecuzione del contratto” (articoli 1175 e 1375 cod. civ.). Esso infatti, prosegue la Corte, “legittima in punto di diritto l'insorgenza in ciascuna parte dell'affidamento che, anche nell'esecuzione di un contratto a prestazioni corrispettive ed esecuzione continuata, ciascuna parte si comporti nella esecuzione in buona fede, e dunque rispettando il correlato generale obbligo di solidarietà che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell'altra, anche a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere generale del neminem laedere”. Il caso era quello di una srl a gestione familiare che aveva dato in locazione un appartamento di proprietà della società al figlio del socio maggioritario, anch'egli socio della azienda. A seguito di una serie di vicissitudini familiari, tra cui il divorzio del giovane con l'assegnazione della casa alla ex e l'avvio di una procedura esecutiva ai suoi danni per il mancato pagamento degli alimenti, la srl aveva intimato lo sfratto per mancato pagamento dei canoni e chiesto il pagamento di tutti gli arretrati. La Corte di appello di Milano nell'accogliere parzialmente il ricorso del conduttore, condannato in primo grado a pagare oltre 200mila euro, ha ritenuto non irrilevante la circostanza che nel corso del rapporto fosse stata per lungo tempo omessa ogni richiesta di pagamento del corrispettivo, ed in particolare dalla stipulazione del contratto nel 2004 sino al 29 giugno 2011 (data della prima richiesta connessa allo sfratto per morosità, il rilascio è poi avvenuto nel 2013). E dunque facendo riferimento a precedenti giurisprudenziali che si fondano sulla tutela dell'affidamento ingenerato nella controparte, la Corte di merito ha ritenuto non dovuti i canoni maturati fino alla prima richiesta di pagamento (luglio 2011). Insomma, la protratta inerzia del creditore riguardo ai 126mila euro maturati “avrebbe concretizzato un comportamento di salvaguardia dell'interesse del debitore senza imporre un apprezzabile sacrificio a carico del creditore, mentre il debitore, a fronte dell'inaspettata richiesta di pagamento dell'importo sino ad allora maturato e mai richiesto dal creditore per circa sette anni, si sarebbe viceversa improvvisamente trovato a dover fronteggiare una richiesta per una somma che con il trascorrere del tempo era divenuta esorbitante”. Un elemento quella della richiesta “repentina” sui cui insiste la Corte per legarlo al tema dell'abuso del diritto, richiamando un istituto giuridico di matrice tedesca la “Verwirkung” che, affermano i giudici, può trovare ingresso nel nostro ordinamento proprio di fronte ad un revirement rispetto ad una precedente ed opposta modalità di comportamento del locatore. Nel caso in esame, infatti, argomenta la Cassazione, “non è stato il silentium in quanto tale la manifestazione di assoluta rinuncia al diritto della locatrice, quale espressione contrattuale di volontà tacita nella forma di comportamento concludente. Piuttosto, l'esercizio repentino del diritto installatosi in una circostanziata situazione di maturato affidamento della sua intervenuta abdicazione, correlata a un assetto di interessi pregresso, ha integrato un abuso del diritto e la negazione di tutela dell'interesse di controparte in considerazione di sopravvenute circostanze … pacificamente non collegate al contratto”. “Nella fattispecie locatizia, in generale - argomenta la Corte - quello che può evidentemente essere idoneo a costruire l'affidamento del conduttore nel senso di una oggettiva rinuncia è un comportamento del locatore di totale inerzia nella riscossione delle pigioni maturate per un protratto periodo di tempo. Come, peraltro, a contrario, si verifica nel caso di cui all'articolo 1458 cod.civ., primo comma, con riguardo agli effetti retroattivi della risoluzione del contratto ad esecuzione continuata, la progressività dell'esecuzione incide altresì sulla pregnanza della condotta del creditore nella fase esecutiva, e conduce quindi alla percezione di questa come oggettiva abdicazione del potere di far valere il diritto, rinuncia che riguarda, appunto, la fase esecutiva mentre, naturalmente, non ha relazione con un mutuo dissenso dal contratto, che rimane ‘in piedi' ed è in grado di riprendere vita, come è avvenuto nella presente vicenda quando la locatrice ha modificato repentinamente la sua condotta di inerzia settennale”. In siffatto contesto, collegato alla causa del contratto di locazione e alla protratta inerzia del locatore nel richiedere il pagamento del corrispettivo di locazione per oltre sette anni, prosegue la decisione, “la repentina richiesta di adempimento per la parte del credito eventualmente non caduta in prescrizione è da valutarsi alla stregua dell'esercizio abusivo del diritto, e dunque in violazione di obblighi solidaristici collegati alla salvaguardia dell'interesse del conduttore a non perdere una acquisita situazione di vantaggio determinatasi a suo esclusivo favore, laddove non si dimostri di avere sino a quel tempo comportato un apprezzabile sacrificio per il locatore, rimasto inerte sin dall'origine, a fronte del grave onere imposto repentinamente sulla controparte”. Ragionando secondo questi principi, quindi, per la Suprema Corte, è sostenibile che un credito nascente da un rapporto ad esecuzione continuata, mai preteso sin dall'origine del rapporto negoziale, anche se formalmente menzionato nelle scritture contabili di una società a responsabilità limitata per più esercizi, in assenza di altri indici di segno contrario, possa ugualmente costituire un fattore di generazione di un affidamento di oggettiva rinuncia del credito sino ad allora maturato nei confronti del socio. “Pertanto - conclude la sentenza -, la repentina richiesta di adempimento dell'obbligazione di pagamento, indipendentemente dalla presenza di indici idonei a denotare una volontà di rinuncia del medesimo, se corrispondente a una situazione di palese conflittualità tra socio (allora ex socio) e gli altri soci, non giustificata da altri fattori, costituisce un abuso del diritto ove riveli l'intento di arrecare un ingiustificato nocumento”. Perché ciò che conta, in definitiva, è che la valutazione dell'atto teso a far rivivere l'obbligazione sia ricondotta alla “conflittualità” esistente tra le parti. Rossano (Cs). Cesare Battisti, isolato con i terroristi islamici, si sta lasciando morire di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 giugno 2021 Appello dell’Associazione Yairaiha Onlus alle massime istituzioni per Cesare Battisti che a Rossano ha iniziato lo sciopero della fame e delle terapie contro il mancato rispetto dell'ordinanza dei giudici di Milano. Cesare Battisti si sta lasciando morire. Non per chiedere di non scontare la pena, ma per il fatto di essere recluso nel carcere di Rossano in una sezione composta esclusivamente da detenuti appartenenti al terrorismo islamico. Ciò gli crea un grave isolamento, impedendogli di svolgere perfino l’ora d’aria. Non viene rispettata l’ordinanza della corte d’appello di Milano - Una condizione, di fatto, illegale, anche perché non viene rispettata l’ordinanza emessa a carico della corte d’appello di Milano dove spiega che Battisti non è ostativo e ha diritto ad un percorso trattamentale. L’appello dell’Associazione Yairaiha Onlus - Per questo motivo, l’Associazione Yairaiha Onlus ha lanciato un appello rivolto al presidente della repubblica Sergio Mattarella, la guardasigilli Marta Cartabia, al sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto, al Vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Davide Ermini, al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione Giovanni Salvi, al Coordinamento nazionale dei Magistrati di Sorveglianza, al Consiglio nazionale di Magistratura Democratica, al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Bernardo Petralia, al provveditore regionale della Calabria Guerriero, al direttore della Casa di Reclusione di Rossano, al presidente del Tribunale di Sorveglianza di Catanzaro, all’Ufficio di sorveglianza di Cosenza, al Garante Nazionale Mauro Palma, al Garante regionale Siviglia, all’onorevole Roberto Giachetti e al Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Dal 2 giugno è in sciopero della fame e delle terapie - Dal 2 giugno scorso, Cesare Battisti, detenuto presso il carcere di Rossano nel circuito AS2, ha iniziato lo sciopero della fame e delle terapie per manifestare il proprio disagio avverso “all’illegittimo - si legge nell’appello - e immotivato protrarsi della sua collocazione nel circuito AS2 che, nel caso specifico dell’istituto calabrese, è destinato a detenuti afferenti al cosiddetto “terrorismo islamico”, e contro il mancato rispetto dell’ordinanza n. 3/19 Reg. Ord. emessa a suo carico dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano”. Come osserva l’associazione Yairaiha nell’appello, i circuiti ex E.I.V. sono stati istituiti con circolare DAP n. 3479 del 9.7.1998 con l’obiettivo di separare i detenuti di particolare spessore criminale e gli ex 41bis dai detenuti di alta e media sicurezza. A seguito di diversi pronunciamenti della Corte europea, e di seguenti atti di sindacato ispettivo e interrogazioni parlamentari, il Dap, con la circolare 3619/6069 del 21 aprile 2009, riformula la denominazione dei circuiti E.I.V. suddividendo l’Alta Sicurezza in tre sotto circuiti e assegnando gli ex E.I.V. ai circuiti AS1 e AS2, per “superare la sua denominazione foriera di fraintendimenti, evitando che essa possa far pensare, sia pure solo in via teorica ad osservatori esterni, ad una condizione maggiormente afflittiva”, ribadendo al tempo stesso che “La gestione dei detenuti ed internati che, allo stato, sono inseriti nel circuito E.I.V. per le ragioni esposte, continuerà ad essere di esclusiva competenza dipartimentale. Continuerà pertanto ad essere onere delle direzioni segnalare il comportamento di tali detenuti ed internati, che verranno di conseguenza gestiti dalla direzione generale dei detenuti e del trattamento”. La gestione dei detenuti assegnati ai circuiti di sicurezza rimane di competenza del Dap - Anche con la circolare del 2009, si è di fatto aggirata la condanna, ribadendo che la gestione dei detenuti assegnati a tali circuiti rimane di competenza del Dap (organo amministrativo) in stretta collaborazione con le Direzioni distrettuali antimafia (organi investigativi). Il problema è che si sono venuti a creare gruppi misti del tutto incompatibili tra loro e la magistratura di sorveglianza, teoricamente, non può influire sulla scelta della gestione in mano al Dap. Immaginare gli ex terroristi di matrice marxista o anarchica convivere con quelli di matrice islamica è ovviamente problematico. Cesare Battisti è costretto a isolarsi - A maggior ragione se si ritrova, come nel caso di Battisiti, da solo con loro. Accade quindi che Cesare Battisti è costretto ad auto isolarsi. Ciò gli impedisce l’ora d’aria, la socialità e anche di essere ascoltato dal cappellano che non ha mai incontrato, nonostante le numerose richieste. L’ordinanza della corte d’appello di Milano ha invece ribadito che “sarà la magistratura di sorveglianza a valutare se e quando Cesare Battisti - a cui non risulta applicabile il regime ostativo - potrà godere dei benefici penitenziari, in virtù di una progressione trattamentale, che è diretta attuazione del canone costituzionale della funzione rieducativa della pena anche per i condannati all’ergastolo (come ribadito dalla Corte Costituzionale nella recente sentenza n. 149/20185): primo fra tutti il beneficio della liberazione anticipata ai fini del calcolo del termine per poter chiedere permessi premio e misure alternative alla detenzione, avendo riguardo anche ai periodi di custodia cautelare espiata all’estero (secondo l’orientamento di cui alla sentenza n. 21373 della Cassazione Sez 1 19.4.2013”. Chiede di poter scontare la sua condanna secondo le norme - Quello che chiede Cesare Battisti è di poter scontare la sua condanna secondo le norme e la sentenza. “Chiede - si legge nell’appello dell’associazione Yairaiha Onlus - di poter partecipare attivamente alla vita della comunità penitenziaria, contribuendo attivamente alla stessa anziché