La “messa alla prova” guarda ai reati puniti con il carcere fino a dieci anni di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2021 La commissione ministeriale per la riforma penale vuole estendere il raggio d’azione. Allargare il campo della sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato, per ottenere effetti deflattivi e promuovere la giustizia riparativa. Lo propone la commissione per la riforma del processo penale, voluta dalla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, e presieduta da Giorgio Lattanzi. In particolare, nella relazione finale con le proposte di emendamenti al disegno di legge delega di riforma penale all’esame della commissione Giustizia della Camera (atto 2435), gli esperti della commissione suggeriscono di estendere l’ambito di applicabilità della messa alla prova a specifici reati per cui sia prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a dieci anni e che “si prestino a percorsi risocializzanti o riparatori, da parte dell’autore”. Una proposta di estensione che segue il “successo” che l’istituto ha avuto dopo la sua introduzione con la legge 67 del 2014 e che è in linea con la scelta di valorizzazione fatta dalla giurisprudenza, soprattutto nel rapporto tra messa alla prova e altri riti alternativi. Come funziona La sospensione del processo con messa alla prova, che, se va a buon fine, porta all’estinzione del reato, è regolata da ll’arricolo168-bis del Codice penale. Oggi l’istituto è riservato ai reati puniti con pena pecuniaria o detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, oltre che ad alcuni reati con pene massime più alte (violenza o minaccia o resistenza a pubblico ufficiale, oltraggio a magistrato in udienza, violazione di sigilli, rissa, lesioni personali stradali, furto e ricettazione); per lo più reati che non transitano dall’udienza preliminare. Già dalle indagini preliminari e non oltre la dichiarazione di apertura del dibattimento (se si svolge udienza preliminare entro la formulazione delle conclusioni, se è stato notificato decreto penale di condanna in sede di opposizione, se è stato emesso decreto di giudizio immediato entro 15 giorni dalla notifica), l’imputato può chiedere la sospensione del processo per la messa alla prova, sottoponendosi a un programma a cui deve dare il consenso e che, senza il suo consenso, il giudice non può modificare, pena la nullità assoluta della sua decisione (Cassazione 27249/2020). La messa alla prova comporta la prestazione di condotte riparatorie in favore della persona offesa, per eliminare le conseguenze dannose o pericolose del reato e, se possibile, il risarcimento del danno. Comporta anche - in una prospettiva rieducativa e riparativa in favore della comunità - l’affidamento dell’imputato al servizio sociale, per lo svolgimento di un programma che può implicare attività di volontariato di rilievo sociale, o il rispetto di prescrizioni. Deve anche prevedere il lavoro di pubblica utilità, che consiste in una prestazione non retribuita, affidata tenendo conto anche delle professionalità e attitudini lavorative dell’imputato, di almeno io giorni, anche non continuativi, a favore della collettività. Il termine per formulare la richiesta di sospensione del processo con messa alla prova è previsto dall’articolo 464 bis, comma 2, del Codice di procedura penale, inserito tra le norme sui procedimenti speciali. Per questo i giudici di legittimità ribadiscono sempre che la sospensione con messa alla prova produce effetti sostanziali, ma ha prevalente natura processuale (Cassazione 33660/2020), tanto che, se al momento dell’entrata in vigore dell’istituto il termine entro il quale poteva essere formulata la richiesta di ammissione era già decorso, essa non poteva essere più proposta. Lo sbarramento temporale si applica anche quando, in appello, sia intervenuta l’assoluzione per un reato ostativo alla richiesta e la conferma dell’accertamento di responsabilità solo per un altro reato per il quale avrebbe potuto essere formulata (Cassazione 780/2021). In appello la messa alla prova può tornare in gioco quando venga impugnato, insieme alla sentenza, anche il provvedimento di diniego di ammissione alla prova tempestivamente avanzata. Se, dopo il diniego, l’imputato sceglie il rito abbreviato, secondo recenti decisioni, non perde la facoltà di impugnare in appello la decisione per ottenere la messa alla prova (Cassazione 30774/2020). Questo orientamento si contrappone a quello prevalente in passato, per cui la scelta di un altro rito alternativo consumava la possibilità di riproporre la messa alla prova (Cassazione 42469/2018). Ora, nel diverso caso in cui il giudice revochi la sospensione già concessa all’imputato accertando il venir meno dei presupposti con ordinanza emessa in base all’articolo 464-octies, i giudici di legittimità evidenziano che questo provvedimento è autonomamente impugnabile con ricorso per cassazione e il procedimento riprende solo dopo che siano spirati i termini per l’impugnazione. Quindi se chiede l’abbreviato, l’imputato rinuncia tacitamente a ricorrere contro la revoca e non ne potrà più denunciare i vizi negli ulteriori gradi di giudizio (Cassazione 13747/2021). Carcere e diploma. Tutte le regole se il candidato è un detenuto di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2021 La scarcerazione a qualsiasi titolo di per sé non comporta automaticamente, per lo studente, la perdita della posizione di candidato interno. Lo chiarisce il ministero dell’Istruzione con una nota con le indicazioni operative per assicurare la partecipazione alla maturità ai candidati adulti detenuti o con restrizioni della libertà personale e ai candidati sottoposti a provvedimenti dell’autorità giudiziaria minorile nel caso in cui, in prossimità degli esami, sia previsto un allontanamento dalla sezione carceraria. La nota affronta le varie casistiche possibili: il caso del candidato detenuto che, prima degli esami, viene trasferito ad altro istituto penitenziario o scarcerato per fine pena o messo agli arresti domiciliari o in semilibertà. L’argomento già assegnato dal consiglio di classe per l’elaborato oggetto di discussione nel colloquio resta confermato anche qualora il candidato, per qualsiasi motivo, sostenga l’esame dinanzi a una diversa commissione. In tutti i casi in cui non risulti possibile lo svolgimento della prova in presenza, la nota raccomanda di ricorrere alla modalità della videoconferenza, al fine di tutelare il diritto del candidato a sostenere l’esame. Una riforma della giustizia per ridare fiducia ai cittadini di Michele Partipilo Gazzetta del Mezzogiorno, 14 giugno 2021 Nelle ultime settimane la Puglia ha offerto un vasto campionario delle patologie che affliggono l’universo giudiziario. A 160 anni dall’Unità d’Italia e a 75 anni dalla nascita della Repubblica, il nostro principale problema resta la Giustizia. Con questo termine s’intende non un concetto filosofico, bensì il variegato mondo che vi ruota intorno: dalle indagini, all’apparato giudiziario, ai concorsi per diventare magistrati, ai processi, alle leggi e così via. Negli ultimi tempi si è arrivati a una vera e propria emergenza, determinata non da fenomeni del momento, come accadde nella stagione di Mani Pulite, quando lo scontro fra potere politico e potere giudiziario raggiunse l’apice, ma frutto della stratificazione di problemi mai risolti e di contraddizioni mai affrontate. Nelle ultime settimane la Puglia ha offerto un vasto campionario delle patologie che affliggono l’universo giudiziario. Si dirà: i fatti sono emersi perché la magistratura ha all’interno gli anticorpi per reagire e auto-correggersi, come è proprio di uno Stato democratico. È vero, dobbiamo dire un sincero grazie alla Procura di Potenza come a quella di Lecce che hanno scoperchiato intrecci e comportamenti indicibili, forse anche impensabili da parte della gran parte dei cittadini. Ora spetterà ad altri magistrati valutare all’interno dei luoghi deputati e con la garanzia delle procedure previste quei fatti e quei comportamenti per eventualmente sanzionarli nella maniera più rigorosa. Tutto questo però se può offrire una garanzia minima per la tenuta della civiltà giuridica, non basta e non può bastare a ricostruire la fiducia dei cittadini nel sistema giudiziario. La frase di rito pronunciata in tv da tanti indagati (“Ho piena fiducia nella magistratura”) suona ormai come una penosa antifrasi. I giudici della Cassazione in una famosa sentenza del 1984 ammonivano i giornalisti a non utilizzare tale artifizio retorico indicato come “sottinteso sapiente”. Oggi in molti casi l’affermazione “ho fiducia nella magistratura” diventa un inconsapevole sottinteso sapiente. Il venir meno della fiducia nelle toghe e nel sistema giudiziario va a consolidare la mai superata diffidenza dei cittadini nei confronti dello Stato, del quale ogni emanazione è percepita come estranea, invadente e oppressiva, non come strumento per organizzare la società. Affondano in questo terreno le radici profonde della corruzione a ogni livello. Le modalità della malversazione potranno essere le più diverse, ma tutte traggono origine dal sentirsi altro e fuori dallo Stato. La comunità, la società vengono sempre dopo il mio interesse personale: una morale ben sintetizzata nell’etica mussoliniana del “me ne frego”. Oggi l’emergenza giustizia è tale - non solo per le situazioni esplose in Puglia - da diventare un caso internazionale. È noto che fra le condizioni poste dall’Europa per concedere all’Italia il pacco di miliardi previsti dal Recovery fund vi sia anche la riforma del sistema giudiziario. Una “rivoluzione” di cui si parla da sempre, che ha collezionato decine di in proposte di legge e poche norme approvate, che peraltro sembrano aver raggiunto solo una minima quota degli obiettivi previsti. Alle ataviche disfunzioni e lentezze del sistema penale, civile e amministrativo oggi si è aggiunta la questione del Csm, ovvero dell’organo che dovrebbe garantire l’autonomia dell’ordine giudiziario e a cui compete l’autogoverno dei magistrati. Insomma il motore del nostro sistema giustizia. Bene, gli ultimi scandali - sintetizzati da noi giornalisti sotto la sbrigativa definizione di “caso Palamara” - hanno mostrato quanto questo organo costituzionale e le sue decisioni fossero condizionati da interessi di parte, soprattutto politici. In anni lontani Piero Calamandrei ammoniva che “quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra”. E questa è oggi purtroppo la percezione di molti italiani, che pregano di non finire mai in un’aula di tribunale che ancora oggi evoca atmosfere kafkiane. Ora la povera ministra Cartabia è alle prese con la mission impossible di realizzare la riforma, a cominciare dalle nuove modalità di elezione del Csm. La ministra, già presidente della Corte costituzionale, si muove in una specie di cubo di Rubyk in cui ogni spostamento va a determinare decine di scomposizioni. Tanto che fra le ipotesi prospettate è tornata quella del sorteggio dei magistrati, come a dire meglio la dea bendata piuttosto di certi soggetti che ci vedono fin troppo bene. Alla ministra Cartabia va il sincero augurio di riuscire nella sua missione per il bene di tutto il Paese. Ha dalla sua, oltre alla competenza e alla saggezza, l’essere donna e le donne hanno sovente il coraggio, l’ostinazione e la passione civile che difettano a buona parte degli uomini. C’è però da dire che le riforme realizzate sotto la spinta dell’emergenza raramente sono delle buone riforme. Le leggi non si possono scrivere solo sotto la spinta delle mode, degli scandali, del bisogno e men che meno in cambio di una elargizione economica. Perché così risolveranno forse delle questioni tecniche o procedurali, ma non ricostruiranno mai credibilità e fiducia che dovrebbero essere i veri obiettivi di una riforma della giustizia in Italia. La fiducia, come ricordava una vecchia pubblicità televisiva, è una cosa seria, ma in molti l’abbiamo dimenticato. Carlo Nordio: “La magistratura non merita la sfiducia dei cittadini italiani” di Carlo Francesco Conti La Stampa, 14 giugno 2021 Carlo Nordio, parlando a Passepartout di “angeli e corvi” che popolano la Giustizia italiana ha subito ammesso che si tratta di “argomento dannatamente difficile”. Da pubblico accusatore nella sua carriera, si è però fatto difensore: “La magistratura non si merita questa caduta di letame, questa sfiducia da parte dei cittadini. Quello che sta accadendo è