essere relegato nell’infimo concetto, caro a certa politica, del “buttiamo via la chiave” che condanna le persone ad essere recluse nel tempo vuoto di una pena fine a sé stessa senza alcuna prospettiva oltre quella di “marcire in galera”. Cagliari. Chiede di essere trasferito per poter vedere i suoi 7 figli di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 giugno 2021 Chiede di essere trasferito nella penisola per avvicinarsi alla famiglia un detenuto serbo di 40 anni, padre di 7 figli, detenuto dal 21 marzo scorso a Cagliari. Finora l’uomo, R. N., in carcere dal 2012, non ha ottenuto risposta dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). La sua situazione è segnalata dall’associazione “Socialismo, diritti, riforme (Sdr)”. Il detenuto da 18 mesi non vede i figli minori, di 16 e 10 anni, entrambi con gravi problemi di salute. Riesce a vedere la moglie, che vive a Napoli col resto della famiglia, solo in videochiamata, tre volte al mese. “Mio marito ha commesso errori che sta pagando con il carcere - dice la moglie, Rosa Cecere, ai volontari di Sdr - ma questo non significa impedire alla famiglia di vivere. Abbiamo due figli minori entrambi sotto stretto controllo medico ai quali sono interdetti i viaggi. Le condizioni economiche non ci permettono di effettuare trasferimenti in Sardegna per i colloqui. In nove anni di detenzione mio marito ha conosciuto 17 istituti di pena. È arrivato a gennaio 2020 a Nuoro dove, caso più unico che raro, ha scontato 16 mesi in regime di sorveglianza particolare (14bis)”. Racconta sempre la donna: “A ’ Badu e Carros’ mio marito è stato vittima di un grave episodio drammatico al vaglio degli inquirenti. Ha rischiato la vita ed è stato trasferito nella Casa Circondariale di Cagliari”. Prosegue denunciando che è un uomo spaventato che teme per la propria incolumità e con lui la sua famiglia. “Vogliamo solo che venga avvicinato ai familiari - spiega sempre Rosa Cecere - nella struttura penitenziaria che il dipartimento riterrà più opportuna. I nostri figli ed io, detto per inciso, non abbiamo commesso alcun reato e vogliamo poter contribuire con la nostra vicinanza al suo reinserimento sociale”. Evidenzia l’ex presidente di Sdr, Maria Grazia Caligaris: “Ripropone in termini oggettivi la questione della territorialità della pena. Essere stato un detenuto YoYò per 9 anni, vuol dire che è stato sicuramente un cittadino problematico. Anche il regime di sorveglianza speciale è stato adottato, a torto o a ragione, per intemperanze del carattere. Resta, però, il fatto che è stato trasferito in un’isola che oggettivamente costringe i familiari a spese esorbitanti e li esclude totalmente dal percorso riabilitativo. Ciò a maggior ragione quando in una stessa famiglia ci sono due minori con il riconoscimento del 100% di invalidità”. Messina. Iniziativa dell’associazione “Memento” siciliano lecodelsud.it, 15 giugno 2021 Dall’associazione “Memento” siciliano, di Rita Bernardini, una iniziativa a tutela dei diritti dei detenuti e a favore del reinserimento sociale degli ex detenuti, che si svolgerà domani a Messina, viene descritta attraverso la seguente nota: “Dopo quello di Palermo davanti alla casa di reclusione dell’Ucciardone, che ha visto la partecipazione del prof. Giovanni Fiandaca e del dott. Santi Consolo, la prossima tappa del “Memento” siciliano di Rita Bernardini sarà domani a Messina, davanti al carcere di Gazzi. Martedì 15 giugno, dalle 11 alle 13, camminando e conversando in diretta Facebook sul profilo di Radio Radicale, con Bonny Candido, Presidente della Camera Penale di Messina; Antonio Mandia Presidente della Onlus “Overland”, che si occupa del recupero di giovani ex detenuti; Rina Frisenda, Segretario della Camera Penale di Messina; Antonio Noè, componente della Commissione Sorveglianza, sulle condizioni di detenzione nel nostro Paese e sull’obbligo da parte dello Stato di rimuovere immediatamente le cause che generano trattamenti inumani e degradanti nel corso dell’esecuzione penale. Le “due ore d’aria” - così le definisce Bernardini - saranno aperte alle 11 dal militante storico radicale di Messina, Saro Visicaro. “Memento” è un’iniziativa nonviolenta di dialogo rivolta agli interlocutori istituzionali che hanno il potere-dovere di intervenire. L’esponente del Partito Radicale e di “Nessuno Tocchi Caino”, Bernardini, lo ha fatto per quattro mesi consecutivi davanti al Ministero della Giustizia, fino al giorno in cui è stata ricevuta dalla guardasigilli Marta Cartabia chiamata dal 13 febbraio scorso a porre rimedio alla condizione disperata e disperante sia dell’amministrazione della giustizia che dell’esecuzione penale nel nostro Paese. Paese pluricondannato da almeno 30 anni in sede europea per l’irragionevole durata dei processi e per la sistematica violazione dei diritti umani nelle nostre carceri. Napoli. Tre anni di lavori per rifare il carcere di Poggioreale di Pierluigi Frattasi fanpage.it, 15 giugno 2021 Arrivano 13 milioni di euro per rifare i padiglioni del Carcere di Poggioreale e migliorarne quindi anche l’efficienza. Saranno adeguati i padiglioni Salerno, Napoli, Genova (completamento), Venezia, Italia, presso la casa circondariale. I lavori dureranno circa 3 anni. Domande entro il 19 luglio. Arrivano 13 milioni di euro per rifare i padiglioni del Carcere di Poggioreale e migliorarne quindi anche l'efficienza. Il ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibile - Provveditorato interregionale alle opere pubbliche per la Campania, il Molise, la Puglia e la Basilicata ha lanciato la gara per i lavori di adeguamento dei padiglioni Salerno, Napoli, Genova (completamento), Venezia, Italia, presso la casa circondariale “Giuseppe Salvia” di Poggioreale. Il bando ha un valore di 13.103.027 euro, per la precisione. Il cantiere avrà una durata di 1.140 giorni, circa 3 anni. Le offerte dovranno pervenire entro il 19 luglio. Dal 2013, infatti, il Carcere di Poggioreale è intitolato a Giuseppe Salvia, che fu vicedirettore del penitenziario napoletano e cadde vittima di un agguato di camorra ordinato da Raffaele Cutolo. A bando anche il pronto intervento delle fognature di Napoli Con un secondo appalto, invece, l'Abc di Napoli, l'azienda speciale dell'acquedotto pubblico del Comune di Napoli, dal valore di 11 milioni di euro, assegnerà i lavori di manutenzione di pronto intervento, rifunzionalizzazione, ricostruzione e riabilitazione della rete fognaria urbana. Il bando, è suddiviso in tre lotti. Ogni partecipante potrà aggiudicarsene uno solo. C'è tempo fino al prossimo 13 luglio per presentare le domande. Le fognature di Napoli in passato erano gestite direttamente dal Comune tramite le squadre di fognatori. Una decina di anni fa c'erano circa 260 operai. Il servizio poi è passato all'Abc. Attualmente al Comune sono rimasti solo 17 dipendenti che si occupano delle fogne, per lo più tecnici e funzionari amministrativi, visto che Palazzo San Giacomo non cura più direttamente la parte manuale. Napoli. Protocollo per il reinserimento lavorativo dei detenuti anteprima24.it, 15 giugno 2021 Il prossimo mercoledì 16 giugno 2021, alle ore 10.00 presso il Circolo Unificato di Presidio a Palazzo “Salerno”, in piazza Plebiscito a Napoli, sarà firmato un protocollo di intesa tra il Comando Forze Operative Sud, il Provveditorato per l’Amministrazione Penitenziaria, il Tribunale di sorveglianza di Napoli e il Garante Regionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Finalità del protocollo è quello di mettere a disposizione dei detenuti, delle case circondariali di Poggioreale e Secondigliano, delle opportunità lavorative per lavori di pubblica utilità in favore della collettività. In particolare i detenuti potranno svolgere principalmente la pulizia delle aree esterne e la manutenzione del verde dello stadio militare “Albricci”, a Napoli in via Generale Pignatelli, 28. Il protocollo sarà firmato dal Comandante delle Forze Operative Sud, Generale di Corpo d’Armata Giuseppenicola Tota, dal Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria di Napoli, dott. Antonio Fullone, dal Presidente del Tribunale di sorveglianza di Napoli, dott.ssa Angelica Di Giovanni e il Garante Regionale dei diritti delle persone private della libertà personale, prof. Samuele Ciambriello. Prato. “In carcere si vive sempre una situazione di lockdown” primafirenze.it, 15 giugno 2021 “Difficile per i detenuti capire ciò che accade all’esterno”. La missione quasi decennale di don Enzo Pacini, cappellano alla Dogaia di Prato. Il prossimo mese di luglio, don Enzo Pacini, vicedirettore dell’ufficio pastorale dei migranti sarà da 10 anni cappellano presso la Casa circondariale “La Dogaia”, l’istituto penitenziario di Prato. Don Enzo: “In carcere situazione di lockdown” - Un anniversario importante per chi come don Enzo ha sempre svolto e continua a svolgere una vera e propria missione pastorale, non priva di difficoltà, riscoprendo ogni giorno, insieme ai detenuti, il valore più alto dell’umanità. Una missione oggi aggravata dall’emergenza sanitaria nata dalla pandemia. “In realtà - ha precisato don Enzo - confrontando i problemi che ci sono all’esterno, in carcere viviamo sempre una situazione di “lockdown” e per questo le persone che si trovano in cella stanno vivendo in modo particolare la diffusione del virus, spesso non comprendendo come sia la vera situazione vissuta all’esterno. Ciò che invece è resa più pericolosa è certamente la diffusione del virus. Nella prima ondata non vi sono stati problemi mentre nei mesi scorsi il virus ha iniziato a circolare anche all’interno dell’istituto penitenziario rendendo necessaria la realizzazione di un reparto Covid dove trasferire tutti i detenuti positivi”. La pandemia ha poi prodotto altre conseguenze: la Messa è stata sospesa per un certo periodo ed oggi è ripresa, mentre rimangono sospese, quasi da un anno, la catechesi e le altre attività, anche di tipo sportivo, che venivano svolte con il personale volontario. Continua a svolgersi, invece, l’attività scolastica mentre i colloqui con i familiari vanno a rilento. Le visite in carcere durante la pandemia - È ammessa la presenza solo dei familiari che risiedono a Prato. “Al tempo stesso però - ha osservato il cappellano - è stata incrementata da 1 a 3 volte alla settimana la possibilità di intrattenersi al telefono, anche mediante le videochiamate, con i propri familiari. Nel carcere è molto facile adattarsi ai cambiamenti e quindi anche la mutata situazione data dall’emergenza, dopo un’iniziale tensione, è stata accettata dai detenuti senza particolari problemi. In questi quasi dieci anni - ha proseguito - all’interno della casa circondariale non vi sono stati cambiamenti macroscopici anche se è cambiata la composizione della popolazione carceraria: è sensibilmente diminuita la presenza delle persone nordafricane (mentre è aumentata la presenza degli africani, molti provenienti dalla Nigeria) e sono diminuite le lunghe condanne, come quelle dell’ergastolo, essendo molto più frequenti condanne di breve o media durata che rendono più difficile l’espletamento dei percorsi scolastici completi. Talvolta - ha rivelato - non è facile comporre le classi di detenuti”. A non cambiare, invece, secondo quanto riferito da don Enzo è stata l’età dei carcerati che si attesta sempre come media sulla trentina, con una popolazione molto giovane. “L’esperienza dietro le sbarre - ha concluso il cappellano - avvicina le persone alla fede e ad una riscoperta di certi valori tanto che sono molti i detenuti che si rammaricano della sospensione, oramai da mesi, della catechesi che veniva frequentata con assiduità. Oggi all’interno del carcere anche la mia presenza è più contenuta, mi reco solo quando qualche persona chiede un colloquio, per celebrare la messa o svolgere altre attività di assistenza ma in ogni modo cerco sempre di far sentire la mia vicinanza ai detenuti e al personale della polizia penitenziaria essendo necessario non dimenticarsi mai di quanto sia logorante e impegnativo il lavoro degli agenti”. Milano. Dall'omicidio alla laurea in filosofia: quando il carcere ti cambia in meglio di Lorenzo Zacchetti affaritaliani.it, 15 giugno 2021 Discute la tesi il primo detenuto inserito nella convenzione tra il carcere di Bollate e l'Università Statale di Milano: un esempio per chi vuole cambiare vita. Da un duplice omicidio particolarmente efferato, in un regolamento di conti legato al traffico di droga, alla laurea in filosofia. La storia di J., un albanese tuttora detenuto per il suo passato burrascoso, smentisce tutti i luoghi comuni sul fatto che dalla criminalità organizzata non si esce vivi e che il carcere non abbia funzione rieducativa, ma serva solo a peggiorare chi ci finisce dentro. Certo, bisogna che ci sia la ferma volontà del diretto interessato e che intorno ci siano le condizioni giuste, due elementi che nella storia di J. si ritrovano in pieno: “Quando sono entrato in carcere avevo 29 anni - racconta ad affaritaliani.it - e vedevo i mafiosi sui 50/60 anni, ma se prima mi suscitavano rispetto, in quel momento mi facevano tenerezza. Mi sembravano tristi, vuoti. Ho capito che fino ad allora avevo passato la mia vita ad inseguire sogni sbagliati e ho voluto cambiare nettamente strada. All’inizio studiare mi serviva anche per uscire dalla cella, poi mi sono appassionato e, essendo un ambizioso, ho voluto andare avanti. L’incontro in carcere con una scolaresca di Macerata e i discorsi sulla filosofia mi hanno appassionato, poi un amico mi ha regalato una copia de ‘L’apologia di Socrate’ di Platone e così ho scelto di iscrivermi a questa facoltà”. Tre anni fa J. ha conseguito la laurea breve e proprio oggi, a Milano, discute la tesi per diventare dottore a tutti gli effetti. Un percorso reso possibile dalla convenzione tra il carcere di Bollate e l’Università Statale del capoluogo lombardo, fortemente voluta dal Prof. Stefano Simonetta, autore del libro “Utopia e carcere”, proprio in seguito all’incontro con J. “Si può ben dire che J. sia stato il nostro ‘paziente zero’: il suo racconto su quanto fosse difficile studiare in carcere, attendendo anche tre mesi per avere i libri necessari e poi usando un lumicino di notte per non disturbare i compagni di cella, mi ha spinto a creare un percorso per chi volesse cogliere l’occasione della detenzione per provare a cambiare vita”, spiega il docente. Negli anni, il percorso ha previsto anche interessanti sovrapposizioni tra detenuti e studenti in libertà, che hanno accolto con grande interesse la possibilità di avvicinarsi al mondo del carcere, per dare una mano a chi viene solitamente dimenticato ai margini della società, considerandolo irrecuperabile. Tendenzialmente, si cerca di ignorare quale tipo di reati abbiano condotto queste persone in carcere, ma il caso specifico di J. è piuttosto noto, visto che all'epoca ebbe grande risonanza mediatica, anche per le sue caratteristiche di macabra violenza. Questo, comunque, non ha impedito che nascesse un feeling particolare con il suo docente: “Stefano per me è un vero amico, anzi: un fratello”, spiega J. “E’ una persona veramente importante e sono molto orgoglioso di tutto quello che abbiamo fatto insieme: prima sulla mia situazione personale e poi attraverso la convenzione, uno strumento che permette a tutti coloro che davvero lo desiderano di provare a dare un senso diverso alla propria vita”. Ma quando gli si chiede quanto questa esperienza lo abbia cambiato, J. offre una risposta per nulla scontata: “Io non sono cambiato per nulla, ma ho cambiato la mia visione del mondo. Osservando la vita da un punto di vista diverso, ho scoperto di avere delle capacità diverse da quelle che pensavo, ma le avevo già prima. Solo che prima impiegavo la mia energia per fare altre cose, cose sbagliate”. L'odierna discussione della tesi lo emoziona, ma non lo spaventa: “Beh, l’ho scritta io… Penso di poter rispondere a qualunque domanda!”, commenta scherzosamente. Eppure, si tratta di un vero e proprio rito di passaggio, che apre una fase nuova della sua vita, anche se J. la vede in modo leggermente diverso: “La mia vita è già cambiata grazie allo studio e alle nuove porte che si sono aperte. Oggi frequento compagnie diverse dal passato e alla mia festa di laurea non ci saranno familiari, ma 50 ragazzi: tutte amicizie nuove, diverse da quelle del passato. Non so se questa laurea mi darà la possibilità di trovare un lavoro consono al mio percorso di studi, una volta che sarò libero, ma non era questo lo scopo. Ho cambiato totalmente il mio modo di vivere e questo lo posso già affermare con assoluta certezza”. Il fatto che il “paziente zero” sia arrivato a laurearsi è certamente un messaggio molto forte anche agli altri detenuti che stanno accogliendo la possibilità offerta dalla convenzione tra carcere e Università (oltre 100 iscritti, al momento): per quanto possa averci messo di fronte a situazioni di enorme difficoltà, il destino non è ineluttabile. Conversazioni sulla giustizia penale e i suoi protagonisti di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 15 giugno 2021 Percorso di letture attraverso due volumi recenti: “Una fragile indipendenza”, di Paolo Borgna e Jacopo Rosatelli (edito da Seb27) e “Perché abolire il carcere”, di Livio Ferrari e Giuseppe Mosconi (edito da Apogeo). Quattro autori, quattro diverse biografie per due libri che affondano le mani sui temi della giustizia penale, del carcere e dei suoi protagonisti. Un magistrato (Paolo Borgna) e un giornalista e insegnante (Jacopo Rosatelli) conversano intorno alla magistratura e alla sua fragile ma necessaria indipendenza (Una fragile indipendenza, Edizioni SEB 27, pp. 136, euro 15). Un professore universitario, sociologo, studioso della pena e delle sue ambiguità (Giuseppe Mosconi) rilancia insieme a Livio Ferrari (attivista, giornalista, cantautore, francescano) il manifesto abolizionista No prison (Perché abolire il carcere. Le ragioni di “No Prison”, Edizioni Apogeo, pp. 105, euro 15). In ogni dialogo, quando autentico, non c’è un vincitore né un detentore monopolista della verità. Attraverso la lettura di alcuni scambi è possibile affrontare grandi temi quali la giustizia, i rapporti tra governanti e governati, i limiti del diritto al potere, la funzione della legge nella società, il senso delle pene. I dialoghi, tanto più tra personalità provenienti da mondi diversi, ci permettono di procedere lentamente, e senza scorciatoie semplificative. La conversazione tra Jacopo Rosatelli e Paolo Borgna, magistrato per lunghissimi trentanove anni a Torino, si dipana in quel difficile confine tra politica e giustizia, tra media - vecchi e nuovi - e società. Il libro ha la forma del dialogo, ma ha la forza di un viaggio intorno ai dilemmi di una sinistra che da vari decenni non ha trovato la chiave di lettura per interpretare la funzione della giustizia penale in un mondo come quello odierno, dove l’assenza di corpi sociali intermedi ha dato forza all’offerta populistica e a quel circolo vizioso mediatico-politico nel quale non vi è spazio per quelle riflessioni ponderate e profonde sul garantismo che, viceversa, si leggono nel libro. Ecco, per capire come districarsi tra corruzione e enfasi investigativa, tra abusi nelle indagini e giustizia di classe, tra disonesti e criminali, tra consorterie di potere e ruolo strategico e nobile dell’associazionismo politico nella magistratura, Rosatelli e Borgna, con parole diverse ma esito condiviso, suggeriscono di tornare alla teoria garantista e democratica di Luigi Ferrajoli. Altra sarebbe stata la storia se solo le forze progressiste, liberali e genericamente di sinistra, anziché inseguire la piazza, si fossero affidate nel cuore degli anni ’90 al pensiero di Ferrajoli, al suo spiegare come il diritto penale nasca per porre un limite alla violenza delle pene e dei delitti e non per costruire le basi dell’internamento di massa. Probabilmente la linea culturale delle forze progressiste sarebbe stata più riconoscibile. Invece abbiamo visto, anche a sinistra, avallare prese di posizioni a favore di politiche repressive, violente, potenzialmente razziste come quelle delle Broken Windows di Rudolph Giuliani. Negli anni in cui Giuliani da sindaco di New York, emulato anche da noi, predicava la tolleranza zero contro chi viveva nelle periferie urbane (chi non ricorda le ordinanze fiorentine contro i lavavetri trattati alla stregua di pericolosi criminali), Thomas Mathiesen, sociologico norvegese purtroppo da pochissimo scomparso, lanciava l’opzione abolizionista del diritto penale e del carcere. Il libro scritto da Livio Ferrari e Giuseppe Mosconi non si limita a riproporre la dottrina penale abolizionista ma la fa propria ripubblicando un manifesto che aveva già visto la firma del compianto Massimo Pavarini. Si legge nel Preambolo: “Due retoriche spingono oggi il carcere ad assumere un ruolo centrale sulla scena politica e sociale italiana, proponendolo come riferimento fondamentale all’opinione pubblica. Una cultura punitiva e persecutoria contro ogni illecito che sia espressione di marginalità e vulnerabilità sociale, enfatizzato come nemico e pericolo pubblico, e una cultura giustizialista che attribuisce alla persecuzione penale il ruolo di principale rimedio contro i mali che affliggono il sistema politico ed economico nazionale: corruzione, speculazione, distrazione di denaro pubblico, criminalità organizzata, etc. Di contro a questa crescente centralità il carcere manifesta più che mai la sua assoluta inadeguatezza, non solo non riuscendo ad assolvere alle sue funzioni fondative, il cui fallimento storico è evidente, ma dimostrandosi totalmente inefficace nella soluzione delle questioni attribuitegli”. Ecco il filo rosso che lega i due libri: quella cultura punitiva e anti-garantista che ha elevato il carcere a strumento onnivoro diretto al consolidamento del consenso politico e sociale, non riuscendo ad assecondare lo scopo normativo assegnatogli. L’abolizionismo, nelle parole di Ferrari e Mosconi, viene sottratto dal campo dell’utopia e posto nel mondo delle opzioni possibili. Direi che è un percorso più che un singolo atto. Un percorso che non può prescindere, aggiungo, da una rivoluzione antropocentrica. Suketu Mehta: “Il futuro è nelle mani dei migranti” di Carlo Pizzati La Repubblica, 15 giugno 2021 Sono loro la ricchezza del pianeta e l’economia di domani. Ecco perché lo scrittore indiano che vive negli Stati Uniti gli dedica un saggio-manifesto. In “Questa terra è la nostra terra - manifesto di un migrante” (Einaudi) il giornalista e scrittore indiano-americano Suketu Mehta, già autore del famoso Maximum City, delinea dove e come accogliere gli immigrati che l'Occidente continua a respingere: nelle province che stanno perdendo manodopera. In questo saggio coinvolgente, cosparso di storie e reportage commoventi, Mehta ragiona in termini economici, ma anche morali. Colonialismo storico, colonialismo corporativo e cambiamenti climatici continuano a nutrire la migrazione. Ma ciò costituisce una grande opportunità, ecco la teoria del saggio, consolidata da storie e personaggi memorabili, statistiche ragionate e conclusioni condivisibili mirate ad ampliare la comprensione di uno dei fenomeni più controversi della contemporaneità. Com'è cambiata la situazione per gli immigrati con Biden? “Quando Biden è stato eletto ci siamo detti: ah, eccoci alla conclusione di un lungo incubo. Poi Kamala Harris in Guatemala ha dichiarato in pubblico: Non venite! Non venite! (ride e aggiunge ironico), parole che andrebbero scolpite sulla Statua della libertà... Sono le stesse frasi di Trump, con una musica diversa. Certo, Biden fa una politica più umanitaria ed è ovvio che il Covid richieda sospensioni temporanee agli ingressi. Ma quel “non venite” non prende in considerazione che tanti guatemaltechi non hanno scelta. Noi americani siamo responsabili della situazione in Guatemala. La United fruits company fu proprietaria del 42 % di quel Paese. Appena in America Latina si è presentata un'alternativa liberale per poveri, lavoratori o sindacati, noi americani abbiamo sempre fatto del nostro meglio affinché quei leader fossero assassinati o incarcerati e le elezioni invalidate, lasciando al potere il despota di turno, manipolato dalle nostre multinazionali. Se i guatemaltechi non avevano la possibilità di dirci “non venite!” perché