di una gravità inaudita e se il cittadino perde fiducia questo è giustificato da vari fatti”. Tra le principali ragioni di sfiducia, Nordio ha individuato la lentezza dei processi, definita “una sconfitta” e un “fallimento etico, oltre che sociale ed economico”, ricordando che l’Italia è sotto l’occhio vigile dell’Unione Europea perché il difetto ha una forte ricaduta economica. Soprattutto la giustizia civile ha un impatto del 2 % del Pil. Un concetto sviluppato anche su sollecitazione del pubblico, riguardo l’inadeguatezza del sistema giudiziario, la cui riforma del processo ha creato una grande confusione. “C’è una schizofrenia nel nostro sistema - ha indicato Nordio - il Codice di procedura penale è del 1988, mentre abbiamo un Codice penale ancora fascista, del 1930, firmato da Mussolini e dal Re”. Altro problema è aver voluto “scopiazzare” il sistema processuale americano senza peraltro avere lo stesso contesto, costringendo così a numerosi correttivi. “Così il processo si è imbastardito - ha continuato Nordio - Abbiamo messo il motore di una Ferrari in una 500 e la 500 si è inceppata”. Ha inoltre escluso che eliminando uno dei tre gradi di giudizio si arriverebbe a velocizzare il procedimento. E ha evidenziato come l’obbligatorietà dell’azione penale renda inadeguato il numero di magistrati in rapporto alla pletora di procedimenti (“La palla di neve è diventata una valanga che ha travolto la giustizia”). Nordio ha poi affrontato la delicata questione suscitata dalla vicenda del magistrato Palamara. “Si pensava che avessimo toccato il fondo, ma è solo la punta di un iceberg che mina da anni la giustizia. Ci sarà ancora molto da dire e da soffrire”. Ricostruendo per sommi capi la vicenda, ha sottolineato l’illegittimità di far trapelare le intercettazioni, lasciando intravvedere un disegno poco chiaro di interessi in una vicenda comunque poco chiara e annunciando: “Il bello, o il brutto, deve ancora venire”. Al centro dell’analisi di Nordio si è posto il rapporto fra il Consiglio Superiore della Magistratura e l’Associazione Nazionale Magistrati e il modo per evitare che i criteri di appartenenza correntizia e il “mercato delle vacche” (definizione di Paolo Mieli) continuino a regolare la vita dei due massimi organismi della magistratura. “Una magistratura - ha ricordato Nordio - che aveva ottenuto una grande credibilità nella lotta al terrorismo, alla mafia e a tangentopoli e che ora è andata perduta. In questo momento in Italia sia sta sgretolando la fiducia nella Giustizia, non solo nei magistrati”. Nordio ha concluso il suo intervento a Passepartout con un arrivederci alla prossima edizione del Premio Asti d’Appello, nella cui giuria togata tornerà volentieri: non c’è più incompatibilità, essendo terminata la sua presidenza della giuria del Premio Campiello. Referendum, sicuri che sulla giustizia debba decidere il popolo? di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 14 giugno 2021 La riforma referendaria va ad emendare dei temi assai delicati, come quelli della giustizia, e di prerogativa del Parlamento, esaminati dalle commissioni. Con il deposito dei quesiti referendari, Lega e Radicali intendono modificare l’attuale disciplina del Sistema Giudiziario, riesumando temi in realtà mai del tutto sepolti e che da decenni animano il dibattito politico e pubblico: la separazione delle carriere dei Magistrati. L’eccessivo ricorso alle misure cautelari in procedimenti destinati ad evaporazione giudiziale porta la mente alla cd. responsabilità civile dei Magistrati; questo uno dei temi unitamente a quello dei criteri di elezione del CSM, oltre alla modifica della Legge Severino e riforma dei Consigli Giudiziari. Sono questi i temi oggetto dei sei quesiti depositati dai due partiti, i quali, ora, dovranno riuscire a raccogliere 500 mila firma affinché l’iter referendario possa proseguire. Pertanto, pur essendo l’iniziativa dei due partiti solo al principio, sarà interessante nelle prossime righe tentar di capire quelli che possono essere i potenziali cambiamenti che investirebbero l’attuale Sistema alla luce proprio dei quesiti, così come sono stati depositati presso la Suprema Corte. La responsabilità civile dei giudici: l’attuale formulazione normativa prevede che qualora un Magistrato arrechi un danno, con colpa grave, ad un soggetto nell’ambito di un procedimento, lo Stato è chiamato a risarcire l’interessato. L’attuale disciplina infatti utilizza lo Stato come filtro. Il perché di questa scelta è ben noto ed attiene alla massima garanzia di libertà in ordine al convincimento del giudice. La proposta, invece, intende eliminare lo scudo dello Stato affinché le toghe rispondano direttamente dei propri errori, come ogni altra professione. Eliminare la schermatura statale, se da un lato renderà probabilmente i Magistrati più prudenti delle scelte adottate, dall’altro si renderà necessario rimediare strumenti di tutela dell’arbitrio giuridico, proprio della magistratura, quale garanzia di terzierà. Porre la scure di una possibile punizione in capo al Giudicante rischia di rendere più vincolato l’esercizio del cd. terzo potere, creando un elemento di influenza non indifferente in ordine al convincimento del Magistrato. Il secondo quesito - concernente la separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante - è particolarmente divisivo, vertendo su un tema che da anni anima il dibattito politico nel nostro Paese. Già nel 1989 Giovanni Falcone scriveva della necessità di separare le due carriere che per ruolo, funzione, attitudine, habitus mentale, hanno modi di pensare diametralmente opposti. Questo senza scadere nella rischiosa china di particolari rapporti legati a scatti carrieristici e di correnti di partito, come purtroppo i recenti accadimenti hanno dimostrato esistere. Il terzo quesito riguarda un altro aspetto fortemente, dibattuto fra gli operatori del diritto: la riduzione della portata dell’art. 274 c.p.p.. L’emendamento, se in vigore, restringerebbe notevolmente il campo di applicazione del comma 1, lett. c), a quei casi di pericolosità e recidivanza del soggetto in relazione a (i) delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale; (ii) delitti diretti contro l’ordine costituzionale; (iii) delitti di criminalità organizzata. Si escluderebbero, per contro, tutti quei reati “della stessa specie di quello per cui si procede”, in seno alla cui locuzione erano ricompresi numerose figure delittuose. Alla luce degli emendamenti de quibus è ipotizzabile una concreta riduzione della popolazione carceraria, in considerazione del fatto che la stessa, nell’attesa di una sentenza di primo grado, è di circa il 13/ 14% e sale fino ad un terzo dopo la condanna emessa dal giudicante di prime cure. Numeri significativi, insomma, che molto probabilmente verrebbero influenzati in diminuzione da un restringimento di applicazione dei criteri ex art. 274, comma 1, lett. c) c.p.p.. Il quarto quesito concerne la Legge dell’indimenticata Ministro della Giustizia, la prof. Paola Severino, e mira ad eliminare la sopravvenuta incandidabilità del soggetto condannato con pena superiore ai due anni per condotte illecite non colpose a mente della L. 190/ 2012. La ratio è quella di lasciare al giudice la discrezionalità in ordine all’applicazione di pene accessorie. Il quinto quesito nasce sull’onda del caso Palamara che ha travolto la Magistratura, mettendo in discussione il ruolo delle “correnti” in seno al CSM stesso. Pertanto la formula voluta da Radicali e Lega, proprio allo scopo di combattere giochi di potere, prevede che, eliminando il criterio delle 25 firme che si richiedono affinché un magistrato possa candidarsi, vengano meno anche le “correnti” presenti in seno al CSM. Lungi dal risolvere dinamiche associazionistiche - dinamiche culturalmente radicate - certamente è apprezzabile lo sforzo promosso da quesito in esame, il quale può rappresentare un primo tassello nell’ambito di un progetto di riforma più ampio, volto ad evitare che, in futuro, possano ripresentarsi vicende simili. Infine il sesto quesito. Come noto, i Consigli Giudiziari sono organi collegiali istituiti presso ogni Corte d’Appello, con lo scopo di valutare l’attività dei magistrati. Questi si compongono sia di giudici togati, che da professori ed avvocati. Allo stato attuale solo i magistrati godono del potere di votare nei Consigli, diritto non anche accordato per i componenti cd. “laici”. L’emendamento in esame intende conferire anche ai “laici” il diritto di voto. Lo scriverne già ebbe modo di esprimersi favorevolmente su queste pagine. Gli effetti di un simile cambiamento, senza che vi sia una contestuale riforma che inserisca delle ipotesi di incompatibilità con il ruolo ricoperto, possono essere pericolosi. Si ipotizzi, infatti, il caso di un avvocato che è chiamato ad esprimere una valutazione su un magistrato del suo stesso Foro e che ha già conosciuto delle sue cause, magari condannando anche l’Assistito. È evidente che, senza delle ipotesi di incompatibilità, non è possibile che venga garantita l’imparzialità del giudizio. Potendo trarre delle conclusioni, pur intervenendo anche in maniera apprezzabile, la riforma referendaria va ad emendare dei temi assai delicati e di prerogativa del Parlamento, esaminati da apposite commissioni. La modifica dell’art. 274 c.p.p. o il tema sulla responsabilità dei giudici richiedono inevitabilmente una certa dimestichezza con la cultura giuridica ed è pertanto necessario che siffatte materie vengano discusse in seno alle Istituzioni, all’uopo competenti, piuttosto che essere affidate interamente al dibattito pubblico. Separazione delle carriere: la storica battaglia è un referendum di Valentina Stella Il Dubbio, 14 giugno 2021 Il quesito di Radicali e Lega punta a lasciare il magistrato nella “categoria” scelta all’inizio. Tra i sei quesiti referendari depositati lo scorso 3 giugno dal Partito radicale e dalla Lega c’è quello intitolato “Separazione delle carriere dei magistrati sulla base della distinzione tra funzioni giudicanti e requirenti”. Come spiegano i promotori, che chiedono l’abrogazione parziale del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 sull’Ordinamento giudiziario e successive modificazioni e integrazioni, “la conseguenza dell’eventuale approvazione del referendum sarebbe che il magistrato, una volta scelta la funzione giudicante o requirente all’inizio della carriera, non potrebbe più passare all’altra”. Un simile tentativo era stato già compiuto nel 2000 dopo che la Corte costituzionale aveva dichiarato ammissibile un simile referendum (sentenza 37/2000, presidente Giuliano Vassalli, relatore Valerio Onida). Il 21 maggio di quell’anno gli elettori furono chiamati a esprimersi sul referendum promosso dal Partito radicale insieme ai socialisti dello Sdi e al Partito repubblicano. Il centrodestra, guidato da Silvio Berlusconi, dopo aver lanciato lo slogan “il 21 maggio resta a casa per mandarli a casa”, contribuì al non raggiungimento del quorum. Come ricordato da Notizie Radicali nel dossier su “Breve storia della separazione delle carriere in Italia” di Massimo Lensi, “Berlusconi attaccò duramente i promotori, convinto che una volta tornato al governo avrebbe raggiunto lui quell’obiettivo: “Io questi referendum non li voterò perché sono fatti ad uso dei Radicali e dei comunisti, perciò siano questi signori ad andare a votarseli”. Infatti fu solo il 32% del corpo elettorale a esprimersi su quel quesito: di quel 32%, votò a favore dell’abrogazione il 69%. “L’11 giugno 2001 il centrodestra tornò effettivamente al governo e iniziò un lungo iter politico e parlamentare per la separazione delle carriere dei magistrati, che il governo decise di inserire nella cosiddetta “riforma Castelli”, dal nome dell’allora ministro della Giustizia”, racconta ancora Lensi. Essa fu poi approvata “ma senza l’originario disegno di separazione delle carriere e con blandi provvedimenti sulla separazione delle funzioni”. Arriviamo al 2007, anno in cui, prosegue Lensi, “le toghe dell’Anm scesero in campo di nuovo, quando il secondo governo di centrosinistra, guidato da Romano Prodi, tornò sull’argomento con la “riforma Mastella”. Volarono accuse di “inciucio” tra centrodestra e centrosinistra, ma alla fine la legge fu approvata. La riforma Mastella conteneva alcuni provvedimenti relativi al passaggio di funzioni da giudicanti a requirenti e viceversa, stabilendo che il transito sarebbe potuto avvenire non più di quattro volte nel corso dell’intera carriera e solo dopo aver svolto le stesse funzioni per almeno cinque anni”. Un ulteriore tentativo di stabilire una definitiva separazione delle carriere ci fu nel 2013, quando il Partito radicale si mobilitò su un nuovo pacchetto referendario. Le firme raccolte non furono però sufficienti per chiedere la convocazione del referendum. E arriviamo nel 2017, quando, presso la Camera dei deputati, sono state depositate le oltre 70.000 firme a sostegno della proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere dei magistrati, promossa dall’Unione delle Camere penali italiane e da un apposito “Comitato promotore della proposta di separazione delle carriere”, di cui fa parte anche il Partito radicale. Purtroppo la proposta è tuttora ferma nella commissione Affari costituzionali di Montecitorio. Rossodivita: “Il nostro è un passo per spezzare il legame perverso tra inquirenti e giudicanti” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 giugno 2021 A prevedere l’effettiva “separazione” è la Proposta di legge d’iniziativa popolare presentata dall’Ucpi col sostegno radicale. Per l’avvocato Giuseppe Rossodivita, presidente della Commissione giustizia del Partito Radicale, “la separazione delle funzioni prima e delle carriere poi servirebbe a spezzare questo legame perverso” tra il giudice e il pubblico ministero. Cosa comporterebbe l’approvazione del quesito sulla separazione delle carriere? La conseguenza di una abrogazione sarebbe l’impossibilità del passaggio dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa. Quindi ne conseguirebbe una scelta iniziale della funzione che si vuole ricoprire senza poter più cambiare nell’intero corso della carriera. Ma rispetto alla separazione delle carriere vera e propria come si colloca il quesito? Nell’attuale sistema esistono due profili che non funzionano, il primo: quello della separazione delle carriere propriamente dette. Di questo noi ce ne siamo avveduti con maggiore evidenza proprio a seguito dello scandalo che mi piace definire ‘Correntopoli’. È emerso con maggior evidenza come l’Anm è in mano ai pm. Questo anche a causa della grande visibilità che i media complici offrono loro. Tutto il potere che acquisiscono viene trasferito all’interno del Csm. Ciò comporta una totale mancanza di autonomia ed indipendenza dei giudici, che sanno che lo sviluppo della loro carriera dipende dalle correnti governate per lo più dai pm. Tale aspetto non può purtroppo essere toccato dal referendum perché è necessaria una riforma costituzionale. E da questo punto di vista sarebbe ovviamente più incisiva, qualora fosse approvata, la proposta di legge di iniziativa popolare depositata alla Camera dall’Unione delle Camere Penali, insieme anche all’apporto del Partito Radicale che ha dato una sostanziosa mano nella raccolta delle firme. Tuttavia la pdl è ferma e nonostante la speranza sia l’ultima a morire francamente non vedo proprio, in questo Parlamento, i numeri necessari per realizzare una riforma costituzionale di questo spessore e da molti ritenuta divisiva. Con il quesito referendario invece si realizzerebbe pienamente la separazione delle funzioni che non sarebbe poco rilevante, anzi. Ci spieghi meglio... L’argomento che usano all’interno della magistratura per opporsi alla separazione delle carriere è che condividono la cultura della giurisdizione. Esattamente per questo motivo noi vogliamo la separazione delle funzioni. Se un giudice afferma che con una parte processuale - il pm in questo caso condivide la cultura della giurisdizione, che però non condivide con l’altra parte processuale - la difesa -, allora già vuol dire che quel giudice non è terzo. L’inchiesta sulla tragedia del Mottarone ci dà l’occasione per evidenziare bene il problema. Abbiamo assistito ad un gip che non ha convalidato i fermi chiesti dal pm e quest’ultima che ha dichiarato di non voler più prendere il caffè con lei. Se il pm non avesse nulla da spartire con il gip questo tipo di dinamiche non si realizzerebbe. Dovrebbe essere considerato fisiologico che un gip non sia d’accordo con le richieste dell’accusa perché dovrebbe essere equidistante rispetto ad essa e alla difesa. Invece esiste la tendenza di alcuni giudici al copia incolla delle istanze del pm. Quando non accade è scandalo. Poi volendo dirla tutta… Prego... Mi pare un po’ grottesco parlare di cultura della giurisdizione dopo quello che hanno svelato le chat di Palamara con i pubblici ministeri in lotta per ricoprire gli incarichi direttivi. La verità è quella che ha riferito Henry John Woodcock in un recente articolo sul Fatto Quotidiano: “Oggi i pm si sono un po’ abituati a ‘vincere facilè (per parafrasare una riuscita immagine pubblicitaria). Loro compito è infatti di persuadere un giudice che spesso, e in particolare rispetto a un certo tipo di criminalità, è però già in perfetta sintonia coi loro argomenti, perché si è formato alla loro stessa scuola”. La separazione delle funzioni prima e delle carriere poi servirebbe a spezzare questo legame perverso. Quale invece sarebbe il risultato politico se le norme fossero abrogate come da voi richiesto? Sarebbe un dato politico di straordinaria importanza di cui tutte le forze politiche, tutto il Parlamento e anche la magistratura associata dovrebbero prendere atto insieme al dato quantitativo delle masse che - speriamo - si muovano nell’indicare una direzione. E se la direzione sarà quella della separazione allora ne trarrebbe forza anche la pdl ferma in Parlamento. Qualora la politica e la corporazione della magistratura non agissero di conseguenza, sarebbe in pericolo la tenuta della democrazia stessa. Albamonte: “Con un quesito scritto così rischiano di consentire passaggi infiniti da giudice a pm” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 giugno 2021 “È anche singolare cercare di eludere un principio costituzionale modificando le norme che lo rendono operativo”. Per Eugenio Albamonte, segretario di AreaDG ed ex presidente dell’Anm, il quesito referendario sulla separazione delle carriere “rischia” non solo “di essere una mera operazione di immagine” ma anche di ottenere l’effetto opposto ossia “liberalizzare completamente il passaggio tra la funzione di giudicanti e quella di requirenti “. Ritiene che questi referendum siano contro la magistratura e il lavoro parlamentare di riforma? Sì. In primo luogo le forze di governo dovrebbero concentrare l’attenzione sulla proposta di riforma della ministra Cartabia, eventualmente anche per apportare delle modifiche; c’è invece una forza importante di maggioranza che ha avviato un percorso parallelo all’iter di riforma parlamentare che evidentemente ritiene gli dia maggiore visibilità. Le Lega ha messo in atto un proprio piano B che però rischia di far saltare il raggiungimento degli obiettivi previsti dal piano A del governo. Convengo, invece, con chi ritiene che la riforma della giustizia e del Csm sia assolutamente improcrastinabile: non possiamo permetterci di sprecare questa occasione, sia per il finanziamento europeo sia per la particolare fase che stiamo vivendo caratterizzata da una forte perdita di credibilità della magistratura. C’è chi invece butta la palla in tribuna perseguendo obiettivi che hanno più un valore politico che funzionale: non vedo nulla nei referendum che possa migliorare la giustizia e incidere sulla riaffermazione di credibilità della magistratura. Se invece a promuovere i referendum fosse stato solo il Partito Radicale sarebbe stato diverso? È evidente che se tra i promotori non ci fosse stata pure la Lega, che dimostra anche con questa iniziativa di voler essere contemporaneamente forza di governo e di opposizione, il referendum non avrebbe avuto il significato politico che ha assunto ora. Qual è il suo parere sul quesito referendario sulla separazione delle carriere? Ho letto il quesito e la breve presentazione che lo accompagna. Si sostiene che la riforma sulla separazione delle carriere non può essere fatta se non attraverso una modifica costituzionale. Essendo questa non percorribile, dicono i promotori, si tende ad aggirarla intervenendo su tutte quelle norme che, nell’ambito del principio costituzionale dell’unicità della giurisdizione, disciplinano i passaggi dall’una all’altra funzione. Per me è ben singolare che si cerchi di aggirare un principio costituzionale che non si riesce a modificare. Tra l’altro in un sistema come il nostro i principi costituzionali hanno una propria forza di resistenza e quindi il quesito rischia di essere una mera operazione di immagine, sempre che venga dichiarato ammissibile. L’altro dubbio che mi pongo è il seguente: se il principio costituzionale rimane e vengono modificate solo le norme che lo razionalizzano e lo rendono operativo, non è che si giunge all’effetto opposto rispetto a quello previsto dai proponenti, ossia di liberalizzare completamente il passaggio tra la funzione di giudicanti e quella di requirenti? Può spiegare meglio? Chi propone il quesito si pone l’obiettivo di cancellare delle norme, partendo dal presupposto che esse consentano il passaggio tra le funzioni. Ma in realtà non è così, perché esse disciplinano il passaggio ponendo delle limitazioni. Eliminando quelle norme, rimane il principio costituzionale dell’unità della giurisdizione puro e duro e quindi tutti potrebbero passare da una funzione ad un’altra senza limiti. Abbandonando le rispettive posizioni ideologiche, non sarebbe il caso di discutere seriamente del tema, considerato il contesto? Io sono entrato in magistratura nel 1995 e di separazione delle carriere se ne discuteva già da prima. Non mi sembra che sia un argomento che non sia stato fino ad ora discusso seriamente. Però la politica ad esempio non discute in Commissione Affari Costituzionali la pdl di iniziativa popolare promossa dall’Unione delle Camere Penali. Sembra che il tema sia un argomento intoccabile... Si tratta di un tema che alla fine appassiona una platea di nicchia sia nella società civile che tra gli addetti ai lavori. La maggior parte dei magistrati e degli avvocati lo considerano un “non problema”. Secondo me invece adesso dovremmo concentrarci su altri temi sollevati dalla relazione Lattanzi, come le priorità nell’esercizio dell’azione penale ricondotte nella cornice del Parlamento. Come sarebbe necessario discutere dell’organizzazione interna delle Procure in modo verticistico: i posti apicali, sottoposti a nessun controllo, sono così ambiti da organizzare le riunioni clandestine di notte per decidere chi fa il procuratore a Roma, riunendo un pezzo di politica e un pezzo di magistratura. Questi sono i temi che riguardano tutti noi, non la separazione delle carriere. Anche questa volta si corre il rischio di concentrare tutta l’attenzione su questo tema secondario ed ideologico e non sui problemi attuali e urgenti anche relativi alle Procure. Graviano ha scritto alla Cartabia: lettera con avvertimento di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2021 L’uomo che custodisce i segreti delle stragi ha scritto al ministero della Giustizia. Non a un ufficio qualsiasi che si occupa di detenuti: Giuseppe Graviano ha preso carta e penna per rivolgersi direttamente alla guardasigilli Marta Cartabia. Lo ha fatto praticamente subito dopo la formazione del del governo di Mario Draghi: il nuovo esecutivo ha giurato il 13 febbraio, il boss di Brancaccio ha scritto la sua lettera nel carcere di Terni una decina di giorni dopo. Cosa nostra non perde mai tempo. Impossibile conoscere il contenuto della missiva di Graviano, visto che l’ordinamento penitenziario non prevede il controllo della corrispondenza dei detenuti quando questi si rivolgono ad autorità come il capo dello Stato o il ministro della Giustizia. Quella lettera, però, potrebbe essere divulgata dalla stessa Cartabia, in modo da chiarire anche tre interrogativi: la ministra era a conoscenza della missiva a lei indirizzata dall’uomo condannato per le stragi di Roma, Milano e Firenze del 1993? Ha mai risposto? Lo hanno fatto i suoi uffici senza farglielo sapere? Non sarebbe la prima volta che accade. Nel 2013 il boss di Brancaccio ha scritto a Beatrice Lorenzin, in quel momento ministra della Salute - in quota Pdl - dell’esecutivo di Enrico Letta: tra le altre cose il mafioso faceva riferimento alla “provenienza dei capitali per formare il patrimonio della famiglia Berlusconi”, auspicando il coraggio di qualche politico per “abolire la pena