noi, ora, dovremmo poterlo dire? E poi noi abbiamo bisogno dei guatemaltechi. Solo l'immigrazione ci può salvare dal declino catastrofico nel tasso di crescita della popolazione americana. Nel 1950 c'erano 5 lavoratori attivi per ogni pensionato. Nel 2013, meno di 3 a 1. Il tasso di fertilità declina. Entro il 2025 le riserve di 3 trilioni di dollari del sistema pensionistico saranno esaurite e gli anziani riceveranno solo l'80% delle pensioni. Gli immigrati sono una necessità. Sono più giovani e lavorano più sodo. Il problema sarà che non ne arrivano abbastanza, non il contrario”. Lei quantifica in 165 trilioni di dollari l'argento saccheggiato dall'America Latina, nei secoli, dicendo che l'emigrazione è una diretta discendente del colonialismo. Quant'è realistico chiedere un risarcimento così? “Sarebbe da pazzi pensare che l'Europa risarcirà 165 trilioni di dollari. Per sanare questo debito basta lasciar entrare i migranti. L'Europa sta registrando un tasso di crescita al di sotto di quello di fertilità. Il più basso è in Italia. Ma anche chi non è emigrato ne beneficia grazie alle rimesse. La crescita del reddito degli emigrati è il miglior modo d'aiutare i poveri nel mondo, perché le rimesse arrivano alle famiglie, mentre gli aiuti vanno alle élite corrotte locali. E le rimesse globali sono il quadruplo degli aiuti: sono i poveri che aiutano i poveri. Non chiedo frontiere aperte, ma cuori aperti”. Cosa nutre le ansie anti-immigrazione degli americani oggi? In che modo differiscono da quelle europee? È solo un fenomeno occidentale? “Anche gli indiani rifiutano gli immigrati del Bangladesh, i sudafricani respingono quelli dello Zimbabwe e in Colombia bloccano i venezuelani. L'ondata di populismo è globale. Ma Europa e America hanno maggiori responsabilità storiche. Il colonialismo britannico ha delineato una distinzione con gli indiani con una forma di purezza razziale nata ben prima dei nazisti. Analizzo le radici dell'odio e della paura dell'altro che in Europa continuano ancora oggi. In India, le radici di odio e paura vengono dal sistema delle caste. L'eccezione americana è che pensiamo ancora d'essere una nazione di immigrati. Non do la colpa ai suprematisti bianchi della provincia americana. Viene insegnato loro a odiare perché anche il loro futuro è stato rubato. Non dal messicano che viene a lavorare nella fattoria accanto, né dal medico indiano che li cura dalla dipendenza da oppiacei. Dai banchieri. Oggi 6 individui possiedono più ricchezza di metà della popolazione mondiale. Hannah Arendt spiega bene l'alleanza tra le masse e il capitale. I ricchi sanno che la rabbia dei disperati coi forconi è manipolabile e hanno creato leader populisti che dicono al metalmeccanico in Pennsylvania o a Torino: “guarda l'africano che tenta di entrare nel nostro Paese, è per colpa sua che non hai un lavoro”. Argomentazione falsa, naturalmente. Ma raccontata bene. L'unico modo per combatterli è raccontare una storia vera e raccontarla meglio. Oggi nel mondo c'è una battaglia tra narratori. Per questo noi scrittori e giornalisti siamo così odiati. Noi che siamo cresciuti con l'editing e la verifica dei fatti, dobbiamo alzare la voce. E in modo coinvolgente”. A che punto è la democrazia di Sabino Cassese Il Foglio, 15 giugno 2021 Se lo chiedono in molti: la democrazia è in pericolo? Ecco le due campane, una rappresentata da Ademo (senza popolo), l’altra dal suo opposto, Demo. Il primo è un personaggio della famosa “Utopia” di Thomas More (1516). Ma potrebbero anche chiamarsi come i due famosi protagonisti della “Montagna magica” di Thomas Mann (1924) Naphta, il reazionario, e Settembrini, il progressista e illuminista. Ademo. Sulla democrazia è calato “l’inverno del nostro scontento”. C’è un diffuso disincanto per la democrazia. Pochi credono nel suo progresso. Anche i paesi democratici si venano di elementi autoritari. La pandemia ha mostrato la fragilità delle democrazie, la loro incapacità di decidere. Per molti le democrazie sono “Lebensunfähig”, cioè incapaci di sopravvivere. Un autore tedesco, Tristan Barczak, ha scritto un libro intitolato Der Nervöse Staat (Mohr Siebeck, 2021), in cui analizza lo Stato d’eccezione, quello in cui abbiamo vissuto negli ultimi tempi. La più antica democrazia, quella britannica, nega il diritto di voto ai prigionieri. La democrazia americana mostra segni di difficoltà (basti pensare all’assalto a Capitol Hill). Siamo ben lontani da quella “politique rationelle” di cui parlava Alphonse de Lamartine. Ci si chiede quale è il lato della democrazia da conservare e quale, invece, quello di cui liberarsi. Demo. Non nego che siamo in difficoltà. Qualcuno parla di una recessione della democrazia. Qualcuno lamenta l’erosione del capitale di fiducia, qualcun altro segnala la crisi rinviata del capitalismo. Ritengo, tuttavia, che i segni di crisi - se di crisi si può parlare - vadano esaminati uno per uno, per non fare di tutta l’erba un fascio. Inoltre, se ci sono inconvenienti nel funzionamento delle democrazie moderne, se ne può trarre la conclusione che l’istituto della democrazia sia in crisi? Difficoltà congiunturali debbono far dubitare della bontà strutturale della democrazia? Se si dovesse abbandonare la democrazia, quale altro tipo di reggimento politico scegliere? La storia del mondo non insegna che vi è stata una continua tendenza a introdurre ordinamenti democratici? Ritorno comunque al mio argomento principale: quali sono gli inconvenienti della democrazia? Ademo. Comincio con la lentezza. Il presidente americano Biden ha recentemente riferito che il presidente cinese Xi Jinping “ritiene che le democrazie siano troppo lente”. Demo. Ma la lentezza è segno del carattere temperato, riflessivo della democrazia. Le ricordo che Thomas More, nel suo famoso libro Utopia, esponeva l’idea che una proposta non potesse essere decisa prima di un certo numero di giorni. E l’articolo 94 della Costituzione italiana, allo stesso scopo, prevede che la mozione di sfiducia al governo “non può essere messa in discussione prima di tre giorni dalla sua presentazione”. Quindi, il tempo, fa parte della democrazia, anche se poi vi sono differenze di velocità che dipendono dalle culture nazionali. Poi, le esperienze concrete dimostrano che non si può affermare che i sistemi autoritari sono efficienti, mentre i sistemi democratici non lo sarebbero. Basti pensare a certe esperienze autoritarie dell’America centrale e meridionale, oppure, sul lato opposto, all’esperienza della democrazia britannica al suo apogeo. In altre parole, vi sono sia democrazie sia regimi autoritari che hanno tempi lunghi. Ademo. Ma la democrazia vorrebbe che il potere venisse esercitato dal popolo, mentre oggi quasi tutte le democrazie hanno un carattere leaderistico. I partiti si sono liquefatti; il potere è personalizzato. Più che di popolo si può parlare di folla, come nel teatro di Shakespeare. Poi, il potere non consiste nel “saper fare” per chi pensa che “uno vale uno” e disprezza la competenza. La rappresentanza, una volta, era considerata una “designazione di capacità” (Vittorio Emanuele Orlando, 1889). Nel 1881, Marco Minghetti nel suo libro su I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia nell’amministrazione (Bologna, Zanichelli, p. 218-219), faceva una previsione che non si è realizzata: “La tendenza scientifica del nostro tempo produce l’effetto di introdurre l’elemento tecnico in ogni parte della cosa pubblica… è da credere che nell’avvenire non sarà più possibile chiamare al ministero di agricoltura un maestro di musica, o a quello di marina un avvocato”. La democrazia sta sempre più perdendo questo sua componente essenziale della competenza. Come si può governare una società se i rappresentanti del popolo non hanno alcuni requisiti essenziali di competenza? Poi, la politica è sempre più istantanea: a ogni elezione locale, regionale, europea, si chiede un aggiornamento della rappresentanza nel Parlamento nazionale, così negando l’autonomia degli enti. La classe politica è composta di “spiriti di corta vista che appassiscono in corso di fioritura”, che fanno proposte quotidiane alla ricerca di consensi immediati. La politica è sempre più gladiatoria, immediata, di rappresentazione, non riflessiva, spettacolarizzata, superficiale, asincrona, perché ognuno va per la sua strada, con i suoi tempi. Demo. Non nego che cambino le forme in cui la democrazia opera. Ma alla crisi dell’associazionismo politico fa riscontro un pullulare di associazionismi di tipo sociale e parapolitico. Se l’associazionismo politico è in crisi e le forze politiche sono sempre meno partiti-associazioni, rimane però l’elemento competitivo, schumpeteriano, della democrazia, che consente di offrire scelte all’elettorato tra leader in concorrenza tra di loro. Se i politici sono meno competenti, l’assenza è compensata da organismi epistocratici che costituiscono riserve di competenza (banche centrali, corti costituzionali). La corta vista dei politici nazionali è compensata dalla vista necessariamente lunga dei politici impegnati a livello sovranazionale. Il carattere gladiatorio, spettacolare, teatrale della politica democratica non va imputato soltanto al corpo politico, ma anche al suo pubblico, e in particolare ai mezzi di comunicazione di massa, che ne accentuano le caratteristiche peggiori. La asincronia della politica può essere anche il segno di un sostanziale accordo sugli obiettivi di fondo o sulla necessità di ogni forza politica di dialogare con il proprio elettorato. Ademo. Un altro segno di crisi, in particolare di quella italiana, è il continuo ricorso ai cosiddetti tecnici. Perché si vota, se poi bisogna ricorrere ad essi? In un quarto di secolo, abbiamo avuto prima Ciampi, poi Dini, poi Monti, poi Conte, nelle due versioni, infine Draghi. Poi, vi sono stati tecnici componenti dei governi: con Ciampi metà dei ministri erano tecnici; nel primo governo Conte, un terzo; nel suo secondo governo un quarto, nel governo Draghi di nuovo un terzo. I partiti, rinunciando a fare i partiti-associazione e divenendo movimenti, hanno aperto la strada a tutti questi tecnici. Demo. Ma si può tracciare una linea di separazione netta tra cosiddetti tecnici e politici? Vi sono politici che sono anche tecnici, come Brunetta, oppure tecnici che hanno anche svolto attività politica, come Bianchi. Oppure tecnici che operano, in quanto membri dei governi, in aree estranee alla loro specifica competenza. Oppure tecnici come Draghi, che ha svolto per dieci anni il ruolo di direttore generale del Tesoro, per sei quello di governatore della Banca d’Italia, per otto quello di presidente della Banca centrale europea. Si può dire che quest’ultimo non sia un politico? Questi sono segni della fragilità e della forza della democrazia. Consapevole delle proprie debolezze, si appoggia a chi ne sa di più: molti di questi tecnici non sono genericamente soltanto degli esperti, ma hanno anche esperienze organizzative. E questo comporta anche una riscoperta dell’articolo 92 della Costituzione, che conferisce al presidente della Repubblica il compito di nominare il presidente del Consiglio dei ministri, mentre una volta questa decisione era il frutto di un accordo tra i partiti. Ademo. Un altro limite della democrazia è quello di sottoporsi a poteri sovranazionali che non hanno legittimazione democratica. Questi poteri sovranazionali rispondono al criterio di una “machine that runs of itself”, per adoperare una espressione usata da James Russell Lowell nel 1888 per criticare la fiducia di alcuni costituenti americani nella perfezione meccanica del sistema politico americano. Anche se gli organismi sovranazionali sono monofunzionali, la globalizzazione è prevalentemente amministrativa o riguarda la “low politics”, le amministrazioni nazionali partecipano alla formazione della volontà degli organismi sovranazionali, tutto questo non toglie che nell’arcipelago pubblico i regolatori globali non abbiano diretta legittimazione democratica. Demo. Ma gli organismi globali hanno il supporto degli Stati nazionali e spesso anche degli organismi substatali. Godono, quindi, di una legittimazione indiretta. Inoltre, essi concorrono a