dell’ergastolo”. Di quella missiva si è avuta notizia solo nel 2016 perché lo stesso Graviano - intercettato in carcere - ne aveva fatto cenno con il compagno d’ora d’aria. Poi nel 2020 il boss ne ha parlato in aula al processo “‘Ndrangheta stragista”, sostenendo anche di aver avuto un riscontro: “Il ministero mi ha risposto che stava portando avanti tutto quello che avevo chiesto. Io avevo quella lettera, ma è scomparsa quando mi hanno trasferito ad Ascoli nel 2014”. La Lorenzin, da parte sua, ha spiegato di non averne mai saputo nulla e che di solito questo tipo di corrispondenza non passa dalle scrivanie dei ministri ma viene smistata agli uffici competenti. La missiva del boss di Brancaccio era stata spedita al suo dicastero il 21 agosto, ma era stata esaminata dalla Direzione generale solo il 17 settembre. In mezzo, e cioè il 31 agosto del 2013, Silvio Berlusconi si era fatto fotografare mentre firmava i referendum dei Radicali sulla giustizia: tra i 12 quesiti c’era anche l’abolizione dell’ergastolo. La soglia delle 500mila sottoscrizioni, però, non venne poi raggiunta. Otto anni dopo Forza Italia è tornata per la prima volta al governo. E Graviano ha scritto subito a un’esponente dell’esecutivo. Lo ha fatto alla vigilia della sentenza della Consulta, che nell’aprile scorso ha decretato l’incostituzionalità della legge sull’ergastolo ostativo. Se il Parlamento non approva una nuova norma entro il maggio dell’anno prossimo, anche i boss irriducibili potranno sperare di ottenere la libertà vigilata dopo 26 anni di pena: non servirà aver mai collaborato con la giustizia, ma basterà dare prova di non essere più pericolosi. In che modo? “Si potrebbero prevedere specifiche condizioni e procedure per l’accesso alla liberazione condizionale” dei mafiosi, “più rigorose di quelle applicabili ad altri detenuti”, ha detto di recente la stessa Cartabia in commissione Antimafia, spiegando che le nuove norme dovranno tenere “in considerazione le peculiarità del fenomeno mafioso e della criminalità organizzata”. Il meccanismo del “fine pena mai” per i mafiosi inventato da Giovanni Falcone è l’incubo di tutti i boss. Pure di Graviano, che da tempo porta avanti la sua strategia per uscire dal carcere senza rivelare i segreti di cui è custode. Ferratissimo sulle sentenze della Cedu sul 41bis e sull’ergastolo, ha spesso sostenuto di essere stato condannato solo sulla base di false accuse dei collaboratori di giustizia. Lo ha fatto anche davanti alla corte d’Assise di Reggio Calabria, quando ha rotto il silenzio per la prima volta dal 27 gennaio del 1994, il giorno in cui venne fermato a Milano insieme al fratello Filippo. “Andate a indagare sul mio arresto e scoprirete i veri mandanti delle stragi”, è uno dei tanti avvertimenti pronunciati in aula dal capomafia, che ha annunciato anche l’imminente uscita di un libro sulla storia della sua famiglia: di quella pubblicazione, però, non si ha più avuto alcuna notizia. Lo stesso Graviano è tornato a chiudersi nel suo storico silenzio, dopo lo show messo in scena al processo ‘Ndrangheta stragista: uno spettacolo fatto di messaggi trasversali dal velato sapore ricattatorio. Il mafioso ha parlato di “imprenditori del nord che non volevano fermare le stragi”, ha sostenuto di aver incontrato Silvio Berlusconi “almeno tre volte” a Milano mentre era latitante, di averlo conosciuto tramite suo nonno, che negli anni 70 avrebbe finanziato l’uomo di Arcore con venti miliardi di lire. Accuse tutte da dimostrare, che per l’avvocato Niccolò Ghedini erano “palesemente diffamatorie”, anche se non si è poi avuta notizia di una denuncia da parte del legale dell’ex premier. Nel frattempo Graviano è stato interrogato dai pm della procura di Firenze, che indagano sulle bombe del 1993: nel novembre scorso l’uomo delle stragi ha risposto per ore alle domande degli aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco. Negli stessi giorni i due magistrati hanno sentito pure l’altro Graviano, Filippo: un interrogatorio molto più breve, in cui il mafioso ha messo a verbale di essersi dissociato da Cosa nostra, ammettendo di averne fatto parte, ma negando le accuse relative alle stragi. Poi ha chiesto al giudice di Sorveglianza di avere un giorno di permesso premio: richiesta respinta. Graviano ha potuto avanzarla perché già nel 2019 la Consulta aveva dichiarato illegittimo il divieto di concedere benefici agli ergastolani condannati per mafia che non si fossero pentiti. Quella decisione è stata definita “di particolare rilievo” nella relazione della corte Costituzionale dell’aprile 2020. A scriverla era proprio Marta Cartabia, all’epoca presidente della Consulta. “Retribuzione non adeguata per il lavoro svolto in carcere” Corriere Salentino, 14 giugno 2021 Detenuto vince ricorso e ottiene risarcimento. Nel periodo di detenzione trascorso nel carcere di Lecce ha lavorato come barbiere, inserviente in cucina, aiuto cuciniere e cuciniere, ma reputava di non aver percepito una somma adeguata al lavoro svolto e alle sue mansioni. Così ha presentato ricorso contro il Ministero della Giustizia, riuscendo a spuntarla. Il giudice del lavoro del Tribunale di Lecce, Maria Immacolata Stapane, ha condannato il Ministero al pagamento dell’importo dovuto ad un 56enne, detenuto nella casa circondariale di Borgo San Nicola. All’interno della struttura, durante il periodo di detenzione, l’uomo aveva lavorato svolgendo varie mansioni nel periodo compreso tra il novembre 2006 e settembre 2010, percependo il pagamento di stipendio con regolare busta paga. Nel confrontare le cifre percepite con quelle previste dai CCNL di categoria, però, è emerso che lo stipendio ricevuto fosse inferiore a quello dovuto. Per questo motivo, l’uomo, tramite il suo avvocato Selene Mariano, ha deciso di fare ricorso al giudice competente in materia, chiedendo al Ministero della Giustizia il pagamento di una somma di oltre 23mila euro per compensare quanto non gli fosse stato concesso, tra differenze retributive e contributive e altre spese. Il Ministero, tramite l’avvocato dello Stato, Antonella Roberti, ha risposto chiedendo che il ricorso venisse respinto in via preliminare in quanto si fossero superati i termini relativi al periodo di prescrizione. Il giudice, però, ha rigettato questa motivazione, perché ha ritenuto che la richiesta sia stata presentata entro i termini quinquennali dalla cessazione del rapporto di lavoro, e, valutando tutti gli elementi del caso specifico e le memorie presentate dal detenuto, ha ritenuto di accogliere il ricorso di quest’ultimo ricalcolando la cifra dovuta. Nella sentenza, infatti, il Ministero è stato condannato a pagare una cifra di 7.537,44 euro, che compensano le differenze retributive e anche quelle relative al Tfr riscontrate, oltre alla valutazione monetaria o gli interessi legali, fino a quando non sarà regolarizzata anche la posizione contributiva. A queste si aggiunge anche il pagamento delle spese legali, quantificate nella somma di 2mila euro. La riparazione del danno vale l’estinzione del reato solo se è spontanea di Giovanbattista Tona Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2021 È ammesso il risarcimento da parte di un terzo, come la compagnia assicurativa. L’estinzione del reato per condotte riparatorie, prevista dall’articolo 162-ter del Codice penale introdotto dalla legge 103 del 2017, pur avendo avuto minore successo applicativo della messa alla prova, può essere uno strumento di composizione dei conflitti sfociati nei giudizi penali. Con la sentenza 2490 del 21 gennaio scorso la Cassazione ha delineato i presupposti di questo istituto. Come hanno precisato i giudici, le condotte riparatorie dell’imputato devono essere spontanee, a carattere restitutorio o risarcitorio, comunque destinate definitivamente a incrementare la sfera economica e giuridica della persona offesa. Non si può invece considerare integrata la causa estintiva nel caso di sola restituzione del bene sottratto. Né ricorre la causa estintiva quando la riparazione sia avvenuta in esecuzione di un altro provvedimento di condanna, perché mancherebbe il presupposto della spontaneità. Si applica solo ai reati procedibili a querela soggetta a remissione. Per ciò non è applicabile al reato di atti persecutori commesso con minacce gravi e reiterate, che rientra tra le ipotesi di procedibilità a querela irrevocabile. E ciò anche a prescindere dalla espressa causa di esclusione per lo stalking prevista dall’ultimo comma dell’articolo 162-ter Codice penale (Cassazione 14030/2020). Il risarcimento del danno può essere riconosciuto anche in seguito a offerta reale in base agli articoli i208 e seguenti del Codice civile, formulata dall’imputato e non accettata dalla persona offesa, se per il giudice la somma offerta è congrua. La causa di estinzione si applica anche se il danno sia integralmente risarcito da un terzo (come la compagnia assicuratrice), se sollecitata dall’imputato (Cassazione 10107/2019). Questo istituto presenta, rispetto alla messa alla prova, una più spiccata connotazione sostanziale. Tuttavia i suoi effetti sono pure condizionati da profili processuali. La riparazione del danno rileva come causa di estinzione se avviene entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado. Questo sbarramento riecheggia quello previsto (per tutti i reati) dalla circostanza attenuante comune dell’articolo 62 n. 6 del Codice penale (l’avere, prima del giudizio, riparato interamente il danno o l’essersi adoperato per eliderne le conseguenze). Ma è più preciso: coincide con il momento entro cui si può chiedere il rito alternativo. I giudici di legittimità hanno escluso che la causa estintiva possa farsi valere dopo l’irrevocabilità della sentenza, proprio perché ha natura sostanziale e il procedimento volto a verificarne la sussistenza, nel prevedere che siano sentiti l’imputato e la persona offesa, presuppone la pendenza del giudizio di cognizione e la presenza delle parti (Cassazione 43278/2019). Caserta. Luoghi di privazione della libertà: report sulle criticità e buone prassi di Gianni Vigoroso ottopagine.it, 14 giugno 2021 Ciambriello: “La Pandemia ha triplicato i problemi in queste strutture”. Oggi, lunedì 14 giugno, alle ore 11.00, si svolge nella sala del Consiglio Comunale, in Piazza Vanvitelli 69, la presentazione del Report 2020, su scala provinciale, delle criticità e delle buone prassi dei luoghi di privazione della libertà personale (carceri, misure alternative, R.E.M.S., T.S.O.) realizzato dal Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale Samuele Ciambriello, in collaborazione con l’Osservatorio Regionale sulla vita detentiva. Ai saluti del Sindaco di Caserta Carlo Marino farà seguito l’intervento del Garante Campano, si alterneranno, quindi, Raffaele Ruberto Prefetto di Caserta, Maria Antonietta Troncone Procuratore della Repubblica di santa Maria Capua Vetere, Antonio Fullone Provveditore Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, Gabriella Maria Casella Presidente del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Francesco Chiaromonte Magistrato di Sorveglianza, Emanuela Belcuore Garante dei detenuti della provincia di Caserta, Mena Minafra Docente di Diritto Penitenziario dell’Università Vanvitelli, Francesco Piccirillo Avvocato, Don Carmine Schiavone Direttore della Caritas Diocesana di Aversa. Il Garante Regionale, Samuele Ciambriello, che con l’incontro di lunedì 14 giugno conclude il ciclo di presentazioni provinciali che, dallo scorso mese di maggio, si sono svolte ad Avellino, Salerno e Benevento dichiara: “Esiste un noi ed un loro. Ascoltare storie, esperienze, disagi, ingiustizie, fa accorciare le distanze, ridurre l’indifferenza verso le persone diversamente libere. Il carcere esiste, non è una discarica sociale. Insieme al tema della giustizia giusta ci riguarda tutti. Pensavamo solo di essere vittime, ci rendiamo conto che spesso siamo complici. La Pandemia ha triplicato i problemi in carcere, nelle Rems, nei Servizi Psichiatrici di diagnosi e cura, con più morti, attese, forme di autolesionismo, non tutela del diritto alla salute, al lavoro, alle relazioni umane: presenteremo lunedì prossimo di dati della provincia di Caserta”. Fossano (Cn). Detenuti e giovani in difficoltà al lavoro nella Cascina Pensolato di barbara morra La Stampa, 14 giugno 2021 “I nostri prodotti sono fatti bene, fanno bene e fan del bene”. Lo dice Nino Mana direttore della Caritas di Fossano a proposito degli ortaggi