limitare il potere degli Stati, quindi svolgono una funzione democratica. Anche se non democratiche, le organizzazioni sovranazionali tengono bene sotto controllo quelle nazionali: basti pensare ai due esempi dell’Ungheria e della Polonia nell’Unione Europea. Ademo. Parliamo anche dei segni di crisi della democrazia che derivano dall’esperienza della pandemia. Il politologo americano Francis Fukuyama, in un’intervista data al Corriere della Sera del 20 maggio 2021, ha osservato che “l’altro grosso effetto della pandemia è il rilancio dello Stato come investitore e come regolatore”. In uno studio intitolato “The Effect of Covid on Eu Democracies” (European Policy Institutes Network, 30 aprile 2021), viene osservato che gli esecutivi si sono rafforzati, si sono indeboliti i controlli dei parlamenti sui poteri esecutivi, i parlamenti sono stati messi da parte. Demo. Queste critiche della democrazia considerano soltanto l’aspetto della legittimazione elettorale, che risale alle definizioni enfatiche della democrazia, come quella di Lincoln (1863), come governo del popolo, da parte del popolo, per il popolo, oppure quella delle Nazioni Unite, come libera espressione della volontà dei popoli nel determinare i propri sistemi politici, economici, sociali e culturali. Ma la democrazia è innanzitutto limite del potere. Per capire questo, bisogna ritornare a un attento osservatore del potere, quale è stato Shakespeare. I grandi protagonisti detentori del potere nei drammi di Shakespeare, da Riccardo III a Giulio Cesare, incontrano un solo limite al proprio potere: quello naturale, la morte. Oggi il potere nasce limitato. Non è duraturo, perché sono pochissime le cariche assegnate a vita. Esse non hanno espansione illimitata perché definite dalla competenza. Incontrano limiti nei contropoteri. Il potere è distribuito. Ademo. Questo porta acqua al mio mulino. Non tutti i poteri sono democratici, nonostante l’altisonante dichiarazione dell’articolo 1 della Costituzione italiana. I titolari del potere esecutivo e quelli del potere giudiziario non godono di una legittimazione elettiva. Demo. Concordo: quell’incipit dell’articolo 1 della Costituzione è enfatico. Prende la parte per il tutto. Non tutto il sistema politico costituzionale italiano è retto dal principio democratico, e lo stesso può dirsi per tutti gli altri reggimenti democratici del mondo. Ma la democrazia, come limite del potere, è anch’essa limitata, perché si può esercitare solo in certi ambiti e solo da parte di certi soggetti. Ed è limitata nella sua durata. Non a caso i costituenti americani hanno previsto durate tanto diverse per i vertici dello Stato, due, quattro e sei anni. E hanno stabilito in qualche caso limiti al rinnovo. In Italia, la durata in carica del presidente della Repubblica è superiore a quella delle assemblee parlamentari perché - come osservava Costantino Mortati, uno dei costituenti - il presidente è così svincolato meglio dalla maggioranza che lo ha eletto, per raggiungere un migliore equilibrio istituzionale garantito dalla contemporanea presenza di organi che rispecchiano situazioni politiche non pienamente coincidenti tra di loro. In altre parole, la maggioranza di un certo momento non prende tutto, grazie alla durata diversa delle cariche. Ademo. Anche l’elezione è uno strumento ambiguo. In che cosa consiste? Non si sceglie, ma si approva. Si approva un orientamento, indicando un partito; si approva una lista, indicando un elenco di persone. La scelta delle persone è fatta da altri, dai proponenti, cioè dalle forze politiche. E queste non riescono a scegliere le persone adatte, anche perché è difficile dire quali siano quelle giuste. Poi, perché i cosiddetti rappresentanti debbono essere anche i gestori della cosa pubblica? Non sarebbe bene che i rappresentanti fossero nettamente separati dai gestori? E non sarebbe necessario stabilire che, come vi sono requisiti di età e di cittadinanza vi siano anche requisiti di competenza e di esperienza per poter essere designati dalle forze politiche? Demo. Ma proprio perché la democrazia è un regime così ambiguo si preferisce avere più democrazie, che si controllino reciprocamente e si preferisce far esprimere il popolo non solo con le elezioni, ma anche con il dibattito pubblico, allargando lo spazio pubblico alla cosiddetta democrazia deliberativa. Inoltre, l’elettore compie una scelta. Si trova nelle stesse condizioni di un acquirente al quale vengono offerti più prodotti diversi per qualità e prezzo. Il votante, come l’acquirente, deve operare una scelta. Ma può anche non farlo, astenendosi dal voto, così come l’acquirente può rinunciare all’acquisto del bene. Quanto alla separazione tra rappresentanza e gestione, questa è presente “in nuce” in tutti gli ordinamenti moderni, anche se in Italia è tradita. Infatti, al vertice del potere esecutivo, al corpo politico spetterebbero indirizzo e controllo, e all’alta amministrazione spetterebbe la gestione. Con l’introduzione dello “spoils system”, tuttavia, questa distinzione è rimasta sulla carta. Ademo. Ma ci si fida tanto poco della democrazia che viene anche sottoposta a controlli. I costituenti americani temevano la tirannide della maggioranza e quindi buttarono molta sabbia nelle ruote della democrazia, sia con una rigida separazione dei poteri sia riconoscendo un compito tanto importante alla Corte suprema (giudicare le leggi). Demo. Questo non è un segno di debolezza, ma, al contrario, un segno di forza della democrazia. La democrazia non ha un eccesso di fiducia in sé stessa. Non nasce come uno strumento onnicomprensivo, totalizzante. Ha in sé stessa i propri limiti. Si potrebbe dire, riprendendo un dibattito che ha attraversato la storia del costituzionalismo americano fino a Woodrow Wilson, che la democrazia è ispirata a una idea darwinistica e non newtoniana, quindi non meccanicistica dei sistemi politici. Ademo. Questo non vuol dire che, nell’ambito che è proprio della democrazia, la tirannide della maggioranza possa essere meno pesante della tirannide di un piccolo gruppo di persone in un regime autoritario. Se questo fosse composto da una élite illuminata, non sarebbe meglio? Demo. Nel corso della storia non vi sono stati casi di un ristretto manipolo di persone illuminate che, esercitando il potere, non ne abbiano abusato. Rimango, quindi, dell’opinione che i regimi democratici siano migliori di quelli autocratici a patto che nelle democrazie vi siano buoni giardinieri, perché le democrazie sono come i giardini: vanno disegnati bene; i semi vanno piantati, concimati, innaffiati; si deve contare sulla qualità del terreno, su condizioni atmosferiche favorevoli; poi, occorre procedere alle potature e agli innesti e solo alla fine ci sarà un bel giardino. Voglio dire che contano anche le circostanze e i contesti. Il peggiore sovrano d’Inghilterra, re Giovanni, firmò nel 1215 la Magna Carta. Quando si parla della democrazia italiana, non bisogna mai dimenticare quello che osservava Franco Venturi: “C’è la necessità di porsi e di riporsi il problema dell’unità. Non bisogna dimenticare mai che l’ultimo anno in cui ci fu in Italia un governo unico prima del 1861 è il 568, quando arrivarono i longobardi” (Franco Venturi, in Corrado Stajano, Maestri e infedeli. Ritratti del Novecento, Milano, Garzanti, 2008,p. 300). Infine, la democrazia è il frutto di piccoli aggiustamenti e riaggiustamenti, esempio di quel “social engineering” che era proposto da Karl Popper come alternativo all’olismo, una forma di “filosofia terrena”, come l’economia. Ademo. Voliamo più basso. Non può negare che la Cina abbia reagito più rapidamente e più efficacemente alla diffusione della pandemia e che anche l’Italia abbia dovuto mettersi nelle mani di un generale. Su questa difficile situazione sono state raccolte molte opinioni e svolti molti ragionamenti. Cito per tutti un’opera che in qualche modo li riassume, ponderosa e importante, curata per la Fondazione Leonardo da Alessandro Pajno e da Luciano Violante, Biopolitica, pandemia e democrazia. Rule of law nella società digitale, divisa in tre tomi: vol. I, Problemi di governo, vol. II, Etica, comunicazione e diritti, vol. III, Pandemia e tecnologie. L’impatto su processi, scuola e medicina (Bologna, il Mulino, 2021). Demo. Riconosco la maggiore complessità delle democrazie. Questa complessità deriva dal fatto che, nel corso della storia, le democrazie hanno ascoltato più voci e hanno canonizzato un maggior numero di interessi collettivi, stabilendo criteri per la loro tutela. Quindi, ogni nuova decisione deve tener conto dei beni ambientali da tutelare, del patrimonio culturale da garantire, degli interessi dei lavoratori da proteggere, e così via. Ma questa maggiore complessità non comporta necessariamente maggiore lentezza, tanto è vero che quasi dovunque si parla di semplificazione e di reingegnerizzazione delle procedure. Uno sforzo di questo tipo è stato avviato e riavviato più volte negli ultimi anni anche in Italia, ma ha avuto due difetti. In primo luogo, non è stato continuo, è stato sottoposto a un ripetuto, “stop and go”. In secondo luogo, è stato diretto più a eliminare intralci e inconvenienti che a promuovere e incentivare un maggiore attivismo nelle strutture pubbliche. A questo bisogna porre rimedio. La denuncia di Papa Francesco: “Una finanza senza scrupoli crea indigenza ed esclusione” di Paolo Rodari La Repubblica, 15 giugno 2021 Pubblicato il messaggio del Papa per la Giornata Mondiale dei Poveri che sarà celebrata il 14 prossimo novembre. Un testo non scontato, nel quale dopo un anno e mezzo di pandemia chiede risposte per la piaga della disoccupazione, denuncia una finanza senza scrupoli che crea sempre nuove trappole dell’indigenza e dell’esclusione, e ricorda come a pagare il prezzo più altro siano sempre i poveri che vivono in condizioni disumane. Sono alcuni spunti contenuti nel messaggio del Papa per la Giornata Mondiale dei Poveri. Il testo è stato reso noto oggi. La Giornata sarà celebrata il 14 prossimo novembre. Con la pandemia, dice Francesco, “si è aggiunta un'altra piaga che ha moltiplicato ulteriormente i poveri”. “Uno sguardo attento richiede che si trovino le soluzioni più idonee per combattere il virus a livello mondiale, senza mirare a interessi di parte. In particolare, è urgente dare risposte concrete a quanti patiscono la disoccupazione, che colpisce in maniera drammatica tanti padri di famiglia, donne e giovani”. Per il Papa la povertà è frutto di un sistema “senza scrupoli”. C’è chi considera i poveri “un peso intollerabile per un sistema economico che pone al centro l'interesse di alcune categorie privilegiate”. Ma “un mercato che ignora o seleziona i principi etici crea condizioni disumane che si abbattono su persone che vivono già in condizioni precarie”. “Si assiste così - dice ancora Francesco - alla creazione di sempre nuove trappole dell'indigenza e dell'esclusione, prodotte da attori economici e finanziari senza scrupoli, privi di senso umanitario e responsabilità sociale”. La presenza dei poveri nelle nostre società, spiega ancora il Papa, “è costante, ma non deve indurre a un'abitudine che diventa indifferenza, bensì coinvolgere in una condivisione di vita che non ammette deleghe. I poveri non sono persone 'esterne' alla comunità, ma fratelli e sorelle con cui condividere la sofferenza, per alleviare il loro disagio e l'emarginazione, perché venga loro restituita la dignità perduta e assicurata l'inclusione sociale necessaria”. Papa Francesco sottolinea che “un gesto di beneficenza presuppone un benefattore e un beneficato, mentre la condivisione genera fratellanza. L'elemosina è occasionale; la condivisione invece è duratura. La prima rischia di gratificare chi la compie e di umiliare chi la riceve; la seconda rafforza la solidarietà e pone le premesse necessarie per raggiungere la giustizia. Insomma, i credenti, quando vogliono vedere di persona Gesù e toccarlo con mano, sanno dove rivolgersi: i poveri sono sacramento di Cristo, rappresentano la sua persona e rinviano a Lui”, rileva il Pontefice concludendo: “Non si tratta di alleggerire la nostra coscienza facendo qualche elemosina, ma piuttosto di contrastare la cultura dell'indifferenza e dell'ingiustizia con cui ci si pone nei confronti dei poveri”. Il Papa ricorda che essere cristiani “implica la scelta di non accumulare tesori sulla terra, che danno l'illusione di una sicurezza in realtà fragile ed effimera. Al contrario, richiede la disponibilità a liberarsi da ogni vincolo che impedisce di raggiungere la vera felicità e beatitudine, per riconoscere ciò che è duraturo e non può essere distrutto da niente e nessuno”. E ancora: “Se non si sceglie di diventare poveri di ricchezze effimere, di potere mondano e di vanagloria, non si sarà mai in grado di donare la vita per amore; si vivrà un'esistenza frammentaria, piena di buoni propositi ma inefficace per trasformare il mondo. Si tratta, pertanto, di aprirsi decisamente alla grazia di Cristo, che può renderci testimoni della sua carità senza limiti e restituire credibilità alla nostra presenza nel mondo”. Il pensiero del vescovo di Roma è rivolto anche alle donne, “così spesso discriminate e tenute lontano dai posti di responsabilità, nelle pagine dei Vangeli sono invece protagoniste nella storia della rivelazione”. Riferendosi alla donna citata dal Vangelo, che porta il profumo per Gesù, e viene criticata dagli altri, il Papa dice: “Questa donna anonima, destinata forse per questo a rappresentare l'intero universo femminile che nel corso dei secoli non avrà voce e subirà violenze, inaugura la significativa presenza di donne che prendono parte al momento culminante della vita di Cristo: la sua crocifissione, morte e sepoltura e la sua apparizione da Risorto”. Psichiatria. Alberta Basaglia: “Se muore il sogno di mio padre” di Simonetta Fiori La Repubblica, 15 giugno 2021 La scelta del nuovo direttore del centro di salute mentale di Trieste e l’eredità della legge 180. Parla Alberta, la figlia del grande psichiatra. “Stanno uccidendo l'eredità di mio padre. Quando saranno distrutti gli ultimi baluardi che dimostrano l'efficacia della riforma Basaglia, sarà più facile rinnegare la sua rivoluzione culturale”. Alberta Basaglia è abituata a soppesare le parole. Nel bellissimo libro Le nuvole di Picasso ha raccontato la storia della sua famiglia e della sua diversità di ipovedente nella casa aperta ai matti. Dal padre Franco Basaglia e dalla madre Franca Ongaro ha ereditato la vocazione all'ascolto delle voci negate: per anni è stata bambinologa, psicologa delle donne e degli adolescenti, organizzatrice di un centro sulla violenza sessuale. Da vicepresidente della Fondazione dedicata ai suoi genitori, nell'isola di San Servolo, sente la responsabilità di custodire un pensiero che in molti vorrebbero cancellare. “Ho appena finito di realizzare la mostra virtuale Diritti al cubo. Gorizia epicentro di una rivoluzione. Mi sembra la risposta più adatta agli attacchi ricevuti dagli eredi di mio padre”. Partiamo dal recente concorso di Trieste... “Bisognava scegliere il nuovo direttore per uno dei centri di salute mentale della città. La valutazione dei curricula assegnava la vittoria a uno psichiatra formato a Trieste, conoscitore d'una modalità di cura che è figlia della Riforma Basaglia. La prova orale del concorso ha rovesciato la graduatoria, dando il primo posto a un anziano medico di Cagliari che è espressione di una cultura psichiatrica antitetica a quella triestina”. Che cosa intende? “Il servizio da lui diretto è stato segnalato dal “Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà” per la povertà di spazi aperti e per l'uso della contenzione. Aggiungo che la presidente della commissione che ha valutato i candidati è omogenea culturalmente ai metodi adottati dal professore sardo. Siamo molto lontani da quel modello friulano che anche di recente ha raccolto l'encomio dell'Organizzazione Mondiale della Sanità”. Un modello segnalato come esemplare per la cura della sofferenza psichiatrica... “I centri di salute mentale diffusi nel territorio sono dei luoghi fisici che accolgono la malattia psichiatrica e offrono risposte diverse calibrate sull'intensità della sofferenza: senza mai arrivare alla contenzione. Questo modello rappresenta il passo successivo della rivoluzione basagliana. Ha dimostrato che la Legge 180 - in alcune regioni applicata solo in parte, in altre totalmente ignorata - se realizzata in tutte le sue articolazioni è una legge che funziona molto bene”. Il concorso di Trieste segna l'occupazione da parte della psichiatria tradizionale di un simbolo dell'eredità basagliana... “Viene il sospetto che si voglia mettere in pericolo l'intero sistema di cura psichiatrica di quella regione: in questo senso non sono incoraggianti le intenzioni manifestate dalla giunta leghista che vorrebbe ridurre il numero di Centri di salute mentale e il loro orario di apertura. In fondo stanno distruggendo ciò che dimostra la realizzabilità della riforma. La legge è stata accusata di essere astratta e ideologica e di non misurarsi con i problemi concreti dei matti. In Friuli hanno ampiamente dimostrato che questa accusa è infondata. Quando ne saranno cancellati gli ultimi baluardi, sarà più facile rinnegare la portata rivoluzionaria di quella battaglia culturale”. In gioco non era solo un diverso approccio clinico, ma una concezione diversa della persona. “Fu questa la rivoluzione di mio padre: mettere al centro non la malattia ma il malato. Sottrarre il matto al destino di emarginato, restituendogli i diritti negati. Fu una rivoluzione civile, oltre che medica. E mi sembra che oggi la destra leghista tenda a rifiutare i principi ideali che diedero vita alla riforma, ossia la cultura dei diritti. Una cultura attenta alla persona, alle sue sofferenze, ferma nel richiamare la responsabilità dell'intero corpo sociale che deve farsene carico. Pensi oggi a quel che succede con i migranti, con le donne e con i bambini, e con tutte le forme di diversità che vengono escluse, non incluse”. Anche all'epoca la riforma fu molto avversata. Ne ricorda gli echi in famiglia? “I miei genitori non si meravigliavano di tanta ostilità: si trattava di far cadere una barriera che teneva in piedi un sistema di potere. Non erano sicuri di vincere, erano sicuri però di fare una battaglia giusta. E gli attacchi anche virulenti venivano accolti come la conferma di un'azione che incideva in profondità”. Spiega in questo modo anche l'acredine di oggi? “Se si trattasse di un'eredità morta, non sarebbe bersaglio di nuove aggressioni. Di quante rivoluzioni di quegli anni oggi non si parla più? Quello basagliano fu un rovesciamento che ha lasciato un segno. Ed è con questa realtà che molte istituzioni sociali e politiche non vogliono fare i conti: accettare che la società sia composta da persone diverse. E che le persone psichicamente fragili debbano farne parte”. Poco prima di morire suo padre disse di non escludere che i manicomi sarebbero stati ripristinati, anche più punitivi e chiusi di quelli precedenti. “Si disse questo, ma aggiunse che l'importante era aver dimostrato che l'impossibile diventa possibile. “Abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in altra maniera”. E rispetto a questa conquista, non si può tornare indietro. Se curi un paziente psichiatrico legandolo a letto, stai scegliendo di farlo. E chi dice che legare sia l'unica soluzione praticabile mente. Sono tanti i luoghi in Italia dove si è dimostrato che è possibile praticare un approccio terapeutico non contenitivo. E rivendicare oggi l'uso della contenzione e dell'abuso dei farmaci come espressione di uno sviluppo scientifico costituisce palesemente un atto di malafede”. Da figlia cosa prova? “Una grande rabbia. I miei genitori si sono messi all'ascolto di chi non aveva voce. E ci sono riusciti, fino in fondo. Ora tutto questo rischia di essere cancellato. Il presidente della Società di Psichiatria, Massimo Di Giannantonio, ha difeso l'esito del concorso di Trieste. E ha anche aggiunto di essere come tutti un “basagliano”, però è arrivato il momento di superare quella ispirazione perché la scienza è andata avanti. Sarebbe curioso capire in che cosa consista “una pratica più avanzata” rispetto a un modello di cura ispirato dalla formula “la libertà è terapeutica”, oggi attuata dagli eredi di mio padre”. Ha parlato con qualcuno di loro? “Sì, sono in stretto contato con Franco Rotelli, Peppe Dell'Acqua, Giovanna Del Giudice, Maria Grazia Giannichedda. Sono loro che hanno realizzato la riforma di mio padre. E, a distanza di anni, continuano a presidiare le conquiste consolidate negli anni, nonostante i periodici attacchi. Li ho sentiti indignati. Si sta rischiando di tornare indietro non di anni, ma di secoli: la cura della sofferenza con pratiche autoritarie e disumane”. Lei inaugura la mostra sui suoi genitori con una fotografia del manicomio di Gorizia. Suo padre ne rimase sconcertato... “Mi ricordo che quando tornava a casa, dopo una giornata trascorsa nell'ospedale psichiatrico, doveva cambiarsi d'abito e farsi una doccia perché non ne sopportava l'odore. Mia madre parlava di uomini che sembravano larve, tutti con la testa rasata e lo sguardo perso. Si reggevano i pantaloni perché la cintura era ritenuta pericolosa, come erano pericolosi i lacci delle scarpe: trascinavano i passi, se non stavano sdraiati sulle panche. Docili ai comandi perché era stato ucciso tutto ciò che restava di umano”. Una volta mi disse che in questi decenni hanno voluto fare di suo padre una favola bella... “Sì, una sorta di padre Pio che ha liberato i matti dalle catene. Oppure il ribelle velleitario che chiude i manicomi infischiandosene delle conseguenze. La santificazione non serve a niente. E sono molto irritanti coloro che si professano basagliani per poi distruggere il suo pensiero. Bisognerebbe riconoscere il risultato d'una battaglia che ha inciso sulla vita di milioni di persone. E non vanificarlo come rischiamo che succeda”. La sento però battagliera... “Mio padre sosteneva che non possiamo vincere perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo convincere. Nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo, cioè determiniamo una situazione di trasformazione. Ecco, io confido nel fatto che ci sia un paese capace di lottare e di convincere: si tratta di difendere un'idea di cura mossa da principi democratici”. Migranti. Saman Abbas e i due Islam di Luigi Manconi Il Manifesto, 15 giugno 2021 La questione per la democrazia italiana è una: come agevolare un itinerario, talvolta doloroso, di liberazione individuale e collettiva? Sull'atroce vicenda di Saman Abbas si comincia, finalmente, a discutere con serietà. Grazie, va detto, alle significative parole pronunciate da esponenti della comunità musulmana italiana. Per alcune settimane, il dibattito ha avuto toni surreali, concentrato sulla mancata “indignazione della sinistra” nei confronti di quel delitto, a causa di un calcolo elettorale finalizzato a conquistare la rappresentanza dei musulmani. Lettura due volte bizzarra: intanto perché se la sinistra ha taciuto la destra non è stata da meno: muta più che come un pesce, come un lichene o un asparago. E poi perché, notoriamente, l'orientamento politico-elettorale dei musulmani, in tutti i Paesi europei, è di tipo conservatore, quando non di destra. Accantonate tali lepidezze, ora si possono affrontare le implicazioni profonde che la sorte toccata a Saman ci consegna. Innanzitutto, si può dire che, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni, “l'Islam c'entra”. Insomma, quello della diciottenne pachistana non è stato l'ennesimo femminicidio (uno dei 46 registrati nel solo 2021). Si tratta, piuttosto, di un crimine che ha visto coinvolto un intero clan parentale, determinato a osservare ciò che rappresentano un principio e una norma. Principio e norma che sono l'esito dell'incontro tra un'idea fondamentalista dell'Islam e una tradizione patriarcale e tribale dell'ordine familiare. È quanto sostiene Karima Moual, giornalista di origine marocchina, proveniente da “una famiglia berbera molto tradizionale che prega cinque volte al giorno”. Ma non troppo diversamente si è espressa Sumaya Abdel Qader, di origine giordana, consigliera comunale di Milano. Dunque, se è errato demonizzare l'Islam nel suo complesso, è altrettanto