prodotti a Cascina Pensolato, l’azienda agricola della coop che dà lavoro a detenuti a fine pena in regime di semilibertà, a giovani con difficoltà di inserimento lavorativo e, recentemente, anche a chi ha disabilità fisiche e psichiche. C’è di più: questa settimana è stato firmato un protocollo d’intesa con il carcere di Fossano in modo che dagli ortaggi si possano ricavare conserve, marmellate, prodotti sott’olio in un laboratorio all’interno della casa di reclusione dando così lavoro ad altre persone. “La cooperativa Cascina Pensolato è nata a Sant’Antonio Baligio nel 2017 per volontà di Caritas, Diapsi, Camminare Insieme e alcuni privati tra cui Dario Armando degli Orti del Casalito - spiega Mana -. È stato proprio Armando a fornire il terreno, circa due ettari. Si è cominciato così il lavoro con i ragazzi del carcere cui si sono poi aggiunte persone in difficoltà che facevano riferimento a Caritas. Ora cinque persone sono assunte altre stanno sperimentando forme di tirocinio e borse lavoro, in tutto una decina”. L’anno scorso con l’inasprimento delle regole anti-Covid il lavoro con i detenuti a fine pena non è stato possibile. “Così abbiamo messo la cascina a disposizione per il domicilio e il lavoro di persone agli arresti domiciliari - continua il direttore Caritas - in totale sono passati da noi cinque ragazzi ed è stata un’esperienza molto proficua con il lavoro negli orti”. É stata allestita anche una serra dove lavorano, alla preparazione dei “piantini”, ragazzi disabili psicofisici. Il tutto, coltivato senza diserbanti, viene convogliato nel negozio di Fossano, in via Sacco 5, aperto da una decina di mesi. Bergamo. Contro la depressione dei detenuti arriva la pet therapy di Michele Andreucci Il Giorno, 14 giugno 2021 Grazie all’iniziativa in tredici hanno potuto ottenere il patentino di conduttore cinofilo. I tempi in cui era considerato l’Hilton delle carceri italiane per la qualità dei servizi offerti ai detenuti sono un pallido ricordo. Ma piano piano, soprattutto grazie alla direttrice Teresa Mazzotta, la Casa circondariale di Bergamo riprende quota. L’impegno principale dei vertici della struttura è quello di aiutare i reclusi verso una vita nuova, che sappia andare oltre l’errore commesso. L’ultima iniziativa è un corso di pet therapy, la terapia che ha come elemento fondante la vicinanza di un animale da compagnia. Negli ultimi mesi, grazie ad un progetto finanziato dalla Fondazione Cariplo e realizzato dall’associazione pavese DogBliss con la collaborazione del centro cinofilo “Il Biancospino”, nel carcere intitolato a don Fausto Resmini, lo storico cappellano portato via dal Covid, si è concretizzato un progetto che ha permesso di ridurre gli stati depressivi di alcuni detenuti. Tredici sono stati coinvolti nell’iniziativa, hanno partecipato al corso al termine del quale hanno sostenuto un esame che ha consentito loro di ottenere il patentino di conduttore cinofilo, un riconoscimento assegnato dal centro “Il Biancospino” a tutte quelle persone che dimostrano una buona educazione cinofila, nonché una sufficiente capacità di gestire i comportamenti del cane in un ambiente urbano o in una comunità. Un attestato che può essere una carta per il reinserimento nella società con nuove competenze. Spiega la direttrice Mazzotta: “I formatori esperti di DogBliss e del Biancospino hanno affiancato queste 13 persone. L’interazione è stata molto positiva: vi è stata una grande apertura, lo sviluppo di forme solidaristiche, il ritorno dell’emotività, di forme di empatia che aiutano tantissimo nella risocializzazione”. Esperienze pilota di pet therapy sono state realizzate negli anni scorsi in diverse carceri in Italia. La Casa di Bergamo, che ora conta 528 detenuti, di cui 35 donne (a fronte di una capienza regolamentare di 315), non si è fatta sfuggire l’occasione di partecipare. Il virus e la civiltà del lavoro di Ezio Mauro La Repubblica, 14 giugno 2021 Che cosa si nasconde dietro la ripresa economica annunciata col declino della pandemia? Ci sono solo i riflettori davanti ai capannoni, nella notte di Tavazzano, provincia di Lodi, per illuminare l’ultimo testa-coda del lavoro italiano. Qualche decina di operai licenziati a marzo da una ditta di logistica a Piacenza sono venuti qui per inseguire il lavoro perduto, finito nei magazzini di un’altra azienda del settore, collegata alla prima. Montano un picchetto. Vogliono bloccare il passaggio delle merci, ma quando dai cancelli esce un tir lo accompagna una squadra di uomini con le pettorine rosse fluorescenti che si scontra col presidio con bastoni, sassi, aste di ferro, lasciando sull’asfalto nove feriti e una domanda: cosa si nasconde dietro la ripresa economica annunciata col declino della pandemia? Certamente una metamorfosi del lavoro, già esploso sotto i nostri occhi nella frammentazione della post-modernità che nega non soltanto la standardizzazione e la rigidità del vecchio modello di produzione a catena, ma persino l’unitarietà del concetto novecentesco, inseguendo le sue schegge nelle nuove forme e nelle nuove categorie in cui abbiamo rinominato il lavoro, sterilizzandolo: saperi, competenze, professionalità, esperienze, tutte parzialità eufemistiche a cui ricorriamo ormai senza mai definire l’insieme. E senza accorgerci che deviando e disperdendo il concetto di lavoro noi stiamo smarrendo il suo significato generale, cioè il suo peso sociale, culturale e dunque politico. Gli operai-facchini che picchettano il fantasma del lavoro scomparso rincorrendolo nella sua mobilità, le squadre dell’azienda che sfondano il blocco, in una sorta di appalto del conflitto, sono le due facce dell’ultima mutazione. Che non a caso si compie nel settore chiave del cambiamento della domanda e dell’offerta, del costume e delle abitudini, quella “logistica” del trasporto e consegna di merci e prodotti arrivata oggi a 100 miliardi di euro di fatturato, il 7 per cento del Pil. Con la pandemia che ha funzionato da acceleratore dei fenomeni, spingendo il settore in 24 mesi ad un giro d’affari che nelle previsioni si sarebbe raggiunto soltanto in nove anni. Non è un caso nemmeno che l’epicentro di questo cortocircuito finale sia il Piacentino, con i suoi 8 mila addetti alla logistica in un distretto che ha una distesa di capannoni pari a 5 milioni di metri quadrati, proprio all’intersezione tra le due autostrade E35 ed E70: qui durante la prima ondata si era concentrato anche il virus, viaggiando sui tir per sopravvivere durante il lockdown, e causando nella prima fase proprio a Piacenza - insieme con Cremona - il numero di morti più alto d’Italia in rapporto alla popolazione. Dovremmo aver imparato che nell’emergenza modernità e primitivismo si toccano, convivendo. I facchini che cercano nei capannoni di Tavazzano il lavoro di carico e scarico perduto a Piacenza vogliono fermare fisicamente i camion, ma in realtà lottano con un’entità molto più immateriale, l’algoritmo che muta continuamente perché ricalcola gli scostamenti degli ordini, la tempistica delle consegne, nell’unica logica per cui è programmato, fuori da qualsiasi spazio negoziale. D’altra parte la stessa cultura sindacale si spezza nella frantumazione del lavoro. Col risultato che i sindacati confederali faticano ad arrivare fin qui, nei mille rivoli della globalizzazione convogliati dalla “logistica” nei grandi centri di smistamento delle merci, gli hub dove cresce SiCobas. Regolato dalle oscillazioni periodiche dell’algoritmo il settore non sopporta rigidità contrattuali, si gonfia e si sgonfia continuamente ricorrendo a subappalti, cooperative, agenzie di lavoro interinale. I facchini che caricano le stesse merci possono così avere padroni diversi, con la frantumazione che diventa sistema, anzi modello, generando un indebolimento della rappresentanza, e una dispersione conseguente dei diritti. La pandemia, operando in un ambiente globale già sconvolto dalla crisi economico-finanziaria più pesante del secolo, ha determinato uno stato d’emergenza, in cui vige la legge della necessità. Dopo le misure di sicurezza indispensabili, con la diffusione del vaccino la prima necessità diventa ovviamente la ripartenza del sistema, la ricostruzione, la ripresa, con i populisti che in tutto il mondo chiedono spazio per il rilancio dello spirito imprenditoriale e commerciale, trasformato ideologicamente in una questione di libertà. Il lavoro dipendente, materiale, si subordina e da attore sociale collettivo com’è stato nel Novecento diventa una semplice variabile dipendente dalla necessità, una struttura servente senza una valenza e un ruolo autonomi. Non solo. Il lavoro manuale si proletarizza, confinato nel sottomondo degli immigrati, dove si marginalizza inevitabilmente nell’anno zero di una coscienza collettiva del rapporto tra lavoro, cittadinanza e diritti, perché questa cultura ha bisogno di tempo per svilupparsi. Non c’è la condivisione di uno status, figuriamoci di una classe: e manca anche una rete politica interessata a pescare in questo universo sommerso dandogli un orizzonte, visto che la sinistra oggi tra tutte le auto-rappresentazioni che insegue sembra aliena proprio da quella laburista: che immediatamente le conferirebbe senso, rappresentanza e identità, perché i diritti civili non vivono disincarnati. Naturalmente questo non è il problema di una parte, ma dell’insieme della società e della qualità complessiva della crescita che si annuncia. Così il tema è spuntato al tavolo del G7 in Cornovaglia, quando Draghi ha proposto politiche attive del lavoro per aiutare i più deboli, sottolineando il “dovere morale” dell’Occidente di agire in maniera diversa dalle crisi precedenti, “quando ci siamo dimenticati della coesione sociale”. Qui infatti si forma il nucleo delle disuguaglianze e delle esclusioni. Tre dati lo confermano. Tra chi riceve il reddito di cittadinanza, ed è accusato di preferire il sussidio al lavoro, il 14 per cento ha solo la licenza elementare, e il 6 per cento nemmeno quella: non è facile in queste condizioni ricollocarsi; i Neet, cioè i giovani sotto i 35 anni che non studiano e non lavorano, sono ormai il 36 per cento al Sud, in crescita e molto lontani dalla media europea; con le ore di lavoro che scendono e i salari bassi il numero di coloro che lavorano ma sono comunque poveri aumenta, e arriva a quota 13 per cento. La risposta, com’è evidente, non sta nel conservatorismo compassionevole. Ma nemmeno nella logica autonoma del Recovery Fund. Bisogna che gli investimenti siano indirizzati alla creazione di lavoro, inteso come fattore di sviluppo, di inclusione, di cittadinanza. Ma per farlo bisogna sciogliere il nodo politico del rapporto tra Stato e mercato. Soprattutto, bisogna avere l’ambizione di una politica che sappia leggere la trasformazione del lavoro, indirizzando il processo, coscienti che la ricostruzione post-virale è l’occasione per una ricomposizione sociale e culturale, non solo economica. Sappiamo che la civiltà europea è una civiltà del lavoro, costruita nella combinazione tra capitalismo, welfare state, democrazia rappresentativa. L’indebolimento del lavoro, da soggetto politico a merce, è proprio questo: un indebolimento di civiltà, che ci porta in un’era sconosciuta. I “silenzi assordanti” sono sempre altrui di Giusi Fasano Corriere della Sera, 14 giugno 2021 Sempre più spesso il puro di turno prende spunto dalla cronaca per puntare il dito contro persone o categorie intere che ritiene indegne. E la via più spiccia per dimostrare l’indegnità altrui è - con una frequenza diventata ormai fastidiosa - gridare al silenzio. Pare che Pietro Nenni in un discorso ai giovani socialisti abbia detto: “A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura”. Oggi, 41 anni dopo la sua morte, abbiamo ripetuti esempi di gare fra puri e di puri che, inesorabilmente, prima o poi vengono epurati. Il fatto è che sempre più spesso il puro di turno prende spunto dalla cronaca per puntare il dito contro persone o categorie intere che ritiene indegne. E la via più spiccia per dimostrare l’indegnità altrui è - con una frequenza diventata ormai fastidiosa - gridare al silenzio. Sembra un ossimoro e invece è una domanda carica di polemica: perché questo o quello non si fa sentire su questo o quell’argomento? Perché non dichiara la sua solidarietà? Qualche esempio pratico: perché le femministe tacciono sul caso Saman? Oppure: perché la destra non dice nulla sui bambini morti nella traversata? Da una parte e dall’altra - e pure al Centro - pare sia diventata irresistibile la tentazione di usare espressioni come “silenzio assordante”, che stavolta sì, è un ossimoro, ma è anche una critica. Del puro, ovviamente. Che però immediatamente dopo ha da ridire (a volte con insulti) su qualunque parola proferisca la persona o la categoria fino a quel punto “silente”. Ma la ruota, si sa, gira per tutti; e così è facile che, al successivo fattaccio di cronaca che evoca questioni sociali irrisolte, si capovolga la situazione e che siano i silenti a domandare agli inquirenti dell’ultima volta: perché non dici niente su questa storia? Il risultato di questa impostazione è concentrarsi sulla polemica figlia del “tu hai taciuto” e perdere di vista la sostanza delle cose. Cioè quel che si può fare affinché i casi drammatici della cronaca indichino la strada per arrivare a soluzioni che evitino di ripeterli. Si rende più giustizia a Saman, per dire, se si lavora sull’integrazione delle famiglie come la sua o sulla protezione fisica di tutte le future Saman anziché litigare su quello che le femministe avrebbero potuto o dovuto dire. Che poi, diciamocela tutta: la categoria “femministe” ormai da tempo nelle discussioni pubbliche e nei talk show è evocata quasi esclusivamente per il suo presunto “silenzio assordante”, appunto. Spesso contestato da chi non ne ha mai ascoltato una sola parola e nega quel che il femminismo ha fatto e fa di buono in questo Paese. Internet, i dati e mia madre di Concita De Gregorio La Repubblica, 14 giugno 2021 La serie tv che sto seguendo in questi giorni è interrotta molte volte dalla stessa pubblicità. Si vede un uomo che cammina per strada inseguito da un nugolo di persone, ai suoi lati e dietro di lui, che gli parlano facendogli delle offerte allettanti e in apparenza vantaggiose. Lo stesso uomo arriva a casa, le persone gli si accomodano tutt’attorno. Lui sceglie, sul suo telefono, di attivare un’opzione che li fa scomparire uno alla volta, come se esplodessero in una nuvola di vapore, finché non resta solo, finalmente. Ero con mia madre, davanti alla tv: attivissima nell’uso di computer, telefoni e altri “device”, come dicono i nipoti quando parla con loro in videochiamata. Mi ha domandato, all’ennesimo passaggio dello spot: non ho capito, cosa pubblicizza? È di ieri la notizia della vendita di un archivio che contiene le informazioni sanitarie di più di sette milioni di italiani. Informazioni ottenute durante la campagna vaccinale. Lo spot che interrompe la serie tv parla di questo. Un apparecchio che contiene un filtro in grado di evitare - dice, la pubblicità, poi non so - che i nostri dati personali passino di mano in mano. Ho provato a spiegarlo a mia madre. “È una cosa che evita che i tuoi dati siano venduti a qualcuno che poi li usa per farti offerte commerciali, come quando quel tipo ti ha chiamata per offrirti un condizionatore nuovo proprio dopo che tu avevi cercato su internet, ti ricordi?”. E come fanno, mi ha chiesto. Ho provato a essere chiara. Lei ha detto: Se le cose stanno come dici non c’è rimedio. Anche questa cosa qui del filtro, è inutile. L’unica soluzione sarebbe non usare più Internet, ha concluso. Siamo rimaste un po’ in silenzio, è ripartita la serie. Il G7 promette un’azione sul clima e un miliardo di dosi ai paesi poveri di Giulia Merlo Il Domani, 14 giugno 2021 Sui rapporti con la Cina, vince la linea della mediazione voluta anche dall’Italia. Draghi: “Cooperare con franchezza su violazioni diritti umani”. Un miliardo di dosi di vaccini anti-Covid per i paesi più poveri, l’impegno per il clima con 100 miliardi di dollari all’anno per aiutare il mondo in via di sviluppo a tagliare le emissioni e la promessa dei Paesi del G7 a raggiungere emissioni nette zero entro il 2050. Il primo summit in presenza dei Sette grandi degli ultimi due anni, in Cornovaglia, si è concluso con questi impegni, oltre che con una presa di posizione unitaria sulla Cina che include l’invito a rispettare diritti umani in Xinjiang, dove Pechino è accusata di gravi violazioni contro gli uiguri, e nella città semi-autonoma di Hong Kong. E con la richiesta alla Russia di fermare il “comportamento destabilizzante e attività maligne, inclusa l’interferenza in sistemi democratici di altri paesi”. Con la Cina bisogna collaborare ma “bisogna essere franchi sulle cose che non condividiamo”. Al termine dei lavori del G7 in cui vince la mediazione sui rapporti con il colosso asiatico, il premier Mario Draghi sintetizza in una linea di chiara diplomazia la posizione dell’Italia nei confronti della Cina, usando la stessa formula già adottata per definire i rapporti con la Turchia. “Si è scritto tanto della nostra posizione, si è parlato di divisioni - dice alludendo alle notizie trapelate dallo staff statunitense il giorno precedente - io credo che il comunicato riflette la posizione nostra ma quella di tutti in particolare rispetto alla Cina in generale nei confronti di tutte le autocrazie, che usano la disinformazione, i social media, fermano gli aerei in volo, rapiscono, uccidono, non rispettano i diritti umani, usano il lavoro forzato”. Una posizione che “non è particolarmente dura”, assicura sottolineando la vittoria della mediazione - su cui si erano schierati Italia, Germania e Ue - che ha depotenziato il pressing statunitense che chiedeva invece la linea dura nei confronti di Pechino. Per Draghi “bisogna cooperare, e bisogna competere. Nessuno disputa che la Cina debba essere una grande economia, quello che è stato messo in discussione sono i modi che utilizza, è una autocrazia che non aderisce alle regole multilaterali, non condivide la stessa visione del mondo che hanno le democrazie”. E dunque bisogna essere franchi “sulle cose che non condividiamo, l’ha detto bene Biden in una frase, il silenzio è complicità”. Con il presidente Usa ieri si è tenuto un colloquio, il primo dell’era Draghi-Biden, “un ritrovarsi perché ci conosciamo già, è andato molto, molto bene, c’è stata ampia disponibilità a lavorare insieme, c’è un rapporto antico che andava semplicemente richiamato, non consolidato”. Sul tavolo i tanti dossier di politica estera di attualità, “abbiamo parlato di varie parti del mondo in cui la collaborazione con gli Stati Uniti può essere di aiuto, direi soprattutto per il ruolo che hanno gli Stati Uniti nelle Nazioni unite”. Come il Nordafrica, e la Libia in particolare, dove l’Italia è molto attiva e ha diversi progetti ma “la prima esigenza è attuare il cessate il fuoco e quindi i mercenari siriani, i soldati russi e turchi vadano via dalla Libia, questa è la strada con cui la Libia può iniziare la ricostruzione del Paese data molto importante delle elezioni a dicembre può essere una linea di demarcazione dallo stato di caos”. Una “riunione straordinaria, collaborativa e produttiva”, l’ha definita Joe Biden, che era al suo debutto internazionale da presidente in un viaggio europeo che lo porterà anche al summit Nato e infine al faccia a faccia con Vladimir Putin a Ginevra. E Boris Johnson, che ha fatto gli onori di casa a Carbis Bay, ha parlato addirittura di “fantastica armonia” tra i leader, glissando sullo scontro fra Londra e l’Ue che si è consumato a margine del vertice per la Brexit, in particolare per la cosiddetta “guerra delle salsicce” che ha come protagonista l’Irlanda del Nord. Londra, per bocca del ministro degli Esteri Dominic Raab, si è detta offesa dalle parole di Emmanuel Macron: pare che nel bilaterale di Johnson e Macron, il primo abbia chiesto al secondo come si sentirebbe se le salsicce di Tolosa non potessero arrivare a Parigi e che l’inquilino dell’Eliseo abbia risposto che il paragone non regge perché Parigi e Tolosa fanno parte dello stesso Paese. Johnson in conferenza stampa si è rifiutato di tornare sul tema, ma ha assicurato che “faremo “whatever it takes” per proteggere l’integrità territoriale del Regno Unito”. I leader si sono mostrati sempre sorridenti, desiderosi di mostrare il ritorno della cooperazione internazionale dopo gli sconvolgimenti causati dall’imprevedibilità di Donald Trump prima e dal coronavirus poi. E di mostrarsi più amici dei paesi poveri di quanto non lo sia la Cina (offrendo un piano di investimenti in infrastrutture alternativo alla Nuova via della seta). Ma diversi attivisti si dicono delusi per la portata degli impegni assunti. Innanzitutto a proposito del clima: per molti ambientalisti la promessa di emissioni nette zero entro il 2050 è troppo poco e troppo tardi; e la promessa di 100 miliardi all’anno per aiutare i Paesi più poveri a tagliare le emissioni sarebbe troppo ristretta visto che già nel 2009 i Paesi sviluppati avevano assunto lo stesso impegno. Il rischio, secondo gli attivisti, è che i Paesi in via di sviluppo possano non collaborare alla Cop26 in programma a novembre a Glasgow se l’aiuto offerto non è considerevole. Sui vaccini, il G7 ha promesso di donare un miliardo di dosi entro il prossimo anno ai Paesi in difficoltà, garantendo che sarà solo un primo passo. Ma l’Oms ha spiegato che sono 11 miliardi le dosi necessarie per vaccinare almeno il 70 per cento della popolazione mondiale e per porre davvero fine alla pandemia. Biden, che è responsabile di circa la metà della donazione, cioè circa 500 milioni di dosi, ha annunciato però che contribuire con un miliardo aggiuntivo. Caso Zennaro, una gabbia a 50 gradi in Sudan. La protesta di Venezia di Elisabetta Rosaspina Corriere della Sera, 14 giugno 2021 La staffetta solidale sul Canal Grande per l’imprenditore italiano detenuto a Khartoum. L’ultima “sistemazione” di Marco Zennaro, l’imprenditore italiano detenuto in attesa di giudizio a Khartoum, in Sudan, assomiglia a una gabbia: un quadrato di cemento con una grata al posto del soffitto e il sole che batte quasi tutto il giorno sulle teste degli occupanti. “Sta bollendo là dentro con una ventina di altri prigionieri”, informa da Venezia il fratello Alvise. La temperatura esterna sfiora nelle ore più calde i 50 gradi, “e di notte penso che la minima non scenda sotto i 40” aggiunge, angosciato. L’unico sollievo della famiglia è la possibilità di comunicare con lui via telefonino. La vicenda giudiziaria dell’amministratore delegato dell’azienda di materiale elettrico fondata dal nonno si è complicata con il passare delle settimane; e la detenzione preventiva, tra rinvii di udienze e nuove istruttorie, si allunga come la coda dei presunti danneggiati. A marzo il distributore locale della ditta veneta aveva contestato una partita di trasformatori elettrici da un milione e 200 mila euro circa che Zennaro, 46 anni, aveva inviato in Sudan dopo essersi aggiudicato, tramite la Gallabi & Figli, un bando di concorso nel 2020. Zennaro è partito per Khartoum con l’idea di poter risolvere il contenzioso, ma si è ritrovato agli arresti domiciliari in albergo la sera stessa del suo arrivo. Il primo aprile la questione sembrava risolta tramite un rimborso (un po’ coatto) di 400 mila euro e Zennaro si apprestava a decollare per l’Italia, quando sono arrivate altre denunce per truffa ed è scattato il nuovo arresto. Non più dentro una stanza d’hotel, ma nelle affollate camere di sicurezza di un paio di commissariati (senza neppure una branda a disposizione) e, per qualche giorno, in prigione. A pretendere, complessivamente, quasi un altro milione e mezzo di euro sono società elettriche locali, clienti in qualche caso della famiglia Gallabi, uno dei cui componenti, Ayman, è stato ritrovato annegato nel Nilo il 22 maggio. Capofila dei querelanti è la Società elettrica sudanese, presieduta da un parente stretto del numero 2 del Consiglio nazionale di transizione, il generale Mohamed Dagalo, alla guida del Paese dopo il colpo di stato del 2019. Quando un paio di settimane fa il direttore generale per gli italiani all’estero, Luigi Vignali, è stato inviato dalla Farnesina a parlamentare a Khartoum, le autorità sudanesi gli hanno opposto altre denunce, relative ad altri contratti che, indipendentemente dalla posizione della Società elettrica sudanese, impedirebbero il rilascio di Zennaro. La Farnesina protesta e insiste, attraverso l’ambasciatore Gianluigi Vassallo, perché gli siano concessi gli arresti domiciliari o almeno un trattamento più rispettoso dei diritti umani, in attesa dei dovuti chiarimenti giudiziari. Il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, ha chiesto l’intervento del nunzio apostolico in Sudan ed Eritrea, Luis Miguel Munoz Cardaba; e il sindaco, Luigi