superficiale rifiutarsi di vedere il peso esercitato da un'interpretazione integralista del Corano nel condizionare i comportamenti di una parte rilevante dei fedeli. Anche perché lo scontro tra due concezioni dell'Islam, l'una fondamentalista e l'altra progressiva, è al centro di una grande battaglia culturale, in corso in tutti i Paesi occidentali nel cuore delle stesse popolazioni musulmane (in Italia, circa 1 milione e 600 mila individui). Un conflitto intergenerazionale. Una sorta di “lotta di classe” culturale, che oppone i musulmani di seconda generazione a gran parte dei musulmani di quelle precedenti. È una sfida combattuta all'interno delle comunità e delle famiglie con risultati alterni; e che ha visto Saman soccombere davanti al dispotismo familiare fattosi azione criminale. Ma, grazie al cielo, decine di migliaia di sue coetanee e coetanei stanno vincendo la loro battaglia: o perché trovano in famiglia condivisione di valori e aspettative, o perché riescono, nonostante tutto, a ottenere il riconoscimento dei propri diritti. Sono i tantissimi giovani musulmani che frequentano le scuole e le università italiane, che intrecciano relazioni sociali “miste”, che si riuniscono in forme associative che ne agevolano l'emancipazione. E ho contato almeno una dozzina di giovani consigliere comunali musulmane, elette nelle assemblee rappresentative. Sia chiaro: l'esito del conflitto in corso è tutt'altro che scontato. Quello di Saman è un caso raro, ma certamente non unico, e sono assai preoccupanti i dati che ci parlano di un alto numero di adolescenti alle quali viene impedita la prosecuzione del ciclo scolastico. La questione per la democrazia italiana è una: come agevolare questo itinerario, talvolta doloroso, di liberazione individuale e collettiva? Possono contribuire a ciò sia la riforma della legge sulla cittadinanza, sia la sottoscrizione di un'intesa tra lo Stato italiano e le comunità islamiche. Ma quel che conta davvero è la nostra capacità di entrare in rapporto con questi “nuovi italiani”. Avere con essi, cioè, una relazione aperta, che permetta ai musulmani di “apprendere” la fatica della democrazia e agli italiani di “imparare” il complicato gioco del pluralismo. Sudan. Marco Zennaro liberato, il padre Cristiano: “Non ce la faceva, abbiamo pagato” di Andrea Priante Corriere della Sera, 15 giugno 2021 Parla Cristiano, il padre dell’imprenditore veneziano liberato dopo 70 giorni di prigionia in Sudan: “Il ministro Di Maio lo riporti a casa. La frode? Carognata di un’altra azienda”. Merco Zennaro è libero, ma ancora bloccato in Sudan. L’imprenditore veneziano che dal primo aprile veniva rimbalzato da una prigione all’altra di Khartoum, lunedì mattina — su decisione di un giudice che ha accertato la consegna di 800mila euro come garanzia finanziaria — è finalmente stato trasferito in una stanza dell’hotel Acropole, lo stesso in cui alloggia suo padre Cristiano, che da oltre due mesi lotta come un leone per riportare a casa il figlio. “È mio papà il vero eroe di questa storia” ha ripetuto ieri Alvise Zennaro, il fratello di Marco. E Cristiano, 75 anni, per la prima volta da quando l’incubo è cominciato torna a sorridere. “Finalmente l’abbiamo tirato fuori da quella maledetta cella. C’era un’apertura sul soffitto dalla quale entrava il sole e un caldo tremendo, fino a 50 gradi. È stata dura”, racconta il pensionato. Come ci siete riusciti? “Ci sono state diverse persone che hanno collaborato alla fine di questo calvario. Serviva un sudanese che facesse da garante, e ci ha pensato il mio amico George Pagulatos, la cui famiglia di origini greche da tre generazioni gestisce l’hotel in cui alloggiamo. E poi negli ultimi giorni si è dato un gran daffare il sottosegretario agli Affari regionali Mohammed Yassin, che ha studiato a Padova e ha casa a Selvazzano Dentro. Lui rappresenta la nuova generazione dei politici sudanesi, persone perbene che sapranno risollevare le sorti del Paese. E poi ci hanno sostenuto padre Norberto, un prete comboniano, e il nostro ambasciatore Gianluigi Vassallo, sempre in contatto con il dg della Farnesina Luigi Vignali. E anche Giorgio Orsoni, l’ex sindaco di Venezia, che è anche lo zio della moglie di Marco”. Un lavoro di squadra. “Era l’unico modo perché mio figlio ne uscisse vivo. Ci sono stati momenti durissimi. All’inizio la Farnesina mi sconsigliava perfino di venire in Sudan, io ho risposto: “Ci vado, perché sono suo padre e voi fareste lo stesso per i vostri figli”. E così sono venuto. I primi giorni sono stati terribili, mi rendevo conto di essermi cacciato in una situazione più grande di me. La notte dormivo col telefono sul comodino: suonava ed erano i messaggi audio che mi mandava Marco. Diceva: “Papà non ce la faccio più”, erano come pugnalate. La mattina gli facevo consegnare dell’acqua da un tassista, mentre io andavo a trovarlo tutti i pomeriggi per portargli da mangiare. Nell’ultimo commissariato dov’è stato rinchiuso, potevo vederlo solo attraverso una grata. Era in uno stato pietoso. Quelle celle sanno di morte: per chiunque, specie per un europeo, è impossibile sopportare quelle temperature. Non so come Marco ne sia venuto fuori...”. Ora come sta? “È provato sia dal punto di vista psicologico che fisico: ha perso molti chili, le gambe faticano a reggerlo. E parla con voce bassissima che ogni tanto fatico a capire ciò che dice”. Cosa vi siete detti? “Per ottenere la scarcerazione, abbiamo fatto arrivare dall’Italia la somma necessaria, che speriamo di recuperare alla fine del processo. Il giudice ha verificato l’esistenza di questa garanzia e poi ha annunciato, in lingua araba: “Marco è libero”. Noi siamo usciti e ci siamo abbracciati. Lui mi ha sussurrato: “Grazie papà”“. Poi di corsa in hotel. “Quando siamo arrivati all’albergo gli ho consigliato di farsi una doccia e di riposare. Lui per un attimo ha esitato. Mi ha risposto: “Ho paura che vengano a prendermi, cosa facciamo se mi riportano dentro?”. Gli ho risposto di non preoccuparsi, che adesso ci pensa la Farnesina. Perché la verità è questa: io quello che potevo fare l’ho fatto, il futuro è nelle mani del ministero degli Esteri”. Cosa vorrebbe dire al ministro Luigi Di Maio? “Se ho voluto fare questa intervista è proprio perché sia chiara una cosa: il caso di Marco non è finito finché lui rimane bloccato in Sudan. Al ministro dico: vieni a prendere mio figlio, restituiscilo a sua moglie, ai bambini, e anche alla sua impresa e ai dipendenti che da marzo stanno andando avanti senza di lui”. E una volta a casa? “Intanto occorre chiarire la falsa accusa di aver fornito dei trasformatori difettati: quei pezzi sono perfetti, è stata solo una carognata orchestrata da un’azienda concorrente. Poi, ai responsabili di questo supplizio chiederò i danni. Devono pagare per tutte le sofferenze che hanno causato”. Cosa sta facendo in questo momento suo figlio? “È in camera. Ha telefonato alla sua famiglia, si è commosso. Ho prenotato il barbiere per domani. Intanto oggi abbiamo mangiato un piatto di pasta insieme e stasera lo trascino fuori, così si svaga un po’”. Dove andate? “Lo porto a mangiare il pollo alla brace. Qui vicino c’è un posticino fantastico: finché non ci vai, non puoi dire di sapere quant’è buono il pollo alla brace...”. In Afghanistan tira aria di “seconda resistenza” di Giuliano Battiston Il Manifesto, 15 giugno 2021 Mentre gli eserciti stranieri smobilitano. A Kabul come nel nord del Paese si teme il ritorno dei Talebani, resi più forti dalle condizioni dell’accordo firmato con Washington. E la violenza non cessa. Con il governo incapace di difendere i civili, i non-pashtun sono pronti ad armarsi e a fare da sé. Siamo pronti alla pace ma anche alla guerra, ripetono a Kabul. “Molti pensano a come difendersi, c’è il diffuso timore di poter perdere tanto”, spiega Zaki Daryabi, direttore del quotidiano investigativo Etilaatrooz. Con il processo di pace in stallo, le truppe sulla via di casa, contro l’eventuale offensiva militare dei Talebani si invoca una “moqawamat-e-do”, una seconda resistenza. Un’alleanza armata simile a quella che ha resistito negli anni Novanta all’Emirato islamico. Una sorta di Alleanza del nord. “Per ora è una dimostrazione di forza, non è ancora formata, ma ci sono spinte in questa direzione”, racconta Daryabi. Modi diretti e fisico asciutto, ci accoglie nella sede del suo giornale, nel quartiere Kart-e-Char, non lontani da Pul-e-Surk. Lungo il ponte, bancarelle di frutta e verdura, le auto che suonano. Sotto, capannelli di tossicodipendenti. Per Daryabi ci sono due ipotesi: “La prima è che prevalga l’idea di gente come Dostum e Mohaqeq, di integrare milizie regionali ed esercito nazionale, di contrastare insieme i Talebani”. L’altra, la formazione di milizie fuori dal controllo istituzionale. “È solo un’ipotesi, ma è sul tavolo: se il governo venisse visto come incapace di tutelare tutti, di impedire la presa del potere dei Talebani, i non-pashtun potrebbero armarsi. Fare da sé”. “Piuttosto che finire sotto i Talebani prendo un’arma anche io”. Non lontano dalla sede di Etilaatrooz c’è il caffè Simple. L’università di Kabul, chiusa per Covid in queste settimane, è a poche centinaia di metri. Alla moda, nel tardo pomeriggio si riempie di ventenni e trentenni istruiti, che parlano inglese e stanno sui social. Shafaq è avvocato, lavora in un progetto per la riforma della giustizia, con fondi americani. Parla di transitional justice, ma se si mette male si dice pronto a “prendere un’arma”. Nelle città, sotto i talebani non ci vogliono stare. “Oltre alla spinta per lasciare il Paese, c’è un grande movimento interno: da Kandahar su Kabul, o dalla provincia di Daikhundi a Bamiyan. Si va dove si pensa di essere più sicuri”, nota il direttore di Etilaatrooz. Nel Paese, la sicurezza non c’è. I distretti provinciali sono in subbuglio. In Helmand, Kunduz, Badakhshan, Daikundi e altrove. A Kandahar 8 poliziotti uccisi ieri. A Kabul nuovi attentati contro minibus civili, nel quartiere occidentale di Dasht-e-Barchi, dove vive la comunità hazara, la minoranza sciita sotto attacco. In città la sensazione generale è che l’accordo bilaterale con gli americani abbia galvanizzato troppo i Talebani. Che vadano ridimensionati. Avvertiti: non provate a entrare nelle città. “Le scelte dell’amministazione americana hanno rafforzato i Talebani. Sovrastimano il loro potere, la loro forza. Pensano di poter continuare a conquistare territorio e poi imporre l’agenda del negoziato”, ci dice Nargis Nehan, già ministra per il Petrolio e le risorse naturali, ora direttrice di Equality for Peace and Democracy, una delle Ong che hanno fatto propria la liturgia liberale del periodo post-Talebano: empowerment, good governance, civil society. “La verità è che la società civile è debole, la politica divisa, manca una strategia e il consenso su come attuarla”. L’accordo del febbraio 2020 tra Washington e i Talebani non ha ridotto la violenza. Non l’ha fatto l’inizio del negoziato intra-afghano. Neanche l’annuncio del ritiro delle truppe straniere. “Se la diplomazia non funzionasse, molti non lascerebbero che i Talebani prendano il potere facilmente. Farebbero in modo di impedirlo. Perfino la gente istruita si metterebbe in gioco”. Per ora, sostiene Nehan, quella dei vecchi leader jihadi è un’esibizione di forza. Nessuna vera alleanza militare. Ma se ne rafforzano le premesse. La seconda resistenza è sempre più invocata. “È un termine che circola da più di un anno, ma molto più diffuso da qualche mese”, ci spiega Ali Adili, ricercatore dell’Afghanistan Analysts Network. “Retrospettivamente, con prima resistenza si intende quella condotta contro i Talebani dalla cosiddetta Alleanza del nord, soprattutto il Jamiat-e-Islami, il Jumbesh-e-Milli e l’Hezb-e-Whadat. Gli stessi protagonisti di allora, soprattuto del Jamiat, ne parlano: Atta Mohammad Noor, Qanooni, Ahmad Massud, figlio di Ahmad Sha Massud”. Ali Adili riepiloga per noi i casi più rilevanti elencati in un suo recente articolo. A Herat, nella sua residenza il dominus della provincia Ismail Khan, Jamiat-e-Islami, celebra i vecchi mujahedin, accoglie nuovi uomini armati e si dice pronto: “Abbiamo più di 500.000 