Brugnaro, quello di Mario Draghi. Tra mezzogiorno di sabato e ieri, sulle acque del Canal Grande, le società remiere hanno organizzato una nuova manifestazione: 24 vogatori si sono alternati per 24 ore in una staffetta di solidarietà. Perché Marco, stipato in una cella torrida dove si parla solo arabo, si senta meno solo. Nei vari trasferimenti ha perso infatti l’unico compagno, un professore iracheno, con cui poteva intendersi in inglese. In Lituania con gli ex deportati che chiedono giustizia: “Un genocidio 80 anni fa” di Rosalba Castelletti La Repubblica, 14 giugno 2021 La storia e i ricordi di Irena Saulute Valaityte-Spakauskiene e di Jonas Markauskas: “Continuavamo a inciampare nei cadaveri dei nostri cari, ma non avevamo la forza di seppellirli nel permafrost”. Mentre l’ex presidente Dalia Grybauskaite accusa: “Ai nostri confini abbiamo dittatori”. “Vennero a prenderci di notte. Tutta la nostra famiglia si era riunita per festeggiare l’ultimo giorno di scuola. Fu l’ultimo incontro. Il 14 giugno i soldati sovietici invasero la nostra fattoria e ci portarono in stazione per caricarci su un carro bestiame. Come animali destinati al macello”. Irena Saulute Valaityte-Spakauskiene accarezza i dolorosi ricordi con le dita nodose deformate dall’artrite. Quella notte di ottant’anni fa, appena una settimana prima dell’invasione nazista, fu perpetrato il primo pogrom, il prologo di una serie di deportazioni, esecuzioni e immigrazioni forzate che, fino alla morte di Stalin, avrebbero portato la Lituania a perdere un milione di abitanti, un terzo della popolazione. Un destino comune anche agli altri Paesi baltici che oggi commemorano la loro “giornata della memoria”. Una pagina di Storia venuta alla luce solo dopo la caduta della cortina di ferro, una cortina di oppressione e silenzio. E tuttora largamente ignorata, benché i Baltici facciano parte della Ue e della Nato. “Ma che è importante ricordare - ci dice la “lady di ferro lituana”, l’ex presidente Dalia Grybauskaite - perché oggi ai nostri confini abbiamo dittatori che ancora una volta prendono di mira, torturano e uccidono i loro cittadini solo perché la pensano diversamente”. Irena è nata a Kaunas nel 1928 quando la seconda città del Paese era la capitale provvisoria della Lituania indipendente prima che venisse schiacciata da due totalitarismi contrapposti: annessa nel ‘40 dall’Urss in seguito al cinico patto con cui Hitler e Stalin si erano divisi l’Europa centrale, poi invasa dalla Germania nazista nel ‘41 per ritornare sotto l’occupazione sovietica nel ‘44. “La cosiddetta “deportazione di giugno” del ‘41 durò quattro giorni. Era stata pianificata da mesi con lo scopo di purgare lo spazio baltico dei membri dell’élite culturale ed economica. Annientandoli, non solo giustiziandoli con un colpo di pistola. L’Nkvd, l’antenato del Kgb, aveva stilato le liste degli elementi “anti-sovietici”: politici, militari, professori, religiosi, ma anche agricoltori, operai e artigiani. Deportarono intere famiglie. Gli uomini, circa 4mila, vennero separati e portati nei campi di concentramento nel territorio di Krasnojarsk, mentre 13.500 donne, bambini e anziani furono portati in Kazakhstan, Altaj, Komi e infine nell’Artico. Fu uno shock. Non c’erano state avvisaglie. La gente non sapeva che cosa l’aspettasse”, spiega Kristina Burinskaite, storica del Centro di ricerca sul genocidio e la resistenza di Vilnius ospitato nell’ex sede del Kgb. Irena ricorda bene lo spaesamento del viaggio di un mese sulle rotaie fino all’Altaj, Siberia occidentale. Circa il 40 per cento dei deportati del 1941 erano bambini sotto i 16 anni come lei, ci ha spiegato Ramuné Driauciunaité guidandoci tra le sale del Museo delle Occupazioni e delle battaglie per la libertà. Nei carri bestiame non c’era cibo eccetto un po’ d’acqua e una brodaglia imbevibile. Non c’era aria per respirare, solo feritoie chiuse da sbarre e un buco come bagno. “Entra qui e prova a immaginare”, dice Irena conducendoci dentro un vagone arenato tra le betulle del Museo etnografico all’aria aperta di Rumsiskes, a circa 25 chilometri da Kaunas che, a 92 anni, Irena percorre ogni giorno in bus e a piedi per guidare gli avventori tra le mostre e la sua memoria. Oltre la metà di loro, racconta irrequieta, saltellando da un angolo all’altro, morì subito. I corpi di chi non ce la faceva venivano gettati lungo i binari. Prima soccombettero le donne incinte e i bambini. Poi i vecchi. Non ci fu quasi il tempo di abituarsi alle fatiche del lavoro forzato e al duro clima nell’Altaj, alla fame e allo scorbuto, che un anno dopo i pochi sopravvissuti furono nuovamente ammassati su carri bestiame. Stavolta la destinazione era Trofimovsk, una delle tante isole di permafrost sferzate dai venti ed erose dalle tempeste sparse nel delta del fiume Lena che si getta nel Mar di Laptev, Oceano artico, estremo Nord siberiano, uno dei luoghi più terrificanti dell’Arcipelago Gulag. Per molti anni l’unica terra conosciuta per Jonas Markauskas, il “primo figlio di Trofimovsk”. Nacque tra i ghiacci eterni oltre il circolo polare nel 1946. Oggi è il presidente di Laptevieciai, la confraternita degli ex deportati nel mar di Laptev che, benché si assottigli di anno in anno, tiene viva la memoria di quello che definiscono un “genocidio”. “L’Olocausto degli ebrei è stato forse più doloroso del massacro di interi popoli soggiogati dai sovietici? Se tagliassero il mio dito e il tuo dito, uno di noi due soffrirebbe di più? I crimini contro l’umanità non hanno nazionalità”. “Nel Mar di Laptev dovevamo trascinare tronchi pesanti affondando nella neve o pescare con le reti nelle acque gelate. In cambio ottenevamo pochi grammi di pane che dovevamo razionare. E dopo 12 ore di lavoro dovevamo costruire le nostre case con i detriti e i rami che trovavamo sulla spiaggia. Il pavimento era il permafrost, le finestre blocchi di ghiaccio. Avevamo letti a castello di 35 centimetri ciascuno. Ci sono volute due settimane per costruire una yurta come questa”, spiega Irena, rannicchiata sull’asse di una replica ricreata a Rumsiskes, intrecciando alla rinfusa i fili di una storia che ha ispirato il bestseller Avevano spento anche la luna di Ruta Sepetys. “Ma il libro non racconta l’orrore di uscire a cercare qualcosa da bruciare o mangiare o a raccogliere il ghiaccio da trasformare in acqua da bere senza sapere se saresti tornato o saresti morto assiderato. O di vedere tua madre morire di fame, senza che ci fosse nulla che potessi fare. Continuavamo a inciampare nei nostri morti, ma non avevamo la forza di scavare tombe nella terra ghiacciata per seppellirli. E noi eravamo sepolti vivi, ma sognavamo di tornare nella nostra patria e questo sogno ci ha tenuto in vita. Io riuscii a fuggire dopo qualche anno. Altri dovettero attendere la morte di Stalin”. Ma il rimpatrio fu un altro capitolo doloroso. “Non avevamo documenti, né diritti. Ho dovuto nascondermi per otto anni. Senza vestiti, senza scarpe, senza cibo, senza denaro. Col timore di essere catturata a ogni passo dal Kgb. Non sapevo dove andare perché le nostre case erano occupate e i nostri cari non c’erano più”. È solo con la perestrojka e l’indipendenza che gli ex deportati sono venuti allo scoperto. “Ora posso finalmente parlare”, esulta Irena. “Non lo faccio per costruire un monumento a noi stessi. Racconto la mia storia anche se è come grattare una ferita, per tenere accesa la memoria di chi non ce l’ha fatta, di chi non è potuto diventare grande, innamorarsi, crescere figli. Rivedo ancora le loro facce, anche se non ricordo più i nomi. I corpi gettati fuori dai vagoni. La mia brigata del primo inverno. Il primo bambino che morì di freddo nell’Artico”. Oggi gli ex deportati ricevono una pensione. E le loro sofferenze vengono commemorate ogni anno. Ma la giustizia negata brucia. “Per noi non c’è stata una Norimberga”, insiste Jonas. “Nessuno è stato chiamato a rendere conto di quello che è stato fatto. Nessuno ha mai chiesto perdono”. La tecnologia europea per i militari del Myanmar di Riccardo Coluccini e Lighthouse Reports Il Domani, 14 giugno 2021 Nonostante l’embargo, nei documenti finanziari dell’amministrazione birmana sono riportate molte aziende occidentali. Fra queste c’è anche la SecurCube che è italiana e produce un potente sistema di monitoraggio per le frequenze radio. Prodotti ideati per le indagini forensi possono diventare un formidabile strumento di repressione dei diritti umani. Nel 2011 l’esercito birmano, il Tatmadaw, ha iniziato la transizione democratica cedendo parzialmente il potere al governo civile. Da quel momento il Myanmar ha visto una crescita costante dell’accesso a internet nel paese. Insieme alla possibilità di connettersi e comunicare online con il mondo intero, la tecnologia ha però offerto anche un modo all’esercito per mettere in atto nuove forme di repressione. Secondo un recente report di Facebook, il Myanmar si trova al terzo posto fra gli stati che controllano l’utilizzo del social network, anche con account gestiti dall’esercito o dalla polizia. Il governo birmano però non si è fermato a Facebook: negli stessi anni, la fame di sorveglianza del governo è cresciuta ancora più velocemente, come mostrano centinaia di pagine di documenti sui budget governativi, condivisi da Justice for Myanmar con il consorzio giornalistico Lighthouse Reports (Lhr) e analizzati in un’inchiesta congiunta con IrpiMedia, The intercept, Occrp e Al Jazeera. Questi documenti mostrano chiaramente come il Tatmadaw voglia trasformare il Myanmar in uno stato di sorveglianza. L’occidente - inclusa l’Europa - giocano un ruolo di rilievo nell’offrire queste tecnologie, malgrado un embargo inasprito nel 2018 che dovrebbe riguardare anche gli strumenti digitali, oltre alle armi tradizionali. Le aziende europee e statunitensi si trovano così a fare concorrenza a Cina e Russia, entrambe già nella sfera di influenza tecnologica del paese. La diffusione di internet tra la popolazione birmana è passata da circa l’1 per cento nel 2011 al 43 per cento nel 2021. Dal primo febbraio, il paese è tornato però sotto lo stretto controllo della giunta militare che ha ordinato blocchi nella connessione internet e arresti nei confronti di chi critica sui social il regime militare e supporta i manifestanti. Secondo i documenti, il ministero degli Interni (Moha) e quello dei Trasporti e delle comunicazioni (Motc) hanno stanziato decine di milioni di dollari per l’acquisto di una vasta gamma di strumenti che potrebbero essere utilizzati sia per combattere la criminalità informatica sia per sorvegliare le comunicazioni. Più di 40 aziende occidentali sono presenti nelle pagine dei bilanci che si riferiscono a un periodo che va dal 2018 al 2021, tra queste c’è anche un’azienda italiana. Seppure non sia possibile verificare la vendita effettiva di tutti questi prodotti da parte delle aziende o di loro rivenditori, i documenti dimostrano un piano preciso per ammodernare l’arsenale di tecnologie a disposizione del governo e delle autorità. Per alcune di queste tecnologie sono stati effettivamente indetti bandi di gara e c’è stata l’aggiudicazione ad alcuni rivenditori locali. Alcune aziende hanno confermato le vendite, mentre le inchieste di altre testate giornalistiche hanno dimostrato che alcune delle tecnologie sembrerebbero essere già in uso. La tecnologia ha da sempre giocato un ruolo fondamentale nella repressione in Myanmar. Durante il periodo in cui il premio Nobel Aung San Suu Kiy era al governo, le autorità hanno sottoposto la popolazione Rohingya che vive nello stato del Rakhine a un blackout di internet iniziato a giugno 2019 e durato per più di un anno, colpendo circa un milione e mezzo di persone che si trovano in una zona di guerra. Inoltre, la polizia birmana ha già dimostrato di poter abusare di tecnologie forensi simili a quelle presenti nel budget, in particolare contro i giornalisti. Nel 2017 due giornalisti di Reuters sono stati arrestati mentre stavano lavorando sulle violenze ai danni della popolazione Rohingya. La polizia ha usato strumenti per estrarre dati dai cellulari dei giornalisti e analizzare documenti e dettagli del loro lavoro, secondo quanto ricostruito dal Washington Post. Nel budget dei due ministeri, a fianco di prodotti tecnologici per implementare la sorveglianza delle telecomunicazioni - ma non riconducibili a specifiche aziende -, ci sono prodotti per l’informatica forense molto noti fra gli addetti ai lavori. Come il software MacQuisition