uomini, difenderemo questa terra. Il governo centrale ci lasci fare”. Ahmad Massud, figlio del comandante Massud, si dice pronto a “restaurare il vero sistema islamico che era obiettivo dei nostri martiri e mujahedin”. L’ex peso massimo del Jamiat e ora fuoriuscito, Atta Mohammad Noor, dice ai Talebani che è bene “capiscano che siamo ancora vivi e che la nazione si difenderà”. L’hazara Mohammed Mohaqeq manda messaggi simili. Nell’Hazarajat spunta la milizia “Dai Chahar”. L’ex presidente Karzai dichiara allo Spiegel “stiamo serrando i ranghi e organizzando la resistenza. Dico al Pakistan: siate ragionevoli”. Scosse telluriche di assestamento. Nascono dall’impasse del processo negoziale intra-afghano. “Nessuno dei due attori, Talebani e fronte repubblicano, pensa più al processo di pace come piano A”, dice Ali Adili. “Entrambi hanno intensificato il conflitto. I Talebani occupando nuovi distretti, il governo concentrandosi sulle capitali provinciali”. Afghanistan. Fa notizia o no che abbiamo perso la guerra? di Alberto Leiss Il Manifesto, 15 giugno 2021 Una settimana fa, lunedì 7 giugno, sono rimasto colpito dal linguaggio diretto dell’editoriale di Paolo Mieli sul Corriere della Sera. Il titolo con un “occhiello” generico: “La guerra, i doveri”. Il messaggio: “Salviamo chi ci aiuta a Kabul”. Ma la vera notizia, un altra. Mieli parte dalla “scarsa attenzione con cui i media occidentali seguono l’evacuazione militare dell’Afghanistan che dovrebbe essere portata a termine il prossimo 11 settembre”. La data fatidica che vent’anni fa, con l’attacco alle torri gemelle, diede inizio anche all’occupazione dell’Afghanistan dei Talebani, responsabili di aver ospitato Bin Laden con Al Qaeda. La guerra degli occidentali avrebbe dovuto garantire libertà agli afghani e alle afghane. “Le cose purtroppo - nota malinconicamente l’autore - non sono andate come era negli auspici dell’Onu: nessuno di quegli obiettivi è stato raggiunto, la guerra l’abbiamo perduta e adesso dobbiamo prepararci ad assistere a scene consuete in questo genere di frangenti. Tutti coloro che in qualsiasi modo hanno aiutato il regime dei “liberatori” avranno paura di subire ritorsioni e si accalcheranno ai cancelli delle nostre ambasciate per implorarci di non essere abbandonati nelle grinfie dei vincitori”. Non si può che essere d’accordo con Mieli sul fatto che l’Italia, come gli Usa e gli altri paesi della coalizione che ha condotto la guerra, debba farsi carico il più possibile dell’incolumità di quelle persone. Ciò che colpisce, oltre alle virgolette al termine liberatori, è quell’esplicito, fattuale “la guerra l’abbiamo perduta”. L’articolo, dopo aver indugiato sui pericoli enormi che ora corrono gli afghani “collaborazionisti”, e soprattutto le donne che hanno creduto di poter vivere con una maggiore libertà (già si contano i femminicidi per questo tipo di ritorsioni), si chiude con una considerazione singolare: aver perso la guerra sarà “poca cosa” in confronto “all’onta di aver lasciato a pagare l’intero prezzo della sconfitta coloro che sono stati decenni al nostro fianco”. Poca cosa? Qui si parla del fatto che il paese militarmente e economicamente più potente del mondo, aiutato dagli altri paesi più “sviluppati”, tra cui il nostro, ha combattuto per venti anni ripetendo che la guerra non serviva solo a sterminare Al Qaeda e il terrorismo di matrice islamica ma, anche, ad assicurare agli afghani una vita libera e civile. Non solo i media, e la politica, occidentali parlano poco della ritirata da Kabul ma quasi nessuno sembra aver voglia di fare e farsi qualche domanda. Come è stato possibile questo disastro? Quali errori di valutazione politica, strategica, militare sono stati fatti? E da chi? E perché? Non sono interrogativi ovvii? Myanmar. La giunta inaugura il processo farsa a San Suu Kyi di Emanuele Giordana Il Manifesto, 15 giugno 2021 Al via il procedimento contro il governo democraticamente eletto nel silenzio globale. La Lady rischia 42 anni di carcere, mentre i militari si preparano a mettere al bando ogni opposizione. In Italia le interrogazioni parlamentari cadono nel vuoto, nonostante le prove nell'inchiesta del manifesto. Ai militari birmani deve essere sfuggito che, nel silenzio generale che circonda il loro golpe in Myanmar, processare pubblicamente Aung San Suu Kyi, apparsa ieri in tribunale a Naypyidaw per rispondere alle prime tre accuse che le pendono sul capo, avrebbe almeno per un attimo riportato nuovamente i riflettori sul sanguinario colpo di Stato del 1 febbraio scorso. Ma per la giunta il processo è il modo, per quanto farsesco, per far apparire “legale” l’illegalità che ha fatto loro smembrare il parlamento appena eletto e che ora vede il ministero dell’interno cominciare un’indagine sui fondi dei vari partiti politici per dar base legale alla messa fuori legge di qualsiasi opposizione. Indagine accompagnata da una lettera a tutti i deputati eletti l’8 novembre scorso che li mette in guardia da qualsiasi contatto con il governo ombra di unità nazionale (Nug). Il processo farsa alla Lady, al presidente Win Myint e all’ex sindaco della capitale Myo Aung, è iniziato ieri e riprenderà oggi, siamo solo alle battute preliminari. Ieri si è cominciato con tre casi per Suu Kyi (possesso di walkie-talkie importati illegalmente, violazione della legge sulle telecomunicazioni e di quella sulla gestione dei disastri naturali) accanto a un’accusa sempre sulle legge che riguarda i disastri contestata anche a U Win Myint. La corte - riferisce il quotidiano Irrawaddy - ha ascoltato solo i testimoni dell’accusa senza controinterrogatorio. Chiaramente un processo a senso unico se si pensa che, tra l’altro, gli imputati hanno potuto vedere i loro difensori, guidati dall’avvocato Khin Maung Zaw, solo due volte prima del processo. Se le accuse fossero provate (corruzione, violazione della legge sul segreto di Stato, di quella sull’import-export, sui disastri naturali e per incitamento) comporterebbero una pena massima alla Lady (secondo i calcoli della Bbc) di 42 anni. Ma se anche fossero solo 25, come qualcun altro ha ipotizzato, la 75enne signora di Yangon, che venerdì prossimo ne compie 76, avrebbe davanti il carcere per il resto della vita. “Questo processo è chiaramente l’inizio di una strategia globale per neutralizzare Suu Kyi e il suo partito”, dice Phil Robertson, vicedirettore per l’Asia di Human Rights Watch, secondo cui le accuse del tribunale speciale della capitale sono “false e politicamente motivate” con l’intenzione di annullare la vittoria e impedire a Suu Kyi di candidarsi nuovamente. Il mondo però non se ne preoccupa particolarmente. Nonostante la mobilitazione di sabato scorso in una ventina di Paesi e una lettera del governo clandestino a Boris Johnson perché mettesse il Myanmar nell’agenda del G7, se ne parla solo al 59mo punto (di 67) del comunicato ufficiale: per ribadire il sostegno all’Asean, l’associazione regionale del Sudest asiatico dimostratasi incapace di gestire il dossier se non avallando alla fine l’esistenza della giunta. Nulla invece sul Nug che sta tentando di ottenere un riconoscimento formale per poter essere rappresentato all’Onu. Se poco è accaduto in Cornovaglia, nulla succede in Italia. Le interrogazioni parlamentari sulle munizioni italiane ritrovate in Myanmar sono già due (Palazzotto, Quartapelle) cui si è aggiunta qualche giorno fa anche una richiesta di Sensi (Pd) sul caso Cheddite, una vicenda su cui Sabrina Moles aveva fatto luce sul manifesto nel marzo scorso, anche se poi si chiarì che la ditta trevigiana aveva venduto sistemi di controllo telematico al governo democratico e non alla giunta. Quanto alle pallottole invece, le interrogazioni, l’inchiesta del manifesto e soprattutto le richieste di diverse organizzazioni della società civile, non hanno avuto nessuna risposta. E in quel caso, le pallottole fabbricate in Italia (o forse assemblate altrove) arrivarono ai militari birmani quasi certamente in tempi non sospetti (cioè quando governava la Lady) ma è un fatto sia che fossero fuori legge, sia che sono state impiegate per reprimere una rivolta pacifica. Anche un altro giornalista molto noto, Francesco Merlo, si occupava del tema rispondendo a un lettore su la Repubblica di domenica scorsa: “… il numero delle persone a rischio è incalcolabile e peserà sulla coscienza e sulla reputazione militare dell’Occidente. In Afghanistan abbiamo perso e dunque “la storia non siamo noi…”. Ma l’esito molto poco “onorevole” di questa guerra non sembra consigliare un cambio di giudizio sul rapporto tra la bruta forza delle armi e la forza simbolica della politica. Sulle stesse pagine il direttore Molinari era tutto preso da passione interventista visto che “la seconda Guerra fredda - ha scritto riferendosi a Usa e Cina - è in pieno svolgimento e, come la prima, ha un cruciale palcoscenico europeo”. E ancora: “L’Italia di Mario Draghi sarà presto chiamata a compiere scelte non indifferenti”. Speriamo non accada in quell’”ora segnata dal destino”, “l’ora delle decisioni irrevocabili”. Nicaragua. Giro di vite del presidente Ortega: arrestata l'eroina della rivoluzione sandinista di Daniele Mastrogiacomo La Repubblica, 15 giugno 2021 A sei mesi dalle elezioni il leader nicaraguense getta in carcere candidati e oppositori. Daniel Ortega fa quello che nessuno avrebbe mai osato fare. Infrange il mito della ritrovata libertà, sbatte in galera l’eroina della rivoluzione sandinista che riportò la democrazia in Nicaragua. Dopo avere messo agli arresti, in carcere e a casa, i candidati che minacciano la sua quarta rielezione alle presidenziali di novembre, fa arrestare Dora Maria Téllez assieme ad Ana Vijil, attivista dell’ex Movimento Rinnovatore Sandinista oggi chiamato Unamos. Muove a entrambe le solite accuse che addossa ad altri quattro rappresentanti di spicco dell’opposizione. Tutti ex guerriglieri ed ex compagni di battaglia del presidente. Docente di Storia, tra le più note e stimate intellettuali dell’America Latina, a soli 22 anni Téllez era la Comandante Dos del Fronte sandinista di liberazione nazionale clandestino; fu lei a guidare l’assalto al Palazzo Nazionale, la ofensiva final, descritta in un celebre libro di García Márquez, che segnò il punto di svolta nella guerra civile e l’inizio della fine della dittatura di Anastasio Somoza. Dopo il trionfo dei sandinisti, nel 1979, venne eletta ministra della Salute nel primo governo democratico, l’unica donna a ricoprire incarichi di rilievo del potere rivoluzionario. Non ha mai terminato i suoi studi di Medicina che aveva deciso di interrompere quando entrò in clandestinità per far parte dei quadri dirigenti giovanili del Fsln. Era capa dello Stato maggiore del Fronte Rigoberto López Pérez. Preferì dedicarsi alla sua passione per la storia che ha continuato a insegnare nelle università. Rientrata nella vita civile, la Comandante Dos, ricorda El País, aderì al nuovo progetto politico dello scrittore Sergio Ramírez. Come altri amici ed ex compagni di lotta era critica con la deriva impressa da Ortega ai principi ispiratori della lunga rivolta armata. Nel 2005 è stata chiamata a Harvard per occupare la cattedra di Studi latinoamericani Robert Kennedy ma Bush le negò il visto bollandola come “terrorista”. Dal 2007 l’aria a Managua ha cominciato a diventare pesante. Tornato al potere, Ortega, assieme alla moglie Rosario Murillo, ha instaurato un governo sempre più autoritario. Ci sono state le prime manifestazioni di protesta culminate nel 2018 con la durissima repressione, il terrore, gli arresti, gli omicidi, le sparizioni ad opera dei servizi segreti e la polizia nazionale. Ora, a sei mesi dalle prossime elezioni presidenziali la nuova stretta della coppia al potere. Tutti gli ex amici e compagni in galera. Tutti accusati di reati inseriti dalle nuove leggi che Ortega ha imposto tramite il Parlamento e la magistratura. Ha paura del voto. Sa che se perde le elezioni per lui e Murillo è finita. Con l’arresto di Dora Maria Téllez, Ortega conferma l’ossessione che avvolge la sua fame di potere e si conferma tra i peggiori nemici della libertà nel Continente. Un vero dittatore. Condanna unanime, Usa e Ue in testa.