di BlackBag Technologies, utilizzato per l’estrazione e analisi di dati dai computer Apple, e strumenti dell’azienda Cellebrite, una delle più famose produttrici di tecnologie per l’estrazione di dati dagli smartphone. Cellebrite ha sede in Israele, ha acquistato BlackBag nel 2020, e i suoi prodotti sono stati usati in passato da regimi autoritari anche contro attivisti politici, come in Bahrain. Gli stessi prodotti di Cellebrite sono stati usati contro i due giornalisti di Reuters. Secondo quanto riportato dal New York Times, Cellebrite avrebbe interrotto la vendita al Myanmar nel 2018 e applicato la stessa decisione per BlackBag dopo l’acquisto dell’azienda. Sempre per quanto riguarda l’estrazione di dati, troviamo Magnet Axiom e Magnet Axiom Cloud, prodotti da Magnet Forensics che ha sedi in Canada e negli Stati Uniti, e Cognitech, che offre strumenti per elaborare e analizzare video ripresi dalle telecamere a circuito chiuso o da telefoni e dispositivi portatili. L’Italia è presente con SecurCube e il suo prodotto Bts Tracker che offre un sistema di monitoraggio delle frequenze radio, capace di individuare la posizione e l’area coperta dalle celle telefoniche. È uno strumento utile nelle indagini di polizia ma che in realtà potrebbe essere usato anche per individuare la posizione di persone che usano sistemi per potenziare il segnale cellulare, ad esempio nelle cantine o nelle stanze dove arriva poco segnale. Nel budget sono inclusi diversi strumenti prodotti dall’azienda svedese Micro Systemation Ab (Msab). Il software Xry permette di bypassare le password di protezione degli smartphone, estrarre e analizzare i contatti, le foto, i documenti, le chat e ogni altra informazione presente sul dispositivo. Il software Xry Cloud permette di copiare dati salvati in remoto su cloud come Dropbox o Google Drive, ma anche di scaricare tutte le chat di Facebook e altri social network, senza che sia necessario essere in possesso dello smartphone dell’indagato. “Il problema centrale è che, a seconda di come questa funzione viene implementata, questa tecnologia potrebbe consentire alle forze dell’ordine di intercettare gli account online delle persone dopo che il loro telefono è stato restituito, a loro insaputa” ha spiegato John Scott-Railton, ricercatore del Citizen Lab, un gruppo di ricerca che analizza e monitora le tecnologie di sorveglianza. Uno dei rischi, secondo Scott-Railton, è che questo tipo di tecnologia “finisca per essere usata a fianco della tortura e di altre gravi violazioni dei diritti umani”, anche se non ci sono prove che tutte le tecnologie incluse nei documenti del budget siano al momento utilizzate in Myanmar. Un altro caso simile è quello dell’azienda statunitense Oxygen forensics che ha la capacità di acquisire dati da migliaia di dispositivi diversi, inclusi quelli protetti da password. Rispondendo alle nostre domande, l’azienda ha confermato la vendita di una licenza, con fatture registrate nel 2019 e nel 2020. Il direttore generale dell’azienda, Lee Reiber, ha ribadito che l’azienda ha rigide misure di controllo per valutare gli acquirenti, misure che l’azienda richiede che siano adottate anche dai propri partner sparsi in tutto il mondo. In questo e in altri casi sarebbe coinvolta sempre l’azienda birmana MySpace International, la stessa che aveva importato il software di Cellebrite nel caso dei giornalisti di Reuters. L’azienda si sarebbe aggiudicata bandi per dispositivi di cybersicurezza, come sistemi di prevenzione di attacchi informatici contro i siti web e di scansione della rete, ma anche per tecnologie forensi. Un bando di gara che risale all’ottobre 2020 riguarda tecnologie di BlackBag e Msab ed è stato pubblicato sul sito del Bureau of Special Investigation, i servizi di intelligence nazionali del Myanmar. I prodotti indicati corrispondono a quelli presenti nei documenti di budget del Moha per gli anni 2020-2021. Il documento dell’aggiudicazione è stato caricato online a gennaio 2021. MySpace International ricopre un ruolo importante nel collegare le aziende occidentali al Myanmar, come dimostrano pagine web archiviate del loro sito ora non più raggiungibile. Nella pagina dei fornitori, MySpace International annovera infatti Msab, Cellebrite, e BlackBag. Nel caso di Msab, Mike Dickinson, responsabile dello sviluppo aziendale, ha dichiarato che dopo il golpe l’azienda “ha interrotto tutte le vendite al Myanmar”. Un portavoce di Cellebrite ha dichiarato: “dal momento che Cellebrite non vendiamo a paesi sanzionati dai governi di Stati Uniti, Unione Europea, Regno Unito o Israele”. E ha aggiunto inoltre che “nel periodo in cui Cellebrite ha venduto al Myanmar, prima del 2018, non era affiliata a MySpace International. Lo stesso vale per BlackBag”. La maggior parte di queste tecnologie può essere usata per aiutare la polizia durante le indagini ma, allo stesso tempo, può diventare un’arma fondamentale anche per reprimere il dissenso. Alcune persone che sono state catturate dalla giunta militare confermano che spesso insieme agli smartphone vengono richieste anche le password dei dispositivi. In alcuni casi le persone fermate hanno dovuto sbloccare i propri smartphone e lasciarli controllare. “Ci hanno chiesto di aprire i telefoni, di inserire le nostre password e di andare sul messenger di Facebook. Se erano presenti chat di gruppo, ci hanno chiesto in dettaglio se conoscessimo le persone lì presenti”, ha raccontato una persona fermata in Myanmar che ha richiesto di rimanere anonima per paura di ritorsioni. A volte gli smartphone sono stati requisiti e restituiti solo in un secondo momento, dopo forti pressioni alla polizia. In un caso, secondo quanto riportato dai giornali locali, una persona sarebbe stata arrestata per il materiale rinvenuto sul suo smartphone dopo che era stato confiscato dalla polizia. Il timore di essere in uno stato di sorveglianza perenne induce anche la paranoia nella popolazione. In alcuni casi, quelli che sembrano arresti inspiegabili potrebbero essere in realtà collegati a informazioni presenti sulle dirette Facebook con le quali gli attivisti diffondono e monitorano l’evolversi delle proteste: piccoli dettagli presenti nell’inquadratura possono effettivamente permettere di identificare l’area in cui ci si trova. “Non uso più la stessa carta sim e ho anche ripristinato il telefono allo stato di fabbrica - racconta un’altra persona fermata durante le proteste. Ora uso solo il computer per andare online, con quello stesso telefono uso solo il WiFi”. La storia recente del Myanmar è costellata di abusi e violenze ma, malgrado l’embargo in vigore aggiornato dall’Unione europea nel 2018, e nonostante la persecuzione dei giornalisti nel 2017 e un genocidio tuttora in corso, le aziende occidentali sembrano disposte a ricoprire il ruolo di attore principale nell’espansione della sorveglianza birmana. Un’espansione che in parte potrebbe beneficiare anche dei fondi pubblici dell’Unione Europea, utilizzati per sviluppare alcuni degli strumenti che potrebbero essere finiti nelle mani del regime militare. Tra le aziende presenti nel budget che hanno ricevuto fondi europei troviamo la bielorussa Adani e la tedesca Qiagen. Entrambe presenti nel budget del Moha per gli anni 2019-2020. Qiagen ha confermato a The Intercept la vendita di due prodotti nel 2019 che sono utilizzati nelle attività forensi per la frantumazione di campioni, come ossa e denti per l’analisi del Dna. Queste tecnologie non sono soggette a restrizioni, secondo verifiche effettuate dall’autorità tedesca. L’azienda ha ricevuto circa 500mila euro tra il 2013 e 2015 nel progetto europeo Misafe, finanziato con i fondi europei del Fp7 Security. Adani invece offre scanner a raggi X e sistemi intelligenti per monitorare oggetti sospetti nascosti sul corpo delle persone. Nel budget sono inclusi anche software per il rilevamento di armi, sostanze stupefacenti ed esplosivi. Adani ha ricevuto circa 450mila euro di fondi europei tra il 2016 e il 2019 come membro nel progetto Mesmerise. La svedese Msab fa parte del consorzio che si è aggiudicato quasi 7 milioni di euro per il progetto Formobile, iniziato a maggio 2019. Lo scopo è di creare nuovi strumenti per l’acquisizione di dati precedentemente non disponibili, sbloccare gli smartphone, e produrre un nuovo standard di mobile forensics in collaborazione con le forze dell’ordine. I fondi europei hanno l’obiettivo di potenziare le capacità di estrazione dei dati soprattutto da telefoni contraffatti prodotti in Asia, poiché questi dispositivi presentano una sfida per la polizia europea abituata a lavorare con telefoni standard iOS e Android. Come spiegato a The Intercept da Christian Hummert, un ricercatore forense e coordinatore del progetto Formobile, la maggior parte dei risultati del progetto finirà direttamente nei prodotti di Msab. Inoltre, la ricerca del progetto punta ad aggiungere nuove capacità al sistema di estrazione per i dati dal cloud. La giunta militare continua a essere un’ombra presente in ogni diramazione del governo e l’esercito, come ha sottolineato l’Onu, si è macchiato di “uccisioni, stupri e stupri di gruppo, torture, spostamenti forzati e altre gravi violazioni dei diritti” nei confronti della popolazione Rohingya. È difficile comprendere quindi come alcune aziende abbiano potuto far finta di nulla di fronte a questi gravi segnali, negando la responsabilità che deriva dall’esportazione di tali tecnologie. In generale, “la responsabilità delle aziende è di essere trasparenti sulle capacità e sui danni potenziali, incluse le misure che adottano per prevenire e ridurre questi danni” ha spiegato Natalia Krapiva, consulente legale dell’associazione Access Now. L’Unione Europea ha ampliato l’embargo nei confronti del Myanmar nel 2018, aggiungendo a fianco dei beni a duplice uso anche quelle tecnologie e strumenti che possono facilitare il monitoraggio delle comunicazioni e di internet favorendo così la repressione interna. Abbiamo contattato una portavoce della direzione generale per la stabilità finanziaria, i servizi finanziari e l’unione dei mercati dei capitali della Commissione europea. Secondo lei, gli strumenti per l’estrazione di dati dal cloud potrebbero essere considerati un’apparecchiatura che rientra nell’embargo, “soggetta a una valutazione caso per caso”. Inoltre sono sottoposti all’embargo anche strumenti per il monitoraggio delle radiofrequenze, come il prodotto dell’italiana SecurCube. La decisione finale, però, sottolineano dalla Commissione, è nelle mani delle autorità nazionali degli stati membri che si occupano di monitorare l’export di queste tecnologie. SecurCube ha dichiarato al Manifesto di non aver mai venduto direttamente all’esercito del Myanmar ma ha ammesso che alcuni suoi rivenditori sparsi per il mondo potrebbero averlo fatto. Sono dichiarazioni che sollevano ulteriori dubbi sull’effettivo controllo che queste aziende esercitano nei confronti dei propri rivenditori. Abbiamo inviato una richiesta di commento a SecurCube per capire se sia stata aperta un’indagine interna sui propri rivenditori, ma al momento della pubblicazione di questo articolo non abbiamo ricevuto risposte. Allo stesso modo, richieste di chiarimenti inviate al ministero degli Affari Esteri, l’autorità italiana che monitora l’export di queste tecnologie, non hanno trovato risposta. Il testo del regolamento europeo è parecchio chiaro sull’approccio che le autorità nazionali dovrebbero seguire: se ci sono “ragionevoli motivi per determinare che l’attrezzatura, la tecnologia o il software in questione sarebbero usati per la repressione interna dal governo di Myanmar, da enti pubblici, società o agenzie, o da qualsiasi persona o entità che agisce per loro conto o sotto la loro direzione”, le tecnologie non dovrebbero essere esportate. “Leggendo il testo dell’embargo si deduce che copre tecnologie che potrebbero essere usate per l’oppressione interna e fondamentalmente tutto ciò che va ai militari o ai paramilitari - e questo rende l’embargo estremamente ampio”, ha spiegato Pieter D. Wezeman, ricercatore dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri). Gli strumenti tecnologici permettono di penetrare nella vita digitale di attivisti e cittadini e “sfortunatamente, sappiamo da altri casi documentati (per esempio Cellebrite) che quando i regimi autoritari mettono le mani su queste tecnologie le usano per permettere ulteriori abusi dei diritti umani” ha concluso Scott-Railton.